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la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 6 APRILE 2014 NUMERO 474 Cult ANG! IL COLPO DI PISTOLA. Cavo- lo, quante cose passano per la testa a un velocista nel- l’arco di cento metri! In ogni gara che ho disputato mi so- no sempre raccontato scioc- chezze. Potrà sembrare strano, perché i cen- to metri volano via in nove secondi e mezzo (dieci se è una giornataccia), ma in quel las- so di tempo riesco a pensare a un mucchio di roba: com’è andata la partenza, se sono par- tito troppo tardi, chi sta davanti a me, se qualcuno dietro sta facendo qualcosa di stu- pido, per esempio cercare di battermi. Sul se- rio, mi passano per la testa un sacco di fesse- rie mentre corro a tutta birra. Pum! Scatto dai blocchi ma Richard Thompson, lo sprinter di Trinidad e Tobago che sta nella corsia a fianco, parte come nes- suno è mai partito nella storia delle Olim- piadi. Porca miseria. Come c’è riuscito?! Ora non so più in che posizione sono, perché lui mi blocca la visuale di Asafa dall’altra parte. SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE IGRI DI TUTTO IL MONDO, consola- tevi. Anche lui sbadiglia, an- che lui se può evita il lavoro, anche lui si sottrae. C’è un Oblomov giamaicano, uno strepitoso numero uno, che va come un razzo. Ma non parlategli di esercizi per gli addominali, non accennate a sacrifici e alla parola fa-ti-ca. Mai, never. È il primo Su- perman svogliato, pauroso, fannullone. Ma un magnifico intrattenitore, sensuale, di- vertente. Ancora single. Un vero amante della notte e dei locali. «Sulla pista mi scate- navo, mi strappavo la camicia e mi lasciavo andare». Vi aspettate un atleta disciplinato, rabbioso, aggressivo? Macché. Relax, be happy. Perché veramente Usain Bolt è un re- cordman diverso. Fast and Fabulous. Nessu- no ha la sua taglia, la sua accelerazione, quel- la falcata da giraffa. 2,77 metri. Gli altri cor- rono i cento in 45 passi, lui in 41. Anche co- me sprinter è atipico, fuori scala: il primo re- cordman alto più di un metro e novanta. SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE L’attualità. Cinque anni dopo. Walter Siti, ritorno a L’Aquila Spettacoli. Maria Callas, lettere inedite alla maestra Next. La supermemoria dei “Google people” USAIN BOLT EMANUELA AUDISIO La copertina. Ecco la nuova macchina del tempo Straparlando. Eugenio Scalfari: “Combatto l’oblio” La poesia del mondo. La solitudine di César Vallejo “Sono io il mio solo avversario” Le confessioni dell’uomo che corre più veloce di tutti Bolt Provate a prendermi B P USAIN BOLT. FOTO LEVON BISS/CONTOUR BY GETTY IMAGES Repubblica Nazionale

la domenica - download.repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2014/06042014.pdf · dopo. Walter Siti, ritorno a L’Aquila ... Grida, si sbraccia, e all’inizio non capisco

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la domenicaDI REPUBBLICADOMENICA 6 APRILE 2014 NUMERO 474

Cult

ANG! IL COLPO DI PISTOLA. Cavo-lo, quante cose passano perla testa a un velocista nel-l’arco di cento metri! In ognigara che ho disputato mi so-no sempre raccontato scioc-

chezze. Potrà sembrare strano, perché i cen-to metri volano via in nove secondi e mezzo(dieci se è una giornataccia), ma in quel las-so di tempo riesco a pensare a un mucchio diroba: com’è andata la partenza, se sono par-tito troppo tardi, chi sta davanti a me, se

qualcuno dietro sta facendo qualcosa di stu-pido, per esempio cercare di battermi. Sul se-rio, mi passano per la testa un sacco di fesse-rie mentre corro a tutta birra.

Pum! Scatto dai blocchi ma RichardThompson, lo sprinter di Trinidad e Tobagoche sta nella corsia a fianco, parte come nes-suno è mai partito nella storia delle Olim-piadi. Porca miseria. Come c’è riuscito?! Oranon so più in che posizione sono, perché luimi blocca la visuale di Asafa dall’altra parte.

SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

IGRI DI TUTTO IL MONDO, consola-tevi. Anche lui sbadiglia, an-che lui se può evita il lavoro,anche lui si sottrae. C’è unOblomov giamaicano, unostrepitoso numero uno, che va

come un razzo. Ma non parlategli di eserciziper gli addominali, non accennate a sacrificie alla parola fa-ti-ca. Mai, never. È il primo Su-perman svogliato, pauroso, fannullone. Maun magnifico intrattenitore, sensuale, di-vertente. Ancora single. Un vero amante

della notte e dei locali. «Sulla pista mi scate-navo, mi strappavo la camicia e mi lasciavoandare». Vi aspettate un atleta disciplinato,rabbioso, aggressivo? Macché. Relax, behappy. Perché veramente Usain Bolt è un re-cordman diverso. Fast and Fabulous. Nessu-no ha la sua taglia, la sua accelerazione, quel-la falcata da giraffa. 2,77 metri. Gli altri cor-rono i cento in 45 passi, lui in 41. Anche co-me sprinter è atipico, fuori scala: il primo re-cordman alto più di un metro e novanta.

SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

L’attualità. Cinque annidopo. Walter Siti,ritorno a L’AquilaSpettacoli.Maria Callas, lettereinedite alla maestraNext. La supermemoriadei “Google people”

USAIN BOLT EMANUELA AUDISIO

La copertina. Ecco la nuova macchina del tempoStraparlando. Eugenio Scalfari: “Combatto l’oblio”La poesia del mondo. La solitudine di César Vallejo

“Sono io il mio solo avversario”Le confessioni dell’uomo che corre più veloce di tutti

BoltProvate

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Repubblica Nazionale

la RepubblicaDOMENICA 6 APRILE 2014 26LA DOMENICA

ENGO GLI OCCHI FISSI su di lui per tutto il tempo, mentre distendo le gambe al termine del-la fase di spinta. Faccio uno, due, tre passi e poi inciampo — metto male un piede e mipiego verso destra — ma mi riprendo in fretta e mantengo la freddezza. Mi era già ca-pitato di partire male o di commettere errori nei primi venti metri, quindi non perdo lacalma. Niente panico. Finisci l’accelerazione e poi rilassati. Rilassati, rilassati, rilassa-ti. Dove cavolo è finito Asafa? Tutti gli altri sono lì. Non capisco, come fa a non essere lì?Verso i settantacinque-ottanta metri do un’altra occhiata. Anzi, mi giro proprio a guar-dare. Devo sapere dov’è Asafa. Dove sei, fratello? Sei tu il favorito, ora che Tyson è fuo-ri. Che combini? Devo continuare a correre o posso rilassarmi? Poi capisco. Oh cacchio...sto per vincere! Perdo completamente la testa, anche se mancano dieci metri al tra-guardo. Alzo le mani e mi batto il petto: impazzisco, so che nessuno può raggiungermi.È fatta, sono il campione olimpico.

Subito dopo è il caos, proprio come a New York. Mi volto e vedo Asafa che è arrivato quinto, e gli altri che cerca-vano di raggiungermi mentre correvo intorno alla pista con un dito puntato verso il cielo. Corro verso gli spalti. Unafolla di fotografi si raduna intorno alla ricerca dello scatto perfetto. Tiro indietro il braccio come un arciere che ten-de l’arco e lo punta verso il cielo: mimo un fulmine in onore del mio primo oro olimpico. I flash scattano in contem-poranea, sono circondato di gente. I tifosi cercano di toccarmi, ma in tutto quel rumore riesco a sentire mia madreche mi chiama per nome. Vedo il suo volto tra la folla: trabocca d’orgoglio. La raggiungo. «VJ! VJ!» grida tirandomia sé e mi consegna una bandiera della Giamaica. Faccio un passo indietro, temo che mi scoppi il cuore. «Ehi, sono ilnumero uno». Vorrei fare un altro giro di pista ma un tizio continua a tirarmi per la canotta.

Grida, si sbraccia, e all’inizio non capisco cosa voglia. Ma poi le sue parole mi colpiscono come un gancio diMohammed Ali. «Usain, vieni a fare una foto col cronometro e il nuovo record del mondo».

Non avevo pensato minimamente al tempo. Mi eroconcentrato solo sulla vittoria: al tempo ci avrei pensatodopo. Non avevo neppure guardato il cronometro, unenorme display a fondo pista, ma ora lo guardo: e lì, ac-canto alla mia faccia proiettata sul maxischermo men-tre tagliavo il traguardo — gioia, sudore e un grido di vit-toria — c’è il tempo: 9”69.

Nuovo record del mondo. Pechino 2008.Però! Non ricordo cosa ho pensato in quel momento.

Cosa pensa un atleta quando migliora il proprio recorddel mondo in una finale olimpica? «Wow», forse, più tut-ta una serie di emozioni che poi non ricorderà più.

“FACCI IL FULMINE”Quando tornai al villaggio olimpico ebbi il primo indi-

zio del fatto che la mia vita era cambiata completamen-te. Quando l’auto in cui viaggiavo accostò davanti all’e-dificio della Giamaica, vidi che all’ingresso c’era un muc-chio di gente. All’inizio pensai che fosse un’esercitazio-ne antincendio o qualcosa del genere, erano tutti in stra-da ad aspettare chissà cosa.

«Ma che succede?» chiesi a Ricky.«Credo che siano qui per te, Usain», disse lui.Aveva ragione. Quando scesi dall’auto, la folla ci ven-

ne incontro urlando e chiedendo foto e autografi. Volon-tari, atleti, amici degli atleti, chiunque: tutti con carta epenna, tutti che gridavano «Foto! Foto!». Non ci capivopiù niente. Qualcuno strillò: «Fai la posa del LightningBolt!».

La mia vita era cambiata per sempre.Dopo il record del mondo nei 200, fotografi e tifosi ini-

ziarono a chiedermi quella posa. Ogni volta che tiravo in-dietro un braccio e con l’altro indicavo il cielo, il pubbli-

co andava in visibilio. Era bello sapere di poter alzare ilvolume di un intero stadio con un semplice movimentodelle dita.

Quella posa finì sulle copertine di tutte le riviste e sul-le prime pagine dei giornali. Col passare dei giorni vidifotografie di gente in tutto il mondo che imitava la miamossa. Scalatori che indicavano il cielo dalla vetta dellemontagne, escursionisti nella giungla amazzonica chesi mettevano in posa per gli amici a casa. Persino geni-tori che fotografavano i bambini mentre facevano il “Li-ghtning Bolt” nella culla. Credetemi, meraviglioso.

QUESTIONE DI PANCIALa mia scuola elementare, la Waldensia Primary

School di Sherwood Content, una piccola città del di-stretto di Trelawny, è il palcoscenico che ha ospitato lamia prima grande sfida. Avevo otto anni ed ero un ra-gazzino allampanato che correva sempre e non stava

mai fermo un momento. Stranamente, però, per quan-to corressi di qua e di là, il mio potenziale sulla pista diatletica è emerso solo quando se ne accorse uno degli in-segnanti: Mr Devere Nugent, che era un sacerdote maanche un appassionato di sport. Fu allora che Mr Nugentfece ricorso a un sotterfugio e decise di corrompermiprendendomi per la gola. «Bolt, se riesci a battere Ricar-do nel campionato scolastico ti regalo un pranzo in sca-tola», disse, ben sapendo che per conquistare il cuore diun ragazzino bisogna passare per lo stomaco. Adesso sìche si ragionava. Un pranzo in scatola era roba seria: pol-lo in salsa jerk giamaicana, yam arrosto (cioè le nostrepatate dolci), riso e piselli. All’improvviso avevo un in-centivo a gareggiare, c’era un premio in palio e il pen-siero di aggiudicarmelo mi riempiva di entusiasmo, co-me l’emozione di mettermi alla prova in un grande cam-pionato.

IL SOLE LIQUIDOAbitavamo a Coxeath, un paesino non lontano dalla

Waldensia Primary School e da Sherwood Content: erabellissimo, immerso nel verde e circondato da boschi ri-gogliosi. Era una zona poco popolata, con una o due caseogni tre-quattrocento metri, e la nostra era una casasemplice, a un solo piano, che mio papà aveva preso in af-fitto. I ritmi di vita erano lentissimi, passavano pochemacchine e la strada era sempre vuota. La cosa più simi-le a un ingorgo stradale a Coxeath era quando un amicoti vedeva passare e usciva in strada per salutarti. Per far-vi capire quanto fosse isolato quel posto, sappiate che al-l’epoca lo chiamavano Cockpit Country, un nome che ri-corda i combattimenti tra i galli, perché in passato era

stata una roccaforte dei maroon, gli schiavi fuggiti dalleIndie occidentali che si erano stabiliti in Giamaica nelSettecento, che da lì, in epoca coloniale, sferravano at-tacchi alle fortificazioni degli inglesi. Se la vita di quellepersone non fosse stata così violenta, Coxeath eSherwood Content sarebbero stati un luogo idilliaco: c’e-ra sempre il sole, faceva caldo, e anche le nuvole non de-stavano preoccupazione. Ricordo che chiamavamo lapioggia «sole liquido».

Mi piaceva stare all’aria aperta, andare a caccia,esplorare e correre a piedi nudi. Quelle foreste poteva-no sembrare inquietanti agli estranei, ma per un bam-bino erano un luogo sicuro. Non c’era criminalità e nonsi annidava nessun pericolo tra le canne da zucchero. Sì,c’era un serpente, il boa giallo giamaicano, ma era in-nocuo, anche se tutti si spaventavano se ne vedevanoentrare uno in casa. Una volta sentii dire che un tizio ave-va ucciso un boa con un machete, ne aveva gettato lacarcassa in strada e poi, per assicurarsi che fosse morto,

“Che diavolo mi passa per la testa mentre volo?”

Il fenomeno dell’atletica si confessa in una biografia

tra ricordi d’infanzia e nuovi traguardi

USAIN BOLT

Tutto iniziòinseguendo

polli in scatola

2002

A 16 ANNI E 200 GIORNI È IL PIÙ GIOVANECAMPIONEMONDIALEJUNIORES DEI 200

2007

DOPO ATENE 2004(ELIMINATO), È MEDAGLIAD’ARGENTO AI MONDIALI DI OSAKA NEI 200

2008

UN FULMINEA PECHINO: ORO E RECORD DEL MONDOSIA NEI 100 (9”69)CHE NEI 200 (19”30)

2009

BIS AI MONDIALI DI BERLINO: ORO E RECORD(ANCORA VALIDI)NEI 100 (19”59)E NEI 200 (19”19)

2011

ORO NEI 200AI MONDIALI DI DAEGUNEI 100 VIENESQUALIFICATOPER FALSA PARTENZA

2012

SECONDA DOPPIETTAOLIMPICA: A LONDRA ORO NEI 100 E NEI 200

2013

DOMINA ANCORA I MONDIALIA MOSCANEI 100 E 200

IL PICCOLO USAIN CON LA SORELLA CHRISTINE E IN GARA, A 16 ANNI

HA GIÀ FATTOQUELLO

CHE NESSUNO ERA RIUSCITO A FARE PRIMANELLO SPORT

MA IL SUOPROSSIMOOBIETTIVO

È UN ALTRORECORD

ALLE OLIMPIADIDI RIO DEL 2016.

POI SARÀSOLO FESTA

La copertina. Usain Bolt

<SEGUE DALLA COPERTINA

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Repubblica Nazionale

la RepubblicaDOMENICA 6 APRILE 2014 27

Mai vistoun Supermancosì pigro

CARL LEWIS era 1,88, Borzov 1,80,Owens 1,78, come Mennea,Greene 1,75 metri. Per questoBolt parte male, troppo corpo dadistendere. Poi però viaggia incorsia di sorpasso. Bolt è onesto,ammette i suoi difetti. «Non

avevamo l’acqua corrente e Pa’ voleva dessi unamano. Dovevo andare al ruscello a riempire i secchiper portarli fino a casa. Per un totale di 48 viaggi.Non ne avevo voglia e per non sprecare tempoiniziai a riempire due secchi per volta, un truccoper faticare meno. Ben presto mi ritrovai con imuscoli ben sviluppati, senza bisogno di andare inpalestra. Assurdo: la mia pigrizia mi rendeva piùforte». Usain è fatto così: dategli una pista, musicada mettere di notte, e vedrete che si animerà.Indispettite il suo orgoglio e lui tornerà a lucidarlo.Perché quando si tratta di correre Bolt non è più unfannullone vanitoso, ma un gigante della velocità,il dio dello sprint, ingoia i metri con una frettapazzesca. Recordman dei cento, duecento metri,staffetta. Sei ori olimpici, si è ripetuto dove nessunoera mai riuscito prima. Pure con le scarpe slacciate,pure sbirciando (troppo) ai lati. Una sua falsapartenza ha fatto storia e prime pagine. Boltscherza, gioca, sorride. Si diverte e si rilassa: staycool. Intrattiene il pubblico, rende l’atletica unospettacolo da one man show, non strapazza solo iltempo, ma tutta un’etica dello sport e anche certistereotipi culturali. Ai Mondiali di Berlino (sì, inquello stadio) tutti i bambini tedeschi, biondi e congli occhi azzurri, si sono dipinti il viso di nero. Perassomigliare a Bolt, eroe nero, bello, vincente.Usain contagia: non ha rabbie da smaltire, vuolesolo correre, ballare, divertirsi. La vita da sportivolo annoia. Ma Bolt sa riflettere. «La sconfitta ai Trials da Blake,mio compagno di squadra, mi ha aperto gli occhi,mi ha fatto capire che dovevo essere più serio,allenarmi meglio. Dopo aver visto il replay dellagara mi è venuto il malumore, anche per la suaarroganza, e non gli ho rivolto la parola per un paiodi giorni. Potete dire quello che vi pare, ma agliappuntamenti importanti io ci sono sempre evinco».Bolt è un brand mondiale. Il suo gesto di lanciareuna saetta con posa classica da Bronzo di Riace èfinito sui muri del mondo. Dai writers di periferiaalle gallerie d’arte. La sua è una felicità da diecimilioni di dollari l’anno. Nessuno sprinter ha maiincassato tanto. Quando smette di correre, la genteesce dallo stadio. No Bolt, no party. È a lui che sichiedono nuovi miracoli: un 9”49 sui 100 e meno di19” sui 200. Anche se individualmente nonmigliora un record da cinque stagioni. E saràsempre più una leggenda se comanderà lo sprintanche a Rio 2016. Avrà trent’anni. Lui giura: il miotempo non è ancora finito. Ma da molto è alle presecon guai fisici (alla schiena) che lo tormentano ed èin cura a Monaco. Vive sulla collina sopra Kingston,protetto da guardie del corpo. Ha assunto un cuocoper non mangiare schifezze, ed evitare abbuffatedell’adorato pollo fritto. Non fa mai polemiche, nési butta in argomenti scottanti. Ma da lassùnessuno riesce a sloggiarlo. È il più grande. Nonmale per uno svogliato che se la dava a gambe perevitare gli scapaccioni. E che all’allenamentopreferiva la sala giochi. Alla fine i pigri, per evitarela fatica, corrono sempre più avanti di tutti.

l’aveva investito con la macchina e gli ave-va dato fuoco. Queste erano le tecniche di di-sinfestazione in uso a Trelawny.

LA MIA STRANA FAMIGLIAAdesso vi racconto com’è fatta la mia fa-

miglia. Ho un fratello minore, Sadiki, e unasorella maggiore, Christine, ma abbiamotutti madri diverse. Potrà sembrare strano,ma a volte in Giamaica le famiglie sono così.Pa’ ha avuto figli con altre due donne, e quan-do sono nato io i miei genitori non erano spo-sati. Ma per la mamma non è mai stato unproblema, perciò quando Sadiki e Christinevenivano a stare da noi a Coxeath, lei li acco-glieva come fossero figli suoi. Anche quandosono cresciuto e ho iniziato a riflettere sul-l’amore e sul matrimonio, la nostra situazio-ne familiare non mi è mai sembrata strana.Alla fine mamma e papà si sono sposatiquando avevo dodici anni, e a irritarmi erasolo il fatto di non essere stato scelto comering boy, l’equivalente del testimone dellosposo. Volevo essere io a consegnare l’anelloa papà durante la cerimonia, ma quell’ono-re toccò a qualcun altro del paese, forse per-ché io ero troppo piccolo. Non mi ha mai da-to fastidio l’idea di avere un fratello e una so-rella con madri diverse: mi sembrava una co-sa naturale. Comunque, in famiglia siamomolto aperti sul tema delle relazioni e delleamicizie, non siamo per niente bigotti e cipiace parlare di questioni personali. Coi mieigenitori non ci sono tabù, e ormai durante letelefonate ho imparato ad aspettarmi chesalti fuori l’argomento della loro vita ses-suale, soprattutto se a parlare è papà. È as-surdo. Magari stiamo discutendo di tutt’al-tro — del tempo o di macchine — e lui riescechissà come a spostare il discorso sul sesso.Ricordo che una volta stavo parlando al te-lefono con entrambi, col vivavoce, e ho det-to: « Yo, Pa’, come ve la passate?». E lui è par-tito subito per la tangente. «Ciao, Usain. Quiè tutto ok, io sto bene, tua madre pure... Or-mai non facciamo altro che divertirci a let-to...». Da non crederci. Non volevo neancheimmaginarmela quella scena. «Cosa?! Mam-ma, digli di smettere!».

IO SONO UNA LEGGENDAVoglio correre veloce ancora per un altro

paio d’anni. Voglio spingermi al limite. Senon riesco a migliorare il mio record sui 100metri, vorrei poter correre in diciotto secon-di e qualcosa nei 200, anche solo 18”99. Al-tro che Olimpiadi e medaglie, battere quelrecord sarebbe un successo ancora più gran-de. Mi piacerebbe sapere che la gente restaa bocca aperta davanti al televisore quandomi vede. Per arrivare a quel risultato mi ser-virebbe una stagione perfetta, come quellache ho avuto nel 2008. Anche se la finestradelle opportunità si fa sempre più piccola.Più invecchio, più la finestra si restringe epiù diventa difficile raggiungere la formaperfetta in previsione di una gara importan-te. Ma a giudicare da ciò che sono stato ca-pace di fare in passato, non penso che sia unobiettivo irrealistico nella prossima stagio-ne o giù di lì. Seriamente, qualcuno si stupi-rebbe se ci riuscissi? Chi può impedirmi dicorrere più veloce? L’unica persona in gradodi battermi nei prossimi due anni sono io, eio sono un fenomeno, un rivale da temere,una leggenda per la mia generazione.

Potete contarci: il mio tempo non è anco-ra finito.

Traduzione di Ilaria Katerinov © Usain Bolt 2013 - Edizioni Tre60

© 2014 TEA S.p.a., Milano

© RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA

CON GLI AMICI A KINGSTON, A 17 ANNI, E A PARIGI (LE DUE FOTO AL CENTRO SONO DI MARK GUTHRIE)

IL LIBRO

IL TESTO DI BOLT E LE FOTOPICCOLE IN BASSO

SONO TRATTE DA COME UN FULMINE.

LA MIA STORIA DI USAIN BOLTCON MATT ALLEN

IN LIBRERIA DAL 17 APRILE (TEA, 272 PAGINE,16 EURO)

EMANUELA AUDISIO

<SEGUE DALLA COPERTINA

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Repubblica Nazionale

Cinqueannidopo

ieri APRILE 2009 I SEGNI DEL TERREMOTO IN PIAZZA SAN MARCIANO

nalmente le gru, qualche bar ha riapertoe a mezzogiorno c’è il pieno degli operaiche si mangiano un panino. Impacchet-tati in varie forme, i palazzi assomiglianoa un complicatissimo meccano. La sera,soprattutto nel fine settimana, centinaiadi ragazzi occupano le strade e le piaz-zette, mangiano la frittata del Boss e sibevono un mojito da Farfarello. Alcuniadolescenti hanno preso l’abitudine diforzare le transenne per organizzare fe-sticciole nelle case disabitate o nei nego-zi vuoti, come se giocassero al covo dei pi-rati o alla casa sull’albero. Sono stati i ra-gazzini (quelli che al tempo del terremo-to avevano tredici-quattordici anni) ariappropriarsi per primi del centro. Poi sistancano, è ovvio, perché è comunque de-primente passeggiare tra ponteggi e sa-racinesche abbassate, trovarsi il passosbarrato appena si esce dalle vie princi-pali, vedere dovunque militari che (for-tunatamente) controllano. Sul Corso c’èuna grande foto con la distesa delle bare.Una copisteria sventrata ha ancora il ca-lendario appeso col foglio di aprile 2009.Quel che c’era da prelevare dalle case èstato prelevato, con o senza autorizza-zione; a spiare dalle finestre o dai portoni

socchiusi si intravedono gli interni fitti ditubature come polli farciti. Tutto è stipa-to ma pulito, le impalcature brillano allaluce della luna, tutto è pronto per partire;«Abbiamo perso tre anni», mi dice un do-cente, «così doveva essere nel 2011».

Tra il 2011 e il 2012 c’è stata la grandedepressione: finita l’adrenalina dell’e-mergenza col naturale corollario di un pa-triottismo reattivo («han passato la vitaa parlar male dell’Aquila, che se ne vole-vano andare a tutti i costi, e mo’ gli ha pre-so la passione di riaverla»), lo scontropermanente tra enti locali e protezione ci-vile aveva creato una situazione di insop-portabile immobilità. Chi poteva trovavasoluzioni fuori: a Roma, a Pescara, do-vunque pur di non assistere all’agonia.Una finanziaria pensò di sfruttare il mo-mento speculando sul desiderio di fuga:compriamo a poco, accediamo ai fondiper la ricostruzione e vendiamo a molto.Ma non ha funzionato granché, gli aqui-lani alla fine si sono mostrati restii a ven-dere: i benestanti soprattutto, quelli del-le seconde e terze case, hanno potuto per-mettersi di aspettare. Chi di case ne ave-va una sola, invece, è rimasto strozzato

L’AQUILA

ERO STATO A L’AQUILA nell’estate del 2011 e neavevo ricavato un’immagine tragica: in piazzadel Duomo a mezzogiorno stagnava un silenzioirreale, solo il clèng di un’imposta che periodi-camente batteva sul ferro d’una grondaia —mancavano i cespugli spinosi rotolati dal ventoe saremmo stati in pieno western, quando ilcowboy entra nel villaggio abbandonato. L’er-ba cresceva alla base dei portici. M’ero fatto l’i-dea che il centro non sarebbe rinato mai più, an-

zi che non avesse più voglia di rinascere; un mio ex studente, alla frase conformista«un capoluogo di regione non può morire», aveva risposto «perché no? adesso c’è in-ternet… ci servono case, centri commerciali, strade a scorrimento veloce, ma che cene facciamo di una città?». Un embrione di metropoli diffusa senza metropoli: questosembravano, arrivandoci di sera, i diciannove insediamenti periferici che avevano so-stituito il primitivo progetto dell’Aquila 2 — un mare di luci con un buco nero in mez-zo. Tra le “casette di Berlusconi” gli anziani si lamentavano che non ci fosse tessuto so-ciale, rassegnati a non vedere mai più l’Aquila a cui erano abituati («facciamo in tem-po a morire dieci volte»).

Ora, a quasi tre anni di distanza, l’impressione è stata diversa e devo fare ammen-da del mio pessimismo apocalittico: qualcosa si sta muovendo, nel centro si vedono fi-

Due fotografi e uno scrittore

che qui ha insegnato per vent’anni

raccontano la città colpita

dal terremoto.E che ora, forse,

verrà salvata dai ragazzini

WALTER SITI

C’ieri LA CHIESA DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE DI PAGANICA DOPO IL SISMA

ieri UNA DELLE IMMAGINI SIMBOLO DEL TERREMOTO DI CINQUE ANNI FA

ieri TRANSENNE E MACERIE SU PIAZZA SANTA MARGHERITA

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la RepubblicaDOMENICA 6 APRILE 2014 28LA DOMENICA

L’attualità. 6 aprile 2009

Ritornoa L’Aquila

GIANNI

BERENGO

GARDIN

HA RACCOLTOLE FOTOGRAFIE

FATTE A L’AQUILATRA IL 1995 E IL 2011

IN UN LIBRO EDITODA CONTRASTO

(L’AQUILA

PRIMA E DOPO).IN QUESTE PAGINE

SONO SUELE IMMAGINI

IN BIANCO E NERO(IERI)

Repubblica Nazionale

oggi APRILE 2014 SULLA STESSA PIAZZA LA FONTANA TRANSENNATA

la RepubblicaDOMENICA 6 APRILE 2014 29

dai ritardi: hanno i soldi in banca, cioè ilconsorzio a cui appartengono ha già i sol-di stanziati ma non può spenderli. Tecni-ci e politici non riescono a decidere se, perle abitazioni del centro, convenga abbat-tere e ricostruire salvando gli elementiarchitettonici di pregio, oppure restau-rare l’esistente, con una spesa maggioree minore garanzia di anti-sismicità. Tute-la identitaria contro sicurezza, e mentresi dibatte molti ex residenti sono arrivatiall’esasperazione. Ho detto che qualcosasi sta muovendo, ma certo non senza con-traddizioni e lungaggini ingiustificate.

Non c’è aquilano che non abbia un epi-sodio di corruzione da raccontare, o unastoria di ripicche, meschinità e privilegi.Scelte arbitrarie al momento dell’espro-prio dei terreni agricoli, vendette consu-mate a spese del vicino o del concorrente;aziende amiche favorite nell’esecuzionedei ponteggi, resistenze campanilistichee vecchie ruggini che hanno impedito agliimprenditori locali di consociarsi; le inca-stellature pagate un tanto a nodo, col ri-sultato che certi portici sembrano un ri-camo di oreficeria; fino agli umanissimitrucchi sullo stato di famiglia per ottene-re una “casetta” più grande. Minime o or-ganizzate illegalità che offendono di piùse si ha l’impressione dell’impasse; le ac-cuse si sommano, incontrollate, le pole-miche fioriscono tanto più veementiquanto più imprecise. C’è un generaleproblema di comunicazione, le autoritàmollano le notizie col contagocce e ognu-no ci aggiunge del suo; l’ansia di chi ti par-la è palpabile, il trauma non è stato rias-sorbito, i danni psicologici a lungo termi-ne sono ancora da misurare. Chi ha vissu-to nelle tende non riesce a tacitare del tut-to il rancore per chi, “beato”, se ne stavanegli alberghi della costa; le solidarietà siincrinano, nei criteri di assegnazione del-le “casette” non veniva contemplata laprovenienza: antichi vicini abitano a ven-ti chilometri di distanza, mentre quellodella porta accanto è uno con cui non ave-vi nessuna consuetudine. È dura, fra i gio-vani è raddoppiato il consumo di alcol, ipusher della droga considerano L’Aquilauna piazza remunerativa.

Vado alla Facoltà di Lettere, tra i colle-

ghi con cui ho lavorato per vent’anni; do-po l’esilio forzato in una sede provviso-ria, ora stanno in un palazzo nuovo e cen-trale le cui fondamenta erano state get-tate prima del terremoto. Anzi la cresci-ta del palazzo, la dedizione di ingegnerie operai, sono state un motivo di conso-lazione negli anni bui, uno spiraglio di fu-turo. Anche qui l’umore è migliorato,pur tra le critiche: al sarcasmo nichilistasi è sostituita una cauta progettualità.«In fondo», mi dice la rettrice Paola In-verardi, «rispetto a un’Italia che decre-sce questo è un territorio in sviluppo». Al-lora perché non trasformare gli studen-ti in costruttori, sostituendo i vecchi ti-rocini con attività extra-scolastiche cheabbiano un rientro economico? Ti ga-rantisco un corso di studi paragonabilein qualità agli altri atenei e in più ti offroun lavoro legato alla ricostruzione, congrandi ditte internazionali: inventa tu,culturalmente, la città che vuoi. Univer-sità, conservatorio musicale, accademiadi belle arti, i fisici del Gran Sasso, coor-dinati per un “incubatore culturale”.Mah. Gli studenti che sostano nei corri-doi non mi paiono immuni dall’inerzia, eil personale amministrativo sarà spiaz-zato da questo pensare in grande. Neglianni scorsi la frequenza è stata viziatadall’abolizione delle tasse universitarie;nel 2010 si sono iscritti a Lettere in 145ma solo 45 hanno terminato il triennio;quell’anno, giustamente, gli studenticostretti a vivere altrove non pagavanoi trasporti e ad alcuni operai (anch’essideportati altrove) è convenuto iscriver-si all’università per non pagare l’auto-bus. Molti adulti, visto che non si pagavaniente, hanno tentato una prima o unaseconda laurea a cui in altre circostanzenon avrebbero pensato. Ma c’è anchequalche novità significativa: si comin-ciano a iscrivere ragazzi coi nomi venetie friulani — figli di piccoli imprenditori,di muratori, elettricisti, idraulici, chequi si sono trasferiti perché sanno che,per quindici o vent’anni, ci sarà lavoro.Certe costruzioni nuove non sono più pergli aquilani. «Risorgerà diversa da comela immaginavamo, ma risorgerà».

ieri e oggi IN PIAZZA PALAZZO POCHI I CAMBIAMENTI

ieri e oggi ANCORA PONTEGGI SOTTO I PORTICI DEL CORSOoggi SONO INIZIATI I LAVORI DI RESTAURO SULLA FACCIATA DELLA CHIESA

oggi L’INGRESSO DELLA PREFETTURA È ANCORA PERICOLANTE

oggi IL PALAZZETTO DEI NOBILI E LA FONTANA SONO RINATI© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Repubblica Nazionale

la RepubblicaDOMENICA 6 APRILE 2014 30LA DOMENICA

NUNALUMINOSAGIORNATAprimaverile di quattro secoli fa, Miguel Cer-vantes si vide recapitato un libro appena stampato a Tarragona. Ilfrontespizio recitava SECONDO TOMO DELL’INGEGNOSO HI-DALGO DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA, che contiene la suaterza uscita ed è la quinta parte delle sue avventure. Cervantes nonsolo non l’aveva scritto, ma non ne aveva mai neppure sentito par-lare. Un impostore aveva dato alle stampe ciò che lui stesso avevapromesso alla fine del primo volume: un seguito del Don Chisciot-te. Aveva addirittura anticipato ai suoi lettori che il Cavaliere dallatriste figura si sarebbe recato ai tornei di Saragozza. Era passato undecennio, e in quegli anni Cervantes aveva scritto, brigato e pubblicatoun po’ di tutto, ma non la continuazione di quel libro burlesco. E ora quello sfrontato

autore dichiarava candidamente che il prosieguo era apocrifo: «Si permette la stampa di tante Ce-lestine, ben si può permettere che vadano per i campi altri Don Chisciotte e Sancio».

Si firmava Alonso Fernandez de Avellaneda, un nome che evocava molte cose ma non ne indi-cava nessuna, proprio come fanno i falsari. La cosa peggiore è che Avellaneda sembrava conosce-re personalmente Cervantes, tanto da prenderlo in giro per la sua più onorata disgrazia: da verozotico, rammentava che lo scrittore non solo era vecchio (Cervantes aveva allora sessantasei an-ni) ma anche invalido. Faceva riferimento a quella mano sinistra che gli era stata storpiata benquarantatré anni prima, quando un soldato musulmano gli aveva tirato una archibugiata duran-te la battaglia navale di Lepanto. Mascalzone, oltre che imbroglione: non sapeva forse che lui si erabattuto come un leone per il loro stesso regno? Chi si nascondeva dietro quel nome?

Cervantes passò tutta la notte a leggere quell’opera borbottando e imprecando. Sembrava di-ventato anche lui pazzo come l’Orlando o, perché no?, come il personaggio bizzarro da lui genera-

Miguel Cervantes(1547-1616)

Scrittore, poeta e militarespagnolo è l'autore del

“Don Chisciotte della Mancia”,capolavoro della letteraturamondiale, che (in due libri)

narra le avventure di Don Chisciotte e Sancio Panza

La storia. Apocrifi

DANIELE ARCHIBUGI

to. A ogni pagina, si ringalluzziva e si maledice-va. Si ringalluzziva perché Don Chisciotte e San-cio Panza mormoravano parole e compivano ge-sta che sorprendevano lui stesso, come figli im-propri che si emancipano dal loro genitore. Quellestofante — pur rendendo Don Chisciotte tal-volta borioso, mentre lui lo aveva modellatobuono, saggio e generoso quando non afflittodal delirio; e Sancio assai più rozzo del suo —aveva non solo amato i personaggi, ma ne ave-va studiato bene l’indole. E, tuttavia, Cervantesrosicava, e tanto. E si malediceva: perché il suoprimo libro aveva avuto successo, e già nel 1605ne erano uscite almeno due edizioni pirata chenon gli erano fruttate il becco di un quattrino.Perché non aveva proseguito su quella strada?Poteva forse giustificarsi con ciò che aveva scrit-to e pubblicato in quel decennio, ma tutto, sì,proprio tutto quel che aveva prodotto avevaavuto meno popolarità del Don Chisciotte. Cer-vantes sapeva che non era con le buffonerie chesi diventa poeta a corte o si ottiene la protezio-ne di mecenati, e quello che si incassa con le ven-dite era sempre troppo poco. Ne poteva scrive-re pure dieci di tomi comici, non sarebbero ba-stati per andare a letto satollo.

A ogni pagina che girava, Cervantes si ripe-teva la stessa domanda: chi è il truffatore? Tro-vava nel libro delle espressioni aragonesi, unasorta di impronta involontaria lasciata dall’i-mitatore. Poteva forse essere Jerónimo de Pa-samonte, suo compagno di armi a Lepanto.Quel Jerónimo aveva scritto una strana auto-biografia che circolava manoscritta, e nella qua-le si era addirittura appropriato delle gesta eroi-che che lui, Cervantes, aveva compiuto a Le-panto. Un imbroglione nato e cresciuto che, perripicca, lo scrittore aveva messo alla berlina nelprimo volume del Chisciotte. Jerónimo si eraforse vendicato per essere stato descritto comeun derelitto galeotto? Gli era, tuttavia, giuntavoce che fosse morto, e da molti anni. E poi, erasì aragonese, ma parlava male e scriveva anchepeggio, mentre al libro che aveva in mano rico-nosceva qualche pregio. Forse il manoscrittoera sopravvissuto alla sua morte, ma chi lo ave-va ripulito e poi consegnato al tipografo? Anchese fosse stato Jerónimo, aveva dovuto avere al-meno un complice per portare a termine l’im-presa postumamente.

C’erano anche, nel libro, ripetuti elogi,espliciti e impliciti, a Lope de Vega. Chefosse stato proprio lui? Ma era difficilecredere che il poeta, tanto acclamato

a Corte, si fosse cimentato con un’opera fasulla.Forse aveva incaricato qualcuno dei suoi nu-merosi giovani e spocchiosi poetastri. Gli vennein mente Pedro Liñán de Riaza, ma anche lui eramorto, appena quarantenne, da diversi anni. Ilfalso testo aveva anche accurate descrizioni diToledo, e sospettò di un rimatore di quella cittàe pupillo di Lope, Baltasar Elisio de Medinilla.Dei tre, solo Pedro era aragonese. Ebbe un bar-lume e gli venne in mente Cristóbal Suárez deFigueroa: le due novelle inserite nel testo eranoscopiazzate di sana pianta dagli italiani, e Suá-rez de Figueroa aveva vissuto nei possedimen-ti spagnoli in Italia, sia a Milano che a Napoli.Quando conversava, si abbandonava a battutegrevi e escatologiche, simili a quelle che avevatrovato nel libro. Era stato lui? Ma i conti non tor-navano: neppure Figueroa era aragonese.

Al diavolo l’imitatore, si disse infine. Don Chi-sciotte e Sancio Panza erano sue creature. E co-sì Cervantes iniziò a riordinare le carte sul suotavolo. Più frugava e più uscivano fogli: eranoanni che, per distrarsi da più gravosi e tormen-tati incarichi, aveva buttato giù capitoli e capi-toli del secondo volume. Mancava ancora il fi-nale, e molti episodi dovevano essere rivisti.Ma il secondo volume, quello vero, il suo, eraquasi pronto. Solo in quel momento ebbe lacertezza che il seguito sarebbe stato più ele-gante, più divertente, più sottile non solodell’imitazione, ma anche del suo stesso pri-mo volume. Ovviamente non si lasciò sfug-gire l’occasione di prendere in giro Lope deVega e i suoi cicisbei, di scrivere che Suá-rez de Figueroa ricopiava gli italiani, e dioffendere nuovamente l’oramai defun-to Jerónimo de Pasamonte. Se il pla-giario fosse stato uno di loro,aveva modo di vendicarsi.Nell’incertezza, tiròfendenti controtutti loro. E poivedendo isuoi eroi

Una mattina

dell’aprile 1614

Miguel Cervantes riceve

un libro. Vi sono narrate le imprese

del suo eroe ma lo firma un tale Avellaneda

Chi si nasconde dietro quel nome?

Lope de Vega(1562 - 1635)

Poeta e scrittore, è tra i sospettati di aver scritto

il “Don Chisciotte” apocrifoSecondo alcuni critici avrebbe

ordito, insieme ad altri scrittori, la burla letteraria

ai danni di Cervantes

Cristóbal Suárez de Figueroa

(1571 - 1644)Molti i sospetti anche su di luiNel capitolo LXII del secondo

“Don Chisciotte” Cervantes l’accusa di spacciare per proprie

opere che sono traduzioni di libri italiani

ChisciotteQuel finto sequel tra i mulini a ventoun giallo letterario lungo quattro secoli

L’altro

I

Don

Repubblica Nazionale

“”

in quello specchio deformante, Cervantes capìmeglio perché fossero stati così amati. Com-prese che non era necessario spezzare il filo del-le avventure inserendo novelle: Avellaneda loaveva imitato anche in ciò, ma il diversivo, orache Don Chisciotte e il suo scudiero erano noti alpubblico, non era più necessario.

Nel primo volume l’ironia scaturiva dal fattoche l’eroe tramutava locande in castelli e con-tadine in principesse, ma poteva l’espedientereggere per altri cinquanta capitoli? L’ignotoautore non lo aveva capito, e per mancanza difantasia aveva in fondo replicato lo schema nar-rativo usato da Cervantes. Ma lui no, non avevabisogno di ricopiarsi. Aveva in serbo un colpo discena: far sì che i personaggi incontrati dal Ca-valiere dalla triste figura sapessero già della suapazzia perché avevano letto il primo volume.Con un trucco, che sarà chiamato dai critici let-terari di qualche secolo dopo, meta-letteratura,quel tomo diventa il passaporto che trasforma

Don Chisciotte e Sancio Panzain celebrità, così famosi chechi li incontra costruisce perburla inganni e incantesimi.Non è più Don Chisciotte a ve-dere giganti dove ci sono mu-lini, ma i suoi interlocutori cheapprofittano della sua folliaper creare un mondo magicoper proprio intrattenimento.

Infine, riordinando le boz-ze, Cervantes si prese le sue ri-valse non solo sull’oscuroscrittore, ma anche sul di lui li-bro: l’apocrifo entra nella nar-razione e un suo personaggiodice di quel volume che è «pri-vo di invenzione, povero dimotti, poverissimo di livree,sebbene ricco di scempiaggi-ni». È Don Chisciotte stesso aleggere i libri a lui dedicati,tanto l’originale che quello fa-sullo. E, per far dispetto al librocontraffatto e al suo contraf-fattore, cambia direzione enon si reca più a Saragozza,ma vira per Barcellona.

Quando consegnò il mano-scritto al tipografo, Cervantesaveva capito che le sue forze si

stavano affievolendo. Non volle rischiare un al-tro seguito spurio e decise così di far morire ilsuo eroe prima di lui. Avvertì nel prologo il di-soccupato lettore: «Io ti do ora un Don Chisciot-te portato fino in fondo, fino alla morte e alla se-poltura, perché nessuno si arrischi a fargli deinuovi certificati». Morte annunciata dell’eroe,ma consapevole e rinsavito: una fine più degnadi quella riservatagli da Avellaneda, che lo fecefinire rinchiuso nella casa dei matti di Toledo.

Quanto a chi si nascondesse dietro Avellane-da, Cervantes se lo chiese fino alla fine, e con luil’oramai rinsavito Alonso Quijano, che sul lettodi morte si rammentò dell’apocrifo narratore:«Prego i signori esecutori che, se caso mai ve-nissero a conoscere l’autore di quella storia, glichiedano scusa da parte mia quanto più corte-semente si può, dell’occasione che senza voler-lo gli ho dato di aver scritto tante e così grandisciocchezze quante in essa ne ha scritte, perchéme ne vo’ all’altro mondo con lo scrupolo di aver-gliene dato motivo». Chi ha amato il Don Chi-sciotte, invece, non potrà che ringraziare il fal-sario per aver persuaso Cervantes a stringerenuovamente la penna nella sua unica mano.

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la RepubblicaDOMENICA 6 APRILE 2014 31

Le tappe1605 CERVANTES

STAMPA “L’INGEGNOSO

HIDALGO

DON CHISCIOTTE

DELLA MANCIA”

1613 LO SCRITTORE

ANNUNCIA NELLE

“NOVELLE ESEMPLARI”

IL RITORNO

DI “DON CHISCIOTTE”

1614 A TARRAGONA

VIENE PUBBLICATO

IL FALSO SEGUITO

SCRITTO DA ALONSO

DE AVELLANEDA

1615 CERVANTES

PUBBLICA

IL SECONDO VOLUME

DEL “DON CHISCIOTTE”.

MUORE POCO DOPO

Le città dei Don Chisciotte

Repubblica Nazionale

la Repubblica32DOMENICA 6 APRILE 2014

quegli anni viveva la sua massima felicitàamorosa e mondana. Queste lettere appenaritrovate sono pungenti verso il proprio la-voro e piene di affetto per la maestra cui dàsempre del lei.

Callas ha solo ventitré anni ed è una de-buttante, quando nel gennaio del ‘46 scri-ve alla maestra da New York, attaccando latedescomania del Metropolitan, che «nonha maestri come Toscanini, Serafin, De Sa-bata»; e che le propone una Butterfly: «Perl’amor di Dio, sarò ridicola, grande comesono. Meglio chiudere la bocca e non can-tare mai più che cantare quella roba lì!».Anni dopo racconterà a Elvira uno dei suoitanti trionfi, una Traviata al comunale diFirenze: «La gente piangeva… macchinisti,maestri, coro e gente che veniva a trovar-mi dalla platea (sconosciuti). E comunquevedere la gente piangere e vedere tantecortesie da parte di tutti. Pensi che l’orche-stra mi ha mandato un cesto di rose… Il Dioè buono con me. E lei è contenta di me?».Nella lettera che segnerà il suo destino,scritta nel settembre del ‘57 dall’Hotel Sa-voy di Londra, confida come, pur di non ri-nunciare a una sontuosa festa data in suoonore a Venezia, organizzata dalla prima

LA DOMENICA

Spettacoli

dicata a lei, curandone la voce, miglio-rando il suo italiano, soprattutto dan-

dole fiducia e prodigandole quell’affet-to che Maria non riesce a trovare nella

madre e nel padre lontano. Elvira è natatrent’anni prima di lei, eppure morirà a ot-tantott’anni, tre anni dopo la sua ormai fi-nita e disperata pupilla.

Bolaffi metterà all’asta a Milano, in unsolo lotto, sette lettere autografe di MariaCallas, tutte inviate alla de Hidalgo, scrit-te con una bella ampia calligrafia un po’antica, in un italiano un po’ zoppicante nel-l’ortografia: sono assolutamente inedite,la prima, lunga quindici pagine, è datata 28gennaio 1946, da New York, l’ultima 26aprile 1969, su carta intestata con l’indiriz-zo parigino, 36 Avenue George Mandel. Giài tanti collezionisti privati “callasiani” di tut-to il mondo sono in fermento perché di ci-meli della signora non si è mai sazi. L’astapiù celebre risale al 12 dicembre 2007,quando a Milano Sotheby’s offrì ben 317lotti, praticamente l’intera vita della divaaccanto al suo pigmalione Meneghini, mes-sa in vendita, spogliata, dispersa, cancella-ta; dai meravigliosi abiti della Biki alle fotosullo yacht Christina quando magra, ele-gantissima, la donna più amata e odiata di

NATALIA ASPESI

Callas

Elvira de Hidalgo fu la prima a credere

in quella grassa ragazza greca

e la “divina” non lo dimenticherà mai

Le scriveva: “E lei, è contenta di me”?

IA CARA,prega che vada bene,prega che io stia in salute,perché dopo quella recita, seva come speriamo e sognia-mo, sono la regina di canto inItalia, per non dire dapper-tutto, per la semplice ragio-ne che aggiungo la perfezio-ne del canto, e che non c’è al-tra Norma in tutto il mon-do!». Maria Callas ha venti-cinque anni, sta preparando-

si finalmente a quel debutto fiorentino che imporrà al mondo la sua voce unica, edè già certa della sua grandezza.. La lettera è datata 9 novembre 1948, lei è ancoragrassa e già molto innamorata del suo Giambattista Meneghini, l’industriale ve-ronese tanto più vecchio di lei che sposerà nell’aprile dell’anno dopo (e che le so-pravvivrà di qualche anno). La scrive alla maestra di canto che ha avuto fiducia inlei in Grecia, quando era infelicissima e il Conservatorio di Atene l’aveva rifiutata.Elvira de Hidalgo non è un’insegnante qualunque, è stata un celebre soprano e unatrionfale Rosina alla Scala nel 1916. È stata la prima a capire quale tesoro si celavadentro quella ragazzona torva e apparentemente troppo ambiziosa: e si è subito de-

miamaestra

lettere

«M

alla

Repubblica Nazionale

28 GENNAIO 1946

IGURATEVI, Johnson ha detto chedevo cantare Butterefly,Desdemona di Otello. Per l’amore diDio!! Ho girato e ho detto “Come dite– son sicura che lui la detto – Perché

farmi fare Butterfly – sarò ridicola – grande comesono.” Ma avevo raggione – la povera! Megliochiudere la bocca e non cantare mai più – checantare quella roba li. È vero!!!

9 NOVEMBRE 1948

Questa mia lettera le porterà grande gioia. Perchéuna grande voglia sua e mia sta per succedere cioè,al 30 Nov. farò il mio debutto nella “Norma”, colmaestro Serafin a Firenze – al Comunale. Adesso

può bene immaginare chelavoro che ho, e che agoniafinche venga la prima, anzifinche finisca e vedo ilrisultato. […] Mia cara, pregache vada bene, prega ch’io stiadi salute, perché dopo quellarecita, se va come speriamo, esognamo sono la regina dicanto in Italia per non dire daper tutto per la sempliceragione che aggiungo laperfezione di canto – e che nonce altra Norma in tutto ilmondo! Colla Norma e collaAida io commando lasituazione. Già per l’Aidavogliono tutti i teatri me adogni costo e prezzo […] Cara, ilnostro lavoro e la sua cura dellamia voce e i suoi preziosiconsigli mi porteranno doveabbiamo sempre sognato.

2 OTTOBRE 1949

Si figuri che in una sola stagione ho due nuoveopere. Apro il Comunale di Firenze con Trovatore– poi ci sarà una altra non so quale (dicono“Puritani” se trovano il tenore) e poi “la Traviata”!Serafin insiste ch’io la faccia e spero nondisilluderlo. Però quello le fa capire quanto lavoroho e avrò, e che batticuore. Peccato che non mi puòvedere in scena. Spero di essere all’altezza di unamaestra come lei. Se ha suggerimenti (che ne avràtanti) mi scriva. […] mi pensi con la stessatenerezza con la quale io la penso e la ricordo.

26 APRILE 1969

La televisione era un successone. Ho avuto tantielogi. Tu hai trionfato, ti giuro. Ti hanno trovato diuna vivacità ed una personalità enorme. Certo ame alla fine dopo due ore e mezzo hannodomandato perché avevo smesso di cantare, ed horisposto in tutta onestà che non ero contenta dime, ed ho ripreso a lavorare per mettere a posto.Dicevano che se mi portavano in trionfo perchéavevo dubbi, ed ho risposto che io prima di tutti sose canto come devo […] Elvira sarebbe ora dibuttare giù qualche ricordo di mia infanzia –lavoro etc. fra poco incomincerò la mia biografiaed avrei bisogno di cose che tu sola puoi ricordare edire[…] Devo stabilire tante verità su me e tu seipersonaggio chiave della mia vita. Serafin e DeSabata sono andati senza ch’io abbia niente di lorosu me ed è peccato. Scusami sai ma mi farai favore,alla Maria e alla Callas, mia cara. […] Io sto meglio.Sono più sicura. Sono un poco ingrassata e moltoottimista. Lavoro sempre e va bene. In maggio ilfilm incomincerà. Che il Dio mi aiuti.

la RepubblicaDOMENICA 6 APRILE 2014 33

LE OPERE

LE LOCANDINE DE LA TRAVIATA

E DE LA NORMA

INTERPRETATE NEL 1955 DA MARIA CALLAS(NEW YORK 1923 - PARIGI 1977)LE LETTERE ALLA MAESTRAQUI IN PARTE PUBBLICATEANDRANNO ALL’ASTADA BOLAFFI IL 13 MAGGIO

“Sarò la regina del canto in Italia e dappertutto”

nemica poi amica Elsa Maxwell, potente ti-ranna della café society, ha dovuto scan-dalosamente rinunciare a qualche recita: epare certo che proprio in quella occasionela diva di immensa celebrità avrebbe in-contrato per la prima volta il frivolo e brut-tissimo armatore Onassis, che avrebbe poivelocemente distrutto la sua vita.

Nell’ultima delle sette lettere che sa-ranno messe all’asta il 13 maggio con unastima di diecimila euro, Maria Callas sem-bra aver ritrovato la serenità e la consape-volezza di sé: la sua vita tumultuosa è lon-tana, anche il suo ineguagliato successo,ma pure gli attacchi feroci della stampa. Ilsuo matrimonio è finito da vent’anni, lacrudele, umiliante relazione con Onassissi è interrotta dopo nove anni, brusca-mente e villanamente, nell’agosto del1968, quando l’armatore l’ha cacciata dal-lo yacht Christina per lasciare il posto aJackie Kennedy, la fascinosa vedova delpresidente John, che avrebbe poi sposatoin ottobre. In quel 26 aprile del 1969, dallasua pomposa casa parigina di AvenueMandel, racconta all’amica dell’intervistaalla televisione francese nella trasmissio-ne L’invitée du dimanche: «È stato un suc-

cessone. Ho avuto tanti elogi… Certo a mealla fine dopo due ore e mezzo hanno do-mandato perché avevo smesso di cantare,ed ho risposto in tutta onestà che non erocontenta di me ed ho ripreso a lavorare permettere a posto. Dicevano che se mi por-tavano in trionfo perché avevo dubbi, edho risposto che io prima di tutti so se cantocome devo».

È troppo giovane a quarantasei anni, persentirsi finita professionalmente e senti-mentalmente: «Io sto meglio. Sono più si-cura. Sono un poco ingrassata e molto otti-mista. Lavoro sempre e va bene. In maggioil film comincerà. Che Dio mi aiuti!». Il filmè Medeadi Pier Paolo Pasolini, su cui puntaper un rilancio professionale: ma la criticaè appena benevola, e il pubblico scarso, lagrande Callas è già il passato. Ormai la bel-la malinconica spaventata signora non saevitare gli errori, e la sua fragilità senti-mentale la spinge a non capire la natura diPasolini, e a illudersi di poter vivere ancorauna storia d’amore: la sconfitta è amara,carica di dolore e senso di fine, e non saràl’ultima prima di morire a cinquantaquat-tro anni in solitudine e silenzio.

NELL’ARCO DI OLTRE VENT’ANNI, DAL 1946 AL 1969,PASSA NELLE SUE CONFIDENZE DALL’EUFORIADEL DEBUTTO ALLA MALINCONIA DEL TRAMONTOARTISTICO, ORMAI DISTRUTTA DALLA RELAZIONE CON ONASSIS CHE LA LASCIÒ PER JACKIE KENNEDY

NON C’È ALTRA “NORMA”IN TUTTO IL MONDOCON “NORMA” E “AIDA” IO COMANDO LA SITUAZIONEGIÀ PER LA “AIDA” TUTTI I TEATRI VOGLIONO ME A OGNI COSTO E PREZZO

9 NOVEMBRE 1948

PERCHÉ FARMI FAREBUTTERFLY? SARÒ RIDICOLA,GRANDE COME SONOMA AVEVO RAGIONEMEGLIO CHIUDERE LA BOCCA E NON CANTAREMAI PIÙ CHE CANTAREQUELLA ROBA LÌ

28 GENNAIO 1946

IN TUTTA ONESTÀ NON ERO CONTENTA DI MEDICEVANO CHE,SE MI PORTAVANO IN TRIONFO, PERCHÉAVEVO DUBBI? HO RISPOSTO CHE IO PRIMA DI TUTTI SO SE CANTO COME DEVO

26 APRILE 1969

MARIA CALLAS

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SOPRANI

MARIA CALLAS CON LA MAESTRA

SPAGNOLAELVIRA DE HIDALGO

(1896-1980)

maestra

ere

F

Repubblica Nazionale

la RepubblicaDOMENICA 6 APRILE 2014 34LA DOMENICA

della medicina. Fu la scoperta di contadinimungitori di vacche invulnerabili al vaioloche fece nascere i vaccini. Dai misteriosi cer-chi senza batteri intorno alle colonie di muf-fe arrivò la penicillina e poi gli antibiotici.Mentre altri farmaci che hanno cambiato ildestino dell’umanità, come il cortisone, so-no nati dall’incontro con malati i cui stranis-simi sintomi portarono all’identificazione dinuove sostanze salvavita.

McGaugh ripercorre la sua ricerca nellostudio della professoressa Patrizia Campo-longo, dipartimento Fisiologia e Farmacolo-gia, Università Sapienza di Roma, che lo hainvitato a tenere una lettura magistraleaffollatissima. I due collaborano da anni perstudiare come certe molecole del sistemanervoso simili a quelle della marijuana, e perquesto dette endocannabinoidi, influenza-no la funzione della memoria. «Jill Price è sta-to il primo caso — racconta McGaugh cheporta i suoi ottantatré anni come un bel ses-santenne — mi scrisse nel 2006 per saperese potevo fare qualcosa per il suo “fastidio”.Spesso si perdeva nei ricordi della sua vita,tutti lucidi e precisi e questo le creava qual-che intralcio nel concentrarsi sulle incom-benze quotidiane. Con la relativa documen-tazione sotto mano, come raccolte di quoti-diani, registri meteorologici, calendari ec-cetera cominciai con domande tipo: che tem-po faceva il 9 gennaio 1981? e nella primasettimana di marzo del 1993? in che ufficiosi è recata il 6 febbraio 1984? cosa è succes-so una settimana dopo? e così via. E Jill, allo-ra cinquantottenne, ricordava tutto perfet-tamente». McGaugh continuò a studiare Jillper essere sicuro che non fosse solo un’abileillusionista. «Partecipammo a una puntatadi 60 minutes, la trasmissione tv più popola-re negli Stati Uniti. Novanta milioni di ame-ricani videro il primo caso di persona con su-permemoria. In pochi giorni arrivarono cen-tinaia e centinaia di email da tutti gli StatiUniti. Ma dopo i colloqui e i test, durati tre an-ni, i casi veri di supermemoria si ridussero acinquantaquattro. La prima conseguenzadell’avere tanti soggetti come Jill è statol’abbandono del termine di “ipertimesia”con cui avevo chiamato il fenomeno. Signifi-ca “ipermemoria” in greco, lingua usata perindicare una condizione patologica. Pochi diloro invece si lamentano della loro condizio-ne, la maggior parte si rende conto di avereuna facoltà che gli altri non hanno. Qualcu-no l’ha tenuta nascosta quando se n’è accor-to, per paura di essere considerato come undiverso ed emarginato».

Dal confronto dei casi cominciano a emer-gere i primi tratti in comune. I ricordi si fis-sano spontaneamente e solo spontanea-mente. Questi soggetti infatti faticano cometutti quando devono memorizzare, comenello studio e poi nel lavoro. Le emozioni han-

no un ruolo meno importante. «Tutti ricor-diamo dove eravamo e cosa stavamo facen-do l’11 settembre 2001, mentre assisteva-mo al crollo delle Torri Gemelle — spiega Mc-Gaugh — quelli con la supermemoria invecericordano ogni giorno della propria vita an-che se non è stato emozionante. E però se mo-striamo loro una storia filmata fatta appostaper non suscitare la benché minima emozio-ne e due giorni dopo chiediamo loro dei par-ticolari, ricordano male e sbagliano cometutti gli altri».

Altri caratteri in comune che guidano le ri-cerche sono l’assenza di una componenteereditaria. Il supermemore compare all’im-provviso in una famiglia normodotata e puòessere uno solo di una coppia di gemelli. In-fine nei dodici sottoposti a risonanza ma-gnetica funzionale, le strutture del cervelloche formano il circuito della memoria rive-lano un volume di poco superiore alla media.Da questo dipende la supermemoria? O è la

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Ricorderemo tutto(anche se piovevaun lunedì qualsiasidi vent’anni fa)e senza computer

ROMA

UOMO FISSERÀ I RICORDI spontaneamente, senza fare più alcunafatica. E la sua memoria sarà infinita, non avrà più limiti, potràcontenere tutte le informazioni che desidera. Attenzione: è ilcrollo di un dogma. Perché queste non sono le previsioni fan-tascientifiche accese da ricerche su un gene o un circuito ner-voso: sono le caratteristiche di cinquantacinque esseri umaniche vivono negli Stati Uniti. Uomini, donne e bambini scoper-ti da uno che di memoria se ne intende, finito sui giornali un de-cennio fa per aver messo a punto la pillola cancella-traumi. «Su-permemoria autobiografica, così ho definito la loro capacità

straordinaria — spiega James McGaugh, direttore del dipartimento di Neurobiologia del-l’apprendimento e della memoria, università della California, Irvine — Scherzando inveceli chiamo “google people” perché, dopo neanche un secondo dalla domanda, iniziano a scio-rinare una lunga e complessa risposta. Non hanno limiti: ricordano qualunque cosa gli siasuccessa o abbiano letto o visto in tutta la loro vita, è una capacità mai osservata prima. Cheè naturale e quindi riproducibile. Bisogna solo capire perché si manifesta questo fenomenosolo in alcuni e il meccanismo che si attiva nel loro cervello. Poi potremo metterlo in moto an-che nei nostri». È così, quasi casualmente, che dalla capacità di qualche ricercatore di co-gliere un fenomeno naturale, a volte sotto gli occhi di tutti, sono arrivati i grandi progressi

gran quantità di ricordi che ne ha aumenta-to il volume? «Al momento stiamo indagan-do in tutte le direzioni — conclude McGaugh— indicate dalle quattro fasi della memoria.La supermemoria si realizza nella prima fa-se, quella in cui l’esperienza che si sta viven-do si codifica in un ricordo. Oppure nella se-conda, del consolidamento, quella in cui l’e-mozione è determinante. O nell’immagaz-zinamento del ricordo o nella quarta, in cuisi recupera il ricordo. Infine, potrebbe di-pendere anche, in parte, da ognuna di que-ste fasi. Non lo sappiamo ancora. Abbiamoperò una certezza, la supermemoria esiste.Non so dire quanto tempo ci vorrà ma riusci-remo a riprodurla».

memoriaSuper

L’UNIVERSITÀDELLA CALIFORNIA

STA STUDIANDO55 PERSONE

DOTATEDI UN POTEREPARTICOLARE

PER CAPIRESE È RIPRODUCIBILE

ARNALDO D’AMICO

Next. Personal cervello

HSMA

STA PER HIGHLY SUPERIORAUTOBIOGRAPHICALMEMORY: LA CAPACITÀCHE HANNO IN COMUNE I 55 SOGGETTI CON SUPERMEMORIA

ENDOCANNABINOIDI

MOLECOLE DEL CERVELLO CHE FANNO COMUNICARETRA LORO I NEURONI,SCOPERTE GRAZIE ALLE RICERCHE SULLA CANNABIS

PLASTICITÀ

LA CAPACITÀ DEL CERVELLO DI MODIFICARE LE SUE STRUTTURE A SECONDA DI QUANTOSONO USATE

RISONANZA FUNZIONALE

ESAME CHE PERMETTE DI VEDERE LE ZONE DI UN ORGANO CHE IN QUEL MOMENTO STANNO CONSUMANDO PIÙ ENERGIA DELLE ALTRE

PREVALENZA

È IL NUMERO DI SOGGETTI CON UNA CARATTERISTICAIN UNA POPOLAZIONE:IN ITALIA CI POTREBBEROESSERE 20 CASI DI SUPERMEMORIA

L’

>

>

>

LE QUATTRO FASI

>

L’ESPERIENZA

SI CODIFICA

IN UN RICORDO

IL RICORDO SI CONSOLIDA

IL RICORDO VIENEIMMAGAZZINATO

RECUPERO

DEL RICORDO

Repubblica Nazionale

la RepubblicaDOMENICA 6 APRILE 2014 35

INF

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Repubblica Nazionale

INGREDIENTI:600 G. DI FARINA DI GRANO ENKIR

300 G. D’ACQUA

200 G. DI FARINA DI SEMOLA

15 G. DI LIEVITO DI BIRRA

18 G. DI SALE MARINO

90 G. DI EXTRAVERGINE

Preparo l’impasto mettendo gli ingredienti in una bacinellatranne il sale, che va aggiunto per ultimo. Continuo a lavo-rare il composto, fino a formare una palla morbida e liscia.Dalla palla, ricavo un salame, che schiaccio e spennello d’o-

lio, prima di coprirlo con una pellicola trasparente. Oc-corre farlo riposare fino a quando raddoppia il volume— circa un’ora — lontano da correnti d’aria (per esem-pio, dentro il forno spento, ma con la luce interna ac-cesa). Una volta lievitato, libero l’impasto dalla pelli-cola e lo taglio a striscioline di 1 cm. Le avvolgo a unaa una nella semola, poi le stiro, allungandole dalleestremità. Mentre dò la forma dei grissini, l’im-portante è tenere l’impasto coperto. I grissinivanno appoggiati su una placca foderata conl’apposita carta e infornati quando la tempe-ratura ha raggiunto i 180°. Cottura 25 minuti.Un consiglio: assaggiateli senza nulla, per gu-stare appieno il sapore antico dell’Enkir.

la RepubblicaDOMENICA 6 APRILE 2014 36LA DOMENICA

GRANO, FRUTTI MA ANCHE CARNI

DIMENTICATE NEL NOME

DI PRODUZIONIINDUSTRIALI

SI RIAFFACCIANONELLE DISPENSE

ALIMENTI D’ANTANRAZZE E VARIETÀ

ESALTATEDALLA PRIMAVERA

AVOLTE RITORNANO. Dimenticati perché poco moderni, dismes-si dopo averli avuti in tavola troppo a lungo durante tempi fa-ticosi, accantonati nel sacro nome delle produzioni indu-striali, gli alimenti d’antàn si riaffacciano alle dispense, tramemorie gustative e nuovi sapori sorprendenti. Sono razzee varietà che la primavera glorifica, tra nascite e semine, inun tourbillon di chicchi, infiorescenze, grani, frutti, ma an-che pulcini, lattanti quattrozampe e formaggi a dir poco in-consueti. Arrivano da un passato prossimo o remoto, retro-cessi da indispensabili a inutili, o comunque facilmente so-stituibili, perché lenti nell’accrescimento e ribelli all’ali-mentazione forzata, allergici ai pesticidi e bisognosi di sole

vero, in una parola, poco produttivi. Eppure, i sapori sono magnifici, la resistenza a malat-tie e parassiti alta (a patto di allevarli e coltivarli in modo salubre), l’impatto ambientale ri-dotto. La rinascita ha la faccia e i modi dei nuovi contadini. «Dicono che c’è un tempo per se-minare e uno che hai voglia ad aspettare...», canta Ivano Fossati.

Un’agricoltura dai ritmi più lenti e rispettosi della natura, ritrovata per merito di una di-versa coscienza ecologica, ma anche comereazione agli avvilimenti della crisi econo-mica, sta impercettibilmente spostando gliequilibri lavorativi tra campagna e città.

Trentenni disoccupati, mal occupati, osoltanto insoddisfatti, diplomati e laureati,prepensionati in cerca di una nuova dimen-sione quotidiana e neo-genitori dubbiosisulla qualità di vita dei loro bimbi formanola pattuglia degli “urban farmers”, i conta-dini (ex) cittadini, come li chiamano inAmerica.

Uomini e donne capaci di lasciarsi allespalle gli affitti impossibili e la precarietàdelle metropoli per ritrovare se stessi altro-ve, scegliendo varietà antiche e rustiche dacrescere in modo naturale. Niente di oleo-grafico e bucolico: la vita dei campi è roba pergente forte, di testa e nel corpo. Ma l’alchi-mia di terra e speranza può risultare magi-ca, tra vecchi contadini che insegnano a se-guire le fasi lunari e nuovi contadini che con-tengono le incursioni degli insetti con i fero-

moni, combattendo il gastro-business —pronto a sfruttare il concetto della biodiver-sità per vendere i prodotti “di nicchia” a prez-zi indecenti — grazie a gruppi di acquisto,spacci cooperativi e vendita online.

Se siete innamorati di cicerchie e tomeperse, regalatevi una gita in uno dei tantibio-agriturismi, che ormai punteggiano lacarta gastronomica dell’Italia e fate provvi-sta. In caso poi trovaste in un cassetto la ri-cetta dell’indimenticabile torta di mele del-la nonna (per esempio, quella con le Renet-te grigie di Torriana), giratela a Daniele DeMichele, alias Don Pasta, cuoco, attore e dj,anima errante e narrante del cibo popolare,che sta raccogliendo materiale in collabora-zione con Casa Artusi per scrivere la versio-ne 2.0 del libro maestro della cucina italiana,pubblicato nel 1891. Il suo progetto “ArtusiRemix” è finito perfino sulle pagine del NewYork Times, altro che fast food.

Past food.Voglia di biricoccolee cicerchie perdute

LICIA GRANELLO

Il libro

Il vignaiolo marchigianoCorrado Dottori ha scritto

“Non è il vino dell’enologo,lessico di un vignaiolo

che dissente” (edizioni DeriveApprodi)

dove racconta il complessorapporto tra terra e tecnologia,

fatto di recuperi di saperi agricolie di ascolto della natura

L’appuntamento

Il 25 aprile si svolge a Casola Valsenio, il paese

dei frutti dimenticati in provincia di Ravenna,

la festa di Primavera, dove assaggiare

e comprare varietà salvatedall’estinzione. Da non perdere

la visita al prezioso giardinodelle erbe “Rinaldi Ceroni”

Il luogo

Il Mulino Marino di CossanoBelbo, Cuneo, in collaborazione

con la Cooperativa degli Agricoltori delle Sette Vie

del Belbo, fa seminare sui colli dell’Alta Langa l’Enkir

(triticum monococcum), grano antichissimo

naturalmente resistente a parassiti e infestanti

Sapori

Fertile profumo d’Orientenei grissini stirati di Enkir

La ricetta

LO CHEF

UGO ALCIATIGESTISCECOL FRATELLOPIERO IL “GUIDORISTORANTE”DI FONTANAFREDDA,A SERRALUNGAD’ALBA, CUNEO.NEI PIATTI, TECNICA,TERRITORIOE RECUPERODEI SAPORID’ANTAN, COMENELLA RICETTAIDEATAPER REPUBBLICA

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Repubblica Nazionale

la RepubblicaDOMENICA 6 APRILE 2014 37

RISCOPRIRE VECCHIE RICETTE

e antiche produzioni:questa sembra pian pianoessere diventata l’attivitàdi tendenza di questi ultimi

tempi. Sempre più spesso emergonostudi o ricettari che riportano in augepreparazioni ormai scomparse, conmaterie prime e prodotti minacciatidall’attuale sistema alimentare. Messa in questi termini potrebbesembrare che la riscoperta del past food,termine usato nei salotti bene, sia unasorta di esercizio di archeologiaalimentare fine a sé stesso, un hobby daappassionati, come i collezionisti divecchi vinili. Ebbene, io credo che ci siamolto di più.Riscoprire razze animali, specie di frutta,di verdura, varietà di cereali, ricettetradizionali e antichi modi di conservareil cibo, è fondamentale per rendere piùricco e sicuro il mondo, non per scrivereuna pagina in più su un libro di storia. Labiodiversità è patrimonio che ci è statodato in dotazione, è ciò che ci ha resoquello che siamo e permetterà ai nostrifigli di vivere ancora a lungo e bene suquesto pianeta. Su questa scorta sono nati da Slow Food iprogetti dell’Arca del Gusto e dei Presìdi,i cui esempi pratici hanno funzionato efunzionano per ridare slancio eredditività a economie minori, propriopartendo da prodotti e razze animali cherischiano di scomparire. I casi della razzabovina piemontese, del cacioricotta delCilento o della mora romagnola ciinsegnano che questa strada funziona inun’ottica di futuro, non solo perconservare la memoria di ciò che era.Ogni cultura, ogni popolo, ogni comunitàin ogni tempo ha sviluppato un modopersonale e particolare di coltivare epreparare il proprio cibo. Lapostmodernità in cui viviamo oggi metteper la prima volta in discussione questoprocesso di adattamento che dura damillenni, per promuovere un modello dialimentazione che appiattisce differenzee sapori.Non si tratta di essere passatisti oromantici, né di tornare ai bei tempiandati (ammesso che siano mai esistiti),ma di guardare al futuro cercando di nonprecluderci alcuna possibilità di nutrirecon piacere noi stessi e i nostri figli.

Non è solonostalgiac’è in balloil domani

CARLO PETRINI

GranoMiracolo Fusto alto e spigaverde, ricco di micronutrienti,con poco glutineRegala profumofragrante al panecasareccio

MOLINO GRASSI

VIA EMILIA OVEST 347PARMA

TEL. 0521-662511

Capracilentana Nera sui pascolimontani, fulva in collina, grigiain pianura Dal latte si ottieneun magnificocacioricotta

CASEIFICIO PALMIERI

CONTRADA CANNITO 2B

PAESTUM (SA)TEL.0828-1841069

RipienoArrosto di maialeromagnoloimbottito di prosciutto e verdure

Pollo RazzaAncona Ha piumaggionero macchiato di bianco. Da uovae da carne, ottimo allo spiedo

AZIENDA AGRICOLA

CASCINA DEL VENTO

VIA CASCINA BARETTA 76MONTALDO BORMIDA

(AL)TEL. 0143-876261

Vacca PezzataRossaFriulana Produce un latteeccellente, da cui viene il Latteria, alla base del frico

LATTERIA

DI CAMPOLESSI

VIA S. MARCO 7 GEMONA (UD)TEL. 347-3027668

FagioloCoco nanoPiccolo, bianco,ovoidale: ha pastadelicata e farinosaBuccia sottile, cottura abbreviata Col farro per una super zuppa

BIO PODERE PERETO

LOC. PODERE PERETO

RAPOLANO TERME (SI)TEL. 0577-704371

Riso RosaMarchettiChicchi scuri,piccoli, da bollirequasi mezz’oraConservanol’anima croccante:per timballi

BIODINAMICA CASCINE

ORSINE

VIA CASCINE ORSINE 5 BEREGUARDO (PV) TEL. 0382-920283

Pesca S. AnnaBalducci Matura in luglio,profumata e carnosa, formarotonda, polpabianca, dolce e succosa. Golosa sulla crostata

BIO FATTORIA RIVALTA

VIA LUGHESE 118 FORLÌ

TEL. 328-8182629

Suino MoraRomagnolaRustico, scuro:ha carni compattee ricche di grassoper un culatellospeciale

ANTICA CORTE

PALLAVICINA

STRADA PALAZZO

DUE TORRI 3, POLESINE

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BiricoccolaIl Prunus

dasycarpa,incrocio tra susino e albicocco, dà piccoli fruttiper squisiteconfetture

AGRICOLA AMBROSIA

STRADA DEL FINALE 2TRAVESETOLO (PR) TEL. 347-3625011

TacchinoErmellinatodi Rovigo Vive bene anche in montagna e ha carni sode e saporite: ottimala fesa al forno

AZIENDA AGRICOLA

BARCHESSA

VIA VALIER 102CONCADIRAME (RO) TEL. 0425-930482

Repubblica Nazionale

la RepubblicaDOMENICA 6 APRILE 2014 38LA DOMENICA

Figlio di una borghese cattolica e di un operaio anarchico (“Sono un

miracolo nato dalla follia dell’amore”), da ragazzino rubava nelle

case dei ricchi di Anversa, la sua città. “Mi piacevano i gangster, è

stato facile diventarlo”. A tirarlo fuori dalla galera ci ha pensato l’ar-

te. Nei suoi spettacoli ha dipinto col sangue, dato fuoco al denaro,

trasformato il volto della Madonna in teschio. Ha scandalizzato le

platee perbeniste fino a diventa-

re una star: “Mi ritengo un guer-

riero della bellezza e a cinquanta-

cinque anni posso finalmente

dirlo: ci ho messo una vita a di-

ventare un giovane artista”

JanFabre

ROMA

ADIPINTOCONILSANGUE. Dato fuoco al denaro. Messo una faccia di te-schio alla Madonna e le ruote a un cervello di plastica. Ha bestem-miato, scandalizzato, disgustato platee perbeniste e spettatori

pronti a tutto. Da trentacinque anni non placa la sua ansia di trovare il vero, di«difendere la bellezza». È un dissacratore nato, un eretico di cultura fiammin-ga, con le radici dentro l’arte di Bosch, van Dyck ma anche di Rimbaud, Baude-laire. Si è chiuso dentro l’armatura di Lancillotto e si è vestito di carne bovinamarcescente. Ma averlo di fronte è vedere qualcosa di molto lontano dal mitoteatral-performativo che la sua attività alimenta.

Jan Fabre è un uomo che ha passato i cinquantacinque: ha un corpo minuto,capelli bianchi all’indietro, fuma senza sosta, parla per aforismi, astrazioni, teo-remi artistici. Il suo corpo — per lui religione, palestra di sofferenze e palcosce-nico — non porta traccia evidente della potenza espressiva che senza dubbio tra-smette nei panni di artista, non si riconosce in lui la violenza che è stato (ed è)capace di esprimere in termini di visioni, allucinazioni, arte. Pian-tandoti gli occhi verdi dentro gli occhi, dice: «Io sono un clown. Ilvero traguardo della mia vita, a questo punto, è aver capito che lafelicità viene da qui, qui e qui. Non da lì». E nel dirlo indica la te-sta, il cuore, il sesso e infine, per assolverlo, il cielo.

Come per molti artisti-mito della sua generazione, anche perlui ogni cosa è cominciata nel fiore degli anni Settanta: Fabre eraun ragazzino affascinato dalla strada, figlio di una madre bor-ghese e di un papà operaio e operaista, con i quali viveva in unsobborgo della piccola, fin troppo tranquilla città belga di

Anversa. Un paio di volte va a rubare negli appar-tamenti dei ricchi. Lo acciuffano: «Ero affascinatodai gangster. È stato facile diventarlo anch’io. Sonofinito anche in carcere. Poi, conquistato dalla bel-lezza, mi sono iscritto alla scuola d’arte. E l’arte miha salvato. Il fascino per i delinquenti però mi è ri-masto», e non ride. Nel 1976 Fabre traccia in pubbli-co i primi Blood drawings, disegni fatti col suo stessosangue: «Il dolore per me è uno strumento per imparare,per realizzare una metamorfosi. È l’artista che si immola

sulla scena dell’arte e si riveste della sua stessa carne. Perché una performanceè una perforazione di se stessi, un’esperienza di dolore che, attraversandoti co-me una ferita, ti deve cambiare». In quegli stessi anni comincia anche a scrive-re teatro: le due vie principali della sua creatività prendono forma, correrannolungo tre decenni e mezzo. Nascono i primi spettacoli, nasce la Bic-Art, arte conla penna a sfera, fatta di niente, iniziano le installazioni, le sculture. E, mentrele fila dei suoi cultori crescono, il passaparola sul suo lavoro corre, gli si apronole porte dei teatri europei, quelle dei musei, delle grandi gallerie. Fino a “Stig-mata”, la grande retrospettiva-antologica ospitata fino allo scorso febbraio nel-le sale del Maxxi, il Museo nazionale delle Arti del XXI secolo di Roma, occasio-ne di un colpo d’occhio sulla sua vita artistica. Un lavoro, il suo, emblematico diesposizione e studio, fatto di macabra, entomologica dissezione, una ricerca lun-ga una vita vissuta squadernando come in uno smisurato obitorio quel che hafatto e spasmodicamente cercato. Una produzione sconfinata, inarrestabile, te-nuta insieme da un filo rosso lugubre, tetro, cupo. Non c’è catarsi, compiaci-mento. Sono probabilmente le sue radici a riemergere. «Io sono un miracolo na-to dalla follia dell’amore. L’amore che ha unito mia madre Helena Troubleyn,ricca signora di radici cattoliche e cultura francese, e mio padre, anarchico co-munista convinto, con una passione per gli animali e per la pittura della nostratradizione. Da piccolo mi portava spesso allo zoo. È da lì che mi sono appassio-nato agli insetti, alla loro vita minuscola, alla capacità di trasformarsi. È statomio padre a trasmettermi il senso dell’eresia, la passione per questi insetti cel’ho nel sangue». E a questo punto, come fa sempre nelle interviste, ribadisce lasua discendenza dall’entomologo Jean-Henri Fabre. Ma a questa vulgata dellasua biografia non ci sono conferme, è un dato che si mescola con la leggenda.

Indistintamente teatrale, performativa, visuale o plastica, la scena di Fabresempre si affaccia sul mondo dell’arte contemporanea che lo ha accolto a brac-cia aperte in tutti gli appuntamenti internazionali, dalla Biennale di Venezia aDocumenta a Kassel, dal soffitto della Mirror room al Royal Palace di Bruxellescompletamente foderato di scarafaggi verdi per ribadire che «la bellezza può es-sere ovunque e, come una farfalla, se la tocchi svanisce», fino alle performancenelle sale istituzionali del Louvre dove (era il 2008) ha inventato il suo omaggioall’uomo dai mille volti, Jacques Mesrine. Racconta: «Mesrine era un artista del-la fuga, un ribelle al sistema, un mito nel pieno della mia giovinezza. Lui facevauna rapina, poi usciva per strada e chiedeva alle persone: “Ma che sta succe-dendo?”. Un personaggio fantastico».

Ma insieme alle prime performance scandalose (il sangue, la scrittura sullacarne viva) nascono i primi spettacoli teatrali. Sbocciano le pietre miliari dellasua drammaturgia, due pièce-monumento, prova di resistenza dello spettato-re per durata e difficoltà, dai titoli programmatici come The Power of Theatri-cal Madness (“Potere della follia teatrale”) e This Is Theatre Like It Was To BeExpected and Foreseen (“Questo è il teatro come te lo aspetti e come sarà”),spettacoli che ancora rivendica, sempre in tournée e di recente ripresentati inItalia al Romaeuropa Festival che vanta il merito di averlo riconosciuto come ar-tista di culto già nel 1987.

Immancabile il viaggio d’iniziazione: «Negli anni Ottanta ho lasciato l’Euro-pa, mi sono avventurato oltreoceano. Negli Stati Uniti mi sono ritrovato nel mi-

lieu degli artisti che contano. Andy Warhol l’ho incontrato un pomeriggio nellasua celebre factory. Stava dipingendo Jane Fonda, proprio lei in carne e ossa.Non ho potuto sopportare quella sua voce acuta, smorfiosa, stupida, aveva unbrutto suono. Dopo un po’ me ne sono andato via».

Anni dopo (e oggi), la storia della sua vita è continuata in Europa: «Ora lavo-ro ad Anversa, proprio nel quartiere-ghetto della mie avventure d’adolescente.Con il supporto del governo belga ho avuto in gestione un grande edificio di-smesso: ne ho fatto anche io una factory, la sede della compagnia e della sezio-ne arti visive, Angelos». È in quei 2500 metri quadrati di pura archeologia in-dustriale che coltiva l’allevamento dei suoi «guerrieri della bellezza», ovvero gliartisti della compagnia, ed è qui che, insieme alla rigorosissima, incessante pra-

tica dello yoga e soprattutto del kendo, l’arte marziale giapponese che si pra-tica con l’aiuto della terribile spada katana, la sua ricerca continua: «Non

andrei mai via di lì. Io sonoquel posto, gli appartengo. Il Belgio è sì unluogo grigio e noioso, come comunemente si tende a pensare, ma èil mio posto». Le celebrazioni sono ormai sempre internazionali: glispettacoli sono in giro per il mondo fino agli Stati Uniti, le tournéesono programmate sul lunghissimo termine, le mostre giranol’Europa, da poco è uscito Stigmata, libro-catalogo (Skira) in con-versazione con Celant. «Alla mia età ho voluto ripensare la mia ar-te, il mio percorso: tutto quello che ri-vedo oggi di mio è un’occa-sione ulteriore per imparare. Imparo da me stesso, guardo a quel-le cose che pure non rifarei mai uguali, ma le riconosco». È la sta-gione della maturità, il tempo della consacrazione. «Quando nonlavoro, lavoro. Lavoro la notte, lavoro quando viaggio. Ho sem-pre con me una borsa. Dentro ci tengo quaderni e matite perprendere appunti, fermare idee e progetti. Non provo alcun in-

teresse per gli strumenti dell’elettronica che pure appassionamolti artisti o scrittori. Mi piace quello che puoi fare con le tue ma-

ni, quello che ha un odore, un sapore, che si vede. Oggi posso direche ci ho messo tutta una vita a diventare un giovane artista».

FRANCESCA GIULIANI

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IO SONO UN CLOWN. IL VERO TRAGUARDODELLA MIA VITA, A QUESTO PUNTO, È AVER CAPITO CHE LA FELICITÀ VIENEDALLA TESTA, DAL CUORE E DAL SESSOCERTAMENTE NON DAL CIELO

IL DOLOREPER ME È UNO

STRUMENTOPER IMPARARE,

PER REALIZZAREUNA METAMORFOSI

PERCHÉ UNAPERFORMANCE

È UNAPERFORAZIONE

DI SE STESSI

L’incontro. Agenti provocatori

INCONTRAI ANDY WARHOL NELLA SUACELEBRE FACTORY MENTRE STAVADIPINGENDO JANE FONDA IN CARNE E OSSA.MA NON HO POTUTO SOPPORTARE QUELLASUA VOCINA ACUTA E ME NE ANDAI...

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