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Giorgio Morganti

LA GRANDE CRISI E IL TRAMONTO DEL CAPITALISMO … · quale sfociò nella prima guerra mondiale. ... In questa situazione, la dipendenza dai prestiti americani dell’economiaeuropea

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Giorgio Morganti

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La Grande Crisi può essere considerata uno spartiacquenella storia economica e sociale. Per farvi fronte tutti i paesisi videro obbligati a inventare nuove forme di politicaeconomica diverse da quelle dell’ortodossia liberale. Inquesto capitolo incontreremo la posizione di Karl Polanyie di Joseph Schumpeter e la loro analisi sulle cause deldeclino. Pur muovendo da posizioni culturali e politichediverse, entrambi concordano sull’importanza delle causesociali e politiche del declino del capitalismo liberale.Ed entrambi delineano l’emergere di un nuovocapitalismo più regolato dalle istituzioni politiche.

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L’800 fu il secolo d’oro del capitalismo liberale perché in cent’anni nonci fu una grande guerra, il mercato assicurò una forte crescita dellaproduzione e degli scambi. Col tempo però emersero però quelletensioni sociali e politiche che sono state analizzate nel capitoloprecedente (la classe operaia aspirava al riconoscimento sociale edall’integrazione politica). già negli ultimi decenni del secolocominciano a manifestarsi le difficoltà del capitalismo liberale atenere insieme crescita economica, integrazione sociale erapporti pacifici tra gli stati. Sul piano economico sulle realtàpiù piccole pesava la concorrenza e queste chiedevanoprotezionismo industriale e agrario; ma questo significava frenaregli scambi internazionali ed intensificare la politica coloniale laquale sfociò nella prima guerra mondiale.

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Dopo la guerra nulla tornò come prima. Il conflitto comportòcosti economici e sociali altissimi e nonostante i tentativi diricostruire l’ordine prebellico, le condizioni economiche esociali restarono estremamente instabili. Negli anni ’20l’Europa è duramente provata, deve far ricorso a ingenti prestitiforniti dagli Stati Uniti, ma la ripresa economica è lenta, ladisoccupazione resta elevata così come i conflitti sociali epolitici. Dal punto di vista economico, il commerciointernazionale stenta a riprendersi e a tornare ai livelliprebellici, mentre la produzione di manufatti cresce a ritmielevati, trainata dalle innovazioni tecnologiche eorganizzative e dal formarsi di grandi imprese.

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Il persistente protezionismo doganale ostacola gli scambi enon aiuta quindi a fronteggiare la tendenza allasovrapproduzione dei beni industriali. Anche la domandadei paesi meno sviluppati, afflitti dal calo dei prezzi agricoli edelle materie prime, è debole. In questa situazione, ladipendenza dai prestiti americani dell’economia europea(soprattutto quella tedesca gravata anche dai danni diguerra da ripagare) è molto elevata. Si trattava di unasituazione ad alto rischio, perché l’interruzione dei flussicreditizi americani avrebbe potuto avere effetti a catenadisastrosi sull’economia europea e mondiale

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Ed è proprio questo che si verificò inseguito al crollo della Borsa diNew York nel 1929. La Grande Crisi trascinò tutta l’economia deipaesi sviluppati in una gravissima e prolungata depressione, concrollo della produzione, fallimenti a catena delle imprese epicchi di disoccupazione mai raggiunti in precedenza.

La Grande Crisi si può considerare come uno spartiacque idealenella storia economica e sociale. Questa situazione eccezionale portòtutti i paesi ad allontanarsi dall’ortodossia liberale nella politicaeconomica interna e internazionale; la nuova prospettiva si basòsull’assunto che la mano dello stato è indispensabile sia neibuoni che nei cattivi momenti; esso può garantire una crescitaeconomica continuata in un’atmosfera di armonia sociale;l’economia deve porsi al servizio dello stato e non viceversa.

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Su questo sfondo si colloca la riflessione di Karl Polanyi e JosephSchumpeter. Mentre Durkheim e Veblen contribuirono a mettere a fuoco leconseguenze sociali del capitalismo liberale, Polanyi e Schumpeter siconcentrarono sulla crisi di questa forma di organizzazioneeconomica. Essi studiano i processi di cambiamento che si vannosperimentando a partire dagli anni ’30: la formazione di un capitalismopiù regolato, in cui lo spazio del mercato si riduce e l’economia vienereincorporata nella società.

Anche questi due autori non vengono da percorsi intellettuali diversi esono politicamente su posizioni opposte (Polanyi è un socialista eSchumpeter un liberista conservatore), tuttavia ciò rende più interessanteil fatto che le loro analisi presentino notevoli affinità, contribuendo a dareun ulteriore importante fondamento alla prospettiva d’indagine dellasociologia economica.

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Karl Polanyi (1886 – 1964, ungherese) non si può considerare in sensostretto come un sociologo economico. Si mosse tra la storia economica,l’antropologia e la sociologia della vita economica: dalla Budapest di iniziosecolo, dove si accosta al socialismo riformista, alla Vienna deldopoguerra, dove partecipa al dibattito sui fondamenti metodologicidelle scienze sociali e a quelli su mercato e pianificazione. Costretto aemigrare in Inghilterra, entra in contatto con il socialismo laburista e siguadagna da vivere come insegnante tenendo corsi per gli operai. È inquesto periodo che, accanto alla riflessione sul fascismo, comincia alavorare al tema delle trasformazioni del capitalismo liberale e siavvicina agli studi di antropologia e di storia economica. La sua operapiù nota è La grande trasformazione 1944, quando l’autore era ormaivicino a sessant’anni. Trasferitosi a New York, dove ottiene un incarico diinsegnamento alla Columbia University, si dedicherà agli studisull’organizzazione economica delle società primitive, arcaiche e antiche.

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Anche Polanyi è un istituzionalista: l’azione economica non ècomprensibile in termini individualistici, ma è influenzatadalle istituzioni sociali. I suoi saggi in merito sono statiraccolti dopo la sua morte in due volumi: Economie primitive,arcaiche e moderne del 1969 e La sussistenza dell’uomo del1977.

Richiamandosi ai contributi dell’antropologia (Malinowski eThurnwald) cerca di mostrare che il motivo del guadagno non è“naturale” per l’uomo. Le economie primitive non sarebberocomprensibili se si attribuissero ai loro protagonisti motivazioniutilitaristiche. Esse funzionano invece sulla base di complessereti di obbligazioni condivise che motivano il comportamentoindividuale.

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Solo negli ultimi secoli, con il crescere dell’economia dimercato, il perseguimento del guadagno è diventatorilevante. È quindi un’istituzione, il mercato, che incentivaun’azione economica improntata alla ricerca delguadagno (quindi la naturale propensione dell’uomo alcommercio, l’uomo economico di Smith, era il frutto di unfraintendimento storico che anticipava ciò che sarebbeavvenuto molto più tardi). Per Polanyi l’indagine economicanon può essere separata dal contesto storico.

Polanyi individua tre principi fondamentali di regolazione delleattività di produzione, distribuzione e scambio dei beni chechiama forme di integrazione dell’economia: reciprocità,redistribuzione e scambio di mercato

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Nelle società in cui prevalgono la reciprocità e laredistribuzione non vi è la ricerca del guadagno. Polanyi fanotare come nella società moderna continuino ad esisteretali forme di integrazione (reciprocità: genitori con figli eviceversa; redistribuzione: lo stato sociale mediante latassazione e la spesa pubblica redistribuisce risorse e potered’acquisto dai più ricchi ai più poveri

Lo scambio di mercato è la forma di integrazionedell’economia che appare solo di recente nella storiadell’umanità che raggiunge il suo culmine nel corsodell’800: si produce sulla base dei prezzi per determinatibeni e si remunera il lavoro sulla base di prezzi che siformano dall’incrocio tra la domanda e l’offerta di lavoro.

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. In presenza di mercati regolatori dei prezzi si dice che sonomercati autoregolati. È solo in questo quadro che si puòpropriamente parlare di motivazioni utilitaristiche dell’azioneeconomica.

La grande trasformazione ha l’obiettivo di spiegare come sianoemersi i presupposti istituzionali dello scambio di mercato e dicome essi siano stati investiti da una progressiva trasformazioneche sfocia nel superamento del capitalismo liberale, con ladiffusione di forme moderne di redistribuzione legate allo stato.

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Prima dobbiamo parlare ancora di due aspetti dellariflessione metodologica di Polanyi:

- il concetto di sistema economico, tipico dellatradizione della sociologia economica viene legato a quellodi forma di integrazione;

- le forme di integrazione non rappresentano “stadi”dello sviluppo (cioè non si avvicendano temporalmente)ma vi sono di solito più forme che si combinano in unsistema economico in cui una è prevalente.

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Polanyi introduce la distinzione tra economia:

- formale: il termine economia è sinonimo di economizzareed indica il processo razionale di allocazione di risorsescarse. Tale definizione è tipica dell’economia neoclassica e siriferisce alla logica formale del rapporto mezzi-fini, che puòessere applicata a vari campi concreti;

- sostanziale: il termine economia fa riferimento allasussistenza umana e cioè che l’uomo dipende per la suasopravvivenza dalla natura e dagli altri uomini (egli sopravvivein virtù di un’interazione istituzionalizzata fra se stesso e il suoambiente naturale).

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Per Polanyi la fallacia economicistica tende a legare lasussistenza all’allocazione razionale delle risorsescarse da parte di soggetti che cercano di ottenere ilmassimo reddito dai mezzi di cui dispongono. Ma questoavviene soltanto laddove si sia affermato lo scambio dimercato. Per questo egli ritiene importante per le scienzesociali (storia, antropologia, sociologia economica) unconcetto più ampio di economia che può permettere lostudio e la comparazione nel tempo e nello spazio di sistemieconomici diversi.

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Questo libro parla della grande trasformazione che investe le società occidentali a partire dagli anni ’30, un cambiamento che porta al superamento del capitalismo liberale affermatosi nel ‘800. Ne uscirà ridimensionato lo spazio del mercato come forma di integrazione dell’economia, e lo stato tornerà ad assumere un ruolo più rilevante per la regolazione dell’economia e della società.

Polanyi si pone due interrogativi:

- quali siano le origini storiche del mercato autoregolato;

- quali siano le conseguenze sociali ed economiche del mercato autoregolato tra gli ultimi decenni dell’800 e la Grande Crisi del ’29 dalla quale si avvierà la grande trasformazione.

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Polanyi ha già spiegato che l’esistenza di mercati nel commercio dei beniha origini ben più antiche e non è decisiva per l’emergenza del nuovosistema economico vediamo allora come si formano i mercati per la terra eper il lavoro. Essi non vengono creati per effetto del graduale sviluppodella naturale propensione allo scambio (com’era suggerito da Smith edagli economisti classici) ma emergono come conseguenza di interventipolitici e di misure amministrative. Questi interventi si sviluppano dal‘400 all’800, e in forme differenziate nei diversi paesi: per quanto riguarda laterra si verificò l’eliminazione del controllo feudale, lasecolarizzazione delle proprietà della chiesa, fino ad arrivare alriconoscimento giuridico della commerciabilità dei diritti di proprietà.Con la crescita delle città, quindi l’esigenza di mantenimento dellepopolazioni urbane, si sviluppò la piena commercializzazione dei beniprodotti dalla terra e i proprietari terrieri furono spinti a incrementarela produzione per la vendita sul mercato.

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Polanyi si concentra soprattutto sulla formazione del mercato del lavoroprendendo in considerazione la storia inglese. In Inghilterra il lavoro restò alungo sottoposto a una serie di restrizioni. Ancora nel 1795 fu introdotto ilsistema di sussidi che limitava la dipendenza delle condizioni di vita dallavendita della forza lavoro sul mercato (si tratta dell’introduzione di una sortadi reddito minimo da garantire ai poveri indipendentemente dai loroguadagni; se essi ricevevano un salario al disotto del livello previsto rispettoa uno standard che teneva conto del carico familiare, avevano diritto a unsussidio). A poco a poco questo sistema determinò un abbassamento deisalari e una crescita consistente dei sussidi Fu così che sotto la pressionedegli imprenditori e della classe media, si arrivò nel 1834 all’abolizione delsistema dei sussidi e da quel momento cominciò a funzionarepienamente in Inghilterra un mercato del lavoro concorrenziale.

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Polanyi passa poi ad analizzare le conseguenze socialidell’affermazione del sistema economico e gli effetti che nediscendono per l ‘economia, e che porteranno alla Grande Crisi dellafine degli anni ’20. Il punto di partenza di questo nucleo centrale de Lagrande trasformazione è l’idea che il lavoro, la terra e la monetavengono trasformati in merci, cioè in beni prodotti per esserecomprati e venduti sul mercato. Ma non si tratta di merci come le altre,perché il lavoro è legato alla vita umana, così come la terra è unaspetto della natura e la moneta è un simbolo del potere di acquisto.Non si tratta dunque di vere merci ma di merci fittizie per cui il lorotrattamento come semplici beni economici sui mercati autoregolatiporta a conseguenze distruttive per la società.

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Il processo di formazione del mercato del lavoro siaccompagna alla progressiva distruzione delle formedi protezione tradizionale (parentela, vicinato): gliindividui e le loro famiglie furono sradicati dal contestoambientale e sociale in cui vivevano e costretti a spostarsiper ricercare occasioni di lavoro. Nella fase iniziale dellarivoluzione industriale la forte instabilità di guadagni haportato alla formazione di sacche di disoccupazione e dinuova povertà nelle periferie delle città industriali,condizioni di lavoro e di vita degradate. Quindi con ilmercato del lavoro si creò anche una miseria moderna, finoad allora sconosciuta alle società tradizionali.

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Conseguenze sociali non meno pesanti si manifestano anche dal puntodi vista della natura. Il libero scambio dei prodotti, accompagnato dalmiglioramento dei trasporti, mise in crisi quote crescenti di produttoriagricoli, specie nel continente europeo, presto inondato dal granoamericano. I contadini dovettero abbandonare le campagne allaricerca di un lavoro e si determinò la distruzione della societàrurale.

Insomma, è vero che i mercati del lavoro, della terra e della monetasono essenziali per un’economia di mercato, ma la società non può alungo sopportare i costi che le vengono imposti da tali modalità difunzionamento dell’economia. Ed è proprio per questo checominciano a manifestarsi dei meccanismi di autodifesa della società.

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Conseguenze sociali non meno pesanti si manifestano anche dal puntodi vista della natura. Il libero scambio dei prodotti, accompagnato dalmiglioramento dei trasporti, mise in crisi quote crescenti di produttoriagricoli, specie nel continente europeo, presto inondato dal granoamericano. I contadini dovettero abbandonare le campagne allaricerca di un lavoro e si determinò la distruzione della societàrurale.

Insomma, è vero che i mercati del lavoro, della terra e della monetasono essenziali per un’economia di mercato, ma la società non può alungo sopportare i costi che le vengono imposti da tali modalità difunzionamento dell’economia. Ed è proprio per questo checominciano a manifestarsi dei meccanismi di autodifesa della società.

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.Nel corso degli ultimi decenni dell’800 si manifesta una sorta didoppio movimento: da un lato si estendono i mercati su tutta lasuperficie del globo, dall’altro una rete di provvedimenti e misurepolitiche si integrano in potenti istituzioni destinate a controllarel’azione del mercato relativamente al lavoro, alla terra e allamoneta.

Sul fronte del lavoro: sviluppo del movimento operaio, delleorganizzazioni sindacali, dei partiti socialisti, nuova legislazione nelcampo sociale e del lavoro (regolamentazione dell’orario dilavoro, del lavoro minorile e femminile, assicurazione contro gliinfortuni, le malattie, la disoccupazione, la vecchiaia, ecc.).

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Dal punto di vista dell’agricoltura: a partire dal 1870 si diffondonointerventi di protezione tariffaria e di sostegno all’agricoltura.Contadini, proprietari terrieri, ed anche esercito e alto clero,cercano di difendere, con motivazioni diverse ma convergenti, lasocietà tradizionale minacciata dal mercato.

Anche il mercato della moneta subisce l’onda protezionista:importante diventa il ruolo delle banche centrali nei vari paesi checontrollano l’offerta del credito mitigando gli eventuali effetti negatividerivanti da transazioni internazionali (la crescita dei prestiti attutivala deflazione dovuta alla riduzione della moneta a causa dei fortipagamenti internazionali).

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Tuttavia, il nuovo protezionismo ha effetti diversisulla società e sull’economia di mercato: dal latodella società, attenua i costi e le tensioni legate aldiffondersi del mercato; dal lato dell’economia,genera vincoli crescenti che intralciano ilfunzionamento dei mercati autoregolati nel campodei fattori produttivi (si riduce la flessibilità e cresceil costo del lavoro, mentre le tariffe doganali limitanogli scambi commerciali).

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Tuttavia, il nuovo protezionismo ha effetti diversisulla società e sull’economia di mercato: dal latodella società, attenua i costi e le tensioni legate aldiffondersi del mercato; dal lato dell’economia,genera vincoli crescenti che intralciano ilfunzionamento dei mercati autoregolati nel campodei fattori produttivi (si riduce la flessibilità e cresceil costo del lavoro, mentre le tariffe doganali limitanogli scambi commerciali).

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La Grande Crisi del ’2 per Polanyi segna il tramonto delsistema economico basato sui mercati autoregolati eporta al superamento del capitalismo liberale. Per lostudioso ungherese non sono stati né la grande guerra, nél’avvento del socialismo in Russia e nemmeno quello deiregimi fascisti in Europa a provocare la crisi del capitalismoliberale bensì fu il conflitto tra il funzionamento delmercato e le esigenze della vita sociale. È il nuovoprotezionismo istituzionale innescato dall’autodifesa dellasocietà che irrigidisce e alla fine blocca il funzionamentodei mercati.

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I regimi fascisti, il New Deal americano, il socialismorusso, sono tutte esperienze che nascono dal fallimento delcapitalismo liberale; in esse vi è un tentativo direintrodurre quelle forme di regolazione sociale epolitica che erano saltate con il sistema economico deimercati autoregolati che faceva dipendere la societàdall’economia.

Ma in che misura le nuove forme di regolazione possonoessere compatibili con la persistenza del mercato e conquella della libertà?

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I regimi fascisti, il New Deal americano, il socialismorusso, sono tutte esperienze che nascono dal fallimento delcapitalismo liberale; in esse vi è un tentativo direintrodurre quelle forme di regolazione sociale epolitica che erano saltate con il sistema economico deimercati autoregolati che faceva dipendere la societàdall’economia.

Ma in che misura le nuove forme di regolazione possonoessere compatibili con la persistenza del mercato e conquella della libertà?

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Per Polanyi la fine della società di mercato non significain alcun modo l’assenza di mercati. L’idea di fondo è che ilmercato non sia necessariamente in contraddizione conobiettivi e strumenti di programmazione economica. Ilsocialismo riformista di Polanyi lo porta a condividere l’ideache in una società veramente democratica il problemadell’industria si risolverebbe per mezzo dell’interventoprogrammato degli stessi produttori e consumatori.

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Anche la libertà non scomparirebbe: ci sono libertà cattivela cui scomparsa non sarebbe che vantaggiosa (la libertà disfruttare gli altri uomini o quella di realizzare guadagni noncommisurati ai benefici collettivi) e libertà buonecresciute insieme al mercato che continuano ad avere unelevato valore (libertà di coscienza, di parola, di riunione, diassociazione, di scelta del proprio lavoro) ma che èsbagliato pensare che esse dipendano solo dall’esistenzadei mercati autoregolati. Polanyi conclude dicendo chenella società umana non vi è una determinante unica e chela fine del capitalismo liberale non comportanecessariamente quella del mercato e delle libertà.

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Anche la libertà non scomparirebbe: ci sono libertà cattivela cui scomparsa non sarebbe che vantaggiosa (la libertà disfruttare gli altri uomini o quella di realizzare guadagni noncommisurati ai benefici collettivi) e libertà buonecresciute insieme al mercato che continuano ad avere unelevato valore (libertà di coscienza, di parola, di riunione, diassociazione, di scelta del proprio lavoro) ma che èsbagliato pensare che esse dipendano solo dall’esistenzadei mercati autoregolati. Polanyi conclude dicendo chenella società umana non vi è una determinante unica e chela fine del capitalismo liberale non comportanecessariamente quella del mercato e delle libertà.

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Joseph Schumpeter (1883 – 1950) è certo più noto comeeconomista che come sociologo, ma è opportuno includerlonel nostro percorso perché nel suo studio dei fenomenieconomici si è sempre posto al di fuori degli schemiconvenzionali. Egli diede un contributo importante allasociologia economica per l’interpretazione del declinodel capitalismo liberale e delle nuove forme diorganizzazione dell’economia.

Per Schumpeter, il cambiamento economico deve essereposto al centro dell’indagine ma ciò lo spingeinevitabilmente a misurarsi con il ruolo delle istituzioni.

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Schumpeter diede particolare importanza al problema della definizionedei confini tra economia e sociologia economica .

Per Schumpeter :

- la teoria economica è caratterizzata da un insieme di proposizioni analitiche di cui viene argomentata la validità a determinate condizioni (egli difende come Menger e Weber la validità dell’economia neoclassica;

- la storia economica è importante per comprendere i fatti storici e quindi per capire come i fatti economici e quelli non-economici si combinino tra loro nell’esperienza concreta;

- la sociologia economica contribuisce allo studio dell’influenza dei fattori non economici, cioè quelli istituzionali, sulle attività economiche e la loro variazione nel tempo e nello spazio.

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Il punto di partenza dell’analisi di Schumpeter si individuachiaramente nell’insoddisfazione per i limiti della prospettivaeconomica tradizionale, giudicata incapace di uscire da una visionestatica dell’equilibrio economico. Per Schumpeter la crescita è unfenomeno graduale, fatto di continui aggiustamenti partendo dallacombinazione dei fattori dell’economia tradizionale mentre losviluppo implica invece una discontinuità e quindi l’introduzione dinuove combinazioni (può riguardare cinque dimensioni: creazione diprodotti; introduzione di nuovi metodi di produzione; apertura dinuovi mercati; scoperta di nuove fonti di approvvigionamento dimaterie prime o semilavorati; riorganizzazione di un’industria, es.creazione di monopolio).

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Egli riconosce che lo sviluppo può derivare da motivi extraeconomici(crescita della popolazione, improvvisi rivolgimenti sociali e politici)ma il suo interesse si concentra però sullo sviluppo legato all’azionedegli imprenditori:

- siano essi proprietari dei mezzi di produzione oppure manager,l’importante è che la sua attività sia innovativa e non routinaria (soloalla prima si collega per Schumpeter il concetto di imprenditore);

- non è necessario un rapporto continuativo con una singolaimpresa, essi possono lanciare innovazioni in un azienda e poispostarsi in altra, e così via;

- non devono appartenere ad una specifica classe sociale,chiunque può aspirare a diventarlo dal basso grazie al creditoconcesso dalle banche.

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L’imprenditore che vuole realizzare un’innovazione:

- deve misurarsi con carenze di informazioni e condizioni dimaggiore incertezza;

- deve combattere e vincere le resistenze che vengono daisuoi schemi mentali consolidati e quelle che vengonodall’ambiente sociale;

- deve superare gli impedimenti giuridici e politici e ladisapprovazione sociale e delle altre imprese minacciatedall’innovazione.

È per questo che l’imprenditore innovatore deve avere una personalitàche non può essere riconducibile al semplice calcolo razionalerichiamato dalla teoria tradizionale.

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In un successivo testo del 1928 egli chiarisce meglio i legamidell’imprenditore-innovatore con un particolare retroterra sociale eistituzionale distinguendo tra:

- padrone di fabbrica che unisce insieme compiti amministrativi,tecnici, commerciali; è proprietario dei mezzi di produzione (fase inizialedell’economia di mercato);

- capitano d’industria, proprietario di capitale azionario, che innovaoperando soprattutto attraverso il controllo finanziario sulle aziende, omanager di formazione tecnica, distaccato dagli interessi capitalistici ma cheè spinto ad innovare dal suo orientamento alla buona prestazioneprofessionale (fase più evoluta del capitalismo);

- fondatore di imprese, si tratta della figura specificadell’imprenditore puro, che intrattiene con le imprese solo rapportitemporanei.

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In questo lavoro Schumpeter analizza le trasformazioni delcapitalismo liberale e gli effetti della Grande Crisi nellaprospettiva della sociologia economica perché si mette inevidenza come il funzionamento dell’economia capitalisticadetermini un cambiamento della cultura e delle istituzioniche a sua volta fa inceppare i meccanismi diautoregolazione dei mercati (passaggio da capitalismonon regolato a capitalismo regolato). Egli si dichiaròd’accordo con la previsione di Marx, ma per motivi diversi:il capitalismo non sarebbe sopravvissuto, ma non per fattoridi natura economica, bensì per le reazioni culturali esociali che il suo funzionamento provocava.

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• Perché il declino non ha cause economiche?

Schumpeter si preoccupa inizialmente di contrastare latesi che l’evoluzione del capitalismo implichi unaumento della disoccupazione. La crescita dei disoccupatinegli anni ’30 è risultata molto elevata, ma si è trattato di unfenomeno temporaneo, legato alla fase di recessione che disolito segue, nel ciclo economico, una fase di prosperitàlegata ad un periodo di innovazione.

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Il fenomeno è stato però aggravato da fattori contingenti:

1. - la coincidenza di una crisi agraria indotta da nuovi metodi di

produzione che aumentano la produttività, a fronte di restrizioni

doganali che limitano gli scambi;

2. - gli effetti deflattivi legati alla politica monetaria e al ripristino

del sistema aureo;

3. - i pagamenti di guerra;

4. - il livello dei salari, diventati più rigidi;

5. - l’accresciuta pressione fiscale.

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Per Schumpeter è essenziale il processo di distruzionecreatrice che porta a rivoluzionare il sistema produttivo coni cicli di innovazione. Nel corso dello sviluppo l’impulso alformarsi di nuove combinazioni si basa meno sugliimprenditori individuali e tende a istituzionalizzarsiall’interno delle imprese più grandi che soppiantano quellepiù piccole (perché hanno più risorse finanziarie,organizzative, di ricerca, di controllo del mercato). Nel breveperiodo ciò può portare a prezzi alti e a restrizioni dellaproduzione, ma a medio e lungo termine si diffondonovantaggi legati alla qualità e ai costi, che migliorano pereffetto dell’innovazione.

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Quindi, dal punto di vista dinamico, la concorrenza di tipooligopolistico o monopolistico, creando nuovi beni, nuovetecniche, nuove fonti di approvvigionamento e metodi diorganizzazione è lo stimolo imperioso che a lungo andareespande la produzione e riduce i prezzi. Le restrizioni e iprofitti imprenditoriali di tipo monopolistico sono ilprezzo necessario, ma temporaneo, da pagare perché possaesserci l’innovazione e perché i suoi effetti beneficipossano poi diffondersi a tutto il sistema e giungere finoai consumatori.

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Le cause culturali e sociali del declino

Passiamo così alla seconda parte dell’argomentazione diSchumpeter che riguarda l’analisi delle cause culturali esociali del declino del capitalismo liberale:

1) l’indebolimento della borghesia: le grandi impreseburocratizzate soppiantano sempre più le piccole e medieaziende per cui l’imprenditore individuale perde la suafunzione sociale, ma ciò finisce per indebolire la borghesiache in passato era alimentata dal continuo formarsi di nuoviimprenditori di successo. Altro fattore è la disintegrazionedella famiglia borghese

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2) la distruzione degli strati sociali che sostenevano laborghesia: si tratta del ruolo dell’aristocrazia che nei paesieuropei era sopravvissuta alla distruzione del feudalesimoassumendo un ruolo essenziale per la formazione dellaclasse dirigente;

3) il diffondersi di un’atmosfera sociale ostile alcapitalismo liberale: da parte di gruppi costituiti dagliintellettuali che alimentano la critica delle istituzioni delcapitalismo e riescono a ottenere un seguito di massa(giornalisti, avvocati, leader politici

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4) le politiche anticapitalistiche: una serie di misure legislative eamministrative che si diffondono nei vari paesi: si tratta di interventidello stato o della contrattazione collettiva; politiche della spesapubblica in deficit per sostenere la domanda e ovviare alle crisicicliche; politiche redistributive del reddito attraverso la pressionefiscale; misure antitrust per contrastare le imprese monopolistiche;diffusione di imprese pubbliche; legislazione assistenziale e dellavoro; crescita della contrattazione sindacale nel mercato del lavoro.Tutte queste politiche, che hanno avuto un’accelerazione dopo laGrande Crisi del ’29, segnano un allontanamento sempre piùmarcato dal “capitalismo del laissez faire” e si avvicinanosempre più a forme di pianificazione socialista.

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Schumpeter vede nel capitalismo americano del New Deal, e poi inquello che si sarebbe affermato dopo la guerra in America e inEuropa, una sorta di capitalismo laburista, in cui le imprese privatesono sottoposte a oneri fiscali e regolativi crescenti. Egli è dubbiososul fatto che un capitalismo che abbia eroso le basi istituzionali su cuisi poggiava possa continuare ad esprimere un elevato dinamismoeconomico e intravede l’imporsi di una soluzione apertamentesocialista .