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La condanna alle spese processuali: novità legislative e giurisprudenzial (Miriana Bosco) Altalex.it L’art. 24 Cost., in ossequio al principio di uguaglianza ed al fine di impedire che i singoli si facciano giustizia da sé, riconosce a tutti la possibilità di ricorrere al sistema giudiziario a tutela delle proprie ragioni. L’accesso alla giustizia per la difesa delle posizioni giuridiche soggettive è un diritto fondamentale di ciascun individuo, riconosciuto sia dalla Carta Costituzionale sia dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. L’art. 24 Cost. è correlato all’art. 111 Cost., il quale, al 1° comma, dispone che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. In tale contesto, è fondamentale che tutte le parti del processo collaborino per evitare di porre in essere attività meramente defatigatorie. A tal fine, la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha rilevato che il giudice deve considerare anche il comportamento delle parti all’interno del processo. Ed invero, la Corte europea dei diritti dell’uomo ritiene che la condotta delle parti in causa rappresenti un elemento oggettivo di cui tenere conto per accertare se vi sia stata o meno violazione dell’art. 6 CEDU. In tale contesto, non è di trascurabile importanza la relazione tra la disciplina normativa della responsabilità delle parti per le spese ed i danni processuali e l’abuso del processo, soprattutto in termini di convenienza. Ed invero, i comportamenti dilatori delle parti, condizionando negativamente la durata dei processi, possono essere alla base della condanna alle spese, almeno in parte, del vincitore, ovvero di una decisione di compensazione delle spese di lite tra le parti. Inoltre, è necessario tener conto del fatto che, a fronte della instaurazione di un giudizio ovvero della resistenza all’interno dello stesso con dolo, mala fede o colpa

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 La condanna alle spese processuali: novità legislative e giurisprudenzial (Miriana 

Bosco) 

Altalex.it 

L’art. 24 Cost., in ossequio al principio di uguaglianza ed al fine di impedire che i 

singoli si facciano giustizia da sé, riconosce a tutti la possibilità di ricorrere al sistema 

giudiziario a tutela delle proprie ragioni. L’accesso alla giustizia per la difesa delle 

posizioni giuridiche soggettive è un diritto fondamentale di ciascun individuo, 

riconosciuto sia dalla Carta Costituzionale sia dall’art. 6 della Convenzione europea 

per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. 

 

L’art. 24 Cost. è correlato all’art. 111 Cost., il quale, al 1° comma, dispone che “la 

giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo 

si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice 

terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. 

 

In tale contesto, è fondamentale che tutte le parti del processo collaborino per 

evitare di porre in essere attività meramente defatigatorie. A tal fine, la stessa Corte 

europea dei diritti dell’uomo ha rilevato che il giudice deve considerare anche il 

comportamento delle parti all’interno del processo. Ed invero, la Corte europea dei 

diritti dell’uomo ritiene che la condotta delle parti in causa rappresenti un elemento 

oggettivo di cui tenere conto per accertare se vi sia stata o meno violazione dell’art. 

6 CEDU. 

 

In tale contesto, non è di trascurabile importanza la relazione tra la disciplina 

normativa della responsabilità delle parti per le spese ed i danni processuali e 

l’abuso del processo, soprattutto in termini di convenienza. Ed invero, i 

comportamenti dilatori delle parti, condizionando negativamente la durata dei 

processi, possono essere alla base della condanna alle spese, almeno in parte, del 

vincitore, ovvero di una decisione di compensazione delle spese di lite tra le parti. 

Inoltre, è necessario tener conto del fatto che, a fronte della instaurazione di un 

giudizio ovvero della resistenza all’interno dello stesso con dolo, mala fede o colpa 

grave è prevista la opportunità, per la controparte, di domandare ed ottenere il 

risarcimento dei danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. 

 

La Legge 18 giugno 2009, n. 69 è intervenuta non solo correggendo gli artt. 91 e 92 

c.p.c. in tema di spese processuali, ma anche inserendo una nuova fattispecie di 

responsabilità processuale aggravata nel terzo comma. dell’art. 96 c.p.c. Tanto allo 

scopo di consapevolizzare le parti del processo, per salvaguardare, alla luce dei 

canoni di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c., il regolare svolgimento dello stesso e 

far sì che esso pervenga alla pronuncia della sentenza soltanto quando ciò sia 

effettivamente necessario per la tutela dei diritti delle parti. 

 

Ai sensi dell’art. 91 c.p.c., il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a 

lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte 

e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa [disp. att. 75, 151 2, 152]. 

 

“Il regolamento delle spese di lite è consequenziale ed accessorio rispetto alla 

definizione del giudizio, potendo, perciò, la condanna al relativo pagamento 

legittimamente essere emessa, a carico della parte soccombente ed ex art. 91 c.p.c., 

anche d'ufficio, pur se difetti una esplicita richiesta in tal senso della parte vittoriosa. 

Ne consegue che, ove il difensore di quest'ultima abbia omesso di produrre la nota 

spese, prevista dall'art. 75 disp. att. c.p.c. ai fini del controllo di congruità ed 

esattezza della richiesta e di conformità alle tariffe professionali, il giudice deve 

provvedervi d'ufficio sulla base degli atti di causa” (Cass. Civ. sentenza n° 42/2012). 

 

Le competenze e gli onorari saranno ridotti in considerazione dell'unitaria 

trattazione delle controversie riunite. 

 

E’ doveroso precisare che, nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali 

o assistenziali, la parte soccombente, salvo comunque quanto previsto dall'articolo 

96, primo comma, del codice di procedura civile, non può essere condannata al 

pagamento delle spese, competenze ed onorari quando risulti titolare, nell'anno 

precedente a quello della pronuncia, di un reddito imponibile ai fini IRPEF, risultante 

dall'ultima dichiarazione, pari o inferiore a due volte l'importo del reddito stabilito ai 

sensi degli articoli 76, commi da 1 a 3, e 77 del testo unico delle disposizioni 

legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia di cui al decreto del 

Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115. L'interessato che, con 

riferimento all'anno precedente a quello di instaurazione del giudizio, si trova nelle 

condizioni indicate nell’articolo 152 disp. att. c.p.c., deve formulare apposita 

dichiarazione sostitutiva di certificazione nelle conclusioni dell'atto introduttivo e 

impegnarsi a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni 

rilevanti dei limiti di reddito verificatesi nell'anno precedente. Si applicano i commi 2 

e 3 dell'articolo 79 e l'articolo 88 del citato testo unico di cui al decreto del 

Presidente della Repubblica n. 115 del 2002. Si badi che le spese, le competenze e gli 

onorari liquidati dal giudice nei giudizi per prestazioni previdenziali non possono 

superare il valore della prestazione dedotta in giudizio. 

 

Ora, premesso che la condanna alle spese in seguito alla soccombenza deve essere 

pronunciata anche se la parte vittoriosa non ne abbia fatto esplicita richiesta, è fatto 

obbligo al difensore di unire al fascicolo di parte la nota delle spese (indicando in 

modo specifico e distinto diritti, onorari e spese) al momento del passaggio in 

decisione della causa [v. disp. att. 75]. 

 

Nel caso in cui cessi la materia del contendere (per es. perché la parte adempie 

durante la pendenza del giudizio), si applica, ai fini della liquidazione delle spese in 

favore dell'una o dell'altra parte, il principio della c.d. soccombenza virtuale, 

secondo il quale il giudice deve valutare se la domanda sia fondata o meno, cioè se 

sarebbe stata accolta o rigettata. 

 

Nel caso di inesatta liquidazione delle spese si potrà utilizzare il rimedio della 

correzione, che viene operato, su ricorso di parte, dallo stesso giudice che ha 

pronunciato la sentenza secondo il procedimento di cui all'art. 288 c.p.c. 

 

Le spese della sentenza sono liquidate dal cancelliere con nota in margine alla 

stessa; quelle della notificazione della sentenza, del titolo esecutivo e del precetto 

sono liquidate dall'ufficiale giudiziario con nota in margine all'originale e alla copia 

notificata. I reclami contro le suddette liquidazioni sono decisi con le forme previste 

negli articoli 287 e 288 c.p.c. dal capo dell'ufficio a cui appartiene il cancelliere o 

l'ufficiale giudiziario. 

 

Il problema del fondamento della condanna alle spese giudiziali ha sempre affaticato 

la mente degli studiosi. Generalmente, si parte dalla osservazione che l’agire o il 

resistere in giudizio costituisca esplicazione di una facoltà o anche di un diritto e che, 

pertanto, non possa giuridicamente considerarsi fonte di responsabilità risarcitoria, 

neppure quando la parte risulti soccombente. Tuttavia, l’esigenza di adire il Giudice 

non deve nuocere chi ha ragione, che deve essere tenuto incolume dal carico delle 

spese giudiziali, altrimenti il suo diritto non uscirebbe illeso dal processo ma 

decurtato delle somme corrisposte per sostenere l’onere processuale. 

 

Per questo motivo, si ricorre al criterio oggettivo della soccombenza, a prescindere 

da qualsiasi nesso alla responsabilità della parte e al suo atteggiamento psicologico 

ma semplicemente come soluzione necessitata e basata sul buon senso. 

 

Tuttavia, l’opinione tradizionale della condanna alle spese del giudizio per 

soccombenza si è gradualmente smorzata con l’affermarsi nel nostro, come in altri 

sistemi processuali, delle questioni derivanti dall’elevata quantità di processi ed alla 

derivante inadeguatezza degli uffici giudiziari di assicurare una tutela giurisdizionale 

effettiva ed in tempi ragionevoli. 

 

Questo ha ridimensionato l’esclusività del principio di soccombenza in favore di altri 

criteri, ugualmente idonei a condannare le condotte abusive della parte, prima e nel 

corso del processo. 

 

L’art. 91 c.p.c. nel testo novellato fa, in ogni caso, salva l’applicazione dell’art. 92, 

comma 2, c.p.c., ovvero della norma che permette al giudice, in presenza di “gravi 

ed eccezionali ragioni”, di compensare in tutto o in parte le spese del giudizio. 

 

Tra l’altro, con la Legge 18 giugno 2009, n. 69, il legislatore è intervenuto sul 

secondo comma dell’art. 92 c.p.c., allo scopo di moderare il potere del giudice nella 

compensazione tra le parti delle spese del giudizio, prevedendo che la 

compensazione possa avvenire non più in presenza di “giusti motivi” ma soltanto in 

presenza di “altre gravi ed eccezionali ragioni”. 

 

Il secondo comma dell’art. 92 c.p.c., nella formulazione originaria, consentiva al 

giudice di compiere la compensazione delle spese nell’ipotesi di soccombenza 

reciproca in presenza di “giusti motivi”, senza, tuttavia, precisare se gli stessi 

dovessero o meno essere specificati in motivazione. 

 

Pur in assenza di indicazioni della legge sul punto, la dottrina – considerato che 

l’obbligo di motivazione della pronuncia che compensa le spese di lite poteva in ogni 

caso essere desunto da una disposizione di carattere generale, quale l’art. 111, sesto 

comma, Cost., secondo cui tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere 

motivati ‐ aveva suggerito che la compensazione delle spese per giusti motivi 

dovesse essere specificamente giustificata, per scongiurare che la discrezionalità, 

della quale gode il giudice in materia, potesse convertirsi in un inammissibile 

arbitrio. Tuttavia, la giurisprudenza non aveva condiviso tali rilievi della dottrina 

dominante: ed invero, la Corte di Cassazione aveva costantemente confermato il 

principio secondo cui il giudice non è tenuto a motivare la scelta di compensare le 

spese di lite, in virtù della discrezionalità di cui gode e della opportunità di 

approfondire le ragioni della compensazione dal complesso della motivazione della 

pronuncia. 

 

La Legge 18 giugno 2009, n. 69 è intervenuta sul testo dell’art. 92, secondo co., 

c.p.c., non per rendere obbligatorio il controllo sulla congruità della motivazione 

della compensazione delle spese di lite, ma rimpiazzando la clausola generale che 

fissava il relativo potere alla sussistenza di “giusti motivi” e riconducendolo alla 

ricorrenza di “gravi ed eccezionali ragioni”. 

 

La riforma è ispirata non solo da finalità deflattive del contenzioso per togliere alla 

parte soccombente ogni benevola speranza di compensazione delle spese in caso di 

proposizione o prosecuzione di azioni giudiziarie pretestuose o infondate, ma anche 

dallo scopo di limitare gli ambiti di discrezionalità del giudice confinando il potere di 

compensare le spese in ambiti ristretti ed eccezionali. Occorre precisare che il 

requisito della “gravità”, richiesto per la compensazione delle spese di lite in 

presenza di eccezionali ragioni, implica la presenza di una ragione effettivamente ed 

oggettivamente rilevante. 

 

La Legge 18 giugno 2009, n. 69 ha, inoltre, inciso profondamente sul sistema della 

responsabilità processuale aggravata, introducendo un terzo comma all’art. 96 

c.p.c., secondo cui “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 

91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al 

pagamento a favore della controparte, di una somma equitativamente 

determinata”. 

 

Tale previsione appare innovativa rispetto al tradizionale sistema della 

responsabilità processuale aggravata sotto diversi profili. 

 

Innanzitutto, bisogna considerare che la stessa prevede la possibilità che la 

condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata a carico del 

soccombente venga comminata anche dal giudice d’ufficio, cioè a prescindere da 

qualsiasi istanza dell’altra parte. 

 

La condanna alla pena pecuniaria di cui al terzo comma dell’art. 96 c.p.c. accosta, 

pertanto, in tale direzione l’art. 96 c.p.c. alla condanna alle spese di lite, che deve 

essere comminata dal Giudice anche d’ufficio quando chiude il processo dinanzi a 

sé. 

 

Per di più, la condanna di cui all’odierno terzo comma dell’art. 96 c.p.c. diverge dalle 

ipotesi tradizionali di responsabilità processuale aggravata, dal momento che, ai fini 

della comminatoria della stessa, non è indispensabile che la parte vittoriosa abbia 

subito un danno a causa del processo ma che dimostri, anche in via presuntiva, di 

aver subito un pregiudizio. 

 

Tra l’altro, in base a consolidata giurisprudenza “il carattere temerario della lite, che 

costituisce l’indefettibile condizione perché possa configurarsi la responsabilità 

processuale aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., va ravvisato nelle ipotesi in cui una 

parte abbia agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave, dovendosi 

riconoscere siffatti stati psicologici quando la parte abbia agito o resistito nella 

coscienza dell’infondatezza della domanda o delle tesi difensive sostenute, ovvero 

nel difetto dell’ordinaria diligenza nell’acquisizione di detta consapevolezza» (cfr. 

Cons. Stato, 25 febbraio 2003, n. 1026; sul punto, si vedano anche Cass. 21 luglio 

2000 n. 9579; id., sez. lav., 16 febbraio 1998 n. 1619; Trib. Rimini 2 aprile 1998,Trib. 

Roma 9 ottobre 1996; in dottrina, Mandrioli, Diritto process. civile, I, Torino, 2003, 

344). Per di più, “all’accoglimento della domanda di risarcimento danni da lite 

temeraria non osta l’omessa deduzione e dimostrazione dello specifico danno 

subito, che non è costituito dalla lesione della propria posizione materiale, ma dagli 

oneri di ogni genere che la parte vittoriosa abbia dovuto affrontare per essere stata 

costretta a contrastare l’ingiustificata iniziativa dell’avversario e dai disagi affrontati 

per effetto di tale iniziativa, danni la cui esistenza può essere desunta dalla comune 

esperienza” (Cass. civ. sez. III, 23 Agosto 2011, n° 17485). 

 

Alla luce di quanto innanzi, dal punto di vista sistematico, la collocazione dell’art. 96 

c.p.c., nella sua attuale formulazione, all’interno del Capo sulle spese processuali, 

idealmente in combinato disposto con le altre modifiche apportate agli artt. 91 e 92 

c.p.c., evidenzia il tentativo di utilizzare la leva dei costi prodotti dal fenomeno 

processuale per scoraggiare la propensione a litigare apud iudicem, sempre e 

comunque, ed al fine di incentivare strumenti di risoluzione alternativa delle 

controversie. 

 

Si cerca, in tal modo, di colpire l’utilizzo abusivo della giurisdizione statuale per la 

soluzione dei conflitti, ovvero garantirne, lite pendente, un sicuro approdo ad una 

rapida decisione, scevra da comportamenti dilatori, sleali e scorretti. E’ di tutta 

evidenza l’utilità per il sistema nel suo complesso, in termini di ragionevole durata 

del processo, ex art. 111, 2° comma, Cost., ove si riuscisse nell’ambizioso 

programma di ridurre sensibilmente il potenziale contenzioso, e, al contempo, far sì 

che quello in atto, limitato ad una percentuale fisiologica, non sia più contaminato, 

come spesso accade, dalla reiterazione di istanze palesemente infondate. 

 

Di recente, il Legislatore ha ribadito l’interesse per il tema dell’abuso dello 

strumento processuale. Ed invero, il Decreto del Ministero della Giustizia n. 140 del 

20 luglio 2012 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 195 del 22 agosto 2012) ha 

previsto, all’art. 4, comma VI, che “costituisce elemento di valutazione negativa, in 

sede di liquidazione giudiziale del compenso, l'adozione di condotte abusive tali da 

ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli”. L’art. 10 

(“Responsabilità processuale aggravata e pronunce in rito”) dispone che “nel caso di 

responsabilità processuale, ai sensi dell'articolo 96 del codice di procedura civile, 

ovvero, comunque, nei casi d’inammissibilità o improponibilità o improcedibilità 

della domanda, il compenso dovuto all'avvocato del soccombente è ridotto, di 

regola, del 50 per cento rispetto a quello liquidabile a norma dell'articolo 11” 

(“Determinazione del compenso per l’attività giudiziale civile, amministrativa e 

tributaria”). Quest’ultimo articolo dispone che “il giudice può sempre diminuire o 

aumentare ulteriormente il compenso in considerazione delle circostanze concrete, 

ferma l'applicazione delle regole e dei criteri generali di cui agli articoli 1 e 4”. 

 

Inoltre, la Legge 7 agosto 2012, n. 134 (di conversione in legge, con modificazioni, 

del decreto‐legge 22 giugno 2012, n. 83, recante misure urgenti per la crescita del 

Paese) ha previsto, tra le altre, misure urgenti per la giustizia civile (artt. 54, 55 e 

56). Quivi è ulteriormente specificato che “non è riconosciuto alcun indennizzo in 

favore della parte soccombente condannata a norma dell'articolo 96 del codice di 

procedura civile e in ogni altro caso di abuso dei poteri processuali che abbia 

determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento”. 

 

Le riportate disposizioni attestano l’entrata in vigore di un regime di Austerity, 

diretto a disincentivare l’abuso del diritto allo scopo di ottimizzare, anche nell’ottica 

del contenimento della spesa pubblica, l’uso della giustizia civile. Ed invero, l’abuso 

delle risorse (umane e finanziarie), alterando il sistema della giustizia, provoca 

disservizi ed inefficienze del sistema pubblico di definizione delle controversie. 

Logico corollario è l’aumento dei costi e degli oneri per l’accesso alla Giustizia. Onde 

evitare che “il ricorso alla giustizia possa diventare privilegio per pochi” (parere 

interlocutorio del Consiglio di Stato, 27 ottobre 2003, n. 4061/2003) è, pertanto, 

doveroso per gli operatori del diritto, laddove ravvisino ipotesi palesemente 

infondate in fatto e in diritto, impedire l’abuso dello strumento processuale. 

 

Tuttavia, le norme rischiano di rimanere lettera morta senza l’intermediazione del 

Giudice, interpellato a rendere effettiva la risposta di Giustizia e a concretizzare le 

nuove previsioni legislative. Ed invero, la funzionalità del sistema giustizia non 

postula soltanto norme di impatto ma esige, al contempo, la predisposizione di 

uomini valorosi, che abbiano la temerarietà di sostenere il cambiamento per una 

opposizione costante all’abuso dello strumento processuale. 

 . Articolo di Miriana Bosco)