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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 SETTEMBRE 2013 NUMERO 445 CULT La copertina JUDITH DOBRIZYNSKI e MARIO PERNIOLA Tra giochi e interazioni il Museo diventa Luna Park Il libro SUSANNA NIRENSTEIN Il bambino ebreo che si salvò tra le donne di un bordello All’interno Straparlando ANTONIO GNOLI Rosellina Archinto “Io sopravvissuta non rimpiango il passato” Il film ROBERTO NEPOTI Una perfetta famigliola politicamente scorretta L’arte MELANIA MAZZUCCO Il Museo del mondo L’ombra nera di Picasso L’ultimo Tim Burton “Che occhi grandi hanno i miei mostri” Spettacoli MARGARET KEANE e MARIO SERENELLINI “La Peste? Fa schifo” Lettere agli amici di Albert Camus L’inedito ALBERT CAMUS, JEAN DANIEL e ANAIS GINORI G li invidiano le sette vite da gatto che lo hanno preser- vato per sessantatré anni, gli invidiano i sette colori dell’arcobaleno che solo davanti al suo obiettivo si combinano in quel modo. Per migliaia di fotografi di viaggio, dilettanti o semiprofessionisti, Steve Mc- Curry è assieme mito e incubo, è un dolce supplizio di Tantalo: i suoi istanti di magia esotica, i suoi ritratti assorti sem- brano così trasparenti e “facili”, basta andare lì, no? In India, in Bir- mania, in Nepal, davanti a quegli scenari dipinti dalla tavolozza di qualche divinità orientale, e scattare con un po’ d’attenzione... Poi, a casa, davanti allo schermo del computer, la delusione che nean- che Photoshop consola. Imitabile ma irraggiungibile: forse per questo McCurry è la più po- polare fotostar vivente. Il Web è pieno di gallerie di frustrati epigoni, il suo fan club online vanta 180 mila iscritti, il suo blog fotografico un milione e mezzo di accessi. (segue nelle pagine successive) MICHELE SMARGIASSI N el febbraio del 1989, durante una missione in Slove- nia, mentre sorvolavamo a bassa quota il lago Bled, il pilota si avvicinò pericolosamente al pelo dell’acqua. Le ruote toccarono e picchiammo col muso in avan- ti. L’elica andò in pezzi, l’aereo si cappottò e la fuso- liera cominciò ad affondare nel lago gelido. La mia cintura di sicurezza era bloccata ma l’istinto di conservazione ebbe il sopravvento e riuscii a liberarmi e a uscire dalla cabina. Nuotam- mo intorno all’aereo e risalimmo in superficie, ma la mia macchina fotografica e la mia borsa sono ancora lì, a venti metri di profondità. Naturalmente, in trent’anni di carriera ho perso più di una mac- china fotografica, ma le innumerevoli volte in cui ho sfiorato il peg- gio e un paio di autentici disastri non sono riusciti a raffreddare la mia passione per la fotografia e per i viaggi, che mi hanno portato in luoghi di sorprendente bellezza, ma anche in posti che vorrei di- menticare. (segue nelle pagine successive) STEVE McCURRY DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI Steve McCurry Voglio una vita come “Cosa si nasconde dietro le mie foto” Le avventure del fotoreporter più imitato del mondo STEVE McCURRY DURANTE UN’ALLUVIONE MONSONICA, PORTBANDAR, INDIA, 1983 Repubblica Nazionale

LA DOMENICA - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2013/15092013.pdfIL LIBRO Foto e testi di McCurry sono tratti da Steve McCurry. Le storie dietro le fotografie (Electa-Phaidon

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  • LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 15SETTEMBRE 2013NUMERO 445

    CULT

    La copertina

    JUDITH DOBRIZYNSKIe MARIO PERNIOLA

    Tra giochie interazioniil Museo diventaLuna Park

    Il libro

    SUSANNA NIRENSTEIN

    Il bambino ebreoche si salvòtra le donnedi un bordello

    All’interno

    Straparlando

    ANTONIO GNOLI

    Rosellina Archinto“Io sopravvissutanon rimpiangoil passato”

    Il film

    ROBERTO NEPOTI

    Una perfettafamigliolapoliticamentescorretta

    L’arte

    MELANIA MAZZUCCO

    Il Museodel mondoL’ombra neradi Picasso

    L’ultimo Tim Burton“Che occhi grandihanno i miei mostri”

    Spettacoli

    MARGARET KEANEe MARIO SERENELLINI

    “La Peste? Fa schifo” Lettere agli amici di Albert Camus

    L’inedito

    ALBERT CAMUS, JEAN DANIELe ANAIS GINORI

    Gli invidiano le sette vite da gatto che lo hanno preser-vato per sessantatré anni, gli invidiano i sette coloridell’arcobaleno che solo davanti al suo obiettivo sicombinano in quel modo. Per migliaia di fotografi diviaggio, dilettanti o semiprofessionisti, Steve Mc-Curry è assieme mito e incubo, è un dolce supplizio

    di Tantalo: i suoi istanti di magia esotica, i suoi ritratti assorti sem-brano così trasparenti e “facili”, basta andare lì, no? In India, in Bir-mania, in Nepal, davanti a quegli scenari dipinti dalla tavolozza diqualche divinità orientale, e scattare con un po’ d’attenzione... Poi,a casa, davanti allo schermo del computer, la delusione che nean-che Photoshop consola.

    Imitabile ma irraggiungibile: forse per questo McCurry è la più po-polare fotostar vivente. Il Web è pieno di gallerie di frustrati epigoni,il suo fan club online vanta 180 mila iscritti, il suo blog fotografico unmilione e mezzo di accessi.

    (segue nelle pagine successive)

    MICHELE SMARGIASSI

    Nel febbraio del 1989, durante una missione in Slove-nia, mentre sorvolavamo a bassa quota il lago Bled, ilpilota si avvicinò pericolosamente al pelo dell’acqua.Le ruote toccarono e picchiammo col muso in avan-ti. L’elica andò in pezzi, l’aereo si cappottò e la fuso-liera cominciò ad affondare nel lago gelido. La mia

    cintura di sicurezza era bloccata ma l’istinto di conservazione ebbeil sopravvento e riuscii a liberarmi e a uscire dalla cabina. Nuotam-mo intorno all’aereo e risalimmo in superficie, ma la mia macchinafotografica e la mia borsa sono ancora lì, a venti metri di profondità.

    Naturalmente, in trent’anni di carriera ho perso più di una mac-china fotografica, ma le innumerevoli volte in cui ho sfiorato il peg-gio e un paio di autentici disastri non sono riusciti a raffreddare lamia passione per la fotografia e per i viaggi, che mi hanno portato inluoghi di sorprendente bellezza, ma anche in posti che vorrei di-menticare.

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    Repubblica Nazionale

  • Scatti d’autore

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    DOMENICA 15 SETTEMBRE 2013

    Caduto da un elicottero, colpito da una bomba, arrestato,disperso, quasi linciato: le sette vite di un mitodel reportage in un libro ora in uscita

    Che svela storie e segreti delle sue immagini più famose

    La copertina

    BIRMANIA, 1985

    “Sono intrigato dallo stile di vita dei monaci, dal modo in cui la filosofia buddista

    enfatizza la compassione, come anche dall’iconografia. Etica ed estetica

    nel buddismo sono fusi in una maniera unica”

    INDIA, 1983

    “Accanto a noi le donne e i bambini che provvedevano alla manutenzione

    della strada, si strinsero gli uni agli altri per ripararsi dalla sabbia e dalla polvere

    Cantavano e pregavano e a malapena riuscivano a reggersi in piedi”

    McCurrySteve

    MICHELE SMARGIASSI

    (segue dalla copertina)

    Davanti alle sue mostrec’è la coda, per latournée italiana di“Viaggio intorno all’uo-mo” sono stati staccati400 mila biglietti, i suoi

    libri sono costantemente ristampati. ASiena, in giugno, per la sua lectio magi-stralis, l’aula magna dell’università eragremita di ragazzini che si facevano au-

    de... Come se McCurry, al pari del bor-ghese americano medio, avesse biso-gno di dimostrare agli amici: vedete?, cisono stato davvero.

    Eccome che c’è stato davvero. Se le èsudate, le sue icone. La critica spesso ri-duce McCurry a fotografo “colorista”,di effetti facili. E questo può essere, an-che se non è così semplice. I suoi colorisono una firma, lasciamoli elencare alui stesso: «henné intenso, oro martel-lato, curry e zafferano, lacca neroprofondo e marciume riverniciato».Splendore e marciume, colore e polve-re. Non tutto riluce. Certo, la sua “palet-ta” satura ha definito lo standard dellafotografia stile National Geographic(ma ha lavorato anche per Time, Life,Newsweek...). Solo a lui la Kodak potevaaffidare il funerale di lusso della Koda-chrome 64, pellicola per diapositiveche ha fatto storia: quando cessò la pro-duzione, nel 2010, gli consegnò l’ulti-mo rullino, benché lui già da cinque an-ni fosse “andato in digitale”. Quei 36commossi fotogrammi d’addio di Mc-Curry alla sua compagna di una vita so-no conservati come la sacra sindonedell’era analogica alla Eastman Housedi Rochester.

    Ma forse pochi ricordano che tuttocominciò in bianco e nero, e con unacerta durezza. Quel ragazzino dei sob-borghi di Philadelphia che fino a di-ciannove anni non aveva fatto un viag-

    tografare tutto, anche le mani. Lui av-verte: «Non basta incontrare un uomocol turbante per tornare con una buonafoto». Per fare una buona foto, una fotoche fa dire oh! all’apertura di pagina, civuole tempo. Un centoventicinquesi-mo di secondo. Più trentacinque annidi vita spericolata.

    Certo, altri fotografi hanno rischiatola pellaccia per portare a casa qualchemetro di celluloide ben impressionata:Jim Nachtwey sfiorato da una scheggiadi shrapnel alla testa, Don McCullin sal-vato dalla sua Nikon che s’immolò perlui intercettando un proiettile. Ma Mc-Curry lo ha fatto con una continuitàammirevole. Dato per disperso un paiodi volte, sopravvissuto alla picchiata diun elicottero in Slovenia, al crollo di unpontile a Goa, alle sanguisughe in Guja-rat, a una bomba a grappolo e a un col-po di mortaio in Afghanistan, arrestatoin Pakistan e Birmania, quasi linciatoda una turba inferocita in India. La se-renità delle sue fotografie più famose èin stridente contrasto con la sua bio-grafia, e con la sua figura bonaria da ra-gioniere di banca. A conciliare gli oppo-sti ora ci pensa un volumone di memo-rie e retroscena, Steve McCurry, le storiedietro le fotografie, genere “how I did it”,curioso perché raccoglie, oltre alle im-magini e ai racconti, gli ammennicoliche il viaggiatore medio ama portarsi acasa: biglietti, appunti, opuscoli, gui-

    Il lungo viaggiodi una fotostar

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    Repubblica Nazionale

  • KASHMIR, 1995

    “È importante instaurare un rapporto:

    spiegare ciò che sto facendo

    e creare un clima di rispetto e dialogo”

    gio, la cui avventura più eccitante eraarrampicarsi sugli alberi, folgorato dadue corsi di tecnica fotografica sbarcònel ’78 in India, in tasca pochi dollari, uncoltellino svizzero e i pacchetti di noc-cioline presi sull’aereo. Pochi mesi do-po, in shalwar kameez e turbante, var-cava il confine dell’Afghanistan, ac-compagnato da spalloni mujaheddin,proprio mentre i sovietici facevano lostesso sui cingolati. Ne uscì smagrito espaventato, con decine di rullini cucitinei risvolti del mantello. C’erano le fotoche nessuno al mondo aveva. Gli si apri-rono le porte del New York Times e del-la fama.

    Né mogli né figli, una vita dedicata alviaggio come esperienza integrale,chatwiniana. Nomade per vocazione,la bussola magnetizzata verso l’Est, ilsapore speziato dell’Oriente nascostonel cognome come un destino. Famadell’occhio che non sbaglia un colpo:eppure non ha nascosto che, per pro-durre la ventina di buone foto di un ser-vizio sul NatGeo, gli servono migliaia discatti. Certo, sa riconoscere quello giu-sto. La ragazzina pashtun con gli occhiverdi come la veste che spuntava daglistrappi del mantello, come la paretedella scuolina del campo profughi Na-sir Bagh in Pakistan, la vide subito, ti-mida, all’ultimo banco. Aveva dodicianni, si chiamava Sharbat Gula, ma Ste-ve lo seppe solo diciannove anni dopo,

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    DOMENICA 15 SETTEMBRE 2013

    BANGLADESH, 1983

    “Ti metti in viaggio, prendi appunti, ti guardi intorno; all’inizio non vedi niente

    e cominci a preoccuparti… ma col passare del tempo, le cose cominciano a rivelarsi

    Man mano che il viaggio prosegue, all’improvviso vedi cose che prima non vedevi”

    AFGHANISTAN, 1979

    “Viaggiai con molti gruppi di mujaheddin e miliziani. Percorrevamo a piedi,

    trenta miglia per notte, sostentandoci con tè e pane e, quando eravamo fortunati,

    con formaggio o yogurt di capra,. Eravamo costretti a bere l’acqua dei fossi”

    IL LIBRO

    Foto e testi

    di McCurry

    sono tratti

    da SteveMcCurry. Le storie dietrole fotografie(Electa-Phaidon

    264 pagine,

    320 illustrazioni,

    59 euro)

    PAKISTAN, 1984

    “Quando iniziai a fotografare Gula,

    non sentii e vidi più nient’altro

    Mi prese completamente”

    TIBET, 2001

    “I tibetani saranno sopraffatti

    completamente, come accadde

    ai nativi americani negli Stati Uniti”

    CINA, 2000

    “Camminare attraverso queste

    montagne e visitare i monasteri

    mi è di ispirazione a moltissimi livelli”

    (segue dalla copertina)

    Eniente ha potuto intaccare la mia fede nello spirito umano, o nella bontà, talvoltainaspettata, del prossimo. Dal pescatore che ci trasse in salvo dalle gelide acquedel lago Bled, allo straniero che mi trasse a riva a Bombay, quando fui aggredito a

    Chowpatty Beach durante il festival Ganesh Chaturthi nel 1993, nel corso dei miei viag-gi ho avuto la fortuna di incontrare molte persone compassionevoli e ospitali; e spessole più gentili erano quelle che vivevano nelle situazioni più difficili.

    Per fare foto interessanti non c’è bisogno di viaggiare in paesi lontani, ma io avevo bi-sogno di muovermi e di esplorare. È una lezione che ho imparato molto presto: tutto eb-be inizio nel 1978, l’anno in cui mi licenziai dal mio impiego di fotografo in un quoti-diano di Filadelfia e comprai due centinaia di rollini fotografici e un biglietto di sola an-data per l’India. Un anno dopo, nel 1979, entravo clandestinamente in Afghanistan alseguito dei mujaheddin, portando con me solo la macchina fotografica e un temperinosvizzero. Ne riemersi dopo qualche mese, con un bagaglio di esperienze che mi sonotuttora preziose.

    Ogni viaggio, ogni incarico, ogni luogo e ogni persona che ho conosciuto e fotografa-to rappresentano una tappa del percorso che va dalle mie prime esperienze a oggi. Lamacchina fotografica consente di fissare un luogo e un momento particolari, e ogni fo-to che scatto può essere vista come un’immagine indipendente e memorabile, ma allostesso tempo è parte di una storia più ampia.

    Tutto iniziò con duecento rollinie un biglietto di sola andata

    STEVE McCURRY

    quando tornò a cercarla, perché il suoritratto era diventato la copertina piùfamosa dell’ultracentenaria rivista. Latrovò, a Peshawar, e riuscì a convincereil marito a sollevare davanti all’obietti-vo quel velo che, nel frattempo, era ca-lato come una gabbia sui volti di tutte ledonne del suo paese. Ci scoprì sotto unadonna precocemente invecchiata, pie-gata dalla vita. In cambio, lei chiese unamacchina per cucire, per dare un me-stiere alla figlia.

    McCurry non considera quella comela sua migliore fotografia. Le preferiva ilprimo scatto, con il volto della bimbaper metà coperto dal mantello. Ma or-mai è la sua Monna Lisa, e la accetta confilosofia: «So già che questa foto sarà ci-tata nella prima riga del mio necrolo-gio. Be’, meglio essere ricordati perqualcosa che per nulla». E tuttavia, quelvolto spiritato, quello sguardo di sme-raldo che sfonda le porte dell’emozio-ne, significano qualcosa. Sono l’iconadi un nuovo “orientalismo”, non piùcoloniale ma globalizzato, meno pater-nalista e più contraddittorio, che Mc-Curry è riuscito a costruire incastonan-do i conflitti del nuovo ordine mondia-le in uno scenario carico di eternità emitologia; un immaginario costruitocon sapienza, forse l’unico in grado diconvincere noi occidentali a pensarel’Oriente.

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

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    DOMENICA 15 SETTEMBRE 2013

    L’attualitàNon luoghi

    Scene di cacciaall’ombradel superstore

    Dimentichiamo perqualche minuto l’epi-ca di Hemingway eFaulkner: l’odore dellegno al risveglio, ilrumore dei passi sulle

    travi del pavimento, l’aroma affumi-cato di una colazione prima dell’al-ba, la preparazione dei fucili, il ru-more delle gocce d’acqua sulle fo-glie, ci guardiamo, mentre sdoppia-ti siamo dentro, al tepore delle fine-stre illuminate. Intorno, le forestedel Mississippi, i boschi del lago Mi-chigan, il primo vento d’autunnoche soffia tra le foglie arancioni, in-sieme ai guaiti dei cani, prima di-stanti e poi sempre più vicini, asse-condano il nostro respiro. Le nuvoleminacciano qualcosa di più dellapioggia, una premonizione per i filid’erba, e da lì a salire, fino a noi.Niente di tutto questo.

    È solo un luogo d’Italia, una quin-dicina di chilometri a sud ovest diMilano, giorni qualsiasi di questanostra epoca. Vi si arriva seguendo lapista ciclabile parallela al NaviglioGrande, in mezzo a una parola unpo’ desueta che mi piace ancoramolto: hinterland. Si passa sotto ilponte della Tangenziale Ovest. In

    quel tratto — dove sono affissi vec-chi manifesti abusivi di un circo, conle tigri che ruggiscono a salve — c’èun momento in cui il sole è nascostoproprio dietro la struttura di ferro ecemento, irradia raggi sopra e sotto,ma in controluce il nucleo sospesosembra quasi spento, costituito dacenere tiepida, soprattutto se le autoproseguono lente, incolonnate, fer-me sopra le nostre teste, e allora pos-siamo fissare quelle forme con unsenso di comunanza, di quiete. Madura molto poco. È l’unico luogo do-ve correre, ho paura di essere inve-stito a ogni passaggio di bicicletta,scooter e persino da qualche autoche passa sulla pista ciclabile recla-mando il proprio posto nel mondo.Ai lati, la Statale 494 decaduta a Pro-vinciale 59. I campi del Parco Agrico-lo Sud di Milano — tra le coltivazioniintensive di mais tenute in vita dalla

    chimica e le pigre piroette dei tratto-ri — ricordano le stagioni, la fine del-l’estate, l’inizio della caccia.

    Anche in chi corre lentamente co-me me, scatta un picco di endorfine,che nel mio caso non regala tanto lasensazione di euforia, quanto l’ac-celerazione del visibile, ogni cosa delpassato e dell’immediato futuro di-viene un presente gigante, dai con-torni nitidi, come quando vediamo irami degli alberi spogli o il gesticola-re di un uomo nella mezzora primadel tramonto.

    La seconda domenica dopo Ferra-gosto, corro adiacente a un campo dimais, le spighe quasi mature. C’èquesto cacciatore settantenne, undisarmato d’agosto, insieme ai suoicani da caccia, muta invisibile tramigliaia di pannocchie, li sento ab-baiare e ansimare sul lato sinistro,rovistano tra i fusti di mais, i latrati si

    avvicinano, forsetrovano una pre-

    da, immagino unfagiano, un coniglio

    selvatico, una lepre stancadopo metri di zig zag tra i paletti dicereali, è circondata a pochi passi dame che non vedo, se non il mais altodue metri. Il cacciatore fischia unsuono di richiamo, urla una linguaincomprensibile, lievita rauca dalla

    terra, cammina appoggiando un ba-stone, stringe qualcosa di segretonella mano, forse vi racchiude la ri-compensa per i cani. Li allena, lo sta-bilisce la legge, la giurisdizione vor-rebbe mediare l’usanza antichissi-ma, la legge dice che l’allenamentonon può avvenire in un campo colti-vato: infinite norme senza qualcunoche poi le faccia davvero rispettare,l’unica regola è quella di farcela, tor-nare a casa salvi anche stavolta.

    E allora mentre corro, ripenso amio padre, a quell’unica volta che èandato a caccia, invitato da due col-leghi. Non c’era la finzione di enti eparchi per recintare la gentilezza edescludere il resto. Era il 1971, esiste-va ancora lo spazio, le marcite deimonaci cistercensi arrivati dallaFrancia, il lascito di Leonardo daVinci, la sua geniale ripartizione idri-ca del mondo, canali, rogge, fontani-li, un’idea aggredita da politica e‘ndrangheta: nuove case invendute,capannoni metafisici, progetti diinutili tangenziali.

    Il sabato pomeriggio rivedo miopadre trentaseienne, prova l’abbi-gliamento dell’indomani, gli stivaliche calza quando lava la macchina,cammina su e giù nel corridoio, a di-sagio, i pantaloni infilati negli stiva-li, una camicia incongrua, azzurra

    GIORGIO FALCO

    Repubblica Nazionale

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    DOMENICA 15 SETTEMBRE 2013

    venatoria impiegatizia, sotto ungiaccone leggero qualsiasi. I colleghisono due fratelli, l’appuntamento èalle cinque di domenica mattina:suonano il citofono alle tre. Mio pa-dre risponde assonnato, si veste infretta, ascolto dal mio letto il rumoredegli stivali sulle piastrelle, la pacifi-ca uscita dalla porta.

    Si accomoda nel sedile posteriore,manca il pianale, le canne dei fucilisbucano dal bagagliaio, si scosta inun angolo, come se ci fosse un quar-to collega accanto. I due fratelli va-gano dal sabato sera. Si fermano da-vanti a una trattoria chiusa, gestitada loro amici. Scende il più giovanedei due, bussa in penombra, apre unvecchio assonnato che accende laluce, il fratello minore torna con trebottiglie di vino rosso. Imboccano lastrada in direzione del Ticino, miopadre non sa bene cosa dire, queidue davanti non sembrano neanchei suoi colleghi.

    Parcheggiano lungo una stradasterrata, mio padre si offre di porta-re le bottiglie per rendersi utile, nonha la licenza di caccia, se non fosseper gli stivali, sembra uno a cui han-no dato un passaggio. I fratelli scen-dono in mezze maniche di camicia,prendono i due fucili, è una frescanottata di settembre, la luna illumi-

    na d’argento il ramo del fiume. Si sie-dono lungo la riva, parlano di lavoroe di cosa cacceranno appena saràl’alba, ti devi sempre portare a casaqualcosa, si addormentano cullatidal rumore dell’acqua, mio padre liveglia fumando, i corpi accanto aifucili.

    I capannoni intervallati al maissono alla mia destra. Se fosse ungiorno feriale sentirei l’odore di sol-vente che esce dai filtri di uno stabi-limento. Oggi è domenica, l’aziendaè chiusa, sono aperti molti super-mercati e centri commerciali. Il par-cheggio del superstore è ancora vuo-to alle nove, ma il magazzino di rice-vimento merci brulica di camion efurgoni, entrano in retromarcia, peressere pronti a ripartire veloci. Lagrande saracinesca è sempre solle-vata, l’interno è buio, in qualsiasistagione dell’anno spiccano le gran-di luci al neon conficcate nel soffitto.Devono esserci molti altoparlantinel magazzino, gli annunci dellecassiere risuonano fino a me checorro, la cadenza cantilenante sullesillabe finali: un addetto ortofruttaalla cassa cinque, un prezzo alla cas-sa dieci, Compagnia dei Servizi allacassa centrale. Il dlin dlon della mer-ce invade anche il campo sul retro, lastrada, le invenzioni dei monaci e di

    Leonardo da Vinci, la caccia. L’annoscorso ho visto un cacciatore appo-stato sotto una pianta a cento metridal magazzino del superstore. Spa-rava tra un dlin dlon e l’altro, solle-vando il fucile quasi in perpendico-lare, come un contadino quandoraccoglie le olive e aggancia i ramidella pianta, scuotendoli per far ca-dere più olive possibili. Alcuni uccel-li sono volati via verso il parcheggio,soglia tra una civiltà e l’altra, un an-golo di terra dell’hinterland sud diMilano.

    Quando smetto di correre tra glispari rinnovati, mi rimbombano leorecchie, non solo per i proiettili, lamorte e la vita, ma anche per il fi-schio intervallato a quella lingua in-comprensibile d’agosto, né italianoe neppure dialetto, idioma senza unsignificato evidente se non nellacontinua riproposizione, resistenteal dlin dlon della cassiera, la linguadel vecchio cacciatore che allena ipropri segugi sotto il sole estivo,frantuma le sillabe e lancia la propriaconoscenza ai cani, alle lepri, a meche senza cronometro e cardiofre-quenzimetro appoggio l’indice e ilmedio sulla superficie delle vene,ascolto i battiti del polso, il sanguepulsa sotto le mie dita.

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    L’AUTORE

    Giorgio Falco

    ha scritto

    L’ubicazione del bene,(Einaudi, 2009)

    raccolta di racconti

    ambientati

    a Cortesforza,

    luogo immaginario

    analogo

    a quell’hinterland

    descritto

    nel reportage narrativo

    che qui pubblichiamo

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    “L’uomo si apposta

    con il suo cane

    dietro una pianta

    a pochi passi

    dal parcheggio,

    imbraccia il fucile

    e spara agli uccelli

    mentre suona

    il dlin dlon

    della cassa

    numero cinque”.L’apertura

    della stagione

    venatoria

    in un racconto

    ambientato

    nell’hinterland

    Zona grigia

    dove Milano

    non è più città

    e non sarà

    mai più

    campagna

    Repubblica Nazionale

  • LA DOMENICA■ 32

    DOMENICA 15 SETTEMBRE 2013

    “La nostra amicizia non fu facile, ma la rimpiangerò”scriveva Sartre all’intellettuale franco-algerino

    È uno dei documenti portati alla luce da una mostra e da un volumeche celebrano il premio Nobel nel centenario della nascita

    L’inedito1913-2013

    Non potrei parlare mai con distacco di un uomo al quale, dal principio, è la passione chemi ha legato. Era dopo la guerra, io ero giovane. Anche lui lo era ancora. Io ero uno sco-nosciuto. Lui era già famoso. Sin dai primi giorni ho capito che sarebbe stato il sole e l’o-

    nore della mia gioventù. Sin dalla prima volta, è lui che prese l’iniziativa di chiamarmi per chiedere di pubblicare nel-

    la rivista che dirigevo allora, Caliban, un testo del suo amico Louis Guilloux, di cui avevo già let-to Le Sang Noir. Sono abbastanza convinto che avesse accettato di vedermi dopo quella primatelefonata perché gli recitai a memoria alcuni passaggi del romanzo di Guilloux. Quando mi ri-cevette scoprì che, come lui, ero nato in Algeria. Mi adottò subito, almeno credo o comunquecosì mi piace credere.

    Capivo tutto ciò che diceva, come se leggessi nel suo pensiero. Col tempo, sono diventato ca-pace di anticipare la fine delle sue frasi. Questo incontro benedetto si è prolungato per dieci an-ni, fino al nostro litigio, per me drammatico, a proposito dell’Algeria. In quei dieci anni ha pa-trocinato la mia rivista, mi ha permesso di scrivere il mio primo libro, pubblicato nella collanada lui diretta. Mi ha trovato un lavoro quando ero disoccupato e mi ha presentato a tutti i suoiamici. Di lui sapevo poco ancora, a parte l’immagine pubblica che veniva dal suo essere stato di-rettore di Combate autore de Lo straniero. Sartre aveva detto che Lo stranieroera una sintesi traun eroe di Kafka e uno di Hemingway. Lui, Camus, viveva della sua gloria in un modo insolenteche spazientiva talvolta quelli che ignoravano come quel trionfo letterario fosse spesso inter-rotto dalle frequenti crisi di tubercolosi. Durante la sua convalescenza esprimeva ogni volta unavittoria su una fine possibile. Lo vidi una volta dopo che i medici gli avevano proibito l’esposi-zione al sole. Ero abbattuto ma lui, invece, non lasciava trasparire niente. Credo che fosse anchelui abbattuto. Gli avevo recitato le prime linee di Nozzepensando che non avrebbe mai accetta-to di vivere nell’ombra. Mi disse che aveva ancora fiducia. Sempre appagato, sempre minac-ciato. Poteva contare su questa famosa “forza oscura” di cui si trova definizione ne Il rovescio eil diritto, la sua opera prima, così come ne Il primo uomo, il suo libro postumo e incompiuto.Questa fiducia nella forza che lo sosteneva, a lui e a nessun altro, non appartiene all’ottimismodella fede. È un mistero che non c’entra niente con Dio.

    Appena ci conoscemmo mi adottòo almeno così mi piace credere

    JEAN DANIEL

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    PARIGI

    «Mio caro Ca-mus, la nostraamicizia nonfu facile, ma larimpiangerò». È l’agosto 1952, Jean-PaulSartre scrive al suo collega e un tempo ami-co dopo l’ennesimo “tradimento”, la pub-blicazione de L’uomo in rivolta. Una lette-ra appassionata ad Albert Camus: inedita,riemerge solo ora nel centenario della na-scita di quest’ultimo.

    Dopo l’esordio affettuoso, Sartre de-nuncia «l’incompetenza filosofica» del-l’autore, prima di affidare la stroncaturadel libro sulla sua rivista Temps Modernes.È una nuova testimonianza della forte re-lazione tra i due intellettuali francesi, pro-tagonisti di una contrapposizione ideolo-gica e filosofica che ha fatto epoca nel mon-do culturale europeo, segnando la sinistrafrancese. Un documento prezioso perchéesistono poche tracce del ricco carteggiointercorso tra Camus e Sartre. L’intellet-tuale franco-algerino aveva infatti brucia-to tutta la corrispondenza con il filosofoesistenzialista dopo le numerose dispute

    sul marxismo, il totalitarismo, i crimini delcomunismo. Era un’epoca, ormai remota,in cui si poteva rompere un legame umanoimportante solo per difendere un’idea, unprincipio.

    Sartre si era interessato a Camus dopol’uscita de Lo straniero, nel 1942. Il primoappuntamento era stato — quasi banaledirlo — al Café de Flore. I due pensatori sifrequentano. Sartre propone al nuovoamico di partecipare alla sua nuova pièce,Huis clos. Ma qualcosa va storto. È l’iniziodell’allontamento. In un altro, raro mes-saggio ritrovato di recente, Camus ringra-zia lo stesso Sartre per la collaborazioneteatrale, sebbene interrotta. «Le auguro,così come a Castor, di lavorare bene». “Ca-stor” è il soprannome di Simone de Beau-voir. Anche questa lettera inedita fa parte,insieme ad altri cimeli, della mostra “AlbertCamus de Tipasa à Lourmarin” a cura diHervé e Eva Valentin, con la supervisionedella figlia dello scrittore, Catherine Ca-mus. Nelle teche allestite a Lourmarin, lacittà provenzale dov’è sepolto lo scrittore,sono stati esposti i manoscritti de La pestee Lo straniero, e la copia de La gaia scienzache Camus aveva ricevuto in Algeria nel1933 dal suo amato insegnante di filosofia,Jean Grenier. Il testo di Nietzsche era sem-pre nella sua borsa, anche quasi trent’annidopo a bordo della Facel-Vega con cui sischiantò il 4 gennaio 1960.

    L’amico Camus era polemico, ovvia-

    mente in rivolta. Ma anche fedele e pre-muroso, come raccontano le corrispon-denze con alcuni dei compagni di stradadella sua breve ma intensa vita, che ora Gal-limard ripubblica integralmente. Con loscrittore bretone Louis Guilloux costruisceuna relazione che durerà fino alla morte.Insieme andranno a Saint-Brieuc, sullatomba del padre, Lucien Camus, e poi neiluoghi natali dell’Algeria. È a Guilloux checonfessa alcune fragilità, insicurezze. «Hofinito La peste — scrive nel 1946 —. Ma misono fatto l’idea che sia un libro totalmen-te mancato, ho peccato d’ambizione equesto fallimento mi pesa. Lo tengo nelmio cassetto, come qualcosa di un po’schifoso».

    Le lettere di Camus agli amici più cari di-segnano una costellazione sentimentale almaschile, come dice la dedica a René Chardefinito «fratello di pianeta». Forte il debi-to di riconoscenza che traspare nei mes-saggi a André Malraux, colui che lo ha rac-comandato a Gallimard nel 1940 e al qua-le, per ironia del destino, “scipperà” il No-bel. Un altro scrittore francese insignito delprestigioso riconoscimento, Roger Martindu Gard, diventa invece una figura quasipaterna per Camus. Lo accompagna neisuoi dilemmi, lo rassicura. Sarà dedicato a

    lui il famoso Discorso di Stoccolma pro-nunciato nel 1957. Con il poeta FrancisPonge, si lascia andare a riflessioni piùumane. «In un mondo in cui ci sono cosìtante cose illusorie, ci si può appoggiare so-lo sugli uomini». Insieme discutono di po-litica. Ponge — cui Camus dà del lei — ade-risce all’ideale marxista rivoluzionario.Una chiesa, una religione, secondo Ca-mus. «Quel che è convinzione religiosa perun cattolico diventa convinzione politicanel suo caso. Non credo al mondo politicoche lei spera. Dunque sono nel mezzo delcammino, meno felice di lei, armato solodella mia buona volontà e dal forte deside-rio di non barare».

    La rottura con Sartre riaffiora spesso nel-le riflessioni sull’amicizia che è, secondouna citazione di André Gide, «nutrimentoesistenziale». Non mancano le allusioni alfilosofo che teorizza la violenza rivoluzio-naria, «censore che si accomoda semprenel senso della Storia». Il filosofo dedicheràa Camus un bellissimo testo su come leamicizie possano interrompersi, senzamai finire. «Avevamo avuto un disaccordo:ma un disaccordo non è nulla, solo un altromodo di vivere insieme. Non ho mai smes-so di pensare a lui, di sentire il suo sguardosulle pagine del libro, sul giornale che leg-geva, e di pensare: Cosa ne dice? Cosa ne di-ce in questo momento?». Un’appassiona-ta inimicizia tra due uomini in rivolta.

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    ANAIS GINORI

    Lettereamiciagli

    “La Peste? Ho fallito, è schifoso”

    ALBERT CAMUS

    Repubblica Nazionale

  • ■ 33

    DOMENICA 15 SETTEMBRE 2013

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    a Francis Ponge30 AGOSTO 1943

    (...) I miei rapporti profondi con i cattolici?Diavolo! (Se così si può dire). Speroche non si tratti di un interrogatorio di ortodossia. In sintesi, ecco: ho amici

    cattolici, e provo simpatia per coloroche lo sono davvero. Sento che, in fondo, ci interessiamo alle stesse cose. Dal loro punto di vista, la soluzione è evidenteNon lo è per me. Ma quel

    che ci interessa, a loro come a me,è l’essenziale. Non sono

    così vecchioper pensare

    che la mia posizione sia definitivaÈ così che i miei amici cattolici pensanoche mi avvicino a loro. In verità, è da qui chemi allontano

    a Louis Guilloux12 SETTEMBRE 1946

    Mi sento colpevole, ma le cose non vannobene per me. Sono tornato dall’Americacon l’unico desiderio di rimettermial lavoro. Ho lasciato Parigi per la Loira e ho lavorato come un forzato per un meseIn fin dei conti, ho finito La PesteMa mi sono fatto l’idea che sia un librototalmente mancato, ho peccatod’ambizione e questo fallimento mi pesaLo tengo nel mio cassetto, come qualcosadi un po’ schifoso. (...)

    a Roger Martin du Gard20 NOVEMBRE 1957

    Caro amico,era anche mia intenzione accettare, con il viaggio a Stoccolma, tutti gli obblighiprevisti. Non sono particolarmente dotato

    per questo tipo di cerimonie ma mi sembra che occorra tentare

    di giocare lealmente il giocoDel resto, il regista e l’attore

    che sono in me si divertiranno

    di uno spettacoloche, mi dicono, sia impressionante(...) Mi sentodisorientatoe stanco, e vorreipoter accogliere più generosamentequesto “favore”del destino,

    di cui per ora sentosolo il peso. Sono

    felice e fiero di esseresuo contemporaneo

    © Gallimard 2013

    ‘‘

    RICORDISopra, la copiade La Gaia Scienzadi Nietzscheche Camus avevacon sé ancheil giorno in cui morìin un incidented’auto (4 gennaio1960): non se neseparava maiA seguire, una raralettera di Camusa Sartree un’altra a MalrauxIn basso, una copiade La cadutadedicata dall’autorea René CharI documentisono trattidal catalogodella mostraAlbert Camusde Tipasaà Lourmarina cura di Hervée Eva ValentinA destra un ritrattodello scrittoreNell’altra pagina,Albert Camus(accovacciatoal centro)con un gruppodi amici nel 1944:tra gli altriLacan (il primo da sinistra in piedi),Picasso(al centro)e Sartre(il primo in bassoa sinistra)

    Repubblica Nazionale

  • MARIO SERENELLINI

    MONTREAL

    Hanno avuto la stessa infanzia, so-litaria, schiva, leopardiana. E leloro opere ci guardano con glistessi occhi, smisurati e infelici.Lei, spuntata in un Sud incupito da schiavitù e KuKlux Klan, già negli anni ’50 aveva cominciato ainvadere ogni angolo d’America con quei suoi ri-tratti di bimbi dagli occhi grandi e tristi. Lui, na-to parecchio tempo dopo nella monotona pro-vincia hollywoodiana, fin da bambino si era fat-to affascinare da quei dipinti di piccoli freaks. Efu così che Margaret Keane, la pittrice dei figli dinessuno dallo sguardo di bambola, diventò lamusa ispiratrice di Tim Burton, il regista dei mo-stri infantili. A lei e alla sua storia ha deciso di de-dicare un film. Lo ha appena finito di girare in Ca-nada, dove lo abbiamo incontrato. E non potevache chiamarsi così, Big Eyes.

    Margaret Keane oggi ha ottantasei anni, e so-lo ora ha trovato nella luce delle Hawaii la tran-quillità, dopo una vita tormentata e frustrata,persino artisticamente espropriata. Da un mari-to, Walter, che per anni l’aveva ridotta a catenadi montaggio del proprio business miliardario,piazzando ovunque, nei supermarket e nellestazioni di servizio, oltre che in musei e collezio-ni private, i quadri daleieseguiti a getto continuoe su cui lui si limitava a mettere la propria firma.Costringendola al silenzio sui loro segreti azian-dal-coniugali con minacce pesantissime.

    Che Tim Burton avrebbe voluto fare un filmsulla sua fonte d’ispirazione non è un mistero.Lo annunciò sin dagli anni ’90, quando il regi-sta di Edward mani di forbice andò a Sebasto-

    SpettacoliNightmare

    LA DOMENICA■ 34

    DOMENICA 15 SETTEMBRE 2013

    Il regista dei mostri infantiliracconta il suo ultimo filmÈ un doveroso omaggio

    alla pittrice Margaret Keanela cui incredibile storianon ha proprio nulla di kitsch

    IL REGISTA

    Sotto, il regista

    Tim Burton

    Nell’altra pagina,

    in alto a destra,

    con l’ex compagna

    Lisa Marie

    e il loro chihuahua

    fotografati accanto

    al ritratto realizzato

    da Margaret Keane

    La mia musaè una bimbadagli occhi grandi

    Tim Burton

    Repubblica Nazionale

  • LA DOMENICA■ 42

    DOMENICA 15 SETTEMBRE 2013

    I saporiDell’altro mondo

    LIMA

    “Il vecchio Antonio José Bolivar sa-peva leggere, ma non scrivere. Eraarrivato in Amazzonia con l’acer-ba irruenza del ventenne: senza ri-spetto, senza chiedere permesso. L’Amazzonia gliaveva sbattuto la porta in faccia, vanificando ognisuo tentativo di coltivare, disboscare, dominare, eportando via la sua donna, il suo impalpabile velod’amore, con un soffio leggero di malaria”.

    Nessuno come Luis Sepulveda ha saputo rac-contare la terrificante magìa della foresta equato-riale più grande del pianeta, 7 milioni di kmq sud-divisi tra Brasile (in primis), Colombia, Perù, Ve-nezuela, Ecuador, Bolivia, Suriname e Guyana, emigliaia di varietà di animali, fiori, alberi, ben lon-tani dall’essere censiti in modo definitivo. Un eco-sistema straordinariamente affascinante anchedal punto di vista gastronomico, tanto che negli ul-timi anni i più grandi cuochi del mondo si sonospinti fin qua per scoprire, studiare, sperimentarein presa diretta i sapori originali e indimenticabilinascosti nell’Eden verde che circonda gli oltre sei-mila chilometri del Rio delle Amazzoni.

    A mezzo millennio abbondante dalla scopertadell’America, acquisite come nostri i tesori ali-mentari di allora — pomodori, cacao, patate, fa-gioli, peperoni, mais — siamo pronti per quellache Ferran Adrià ha già battezzato «la nuova rivo-luzione gastronomica». Il super cuoco catalano,infatti, ha appena lanciato il progetto “Perù sabe”insieme al collega Gastón Acurio, padre della ga-

    stronomia sociale peruviana: l’idea è quella dimandare in passerella gioielli botanici come la co-cona (una via di mezzo tra pomodoro e limone,magnifico nelle marinature del pesce) o il cupuaçu(fratello aromatico del cacao), da usare anche co-me mezzo di promozione sociale e sviluppo so-stenibile. Alimenti non solo buonissimi, ma anchesorprendentemente terapeutici, come nel casodel camu camu, bacca asprigna e aromatica dalleeccezionali capacità anti-mutagene, sotto la lented’ingrandimento degli scienziati.

    Così, via libera ai congressi locali, protagonisti imigliori cuochi latinoamericani a confrontarsicon il resto del mondo (la manifestazione di Lima,“Mistura”, si chiude a metà mese, mentre l’ap-puntamento con “Mesa Brazil” è in programma aSan Paolo a inizio novembre), e poi la classifica dei“50 Best” interamente dedicata agli chef del conti-nente — primo Astrid y Gastón, seguito dal D. O. Mdi Alex Atala — e la cena-evento Gelinaz, con unaventina tra i migliori cuochi del mondo a reinven-tare la ricetta del polpo al cilindro di Acurio. Se ave-te a cuore la differenza tra un frutto appena colto eil suo povero surrogato, spedito a diecimila chilo-metri di distanza con una nave-frigo, sappiate cheil turismo amazzonico è in pieno sviluppo, tra cro-ciere sul Rio delle Amazzoni e soggiorni in parchieco-paradisiaci come il Pacaya Samiria. Dopo unagiornata di esplorazioni cibarie, vi resterà da sco-prire solo la differenza tra Pisco Sour e Caipirinha.

    LICIA GRANELLO

    Dal Brasile alla Guyana passando per il Perù. È qui, tra “cocona” e “camu camu” , l’ultima frontiera dei grandi chef che amano l’innovazione.E l’ecosostenibilità

    scoperta

    SudamericaLa

    del

    Tutto il BiodelleAmazzoni

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    CevichePesce crudo

    marinato

    nel limone,

    peperoncino,

    coriandolo

    e tomatillo

    Repubblica Nazionale

  • ■ 43

    DOMENICA 15 SETTEMBRE 2013

    Gli indirizzi

    TORINO

    MERCATO PORTA PALAZZO Piazza della Repubblica

    Aperto la mattina,

    sabato tutto il giorno,

    domenica chiuso

    MILANO

    MERCATO COPERTOPiazza XXIV Maggio

    Aperto mattina

    e pomeriggio,

    domenica chiuso

    GENOVA

    MERCATO ORIENTALE Piazza Colombo

    Aperto mattina

    e pomeriggio,

    domenica chiuso

    BOLOGNA

    MERCATO LATINO Via San Felice 11

    Aperto mattina

    e pomeriggio,

    domenica chiuso

    FIRENZE

    MERCATO CENTRALE Via dell’Ariento

    Aperto la mattina,

    sabato tutto il giorno,

    domenica chiuso

    ROMA

    NUOVO MERCATO

    ESQUILINOVia Giolitti

    Aperto tutte le mattine

    fino alle 14

    SALERNO

    MERCATO

    DI VIA LIMONGELLI Parco del Mercatello

    Aperto mattina

    e pomeriggio

    BARI

    MERCATO

    ORTOFRUTTICOLO Via Caracciolo

    Aperto tutte le mattine,

    domenica chiuso

    PALERMO

    MERCATO

    IL CAPOPorta Carini

    Aperto tutte le mattine,

    domenica chiuso

    CAGLIARI

    MERCATO

    DI SAN BENEDETTOVia Cocco Ortu

    Aperto tutte le mattine,

    domenica chiuso

    LA RICETTA

    Pedro Miguel Schiaffinoguida a Lima la cucina di uno dei migliori ristoranti,il “Malabar”, e del bistrò“ámaZ”, dove lavoraalimenti amazzonici come il cupuaçu, ovvero il theobroma grandiflorum:di polpa bianca ha un gustotra cioccolato, pera, ananas

    Cassata de cupuaçu

    Partiamo da un concetto: la rela-zione tra uomini e cibo devecambiare. E l’Amazzonia, con i

    suoi confini naturali, che coinvolgonotanti paesi del Sudamerica, è unostraordinario campo d’intervento perstrutturare i territori a partire da bio-diversità, gastrodiversità e sociodiver-sità, per garantire cibo buono e soste-nibile. Come cuoco so che la materiaprima è importante quanto la mise enplace: per questo al D. O. M, il mio ri-storante, nel centro di San Paolo, ab-biamo scelto di lavorare i prodotti del-l’Amazzonia. Da qui è nata la fonda-zione Atá (fuoco, in lingua nativa) ani-mata da antropologi, ambientalisti,scienziati, uniti in un emozionantepercorso interdisciplinare. Una sceltaetica e lavorativa che affida le decisio-ni a noi chef, liberi di rifornirci pressosupermercati, distributori, discountoppure da allevatori, artigiani, agri-coltori biologici. E sono proprio que-ste scelte a portare cambiamenti pic-coli ma profondi specialmente per“cuochi urbani” come me, di rado acontatto con la natura.

    Troppo a lungo abbiamo chiuso gliocchi sulla decadenza dell’ambiente:ora dobbiamo ripensare il rapportocol cibo, mettere a fuoco la necessità dinon sprecarlo. L’Amazzonia è la piùgrande dispensa del mondo ed è il pol-mone della terra. Abbiamo semprepreso e mai restituito: è giunta l’ora diinvertire la tendenza. Stiamo recupe-rando le aree degradate, trasforman-do i deserti verdi delle coltivazioni pergli allevamenti massivi in aree ricchedi piante native che significa fiori, api,maiali allo stato brado. Dobbiamo co-minciare a ridurre i consumi di carnee a considerare gli insetti come cibo, atutti gli effetti. Si tratta di passaggicomplessi ma necessari. E sarà l’A-mazzonia il simbolo della rinascita diMadre Terra.

    * Numero 6 nella classifica mondiale 50 Best chef,

    guida il ristorante D. O. M. di San Paolo

    La dispensadel pianeta

    Cassava Dal tubero con quasi

    diecimila anni

    di storia alimentare,

    si estraggono la salsa

    tucupi e una farina, detta manioca,

    per dolci e minestre

    d’infanzia

    Jambu La Acmella oleracea

    ha foglie simili

    al crescione

    e proprietà

    anestetiche, indicate

    per smorzare in bocca

    la piccantezza

    del peperoncino

    GuaranàColore rosso-arancio

    è il re degli energizzanti

    naturali

    Sacro alla tribù

    dei Guaraní,

    ricco di un alcaloide

    simile alla caffeina,

    ma a lento rilascio

    Camu camuAlta concentrazione

    di vitamina C

    e gusto esoticamente

    acidulo: il frutto

    figlio delle piogge

    alluvionali

    è usato per succhi,

    torte e confetture

    Insalatadi chontaDal frutto della palma

    il cuore tenero

    e nutriente

    da affettare con anelli

    di cipolla cruda

    Per condire: limone,

    sale, pepe e olio

    TimbucheBollitura del pesce

    bocachico, dalle carnirosate, insieme

    a peperoncino dolce

    e aglio

    Prima di spegnere,

    foglie di coriandolo

    e farina di yucca

    JuaneRiso (oppure yucca,

    chonta o fagioli)bollito, uova

    strapazzate e carne

    di gallina, tutto avvolto

    in foglie di bijao,accompagnato

    da succo di fichi

    TacacáIn una pentola,

    aglio, cicoria, sale

    e tucupi a fuoco lento, nell’altra pentola

    foglie di berroda sbollentare

    Farina di yucca

    e gamberi disidratati

    ChampúsguanábanaIn acqua e zucchero

    mela cotogna, ananas,

    mela, cannella

    e chiodi di garofano

    A fuoco spento,

    pezzi di guanábana, farina di mais e limone

    A tavola

    ALEX ATALA *

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    TambaquiLungo oltre un metro

    per 30 kg di peso,

    pur vivendo libero

    nelle acque di Orinoco

    e Rio delle Amazzoni

    è tra le specie

    più adatte

    alla piscicoltura

    Montare i tuorli con lo zucchero e aggiungere il latte caldoFar addensare il composto a fuoco lento,

    senza mai arrivare a bolliturae lasciare raffreddare

    Frullare la polpa di cupuaçue mescolare alla cremaIncorporare la panna con movimenti dal basso verso l’alto,

    perché non si smontiAggiungere le castagne e il cioccolato

    Prendere degli stampini in silicone,riempirli con la miscela e mettere in freezer

    Quindi estrarre le cassatine dagli stampini e lasciarle riposare a temperatura ambiente un quarto d’ora prima di servire

    Ingredienti per 4 persone

    250 g. di latte intero

    4 tuorli d’uovo

    100 g. di zucchero

    100 g. di panna montata

    600 g. di cupuaçu

    50 g. di castagne

    tostate a pezzetti

    30 g. di cioccolato

    a pezzetti

    Repubblica Nazionale

  • LA DOMENICA■ 44

    DOMENICA 15 SETTEMBRE 2013

    Dalla vita aveva avuto tutto: un papàfamoso, una carriera tracciata,il successo. Ma finì dritta all’inferno:eroina, crack e poi ancora un calvariodi malattie. Ora, a sessantatré anni

    più bella che mai, si senterinata: “Quando ne sono venutafinalmente fuorimi sono accortache mi era

    rimastasoltanto la voceDio ha voluto essereclemente con me”

    ZURIGO

    Mezzogiorno. La halldell’albergo è unviavai di congressi-sti in pausa caffè.Quando lei emerge da uno degli ascen-sori, il vociare diventa brusio, poi silen-zio. Infine un passaparola mormorato:«Chi è?». Natalie Cole, cantante di stir-pe reale, non passa inosservata. È anco-ra bellissima a sessantatré anni. Alta,magra, coperta da un peplo turcheseche Fidia non avrebbe saputo drappeg-giare meglio; splendidi turchesi natu-rali ai lobi, al collo, ai polsi; le unghie lac-cate di turchese, anche quelle dei piediche spuntano dal sandalo silver. La re-gina nubiana si fa largo tra cartelle e gri-saglie, si accomoda nel primo salottino,uno spacco vertiginoso scopre la gam-ba da miss. Nulla che faccia indovinarele antiche battaglie con le droghe, glianni dello sbandamento e della dipen-denza, quelli dolorosi della riabilitazio-ne, l’inferno degli ultimi anni, la malat-tia (prima una grave forma di epatite C,poi un’insufficienza renale cronica), ladialisi, la morte di sua sorella e di suamadre, infine, nel 2009, il trapianto direne. «Quando la intervistai, pochi me-si prima dell’intervento, fummo inon-dati da email di persone che le offrivanoun organo sano», racconta Larry Kingdella Cnn. Erano i suoi fan, quelli che laadorano dai tempi di Pink Cadillac, lacanzone di Springsteen che nel 1987 lariportò al successo dopo il buio dellatossicodipendenza, e che non hannodimenticato Unforgettable, un duettovirtuale con la voce di suo padre che nel1991 fu il disco dell’anno. «La mia se-conda grande occasione», ammette

    l’artista. «A dire il vero nessuno si aspet-tava un successo del genere da quell’al-bum in piena esplosione hip hop, nean-che i discografici e i produttori. Pensa-vamo di fare un disco per i nostalgici diNat King Cole e gli amanti del jazz».

    Quest’anno si è riavvicinata a papàpubblicando Natalie Cole en Español(un altro duetto virtuale, Acércate más,oltre alle performance con Juan LuisGuerra e Andrea Bocelli), un album chereplica il fortunato exploit latino di suopadre (Cole Español, 1958), morto pre-maturamente di cancro nel 1965. «Ave-vo otto anni, ricordo quando papà partìper l’Avana, sfortunatamente non miportò con sé, Cuba all’epoca era consi-derata un’isola peccaminosa: giocod’azzardo, bordelli. Però andai con luiin Messico, rimasi travolta dai colori,dal calore della gente. Fu accolto comeun re, non mi ero mai resa conto di ave-re un divo in casa; mia madre era moltosevera, non voleva che io e mia sorellavenissimo travolte da un mondo che leiconsiderava… pericoloso». Riaffiora-no i ricordi di quegli anni in cui Nat KingCole, il primo cantante di colore a con-quistare le classifiche dei bianchi e adavere uno show radiofonico e televisivotutto suo, tornava a casa dalle lunghetournée e riuniva quello che chiamava«il mio piccolo harem» (la seconda mo-glie, Maria Ellington — nessuna paren-tela col Duca sebbene avesse cantatonell’orchestra — e due figlie) per i rac-conti di rito. «Non sempre i gusti musi-cali dei miei coincidevano», ricorda.«Mamma era più attratta dalle grandiorchestre, adorava Jackie Gleason;papà invitava da noi le dive del jazz, co-me Dinah Washington e CarmenMcRae, che erano spesso in giro per ca-sa. Piacevano anche a me, ovviamente,ma a un certo punto ebbi l’inevitabileperiodo di ribellione adolescenziale;tutta colpa del rock’n’roll e della Mo-town. Il mio primo idolo fu Elvis Presley,dormivo con le sue fotografie sotto il cu-scino. Poi fu la volta di Sam Cooke eJackie Wilson, Little Richard e JamesBrown. E subito dopo le Supremes,Marvin Gaye, Martha Reeves and theVandellas, Stevie Wonder. Quando l’A-merica fu travolta dalla British inva-sion, presi la grande decisione: vogliofare la cantante rock! A volte tenevo se-greti i mie gusti musicali per paura di of-fendere papà. Che sorpresa quella serache tornò a casa con un album dei Bea-tles in mano. Piacevano anche a lui!».

    Nat era morto da dieci anni quando

    Natalie pubblicò il suo disco d’esordio,nel 1975. La mamma non approvava, edi più la preoccupava il fatto che gli ido-li di sua figlia erano i rocker maledetti,Janis Joplin soprattutto, e i rivoluziona-ri delle Black Panthers. «Fece il diavoloa quattro quando le dissi che volevo fa-re seriamente la cantante. Alla fine si ar-rese: se proprio vuoi farlo cerca di cir-condarti di gente come si deve, questomondo è pieno di sciacalli. Aveva pati-to le pene dell’inferno con papà. Quan-do s’incontrarono lui non era ancoraveramente famoso e la vita non era faci-le per un cantante di colore, soprattut-to se — come Nat King Cole — non eraconfinato nella cosiddetta race musicche piaceva solo ai neri; la metà dell’au-dience di mio padre era bianca. Io stes-sa ho dovuto affrontare pregiudizi raz-ziali all’inizio della carriera, immaginicome doveva essere trent’anni prima. Avolte, durante le tournée nel Sud, lui e lamamma dovevano dormire in macchi-

    na perché non c’erano alberghi dispo-sti ad accoglierli. Non era politicamen-te impegnato ma comunque molto in-transigente. Non permetteva a nessu-no di interferire sul suo repertorio e an-dava su tutte le furie quando obiettava-no che le canzoni che sceglieva eranotroppo “bianche”. Memore di questedifficoltà, mia madre prese in mano lasituazione e mi affidò a un’agenzia dispettacolo di cui si fidava ciecamente.Ma i problemi razziali ancora c’erano;anche negli anni Settanta mi è capitatodi essere allontanata da qualche risto-rante perché ero nera. Praticamentel’altro ieri».

    Per anni ha esitato a raccontare i latipiù oscuri della sua storia. Si sentiva incolpa. Fortunata, viziata, aveva avuto lasua grande occasione come artista,aveva un figlio: perché era finita così inbasso? Difficile immaginarla alla deri-va, costretta a bussare alle porte deglispacciatori di Los Angeles per implora-re una dose di crack o di eroina, incapa-ce di guidare e soprattutto di badare al-la sua creatura (Robert per poco nonaffogò nella piscina della villa mentre leiera in preda a uno dei suoi trip). «Perquanti sforzi una famiglia come la miapotesse fare per sembrare “normale” larealtà era un’altra», riflette oggi. «Hoavuto da bambina l’attenzione di cuiavevo bisogno? No. I miei raramentec’erano quando li avrei voluti accanto.Sono cresciuta con le governanti.Mamma era una moglie gelosa — e dia-mine! ne aveva ben donde — e seguivamio padre in tour più che poteva. Le oc-casioni di stare tutti insieme erano po-che. Una cena normale era un avveni-mento per noi».

    Le cose precipitarono, Natalie erafuori controllo al punto che la poveraMaria Cole fu costretta a rivolgersi al tri-bunale di Los Angeles per chiedere l’in-terdizione della figlia ormai «incapacedi badare a se stessa e al bambino». Fuuno shock quando il Los Angeles Timespubblicò la notizia, ma il putiferio chegenerò convinse Natalie a entrare in uncentro di riabilitazione. È l’unico mo-mento dell’intervista in cui la regina nu-biana tradisce un’emozione profonda;la voce è impercettibile, infantile, le ma-ni tremano: «Se finisci schiava delladroga, è lei la tua padrona, non hai né lavoglia né la possibilità di reagire. Pauradi morire? Neanche ti sfiora. Quel chepiù mi divorava era il senso di colpa peraver deluso tutti, mia madre, mia sorel-la, tutti coloro che avevano creduto in

    me e avevano investito tempo e denarosulla mia carriera. Quando ne vennifuori fu come ricominciare daccapo, unnuovo esordio. Fortunatamente la vo-ce c’era ancora, le droghe l’avevano mi-racolosamente risparmiata. Le cose sa-rebbero potute andare molto peggio,Dio è stato clemente». Ma un corpomesso a dura prova dagli abusi prima opoi presenta il conto. Per Natalie il cal-vario è iniziato dieci anni fa. «Ci vuoletanta forza a superare la malattia, so-prattutto se arriva all’improvviso.Quando stavo entrando in sala opera-toria pensavo, cosa farò se ne esco viva?Mi farò monaca? Diventerò un’eremitain cima alla montagna? Ho continuatosemplicemente a vivere, solo mi voglioun po’ più bene e voglio un po’ più beneagli altri. Forse rido un po’ più forteadesso, forse canto con più emotività.Nei momenti di down ripenso ai giornitrascorsi con mio padre, è lo psicofar-maco migliore che abbia mai speri-mentato. Dieci anni fa, in uno di queigiorni in cui mi chiedevo se valesse lapena fare un altro disco e tornare sulpalcoscenico, mi è venuto in mentequel viaggio in Messico; era la primavolta che uscivo dagli Stati Uniti e primadi allora non c’erano state tante occa-sioni di stare vicini a lungo. Ho ritrova-to le foto ingiallite di quei giorni a Mexi-co City, io con un divertente vestitino daseñorita. Il mio disco latino è un omag-gio a lui. E alla ragazza di El Salvador checol suo rene mi ha salvato la vita».

    La hall si è svuotata, i congressisti orasono a pranzo. Lo chauffeur viene ainformarla che è pronto per condurlaalle prove. Che canterà stasera? Le can-zoni di papà? «Non solo. Non mi sotto-valuti, sotto l’abito da sera batte ancoraun cuore rock».

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    Il mio primo idolofu Elvis Presley,mi portavo a lettole sue fotoAncora oggisotto l’abitoda sera batteun cuore rock

    Natalie Cole

    GIUSEPPE VIDETTI

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    Repubblica Nazionale

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