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1 La Costituzione italiana deve cambiare? Lunedì 24 ottobre ore 20,30 Sala di via S. Antonio, 5 - Milano intervengono Luciano Violante, Presidente Emerito della Camera dei Deputati Antonio Polito, Vicedirettore del Corriere della Sera coordina Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà Giorgio Vittadini: Buonasera. Questi due incontri, proposti dal Centro Culturale di Milano, dalla Compagnia delle Opere e dalla Fondazione per la Sussidiarietà, hanno lo scopo di aiutarci a entrare nel merito del referendum evitando l’atteggiamento dei tifosi, che è adatto giusto allo stadio. Affrontare una riforma della Costituzione come se fosse un problema di schieramenti, alla fine svilisce la nostra capacità di raziocinio e l’idea di vita comune. Ciò che c’è in campo in questo referendum, come recita il volantino di Comunione e Liberazione sul tema, è, innanzitutto, “recuperare il senso del vivere insieme”. Il referendum, qualunque ne sia l’esito, sarà una sconfitta se non diventa l’occasione per recuperare il senso del vivere insieme, cioè l’idea di bene comune. Allo scorso Meeting di Rimini il Presidente Mattarella ha detto: “Il nostro Paese ha bisogno di rinnovato entusiasmo, di fraternità, di curiosità per l’altro, di voglia per il futuro, del coraggio di misurarsi con le nuove sfide che abbiamo di fronte”. La sua è una preoccupazione più che fondata. Lo si vede dal clima di scontro continuo a cui stiamo assistendo. Se continuasse a oltranza, che ne sarà della convivenza comune? Questa è una domanda che ci poniamo da anni e che ci ha fatto fare una serie di riflessioni, da quando invitammo al Meeting il Presidente Napolitano, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Aiutati da questi dibattiti, vorremmo vivere il referendum con lo stesso spirito interrogativo, cosciente, sinceramente alla ricerca del bene comune, qualunque sia il voto che verrà espresso. Questo primo incontro vuole essere propedeutico a entrare nel cuore della questione.

La Costituzione italiana deve cambiare? · La Costituzione italiana deve cambiare? Lunedì 24 ottobre ore 20,30 Sala di via S. Antonio, 5 - Milano intervengono Luciano Violante, Presidente

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La Costituzione italiana deve cambiare? Lunedì 24 ottobre ore 20,30 Sala di via S. Antonio, 5 - Milano intervengono Luciano Violante, Presidente Emerito della Camera dei Deputati Antonio Polito, Vicedirettore del Corriere della Sera coordina Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà

Giorgio Vittadini: Buonasera. Questi due incontri, proposti dal Centro Culturale di Milano, dalla

Compagnia delle Opere e dalla Fondazione per la Sussidiarietà, hanno lo scopo di aiutarci a entrare

nel merito del referendum evitando l’atteggiamento dei tifosi, che è adatto giusto allo stadio.

Affrontare una riforma della Costituzione come se fosse un problema di schieramenti, alla fine

svilisce la nostra capacità di raziocinio e l’idea di vita comune.

Ciò che c’è in campo in questo referendum, come recita il volantino di Comunione e Liberazione

sul tema, è, innanzitutto, “recuperare il senso del vivere insieme”. Il referendum, qualunque ne sia

l’esito, sarà una sconfitta se non diventa l’occasione per recuperare il senso del vivere insieme, cioè

l’idea di bene comune.

Allo scorso Meeting di Rimini il Presidente Mattarella ha detto: “Il nostro Paese ha bisogno di

rinnovato entusiasmo, di fraternità, di curiosità per l’altro, di voglia per il futuro, del coraggio di

misurarsi con le nuove sfide che abbiamo di fronte”. La sua è una preoccupazione più che fondata.

Lo si vede dal clima di scontro continuo a cui stiamo assistendo. Se continuasse a oltranza, che ne

sarà della convivenza comune?  Questa è una domanda che ci poniamo da anni e che ci ha fatto fare una serie di riflessioni, da

quando invitammo al Meeting il Presidente Napolitano, in occasione dei 150 anni dell’Unità

d’Italia.  Aiutati da questi dibattiti, vorremmo vivere il referendum con lo stesso spirito interrogativo,

cosciente, sinceramente alla ricerca del bene comune, qualunque sia il voto che verrà espresso.  Questo primo incontro vuole essere propedeutico a entrare nel cuore della questione.  

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La prima domanda che ci siamo posti e da cui nasce il titolo di questo incontro, è: “La Costituzione

italiana deve cambiare?”. Prima di discutere se questa riforma sia giusta o non giusta, ci siamo

chiesti se ce ne sia bisogno. Sappiamo che per molti la Costituzione è intoccabile. Ma è proprio

così?  Con il secondo incontro si entrerà poi nel merito: “Bene comune, riforma della rappresentanza delle

regioni e del Parlamento”. Avremo relatori che spiegheranno le ragioni del loro “Sì”, del loro “No”

e del loro “Ni”.  Oggi i due interlocutori invitati sono, secondo me, tra i più grandi esponenti di un’idea diversa di

referendum inteso come occasione per affermare il bene comune. Luciano Violante, uno dei

protagonisti della storia della Repubblica, con cui abbiamo realizzato la mostra sui 70 anni della

Repubblica al Meeting, si sta spendendo in questo periodo con la sua intelligenza e la sua

moderazione. Per introdurlo cito una frase di Giorgio Amendola all’Assemblea Costituente che lui

ama ripetere. Diceva Amendola: “Si è parlato del tentativo di dare alla nostra democrazia

condizioni di stabilità con norme legislative. È evidente che una democrazia deve riuscire ad avere

una sua stabilità se vuole governare e realizzare il suo programma; ma non è possibile ricercare

questa stabilità in accorgimenti legislativi… E c’è il fatto nuovo e positivo della formazione dei

grandi partiti democratici, che sono condizione di una disciplina democratica… Oggi la disciplina,

la stabilità è data dalla coscienza politica, affidata all’azione dei partiti politici”1.  All’epoca in cui fu scritta la Costituzione erano i partiti a garantire la stabilità. Cosa è cambiato da

allora? Quanto affermato da Amendola vale ancora oggi? Chiedo a Violante di fare il percorso che

ci ha portati fin qui.  L’altro nostro interlocutore sta sera è Antonio Polito, editorialista e vicedirettore del Corriere della

Sera. Cito un pezzo di un suo editoriale sulla campagna elettorale referendaria: “Lanciata a maggio

per concludersi in ottobre, poi rilanciata a settembre per concludersi in dicembre, sette mesi di

guerra senza quartiere, del genere mors tua vita mea, sono decisamente troppi nelle nostre

condizioni. Questo errore nasce dall’ansia del governo prima e dell’opposizione poi di trasformare

la riforma costituzionale nel regolamento di conti finale di una fase politica: tra chi promette un

nuovo mondo e chi annuncia la fine del mondo, secondo la felice metafora di un parlamentare. Uso

improprio della Costituzione. Ogni richiamo a tenere i nervi saldi, a informarsi e a decidere

serenamente (come quelli già venuti da Mattarella) va dunque accolto e sostenuto con forza”. A

Polito chiederò di approfondire questa sua analisi.    

                                                                                                                         1  Assemblea Costituente, Seconda sottocommissione, 5 settembre 1946, p. 125  

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Luciano Violante: Buonasera. La democrazia è in difficoltà in molti Paesi. Il New York Times ha

organizzato, tre settimane fa, un convegno di quattro giorni ad Atene, proprio sui problemi della

crisi della democrazia. Tra i libri che vengono scritti e pubblicati in questo periodo sul tema, la

maggior parte si occupa proprio dei diversi aspetti di crisi della democrazia.  C’è un calo degli iscritti ai partiti politici in tutti i Paesi, il che segna un punto di debolezza del

partito politico che rimane comunque una struttura fondamentale della democrazia. La

partecipazione alle elezioni è in calo dappertutto. Però in ogni Paese le cause della difficoltà della

democrazia sono specifiche, non sono confondibili con quelle di altri Paesi. Guardiamo dunque

quali sono le cause della difficoltà della democrazia nel nostro Paese.  In Assemblea Costituente si confrontarono due blocchi politici: il blocco filo-sovietico, che faceva

capo al Partito Comunista e al Partito Socialista, e il blocco filo-occidentale, che faceva capo alla

Democrazia Cristiana e ai suoi alleati tradizionali. L’alternativa tra questi due blocchi non era

un’alternativa di governo, era un’alternativa di sistema: era in discussione non chi governava, ma

quale sarebbe stato il ruolo geopolitico dell’Italia e, inoltre, se l’influenza sovietica si sarebbe estesa

sino a tutto il Mediterraneo oppure no, quale sarebbe stato l’assetto della libertà religiosa, delle

libertà civili. Sarebbe cambiato tutto a seconda del vincitore.  Naturalmente, ciascuno dei due blocchi era preoccupato della vittoria dell’altro perché temeva che il

vincitore avrebbe potuto utilizzare le regole della stabilità e della governabilità contro il vinto. Si

arrivò a un’intesa di questo tipo: nessuna regola della stabilità e della velocità della decisione in

Costituzione. Questo è un problema che riguarda i partiti politici: fuori dalla Costituzione le regole

della stabilità. Anzi, il sistema previsto era fondato sulla instabilità. Pensate che nel testo originale

della Costituzione il Senato durava sei anni e la Camera ne durava cinque. Erano preventivate

quindi elezioni a ripetizione. Si parla di instabilità perché i partiti decidevano chi, come e quando

doveva governare, e così via. Questa situazione è descritta con molta lucidità da Giorgio Amendola

nella frase che ha richiamato Giorgio Vittadini: “Si è parlato del tentativo di dare alla nostra

democrazia condizioni di stabilità con norme legislative. È evidente che una democrazia deve

riuscire ad avere una sua stabilità se vuole governare e realizzare il suo programma; ma non è

possibile ricercare questa stabilità in accorgimenti legislativi”.2  Le norme costituzionali sono definite “accorgimenti legislativi”. “C’è il fatto nuovo e positivo della

formazione dei grandi partiti democratici, che sono condizione di una disciplina democratica…

Oggi la disciplina, la stabilità è data dalla coscienza politica, affidata all’azione dei partiti politici”3,

mi pare che sia molto chiaro. Sono i partiti quelli che poi devono decidere della stabilità. E questo

tipo di orientamento è confermato da Dossetti il 19 novembre dell’84 – quindi a grande distanza                                                                                                                          2 Assemblea Costituente, Seconda sottocommissione, 5 settembre 1946, p. 125. 3 Ibidem.

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dall’Assemblea Costituente – quando in una intervista che gli fecero Leopoldo Elia e Pietro

Scoppola spiegò le paure dell’Assemblea Costituente.4 De Gasperi aveva timore che i comunisti

potessero vincere e accettò il bicameralismo paritario, cioè che Camera e Senato facessero le stesse

cose. Perché questo è un fattore di instabilità? Perché nel nostro sistema costituzionale i governi,

per stare in piedi, devono avere la fiducia tanto della Camera quanto del Senato, ma per decadere è

sufficiente la sfiducia della sola Camera; questo rende il sistema estremamente fragile. Non solo,

ma il fatto che entrambi devono approvare una legge nello stesso testo perché questa sia efficace

significa che chi perde alla Camera può rifarsi al Senato, chi perde al Senato può rifarsi alla

Camera; insomma il sistema decisionale è lento, farraginoso e dall’esito incerto  In sostanza il Parlamento avrebbe deciso quando i partiti avevano raggiunto l’intesa su cosa e

quando decidere. Teniamo presente che quelli non erano partiti qualsiasi, erano forze politiche che

avevano concorso alla liberazione dell’Italia dal nazifascismo e che avevano scelto la repubblica

rispetto alla monarchia, dimostrando grande coraggio. Quando casa Savoia abbandonò Roma per

andare verso il sud, verso Brindisi, furono i partiti che si assunsero il compito di tenere in piedi la

situazione del nostro Paese. C’era una grande legittimazione: tra DC, PCI e PSI gli iscritti ai partiti

superavano i due milioni e mezzo; e nelle elezioni amministrative precedenti avevano votato circa il

90% degli italiani: insomma c’era un sistema fortemente legittimato e consolidato. Appariva

ragionevole che quei partiti e non le istituzioni tenessero nelle loro mani le leve del comando.  Come e che cosa produsse il “meccanismo della indecisione istituzionale”?  1. Il bicameralismo paritario, cioè Camera e Senato fanno le stesse cose.  2. La Giurisdizionalizzazione di ogni tipo di conflitto (art. 24 e 113 Cost.), cioè la Costituzione

stabilisce che ogni tipo di conflitto su diritti e interessi legittimi deve comportare la possibilità di un

ricorso al giudice. Siamo, credo, una delle poche, forse l’unica, Costituzione europea che ha questo

tipo di norma. Altrove c’è il diritto di ricorrere al giudice, ma solo per questioni di una certa

rilevanza. Qui, invece, per qualsiasi rilevanza c’è questa possibilità, perché si vuole evitare una

risoluzione del conflitto da parte delle parti politiche.  3. Il primato del partito politico (art. 49 Cost., i partiti determinano la politica nazionale; art. 95

Cost., Il Presidente del Consiglio dei Ministri dirige la politica generale del Governo e ne è

responsabile): l’articolo 49 dice che i cittadini si associano ai partiti per determinare la politica

nazionale mentre il Presidente del Consiglio dirige, non determina, la politica del governo. Quindi

c’è una forte differenza tra il peso che hanno i partiti e il peso che ha il capo dell’esecutivo.  

                                                                                                                         4 L. Elia, P. Scoppola, A colloquio con Dossetti e Lazzati. Intervista (19 novembre 1984), Il Mulino, Bologna 2003.  

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4. Il primato della rappresentanza sulla decisione. I regolamenti parlamentari consentivano

qualunque tipo di ostruzionismo: si poteva intervenire più volte, non c’erano limiti di tempo e così

via; il presupposto era una legge elettorale proporzionale, cioè una legge elettorale in cui

sostanzialmente il cittadino delegava determinate persone a decidere che tipo di governo doveva

esserci, non sceglieva direttamente lui il tipo di maggioranza e il tipo di governo. Questo è il tipo di

meccanismo che abbiamo avuto. Bisogna tener conto che negli anni in cui si scriveva la

Costituzione non c’era l’interdipendenza tra i diversi Stati, c’erano gli Stati sovrani e quello che si

faceva in uno Stato interessava poco o nulla agli altri.  Quando sono cominciate l’interdipendenza e la globalizzazione, hanno cominciato a porsi nuovi

problemi. Uno Stato, infatti, riesce a tutelare bene i diritti dei suoi cittadini se è competitivo nei

confronti degli altri Stati, quindi se ha stabilità e velocità di decisione.  La questione sulla quale voglio richiamare la vostra attenzione è che instabilità, lentezza di

decisione e così via, erano in qualche modo temperate da un dato di fondo che posso riassumere

ricordando quello che scrive Kissinger nelle sue memorie. Egli racconta di un incontro con Aldo

Moro, allora Ministro degli Esteri italiano, durante il quale gli dice: “Guardi Ministro, io sono

molto contento di incontrarla. Sei mesi fa ho incontrato il Ministro degli Esteri italiano, ma non era

Lei, era un altro. E tra sei mesi incontrerò, credo, il Ministro degli Esteri italiano e temo che non

sarà Lei, ma sarà un altro. Non potete darmi un po’ di stabilità?”. Moro rispose: “A voi deve

interessare la stabilità della linea politica, a chi la porta avanti ci pensiamo noi”. Una risposta

straordinaria, perché fa capire qual è il punto di fondo: la stabilità della linea politica.  Come vedremo adesso, abbiamo avuto una grande rotazione di governi durante la cosiddetta Prima

Repubblica, ma la linea politica era stabile. Oggi abbiamo instabilità di linea politica e instabilità

dei governi. Se qualcuno di voi si interessa di scuola sa che essa è la principale vittima di questa

instabilità, perché ogni governo in carica ha cercato di fare la sua riforma della scuola. E poiché è

durato poco non è riuscito a portarla a termine e quello successivo ha fatto lo stesso e così via, con i

danni che sappiamo.  Ma perché il sistema era sostanzialmente stabile dal punto di vista della linea politica? Primo,

perché non c’era alternativa di governo. Secondo, perché c’era sviluppo economico e questo non è

secondario. Terzo, perché c’erano Ministri stabili in governi transitori: su 233 Ministri e Presidenti

del Consiglio dei Ministri solo 63 hanno ricevuto un solo incarico, 152 hanno ricevuto 1332

incarichi su 1998 complessivi. E questo era una garanzia democratica perché, essendo la DC ,

tradizionale partito di governo, divisa in correnti, qual era il rischio se un governo durava cinque

anni? Che la corrente, che avesse vinto il congresso in quella fase, si impossessasse del pieno

potere, a danno delle altre correnti e del Paese. C’era dunque un meccanismo per il quale, dopo

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circa un anno dalla costituzione del governo, le correnti minoritarie si alleavano con l’opposizione

per farlo cadere. Tuttavia i Ministri non è che cambiassero molto: chi aveva fatto il Ministro al

Bilancio, nel nuovo governo diventava Ministro all’Istruzione, quello dell’Istruzione passava al

Ministero dei Trasporti e così via. La rotazione impediva che ciascun capocorrente si creasse una

filiera di suoi fidi che potevano diventare suoi sostenitori di governo. Era questo il meccanismo –

ripeto – non creato a tavolino, ma che si era venuto consolidando col tempo.

C’era anche un dato di fondo. Nella prima legislatura, dal 1948 al 1953, in complessive 1014 sedute

delle Camere, si tennero solo 175 voti segreti – nessuno, praticamente. Nella legislatura del 1983-

1987, in piena crisi del sistema politico, in 634 sedute, si tennero 2485 voti segreti.

Altro dato: la regolazione del conflitto politico. In quei partiti politici che avevano comunque una

koiné comune, come la lotta di liberazione, ad esempio, si era radicata la convinzione che il

conflitto politico non potesse prolungarsi all’infinito per evitare il rischio di danneggiare

profondamente non la controparte, ma l’intero il Paese.

Valgano due esempi: quando De Gasperi cercò, nel 1954, con una legge elettorale maggioritaria, di

dare un premio di maggioranza alla coalizione che alla Camera avesse già avuto la maggioranza

assoluta, si vide la legge non approvata per 50.000 voti, perché per 50.000 voti la coalizione di

centro guidata dalla DC non ebbe la maggioranza assoluta. Ci furono un milione di schede bianche,

nulle e contestate. La DC premette molto su De Gasperi perché ci fosse la revisione delle schede –

50.000 schede, su un milione, si trovano – ma De Gasperi si oppose, poiché non si doveva dividere

ulteriormente il Paese, e pose fine alla sua carriera nel 1953. Il conflitto non doveva protrarsi

all’infinito.

Il secondo esempio riguarda l’amnistia di Togliatti. Dopo la Lotta di Liberazione che fu anche

guerra civile tra italiani, si decise di chiudere la partita, pur con sofferenza, con un’amnistia

generale per i partigiani e per chi era stato al fianco dei tedeschi.

Esiste una lettera in cui Bush Jr. scrive a Clinton, dopo che questi è stato eletto, e gli dice: “Spero tu

e la tua famiglia stiate bene, tu sei il nostro presidente e, se fai bene, il Paese andrà avanti, e il tuo

successo sarà il successo del Paese”. Questo è quello che scrive un candidato sconfitto a un

candidato vincitore – anche se non credo che Trump scriverà qualcosa del genere alla Clinton.

Questo è il modo in cui si regola il conflitto in una democrazia matura.

La Costituzione non fu accolta bene; ci furono moltissime critiche. I giuristi contemporanei

risultano i peggiori giudici delle riforme costituzionali o delle nuove Costituzioni; giuristi hanno gli

occhi rivolti indietro, mentre le Costituzioni guardano avanti, aprono spazi di possibilità. I giuristi,

in genere, ragionano su categorie precostituite e si ritrovano a mal partito di fronte alle novità che

sconvolgono le loro abitudini concettuali. Quando si mettono in campo nuove categorie

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costituzionali è chiaro che esse devono venire acquisite dal mondo giuridico, deve venirne capito il

significato. Oggi siamo contenti (o lo siamo stati) della Costituzione del 1948 perché dopo 70 anni

di studi, di bibliografia sull’argomento e dopo migliaia di sentenze della Corte Costituzionale,

abbiamo sciolto quasi tutti i dubbi sulla Costituzione. Ma se si rileggono i pesanti giudizi che

dettero i contemporanei, da Calamandrei a Salvemini, da Arturo Carlo Jemolo a Benedetto Croce,

dal Consiglio di Stato a Vittorio Emanuele Orlando.5

Il sistema disegnato nell’Assemblea Costituente entra in crisi tra gli anni Ottanta e i Novanta. La

crisi del sistema politico è determinata dall’assassinio di Moro. Tra gli anni Sessanta e gli anni

Settanta si manifestarono alcuni fenomeni del tutto nuovi nel nostro sistema, come il femminismo

(e i partiti erano maschilisti), l’ambientalismo (e i partiti erano industrialisti) e la nascita delle isole

tecnologiche che hanno prodotto la fine della grande catena di montaggio, della grande fabbrica e

quindi la dissoluzione dei rapporti esistenti e consolidati tra partiti e sindacati da un lato e di partito

e lavoratori dall’ altro che nella grande fabbrica accorrevano in migliaia o decine di migliaia da tutta

la regio e spesso anche da regioni vicine. Nello stesso periodo cominciano la sua azione i terrorismi

e vengono scoperti alcuni tentativi di colpo di Stato.

Il terrorismo di destra e i tentativi di colpo di Stato sono il segno che la DC é più in grado di

controllare gli apparati di Stato; il terrorismo di sinistra fa capire che il PCI non è più in grado di

controllare i processi sociali. Di fronte a questi sconvolgenti processi, i due maggiori partiti avviano

un percorso comune: le due personalità che dirigono l’avvicinamento sono Enrico Berlinguer e

Aldo Moro, con la contrarietà di entrambi i partiti di provenienza. Di Berlinguer però ci si fidava –

nel PCI c’era un modo di dire che descrive bene questo aspetto: “Meglio sbagliare con il partito, che

avere ragione da soli”. Moro non godeva invece della stessa fiducia all’interno della DC, anche se

riusciva sempre a conquistarla – basta ricordare il celebre discorso ai gruppi parlamentari in cui

sottolineava la necessità di questo avvicinamento. Il suo assassinio ha colpito un pilastro di

quell’alleanza, che da quel momento è entrato in una profonda crisi.

                                                                                                                         5 Piero Calamandrei: “...manca di chiarezza”; Benedetto Croce: “...manca di coerenza e di armonia”; Arrigo Cajumi: “...è prolissa, confusa, mal congegnata; è nata da una coalizione di interessi elettorali”; Antonio Messineo: “...non è un capolavoro di arte giuridica; manca la certezza del diritto, ci sono gravi imperfezioni”; Vittorio Emanuele Orlando: “...abbisogna di essere completata in parti essenziali”; Alfonso Tesauro: “...è frutto del timore reciproco dei partiti”; Luigi Sturzo: “Solo da noi il Senato è un duplicato della Camera”; Francesco Saverio Nitti: “Fu preparata da uomini che non avevano nessuna pratica di costituzioni, conoscevano assai poco gli argomenti che dovevano trattare, non erano quasi mai stati all’estero...”; Arturo Carlo Jemolo: “Non amo la Costituzione perché piena di espressioni che non hanno nulla di giuridico; apprezzo di più la secchezza, oserei dire la serietà, dello Statuto Albertino”; Gaetano Salvemini: “Ho letto il progetto della nuova costituzione. È una vera alluvione di scempiaggine. I soli articoli che meriterebbero di essere approvati sono quelli che rendono possibile emendare o prima o poi questo mostro di bestialità...”. Consiglio di Stato: “Vi sono in essa, anzitutto, vaghe enunciazioni di principio, dichiarazioni astratte di diritti, generiche affermazioni programmatiche […] del tutto mancanti di ogni apprezzabile concretezza ed efficacia giuridica: è ancora l’ideologia che aspira ma stenta e non riesce a diventare ‘diritto’”.

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Gli anni Ottanta sono gli anni del tentativo non riuscito di rianimare il sistema politico. L’accordo

tra DC e PSI per escludere qualunque possibilità di governo con il PCI, produce stabilità politica,

ma come tutte intese che nascono su un principio di esclusione e non di inclusione non riesce a

costruire un rapporto forte tra società e politica.

Aumenta a dismisura la spesa sociale6. Dal 1982 si comincia a porre la necessità della riforma

costituzionale perché ci si rende conto che i partiti non sono più in grado di esercitare la funzione di

direzione politica che i costituenti avevano pensato per loro. La Commissione Bozzi (1983-1985)

presenta il primo progetto di riforma che non ha esito. La caduta del muro di Berlino, nel 1989,

destabilizza ulteriormente il sistema politico interno (ricordo le riflessioni di Cossiga, secondo il

quale all’interno del suo partito non si erano accorti che, quando sarebbe crollato il sistema

sovietico, loro sarebbero state le prime vittime, perché avevano vissuto di rendita come diga

anticomunista e con il crollo del comunismo si sarebbero trovati senza ragion d’essere).

Nel 1991 la conferenza intergovernativa di Maastricht del 1991 inizia a porre limiti alla spesa

pubblica invalidando il meccanismo del rigonfiamento della spesa sociale. Nello stesso 1991 il

referendum sulla preferenza unica sconfigge i partiti di governo che avevano invitato all’astensione.

L’inizio di Tangentopoli è del 1992. Nel 1993 il referendum sul sistema maggioritario segna una

seconda sconfitta dei partiti di governo che anche in questo caso avevano invitato all’astensione.

Nel 1994 si affaccia un nuovo soggetto che non viene dalla politica, ma dalla società, Silvio

Berlusconi, il quale introduce una novità fondamentale: si pone infatti come un uomo della società

civile, lontano dalla politica ( dal “teatrino della politica”), se non contrario ad esso – e su questa

strada lo seguiranno poi tutti, a destra e a sinistra. Da quel momento ogni partito si presenta come

rappresentante della società e nessuno ha il coraggio di dire: “Riformiamoli, perché essenziali alla

vita politica”. Si verifica il fenomeno della contrapposizione “orizzontale”, società contro politica.

                                                                                                                         6 Spesa sociale*

*La definizione in senso più ampio include spesa per lavoro e previdenza sociale, assistenza pubblica e igiene e sanità, interventi a favore di industria e agricoltura, interventi nelle aree depresse, e a sostegno di finanza locale

 

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Nessuno difende più la politica in quanto tale; anzi, ancora oggi si sta approfondendo questo divario

tra società e politica.

Questa è la situazione che abbiamo alle spalle. Ogni partito ha la sua storia, ogni vicenda ha la sua

evoluzione che va conosciuta per capire perché siamo arrivati a questo punto, altrimenti sembra che

tutto sia piombato alle nostre spalle – sono processi lunghi e la loro lentezza non aiuta di certo ad

afferrarli.

In conclusione, la democrazia non può limitarsi a rappresentare; deve anche decidere. Se la

democrazia non è in grado di decidere, c’è qualcuno che decide al posto della democrazia. Questo è

un tema che dovremo tenere molto presente nelle vicende che vivremo nei prossimi mesi e nei

prossimi anni.

Antonio Polito: Grazie. Dovrei occuparmi dello stato della discussione nel nostro Paese, nel mondo

politico in particolare, da quando è cominciata questa campagna referendaria che, effettivamente,

come notavo sul Corriere della Sera, è di una lunghezza spropositata. Purtroppo la lunghezza ha

anche a che fare con l’asprezza del conflitto; la campagna è stata lanciata la prima volta a maggio

durante la campagna elettorale per le amministrative, perché si doveva votare a ottobre, poi è stata

spostata la data del voto… ma, insomma, è da maggio che anche il Parlamento è un po’ paralizzato

in attesa di capire che cosa succede. Ci sono numerosi disegni di legge (il più significativo è quello

sulla giustizia penale) che sono rimasti in una sorta di limbo, perché si aspetta di vedere come va il

referendum. La politica è così, quella italiana in particolare, è tutta in attesa… e questo è un aspetto

negativo del periodo che stiamo vivendo. Sta diventando una forte occasione di rissa politica.

Devo dire che, ormai, la rissa politica è un fenomeno che condividiamo con molte democrazie del

mondo, stiamo assistendo alla campagna presidenziale americana con un certo stupore, anche un

po’ allibiti, perfino noi che siamo abituati a un certo grado di rissosità. Se a noi italiani viene data

un’occasione di divederci, di solito non ce la lasciamo scappare, quindi l’aspetto fondamentale e

prevalente in questo momento nella campagna referendaria è quello della rissa.

Ho trovato molto giusto il richiamo che fa il volantino di Comunione e Liberazione, perché questa è

anche una grande occasione, abbastanza rara e unica. L’occasione di occuparsi di una cosa che, se

ha un senso l’espressione “bene comune” o “senso del vivere insieme”, è proprio la Costituzione.

Essa è per definizione il patto che i cittadini fanno tra di loro, trovando un minimo comun

denominatore abbastanza ampio per delegare poi allo Stato, alla Repubblica, i poteri necessari a

un’ordinata vita della comunità. Quindi è qualcosa di cui, davvero, ognuno possiede un pezzettino:

ci sono leggi che possono non riguardarci, che interessano solo un’altra categoria di lavoro o

sociale, questa invece riguarda tutti. È un’occasione anche di conoscerla, perché anche il dibattito

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che stiamo facendo, compreso quello di stasera, è una grande occasione per conoscere la

Costituzione, nella sua genesi e anche in quello che ha prodotto in questi settant’anni di vita

repubblicana. È un’occasione che non andrebbe persa.

Conoscere la Costituzione domandandosi se cambiarla. È vero che la questione è questa, il grande

interrogativo che ci viene posto è questo. Io sono in una fase di ascolto dell’altro in questo

momento. Mi diceva prima Giorgio Vittadini che probabilmente molte persone in questa sala sono

in una condizione analoga, che trovo giusta e interessante; trovo una serie continua di spunti e di

riflessioni (alcune cose mi convincono, altre mi fanno pensare, altre non mi convincono) nei

discorsi che sento. Trovo che sarebbe molto legittimo, sarebbe anche motivo d’orgoglio dire: “Io

non ho ancora deciso”. Perché, in effetti, la materia è così ricca, complessa, delicata, che è del tutto

legittimo questo interrogarsi del Paese, e anzi se lo riusciamo a indirizzare verso il merito, i

contenuti, facciamo sicuramente un grande servizio alla comunità nazionale. Penso che occasioni

come questa vadano in questa direzione, anzi, è apprezzabile sentire un dibattito sulla riforma

costituzionale che non sia “Sì” o “No”. Poi tutti voteremo, tutti sceglieremo, ma in questa fase di

ascolto dell’altro è molto opportuno fare questo sforzo.

Io vorrei dire due cose sostanzialmente. La prima è questa: la Costituzione è stata ritenuta

intangibile e intoccabile a lungo, diciamo – più o meno – per tutta la fase che Violante ha definito

della stabilità della linea politica, anche se nell’instabilità dei governi. Toccare e cambiare la

Costituzione richiedeva in Parlamento il raggiungimento di maggioranze difficili, elevate, alte. Poi

quando è nata la cosiddetta “Seconda Repubblica”, lì si è accelerata invece una gran voglia di

cambiarla, certamente per un appesantimento negli anni della carta, del testo, e anche perché nel

frattempo erano spariti tutti i partiti storici che venivano dalla resistenza e che avevano interpretato

e ordinato la vita politica nazionale – anche più delle istituzioni – negli anni precedenti.

Così abbiamo avuto due grandi tentativi precedenti a questo di cambiare la Costituzione. Per grandi

tentativi intendo tentativi ambiziosi, con un numero elevato di articoli da cambiare, perché ci sono

stati molti cambiamenti della Costituzione di cui non ci ricordiamo nemmeno: leggevo oggi in un

articolo, non so se è vero, che ci sono stati finora 36 cambiamenti: la fine dell’immunità

parlamentare, l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, la norma su amnistia e indulto

che adesso richiede una maggioranza più qualificata… sono stati fatti numerosi cambiamenti, ma su

singoli articoli tutto era più semplice e anzi, in genere, c’era un consenso abbastanza ampio, senza

grandi polemiche.

Due grandi tentativi di cambiare sostanzialmente la seconda parte della Costituzione, cioè

l’ordinamento della Repubblica e, in qualche caso, anche la forma del governo e il rapporto Stato-

Regioni, sono stati fatti dal centrosinistra nel 2001, con la riforma del cosiddetto Titolo V, quello

  11  

che cambiò il rapporto tra Stato e autonomie locali, Regioni in particolare, e la seconda riforma è

stata quella approvata in Parlamento da una maggioranza di centrodestra nel 2005, che invece

interveniva aumentando i poteri del Presidente del Consiglio, introducendo la devolution nelle

regioni e riducendo il numero dei parlamentari. Una riforma consistente, quindi, di più articoli.

Questi due esperimenti però non hanno avuto successo.

La riforma del Titolo V la stiamo ricambiando in questa riforma perché abbiamo ritenuto, per un

giudizio abbastanza unanime, che per una serie di ragioni non abbia funzionato, avendo elevato il

numero di conflitti tra Stato centrale e regioni e di ricorsi alla Corte Costituzionale. Oggi, di fatto,

una maggioranza di centrosinistra si propone di riformare radicalmente la riforma che una stessa

maggioranza di centrosinistra aveva fatto nel 2001.

La seconda, quella del governo Berlusconi, fu bocciata da un referendum popolare nel 2006 con

un’elevata partecipazione. Allora, che cosa deduco dal fatto che i precedenti due tentativi altrettanto

ambiziosi di cambiare la Costituzione non abbiano dato buon esito? La prima osservazione che mi

viene in mente è che cambiare la Costituzione è una cosa difficile, perché la Costituzione è un tema

delicato, è un organismo delicato, in cui le cose si tengono una con l’altra; ci sono nessi tra la prima

parte, quella dei diritti e dei doveri, e la seconda, quella sull’ordinamento della Repubblica.

Credo che in dottrina si definisca rigida la nostra Costituzione proprio perché ha dentro di sé una

previsione molto rigida di possibilità di cambiamento, che è l’articolo 138, che ci dice che si può

cambiare a certe condizioni, e anche perché nacque in un momento, diciamo così, rivoluzionario,

dal crollo del regime fascista, della monarchia, dalla nascita di un nuovo assetto repubblicano e

quindi da un patto tra i cittadini per dar vita alla Repubblica. Momenti in cui c’è stata chiaramente

la ricerca di ciò che unisce, della condivisione; i lavori dell’Assemblea Costituente sono andati

avanti mentre i partiti protagonisti dell’Assemblea stessa litigavano furiosamente dal punto di vista

politico e rompevano quell’unità nazionale che c’era stata subito dopo il fascismo, dopo il CLN e

così via. Quindi trovare l’equilibrio era una cosa difficile; rimettere in discussione quell’equilibrio

ogni volta è complicato perché esistono maggioranze più risicate, non tutti sono d’accordo, c’è

un’opposizione più o meno di sistema che si ribella, che lo definisce assalto, tradimento, addirittura

stravolgimento della Carta Costituzionale.

Il conservatorismo costituzionale ha, dunque, una sua ragion d’essere, si capisce perché si è

conservatori nei confronti della Costituzione e poi perché non ogni innovazione è un

miglioramento, come abbiamo visto nei due casi precedenti.

La seconda deduzione che traggo dal fatto che ci abbiamo provato due volte con scarso successo è

che, se ci si è provato già due volte e se si sono fatte innumerevoli commissioni bicamerali dagli

anni Ottanta del Novecento oltre a progetti legislativi e programmi di partito – tanto che a ogni

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elezione i partiti si presentavano con una loro proposta di cambiare la Costituzione più o meno

sempre sugli stessi argomenti su cui discutiamo oggi – ciò vuol dire che un’esigenza c’era, che il

problema era reale. E il problema, più o meno, è quello che ha descritto Luciano Violante, cioè il

fatto che, sostanzialmente, il sistema del bicameralismo perfetto con due Camere che danno la

fiducia è un sistema farraginoso, complicato e anche abbastanza anti-storico, perché non c’è quasi

da nessuna parte. Qualcuno sostiene che c’è in America, però in America c’è il presidente eletto

direttamente, il capo del governo; è una cosa un po’ diversa. Quindi è necessario modificare la

Costituzione, è chiaramente necessario modificarla, ma sarà stata modificata bene? Io penso che

alla fine la questione a cui dovremo dare una risposta, quando andremo a votare, è esattamente

questa: quello che è necessario fare è stato fatto bene? Su questo secondo me è lecito nutrire dei

dubbi. Io ne ho di dubbi sugli aspetti specifici; oggi non parliamo di questo, ma potrei parlare del

Senato, del processo legislativo ecc., però sono altrettanto fortemente convinto che la necessità

c’era e allora la grande domanda è: la perdiamo questa occasione o la cogliamo? Prendiamo il

bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? La discussione è legittima, tant’è vero che il Paese è molto

incerto.

La seconda osservazione che vorrei fare è relativa al clima politico che si è creato nel nostro Paese e

che io, come capite, trovo sbagliato, trovo un errore. Questo clima politico così aspro si è creato

perché, al principio, il governo ha tentato di utilizzare la riforma costituzionale per far fuori, per

“asfaltare”, l’avversario interno (ed esterno) al partito del Presidente del Consiglio. Tant’è che

Renzi ha messo la sua testa sul piatto dicendo che se non passa lui va a casa, cioè se si vuole

continuare con questo esperimento di rinnovamento della politica italiana, di rottamazione del

passato e dei vecchi, c’è bisogno di andare avanti. Questo fino a un certo punto è il gioco che ha

fatto Renzi, poi, per una serie di circostanze che hanno più a che fare con la situazione economico-

sociale del Paese che con questi argomenti, il clima è un po’ cambiato dal punto di vista degli

orientamenti e quindi è cominciato il gioco opposto: l’opposizione non ha visto l’ora di mettersi

tutta insieme, pur essendo molto variegata ‒ nel fronte del “No” ci sono elementi molto diversi tra

loro ‒, pur di usare il referendum per mandare a casa Renzi o dare un colpo al governo e così via.

Tutto questo ha creato, oggettivamente, una situazione delicata e anche pericolosa perché dopo il 4

dicembre bisognerà che venga il 5, anzi è sicuro che verrà il 5! Quindi noi ci dobbiamo preparare,

come comunità nazionale e come comunità politica, a gestire l’esito di questo risultato qualsiasi

esso sia e gli opposti catastrofismi, quelli che dicono che se passa il “No” è come la Brexit – cioè

praticamente la rottura di una storia nazionale – e quelli che dicono che se passa il “sì” arriva una

dittatura, una deriva autoritaria, un nuovo caudillo che comanda, sono chiaramente due esagerazioni

che io trovo del tutto infondate: se passa il “No”, non sarà la Brexit; se passa il “sì” non avremo una

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fine della democrazia. Quindi credo che bisogna approcciare il dibattito sulla Costituzione con

questa attenzione.

Infine un’osservazione su un aspetto di estrema importanza: la rappresentanza.

Se passa la nuova Costituzione, avremo una Camera e un Senato diversi. La Camera sarà eletta con

una legge elettorale che non sappiamo ancora quale sarà; è vero che ne abbiamo una che si chiama

Italicum e che è legata alla riforma costituzionale per il semplice fatto che è stata fatta per una sola

Camera. Questo basta a dimostrare per tabulas che è legata, perché è stata fatta nella previsione che

la Costituzione fosse cambiata. Ora questo Italicum è rimasto figlio di nessuno, nel senso che il

partito che l’aveva promosso, il PD, è spaccato al suo interno; il Presidente del Consiglio ha

riconosciuto che non avrebbe obiezioni a cambiarlo parzialmente, anche in parti consistenti, perché

l’elenco delle cose su cui si può discutere, che ha fatto nella direzione del PD, è abbastanza ampio e

impegnativo. Tutta l’opposizione lo vuole cambiare; la Corte Costituzionale è chiamata a

pronunciarsi e non è affatto da escludere che lo ritocchi o lo cambi, come avvenne per la precedente

legge elettorale. Di fatto sappiamo che questo Italicum sta su una gamba sola, chi lo sa se ci resterà.

Quindi stiamo avviandoci a cambiare il rapporto tra Camera e Senato, senza sapere ancora bene

come sceglieremo – con o senza lista bloccata, preferenze, collegi – i parlamentari e i deputati.

L’altra cosa che non sappiamo è come sarà scelto il nuovo Senato e come sarà composto, o meglio,

la Costituzione dice come è composto, di settantaquattro consiglieri regionali, ventuno sindaci e

cinque Senatori nominati dal Capo dello Stato, che può nominare, ma non è obbligato. Però non

sappiamo come saranno scelti, o meglio, il testo della Costituzione dice che saranno eletti dai

Consigli Regionali e poi aggiunge, in un altro comma, che questo avverrà seguendo le indicazioni

degli elettori, cosa che crea una certa ambiguità tra elezione indiretta, che chiaramente è quello che

prevede la Costituzione, e aspirazione di elezione il più possibile diretta, cioè di indicazioni degli

elettori.

Bisognerà quindi fare una legge, perché il testo richiama esplicitamente la necessità di una legge

ordinaria che regolamenti questo sistema; anche su questo la discussione è molto ampia e accesa. Io

penso che sia stato un errore non fare chiarezza su questo punto della rappresentanza, sia per quanto

riguarda l’Italicum, sia per quanto riguarda la scelta dei senatori e che, se noi tutti avessimo le idee

più chiare su questo punto, potremmo forse avvicinarci alla scelta tra il “Sì” e il “No” alla

Costituzione in maniera più serena e meno aspra di come è avvenuto in questi ultimi giorni.

Vittadini: Quindi, secondo voi, i punti che vanno discussi sono: il problema della stabilità e il

rapporto tra Stato ed enti locali. C’è una consapevolezza diffusa che il rapporto tra Stato e regioni,

riformato nel 2001, sia fallito. Perché? Quali criticità presenta?

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Polito: C’è qualcuno che ha osservato, secondo me non a torto, che con questo bicameralismo

paritario noi facciamo più leggi di Francia e Germania, perché la quantità di leggi che facciamo è

una macchinetta del Parlamento; non è detto che abbiamo bisogno di più leggi. Però è vera una

cosa, con la possibilità del potere di veto, o del costruirsi di piccoli gruppi, lobby, che condizionano

l’esecuzione del programma del governo ‒ perché il governo deve avere il diritto di portare in

Parlamento il suo programma elettorale, che è frutto del patto con gli elettori ‒ il bicameralismo

paritario, con due Camere che danno la fiducia al governo, certamente è un freno a questa capacità

esecutiva.

Questa riforma cambia radicalmente, anzi, direi che i sostenitori della riforma hanno usato questo

argomento esplicitamente, Renzi in particolare, dicendo che avrebbe rimesso in ordine quello che

aveva provocato il continuo ricorso alla Corte Costituzionale. La materia, in realtà, è molto

opinabile perché quindici anni fa eravamo tutti federalisti, ora siamo tutti centralisti, quindi non so

esattamente cosa potremmo fare…

Violante: C’è anche la questione dei tempi della decisione politica. Io credo che il rapporto Stato-

regioni sia mobile. In Germania approvano frequentemente modifiche anche costituzionali relative

al rapporto Stato-Lander, perché questo rapporto dipende dal reddito medio pro capite, dai processi

economici, dai processi sociali. Anche negli Stati Uniti ci sono casi di forte conflitto tra gli Stati e il

governo federale. I confini dei rapporti tra lo Stato e gli enti territoriali non sono mai né certi né

stabili perché dipendono da tanti fattori politici, economici o sociali e così via. Sono comunque

rapporti in divenire, non sono mai fissi.

Domanda: Buonasera, mi chiamo Alberto, studio Giurisprudenza in Statale e ho una domanda per

il presidente Violante. L’Assemblea Costituente nel 1948 è stata un momento di dialogo e di

incontro tra soggetti anche ideologicamente in posizione antitetica tra loro, allora io mi chiedo: oggi

la modifica costituzionale è nata su questo terreno? A me sembra sia nata invece su un terreno di

scontro. Secondo lei è possibile un dialogo costruttivo tra soggetti che abbiano già preso posizione

oppure è possibile solamente tra soggetti che sono ancora indecisi o non si sono ancora schierati? E

nel caso in cui passasse il “sì”, secondo lei ci sarà la possibilità di un confronto e un dialogo tra i

partiti?

Violante: In Assemblea Costituente non è che fossero tutti angeli. Ci furono scontri su molte

questioni, c’erano riunioni separate in cui i capi dei partiti decidevano cosa avrebbero fatto; molto

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spesso si dà una visione angelica dell’Assemblea Costituente. Ma lì non c’erano angeli c’erano

donne e uomini con il loro carico di valori, di idee e di progetti.

Quando ci fu la rottura del governo De Gasperi i problemi furono gravi e il timore di De Gasperi era

che la sinistra presentasse Nenni e non Togliatti come suo leader e che quindi potesse vincere nelle

prime elezioni politiche. Eppure si era convinti che lo scontro tra partiti doveva portare comunque a

una soluzione: ci si scontrava non per piantare la bandiera del vincitore, ma per risolvere i problemi.

Ci si scontrava, ma il conflitto aveva un termine perché il problema doveva essere risolto. Questo è

un punto decisivi nella educazione politica democratica.

Quello che lei giustamente chiama “terreno di incontro tra le forze politiche” fu più possibile

rispetto a oggi perché c’era un sottofondo comune, c’era una storia comune tra quelle forze

politiche; oggi le forze politiche e parlamentari non hanno una storia comune. Molte nascono per

conflitto, per separazione. Questo rende molto difficile il dialogo. Ma c’è anche un dato culturale

cui il compromesso, la negoziazione – che è l’anima della democrazia, cioè cedere su alcune cose

per arrivare a una soluzione – è considerato un imbroglio, un trucco, si dice “inciucio”, cioè se io

parlo con il mio avversario sto imbrogliando. C’è un famoso discorso che Ratzinger fece al

Parlamento tedesco proprio sul valore del compromesso, sul valore della negoziazione, in cui

affermava che la protesta eccita gli animi e poi concludeva dicendo che non c’è niente di peggio di

questa eccitazione che si brucia in nulla.

Amos Oz in un suo recente piccolo libro, Contro il fanatismo , spiega: “Nel mio mondo, la parola

compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso

non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di

compromesso è fanatismo, morte”. È un libretto che manderei volentieri ad alcuni illustri

professionisti dello sdegno.

Ricordo un episodio dei primi giorni in cui ero in Parlamento, nel lontano 1979, ed ero vicino di

banco di un sindacalista pugliese che era alto e grosso il doppio di me, ed era abbastanza loquace.

Quando parlava un democristiano o un missino urlava, mentre io cercavo di trattenerlo senza grande

successo, ovviamente. Dopo tre o quattro manifestazioni di intemperanza il segretario d’aula si

avvicinò a lui e gli disse: “Guarda che tu con quello lì domani ci devi parlare. Noi qui siamo eletti

per parlare con quelli che non la pensano come noi. Quando finisce la seduta lo chiami, vi prendete

un caffè insieme, glielo paghi tu e si chiude. È chiaro?” Era questa l’educazione, chiuso il conflitto,

domani è un altro giorno, si parla e via. Il problema del compromesso è fondamentale, la cultura del

compromesso e della negoziazione consente alle forze di andare avanti.

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Oggi la difficoltà deriva dal fatto che la cultura della negoziazione è stata soppiantata dalla cultura

dell’avversario, l’avversario come nemico con il quale non si deve mai parlare. Questo rende molto

difficili le cose.

“Se vince il Sì…”, guardi se vince il “Sì” o vince il “No” io credo che molto dipende dal modo in

cui viene condotta tra le persone che sono più equilibrate questa campagna elettorale. Se il segno è

quello del conflitto, “se vinci tu è la catastrofe”, è chiaro che è difficile uscirne. Se invece c’è una

situazione di rispetto e di ascolto reciproco, si può trovare legittimo tanto il “Sì” quanto il “No”, e

possiamo avere il merito di aver avviato un processo di civilizzazione democratica del Paese, un

confronto che si basa non sull’insulto, non sull’avversione, ma su un processo di comprensione,

anche delle ragioni dell’altro. Entrambe le forze hanno delle ragioni e dei torti, si tratta di misurarle.

Lei chiedeva se è previsto un dialogo: io spero di sì, ma questo non è che scenda dal cielo. Il

dialogo va preparato, chi fa politica lo sa che il dialogo va preparato. E la preparazione va fatta

adesso, non si fa il 5 dicembre. Si fa adesso perché adesso si mettono in campo argomenti e rispetto

reciproco che consentano che nella comunità nazionale si creino vincoli tra chi dice “Sì” e chi dice

“No”, che non siano vincoli di avversione, ma vincoli di comprensione reciproca.

Se riusciamo a muoverci in questa direzione, a penso che l’aspirazione di Alberto sia quella giusta;

si mette in campo un comportamento che ci fa andare avanti indipendentemente dal risultato, sia

che vinca il “Sì” sia che vinca il “No” pur essendo consapevoli delle conseguenze drasticamente

diverse delle due scelte (una conserva, l’altra innova).

Domanda: Buonasera, sono Anna e faccio il quinto anno di Giurisprudenza in Cattolica.

Il testo legislativo che andremo a votare a dicembre, di fatto sembra essere una chiara svolta verso

una democrazia più decidente, nella quale lo scopo sembra quello di dare una maggiore stabilità e

governabilità al nostro Paese. In combinazione con questo, come una sorta di progetto unico,

connessa abbiamo una legge elettorale, l’Italicum, che dà un premio di maggioranza altissimo alla

coalizione e al partito vittorioso. Mi chiedevo: tutto questo non comporta una eccessiva rinuncia

alla rappresentatività? E che garanzie abbiamo che non sarà così? Quello che mi sembra, anche di

fronte al dibattito politico sul referendum, è che andare a votare “Sì” chiede un grande atto di

fiducia su un testo che comunque in qualche modo è perfettibile.

Polito: Io sono un critico dell’Italicum; tra l’altro anche Luciano Violante lo è, nel senso che si è

espresso nettamente dicendo che cambiare l’Italicum, o almeno indicare come cambiarlo, sarebbe

stato – dico al passato perché credo che non accadrà più prima del voto referendario – utile prima

del referendum per le ragioni che sono state dette nella domanda; cioè, siccome ‘n famo a fidasse,

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come dicono a Roma, se io so tutti gli elementi del gioco di fiducia reciproca, sono, ci sia

un’ispirazione della legge elettorale, che rafforza il sospetto di un cambiamento, in qualche mondo

non scritto nella Costituzione, ma di fatto della forma di governo. Una democrazia cosiddetta

“d’investitura”, in cui il momento elettorale serve a indicare il capo del governo – come avviene nei

sistemi presidenziali, ma con ben altri contrappesi istituzionali, – piuttosto che la nascita di un

governo in Parlamento sulla base di una coalizione, che è un po’ invece la tradizione nostra italiana

e anche secondo me abbastanza implicitamente scritta dentro la Costituzione – non dico proprio

nelle sue forme, ma insomma, un regime parlamentare e soprattutto un sistema di coalizioni che è

dovuto anche al fatto che l’Italia, per quanti tentativi si siano fatti, è un Paese diverso dagli altri

Paesi. Anzi direi che ormai il bipartitismo non riescono a tenerlo neanche nei Paesi che l’hanno

inventato, perché in Gran Bretagna di fatto non c’è più, in Germania sono cinque, in Spagna non mi

ricordo più quanti sono, tant’è che non riescono più da dieci mesi a fare un governo. Alla fine tutte

le forme di ingegneria elettorale o anche costituzionale hanno una loro importanza però la realtà è

sempre più importante. Il modo in cui è fatto il Paese, il modo in cui sono fatti i partiti, il modo in

cui viene orientata la gente, in cui si informa, hanno un valore molto più forte dell’idea di uno che si

siede al tavolino e dice: “Adesso facciamo il bipartitismo”. Il bipartitismo ‘n se fa, non ci si è

riusciti neanche nella Seconda Repubblica, pur avendo lungamente provato a farlo.

Io trovo che nell’Italicum ci siano questi difetti e siccome riempiono di contenuti la polemica che

gli avversari della riforma costituzionale, i sostenitori del “No”, fanno nei confronti della

Costituzione, dove invece non trovano una buona ragione per fare polemica, fossi stato un

sostenitore del “Sì” o uno dei capi del fronte del “Sì” io l’avrei rimosso quest’ostacolo.

Violante: Sono contrario all’Italicum per più ragioni. Perché i collegi sono di seicentomila elettori.

Un gran numero di città italiane è entro i cinquemila abitanti; voi capite cosa vuol dire dal punto di

vista dei costi girare in un collegio di seicentomila elettori, specie per un giovane che non è

conosciuto e vuole farsi conoscere. In un sistema tripolare, il vincitore del ballottaggio è quello che

non partecipa, perché non partecipa si schiera con uno dei due partecipanti e stabilisce chi vince,

contrattando sottobanco contropartite varie. Tanto vale che ci sia un accordo, la possibilità di una

coalizione tra primo e secondo turno, come si fa per i sindaci per esempio.

C’è una tecnica dell’Italicum che non è molto conosciuta, che spero di spiegare con chiarezza.

Dunque, il premio di maggioranza è ventiquattro seggi, i membri del governo oggi sono ottanta.

Questi non possono stare perennemente in Parlamento, devono fare il loro lavoro. La logica

dell’Italicum non è quella del premio di maggioranza che fa stravincere, è un’altra: il partito

vincitore ha la maggioranza assoluta e sulla base della maggioranza assoluta costruisce la coalizione

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dopo, questa è la logica dell’Italicum, non so se sono chiaro. Io dico: “Ho avuto la maggioranza

assoluta per 24 seggi”, però chiedo a te partito A o B ecc. di fare un’alleanza con me per poter

governare insieme. Il Movimento Cinque Stelle, quando ha capito il meccanismo, ha presentato il

progetto di legge per ritornare al proporzionale, perché ha capito che, dato che loro hanno come

idea assolutamente rispettabile di non fare alleanze con nessuno, anche vincendo le elezioni non

sarebbero in grado di governare. Questa è la logica dell’Italicum. Vi ricordo un particolare: nella

riforma costituzionale è previsto che le minoranze parlamentari possono ricorrere alla Corte

costituzionale contro le leggi elettorali, compreso l’Italicum. Se dovesse vincere il “Sì”, ci sarà una

minoranza parlamentare che impugnerà l’Italicum. Contrariamente, se dovesse passare il “No”,

questa possibilità non c’è e bisognerà rimettersi al giudizio dei tribunali. Neanche i cittadini del

1948 sapevano come sarebbero stati eletti i deputati e Senatori, perché non c’è scritto in

Costituzione. È vero che era implicito il ragionamento proporzionale, però per il Senato era

tutt’altro che implicito, perché ci fu una contestazione e si arrivò a un accordo che fecero Togliatti e

De Gasperi, con un sistema che era apparentemente maggioritario, ma sostanzialmente

proporzionale.

Le leggi elettorali quindi non sono in Costituzione. In ogni caso la legge elettorale per la Camera e

per il Senato si potrà fare soltanto dopo il 4 dicembre, perché allora sapremo che sistema avremo.

Se avremo il Senato della riforma i senatori saranno eletti dai Consigli regionali “in conformità alle

scelte degli elettori nel momento in cui si vota per i singoli Consigli regionali”. Se non passa la

riforma, bisogna comunque una legge elettorale anche per il Senato il più possibile simile a quella

per la Camera.

Lei ha utilizzato l’espressione “democrazia decidente”; la ringrazio. Utilizzai questa espressione nel

1997 quando, essendo Presidente della Camera, diressi i lavori per la riforma del regolamento della

Camera che era una democrazia rappresentativa e non capace di decidere. E posi il problema: la

democrazia o è capace di decidere o non è democrazia. La rappresentanza non basta; deve

rappresentare e decidere. Ci vuole equilibrio tra rappresentanza e decisione. Noi oggi ci troviamo in

una situazione drammatica tra Putin e Obama: Putin non ha nessun problema a mandare gli aerei in

Siria, a bombardare; ha sminato Palmira e ha fatto fare in quel luogo un concerto dall’orchestra di

San Pietroburgo. Obama nel frattempo discuteva con i Repubblicani della Camera e del Senato, per

decidere cosa fare. È chiaro che qui c’è un problema. E guardate che agli occhi di un cittadino che

non ha più memoria di cosa vuol dire un sistema autoritario, un sistema capace di decidere senza

rappresentanza è a volte ritenuto più accettabile di un sistema fondato sulla rappresentanza. Prima

di scivolare verso questo meccanismo culturale dovremmo trovare un punto di equilibrio vero.

Rappresentare per decidere, non rappresentare per scherzare. E oggi la cosa è drammatica perché

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noi vediamo che gli scontri che ci sono in Parlamento sono scontri non per la decisione, ma per la

rappresentanza del conflitto. Non sono fatti per decidere il conflitto, ciascuno dice da che parte sta,

ma non propone una decisione.

Questo è pericolosissimo, perché, come diceva Toynbee, le democrazie muoiono per suicidio, non

per omicidio. Quando non sono in grado di trovare un punto di equilibrio tra la rappresentanza e la

decisione, il sistema crolla, e qualcuno decide. Prima che succeda c’è bisogno di prendere in mano

le redini del sistema e fare in modo che quella democrazia sia capace di decidere. Noi ci troviamo in

questo momento di svolta: bisogna essere consapevoli del significato della nostra scelta. Se la

democrazia non è capace di decidere, decide qualcun altro. E i cittadini chiederanno sempre più

decisione: abbiamo la storia del prefascismo alle spalle, abbiamo la storia di Weimar che ci dice

cosa può significare in Europa un sistema non capace di decidere.

Domanda: Buonasera. Sono Giorgio, faccio giurisprudenza in Cattolica. Io ho un approccio forse

troppo semplicistico, ma mi sembra che da una parte della bilancia ci sia la possibilità di superare

un bicameralismo perfetto, per il quale al momento non riesco a trovare una giustificazione

ragionevole, dall’altra parte però ci sono delle misure quantomeno perfettibili. Dato che

l’alternativa è tra questi due poli, la mia domanda è: quanto effettivamente, al di fuori degli slogan,

il bicameralismo nel corso di questi ultimi decenni ha ostacolato le famigerate riforme di cui l’Italia

ha bisogno, e quanto invece c’è il rischio che il famigerato ping-pong, invece, sia diventato un alibi

per una classe politica troppo pigra? Vi domando, infine, se c’è forse il rischio di voler risolvere un

problema culturale con una soluzione tecnica. Qualora ci fosse questo rischio, come risolvere

secondo voi l’eventuale problema culturale? Qual è la strada per affrontarlo?

Violante: Innanzitutto, il bicameralismo paritario non c’è in nessun paese europeo, equiparabile al

nostro (Francia, Germania, Spagna). Il punto qual è? Che quel bicameralismo paritario era

funzionale alla logica della non decisione, perché c’erano i partiti che decidevano. Quando chi deve

decidere non é più capace, il sistema si inceppa. È vero che in molti casi le leggi sono state

approvate in pochi giorni, però questo è accaduto con forzature enormi: decreti leggi, maxi-

emendamenti e fiducia. Per cui chi opera in questo campo si trova davanti a testi di 400, 500, 600

commi, e bisogna andare a vedere di che diavolo si tratta. E la cosa certamente non aiuta il percorso

della democrazia.

In questa legislatura, escludendo le leggi di bilancio, il Senato in prima battuta ha tenuto le leggi

ordinarie, che sono 56, per più di 300 giorni. Quando è intervenuto in seconda battuta per più di

200. Se entra in vigore la riforma, non può tenerle per più di 40 giorni.

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Terzo aspetto, quando le Camere sono paritarie, il procedimento legislativo su diverse leggi parte

tanto alla Camera quanto al Senato, quindi c’è il doppio di produzione legislativa. Perché è

giustissimo dire che c’è un eccesso di leggi, è vero. Il problema di fondo è che quando due Camere

hanno gli stessi poteri e partono insieme, il numero delle leggi si raddoppia.

Infine, la questione culturale: non possiamo fare per legge una modifica culturale. C’è un problema

di processi culturali, e c’è un problema di responsabilità delle classi dirigenti. È un tema non

secondario. Essere classe dirigente non è un privilegio, è una responsabilità. Questo vuol dire che tu

devi dirigere, non essere diretto. La classe dirigente non è quella che guarda i sondaggi e poi fa

quello che dicono i sondaggi; la classe dirigente è quella che guarda i sondaggi e se l’umore dei

cittadini va in una direzione sbagliata, si impegna a spiegare, a chiarire a integrare le proprie scelte.

Altrimenti non si è più classe dirigente ma si è classe eterodiretta. La classe dirigente non è

oligarchia. Mi pare che in questo equivoco sia caduta la discussione su Repubblica tra Gustavo

Zagrebelsky e Eugenio Scalfari (12 ottobre 2016). Le classi dirigenti cambiano, le oligarchie

restano.

E poi l’altro dato è la questione delle comunità: una cultura si crea, si costruisce, attraverso vincoli

di comunità, attraverso legami, non attraverso la dissoluzione dei legami che produce solo

solitudine. Una cultura non si costruisce se ciascun soggetto sta per conto suo e brandisce i propri

diritti contro l’altro, la classe dirigente è la classe dei doveri, non la classe dei diritti. Non è la classe

dei desideri, è la classe dei doveri, delle responsabilità: questa è una classe dirigente. Ora, io

considero un po’ singolare che sia difficile trovare qualche autorità che oggi parli di doveri nella

nostra società. Finché non ci sarà qualcuno che parli seriamente di doveri sarà difficile costruire una

classe dirigente e una comunità nel nostro Paese. Io credo che sia importante lavorare in questa

direzione, perché il meccanismo aspirazioni-desideri-diritti spacca profondamente le società, che

vengono tenute insieme da legami di rispetto reciproco e da doveri nei confronti dell’altro.

Occorrono etica del dovere, etica della responsabilità, costruzione delle classi dirigenti e

costruzione di comunità. Non è un discorso semplice, ma a me sembra necessario.

Polito: Volevo aggiungere una battuta sul fatto che il bicameralismo perfetto ce l’hanno solo in

Romania, per dire che, invece, una legge elettorale con il premio di maggioranza su base

proporzionale ce l’hanno solo in Grecia, quindi abbiamo anche quest’altro record.

Per quanto riguarda la domanda, è molto complessa e molto interessante, e secondo me è la

sostanza poi della discussione che stiamo facendo. È chiaro che la decisione politica è più

importante della tecnica; è evidente che con il bicameralismo perfetto, paritario, si sono vissute

grandi stagioni di produzione legislativa parlamentare. Per esempio le grandi riforme sociali degli

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anni Settanta furono fatte praticamente tutte in Parlamento con il bicameralismo paritario.

Naturalmente, questo presupponeva un sistema fondato sui partiti che reggesse questa decisione

politica, cioè in sostanza quello che poi si è chiamato banalmente “consociativismo”: il fatto che,

pur essendo il governo in mano alla Democrazia Cristiana, i grandi progetti legislativi si

Non è detto che il bicameralismo paritario non possa produrre un ottimo prodotto legislativo. Però è

anche vero che questo sistema della decisione politica si è inceppato, al punto tale che oggi sono

anche pezzi del partito di maggioranza che possono bloccare la decisione politica – e infatti molti

dicono, anche giustamente: “Tu puoi anche mettere fine al bicameralismo paritario, però se poi

nella maggioranza dei 340 o della Camera futura, ne bastano 30 che siano contrari…”. E in Italia si

trovano facilmente 30 contrari, non perché siano contrari davvero, ma perché vedono subito la

possibilità di creare un potere di veto, e quindi di sfruttarlo a proprio vantaggio.

Apro una parentesi: non ci illudiamo che con 340 deputati siano risolti i problemi di maggioranza,

perché la differenza è di 26, e non è difficile trovarli. È vera una cosa: questo ha prodotto un

gravissimo declassamento del Parlamento che è decaduto per molte ragioni, una delle quali è la

selezione dei parlamentari, dei politici, dovuta a varie ragioni: a un decadimento generale della

forma “partito”, della cultura del Paese, ma anche a sistemi elettorali che naturalmente hanno

facilitato il processo. Una delle ragioni per cui è decaduto è sicuramente che, ormai, è un

decretificio. La maggioranza, non potendo più gestire in Parlamento per le vie “ordinarie”

l’attuazione del proprio programma di governo ricorre ai decreti legge, che vanno in funzione

immediatamente, o a questi maxi-emendamenti che sono dei mostri giuridici e parlamentari, che

appunto contengono l’intera finanziaria in un emendamento, e su cui si mette la fiducia.

Il ricorso ai voti di fiducia è crescente, ogni governo ne fa un ricorso maggiore, il che ovviamente

riduce la possibilità del Parlamento di discutere. Anche l’Italicum è stato approvato con il governo

che ha posto la questione di fiducia, cioè la legge che per eccellenza dovrebbe essere frutto

dell’accordo parlamentare. C’è una forte depressione del Parlamento, io in questo senso ho capito la

battuta che ha fatto Napolitano quando di recente ha detto che per ridare dignità al Parlamento

bisognerebbe mettere fine a questo sistema del bicameralismo paritario. Infine, c’era un problema

non da poco, che Camera e Senato hanno sempre avuto due basi elettorali diverse e quindi erano

destinate, e in certe occasioni hanno prodotto, maggioranza diverse, numericamente diverse, per cui

si è creato più volte il problema che in una delle due Camere era più difficile avere la fiducia. Da

quando c’è la Seconda Repubblica, il Senato è la Camera in cui è più difficile avere la fiducia e

quindi devi fare più accordi, più “campagne acquisti”. Detto questo, però, permettetemi di

aggiungere che l’obiettivo sacrosanto della fine del bicameralismo paritario si poteva avere in molti

modi. Questo che è stato scelto non è l’unico: si poteva per esempio abolire il Senato, o si poteva

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avere un Senato delle Regioni in cui i senatori rappresentassero le Regioni, non i Consigli Regionali

in modo proporzionale, come è nel sistema tedesco, dove c’è addirittura un mandato imperativo: chi

va lì per la Regione del Baden-Württemberg deve dire quello che gli dice di dire il Presidente del

Baden-Württemberg perché non rappresenta i partiti del Baden-Württemberg ma rappresenta lo

Stato, il Land.

Si potevano fare altre cose, il fatto di non averne realizzate alcune ha creato dei piccoli pasticci, uno

dei quali è la separazione delle materie legislative tra quelle che sono della Camera, quelle che sono

di Camera e Senato insieme, e di come possono lavorare insieme, perché c’è anche la possibilità che

non si mettano d’accordo, che ci sia conflitto su quali sono queste materie, e allora si ricorre ai due

presidenti di Camera e Senato che si presume riescano a mettersi d’accordo, però potrebbero anche

non riuscirci. Onestamente l’articolo 70 è molto complesso, come anche nella Costituzione tedesca:

separare ciò che è comune a tutte e due le Camere da ciò che non lo è, è complicato. Funzionerà?

Questo è un punto interrogativo onestamente.

Io sono dell’idea che il bicameralismo paritario sia e sarà – anche se questa riforma non passasse –

comunque da superare, perché è effettivamente arcaico, non ha senso, non funziona.

Oggi noi ci troviamo ad approvare o a respingere un testo Costituzionale che prevede norme

specifiche sulle quali dobbiamo dare un giudizio. Dobbiamo mettere insieme l’ambizione corretta,

la speranza del cambiamento, con la valutazione il più possibile attenta del modo in cui il

cambiamento sarà introdotto.

Domanda: Mi chiamo Alberto e faccio l’imprenditore. La mia domanda esula dagli aspetti più

tecnico-costituzionali, ma parte dall’osservazione del mondo delle imprese e del lavoro, in

particolare, e dalla situazione economica e sociale che stiamo vivendo oggi. La mia domanda per

altro parte dall’incipit del volantino che è stato letto, cioè una ripresa stentata, debole, difficoltà per

l’impresa a crescere, a volte a sopravvivere, e una disoccupazione ancora alta. In questo contesto,

un assetto costituzionale e istituzionale di un certo tipo o un altro, dal vostro punto di vista, che tipo

di impatti, di conseguenze, di legami principali può avere sulla situazione economico-sociale di

oggi e sulla competitività del Paese?

Domanda: Io sono Angelo, studio Giurisprudenza in Statale. La mia domanda verte sul tema dei

catastrofismi opposti che si rivelano delle esagerazioni. È chiaro che al referendum è attribuito di

questi tempi una valenza estrema; questo rivela una debolezza della nostra politica che proietta la

risoluzione di tutti i problemi legandola all’esito referendario e rimanda così l’affronto dei problemi

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concreti, delle difficoltà che già il Paese vive. Ma allora come si può dare al voto, seppur

importante, il giusto peso?

Polito: Io sono molto prudente nello stabilire un nesso di causa-effetto fra referendum e situazione

economica del Paese. Non è che non veda la convenienza di avere un Parlamento che funziona

speditamente, senza intoppi, o un governo che dura più a lungo di quanto sono durati mediamente i

governi della Prima, e anche della Seconda Repubblica (i governi della Seconda Repubblica sono

durati molto, in condizioni di stabilità elevatissime: il governo Berlusconi è nato nel 2008 ed è

durato fino al 2011, quindi la durata dei governi non dice tutto). Io vedo tutto, però guardate: l’Italia

è cresciuta negli ultimi vent’anni a un ritmo dello 0,46% all’anno. Questo non ha a che fare

esclusivamente, o neanche troppo direttamente, con il modo in cui si fanno le leggi; anche perché, a

mio parere personale, le leggi sono poco rilevanti ai fini dell’economia, che viene fatta dai soggetti

economici, dalle famiglie con le loro scelte di consumo e di investimento, dalle aziende, dai

lavoratori… La politica può, semmai, creare un ambiente favorevole, o nella peggiore delle ipotesi

neutro, alla crescita economica, all’iniziativa, all’intrapresa; tanto è vero che sono tre anni che

facciamo delle finanziarie di stimolo, o “espansive” come vengono dette, per spingere la crescita

economica, eppure la crescita langue. Quindi non sono molto d’accorto nello stabilire un nesso

diretto tra la riforma costituzionale e la crescita economica anche se, naturalmente, non mi sfugge il

fatto che un sistema un pochino più rapido, efficiente e sicuro certamente è un fatto positivo.

Infine, come fare a non cadere in questa trappola degli opposti estremismi? Facciamo così, come

stiamo facendo stasera, come hanno detto sia Vittadini che Violante, il quale ha detto molto bene:

noi dobbiamo oggi creare le condizioni del 5 dicembre, oggi dobbiamo creare le condizioni nella

nostra vita, nei rapporti che abbiamo, nelle persone che incontriamo, perché questa scelta non sia

vissuta come un’ordalia, come un giudizio di Dio, come la fine del mondo se vince il mio

avversario. Questa è, purtroppo, un’abitudine del nostro dibattito pubblico, in cui onestamente i

media giocano molto su questa cosa. Come possiamo fare? Argomentando, semplicemente

provando a fare i discorsi che si sono fatti stasera qua, vedendo che se vince il “Sì” ci saranno un

sacco di cose da sistemare perché l’Italia si rimetta in piedi, e se vince il “No” ugualmente ce ne

saranno tante da correggere, da innovare e da cambiare.

Violante: Sono d’accordo con Antonio Polito. Un imprenditore quando deve impiantare qualcosa di

produttivo in un Paese, si informa, per prima cosa, se i governi sono stabili, se le leggi sono stabili,

se gli interlocutori sono chiari. Altrimenti va da un’altra parte. Laddove i governi cambiano con una

certa frequenza, laddove le leggi non sono chiare, laddove gli interlocutori sono tanti, non si

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incentiva l’insediamento di apparati produttivi. Queste sono cose di fondo che ciascuno di noi può

capire. Cito due esempi che riguardano il turismo. Uno è questo: c’è stata recentemente a Shangai

una mostra dell’alimentazione, naturalmente c’erano il padiglione francese e quello italiano. Il

padiglione francese tra i vini aveva messo solo il Bordeaux, perché c’è una politica del turismo che

è nazionale. In Italia, dove la politica del turismo è regionale, ciascuna regione ha portato il suo

vino, c’era il Barolo, c’era il Vermentino, il Sassella, ecc. I cinesi, che non sanno che differenza

passa fra un Verdicchio e un Barolo, hanno comprato il Bordeaux, quello almeno sapevano cosa

fosse e noi abbiamo riportato indietro il vino.

Graziano Delrio diceva l’altro giorno in un’intervista alla Stampa, che esiste un tratto di una strada

che per un pezzo è nazionale, un pezzo provinciale, un pezzo regionale. Cioè per aggiustare quella

strada devono intervenire tre soggetti, non so se si aggiusterà mai…

Io credo che l’assetto istituzionale se stabile, se rapido e se concentrato nei soggetti interlocutori,

favorisce lo sviluppo. Se i governi sono instabili, le leggi sono confuse, gli interlocutori sono troppi,

questo meccanismo certamente non favorisce lo sviluppo. Questa è la mia opinione.

Poi devo dire che conta molto nel sistema globale la reputazione dei Paesi. Guardate che grande

valore della modernità è la reputazione delle persone e dei Paesi. Un Paese che cambia troppo

spesso ministri e governi, che non riesce ad avere leggi serie e sistemi decisionali rapidi, non ha

reputazione. È una specie di Disneyland: vado lì, mi diverto, c’è il sole, il mare, ma quando c’è da

lavorare vado da un’altra parte. La reputazione è molto legata al sistema istituzionale. D’altra parte

per quale motivo ci sono i cervelli italiani in fuga? Significa che il sistema della formazione italiana

funziona. Perché altrimenti ci sarebbe la fuga, ma li rimanderebbero indietro, invece li tengono. Mi

diceva un amico americano: “Spiegatemi per quale motivo voi avete una ottima scuola elementare,

una buona scuola media, dei buoni licei, alcune ottime università, formate tutti questi ragazzi,

spendete un sacco di soldi e poi ce li mandate. A noi va benissimo, perché non spendiamo una lira

per formarli e prendiamo i loro risultati e ci teniamo le loro capacità, ma mi sembra un po’

sconveniente da parte vostra…”. Le qualità le abbiamo, ma è il sistema complessivo che deve

funzionare. Da questo punto di vista io credo che la questione istituzionale ha una sua importanza.

Quanto al problema delle riforme, a come dare il giusto peso e così via. Io credo che ciascuno

deciderà nella sua coscienza cosa fare, cosa secondo lui è più utile, più giusto; io ribadisco molto in

questa fase la necessità di avere l’orecchio attento alle ragioni degli altri. Ricordo una famosa

espressione di Nilde Iotti, nel primo discorso che fece e che mi colpì molto, disse: “Fare politica

significa capire le ragioni degli altri”. Ecco io credo che in questa fase dovremmo stare attenti a

capire le ragioni degli altri, non è possibile che la ragione stia solo dalla nostra parte, non è possibile

che il torto sia solo dalla parte degli altri, non è statisticamente possibile. Allora bisogna cercare di

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capire bene e ascoltare, e credo che questa sia la strada che possa aiutarci a comprendere meglio le

questioni di fronte alle quali ci troviamo.

Infine, se qui c’è qualche sostenitore del “Sì”, io sono abbastanza preoccupato, e vi spiego perché:

quando ero appena entrato in Parlamento mi mandarono a fare dei comizi. Incontrai Giancarlo

Pajetta, che mi chiese dove stessi andando. Gli dissi che stavo andando a fare un comizio. E lui:

“Sta attento ai comizi, sono pericolosi. Perché siccome vengono a sentirti solo quelli che la pensano

come te, l’unico effetto che puoi avere è che fai cambiare idea a qualcuno, per il resto non cambia

assolutamente niente”.

Vittadini: Vorrei concludere l’incontro fissando i principali punti emersi e facendomi aiutare dal

volantino di Comunione e Liberazione. Oltre la logica del disimpegno e dello schieramento, è il

primo punto. Abbiamo sentito stasera il ruolo e il valore dei partiti politici. Che valore hanno

adesso, quando schierarsi non è più così automatico come una volta? Come fare a non cadere nel

disimpegno, pur tenendo presente le criticità che essi presentano? Penso che questa sera sia emersa

con chiarezza la risposta: continuando a informarsi in modo critico, costruendo pian piano una

posizione, seguendo un percorso di conoscenza, senza voler riaffermare a priori un’idea

precostituita. Il che non significa non avere un’idea, ma vuol dire ampliare il proprio orizzonte

conoscitivo, mantenere la curiosità di sapere, come è accaduto stasera, cose che non sappiamo. Un

desiderio che diventa incontro continuo e usa tutti i giorni fino al 4 dicembre percorrendo questa

strada. Questo non è individualismo, ma affermazione di un legame, perché ci si lega a quello che si

ha davanti, con cui ci si confronta. Personalmente sono anch’io molto colpito, perché mi colpiscono

le idee buone, ma soprattutto mi affascina conoscere. Se non avessimo avuto il referendum, non

avremmo conosciuto gli argomenti di stasera ed è importante vivere sapendo, conoscendo. Quindi

questo è un percorso che stasera si apre, ma spero che diventi un metodo.

Secondo, la necessità del cambiamento. Io penso che stasera abbiamo avuto due punti metodologici

fondamentali. Il primo: l’idea secondo cui partiti e posizioni schierate possono amare la logica del

compromesso per un bene comune. Si può non essere generici, avere delle idee diverse, ma cercare

continuamente una mediazione, non come “inciucio”, ma come ricerca del bene comune. Il

compromesso è l’intelligenza, come diceva Violante, di capire che l’altro è un bene, che ha

qualcosa da dire e che, giudizio sulla Seconda Repubblica, un partito che va al potere deve

rappresentare e servire l’istituzione, non solo la sua parte. Questo è l’errore metodologico grave di

tutti quelli che si sono succeduti al potere nella Seconda Repubblica. Allora questo primo aspetto

del vivere insieme mi sembra fondamentale.

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Il secondo aspetto entra nel merito del referendum: la questione della governabilità, il bipolarismo

non paritario e il tema del rapporto Stato-regioni. Stasera abbiamo visto che entrambe le questioni,

se non hanno dietro delle forze politiche che convergono al bene comune, non sono risolte da

soluzioni tecniche. Sia che vinca il “Sì” sia che vinca il “No”. Tra l’altro pensate ai referendum del

1991 e del 1993: si è deciso questo bipolarismo come forma maggioritaria, perché si voleva la

governabilità; abbiamo avuto i 20 anni più ingovernabili da sempre.

Come anche il tema Stato-regioni, altro tema caldo, soprattutto in un ambiente come il nostro:

abbiamo capito oggi che non c’è il bianco e il nero. Puoi dare potere alle regioni e ucciderle, e

dall’altra parte, invece, puoi ri-accentrare il potere nell’apparato statale e non avere unità. Bisogna

avere intelligenza, cominciare a ragionare, in qualunque modo. Se c’è una regione che spende il

5,8% in sanità, e un’altra che spende il 10%, il problema non è dove sta la sanità, ma che devi

correggere i ladri e gli incapaci, e devi premiare i virtuosi. Quindi occorre saper valutare.

Comunque vada, sia che vinca il “Sì” o che vinca il “No”, c’è bisogno di classi politiche capaci di

convergere in un progetto comune per il Paese, perché c’è un grande bisogno di cambiamento e non

si può andare avanti in un clima in cui appare impossibile muoversi. Anche da questo punto di vista

dobbiamo avere a cuore, nella decisione che prenderemo, il bene comune.

La terza questione, la bellezza dell’aprirsi all’altro, mi sembra che sia sintetizzata da queste frasi

finali: “dobbiamo essere attenti alle ragioni dell’altro”. Anche in tutta la descrizione storica di

Violante e contestuale di Polito abbiamo capito che questa è una grande occasione. Non incideremo

sulla situazione solo votando, ma se contribuiremo a diffondere la stima per il rapporto con l’altro.

Se negli ambienti in cui viviamo riusciamo a trasmettere questo clima fatto di reale confronto, di

desiderio di scoprire le cose, e nello stesso tempo di stima dell’altro, di ascolto, noi avremo, prima

del risultato elettorale, contribuito a dare una svolta.

Da qui si apre il lavoro che porterà ciascuno di noi a votare per un “Sì” o per un “No”, ma questo

periodo diventa fondamentale e forse potremo anche toccare con mano la possibilità che ambienti

inveleniti cambino. D’altra parte, la testimonianza che ci hanno dato Violante e Polito ci dimostra

questo: si può essere uomini pubblici in grado di dare contributi importanti a sostegno del desiderio

di ognuno di costruire il bene comune. Anche il secondo dibattito avrà questo scopo.