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LA LINGUA ISTRIOTA NELLA LETTERATURA ISTRO-QUARNERINA: LE LIRICHE DI LIGIO ZANINI.
PREMESSA
Credo sia necessario, prima di procedere alla trattazione dell’argomento oggetto di questa ricerca,
introdurre una premessa fondamentale: il tema affrontato mi sta particolarmente a cuore, non
solo per la mia passione per la letteratura in generale, ma anche e soprattutto perché mi trovo
personalmente coinvolta. I miei genitori sono profughi di quelle terre che l’Italia fu costretta a
cedere alla Yugoslavia con il Trattato di Parigi del 1947, fanno parte di quei circa
trecentocinquantamila esuli Giuliani, Fiumani e Dalmati che abbandonarono tutto per continuare
ad essere Italiani e vivere da uomini liberi. Ma è rimasto un legame profondo ed indissolubile con
quei luoghi e papà e mamma hanno saputo trasmetterlo anche a me. Appena possibile scappo a
respirare un po’ di quell’aria profumata di sale, a contemplare quel mare di un azzurro intenso e
limpido, ad ascoltare il rumore delle onde che si rincorrono quando soffia la bora, il vento del
Quarnero. E quella parlata dialettale, un misto di veneto ed istriano che ho sempre sentito in casa,
mi sembra una musica dolce che evoca tanti preziosi ricordi.
Mi accingo quindi ad affrontare l’argomento proposto con un forte coinvolgimento personale,
perché qualsiasi cosa mi riporti in quei luoghi, anche se solo con il pensiero, fa vibrare forte le corde
del cuore!
▬▬▬▬▬
Nella produzione letteraria istro-quarnerina la poesia dialettale espressa in istrioto, possiede una
forza eccezionale e occupa un posto di tutto rispetto. Ma prima di scoprire l’uso straordinario della
lingua istriota da parte di uno dei maggiori autori che scelsero di esprimersi attraverso questa
parlata, Ligio Zanini, è necessario soffermarsi a considerare un breve profilo storico e l’evoluzione
di questa particolare lingua.
Qui di seguito si inseriscono due cartine geografiche per evidenziare l’area interessata dalla lingua
istriota ed averne così una collocazione più precisa.
LINGUA ISTRIOTA: PROFILO STORICO E DIFFUSIONE.
Fu Graziadio Ascoli, colui che fondò la glottologia nella seconda metà del XIX secolo, a coniare il
termine “istrioto”, riferendosi alle popolazioni ladine che popolavano l’Istria in epoca romana.
Secondo il linguista Matteo Bartoli, la lingua istriota trova le sue origini nella scelta di Ottaviano
Augusto di far stabilire nel territorio di Pola che si estendeva dal Canal di Leme all’Arsa, i veterani
del suo esercito vittorioso. Questi soldati legionari, provenienti per la maggior parte dall’Abruzzo e
dalla Puglia, si mescolarono agli Illiri (o veneto-illirici denominati Histri) autoctoni dell’Istria e del
Quarnero e diedero così origine al popolo ed alla cultura istriota dell’Istria meridionale.
Uno storico, Bernardo Benussi, notò che il dialetto istriano presentava numerosi elementi di
contatto con l’abruzzese ed il tarentino e perciò arrivò ad ipotizzare che questa somiglianza
derivasse dai coloni romani che Augusto decise di insediare nella colonia di Pola ed originari
dell’Italia meridionale. Questa teoria pare essere confortata dalla presenza, solo nella zona dell’ex
agro romano di Pola, delle caratteristiche costruzioni in pietra a pianta circolare costruite a secco
dai contadini istriani, chiamate “casite” e molto simili ai trulli pugliesi.
Il carattere spiccatamente romanzo di questo antico dialetto neolatino, risulta evidente se si
effettua una rapida rassegna dei nomi degli animali domestici nei dialetti istrioti dell’Istria sud-
occidentale. La parola “Animal,-is”, sostantivo neutro della terza declinazione si è conservato nei
dialetti istrioti nelle forme “anamal, anemal” cambiando di genere in quanto il neutro è stato
eliminato dalla lingua ed è stato fatto confluire nel maschile, come anche il suo plurale “Animalia,-
ium” diventato anamai, anemai, animai (pl.m.), conservato nella forma “anamalia” nel rovignese.
Per quanto riguarda la parola “Bestia, -ae” (che indica gli animali allevati per l’agricoltura e
l’alimentazione), sostantivo femminile della prima declinazione latina e la parola latina medioevale
“Bestiamen,-is”, esse si sono mantenute nei dialetti istrioti per indicare la bestia e il bestiame.
Altro esempio è lo zoonimo latino “Asinus,-i”, sostantivo maschile della seconda declinazione, si è
conservato nel vallese nella forma “aseno”, mentre è molto più in uso in tutti i dialetti istrioti la
forma “samer, samerul, samier” indicante l’asino o animale da soma, derivante dal latino volgare
sagmarium. La vacca da latte o mucca viene così chiamata nei dialetti istrioti: nel rovignese
“ar’menta”, nel vallese, dignanese, gallesanese, fasanese e sissanese “ ‘vaka”. La parola vacca, che
indica la femmina adulta del bue deriva dal latino “Vacca” ed è panromanza. Il bue, il maschio dei
bovini, castrato per essere utilizzato come animale da lavoro e da macello, viene così denominato
nelle parlate istriote: nel rovignese, vallese, dignanese, gallesanese e sissanese “manzo”, nel
fasanese “man ‘o”. La parola bue deriva dal latino “Bos, Bovis”, panromanzo, questo sostantivo
maschile della terza declinazione si è conservato soltanto nell’antico dignanese nella forma “bou”.
Per quanto riguarda la parola cane, essa deriva dal latino “Canis,-is” ed in rovignese è diventata
“can”. Cavallo invece trae origine da “Caballus” , cavallo castrato : nei dialetti istrioti il cavallo
viene detto “ka’val”, mentre la parola latina “Equus,-i”, sostantivo maschile della seconda
declinazione, non si è conservata nei dialetti istrioti. Ancora un esempio: il termine “gatto” deriva
dal latino scientifico “Felis Catus” . Nei dialetti istrioti il gatto viene detto “gato”, si può notare che
la parola del latino classico “Felis,-is”, sostantivo femminile della terza declinazione, non si è
conservata nei dialetti istrioti, ma lo zoonimo “gato” deriva dal latino volgare “Cattus”.
Con una curiosa rassegna dei nomi di alcuni fra i più comuni animali domestici, si è potuto ribadire
ancora una volta l’impronta romanza di questo dialetto neolatino.
Le parlate istriote (rovignese, vallese, dignanese, gallesanese, fasanese, sissanese) rappresentano
le sole parlate neolatine autoctone nella regione istriana che si sono sviluppate direttamente dal
latino volgare parlato un tempo in Istria, assai prima che venisse acquisito il veneziano, il cui
influsso inizia vero l’anno Mille e si afferma con forza nel Quattrocento. Furono le persone
autoctone del territorio che appartenevano allo strato sociale più basso, marinai, agricoltori,
contadini, a consentire la continuità di quell’antica latinità istriana.
Un tempo l’istrioto era parlato in tutta l’Istria ed era una cosa sola con il friulano e con il
dalmatico. La prima frattura del latino volgare unitario nella Romania linguistica iniziò dal IV e
terminò verso il IX secolo, in seguito le lingue romanze iniziarono la loro evoluzione e, in
conseguenza dell’invasione slava di queste terre (VI e VII secolo), si crearono tre differenti dia
sistemi romanzi: il friulano a nord, l’istrioto in Istria e il dalmatico in Dalmazia e sulle sue isole. I
Romani dell’Istria diedero origine ad una loro lingua, l’istrioto che seguì uno sviluppo autonomo
fino all’arrivo dei Veneziani che, grazie all’egemonia politica e commerciale della Serenissima,
imposero il loro idioma, simbolo di prestigio e cultura. In questo modo in Istria, grazie ai contatti
quotidiani, ebbe origine un altro dialetto romanzo, l’istroveneto che poco a poco soppiantò
l’istrioto parlato nei paesi; medesima sorte toccò al dalmatico.
Siccome non c’era un centro principale che servisse da collegamento fra le varie località e la gente
istriota, a Rovigno, Dignano, Sissano, Valle, Fasana e Gallesano si svilupparono delle parlate locali
diverse ed ognuna con delle caratteristiche proprie, benché simili poiché si potevano ricondurre ad
una base comune: tutte infatti derivavano dal latino volgare parlato nella penisola istriana dal 177
a.C. in poi. Ai giorni nostri queste oasi linguistiche istriote che ancora salvaguardano la loro parlata
originaria, sono letteralmente circondate da paesi in cui le lingue usate sono l’istroveneto e il
dialetto croato ciacavo che sopprimono inesorabilmente le uniche antiche testimonianze neolatine
istriane. La lingua istriota oggi viene parlata (quasi esclusivamente come seconda lingua o come
lingua familiare) da 1000-2000 persone nell’Istria meridionale e da ancora poche migliaia di
profughi ed esuli istriani dispersi in Italia e nel mondo.
L’UNESCO considera l’Istrioto una lingua a “serio rischio d’estinzione” nel suo “Red Book of
seriously endangered languages”: sarà un vero peccato se non si riuscirà a far sopravvivere questo
patrimonio culturale ed umano da trasmettere alle future generazioni.
In conclusione di questa prima parte, possiamo affermare che quanto evidenziato fin qui assume
una valenza particolare, se consideriamo la parlata istriota oggetto di questo lavoro, ma possiamo
estendere le nostre riflessioni a livello generale se consideriamo il valore che ciascun dialetto
riveste per il territorio in cui viene parlato: la presenza di un dialetto o di più dialetti in una regione,
rappresenta un dato fondamentale per comprendere il paesaggio umano, un bene prezioso da
conservare e tutelare come si fa con una chiesa o con un monumento. Tra un dialetto ed il suo
territorio non c’è solo una casuale coincidenza geografica, ma un legame essenziale, il legame con
la solidità delle radici che permette la conservazione delle risorse umane e culturali della comunità.
Il dialetto in sintesi è un fattore comunicativo e culturale vivo, se viva è la cultura locale, se viva è
l’identità del gruppo umano che lo parla, uno strumento di creatività ed espressività fino a quando
esiste una collettività che vi si riconosce e che attraverso esso si conosce.
LA LETTERATURA IN LINGUA ISTRIOTA. CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE ED IL CONTRIBUTO DI
UNO DEI SUOI MAGGIORI ESPONENTI: LIGIO ZANINI.
Nonostante la sua incontestabile antichità, non sono pervenuti testi in istrioto antecedenti al 1835,
anno in cui un appassionato erudita torinese, Giovenale Vegezzi Ruscalla, allo scopo di radunare in
una raccolta antologica un saggio di tutti i dialetti italiani, aveva chiesto ai letterati delle singole
regioni italiane di fornire nel proprio vernacolo la traduzione della Parabola del Figliuol prodigo.
Ma forse l’opera più importante per la tutela del patrimonio culturale racchiuso nell’antico
linguaggio istrioto è l’antologia “Canti Istriani” edita nel 1877 nella collana curata da Domenico
Comparetti ed Alessandro D’Ancona, “Canti e racconti del Popolo Italiano”. La raccolta di canti,
indovinelli, stornelli, ecc. si deve alla precisa opera dell’allievo di Isaia Ascoli, Antonio Ive, che li
raccolse quasi esclusivamente nella natia Rovigno. Risale all’incirca alla metà dell’Ottocento il
primo dizionario d’istrioto manoscritto: il dizionario Dignanese-Italiano opera di Giovanni Andrea
Dalla Zonca ed edito nel 1978 nella collana degli Atti del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno.
Si può affermare che i primi testi istroromanzi non sono nati per necessità pratiche, né sono
funzionale conseguenza dell’assurgere di un idioma a lingua, ma piuttosto sono sorti per la
curiosità di filologi ed eruditi locali.
Più recentemente molti poeti hanno composto le loro opere in lingua istriota considerandola un
mezzo espressivo di grande potere suggestivo e rievocatorio della vita di mare, della campagna e
degli antichi usi e costumi della loro gente: tra gli innumerevoli cantori considereremo in
particolare Ligio Zanini.
Prima di procedere nella trattazione e proporre l’opera di Zanini, mi sembra importante fare
alcune riflessioni a carattere generale. Innanzitutto ci poniamo una domanda: perché si scrive
ancora in italiano e in dialetto? Certamente ogni autore ha diverse motivazioni, si scrive in italiano
e in dialetto fondamentalmente per soddisfare un bisogno personale, intellettuale e sentimentale
al tempo stesso, ma si scrive anche per comunicare un’esperienza, per comprendere gli altri, per
dare sfogo ai ricordi. Ma si può senza alcun dubbio affermare che ci sono due elementi
caratteristici che contraddistinguono gli autori di queste terre: la maledizione dell’esodo, una
sensazione molto radicata, la consapevolezza di una tragedia che non lascia tregua a chi l’ha
vissuta e la posizione sociale, percepita come anomala, indicativa di una minoranza nazionale e di
una diversità profonda.
Ligio Zanini è uno dei più autorevoli esponenti della “letteratura dei rimasti” che hanno cercato di
difendere un’identità da sempre osteggiata e perseguitata. Gli Italiani rimasti dovettero sostenere
una lotta estenuante per non farsi assorbire e sommergere dall’ondata slavizzatrice e mantenere
viva la lingua italiana in Istria. Coloro che non scelsero la via dell’esilio, ma vollero rimanere nella
propria terra, conobbero la tragedia dei rinnegati e l’umiliazione di sentirsi stranieri in casa
propria.
Il dialetto locale diventa così uno strumento fondamentale di comunicazione, per i “rimasti” quasi
un linguaggio in codice che fa parte dello stile di vita istriano e conserva nitido e forte quel
sentimento di appartenenza ad una comunità di grande storia e tradizioni.
Nella regione istro-quarnerina i dialetti rappresentano un’esperienza plurisecolare, una ricchezza
incalcolabile ed un vero e proprio simbolo di identificazione, di appartenenza. Come tutti i dialetti,
anche questi, ed in particolare quello istrioto oggetto di questo lavoro, sono testimonianze preziose
di una storia civile e culturale, raccontano la vita e le esperienze delle persone che li hanno parlati e
li parlano. La lingua istriota è diventata la lingua di una ricca produzione letteraria, lirica e
narrativa che dimostra la diversità culturale di quel territorio e la potenzialità delle parlate locali,
custodi di un importante e ricco patrimonio di storia e tradizioni. Questa parlata permette ai poeti
dialettali istriani anche di esprimere la loro peculiare specificità in un linguaggio che racconta una
realtà anomala e complessa.
Un breve accenno va rivolto anche alle tematiche trattate nella creazione poetica: l’elemento
centrale al quale si legano quasi tutti i temi è la memoria che costruisce il nostro vissuto, ciò che
stato perduto è oggetto di ricordo e suscita, di conseguenza, nostalgia. La scrittura diventa così un
mezzo di trasmissione del ricordo e quindi la memoria rappresenta un modo per fermare il tempo.
Negli autori è molto forte e sentito il tema del ricordo dell’infanzia, della terra madre, dei propri
avi. Altro tema centrale è quello dell’esodo, le radici strappate con violenza, perdute, trapiantate,
ritrovate e poi nella produzione letteraria sono diffuse le sensazioni legate al confine inteso come
luogo fisico, spesso, soprattutto per questa gente, luogo di scontro e di incontro di sentimenti e
stati d’animo che possono appartenere solo alla gente di frontiera. Strettamente legati ai temi
sopra descritti, sono quelli della guerra, della famiglia e del rispetto delle tradizioni e delle usanze
dei propri antenati. I temi trattati comportano poi una inevitabile conseguenza, il trovarsi di fronte
all’amletico interrogativo se accettare il proprio destino oppure ribellarsi ad esso.
LIGIO ZANINI
Nacque nella cittadina costiera istriana di Rovigno nel 1927 e lì visse parte dell’infanzia fino a
quando il papà, un mastro che faceva carri ma anche battane, remi e alberi di goletta, per
difficoltà economiche dovette vendere il negozio e trasferirsi con la famiglia a Pola. Poiché la
lingua materna di Ligio era l’istrioto, non fu facile il suo inserimento a scuola, in quanto a Pola si
parlava l’istro-veneto. Alla fine della seconda guerra mondiale cominciò a frequentare i giovani
antifascisti polesi, diplomandosi all’Istituto Magistrale nel 1947, proprio nel momento dell’esodo
più intenso che colpì l’Istria. Si iscrisse al Partito Comunista Jugoslavo ed iniziò ad insegnare nelle
scuole elementari, ma ben presto divenne capoufficio per le scuole italiane presso il Dipartimento
dell’Istruzione di Pola. Si accorse in breve tempo che l’incarico gli venne affidato poiché, giovane ed
inesperto, facilmente avrebbe potuto essere influenzato dai funzionari sloveni e croati: questo lo
portò a riflettere sulle manipolazioni attuate dalle ideologie e nel 1948, il momento più turbolento
della rottura fra Tito e Stalin, si pronunciò con una condanna di entrambe le posizioni in lotta e si
dimise dal Partito comunista. Questa scelta la pagò con l’arresto: nel 1949 la polizia segreta
jugoslava lo internò nelle carceri di Pola e, in seguito ad un sommario processo, fu condannato a
tredici mesi di lavori forzati nel campo di concentramento di Goli Otok (Isola Calva). La pena verrà
prolungata e Zanini trascorrerà quasi tre anni ai lavori forzati, questa esperienza lo segnò
profondamente. Venne liberato nel 1952 con l’impegno di non parlare a nessuno delle tremende
esperienze vissute nell’isola. Passò un periodo di “libertà sorvegliata”, fu costretto a lavorare come
magazziniere nel cantiere navale Stella Rossa di Pola e gli venne categoricamente vietato
l’insegnamento. L’interessamento di suoi amici e di intellettuali polesi che conoscevano la sua
vasta produzione poetica, pubblicata non ufficialmente e diffusa in copie dattiloscritte, gli permise
di trovare un nuovo impiego come ragioniere, finchè nel 1959 gli fu permesso di tornare ad
insegnare.
Si trasferì a Salvore per riaprire la scuola elementare italiana chiusa dagli jugoslavi nel 1953. Vi
rimase per cinque anni e fondò il locale Circolo Italiano di Cultura (oggi Comunità degli Italiani).
Fece ritorno a Rovigno nel 1964 e lavorò come contabile, ma nel 1966 si licenziò e visse di pesca
fino al 1972, anno in cui gli offrirono un posto come maestro nella scuola elementare di Valle. In
quel paesino, vicino alla sua amatissima Rovigno, vi restò fino alla pensione. Nel 1979 riuscì a
conseguire la laurea in Pedagogia presso l’Università di Pola.
Trascorse gli ultimi anni della sua vita dedicandosi interamente alle sue due grandi passioni, la
pesca e la poesia, intrattenendo anche rapporti epistolari con poeti italiani fra i quali Biagio Marin
che fu suo carissimo amico.
A causa di un male incurabile, morì il 1 luglio 1993 nell’ospedale di Pola. In quella occasione
scrissero di lui: “Con la sua barca, il Cucal, proprio come un gabbiano leggero sull’Adriatico, se n’è
andato al largo verso l’infinito il poeta Ligio Zanini che con il dialetto di Rovigno d’Istria ci ha dato
poesia, come ha fatto Biagio Marin con il dialetto di Grado.”
LA POETICA DI LIGIO ZANINI.
Per la forza espressiva della sua poesia, strettamente legata alle sue vicende personali, al suo
amato mare ed alla natura, Ligio Zanini è di diritto considerato una delle voci più intense ed
autentiche della poesia dialettale contemporanea. Lo stesso poeta fornisce le coordinate
geografiche e tematiche per delimitare la sua produzione letteraria: un “triangolo di terra e acqua”
che Zanini descrive minuziosamente e con profondo sentimento. Ci presenta boschi, montagne,
ridenti paesi, chiese, isolotti, tratti di costa, fondali, scogli, insenature, secche portandoci in un
viaggio immaginario a conoscere, palmo a palmo, quei luoghi per i quali egli nutre un amore
intenso che traspare da ogni verso; questa conoscenza precisa deriva dal suo legame profondo con
quella terra e la sua gente. In alcuni casi fornisce anche le spiegazioni del significato che quegli
stessi luoghi hanno per i vecchi pescatori rovignesi, frequentatori abituali di quelle acque. Con
l’intenzione di farsi comprendere e di raggiungere così un pubblico ancora più vasto, traduce tutte
le sue poesie, scritte in istrioto, in lingua italiana. Ma in questo modo Zanini cerca soprattutto di
salvaguardare il dialetto rovignese che, dopo il cambiamento radicale della componente etnica
della cittadina in seguito all’esodo della maggior parte della popolazione autoctona, rischiava di
scomparire.
Il piccolo mondo protoromanzo rovignese e zaniniano non esclude, in ogni caso, il ‘fratello slavo
istriano’ con il quale la convivenza nel passato era possibile ed era una realtà tangibile, com’e
evidenziato nella lirica “ Pubrateine” [Fratello] tratta dalla silloge” Terra vecchia”(stara), mentre
nel presente è – pur restando ambita per via dell’auspicabile rinascita dei valori umani – di difficile
concretizzazione:
Pubrateine, sigouro ti ta racuordi
del lughito che ti m’arivi
e dei veide ch’i t’incalmivo...
I tuoi gaiardi bianchi
fiva muliseina la miea puoca tiera
e svielte le miee man ganbiva
el salvadago in ustran.
Cuntento ti ma ie da tu feia,
ca favalando cume mei
la f va la sua schera,
ca cantando e piurendo cun mei
la ma uò da tanti fioi.
Ma la longa tanpastada
masacra ‘nda uò miese criatoure
dastrusendo i nostri loghi:
la tiera xi turnada doura,
li veide xi rusagade dal lagrami.
Pubrateine mieo,
lassemo che li sigale canto
cume preima dela tanpastada,
la nostra tiera viecia-stara
spieta da nui par iessi guvarnada;
fassile i faremo giudando i nostri fioi
ca da su nuono i uò inparà
a purtà cun amur i gaiardi bianchi,
ca da su pare i uò veisto salvà
li veide dala filuossara.
Pubrateine [Fratello]: Fratello, certamente ricordi / del campicello che mi aravi / e delle viti che ti
innestavo... / I tuoi buoi forti e bianchi / rendevano soffi ce la mia poca terra / e agili le mie mani
trasformavano / il selvatico in nostrano. // Contento mi desti tua figlia, / che parlando con me
/riordinava il suo filare, / che cantando e piangendo con me / mi ha dato tanti figli. // Ma la lunga
grandinata / ci ha trucidato molte creature / devastando i nostri campi: / la terra e ritornata dura,
/ le viti sono corrose dalla gramigna. // Fratello mio, / lasciamo che le cicale friniscano / come
prima della grandinata, / la nostra terra molto vecchia / attende da noi di essere coltivata; / ci
sarà facile aiutando i nostri figli, / che dal loro nonno hanno appreso / a condurre con amore i
buoi forti e bianchi, / che dal loro padre hanno visto salvare le viti dalla fillossera.
Se la convivenza, dunque, era nel passato una realtà concreta vissuta in maniera solidale almeno
dai ceti popolani che non erano ancora stati guastati dal settario stile di vita borghese (nonchè
dalla sua concezione del mondo determinata innanzitutto dal profitto e quindi prettamente
individualistica) e il cui primario interesse era sottrarsi alle strettoie della povertà; se la convivenza
era concepita provvidenzialmente dal basso e non soltanto artificiosamente ‘imposta’ dall’alto per
vie politiche, ebbene, Zanini in molti altri componimenti poetici avverte che quella convivenza è per
lui e per la sua gente irrimediabilmente caduta fra l’incudine e il martello dello svolgimento storico
che ha investito l’etnia italiana del territorio, riducendola a minoranza in conseguenza dei noti
sconvolgimenti sofferti dalla comunità, svilita in Slovenia e in Croazia dal punto di vista numerico
durante e dopo la tragedia dell’esodo. Tanto che per essa il sole “ va in sacco.”
Insomma: un conto è la convivenza paritetica e proficuamente prodottasi dal basso tra genti,
lingue e culture diverse, tutt’altro conto è la ‘convivenza’ raggiunta per vie amministrative, quando
la componente minoritaria reclama i diritti come una ragione sacrosanta, mentre la parte
maggioritaria li assume come forzata ragion di Stato, come benevola concessione.
Le sue liriche possono essere interpretate considerando tre diversi piani di lettura, come si evince
dall’analisi di questa poesia:
ISTRIOTO ITALIANO
« In tanti sensa nom i giariendi,
a miere inda ingrumiva
e senpro in tanti i rastiendi.
In puóchi sensa nom i signemo rastadi,
puóchi inda ingrumide
e ciari i crissemo duópo ingianaradi.
« In tanti senza nome eravamo,
a migliaia ci raccoglievano
e sempre in tanti rimanevamo.
In pochi senza nome siamo rimasti,
pochi ci raccogliete
ed in pochi diventiamo adulti.
Cula vostra cragna inda massì li úe
e quii puóchi, intel mar de casa nostra,
i signemo senpro intra li rúe.
A nu saruò culpa da nui sensa nom,
i nu vemo denti par mursagà,
ma va rastaruò nama ch'i uóci
par piurà ch'inda vì dassamansà.
Con la vostra sporcizia ci uccidete le uova
e quei pochi, nel mare di casa nostra,
siamo sempre tra le spine.
Non sarà colpa di noi senza nome,
non abbiamo denti per mordere,
ma vi rimarranno soltanto gli occhi
per piangere di aver fatto estinguere la nostra
specie.
(Sensa nom –Pesce senza nome- Terra vecchia-stara)
Il primo piano è quello descrittivo: i pesci della lirica sono reali, esseri acquatici che respirano con le
branchie sott’acqua, la sporcizia che uccide le uova di questi pesci è l’inquinamento e quindi l’uomo
il responsabile della loro estinzione; il secondo piano di lettura è quello allegorico: i pesci
rappresentano i rovignesi autoctoni, non le orate e i branzini delle ricche tavolate, ma il ceto
popolano di umili contadini e pescatori, ossia quella moltitudine di donne e uomini “pesciolini
senza nome” per la maggior parte fuggiti via dopo il 1945 a causa dell’esodo, pochi dei rimasti
riescono a rimanere ancora sé stessi, cioè “rovignesi veraci” e diventare adulti, tutti gli altri sono
“raccolti”, cioè vengono assimilati, si uniformano. A questo punto risulta evidente che
l’inquinamento di cui Zanini scrive non è solo dell’habitat, ma ha a che fare con l’onestà
intellettuale, con l’onestà politica, con l’onestà etica o con la semplice onestà, della quale
l’umanità generalmente difetta. Il terzo piano di lettura riguarda l’universalità del messaggio, il
poeta si rivolge a chi legge i suoi versi per ricordare che quanto accaduto nella sua amata terra,
potrebbe verificarsi in altri luoghi ed in tempi diversi. Dalla semplice osservazione e quindi
descrizione precisa della realtà, si passa all’allegoria, un’immagine utilizzata per esprimere un
significato riposto, un concetto e si arriva al messaggio, forse ciò che più sta a cuore al poeta.
Nel terzo piano i contenuti si rivolgono alla totalità degli individui, di ogni meridiano e parallelo, e
non riflettono perciò unilateralmente la sola condizione di Rovigno, geograficamente e
storicamente stabilita nel secondo piano. La distinzione fra il secondo e il terzo piano, quindi, è da
ricercare nella diversa ‘diramazione’ che le emissioni simboliche e/o allegoriche dei messaggi
poetici assumono di caso in caso, ossia di poesia in poesia.
Se le emissioni si fermano al “mondo a se stante”, allora si resta al secondo piano di
scrittura/lettura. Se invece le emissioni sopravanzano quel “mondo” e progressivamente si
estendono oltre i suoi restrittivi limiti (come d’incanto, ma di causa in effetto), si è nel terzo piano
di scrittura/lettura. Non ci si soffermerà su quest’ultimo piano, che si giudica abbastanza
scorrevolmente ‘transitabile’ da qualsiasi lettore interessato ad ispezionare personalmente
(facendo perno sulle proprie riflessioni) i contenuti di larghe intese esposti da Zanini. Ossia quei
contenuti comprensibili e condivisibili da chiunque, anche da chi non ha vissuto o conosciuto i
relativi avvenimenti storici del Ventesimo secolo sotto la volta celeste rovignese e istriana. Sembra
più interessante vedere da vicino il modo in cui la materia poetica zaniniana entra nell’ordine delle
cose, individuali e collettive, che l’hanno definita e che è inseparabile, appunto, da quella Rovigno
che l’autore è sempre stato incapace di abbandonare, com’è lampante nella lirica Al saniciaro mieo
[Al passero mio] della silloge Con la prora al vento:
Mieo saniciaro,
zuta l’oultimo cupo
de la nostra casita viecia,
ma salda intula gruota,
altro gianeico anda spieta.
Al tenpo maladito
de la Livantiera passada,
tramenda pel lughito nustran,
ti giri ancura in neil
e me’ iè salgisto da rastà,
anche par tei;
ciapando spisso malidissioni,
cu da grandito ti tramivi da frido.
Caminando a sa uò ‘un puo giustà la suoma,
i vemo bou ‘un fia da sul
e ti iè dasmisso da malideime,
gudendo stu biel lughito in fiur;
ma quil cian da calur, da ciaransana,
a xi stà nama ‘un sugavile
infra du ragani da la Murlacheia.
Saniciaro mieo,
za bon da incalmà li ue,
par sta nua Murlaca
ti iè da sielgi tei,
anche pei saniciareini tuovi;
nama i puoi deite:
– I nu son stà e i nu sarie mai
oun rundon, siur del sil,
ca sa la bato mondo preima de la gravisana,
e saruò senpro el lughito dei miei vieci,
quil ch’i tendo cun amur infra i griebani bianchi,
da la puoca tiera russa e maciada da virdo,
a brama da iessi mieo, fente l’oultimo raspeiro –
Al saniciaro mieo [Al passero mio]:Mio passero, / sotto l’ultimo coppo / della nostra casetta
vecchia, / ma salda sulla roccia, / un altro gianico ci attende. // Al tempo maledetto / della
Levantera passata, / tremenda per il campicello nostrano, / eri ancora nel nido / e ho scelto di
rimanere, / anche per te; / ricevendo spesso le maledizioni, / quando da grandicello / tremavi dal
freddo. // Camminando si e un po’ aggiustata la soma, / abbiamo avuto un barlume di sole/ e hai
smesso di maledirmi, / godendo questo bel campicello in fi ore; / ma quel poco calore, di luce fosca,
/ e stato soltanto un asciugavele / fra due uragani dalla Morlacchia. // Passero mio,/ già maturo
per fecondare le uova, / per questa nuova Morlacca / hai tu da scegliere, / anche per i passerotti
tuoi; / posso dirti soltanto: / – Non sono mai stato / e non sarò mai un rondone,/ signore del cielo
che fugge anche prima del maltempo, / e sarà sempre il campicello dei miei antenati, / quello che
curo con amore, fra i sassi bianchi / con poca terra rossa maculata di verde,/ a bramare d’essere
mio, fino all’ultimo respiro.
Tuttavia non risulterà superfluo rendere qui almeno un ‘campione’ del terzo piano di lettura,
perfettamente percepibile nella lirica Cougoli [Ciottoli] dalla silloge Mar quito e alanbastro [Mare
quieto e limpido]:
Ali Ponte,
fora deli aque muorte,
el mar raia
zura da nui
giuorno e nuoto.
Nel bianco rabisso
na stramania
par la cuguliera,
oun contro l’altro
e douti contro li gruote;
da nui, pin pian;
fa loustro sabion.
Giuorno e nuoto,
el mar douti
na stramania
e sensa riequie
a sa stramania
anche lou.
Alle Punte, / fuori dalle acque morte, / il mare urla su di noi / giorno e notte. // Nella bianca furia /
ci sbatte / per la cogolera, / uno contro l’altro / e tutti contro le rocce; / di noi lentamente / fa
lucida sabbia. // Giorno e notte, / il mare tutti / ci tormenta / e senza requie / tormenta / anche se
stesso.
Da un’immagine consunta a un forte traslato metaforico: i ciottoli che sbattono uno contro l’altro e
tutti contro le rocce sono la personificazione degli uomini e delle loro piccole esistenze in balia della
vita.
IL RAPPORTO VITA-MARE DI ZANINI OUTSIDER.
Dall’analisi delle poesie di Ligio Zanini, così come dall’unico romanzo che scrisse e che
considereremo più avanti, risulta evidente il suo profondo legame con il mare, una metafora della
vita. Il mare può essere calmo e limpido oppure agitato e torbido e come sono i differenti fenomeni
atmosferici a turbare la tranquillità delle onde, così la vita degli uomini è spesso sconvolta dai
rapporti con le persone, sia a livello familiare che a livello generale considerando le diverse classi
sociali, le razze e le nazioni. Questa consapevolezza gli deriva dalle dolorose vicende che hanno
segnato la sua esistenza e che attraversano tutta la sua produzione poetica.
Nella poesia presentata poco sopra, “Cougoli”, sembrerebbe che la vita rappresentata
simbolicamente dal mare, abbia una potenza sproporzionata e dispotica nei confronti degli uomini.
Ma se consideriamo l’intera produzione lirica di Zanini, si comprende che per il poeta la realtà non
ha un potere assoluto e tirannico sull’esistenza umana. Nonostante al termine di questi versi
(“Giorno e notte,/ il mare tutti/ ci tormenta/ e senza requie/ tormenta/ anche se stesso”) pare che
si giunga a questa conclusione, in realtà i rapporti relazionali tra la vita (il mare) e gli uomini (qui
personificati dai ciottoli, altrove dai pesci, molluschi, alghe, barche o da braci, formiche, uccelli)
non sono quasi mai di tipo “piramidale”, cioè con la vita al vertice gerarchico e tutte le altre
presenze in basso. Tali rapporti sono principalmente di tipo “circonferenziale”, come risulta nella
poesia “Mar quito e alabastro” (Mare quieto e limpido) tratta dall’omonima silloge e qui di seguito
proposta:
Mar quito,
nu ti ie tei la culpa
da quila nuoto da satenbre,
cu lanpi a virga
na curiva dreo ali Ponte
e dabuoto ti na fundivi la batana
cun gruosse pierle da fogo.
I ta capeisso;
xi stà‘l punente ingiabanà;
no, nu ti ie tei la culpa
da quila crus a San Zuane
e dela meisera fein
deli barche da Valdabora;
par tei stisso
ti saravi senpro quito.
Mar alanbastro,
nu ti iè tei la culpa
del masseidio da moussuli e pissi,
del dulur da Figarola
e dei ruochi ca nu xi pioun bianchi;
no, nu ti iè tei la culpa
s’el ciaro maistral puoco faviela
fra i puochi peini da Monto914;
par tei stisso
ti saravi senpro alanbastro.
Mar mieo,
ti ma stramanii
cul bianco rabisso par la cuguliera
e ti son lu stisso quito e alabastro.
Mar quito e alanbastro [Mare quieto e limpido]: Mare quieto, / non hai tu la colpa / di quella notte
di settembre, / quando lampi a verga / ci rincorrevano alle Punte / e quasi ci affondavi la battana/
con grosse perle di fuoco. // Io ti comprendo: / e stato il ponente scatenato; / no, non hai tu la
colpa / di quella croce a S. Giovanni / e della misera fine / delle barche di Valdibora; / di per te
stesso / saresti sempre quieto. // Mare limpido, / non hai tu la colpa / del massacro di mussoli e
pesci, / del dolore di Figarola / e delle sporgenze rocciose non più bianche; / no, non hai tu la colpa
/ se il chiaro maestrale poco <favella> / fra i pochi pini di Monte; / di per te stesso /saresti sempre
limpido. // Mare mio, / mi tormenti / con la tua bianca furia per la <cogolera>/ e sei ugualmente
quieto e limpido.
Parlando del mare, Zanini scrive: “di per te stesso/ saresti sempre quieto … di per te stesso saresti
sempre limpido”. Se il Mare e la Vita non sono sempre quieti e limpidi, fa intendere il poeta, ciò non
è dovuto ad un loro superiore libero arbitrio, nemico ed indifferente al destino degli esseri animati
ed inanimati. La condizione agitata e torbida del Mare e della Vita è principalmente frutto di
conseguenze esterne. Riprendendo l’analisi dei versi secondo i tre livelli di lettura ai quali abbiamo
fatto ampio riferimento prima, si può affermare che, a livello descrittivo, il mare è tormentato a
causa degli agenti atmosferici e dell’irresponsabile opera sfruttatrice e distruttrice perpetrata
dall’uomo moderno; a livello metaforico e/o allegorico la Vita/Mare è sconvolta ed oppressa in
seguito a rapporti squilibrati tra gli umani, dalle singole presone, alle classi sociali, alle varie etnie
fino ad arrivare alle nazioni ed alle civiltà.
Il legame indissolubile fra il Mare e la Vita è evidente nelle liriche di Zanini che esprime la sua
poetica attraverso l’habitat che gli è più congeniale: il mare che, in qualsiasi sua manifestazione,
quando è calmo e tranquillo e quando è agitato ed attraversato da onde bianche di schiuma,
costituisce la figura retorica principale per raffigurare la vita. Non solo la semplice vita biologica,
ma soprattutto la Vita come concetto temporale (la situazione esistenziale dell’individuo in
relazione con se stesso e con gli altri) e atemporale (il singolo in rapporto con gli altri all’interno del
più vasto disegno della natura). In questo ultimo scenario spetta alla vita con la “v” minuscola,
quella individuale e mortale, decidere, per quanto sia possibile, cosa fare di se stessa.
Zanini ha scelto per sé stesso di essere un outsider. Dopo essersi liberato dall’infatuazione per il
Partito Comunista jugoslavo, non si fida più di nessuna ideologia e sostiene che “ognuno ha da
essere il primo uomo di se stesso” e di conseguenza sfida la Vita, un atteggiamento provocatorio
che si manifesta nella lirica “Sico da San Damian” (Secca di San Damiano) tratta dalla silloge “Terra
vecchia-stara”:
Fora del scuio da Gusteigna
e vierto ‘l canal da Fasana:
sico da San Damian.
Oun sbarnacio sul, fora
dal Monto Maiur,
fa bui el mar inturno
e xi radaghi ciapà tiera;
oun lanpo da Punente
fa bianchisà ‘l pilago
e ta ven el cor in gula.
E sta tiera
cui ribunseini biancadeissi
ogni giuorno a ma spenzo
vier el sico da San Damian,
pei riboni grandi:
quii russi culi mace silistreine.
Sico da San Damian [Secca di San Damiano]: Al largo dello scoglio di Gustigna / e aperto il canale
di Fasana: / secca di San Damiano. // Soltanto uno straccio di nube / fuori dal Monte Maggiore / fa
ribollire il mare tutt’intorno / e diventa difficile raggiungere la costa; / un lampo di Ponente / fa
biancheggiare il pelago / e ti tiene il cuore in gola. // E questa costa / con i suoi pagelli piccoli e
pallidi / ogni giorno mi spinge / verso la secca di San Damiano, / per i pagelli grandi: / quelli rossi,
chiazzati d’azzurro.
In questa poesia Zanini, come l’eroe-pescatore protagonista del celebre romanzo di Hemingway “Il
vecchio e il mare”, si mette alla prova ed affronta il mare aperto per pescare i pagelli grandi, e
questa diventa per lui una scelta di libertà, rischiosa perché in caso di brutto tempo, sia che
provenga da oriente sia da occidente, se ci si ritrova in quella secca è difficile guadagnare la costa.
Per comprendere il messaggio contenuto nella lirica bisogna intendere che in essa il maltempo non
è soltanto meteorologico e che i punti cardinali non stanno semplicemente ad indicare le direzioni.
Essi in realtà indicano le calamità del ventesimo secolo che hanno colpito anche l’anima istriana,
da sempre problematica ed incerta nei rapporti interetnici, ma che mai prima di allora era stata
portata all’ “esasperazione etnocida” dall’italofascismo (Ponente) e dallo jugocomunismo
(proveniente da oltre Monte Maggiore, da Levante).
Anche la poesia “Piova nua” (Pioggia nuova) della silloge “Terra vecchia-stara” propone lo stesso
messaggio:
Duopo la piova da Punente,
piova nua da Livante:
su sta tiera viecia-stara,
e su ste aque uorbe.
El russo da Livante
pariva biel tenpo:
par nui mareincule spasamade,
par nui furmeighe stanche,
par doute ste bis’ciuleine...
e da Livante piova nua
su sta tiera viecia-stara.
Piova nua [Pioggia nuova]: Dopo la pioggia di Ponente, / pioggia nuova da Levante: / su questa
terra molto vecchia, / su queste rocce corrose e su queste acque torbide. // Il rosso da Levante
/sembrava bel tempo: / per noi pesciolini impauriti, / per noi formiche stanche, / per tutte queste
bestiole... / e da Levante pioggia nuova / su questa terra molto vecchia.
Qui i protagonisti sono gli animali, i “pesciolini impauriti” e le “formiche stanche” delle continue
precipitazioni: rappresentano gli uomini, in particolare i poveri abitanti di Rovigno e gli istriani in
generale (pescatori e contadini). Dopo il temporale nero italo fascista da Ponente, sembrava che
dovesse arrivare bel tempo rosso da Levante e invece l’amara conclusione “pioggia nuova su
questa terra molto vecchia” dove si accanisce un funesto destino di esistenze colpite “dalla pioggia
di Ponente e di Levante”. Zanini considera l’esperienza fascista italiana e quella comunista
jugoslava come due facce di una stessa medaglia, entrambe sono cause di un unico dramma
umano ed il poeta cerca di porsi oltre queste esperienze assumendo una posizione molto critica.
Si può affermare, per tentare una sintesi, che in gioventù si appassionò all’ideologia comunista e
alla Jugoslavia di Tito intesa come superamento dei dissidi nazionali per raggiungere una più alta
ed autentica fraternità. Ma ben presto si accorse che dietro a quella maschera, si nascondeva un
nazionalismo slavo indiscriminatamente violento verso gli italiani. Conobbe egli stesso l’inferno del
lager di Goli Otok in cui il governo jugoslavo fece deportare avversari veri e presunti di ogni
tendenza, anche libertari come lui, sottoponendoli a terribili violenze e sevizie. Dopo
quell’esperienza tragica, visse non poche difficoltà, ma scelse comunque di rimanere nella sua
amata terra perché sentiva il dovere di restare per rendere testimonianza della sua civiltà e della
sua gente proprio lì dove era più difficile, nella desolata situazione dell’Istria, dove gli italiani
rimasti vivevano una condizione molto dura. Tutto questo si riflette nelle sue liriche, l’esperienza
negativa delle due ideologie, la disillusione e la consapevolezza di essere stato per un certo periodo
corresponsabile dell’affermazione di coloro che si erano rivelati dei nuovi oppressori e allora
prende le distanze e manifesta una profonda carica critica. Inizialmente Zanini divide la società
umana in due classi: chi comanda e chi è comandato, chi è Pastore e chi fa parte del gregge, chi
dirige e chi ubbidisce o subisce, sia che questi sia rassegnato o meno alla “legge del pesce grande
che divora quello piccolo”. Per l’autore non esistono sfumature, zone intermedie, come risulta
anche dalla poesia “Nu sta’ pastame” (Non battermi):
Nu sta’ pastame, a ma fa mal,
anche se ti ma iè veisto mori
tante vuolte...
e senpro cume oun pisso.
Nu stà fracame, ie fato la casa
a Ruoco Bianco parchì son fragile,
fragile cume i datuli da Limo.
Nu stà fundame culi onde grande
dela tu’ barca alta, ca ta scondo;
i dievo vi la batana rasa,
i dievo iessi rent’el mar:
par quisto lou xi e saruò veivo.
Nu sta’ pastame,
ven cun mei neli nuote scoure
e sula mieia batana rasa
tenta d’intendi i seighi seiti
dela dasparassion dei pissi.
Nu sta’ pastame [Non battermi]: Non battermi, / mi fa male, anche se mi hai visto morire / tante
volte... / e sempre come un pesce. // Non calpestarmi, ho fatto la mia casa / a Rocco Bianco,
perche sono fragile, / anch’io... fragile come un dattero di Leme. // Non affondarmi con le onde
grosse / della tua barca alta, che ti nasconde; / io devo avere la battana bassa,/ devo essere vicino
al mare: / per questo egli è, e sarà, sempre vivo. // Non battermi, / vieni con me nelle notti oscure,
/ e sulla mia battana bassa / tenta di capire gli urli silenziosi / della disperazione dei pesci.
Qui l’immagine è d’effetto, i potenti sono alla guida della “barca alta” che li nasconde e fa le “onde
grosse”, lontani dal Mare/Vita e sordi agli “urli silenziosi della disperazione dei pesci” in cui si
identifica il poeta. Queste urla si possono udire solo se ci si trova nella “battana bassa”, nella
minuta imbarcazione che sfiora l’acqua, quella dei rovignesi, del popolo, degli impotenti, quella con
cui ogni giorno si combatte per la pura sopravvivenza. E’ l’imbarcazione costruita con “due tavole”,
nella lirica “A ma pare” (A mio padre) della silloge “Mare quieto e limpido”, resistente però alle
tempeste:
Preima da mori
ti ma iè fato la batana,
par quiste du tuole
ti ta iè crussià douta la veita.
Xi ouna batana peicia,
rasa sul mar e dibuleina,
la va sul pil del’onda,
cume el cucal stà vilo
sul vento da garbein.
Fente ura la uo fruntà
diviersi navareini
e grande barche sa uò fundà
rente ‘ste du tuole,
croussio da douta la tu’ veita.
A ma pare [A mio padre]: Prima di morire / mi hai fatto la battana, / per queste due tavole / ti sei
tormentato tutta la vita. // E’ una battana piccola, bassa sul mare e fragile, / va sulla cima
dell’onda,/ come il gabbiano galleggia / sul vento di libeccio. // Finora ha affrontato / diverse
burrasche /e grandi barche sono affondate vicino a queste due tavole, / tormento di tutta la tua
vita.
La critica aspra ed una certa predisposizione sovversiva nei confronti delle istituzioni sociali si
manifesta nella lirica “El mieo scardubulier” (Il mio attrezzo per catturare i paguri) tratta dalla
silloge “Conversando con il gabbiano Filippo”:
Ie consumà dabouto
douta la miea veita
a calà stu scardubulier
e senpro su l’ur
de i sichi largadi.
Par isca iè misso
l’amur pel fra
pioun dibulo,
par falo nassi
e crissi in cunteinuo
sensa ‘l foumo,
intei uoci nui,
da dout’ i poulpiti.
Gousto iè truvà
a sbusei
ste scarduobule;
par vandita
li ma uo spacà
la scena.
Ma in cassiela
el frà, davanta fuorto,
el ma drissaruò da nuo.
El mieo scardubulier [Il mio attrezzo per catturare i paguri]: Ho trascorso quasi / tutta la mia vita/
su questo attrezzo per catturare i paguri e, / sempre, sull’orlo delle secche in mare aperto. /Quale
esca vi ho messo / l’amore per il fratello più debole, / per farlo nascere e crescere continuamente /
senza il fumo, / negli occhi nuovi, / proveniente da ogni sorta di pulpito. // Ho provato gusto / a
smascherare questi paguri; / per vendetta / mi hanno spezzato la schiena. / Ma sulla bara / il
fratello, divenuto forte, / mi raddrizzerà di nuovo.
Qui il poeta si serve della metaforica personificazione dei Potenti e vendicativi nei crostacei paguri.
Zanini rivela la sua inesauribile insofferenza verso “ogni sorta di pulpito” e ogni fumosa gestione
del potere. La sua aspirazione sovversiva si manifesta nel “gusto a smascherare” i paguri (i
nazionalismi slavi- croato, sloveno ed altri- e tutti i Potenti in generale), per rivelarne la vera faccia
(“l’addome mollo”) a vantaggio del “fratello più debole”. Si esprime l’amore per il fratello
(rovignese, istrioto e/o italo-istriano-quarnerino e, più in generale, ogni singolo uomo oppresso) al
quale il poeta si sente vicino e solidale e per il quale auspica la liberazione dall’oppressione. Il
riscatto dai potenti sarebbe anche vissuto come consolazione per i torti e le ingiustizie subite: “Ma
sulla bara il fratello, divenuto forte, mi raddrizzerà di nuovo”).
Pur provando amore e solidarietà per l’uomo del popolo, Zanini non si immedesima nello stesso
perché, in fin dei conti, molte volte sono proprio gli individui a permettere che i Potenti conquistino
il potere. Il poeta si sente voce fuori dal coro da sempre, ancora in maniera più forte dopo le
tragiche esperienze che hanno segnato la sua vita e quella della sua amata terra. Tuttavia, pur non
identificandosi con il popolo, non smette mai di sperare in un suo ravvedimento, di incitarlo a
liberarsi dal giogo che lo sottomette e lo costringe alla condizione di “pecora”. Il suo è un canto
stonato di indipendenza e di libertà, è “l’urlo disperato del gabbiano” libero che non appartiene al
coro degli uomini canarini, canto orchestrato dai potenti. Questo è il messaggio che emerge dalla
poesia “Intul canto da sempre” (Nel canto di sempre) che appartiene alla silloge “Conversando con
il gabbiano Filippo”:
Chitare stranbe inpicade su li rame
de i venchi par culpa de li bies-ce nigare,
canareini stunadi ca inbinideisso i santi,
marsi par massa binidissioni…
e xi ‘un canto da senpro,
sul, ca va par si stisso
e zaruò in etierno pei nouvuli,
par i griebani e fra i pissi:
su li bies-ce bianche e su li nigare.
Abetierno ‘l involso douto
e puorta li vuse e i lagni
de l’omo de la viecia crusu,
de l’omo del nuo turmento,
par senpro, ultra i Tri Bastoni.
E nama cun tei, cucal Fileipo,
i son in stu canto da senpro,
intula granda ruda de i cucai
cu ‘l Sul fa la Capa Santa,
par fa nassi ‘l frà in cunteinuo
vier l’omo de la viecia crusu,
vier li sparanse del turmento nuo,
ultra ‘l foumo da palassi e poulpiti
e contro ‘l vento ca ta puorta in alto.
Intul canto da senpro [Nel canto di sempre]: Cetre strampalate appese alle fronde dei salici / a
causa delle bestie nere, / canarini stonati che benedicono i santi, / marci per troppe
benedizioni…//e c’e un canto da sempre, / uno che va per se stesso / e andrà per l’eternità con le
nubi, / per le rocce e fra i pesci: / sulle bestie bianche e su quelle nere. // Ab aeterno avvolge tutto
/ e porta le voci e i lamenti / dell’uomo della vecchia croce, / dell’uomo del tormento nuovo /per
sempre, oltre Orione. // E soltanto con te, gabbiano Filippo, / mi trovo in questo canto di sempre, /
nella grande ruota dei gabbiani / quando il Sole fa la Conchiglia di San Giacomo / per far nascere
continuamente il fratello / verso l’uomo della vecchia croce, / verso le speranze del tormento
nuovo, / oltre il fumo di palazzi e pulpiti / e contro il vento che ti porta in alto.
Dalla lirica si innalzano tre diversi tipi di canto: quello del poeta non intonato perché non in
sintonia con il coro dei canarini, ma armonico per se stesso; quello dei canarini che sembra
armonico perché è in sintonia con il coro e con l’orchestrante, ma non è intonato perché gli manca
la libertà di opinione e legittima il Potere; infine il canto eterno al quale partecipa il nostro poeta e
la sua personale esperienza diventa una cosa sola con quella dell’uomo in generale, di ogni povero
cristo che porta la sua croce.
Il suo canto differente dal resto del coro, non gli impedisce tuttavia di provare una sincera pietà di
fronte alla morte, alla tragicità del trapasso di qualsiasi individuo: il poeta infatti intimamente
perdona il defunto peccatore per le infelicità che ha provocato da vivo. Significativa a questo
proposito è la lirica “El seie agusto” (Il sei agosto).
El xi zei;
a ma daspiasu
cume par ogni cristian,
in fondo i signemo foie
del stisso albaro;
a ma daspiasu,
cume a ma uò daspiasisto
par Vaner, pei Canuciai,
par Nino Vigian…
e par ogni bronsa
ca sa dastouda,
e anche sensa gluorie,
da stu fià da buleistro.
El xi zei;
ula? E chi v ‘a savì.
Quil ca lou uò samanà,
nama ca lou spartaruò;
ch’el vago cun li gluorie,
che la passo…
ma no cun stu carnaval
da ri, da uori,
da ciacule e da carabinieri,
par scunfondi ‘l rumor
ch’i va guvì li sgreinfie
par ciapà la carega svuda.
I lu massì, puvarito!
E ancui, cume ogni vuolta,
cu moro ‘una tiesta granda,
ie veisto quil Piro,
quil puovaro Piro ca scanpiva
e ‘ncura scanpa sigando:
- Cun sti ri,
senpro a brassito dei ri dei ri,
cun sti creisti,
senpro pioun creisti e caruladi,
i nu la pansivo cussei…
i nu la vulivo cussei nigara;
turnime la miea batana,
no pei pissi, cume douto
anche ‘l mar i vì massà,
ma par inpiantà stu furmighier uorbo
ula i ma sento ‘un puovaro Piropierso.
El seie agusto [Il sei agosto]: Se n’e andato; / mi dispiace / come per ogni cristiano, / in fondo
siamo foglie / dello stesso albero; / mi dispiace / come sono stato rattristato / dalla morte di
Venier, dei Canociai, / di Nino Veggian… / e di ogni brace / che si spegne, / senza glorie, / di questa
poca cenere ancor calda. // Se n’e andato; / dove? E chi lo sa. / Quello che egli ha seminato /
soltanto lui distribuirà; / che vada con le glorie, / è naturale… / ma non con questo carnevale / di
re, di ori,/ di chiacchiere e di carabinieri, / per confondere il rumore / prodotto dall’arrotare degli
artigli /per prendere la sedia vuota. / Lo ammazzate, poveretto! // E oggi, come ogni volta / che
muore una testa grande, / ho visto quel Pietro, / quel povero Pietro che fuggiva / e ancora fugge
gridando:/ – Con questi re, / sempre sottobraccio dei re dei re, / con questi poveri uomini, / sempre
più poveri e tarlati, / io non la pensavo così… / non la volevo cosi nera; / restituitemi la mia
battana, / non per i pesci, come tutto / anche il mare avete ucciso, / ma per abbandonare questo
formicaio cieco, / ove mi sento un povero “Piropierso”.
“Piropierso” è un soprannome di Rovigno che indica una persona in grosse difficoltà e che non sa
che pesci pigliare.
Il poeta si duole per la dipartita di un Potente suo concittadino e connazionale. Perdona sì, ma non
dimentica, perché la sua è misericordia, pietà cristiana, ma sopravvive sempre forte in lui la
memoria storica che non lo abbandona mai e perciò non può essere indulgente con i Potenti
trapassati per i quali prospetta una vertenza divina ancora più seria della sua di poeta e di uomo.
In altre liriche si avverte la sua religiosità che, comunque, è frutto di un cammino personale di
ricerca sostenuto da una sua autonoma interpretazione dei precetti evangelici, indipendente dalla
chiesa intesa come istituzione.
Alla fine prevale la tematica della speranza, una fiducia che il poeta ripone in Dio e negli uomini
auspicando che, in un futuro non troppo remoto, l’umanità riesca a trovare quella pace che a lui fu
negata.
Volendo tentare una riflessione conclusiva sulla produzione letteraria di Ligio Zanini, possiamo
senza dubbio affermare che egli raccontò il suo mondo e le sue esperienze: la realtà storica, la
tensione morale, l’avventura sono sempre presenti, ma fuse, riunite nel non tempo del mare, di una
vita guardata nella sua essenza, faccia a faccia. Del dialetto ne fece uno strumento straordinario
per la sua poesia, un linguaggio d’eccellenza per cantare la sua Istria alla quale rimase sempre
profondamente attaccato come un granchio ad uno scoglio.
Scrivendo nella lingua istriota Ligio Zanini volle valorizzare e rilanciare l’antico idioma che oggi
rappresenta un vero e proprio fenomeno linguistico. Egli riconobbe al dialetto il fondamentale
ruolo di memoria, riportandolo a nuova gloria, dopo che a lungo il dialetto fu considerato uno
strumento espressivo inadeguato ed inferiore: la riabilitazione della parlata istriota si deve a Zanini
e agli altri autori dell’area Istro-quarnerina che diedero vita ad una rigogliosa fioritura della poesia
in dialetto, senza dubbio uno dei fenomeni più importanti e caratterizzanti della letteratura della
minoranza italiana.
Prima di concludere, mi sembra importante ricordare brevemente anche “MARTIN MUMA”, l’unico
romanzo scritto dall’autore che, come abbiamo visto, si dedicò quasi esclusivamente alla poesia.
L’opera fu scritta in italiano con l’intento di comunicare e raggiungere un pubblico più vasto. Il
protagonista, Martin Muma, era un personaggio del Corriere dei Piccoli degli anni ’30 del secolo
scorso, un bambino gracile, magro, diafano, indifeso che, per sfuggire da una realtà opprimente,
ad un presente grottesco e ad un destino assurdo, si lasciava trasportare dal vento e volava
leggero sopra le cose del mondo. Ligio Zanini scelse questo personaggio per raccontare la sua
vicenda personale e la sofferenza, le inquietudini e le speranze degli italiani rimasti in Istria dopo le
vicende della seconda guerra mondiale. Martin Muma è quindi lo stesso Zanini, costantemente ed
ingenuamente alla ricerca del perché le cose accadono in un certo modo e profondamente colpito
dagli eventi che hanno sconvolto la terra istriana. La gracile figura di Martino rappresenta e
riassume la parabola di un gruppo nazionale disperatamente alla ricerca della rotta per tornare a
casa, è la storia degli italiani dell’Istria e di Fiume che non hanno scelto la via dell’esilio e che,
decidendo di restare, hanno conosciuto e vissuto il dramma dei rinnegati, l’umiliazione di essere
sradicati in casa propria. Martin Muma, il bimbo “più leggero di una piuma” doveva riempirsi le
tasche di sassi per non spiccare il volo, ma accadeva sempre che qualcuno o qualcosa, per dispetto
o per l’inclemenza del destino, gli togliesse quel peso, abbandonandolo così al vento. Il ragazzino
rappresenta l’esperienza vissuta dal poeta, un instancabile sognatore sempre controcorrente, ma è
anche emblema della condizione dei rimasti: una comunità sospesa fra cielo e terra, troppo debole
e leggera per rafforzare le proprie radici e consolidare la sua presenza, ma, allo stesso tempo,
troppo pesante per volare alto, per andarsene definitivamente e diventare altro. Per Zanini l’unica
risposta possibile doveva scaturire dal rigore etico e morale, dalla ricerca della libertà e dal
“camminare con piede leggero”, cioè nell’umiltà, nella capacità di ascolto, nella rinuncia: questa
per Zanini era l’unica possibilità di essere realmente liberi e per possedere veramente la terra e le
persone amate.
La prima parte del racconto descrive la vita della gente rovignese, polesana ed istriana con le
tradizioni, i legami e tutte le certezze di un popolo legato alla propria terra ed al proprio mare,
quella forza che solo un profondo senso di appartenenza può dare. Ma in questo quadro positivo e
nitido, si inseriscono anche gli orrori provocati da fascisti e nazisti finchè irrompe con tutta la sua
violenza la seconda guerra mondiale che in Istria assunse anche la valenza di un conflitto etnico
che culminò con lo spostamento dei confini e l’annessione della penisola istriana alla Jugoslavia
comunista. Intense sono le pagine in cui si narra il dramma dell’esodo e la spaccatura profonda –
etnica e politica- della città di Pola. Infine nello scorrere di queste pagine intense, si arriva alla
vicenda più scottante e dolorosa per la vita del protagonista, l’esperienza terribile nel gulag
jugoslavo di Goli Otok, con i suoi assurdi riti, le punizioni, le percosse e le violenze di ogni genere ed
i suoi morti. In quel luogo infernale gli uomini sono costretti a perdere ogni dignità, diventando gli
aguzzini dei propri compagni e di loro stessi.
La speranza conclude questo romanzo: Zanini auspica un futuro in cui i “pastori” non
prevaricheranno più le “ pecore” perché queste finalmente avranno iniziato a ragionare con la
propria testa. Riaffiora qui la voce solitaria del narratore, come quel grido stonato del gabbiano
rispetto al canto apparentemente armonioso dei canarini: ma il gabbiano è libero, vola nel vento e
si solleva da una realtà opprimente, come Martin Muma, il protagonista, il ragazzino che sfugge
dalle cose brutte e tristi del mondo lasciandosi trasportare dal vento.
In conclusione si può senza alcun dubbio affermare che Ligio Zanini è un cantore, un poeta intenso
e vibrante che accarezza la sua amata terra d’Istria con versi appassionati e struggenti. Il mare per
lui è elemento centrale, è come un abito che indossa e che riesce ad adattare per ogni situazione,
attraverso il suo mare Zanini tutto ascolta e tutto racconta e riesce a farlo in maniera
straordinaria. Mi appassiona il suo mondo perché riconosco che in parte è il mio: anche io scopro
un legame sempre più profondo con quelle terre nelle quali affondano le mie radici, quel mare è il
mio mare, profumato di pini e di lavanda, colorato di zaffiro e d’argento e la sua voce è sempre
dolce e suadente. Quelli sono per me i luoghi del cuore, dove l’animo esausto riposa mentre
contemplo il volo di un gabbiano sospeso fra terra e cielo. Zanini è figlio devoto di quella regione
così sconvolta da una storia ancora troppo recente perché le profonde ferite subite possano
considerarsi rimarginate. Ma la sua lirica vuole essere una dichiarazione d’amore per la sua patria
martoriata ed una testimonianza che serva a non dimenticare ed a conservare perenne memoria:
egli può di diritto essere considerato una delle voci più intense ed autentiche della poesia dialettale
contemporanea. La sua scelta di esprimersi in lingua istriota manifesta la precisa volontà di
salvaguardare la tradizione nella sua forma più pura ed autentica perché questo particolare idioma
viene dalla gente comune, marinai, contadini, la parte più genuina di quella società che custodisce
il tesoro più prezioso, l’essenza, l’anima di un popolo. La tensione morale della sua poesia emerge
anche grazie all’utilizzo di quel dialetto in cui egli riesce a raccontare e raccontarsi in modo
sublime. A titolo di curiosità, vale la pena rivelare che la difesa strenua che l’autore fa della
specificità linguistica e culturale di Rovigno, si presenta sotto varie forme, tra le quali la
salvaguardia che egli cerca di attuare delle antiche tecniche marinaresche, testimoniata dal
trattato inedito “La togneta” (La piccola lenza) sulla pesca con la lenza a mano, una forma di pesca
ormai in disarmo: per il poeta significa salvaguardare il proprio habitat da pericolose e devastanti
intrusioni e, allo stesso tempo, un modo per confrontarsi da pari con la natura.
BIBLIOGRAFIA
Per questa ricerca ho consultato alcuni testi nei quali ho trovato materiale molto interessante che
ho integrato al mio contributo personale fatto di conoscenze acquisite negli anni per una passione
che coltivo da sempre per quelle terre e tutto ciò che le riguarda, di tradizioni scoperte quasi per
caso e soprattutto di testimonianze di persone che hanno vissuto e sofferto in quei luoghi così belli
e suggestivi, ma spesso sferzati dal vento della storia.
Qui di seguito indico i testi consultati:
• Tamara S. “Zoonimia Istriota” Annales- Ser.hist.sociol. 12-2002-1
• Elenconotizie “Zanini, il poeta pescatore cantò ai gabbiani la sua Istria” 24-07-1993
Tuttolibri
• Magris Claudio da Archivio Storico Corriere della Sera “Ligio Zanini, il poeta e il gabbiano
Filippo” 11 luglio 1993
• Giuricin Ezio “Martin Muma, saga di un dolore istriano” articolo dal sito www.anvgd.it
• De Angelini Gianclaudio “L’Istrioto. Profilo storico” dal sito Istrianet.org
• Palmieri Massimo da “IL TERRITORIO” n.29 Interventi culturali dal Monfalconese-sett.’92:
“Ligio Zanini- Martin Muma”
• L’Identità dentro. Collana di saggistica degli Italiani dell’Istria e del Quarnero: “Le Parole
rimaste- Storia della letteratura italiana dell’Istria e del Quarnero nel secondo Novecento” a
cura di Nelida Milani e Roberto Dobran