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LA LINGUA ISTRIOTA NELLA LETTERATURA ISTRO-QUARNERINA: LE LIRICHE DI LIGIO ZANINI. PREMESSA Credo sia necessario, prima di procedere alla trattazione dell’argomento oggetto di questa ricerca, introdurre una premessa fondamentale: il tema affrontato mi sta particolarmente a cuore, non solo per la mia passione per la letteratura in generale, ma anche e soprattutto perché mi trovo personalmente coinvolta. I miei genitori sono profughi di quelle terre che l’Italia fu costretta a cedere alla Yugoslavia con il Trattato di Parigi del 1947, fanno parte di quei circa trecentocinquantamila esuli Giuliani, Fiumani e Dalmati che abbandonarono tutto per continuare ad essere Italiani e vivere da uomini liberi. Ma è rimasto un legame profondo ed indissolubile con quei luoghi e papà e mamma hanno saputo trasmetterlo anche a me. Appena possibile scappo a respirare un po’ di quell’aria profumata di sale, a contemplare quel mare di un azzurro intenso e limpido, ad ascoltare il rumore delle onde che si rincorrono quando soffia la bora, il vento del Quarnero. E quella parlata dialettale, un misto di veneto ed istriano che ho sempre sentito in casa, mi sembra una musica dolce che evoca tanti preziosi ricordi. Mi accingo quindi ad affrontare l’argomento proposto con un forte coinvolgimento personale, perché qualsiasi cosa mi riporti in quei luoghi, anche se solo con il pensiero, fa vibrare forte le corde del cuore! ▬▬▬▬▬ Nella produzione letteraria istro-quarnerina la poesia dialettale espressa in istrioto, possiede una forza eccezionale e occupa un posto di tutto rispetto. Ma prima di scoprire l’uso straordinario della lingua istriota da parte di uno dei maggiori autori che scelsero di esprimersi attraverso questa parlata, Ligio Zanini, è necessario soffermarsi a considerare un breve profilo storico e l’evoluzione di questa particolare lingua. Qui di seguito si inseriscono due cartine geografiche per evidenziare l’area interessata dalla lingua istriota ed averne così una collocazione più precisa.

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LA LINGUA ISTRIOTA NELLA LETTERATURA ISTRO-QUARNERINA: LE LIRICHE DI LIGIO ZANINI.

PREMESSA

Credo sia necessario, prima di procedere alla trattazione dell’argomento oggetto di questa ricerca,

introdurre una premessa fondamentale: il tema affrontato mi sta particolarmente a cuore, non

solo per la mia passione per la letteratura in generale, ma anche e soprattutto perché mi trovo

personalmente coinvolta. I miei genitori sono profughi di quelle terre che l’Italia fu costretta a

cedere alla Yugoslavia con il Trattato di Parigi del 1947, fanno parte di quei circa

trecentocinquantamila esuli Giuliani, Fiumani e Dalmati che abbandonarono tutto per continuare

ad essere Italiani e vivere da uomini liberi. Ma è rimasto un legame profondo ed indissolubile con

quei luoghi e papà e mamma hanno saputo trasmetterlo anche a me. Appena possibile scappo a

respirare un po’ di quell’aria profumata di sale, a contemplare quel mare di un azzurro intenso e

limpido, ad ascoltare il rumore delle onde che si rincorrono quando soffia la bora, il vento del

Quarnero. E quella parlata dialettale, un misto di veneto ed istriano che ho sempre sentito in casa,

mi sembra una musica dolce che evoca tanti preziosi ricordi.

Mi accingo quindi ad affrontare l’argomento proposto con un forte coinvolgimento personale,

perché qualsiasi cosa mi riporti in quei luoghi, anche se solo con il pensiero, fa vibrare forte le corde

del cuore!

▬▬▬▬▬

Nella produzione letteraria istro-quarnerina la poesia dialettale espressa in istrioto, possiede una

forza eccezionale e occupa un posto di tutto rispetto. Ma prima di scoprire l’uso straordinario della

lingua istriota da parte di uno dei maggiori autori che scelsero di esprimersi attraverso questa

parlata, Ligio Zanini, è necessario soffermarsi a considerare un breve profilo storico e l’evoluzione

di questa particolare lingua.

Qui di seguito si inseriscono due cartine geografiche per evidenziare l’area interessata dalla lingua

istriota ed averne così una collocazione più precisa.

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LINGUA ISTRIOTA: PROFILO STORICO E DIFFUSIONE.

Fu Graziadio Ascoli, colui che fondò la glottologia nella seconda metà del XIX secolo, a coniare il

termine “istrioto”, riferendosi alle popolazioni ladine che popolavano l’Istria in epoca romana.

Secondo il linguista Matteo Bartoli, la lingua istriota trova le sue origini nella scelta di Ottaviano

Augusto di far stabilire nel territorio di Pola che si estendeva dal Canal di Leme all’Arsa, i veterani

del suo esercito vittorioso. Questi soldati legionari, provenienti per la maggior parte dall’Abruzzo e

dalla Puglia, si mescolarono agli Illiri (o veneto-illirici denominati Histri) autoctoni dell’Istria e del

Quarnero e diedero così origine al popolo ed alla cultura istriota dell’Istria meridionale.

Uno storico, Bernardo Benussi, notò che il dialetto istriano presentava numerosi elementi di

contatto con l’abruzzese ed il tarentino e perciò arrivò ad ipotizzare che questa somiglianza

derivasse dai coloni romani che Augusto decise di insediare nella colonia di Pola ed originari

dell’Italia meridionale. Questa teoria pare essere confortata dalla presenza, solo nella zona dell’ex

agro romano di Pola, delle caratteristiche costruzioni in pietra a pianta circolare costruite a secco

dai contadini istriani, chiamate “casite” e molto simili ai trulli pugliesi.

Il carattere spiccatamente romanzo di questo antico dialetto neolatino, risulta evidente se si

effettua una rapida rassegna dei nomi degli animali domestici nei dialetti istrioti dell’Istria sud-

occidentale. La parola “Animal,-is”, sostantivo neutro della terza declinazione si è conservato nei

dialetti istrioti nelle forme “anamal, anemal” cambiando di genere in quanto il neutro è stato

eliminato dalla lingua ed è stato fatto confluire nel maschile, come anche il suo plurale “Animalia,-

ium” diventato anamai, anemai, animai (pl.m.), conservato nella forma “anamalia” nel rovignese.

Per quanto riguarda la parola “Bestia, -ae” (che indica gli animali allevati per l’agricoltura e

l’alimentazione), sostantivo femminile della prima declinazione latina e la parola latina medioevale

“Bestiamen,-is”, esse si sono mantenute nei dialetti istrioti per indicare la bestia e il bestiame.

Altro esempio è lo zoonimo latino “Asinus,-i”, sostantivo maschile della seconda declinazione, si è

conservato nel vallese nella forma “aseno”, mentre è molto più in uso in tutti i dialetti istrioti la

forma “samer, samerul, samier” indicante l’asino o animale da soma, derivante dal latino volgare

sagmarium. La vacca da latte o mucca viene così chiamata nei dialetti istrioti: nel rovignese

“ar’menta”, nel vallese, dignanese, gallesanese, fasanese e sissanese “ ‘vaka”. La parola vacca, che

indica la femmina adulta del bue deriva dal latino “Vacca” ed è panromanza. Il bue, il maschio dei

bovini, castrato per essere utilizzato come animale da lavoro e da macello, viene così denominato

nelle parlate istriote: nel rovignese, vallese, dignanese, gallesanese e sissanese “manzo”, nel

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fasanese “man ‘o”. La parola bue deriva dal latino “Bos, Bovis”, panromanzo, questo sostantivo

maschile della terza declinazione si è conservato soltanto nell’antico dignanese nella forma “bou”.

Per quanto riguarda la parola cane, essa deriva dal latino “Canis,-is” ed in rovignese è diventata

“can”. Cavallo invece trae origine da “Caballus” , cavallo castrato : nei dialetti istrioti il cavallo

viene detto “ka’val”, mentre la parola latina “Equus,-i”, sostantivo maschile della seconda

declinazione, non si è conservata nei dialetti istrioti. Ancora un esempio: il termine “gatto” deriva

dal latino scientifico “Felis Catus” . Nei dialetti istrioti il gatto viene detto “gato”, si può notare che

la parola del latino classico “Felis,-is”, sostantivo femminile della terza declinazione, non si è

conservata nei dialetti istrioti, ma lo zoonimo “gato” deriva dal latino volgare “Cattus”.

Con una curiosa rassegna dei nomi di alcuni fra i più comuni animali domestici, si è potuto ribadire

ancora una volta l’impronta romanza di questo dialetto neolatino.

Le parlate istriote (rovignese, vallese, dignanese, gallesanese, fasanese, sissanese) rappresentano

le sole parlate neolatine autoctone nella regione istriana che si sono sviluppate direttamente dal

latino volgare parlato un tempo in Istria, assai prima che venisse acquisito il veneziano, il cui

influsso inizia vero l’anno Mille e si afferma con forza nel Quattrocento. Furono le persone

autoctone del territorio che appartenevano allo strato sociale più basso, marinai, agricoltori,

contadini, a consentire la continuità di quell’antica latinità istriana.

Un tempo l’istrioto era parlato in tutta l’Istria ed era una cosa sola con il friulano e con il

dalmatico. La prima frattura del latino volgare unitario nella Romania linguistica iniziò dal IV e

terminò verso il IX secolo, in seguito le lingue romanze iniziarono la loro evoluzione e, in

conseguenza dell’invasione slava di queste terre (VI e VII secolo), si crearono tre differenti dia

sistemi romanzi: il friulano a nord, l’istrioto in Istria e il dalmatico in Dalmazia e sulle sue isole. I

Romani dell’Istria diedero origine ad una loro lingua, l’istrioto che seguì uno sviluppo autonomo

fino all’arrivo dei Veneziani che, grazie all’egemonia politica e commerciale della Serenissima,

imposero il loro idioma, simbolo di prestigio e cultura. In questo modo in Istria, grazie ai contatti

quotidiani, ebbe origine un altro dialetto romanzo, l’istroveneto che poco a poco soppiantò

l’istrioto parlato nei paesi; medesima sorte toccò al dalmatico.

Siccome non c’era un centro principale che servisse da collegamento fra le varie località e la gente

istriota, a Rovigno, Dignano, Sissano, Valle, Fasana e Gallesano si svilupparono delle parlate locali

diverse ed ognuna con delle caratteristiche proprie, benché simili poiché si potevano ricondurre ad

una base comune: tutte infatti derivavano dal latino volgare parlato nella penisola istriana dal 177

a.C. in poi. Ai giorni nostri queste oasi linguistiche istriote che ancora salvaguardano la loro parlata

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originaria, sono letteralmente circondate da paesi in cui le lingue usate sono l’istroveneto e il

dialetto croato ciacavo che sopprimono inesorabilmente le uniche antiche testimonianze neolatine

istriane. La lingua istriota oggi viene parlata (quasi esclusivamente come seconda lingua o come

lingua familiare) da 1000-2000 persone nell’Istria meridionale e da ancora poche migliaia di

profughi ed esuli istriani dispersi in Italia e nel mondo.

L’UNESCO considera l’Istrioto una lingua a “serio rischio d’estinzione” nel suo “Red Book of

seriously endangered languages”: sarà un vero peccato se non si riuscirà a far sopravvivere questo

patrimonio culturale ed umano da trasmettere alle future generazioni.

In conclusione di questa prima parte, possiamo affermare che quanto evidenziato fin qui assume

una valenza particolare, se consideriamo la parlata istriota oggetto di questo lavoro, ma possiamo

estendere le nostre riflessioni a livello generale se consideriamo il valore che ciascun dialetto

riveste per il territorio in cui viene parlato: la presenza di un dialetto o di più dialetti in una regione,

rappresenta un dato fondamentale per comprendere il paesaggio umano, un bene prezioso da

conservare e tutelare come si fa con una chiesa o con un monumento. Tra un dialetto ed il suo

territorio non c’è solo una casuale coincidenza geografica, ma un legame essenziale, il legame con

la solidità delle radici che permette la conservazione delle risorse umane e culturali della comunità.

Il dialetto in sintesi è un fattore comunicativo e culturale vivo, se viva è la cultura locale, se viva è

l’identità del gruppo umano che lo parla, uno strumento di creatività ed espressività fino a quando

esiste una collettività che vi si riconosce e che attraverso esso si conosce.

LA LETTERATURA IN LINGUA ISTRIOTA. CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE ED IL CONTRIBUTO DI

UNO DEI SUOI MAGGIORI ESPONENTI: LIGIO ZANINI.

Nonostante la sua incontestabile antichità, non sono pervenuti testi in istrioto antecedenti al 1835,

anno in cui un appassionato erudita torinese, Giovenale Vegezzi Ruscalla, allo scopo di radunare in

una raccolta antologica un saggio di tutti i dialetti italiani, aveva chiesto ai letterati delle singole

regioni italiane di fornire nel proprio vernacolo la traduzione della Parabola del Figliuol prodigo.

Ma forse l’opera più importante per la tutela del patrimonio culturale racchiuso nell’antico

linguaggio istrioto è l’antologia “Canti Istriani” edita nel 1877 nella collana curata da Domenico

Comparetti ed Alessandro D’Ancona, “Canti e racconti del Popolo Italiano”. La raccolta di canti,

indovinelli, stornelli, ecc. si deve alla precisa opera dell’allievo di Isaia Ascoli, Antonio Ive, che li

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raccolse quasi esclusivamente nella natia Rovigno. Risale all’incirca alla metà dell’Ottocento il

primo dizionario d’istrioto manoscritto: il dizionario Dignanese-Italiano opera di Giovanni Andrea

Dalla Zonca ed edito nel 1978 nella collana degli Atti del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno.

Si può affermare che i primi testi istroromanzi non sono nati per necessità pratiche, né sono

funzionale conseguenza dell’assurgere di un idioma a lingua, ma piuttosto sono sorti per la

curiosità di filologi ed eruditi locali.

Più recentemente molti poeti hanno composto le loro opere in lingua istriota considerandola un

mezzo espressivo di grande potere suggestivo e rievocatorio della vita di mare, della campagna e

degli antichi usi e costumi della loro gente: tra gli innumerevoli cantori considereremo in

particolare Ligio Zanini.

Prima di procedere nella trattazione e proporre l’opera di Zanini, mi sembra importante fare

alcune riflessioni a carattere generale. Innanzitutto ci poniamo una domanda: perché si scrive

ancora in italiano e in dialetto? Certamente ogni autore ha diverse motivazioni, si scrive in italiano

e in dialetto fondamentalmente per soddisfare un bisogno personale, intellettuale e sentimentale

al tempo stesso, ma si scrive anche per comunicare un’esperienza, per comprendere gli altri, per

dare sfogo ai ricordi. Ma si può senza alcun dubbio affermare che ci sono due elementi

caratteristici che contraddistinguono gli autori di queste terre: la maledizione dell’esodo, una

sensazione molto radicata, la consapevolezza di una tragedia che non lascia tregua a chi l’ha

vissuta e la posizione sociale, percepita come anomala, indicativa di una minoranza nazionale e di

una diversità profonda.

Ligio Zanini è uno dei più autorevoli esponenti della “letteratura dei rimasti” che hanno cercato di

difendere un’identità da sempre osteggiata e perseguitata. Gli Italiani rimasti dovettero sostenere

una lotta estenuante per non farsi assorbire e sommergere dall’ondata slavizzatrice e mantenere

viva la lingua italiana in Istria. Coloro che non scelsero la via dell’esilio, ma vollero rimanere nella

propria terra, conobbero la tragedia dei rinnegati e l’umiliazione di sentirsi stranieri in casa

propria.

Il dialetto locale diventa così uno strumento fondamentale di comunicazione, per i “rimasti” quasi

un linguaggio in codice che fa parte dello stile di vita istriano e conserva nitido e forte quel

sentimento di appartenenza ad una comunità di grande storia e tradizioni.

Nella regione istro-quarnerina i dialetti rappresentano un’esperienza plurisecolare, una ricchezza

incalcolabile ed un vero e proprio simbolo di identificazione, di appartenenza. Come tutti i dialetti,

anche questi, ed in particolare quello istrioto oggetto di questo lavoro, sono testimonianze preziose

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di una storia civile e culturale, raccontano la vita e le esperienze delle persone che li hanno parlati e

li parlano. La lingua istriota è diventata la lingua di una ricca produzione letteraria, lirica e

narrativa che dimostra la diversità culturale di quel territorio e la potenzialità delle parlate locali,

custodi di un importante e ricco patrimonio di storia e tradizioni. Questa parlata permette ai poeti

dialettali istriani anche di esprimere la loro peculiare specificità in un linguaggio che racconta una

realtà anomala e complessa.

Un breve accenno va rivolto anche alle tematiche trattate nella creazione poetica: l’elemento

centrale al quale si legano quasi tutti i temi è la memoria che costruisce il nostro vissuto, ciò che

stato perduto è oggetto di ricordo e suscita, di conseguenza, nostalgia. La scrittura diventa così un

mezzo di trasmissione del ricordo e quindi la memoria rappresenta un modo per fermare il tempo.

Negli autori è molto forte e sentito il tema del ricordo dell’infanzia, della terra madre, dei propri

avi. Altro tema centrale è quello dell’esodo, le radici strappate con violenza, perdute, trapiantate,

ritrovate e poi nella produzione letteraria sono diffuse le sensazioni legate al confine inteso come

luogo fisico, spesso, soprattutto per questa gente, luogo di scontro e di incontro di sentimenti e

stati d’animo che possono appartenere solo alla gente di frontiera. Strettamente legati ai temi

sopra descritti, sono quelli della guerra, della famiglia e del rispetto delle tradizioni e delle usanze

dei propri antenati. I temi trattati comportano poi una inevitabile conseguenza, il trovarsi di fronte

all’amletico interrogativo se accettare il proprio destino oppure ribellarsi ad esso.

LIGIO ZANINI

Nacque nella cittadina costiera istriana di Rovigno nel 1927 e lì visse parte dell’infanzia fino a

quando il papà, un mastro che faceva carri ma anche battane, remi e alberi di goletta, per

difficoltà economiche dovette vendere il negozio e trasferirsi con la famiglia a Pola. Poiché la

lingua materna di Ligio era l’istrioto, non fu facile il suo inserimento a scuola, in quanto a Pola si

parlava l’istro-veneto. Alla fine della seconda guerra mondiale cominciò a frequentare i giovani

antifascisti polesi, diplomandosi all’Istituto Magistrale nel 1947, proprio nel momento dell’esodo

più intenso che colpì l’Istria. Si iscrisse al Partito Comunista Jugoslavo ed iniziò ad insegnare nelle

scuole elementari, ma ben presto divenne capoufficio per le scuole italiane presso il Dipartimento

dell’Istruzione di Pola. Si accorse in breve tempo che l’incarico gli venne affidato poiché, giovane ed

inesperto, facilmente avrebbe potuto essere influenzato dai funzionari sloveni e croati: questo lo

portò a riflettere sulle manipolazioni attuate dalle ideologie e nel 1948, il momento più turbolento

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della rottura fra Tito e Stalin, si pronunciò con una condanna di entrambe le posizioni in lotta e si

dimise dal Partito comunista. Questa scelta la pagò con l’arresto: nel 1949 la polizia segreta

jugoslava lo internò nelle carceri di Pola e, in seguito ad un sommario processo, fu condannato a

tredici mesi di lavori forzati nel campo di concentramento di Goli Otok (Isola Calva). La pena verrà

prolungata e Zanini trascorrerà quasi tre anni ai lavori forzati, questa esperienza lo segnò

profondamente. Venne liberato nel 1952 con l’impegno di non parlare a nessuno delle tremende

esperienze vissute nell’isola. Passò un periodo di “libertà sorvegliata”, fu costretto a lavorare come

magazziniere nel cantiere navale Stella Rossa di Pola e gli venne categoricamente vietato

l’insegnamento. L’interessamento di suoi amici e di intellettuali polesi che conoscevano la sua

vasta produzione poetica, pubblicata non ufficialmente e diffusa in copie dattiloscritte, gli permise

di trovare un nuovo impiego come ragioniere, finchè nel 1959 gli fu permesso di tornare ad

insegnare.

Si trasferì a Salvore per riaprire la scuola elementare italiana chiusa dagli jugoslavi nel 1953. Vi

rimase per cinque anni e fondò il locale Circolo Italiano di Cultura (oggi Comunità degli Italiani).

Fece ritorno a Rovigno nel 1964 e lavorò come contabile, ma nel 1966 si licenziò e visse di pesca

fino al 1972, anno in cui gli offrirono un posto come maestro nella scuola elementare di Valle. In

quel paesino, vicino alla sua amatissima Rovigno, vi restò fino alla pensione. Nel 1979 riuscì a

conseguire la laurea in Pedagogia presso l’Università di Pola.

Trascorse gli ultimi anni della sua vita dedicandosi interamente alle sue due grandi passioni, la

pesca e la poesia, intrattenendo anche rapporti epistolari con poeti italiani fra i quali Biagio Marin

che fu suo carissimo amico.

A causa di un male incurabile, morì il 1 luglio 1993 nell’ospedale di Pola. In quella occasione

scrissero di lui: “Con la sua barca, il Cucal, proprio come un gabbiano leggero sull’Adriatico, se n’è

andato al largo verso l’infinito il poeta Ligio Zanini che con il dialetto di Rovigno d’Istria ci ha dato

poesia, come ha fatto Biagio Marin con il dialetto di Grado.”

LA POETICA DI LIGIO ZANINI.

Per la forza espressiva della sua poesia, strettamente legata alle sue vicende personali, al suo

amato mare ed alla natura, Ligio Zanini è di diritto considerato una delle voci più intense ed

autentiche della poesia dialettale contemporanea. Lo stesso poeta fornisce le coordinate

geografiche e tematiche per delimitare la sua produzione letteraria: un “triangolo di terra e acqua”

che Zanini descrive minuziosamente e con profondo sentimento. Ci presenta boschi, montagne,

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ridenti paesi, chiese, isolotti, tratti di costa, fondali, scogli, insenature, secche portandoci in un

viaggio immaginario a conoscere, palmo a palmo, quei luoghi per i quali egli nutre un amore

intenso che traspare da ogni verso; questa conoscenza precisa deriva dal suo legame profondo con

quella terra e la sua gente. In alcuni casi fornisce anche le spiegazioni del significato che quegli

stessi luoghi hanno per i vecchi pescatori rovignesi, frequentatori abituali di quelle acque. Con

l’intenzione di farsi comprendere e di raggiungere così un pubblico ancora più vasto, traduce tutte

le sue poesie, scritte in istrioto, in lingua italiana. Ma in questo modo Zanini cerca soprattutto di

salvaguardare il dialetto rovignese che, dopo il cambiamento radicale della componente etnica

della cittadina in seguito all’esodo della maggior parte della popolazione autoctona, rischiava di

scomparire.

Il piccolo mondo protoromanzo rovignese e zaniniano non esclude, in ogni caso, il ‘fratello slavo

istriano’ con il quale la convivenza nel passato era possibile ed era una realtà tangibile, com’e

evidenziato nella lirica “ Pubrateine” [Fratello] tratta dalla silloge” Terra vecchia”(stara), mentre

nel presente è – pur restando ambita per via dell’auspicabile rinascita dei valori umani – di difficile

concretizzazione:

Pubrateine, sigouro ti ta racuordi

del lughito che ti m’arivi

e dei veide ch’i t’incalmivo...

I tuoi gaiardi bianchi

fiva muliseina la miea puoca tiera

e svielte le miee man ganbiva

el salvadago in ustran.

Cuntento ti ma ie da tu feia,

ca favalando cume mei

la f va la sua schera,

ca cantando e piurendo cun mei

la ma uò da tanti fioi.

Ma la longa tanpastada

masacra ‘nda uò miese criatoure

dastrusendo i nostri loghi:

la tiera xi turnada doura,

li veide xi rusagade dal lagrami.

Pubrateine mieo,

lassemo che li sigale canto

cume preima dela tanpastada,

la nostra tiera viecia-stara

spieta da nui par iessi guvarnada;

fassile i faremo giudando i nostri fioi

ca da su nuono i uò inparà

a purtà cun amur i gaiardi bianchi,

ca da su pare i uò veisto salvà

li veide dala filuossara.

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Pubrateine [Fratello]: Fratello, certamente ricordi / del campicello che mi aravi / e delle viti che ti

innestavo... / I tuoi buoi forti e bianchi / rendevano soffi ce la mia poca terra / e agili le mie mani

trasformavano / il selvatico in nostrano. // Contento mi desti tua figlia, / che parlando con me

/riordinava il suo filare, / che cantando e piangendo con me / mi ha dato tanti figli. // Ma la lunga

grandinata / ci ha trucidato molte creature / devastando i nostri campi: / la terra e ritornata dura,

/ le viti sono corrose dalla gramigna. // Fratello mio, / lasciamo che le cicale friniscano / come

prima della grandinata, / la nostra terra molto vecchia / attende da noi di essere coltivata; / ci

sarà facile aiutando i nostri figli, / che dal loro nonno hanno appreso / a condurre con amore i

buoi forti e bianchi, / che dal loro padre hanno visto salvare le viti dalla fillossera.

Se la convivenza, dunque, era nel passato una realtà concreta vissuta in maniera solidale almeno

dai ceti popolani che non erano ancora stati guastati dal settario stile di vita borghese (nonchè

dalla sua concezione del mondo determinata innanzitutto dal profitto e quindi prettamente

individualistica) e il cui primario interesse era sottrarsi alle strettoie della povertà; se la convivenza

era concepita provvidenzialmente dal basso e non soltanto artificiosamente ‘imposta’ dall’alto per

vie politiche, ebbene, Zanini in molti altri componimenti poetici avverte che quella convivenza è per

lui e per la sua gente irrimediabilmente caduta fra l’incudine e il martello dello svolgimento storico

che ha investito l’etnia italiana del territorio, riducendola a minoranza in conseguenza dei noti

sconvolgimenti sofferti dalla comunità, svilita in Slovenia e in Croazia dal punto di vista numerico

durante e dopo la tragedia dell’esodo. Tanto che per essa il sole “ va in sacco.”

Insomma: un conto è la convivenza paritetica e proficuamente prodottasi dal basso tra genti,

lingue e culture diverse, tutt’altro conto è la ‘convivenza’ raggiunta per vie amministrative, quando

la componente minoritaria reclama i diritti come una ragione sacrosanta, mentre la parte

maggioritaria li assume come forzata ragion di Stato, come benevola concessione.

Le sue liriche possono essere interpretate considerando tre diversi piani di lettura, come si evince

dall’analisi di questa poesia:

ISTRIOTO ITALIANO

« In tanti sensa nom i giariendi,

a miere inda ingrumiva

e senpro in tanti i rastiendi.

In puóchi sensa nom i signemo rastadi,

puóchi inda ingrumide

e ciari i crissemo duópo ingianaradi.

« In tanti senza nome eravamo,

a migliaia ci raccoglievano

e sempre in tanti rimanevamo.

In pochi senza nome siamo rimasti,

pochi ci raccogliete

ed in pochi diventiamo adulti.

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Cula vostra cragna inda massì li úe

e quii puóchi, intel mar de casa nostra,

i signemo senpro intra li rúe.

A nu saruò culpa da nui sensa nom,

i nu vemo denti par mursagà,

ma va rastaruò nama ch'i uóci

par piurà ch'inda vì dassamansà.

Con la vostra sporcizia ci uccidete le uova

e quei pochi, nel mare di casa nostra,

siamo sempre tra le spine.

Non sarà colpa di noi senza nome,

non abbiamo denti per mordere,

ma vi rimarranno soltanto gli occhi

per piangere di aver fatto estinguere la nostra

specie.

(Sensa nom –Pesce senza nome- Terra vecchia-stara)

Il primo piano è quello descrittivo: i pesci della lirica sono reali, esseri acquatici che respirano con le

branchie sott’acqua, la sporcizia che uccide le uova di questi pesci è l’inquinamento e quindi l’uomo

il responsabile della loro estinzione; il secondo piano di lettura è quello allegorico: i pesci

rappresentano i rovignesi autoctoni, non le orate e i branzini delle ricche tavolate, ma il ceto

popolano di umili contadini e pescatori, ossia quella moltitudine di donne e uomini “pesciolini

senza nome” per la maggior parte fuggiti via dopo il 1945 a causa dell’esodo, pochi dei rimasti

riescono a rimanere ancora sé stessi, cioè “rovignesi veraci” e diventare adulti, tutti gli altri sono

“raccolti”, cioè vengono assimilati, si uniformano. A questo punto risulta evidente che

l’inquinamento di cui Zanini scrive non è solo dell’habitat, ma ha a che fare con l’onestà

intellettuale, con l’onestà politica, con l’onestà etica o con la semplice onestà, della quale

l’umanità generalmente difetta. Il terzo piano di lettura riguarda l’universalità del messaggio, il

poeta si rivolge a chi legge i suoi versi per ricordare che quanto accaduto nella sua amata terra,

potrebbe verificarsi in altri luoghi ed in tempi diversi. Dalla semplice osservazione e quindi

descrizione precisa della realtà, si passa all’allegoria, un’immagine utilizzata per esprimere un

significato riposto, un concetto e si arriva al messaggio, forse ciò che più sta a cuore al poeta.

Nel terzo piano i contenuti si rivolgono alla totalità degli individui, di ogni meridiano e parallelo, e

non riflettono perciò unilateralmente la sola condizione di Rovigno, geograficamente e

storicamente stabilita nel secondo piano. La distinzione fra il secondo e il terzo piano, quindi, è da

ricercare nella diversa ‘diramazione’ che le emissioni simboliche e/o allegoriche dei messaggi

poetici assumono di caso in caso, ossia di poesia in poesia.

Se le emissioni si fermano al “mondo a se stante”, allora si resta al secondo piano di

scrittura/lettura. Se invece le emissioni sopravanzano quel “mondo” e progressivamente si

estendono oltre i suoi restrittivi limiti (come d’incanto, ma di causa in effetto), si è nel terzo piano

di scrittura/lettura. Non ci si soffermerà su quest’ultimo piano, che si giudica abbastanza

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scorrevolmente ‘transitabile’ da qualsiasi lettore interessato ad ispezionare personalmente

(facendo perno sulle proprie riflessioni) i contenuti di larghe intese esposti da Zanini. Ossia quei

contenuti comprensibili e condivisibili da chiunque, anche da chi non ha vissuto o conosciuto i

relativi avvenimenti storici del Ventesimo secolo sotto la volta celeste rovignese e istriana. Sembra

più interessante vedere da vicino il modo in cui la materia poetica zaniniana entra nell’ordine delle

cose, individuali e collettive, che l’hanno definita e che è inseparabile, appunto, da quella Rovigno

che l’autore è sempre stato incapace di abbandonare, com’è lampante nella lirica Al saniciaro mieo

[Al passero mio] della silloge Con la prora al vento:

Mieo saniciaro,

zuta l’oultimo cupo

de la nostra casita viecia,

ma salda intula gruota,

altro gianeico anda spieta.

Al tenpo maladito

de la Livantiera passada,

tramenda pel lughito nustran,

ti giri ancura in neil

e me’ iè salgisto da rastà,

anche par tei;

ciapando spisso malidissioni,

cu da grandito ti tramivi da frido.

Caminando a sa uò ‘un puo giustà la suoma,

i vemo bou ‘un fia da sul

e ti iè dasmisso da malideime,

gudendo stu biel lughito in fiur;

ma quil cian da calur, da ciaransana,

a xi stà nama ‘un sugavile

infra du ragani da la Murlacheia.

Saniciaro mieo,

za bon da incalmà li ue,

par sta nua Murlaca

ti iè da sielgi tei,

anche pei saniciareini tuovi;

nama i puoi deite:

– I nu son stà e i nu sarie mai

oun rundon, siur del sil,

ca sa la bato mondo preima de la gravisana,

e saruò senpro el lughito dei miei vieci,

quil ch’i tendo cun amur infra i griebani bianchi,

da la puoca tiera russa e maciada da virdo,

a brama da iessi mieo, fente l’oultimo raspeiro –

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Al saniciaro mieo [Al passero mio]:Mio passero, / sotto l’ultimo coppo / della nostra casetta

vecchia, / ma salda sulla roccia, / un altro gianico ci attende. // Al tempo maledetto / della

Levantera passata, / tremenda per il campicello nostrano, / eri ancora nel nido / e ho scelto di

rimanere, / anche per te; / ricevendo spesso le maledizioni, / quando da grandicello / tremavi dal

freddo. // Camminando si e un po’ aggiustata la soma, / abbiamo avuto un barlume di sole/ e hai

smesso di maledirmi, / godendo questo bel campicello in fi ore; / ma quel poco calore, di luce fosca,

/ e stato soltanto un asciugavele / fra due uragani dalla Morlacchia. // Passero mio,/ già maturo

per fecondare le uova, / per questa nuova Morlacca / hai tu da scegliere, / anche per i passerotti

tuoi; / posso dirti soltanto: / – Non sono mai stato / e non sarò mai un rondone,/ signore del cielo

che fugge anche prima del maltempo, / e sarà sempre il campicello dei miei antenati, / quello che

curo con amore, fra i sassi bianchi / con poca terra rossa maculata di verde,/ a bramare d’essere

mio, fino all’ultimo respiro.

Tuttavia non risulterà superfluo rendere qui almeno un ‘campione’ del terzo piano di lettura,

perfettamente percepibile nella lirica Cougoli [Ciottoli] dalla silloge Mar quito e alanbastro [Mare

quieto e limpido]:

Ali Ponte,

fora deli aque muorte,

el mar raia

zura da nui

giuorno e nuoto.

Nel bianco rabisso

na stramania

par la cuguliera,

oun contro l’altro

e douti contro li gruote;

da nui, pin pian;

fa loustro sabion.

Giuorno e nuoto,

el mar douti

na stramania

e sensa riequie

a sa stramania

anche lou.

Alle Punte, / fuori dalle acque morte, / il mare urla su di noi / giorno e notte. // Nella bianca furia /

ci sbatte / per la cogolera, / uno contro l’altro / e tutti contro le rocce; / di noi lentamente / fa

lucida sabbia. // Giorno e notte, / il mare tutti / ci tormenta / e senza requie / tormenta / anche se

stesso.

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Da un’immagine consunta a un forte traslato metaforico: i ciottoli che sbattono uno contro l’altro e

tutti contro le rocce sono la personificazione degli uomini e delle loro piccole esistenze in balia della

vita.

IL RAPPORTO VITA-MARE DI ZANINI OUTSIDER.

Dall’analisi delle poesie di Ligio Zanini, così come dall’unico romanzo che scrisse e che

considereremo più avanti, risulta evidente il suo profondo legame con il mare, una metafora della

vita. Il mare può essere calmo e limpido oppure agitato e torbido e come sono i differenti fenomeni

atmosferici a turbare la tranquillità delle onde, così la vita degli uomini è spesso sconvolta dai

rapporti con le persone, sia a livello familiare che a livello generale considerando le diverse classi

sociali, le razze e le nazioni. Questa consapevolezza gli deriva dalle dolorose vicende che hanno

segnato la sua esistenza e che attraversano tutta la sua produzione poetica.

Nella poesia presentata poco sopra, “Cougoli”, sembrerebbe che la vita rappresentata

simbolicamente dal mare, abbia una potenza sproporzionata e dispotica nei confronti degli uomini.

Ma se consideriamo l’intera produzione lirica di Zanini, si comprende che per il poeta la realtà non

ha un potere assoluto e tirannico sull’esistenza umana. Nonostante al termine di questi versi

(“Giorno e notte,/ il mare tutti/ ci tormenta/ e senza requie/ tormenta/ anche se stesso”) pare che

si giunga a questa conclusione, in realtà i rapporti relazionali tra la vita (il mare) e gli uomini (qui

personificati dai ciottoli, altrove dai pesci, molluschi, alghe, barche o da braci, formiche, uccelli)

non sono quasi mai di tipo “piramidale”, cioè con la vita al vertice gerarchico e tutte le altre

presenze in basso. Tali rapporti sono principalmente di tipo “circonferenziale”, come risulta nella

poesia “Mar quito e alabastro” (Mare quieto e limpido) tratta dall’omonima silloge e qui di seguito

proposta:

Mar quito,

nu ti ie tei la culpa

da quila nuoto da satenbre,

cu lanpi a virga

na curiva dreo ali Ponte

e dabuoto ti na fundivi la batana

cun gruosse pierle da fogo.

I ta capeisso;

xi stà‘l punente ingiabanà;

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no, nu ti ie tei la culpa

da quila crus a San Zuane

e dela meisera fein

deli barche da Valdabora;

par tei stisso

ti saravi senpro quito.

Mar alanbastro,

nu ti iè tei la culpa

del masseidio da moussuli e pissi,

del dulur da Figarola

e dei ruochi ca nu xi pioun bianchi;

no, nu ti iè tei la culpa

s’el ciaro maistral puoco faviela

fra i puochi peini da Monto914;

par tei stisso

ti saravi senpro alanbastro.

Mar mieo,

ti ma stramanii

cul bianco rabisso par la cuguliera

e ti son lu stisso quito e alabastro.

Mar quito e alanbastro [Mare quieto e limpido]: Mare quieto, / non hai tu la colpa / di quella notte

di settembre, / quando lampi a verga / ci rincorrevano alle Punte / e quasi ci affondavi la battana/

con grosse perle di fuoco. // Io ti comprendo: / e stato il ponente scatenato; / no, non hai tu la

colpa / di quella croce a S. Giovanni / e della misera fine / delle barche di Valdibora; / di per te

stesso / saresti sempre quieto. // Mare limpido, / non hai tu la colpa / del massacro di mussoli e

pesci, / del dolore di Figarola / e delle sporgenze rocciose non più bianche; / no, non hai tu la colpa

/ se il chiaro maestrale poco <favella> / fra i pochi pini di Monte; / di per te stesso /saresti sempre

limpido. // Mare mio, / mi tormenti / con la tua bianca furia per la <cogolera>/ e sei ugualmente

quieto e limpido.

Parlando del mare, Zanini scrive: “di per te stesso/ saresti sempre quieto … di per te stesso saresti

sempre limpido”. Se il Mare e la Vita non sono sempre quieti e limpidi, fa intendere il poeta, ciò non

è dovuto ad un loro superiore libero arbitrio, nemico ed indifferente al destino degli esseri animati

ed inanimati. La condizione agitata e torbida del Mare e della Vita è principalmente frutto di

conseguenze esterne. Riprendendo l’analisi dei versi secondo i tre livelli di lettura ai quali abbiamo

fatto ampio riferimento prima, si può affermare che, a livello descrittivo, il mare è tormentato a

causa degli agenti atmosferici e dell’irresponsabile opera sfruttatrice e distruttrice perpetrata

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dall’uomo moderno; a livello metaforico e/o allegorico la Vita/Mare è sconvolta ed oppressa in

seguito a rapporti squilibrati tra gli umani, dalle singole presone, alle classi sociali, alle varie etnie

fino ad arrivare alle nazioni ed alle civiltà.

Il legame indissolubile fra il Mare e la Vita è evidente nelle liriche di Zanini che esprime la sua

poetica attraverso l’habitat che gli è più congeniale: il mare che, in qualsiasi sua manifestazione,

quando è calmo e tranquillo e quando è agitato ed attraversato da onde bianche di schiuma,

costituisce la figura retorica principale per raffigurare la vita. Non solo la semplice vita biologica,

ma soprattutto la Vita come concetto temporale (la situazione esistenziale dell’individuo in

relazione con se stesso e con gli altri) e atemporale (il singolo in rapporto con gli altri all’interno del

più vasto disegno della natura). In questo ultimo scenario spetta alla vita con la “v” minuscola,

quella individuale e mortale, decidere, per quanto sia possibile, cosa fare di se stessa.

Zanini ha scelto per sé stesso di essere un outsider. Dopo essersi liberato dall’infatuazione per il

Partito Comunista jugoslavo, non si fida più di nessuna ideologia e sostiene che “ognuno ha da

essere il primo uomo di se stesso” e di conseguenza sfida la Vita, un atteggiamento provocatorio

che si manifesta nella lirica “Sico da San Damian” (Secca di San Damiano) tratta dalla silloge “Terra

vecchia-stara”:

Fora del scuio da Gusteigna

e vierto ‘l canal da Fasana:

sico da San Damian.

Oun sbarnacio sul, fora

dal Monto Maiur,

fa bui el mar inturno

e xi radaghi ciapà tiera;

oun lanpo da Punente

fa bianchisà ‘l pilago

e ta ven el cor in gula.

E sta tiera

cui ribunseini biancadeissi

ogni giuorno a ma spenzo

vier el sico da San Damian,

pei riboni grandi:

quii russi culi mace silistreine.

Sico da San Damian [Secca di San Damiano]: Al largo dello scoglio di Gustigna / e aperto il canale

di Fasana: / secca di San Damiano. // Soltanto uno straccio di nube / fuori dal Monte Maggiore / fa

ribollire il mare tutt’intorno / e diventa difficile raggiungere la costa; / un lampo di Ponente / fa

biancheggiare il pelago / e ti tiene il cuore in gola. // E questa costa / con i suoi pagelli piccoli e

pallidi / ogni giorno mi spinge / verso la secca di San Damiano, / per i pagelli grandi: / quelli rossi,

chiazzati d’azzurro.

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In questa poesia Zanini, come l’eroe-pescatore protagonista del celebre romanzo di Hemingway “Il

vecchio e il mare”, si mette alla prova ed affronta il mare aperto per pescare i pagelli grandi, e

questa diventa per lui una scelta di libertà, rischiosa perché in caso di brutto tempo, sia che

provenga da oriente sia da occidente, se ci si ritrova in quella secca è difficile guadagnare la costa.

Per comprendere il messaggio contenuto nella lirica bisogna intendere che in essa il maltempo non

è soltanto meteorologico e che i punti cardinali non stanno semplicemente ad indicare le direzioni.

Essi in realtà indicano le calamità del ventesimo secolo che hanno colpito anche l’anima istriana,

da sempre problematica ed incerta nei rapporti interetnici, ma che mai prima di allora era stata

portata all’ “esasperazione etnocida” dall’italofascismo (Ponente) e dallo jugocomunismo

(proveniente da oltre Monte Maggiore, da Levante).

Anche la poesia “Piova nua” (Pioggia nuova) della silloge “Terra vecchia-stara” propone lo stesso

messaggio:

Duopo la piova da Punente,

piova nua da Livante:

su sta tiera viecia-stara,

e su ste aque uorbe.

El russo da Livante

pariva biel tenpo:

par nui mareincule spasamade,

par nui furmeighe stanche,

par doute ste bis’ciuleine...

e da Livante piova nua

su sta tiera viecia-stara.

Piova nua [Pioggia nuova]: Dopo la pioggia di Ponente, / pioggia nuova da Levante: / su questa

terra molto vecchia, / su queste rocce corrose e su queste acque torbide. // Il rosso da Levante

/sembrava bel tempo: / per noi pesciolini impauriti, / per noi formiche stanche, / per tutte queste

bestiole... / e da Levante pioggia nuova / su questa terra molto vecchia.

Qui i protagonisti sono gli animali, i “pesciolini impauriti” e le “formiche stanche” delle continue

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precipitazioni: rappresentano gli uomini, in particolare i poveri abitanti di Rovigno e gli istriani in

generale (pescatori e contadini). Dopo il temporale nero italo fascista da Ponente, sembrava che

dovesse arrivare bel tempo rosso da Levante e invece l’amara conclusione “pioggia nuova su

questa terra molto vecchia” dove si accanisce un funesto destino di esistenze colpite “dalla pioggia

di Ponente e di Levante”. Zanini considera l’esperienza fascista italiana e quella comunista

jugoslava come due facce di una stessa medaglia, entrambe sono cause di un unico dramma

umano ed il poeta cerca di porsi oltre queste esperienze assumendo una posizione molto critica.

Si può affermare, per tentare una sintesi, che in gioventù si appassionò all’ideologia comunista e

alla Jugoslavia di Tito intesa come superamento dei dissidi nazionali per raggiungere una più alta

ed autentica fraternità. Ma ben presto si accorse che dietro a quella maschera, si nascondeva un

nazionalismo slavo indiscriminatamente violento verso gli italiani. Conobbe egli stesso l’inferno del

lager di Goli Otok in cui il governo jugoslavo fece deportare avversari veri e presunti di ogni

tendenza, anche libertari come lui, sottoponendoli a terribili violenze e sevizie. Dopo

quell’esperienza tragica, visse non poche difficoltà, ma scelse comunque di rimanere nella sua

amata terra perché sentiva il dovere di restare per rendere testimonianza della sua civiltà e della

sua gente proprio lì dove era più difficile, nella desolata situazione dell’Istria, dove gli italiani

rimasti vivevano una condizione molto dura. Tutto questo si riflette nelle sue liriche, l’esperienza

negativa delle due ideologie, la disillusione e la consapevolezza di essere stato per un certo periodo

corresponsabile dell’affermazione di coloro che si erano rivelati dei nuovi oppressori e allora

prende le distanze e manifesta una profonda carica critica. Inizialmente Zanini divide la società

umana in due classi: chi comanda e chi è comandato, chi è Pastore e chi fa parte del gregge, chi

dirige e chi ubbidisce o subisce, sia che questi sia rassegnato o meno alla “legge del pesce grande

che divora quello piccolo”. Per l’autore non esistono sfumature, zone intermedie, come risulta

anche dalla poesia “Nu sta’ pastame” (Non battermi):

Nu sta’ pastame, a ma fa mal,

anche se ti ma iè veisto mori

tante vuolte...

e senpro cume oun pisso.

Nu stà fracame, ie fato la casa

a Ruoco Bianco parchì son fragile,

fragile cume i datuli da Limo.

Nu stà fundame culi onde grande

dela tu’ barca alta, ca ta scondo;

i dievo vi la batana rasa,

i dievo iessi rent’el mar:

par quisto lou xi e saruò veivo.

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Nu sta’ pastame,

ven cun mei neli nuote scoure

e sula mieia batana rasa

tenta d’intendi i seighi seiti

dela dasparassion dei pissi.

Nu sta’ pastame [Non battermi]: Non battermi, / mi fa male, anche se mi hai visto morire / tante

volte... / e sempre come un pesce. // Non calpestarmi, ho fatto la mia casa / a Rocco Bianco,

perche sono fragile, / anch’io... fragile come un dattero di Leme. // Non affondarmi con le onde

grosse / della tua barca alta, che ti nasconde; / io devo avere la battana bassa,/ devo essere vicino

al mare: / per questo egli è, e sarà, sempre vivo. // Non battermi, / vieni con me nelle notti oscure,

/ e sulla mia battana bassa / tenta di capire gli urli silenziosi / della disperazione dei pesci.

Qui l’immagine è d’effetto, i potenti sono alla guida della “barca alta” che li nasconde e fa le “onde

grosse”, lontani dal Mare/Vita e sordi agli “urli silenziosi della disperazione dei pesci” in cui si

identifica il poeta. Queste urla si possono udire solo se ci si trova nella “battana bassa”, nella

minuta imbarcazione che sfiora l’acqua, quella dei rovignesi, del popolo, degli impotenti, quella con

cui ogni giorno si combatte per la pura sopravvivenza. E’ l’imbarcazione costruita con “due tavole”,

nella lirica “A ma pare” (A mio padre) della silloge “Mare quieto e limpido”, resistente però alle

tempeste:

Preima da mori

ti ma iè fato la batana,

par quiste du tuole

ti ta iè crussià douta la veita.

Xi ouna batana peicia,

rasa sul mar e dibuleina,

la va sul pil del’onda,

cume el cucal stà vilo

sul vento da garbein.

Fente ura la uo fruntà

diviersi navareini

e grande barche sa uò fundà

rente ‘ste du tuole,

croussio da douta la tu’ veita.

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A ma pare [A mio padre]: Prima di morire / mi hai fatto la battana, / per queste due tavole / ti sei

tormentato tutta la vita. // E’ una battana piccola, bassa sul mare e fragile, / va sulla cima

dell’onda,/ come il gabbiano galleggia / sul vento di libeccio. // Finora ha affrontato / diverse

burrasche /e grandi barche sono affondate vicino a queste due tavole, / tormento di tutta la tua

vita.

La critica aspra ed una certa predisposizione sovversiva nei confronti delle istituzioni sociali si

manifesta nella lirica “El mieo scardubulier” (Il mio attrezzo per catturare i paguri) tratta dalla

silloge “Conversando con il gabbiano Filippo”:

Ie consumà dabouto

douta la miea veita

a calà stu scardubulier

e senpro su l’ur

de i sichi largadi.

Par isca iè misso

l’amur pel fra

pioun dibulo,

par falo nassi

e crissi in cunteinuo

sensa ‘l foumo,

intei uoci nui,

da dout’ i poulpiti.

Gousto iè truvà

a sbusei

ste scarduobule;

par vandita

li ma uo spacà

la scena.

Ma in cassiela

el frà, davanta fuorto,

el ma drissaruò da nuo.

El mieo scardubulier [Il mio attrezzo per catturare i paguri]: Ho trascorso quasi / tutta la mia vita/

su questo attrezzo per catturare i paguri e, / sempre, sull’orlo delle secche in mare aperto. /Quale

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esca vi ho messo / l’amore per il fratello più debole, / per farlo nascere e crescere continuamente /

senza il fumo, / negli occhi nuovi, / proveniente da ogni sorta di pulpito. // Ho provato gusto / a

smascherare questi paguri; / per vendetta / mi hanno spezzato la schiena. / Ma sulla bara / il

fratello, divenuto forte, / mi raddrizzerà di nuovo.

Qui il poeta si serve della metaforica personificazione dei Potenti e vendicativi nei crostacei paguri.

Zanini rivela la sua inesauribile insofferenza verso “ogni sorta di pulpito” e ogni fumosa gestione

del potere. La sua aspirazione sovversiva si manifesta nel “gusto a smascherare” i paguri (i

nazionalismi slavi- croato, sloveno ed altri- e tutti i Potenti in generale), per rivelarne la vera faccia

(“l’addome mollo”) a vantaggio del “fratello più debole”. Si esprime l’amore per il fratello

(rovignese, istrioto e/o italo-istriano-quarnerino e, più in generale, ogni singolo uomo oppresso) al

quale il poeta si sente vicino e solidale e per il quale auspica la liberazione dall’oppressione. Il

riscatto dai potenti sarebbe anche vissuto come consolazione per i torti e le ingiustizie subite: “Ma

sulla bara il fratello, divenuto forte, mi raddrizzerà di nuovo”).

Pur provando amore e solidarietà per l’uomo del popolo, Zanini non si immedesima nello stesso

perché, in fin dei conti, molte volte sono proprio gli individui a permettere che i Potenti conquistino

il potere. Il poeta si sente voce fuori dal coro da sempre, ancora in maniera più forte dopo le

tragiche esperienze che hanno segnato la sua vita e quella della sua amata terra. Tuttavia, pur non

identificandosi con il popolo, non smette mai di sperare in un suo ravvedimento, di incitarlo a

liberarsi dal giogo che lo sottomette e lo costringe alla condizione di “pecora”. Il suo è un canto

stonato di indipendenza e di libertà, è “l’urlo disperato del gabbiano” libero che non appartiene al

coro degli uomini canarini, canto orchestrato dai potenti. Questo è il messaggio che emerge dalla

poesia “Intul canto da sempre” (Nel canto di sempre) che appartiene alla silloge “Conversando con

il gabbiano Filippo”:

Chitare stranbe inpicade su li rame

de i venchi par culpa de li bies-ce nigare,

canareini stunadi ca inbinideisso i santi,

marsi par massa binidissioni…

e xi ‘un canto da senpro,

sul, ca va par si stisso

e zaruò in etierno pei nouvuli,

par i griebani e fra i pissi:

su li bies-ce bianche e su li nigare.

Abetierno ‘l involso douto

e puorta li vuse e i lagni

de l’omo de la viecia crusu,

de l’omo del nuo turmento,

par senpro, ultra i Tri Bastoni.

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E nama cun tei, cucal Fileipo,

i son in stu canto da senpro,

intula granda ruda de i cucai

cu ‘l Sul fa la Capa Santa,

par fa nassi ‘l frà in cunteinuo

vier l’omo de la viecia crusu,

vier li sparanse del turmento nuo,

ultra ‘l foumo da palassi e poulpiti

e contro ‘l vento ca ta puorta in alto.

Intul canto da senpro [Nel canto di sempre]: Cetre strampalate appese alle fronde dei salici / a

causa delle bestie nere, / canarini stonati che benedicono i santi, / marci per troppe

benedizioni…//e c’e un canto da sempre, / uno che va per se stesso / e andrà per l’eternità con le

nubi, / per le rocce e fra i pesci: / sulle bestie bianche e su quelle nere. // Ab aeterno avvolge tutto

/ e porta le voci e i lamenti / dell’uomo della vecchia croce, / dell’uomo del tormento nuovo /per

sempre, oltre Orione. // E soltanto con te, gabbiano Filippo, / mi trovo in questo canto di sempre, /

nella grande ruota dei gabbiani / quando il Sole fa la Conchiglia di San Giacomo / per far nascere

continuamente il fratello / verso l’uomo della vecchia croce, / verso le speranze del tormento

nuovo, / oltre il fumo di palazzi e pulpiti / e contro il vento che ti porta in alto.

Dalla lirica si innalzano tre diversi tipi di canto: quello del poeta non intonato perché non in

sintonia con il coro dei canarini, ma armonico per se stesso; quello dei canarini che sembra

armonico perché è in sintonia con il coro e con l’orchestrante, ma non è intonato perché gli manca

la libertà di opinione e legittima il Potere; infine il canto eterno al quale partecipa il nostro poeta e

la sua personale esperienza diventa una cosa sola con quella dell’uomo in generale, di ogni povero

cristo che porta la sua croce.

Il suo canto differente dal resto del coro, non gli impedisce tuttavia di provare una sincera pietà di

fronte alla morte, alla tragicità del trapasso di qualsiasi individuo: il poeta infatti intimamente

perdona il defunto peccatore per le infelicità che ha provocato da vivo. Significativa a questo

proposito è la lirica “El seie agusto” (Il sei agosto).

El xi zei;

a ma daspiasu

cume par ogni cristian,

in fondo i signemo foie

del stisso albaro;

a ma daspiasu,

cume a ma uò daspiasisto

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par Vaner, pei Canuciai,

par Nino Vigian…

e par ogni bronsa

ca sa dastouda,

e anche sensa gluorie,

da stu fià da buleistro.

El xi zei;

ula? E chi v ‘a savì.

Quil ca lou uò samanà,

nama ca lou spartaruò;

ch’el vago cun li gluorie,

che la passo…

ma no cun stu carnaval

da ri, da uori,

da ciacule e da carabinieri,

par scunfondi ‘l rumor

ch’i va guvì li sgreinfie

par ciapà la carega svuda.

I lu massì, puvarito!

E ancui, cume ogni vuolta,

cu moro ‘una tiesta granda,

ie veisto quil Piro,

quil puovaro Piro ca scanpiva

e ‘ncura scanpa sigando:

- Cun sti ri,

senpro a brassito dei ri dei ri,

cun sti creisti,

senpro pioun creisti e caruladi,

i nu la pansivo cussei…

i nu la vulivo cussei nigara;

turnime la miea batana,

no pei pissi, cume douto

anche ‘l mar i vì massà,

ma par inpiantà stu furmighier uorbo

ula i ma sento ‘un puovaro Piropierso.

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El seie agusto [Il sei agosto]: Se n’e andato; / mi dispiace / come per ogni cristiano, / in fondo

siamo foglie / dello stesso albero; / mi dispiace / come sono stato rattristato / dalla morte di

Venier, dei Canociai, / di Nino Veggian… / e di ogni brace / che si spegne, / senza glorie, / di questa

poca cenere ancor calda. // Se n’e andato; / dove? E chi lo sa. / Quello che egli ha seminato /

soltanto lui distribuirà; / che vada con le glorie, / è naturale… / ma non con questo carnevale / di

re, di ori,/ di chiacchiere e di carabinieri, / per confondere il rumore / prodotto dall’arrotare degli

artigli /per prendere la sedia vuota. / Lo ammazzate, poveretto! // E oggi, come ogni volta / che

muore una testa grande, / ho visto quel Pietro, / quel povero Pietro che fuggiva / e ancora fugge

gridando:/ – Con questi re, / sempre sottobraccio dei re dei re, / con questi poveri uomini, / sempre

più poveri e tarlati, / io non la pensavo così… / non la volevo cosi nera; / restituitemi la mia

battana, / non per i pesci, come tutto / anche il mare avete ucciso, / ma per abbandonare questo

formicaio cieco, / ove mi sento un povero “Piropierso”.

“Piropierso” è un soprannome di Rovigno che indica una persona in grosse difficoltà e che non sa

che pesci pigliare.

Il poeta si duole per la dipartita di un Potente suo concittadino e connazionale. Perdona sì, ma non

dimentica, perché la sua è misericordia, pietà cristiana, ma sopravvive sempre forte in lui la

memoria storica che non lo abbandona mai e perciò non può essere indulgente con i Potenti

trapassati per i quali prospetta una vertenza divina ancora più seria della sua di poeta e di uomo.

In altre liriche si avverte la sua religiosità che, comunque, è frutto di un cammino personale di

ricerca sostenuto da una sua autonoma interpretazione dei precetti evangelici, indipendente dalla

chiesa intesa come istituzione.

Alla fine prevale la tematica della speranza, una fiducia che il poeta ripone in Dio e negli uomini

auspicando che, in un futuro non troppo remoto, l’umanità riesca a trovare quella pace che a lui fu

negata.

Volendo tentare una riflessione conclusiva sulla produzione letteraria di Ligio Zanini, possiamo

senza dubbio affermare che egli raccontò il suo mondo e le sue esperienze: la realtà storica, la

tensione morale, l’avventura sono sempre presenti, ma fuse, riunite nel non tempo del mare, di una

vita guardata nella sua essenza, faccia a faccia. Del dialetto ne fece uno strumento straordinario

per la sua poesia, un linguaggio d’eccellenza per cantare la sua Istria alla quale rimase sempre

profondamente attaccato come un granchio ad uno scoglio.

Scrivendo nella lingua istriota Ligio Zanini volle valorizzare e rilanciare l’antico idioma che oggi

rappresenta un vero e proprio fenomeno linguistico. Egli riconobbe al dialetto il fondamentale

ruolo di memoria, riportandolo a nuova gloria, dopo che a lungo il dialetto fu considerato uno

strumento espressivo inadeguato ed inferiore: la riabilitazione della parlata istriota si deve a Zanini

e agli altri autori dell’area Istro-quarnerina che diedero vita ad una rigogliosa fioritura della poesia

in dialetto, senza dubbio uno dei fenomeni più importanti e caratterizzanti della letteratura della

minoranza italiana.

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Prima di concludere, mi sembra importante ricordare brevemente anche “MARTIN MUMA”, l’unico

romanzo scritto dall’autore che, come abbiamo visto, si dedicò quasi esclusivamente alla poesia.

L’opera fu scritta in italiano con l’intento di comunicare e raggiungere un pubblico più vasto. Il

protagonista, Martin Muma, era un personaggio del Corriere dei Piccoli degli anni ’30 del secolo

scorso, un bambino gracile, magro, diafano, indifeso che, per sfuggire da una realtà opprimente,

ad un presente grottesco e ad un destino assurdo, si lasciava trasportare dal vento e volava

leggero sopra le cose del mondo. Ligio Zanini scelse questo personaggio per raccontare la sua

vicenda personale e la sofferenza, le inquietudini e le speranze degli italiani rimasti in Istria dopo le

vicende della seconda guerra mondiale. Martin Muma è quindi lo stesso Zanini, costantemente ed

ingenuamente alla ricerca del perché le cose accadono in un certo modo e profondamente colpito

dagli eventi che hanno sconvolto la terra istriana. La gracile figura di Martino rappresenta e

riassume la parabola di un gruppo nazionale disperatamente alla ricerca della rotta per tornare a

casa, è la storia degli italiani dell’Istria e di Fiume che non hanno scelto la via dell’esilio e che,

decidendo di restare, hanno conosciuto e vissuto il dramma dei rinnegati, l’umiliazione di essere

sradicati in casa propria. Martin Muma, il bimbo “più leggero di una piuma” doveva riempirsi le

tasche di sassi per non spiccare il volo, ma accadeva sempre che qualcuno o qualcosa, per dispetto

o per l’inclemenza del destino, gli togliesse quel peso, abbandonandolo così al vento. Il ragazzino

rappresenta l’esperienza vissuta dal poeta, un instancabile sognatore sempre controcorrente, ma è

anche emblema della condizione dei rimasti: una comunità sospesa fra cielo e terra, troppo debole

e leggera per rafforzare le proprie radici e consolidare la sua presenza, ma, allo stesso tempo,

troppo pesante per volare alto, per andarsene definitivamente e diventare altro. Per Zanini l’unica

risposta possibile doveva scaturire dal rigore etico e morale, dalla ricerca della libertà e dal

“camminare con piede leggero”, cioè nell’umiltà, nella capacità di ascolto, nella rinuncia: questa

per Zanini era l’unica possibilità di essere realmente liberi e per possedere veramente la terra e le

persone amate.

La prima parte del racconto descrive la vita della gente rovignese, polesana ed istriana con le

tradizioni, i legami e tutte le certezze di un popolo legato alla propria terra ed al proprio mare,

quella forza che solo un profondo senso di appartenenza può dare. Ma in questo quadro positivo e

nitido, si inseriscono anche gli orrori provocati da fascisti e nazisti finchè irrompe con tutta la sua

violenza la seconda guerra mondiale che in Istria assunse anche la valenza di un conflitto etnico

che culminò con lo spostamento dei confini e l’annessione della penisola istriana alla Jugoslavia

comunista. Intense sono le pagine in cui si narra il dramma dell’esodo e la spaccatura profonda –

etnica e politica- della città di Pola. Infine nello scorrere di queste pagine intense, si arriva alla

vicenda più scottante e dolorosa per la vita del protagonista, l’esperienza terribile nel gulag

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jugoslavo di Goli Otok, con i suoi assurdi riti, le punizioni, le percosse e le violenze di ogni genere ed

i suoi morti. In quel luogo infernale gli uomini sono costretti a perdere ogni dignità, diventando gli

aguzzini dei propri compagni e di loro stessi.

La speranza conclude questo romanzo: Zanini auspica un futuro in cui i “pastori” non

prevaricheranno più le “ pecore” perché queste finalmente avranno iniziato a ragionare con la

propria testa. Riaffiora qui la voce solitaria del narratore, come quel grido stonato del gabbiano

rispetto al canto apparentemente armonioso dei canarini: ma il gabbiano è libero, vola nel vento e

si solleva da una realtà opprimente, come Martin Muma, il protagonista, il ragazzino che sfugge

dalle cose brutte e tristi del mondo lasciandosi trasportare dal vento.

In conclusione si può senza alcun dubbio affermare che Ligio Zanini è un cantore, un poeta intenso

e vibrante che accarezza la sua amata terra d’Istria con versi appassionati e struggenti. Il mare per

lui è elemento centrale, è come un abito che indossa e che riesce ad adattare per ogni situazione,

attraverso il suo mare Zanini tutto ascolta e tutto racconta e riesce a farlo in maniera

straordinaria. Mi appassiona il suo mondo perché riconosco che in parte è il mio: anche io scopro

un legame sempre più profondo con quelle terre nelle quali affondano le mie radici, quel mare è il

mio mare, profumato di pini e di lavanda, colorato di zaffiro e d’argento e la sua voce è sempre

dolce e suadente. Quelli sono per me i luoghi del cuore, dove l’animo esausto riposa mentre

contemplo il volo di un gabbiano sospeso fra terra e cielo. Zanini è figlio devoto di quella regione

così sconvolta da una storia ancora troppo recente perché le profonde ferite subite possano

considerarsi rimarginate. Ma la sua lirica vuole essere una dichiarazione d’amore per la sua patria

martoriata ed una testimonianza che serva a non dimenticare ed a conservare perenne memoria:

egli può di diritto essere considerato una delle voci più intense ed autentiche della poesia dialettale

contemporanea. La sua scelta di esprimersi in lingua istriota manifesta la precisa volontà di

salvaguardare la tradizione nella sua forma più pura ed autentica perché questo particolare idioma

viene dalla gente comune, marinai, contadini, la parte più genuina di quella società che custodisce

il tesoro più prezioso, l’essenza, l’anima di un popolo. La tensione morale della sua poesia emerge

anche grazie all’utilizzo di quel dialetto in cui egli riesce a raccontare e raccontarsi in modo

sublime. A titolo di curiosità, vale la pena rivelare che la difesa strenua che l’autore fa della

specificità linguistica e culturale di Rovigno, si presenta sotto varie forme, tra le quali la

salvaguardia che egli cerca di attuare delle antiche tecniche marinaresche, testimoniata dal

trattato inedito “La togneta” (La piccola lenza) sulla pesca con la lenza a mano, una forma di pesca

ormai in disarmo: per il poeta significa salvaguardare il proprio habitat da pericolose e devastanti

intrusioni e, allo stesso tempo, un modo per confrontarsi da pari con la natura.

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BIBLIOGRAFIA

Per questa ricerca ho consultato alcuni testi nei quali ho trovato materiale molto interessante che

ho integrato al mio contributo personale fatto di conoscenze acquisite negli anni per una passione

che coltivo da sempre per quelle terre e tutto ciò che le riguarda, di tradizioni scoperte quasi per

caso e soprattutto di testimonianze di persone che hanno vissuto e sofferto in quei luoghi così belli

e suggestivi, ma spesso sferzati dal vento della storia.

Qui di seguito indico i testi consultati:

• Tamara S. “Zoonimia Istriota” Annales- Ser.hist.sociol. 12-2002-1

• Elenconotizie “Zanini, il poeta pescatore cantò ai gabbiani la sua Istria” 24-07-1993

Tuttolibri

• Magris Claudio da Archivio Storico Corriere della Sera “Ligio Zanini, il poeta e il gabbiano

Filippo” 11 luglio 1993

• Giuricin Ezio “Martin Muma, saga di un dolore istriano” articolo dal sito www.anvgd.it

• De Angelini Gianclaudio “L’Istrioto. Profilo storico” dal sito Istrianet.org

• Palmieri Massimo da “IL TERRITORIO” n.29 Interventi culturali dal Monfalconese-sett.’92:

“Ligio Zanini- Martin Muma”

• L’Identità dentro. Collana di saggistica degli Italiani dell’Istria e del Quarnero: “Le Parole

rimaste- Storia della letteratura italiana dell’Istria e del Quarnero nel secondo Novecento” a

cura di Nelida Milani e Roberto Dobran