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La lunga notte delle lucciole

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Giada Guidotti, fanta-mystery

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GIADA GUIDOTTI

LA LUNGA NOTTE DELLE LUCCIOLE

 

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LA LUNGA NOTTE DELLE LUCCIOLE Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-489-5 Copertina a cura dello Studio A 33 Via Giuseppe del Papa 33, Empoli

Prima edizione Febbraio 2013 Stampato da

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A Giovannina e alle sue sorelle. Ai miei nonni e al loro silenzio.

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L’AMERICA Talvolta siamo erroneamente tentati di pensare che il luogo dove per la prima volta vediamo apparire la luna sia assolutamente casuale e di poco valore. Non è così. Io la vidi brillare, tonda e piena, per la prima volta all’America. Era bianca, di un pallore delicato e romantico, era la luna, colei che mi avrebbe detto senza parlare tutto ciò di cui avevo bisogno. E parten-do da lei e coll’America dentro, si concretizzò quello che sarebbe stato il mio destino. Il mio passato anche, e pure il mio futuro. Sicuramente il mio presente. Una lunga fila di attimi brevi che si inseguivano frementi alternando sole e luna e facendomi annusare l’universo come un piccolo mondo tutto da scoprire. Fui fortunato a nascere fra le colline morbide e prodighe di frutti e fiori. E mai mi annoiai a rincorrere lepri giù per i fossi o a osservare i rari saltellanti caprioli ascoltando inquieto i loro bramiti antichi. Affascinato, guadai infinite volte il fiume Orcia come se non fosse quel mostro mangiatore di uomini che era, mentre fra i calanchi bianchi e verdi spuntavano talora piccoli branchi di lupi in cerca d’acqua. Il richiamo delle quaglie mi svegliava al mattino mentre le allodole trillavano vibrando le ali e stazionando nel cielo terso. Nei boschi mi imbattevo di tanto in tanto in cinghiali con i piccoli al fianco e più di una volta dovetti cambiare percorso perché in molti avevano deciso di sbarrarmi la strada, calmi e placidi, come se il bo-sco e con lui le strade fangose fossero unicamente regno loro. Ogni giorno desiderai imbattermi in guerriglie fra animali per osservare attento le lotte guardinghe che intessevano, come fra ricci e vipere che si scrutavano da lontano, ma mai ebbero il coraggio di sfidarsi. E da ciò che mi circondava, imparai come affrontare la vita e soprat-tutto mi feci una vaga idea di chi fossi. Non cessò mai in me la voglia, ricolmo di quella gioia innata che la mia valle donava ogni giorno, di spaventare i fagiani che, non riu-

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scendo a volare troppo in alto, facevano dei lunghi salti spennac-chiandosi appena. Le loro piume colorate, soprattutto quelle dei ma-schi, avevano delle sfumature oro e blu, arancio e verde, rosso e bruno, che non possedevano quelle delle femmine. E con quelle piume mi ornavo la testa come fossi stato un indiano e giocavo da solo ruzzolandomi nel fieno brillante di rugiada. Raramente mi soffermavo a pensare perché fossero i maschi a la-sciarne di più, loro che si gonfiavano all’inverosimile danzando balli antichi e garbati intorno alle femmine. Gli stessi che scappavano pavidi con una veemenza inimmaginabile. Amavo osservare, spiare, intrufolarmi con l’incessante necessità di apprendere. Annusavo l’aria e ne percepivo i malumori, guardavo le piante e desideravo un contatto con la linfa vitale che le sorreggeva. Tutto era vivo allora. Dal sassone bianco, alla fonte vecchia, dalla terra secca, alla carpia umida. Ero più attento ai giochi delle farfalle e delle api che non alle ripeti-tive nenie che le ragazzine amavano cantare battendosi le mani per intere ore. Non amavo unirmi a loro, ma apprendere da esse. E allora le spiavo da vicino, attento a non essere visto. Mi vergognavo anche, forse. I ragazzi ogni tanto si avvicinavano ai gruppetti di femmine, ma vo-ciavano forte. Pure loro gonfiavano il petto come i fagiani. Le danze dei maschi d’uomo però erano più volgari, meno raffinate. Avevano una rozzezza che io rifuggivo. Si spintonavano e, spesso, partiva una zuffa polverosa che presto finiva con graffi e capelli arruffati fra i gridolini sdegnati delle femmine. Le voci dei maschi apparivano im-postate, mentre le ragazzine diventavano frivole e ridevano e si par-lottano nelle orecchie lanciando sguardi maliziosi ai bambini che parevano perdere ogni dignità. Non scorgevo fra loro nessuno che un giorno sarebbe diventato un grande uomo. Io ero diverso da tutti e non avevo amici, nessuno di quei ragazzotti mi interessava. Avevo una fortuna che loro non possedevano: ero nato all’America e possedevo la luna.

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Ogni rocchigiano sosteneva che l’America fosse la zona che partiva dall’antica casa di Santa Caterina in giù, verso il sassone bianco. Ma sbagliavano tutti. L’America, la vera anima dell’America, era solo casa mia. Era l’unica certezza che avessi. L’unico punto saldo di tutta la mia vita. Lo aveva scritto mio padre in una lettera inviata a mia madre quando io ero ancora piccolo. Beba l’aveva conservata per me donandomela al raggiungimento del mio sesto anno di età. Una lettera impressa a fuoco nelle mie membra di fanciullo. Diceva che presto sarebbe tornato a prendere me e mamma per por-tarci nell’America grande, quella di là dall’oceano. Saremmo partiti per sempre e, tutti e tre, avremmo abbandonato quella che in tutta la Toscana era chiamata l’America. Casa nostra. Questo diceva mio padre: tutta la Toscana sapeva che l’America era casa mia, solo alla Rocca e forse a Castiglioni si pensava che fosse un ammasso di casupole basse. In verità la mia era padrona di tutte le altre catapecchie, una casa vera, con mura grosse e petto al vento. Troneggiava solitaria ed eremita su di loro come un condottiero in-fame e assassino. Voltava le spalle alle altre case, come io facevo con i rocchigiani. Io e l’America, uniti per sempre. L’America era tutto. Davanti, le colline rotonde e calme della valle e i boschi e i ruscelli. Alle spalle, un poco distante, il paese e di fianco, su in alto, la Rocca di Tentennano, gialla e marrone, circondata da ulivi e frasche, da scarpate e grotte fatte di sassi asciutti. Nessuno ci voleva venire all’America, perché dicevano che c’era il diavolo. Stupidi ignoranti. Come si fa a vivere nella paura? Avevano il terrore di morire fra le fiamme dell’inferno solo ad avvicinarsi all’America. Si mormorava che se l’America non ti voleva, nel pergolato davanti a casa, appariva un caprone dalle lunghe corna arrotolate che effon-deva un grugnito talmente spettrale da farti scappare a gambe levate. Poi all’improvviso spariva, ma si vociferava che ti restava un ghiac-cio forte nell’anima.

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Io, il caprone non lo vidi mai, e se a volte egli si presentò nei miei sogni, ebbe sempre la voce soave di mia madre. Mia madre l’ho dimenticata quasi del tutto. Morì pochi anni dopo avermi dato alla luce. Non vide mai la lettera che le inviò mio padre e se la vide non la aprì e la perse fra i meandri della sua follia. Ricordo di lei le ninne nanne, forse le stesse che qualche volta can-tava il vento, intrufolandosi dalle finestre crepate. Se scavo a fondo nelle cervella, ma tanto a fondo da farmi male, trovo il corpo di una donna che vola fuori e intorno all’America, una donna vestita di co-lori chiari e con i capelli mossi e gialli come il grano d’estate che le ricadono soffici sulle spalle. Le spalle mi ricordo di lei, non un vol-to, non una bocca. E i capelli d’oro. Solo un essere fluttuante che canta nenie tristissime e guarda lonta-no, verso i boschi, o forse oltre, talmente oltre da riuscire magari a vedere mio padre. Beba mi racconta che Attilio, mio padre, e Viola, mia madre, si era-no amati di un amore intenso. L’avevano scelta come donna di casa e lei, obbediente, non li aveva mai delusi. Avevano tutto: il cibo, l’ingegno, l’amore, la bellezza e i soldi. Era-no i più belli della Rocca diceva, e forse anche di Castiglioni. Beba lo raccontava e sospirava con le lacrime agli occhi. In quei momenti vedevo come lei mi vedeva, un mezzo bamboccio troppo rinsecchito per la sua età, troppo disarmonico per la sua altezza. «So’ andati via e si so’ portati dietro tutto. La felicità, l’allegria e anco tutta la bellezza hanno portato con sé. Pure la tua si son presi. Se la so’ legata addosso per non scordatti più e l’hanno portata via, Febuccio mio caro.» Beba era certa che fosse stata la gelosia del paese a portare loro ma-le. Li invidiavano tutti perché erano sempre allegri, di una felicità innata, e mia madre accompagnava mio padre su per la strada del borgo quando al mattino andava a insegnare, e si affacciava alla fi-nestra il giorno quando lo sentiva fischiettare di ritorno. Pare che la mamma fosse una donna esile e pallida dagli occhi verdi. Dice che assomigliasse ai ritratti della Madonna. Il mio babbo inve-ce era di capello castano e riccio, con gli occhi azzurri come il cielo,

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bello come le sculture che si trovavano in chiesa. Per Beba il mas-simo delle bellezze era racchiuso nelle chiese e, in particolare, in quella di San Simeone. Come abbia fatto io a nascere, di capello rosso e di occhio grigio, lo ignoro. Ma ero certamente molto più brutto di entrambi. Beba non lo diceva proprio così, ma io lo capivo lo stesso. Era strano confrontarmi con qualcuno che non avevo mai visto o che nella mia stupidità di infante non ricordassi. Mia madre aveva cominciato a dare chiari segni di follia dopo poco che le era cominciata a crescere la pancia. Forse gli avevo portato via, fin dallo stato embrionale, la felicità di esistere. Beba diceva che pareva essere catturata da una smania folle di camminare e di correre, la stessa che ho io ancora oggi, e che ogni angolo, stanza e pianerottolo dell’America le stesse piccino. E allora pareva volare fra i boschi cantando insieme al vento. Mio padre a volte la seguiva, altre volte le gridava dietro che era matta come una capra, ma quando io ero ancora piccolino si era deciso a partire per l’America. Lì, avrebbe trovato una cura per mia madre. Perché in America, quella vera, quella di là dall’oceano, si poteva fare tutto e si guariva da ogni malattia, anche dalle malattie del fegato. Non era più tornato e mia madre l’aveva seguito morendo quando io ero ancora troppo piccolo. Di lei porto però nel cuore le canzoni mormorate alle colline, due spalle esili e delicate e i capelli tanto gialli come non ho più visto in tutta la mia vita. Avevo comunque conservato gelosamente quella lettera in cui mio padre diceva che un giorno sarebbe tornato a prenderci. E l’avevo aspettato sempre senza allontanarmi troppo da casa per paura di perdermi il suo ritorno. Beba mi aveva fatto da balia, mi aveva curato come fossi stato figlio suo, ma di figli ne aveva altri quattro e tutti balordi quindi, farmi trovare un buon pasto al giorno, era il massimo che potevo pretende-re da lei. Ogni tanto, a onor del vero, lavava le mie coperte e ram-mendava i miei vestiti, tutti rimasugli degli abiti di mia madre ri-messi insieme alla meno peggio. E di altro, effettivamente, non ave-vo bisogno.

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In fondo ero il più facoltoso di tutti loro: possedevo la luna e l’America. E i ragazzetti e pure gli adulti stavano lontani da casa mia. La teme-vano, la mia fortezza, avevano paura di morirci dentro. Non c’è cosa più sciocca che la paura di morire, perché nessuno, neppure io, sa quando arriva davvero la nostra ora e allora meglio vivere ogni istante come fosse l’unico concessoci. Il mio baluardo si stagliava prepotente su uno sperone di roccia co-me a voler allungare la testa oltre la torre di Tentennano. E i suoi sassi grigi e ocra parevano essere conficcati e nati direttamente dagli inferi, tenuti in piedi da angeli neri che gli vorticavano intorno. C’era sempre vento all’America. Un vento caldo di maestrale in grado di asciugare un lago e che, se non eri ben attaccato alla terra, poteva portarti via in un vortice di foglie rinsecchite dall’autunno. I paesani avevano paura dei rumori che c’erano all’America, degli scricchiolii, dei tamburi e delle voci, ma non erano altro che gli schiamazzi confusi e incerti di miseri ‘non vivi’ che cercavano, con gli strumenti che non avevano più, di ricordare chi erano stati un tempo. Si ingegnavano anche, i miei conviventi dell’America, perché mai li ho visti, anche solo una volta, in gentile concessione, usare oggetti solidi. E allora cercavano di riprodurre suoni costruendo oggetti con la fan-tasia. Ci ho pensato spesso; è come se oggi, qualcuno che viene da un altro mondo mi chiedesse di fargli vedere come si costruisce una nave o anche solo un carro. Son certo che non lo saprei fare, non sarei in grado di assemblare pezzi o di fare qualcosa di vagamente somi-gliante a un carro o a una nave e allora mi arrabatterei cercando di usare i miseri materiali che ho a disposizione. O magari disegnando sulla terra con uno stecco l’immagine che ho di tali oggetti. Così facevano i miei conviventi e solchi profondi apparivano talora sulla terra. Segni di ricordi di una vita vera. O un boticare lontano di quello che si arrabattavano a costruire con la loro memoria fatua. Le uniche voci che potevi sentire erano le loro, e nessun altro che loro, a parte me, potevi trovare all’America; una moltitudine di ani-

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me perse, fantasmi, li avrebbero chiamati i paesani, morti soli o tri-stemente, alcuni con la brutalità di un tempo che non ricordavamo più, e che là, insieme a me, trovavano un poco di conforto o forse soltanto quella solidarietà che non avevano avuto da vivi. Stavo be-ne con quasi tutti loro, lucciole che brillavano nella notte, meglio con loro che con la gente del paese. C’era Attilio, morto in una terra non sua, che vagolava cercando la sua Demetra. Lui disegnava mappe confuse che il vento cancellava in poche ore. E quando la smania del disegno si placava, si batteva le guance creando il rumore di uno strano tamburo. Poteva continua-re per delle ore. C’era Palinuro, dal vocione forte e prepotente, che nelle notti di luna piena piangeva con un ululato straziante. Era forse il ricordo di una vita e una morte diverse da quelle che avrebbe desiderato. C’erano Erminia e Temistocle, due fratelli che litigavano di continuo. Loro provocavano frequenti e continui vortici d’aria alzando polvere e fiori secchi e lasciando sulla terra strani cerchi concentrici. E poi c’era zia Suntina, magra magra e vestita di nero. Lei non stava mai ferma e oscillava a venti centimetri da terra portandosi dietro strane strisce luccicanti come stelle cadenti, che volevano emulare il ricordo di una culla che non aveva mai ninnato. C’era anche la piccola Elvira dai fitti ricci di bronzo che in ogni momento saltava la corda, senza possederne alcuna poverina, e se vedeva un bambino nelle vicinanze, gli si appiccicava addosso tal-mente tanto da spaventarlo per una vita intera. Ogni tanto si univa a loro qualche anima in cerca di riposo e, se po-tevo, la aiutavo a trovare la propria strada. Non ci riuscivo sempre, ma se lo facevo, mi assaliva una dolcezza infinita e pensavo a mia madre. Chissà se qualcuno l’aveva accompagnata oltre la morte? Non erano tristi i miei amici fluttuanti e, a differenza dei vivi, non si rassegnavano alla Nera Signora. Avevo visto invece tanta gente viva già rassegnata a una morte che temevano ma ancor più bramavano, e che, facendosi beffa di loro, avrebbe tardato ad arrivare. Oserei dire che mi facevano senz’altro più paura i passi pesanti e guardinghi dei rocchigiani, che non le voci sussurratemi agli orecchi

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nelle notti fredde d’inverno dai miei soli amici fatti di vento. Quelle anime perse all’America erano, in un certo senso, rassicuranti. Potevi vedere questo fatto in due sole diverse maniere. La vita come corsa verso un’incerta morte, o la morte come incessante ricerca di un’incerta vita. Certo è che se in brandelli di attimi mi capitava di sentire la puntura della paura la ricacciavo indietro come si fa con i caprioli nella vi-gna. Sapevo infatti, banalmente, che la paura è inutile e dannosa. Ma i miei pensieri non erano così precisi come li racconto. Vivevo in un’esistenza che mi apparteneva completamente, senza il pensiero dello ieri o la preoccupazione del domani. Mangiavo quan-do avevo fame e bevevo quando avevo sete, correvo quando ero al-legro e guardavo la luna per riflettere e, a volte, se venivo colto da sprazzi di malinconia. Sempre comunque aspettavo mio padre. Con l’America eternamente vicina, unica confidente e porto sicuro della mia vita leggera. Come la luna. Mi piaceva la mia America e la notte, quando la smania delle mie fantasie mi teneva sveglio, salivo e scendevo gli infiniti scalini, tutti di altezze differenti. Non c’era un piano e non c’erano neppure tre o quattro. C’era solo un’indefinita quantità di differenti livelli. Un po’ come nella vita di ognuno. L’America racchiudeva l’esistenza non solo di intere gene-razioni, ma molto di più, come se fosse una porta aperta su dimen-sioni diverse. Stava a chiunque varcasse la soglia decidere quale li-vello scandagliare, nella stessa maniera in cui si poteva scegliere quale camerone dell’America vivere. Ma alla gente non piaceva l’America, come spesso non piace la vita o provare ad affacciarsi a una soglia differente. A dire il vero anche Beba ci trascorreva solo alcune ore all’America e sempre di giorno. La potevi trovare intenta a impastare chili di pa-ne e di pasta e poi, all’improvviso, si intravedeva dietro casa a riat-tizzare il forno per cuocere il frutto delle sue braccia ingrossate.

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Mi aveva insegnato a muovere le mani veloce sui pici per farne una pasta povera che non abbisognava di uova. Raramente puliva, una volta all’anno mi pare, e sempre prima di Pa-squa. Ma appena il sole si provava a volgere dietro le colline e il cielo si tingeva di rosa e rosso lei prendeva le sue cose, i suoi pani, la sua pasta, tutti i suoi tegami e volava via, dalla sua famiglia sdentata. Certamente mai la vidi all’America di sera o di notte e neppure nei pomeriggi lunghi, neri e piovosi d’inverno. E io allora troneggiavo nel mio regno come un re solitario. Per entrare nella mia reggia dovevi salire cinque scalini color dei boschi, dove l’edera si era ispessita e li rendeva scivolosi. Beba ci lottava ogni giorno contro quell’edera maledetta. Diceva che era un’erba assassina che si stava divorando l’America, mangiando-sela giorno per giorno a piccoli passi che nemmeno si vedevano e un giorno, era certa, che non mi avrebbe trovato più in mezzo a tutte quelle frasche che neppure l’erpico sarebbe stato in grado di estirpa-re. A me invece piaceva perché portava con sé lucertole e bisce, e profumava di umido e fresco. Se si riusciva a non rompersi il cranio in quei cinque scalini, si en-trava a dritto nell’ampia cucina, dove c’erano tre finestre piccole e scure, una a sinistra dell’entrata e due a destra. Quella a sinistra dava su un muro alto e spesso come metà della casa e distanziato da esso solo da un piccolo viottolo umido e vischioso. Il muro, fatto di sassi antichi, reggeva la terra che sembrava mal contenersi sotto la rocca di Tentennano. Le due finestre che invece gli stavano dirimpetto si affacciavano sul mondo aperto. Nel mezzo alla parete, davanti all’entrata, come un guardiano, un camino enorme e nero sorvegliava la casa tutta. Un camino grande e grosso dove ci potevi entrare dentro e che ti invita-va a fuggirlo tanto era scuro. Un acquaio minuscolo, a pallini grigi, di graniglia, odorava di stagno e stava nell’angolo a sinistra, mentre un tavolo in legno spesso e possente, di olivo, troneggiava al centro della stanza. Una madia piccina era dietro la porta d’entrata, una

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madia dove tenevo il pane, qualche spicciolo che mi regalava Beba, un osso di prosciutto e pochi cenci. Sulla destra, oltre le due finestre tanto vicine da non potersi aprire contemporaneamente, c’era una tenda rossa con piccoli fiori pallidi; dietro di essa potevi decidere di salire tredici scalini disconnessi, anch’essi di diverse altezze, per arrivare in fretta, se non inciampavi, a tre cameroni giganteschi. Si mormorava che qualcuno si fosse fatto molto male per arrampicarsi nelle camere, ma che il male vero se lo fosse fatto chi tentava di scappare dalla mia America. Io quegli scalini li salivo e scendevo a gran velocità, abituato a salta-re su ognuno come si fa in una giostra. E mentre correvo su e giù dagli scaloni strabici, Beba mi urlava che ero un brutto disgraziato. Sopra, nei cameroni, scoprivi il mondo; il primo stanzone al centro era ampio e luminoso grazie a una finestra grande che guardava a sud. Da lì si vedevano le colline rotonde e se ti sporgevi abbastanza vedevi in basso il sassone bianco, quello dove i citti andavano a gio-care. Ma solo la punta vedevi e non i citti che rimanevano coperti dall’aia di casa mia. Questa era la camera dove stavo quasi sempre. Ci dormivo, da grande ci leggevo, sempre comunque ci sognavo. Era al centro dell’America, e da lì arrivavi ad ogni altra stanza. Aveva anche una scalinata piccola piccola e illuminata appena che ti portava in cima alla casa. Diciassette scalini che parevano ricavati nella roccia, ripidi come per arrivare alla vetta dell’Amiata. La difficoltà valeva però la pena: un pezzo di tetto aperto sul mondo dove ti sentivi talmente alto che, se ti concentravi a lungo e immagi-navi di avere le ali, un giorno, sono certo, saresti riuscito a prendere il volo. Da lì, magari, sarei volato sugli occhi tristi della luna bianca, accompagnato dalle ali delle mie lucciole, o forse sarei riuscito addi-rittura a raggiungere l’America, quella di là dall’oceano, dove mio padre mi stava aspettando. Non ci andavo spesso in cima alla casa, preferivo, se venivo preso dalla smania di arrampicarmi e arrivare in alto, salire in torre e guar-dare il mondo come fossi stato un principe che detta regole ai suoi sudditi.

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A quei tempi la rocca di Tentennano era un'accozzaglia sgraziata di macerie con la torre che si lasciva intravedere in mezzo al verde co-me fa con lo scheletro all’interno di un corpo morto. Le madri degli altri bambini non ce li mandavano, era troppo perico-losa, dicevano. E se per caso lo facevano, stavano con le bocche piene di grida inconsulte a controllarli. Io invece, che avevo solo Beba a farmi da balia un paio d’ore al giorno, per il resto del tempo ero libero di fare tutto quello che vole-vo. E salire sulla rocca alta era come scalare una montagna. A volte il vuoto che c’era sotto era talmente tanto da farmi girare la testa, e allora, pieno di un’adrenalina che ignoravo esistere, mi facevo più cocciuto e bramavo raggiungere la cima e da lassù urlare forte. Era difficile arrivare in cima. Allora mi piaceva mettermi alla prova, ri-schiare una vita che mi era, tutto sommato, abbastanza indifferente. La vita è cara solo quando hai paura di perderla, ed io di paura non ne avevo. C’erano legni fradici, a cui dovevi affidarti, che facevano da ponte fra la terra e l’entrata. Dentro, la Rocca, altro non era che un baratro vuoto e scarno. I sassi pinzuti si mostravano superbi come unico ap-piglio e, se non guardavi in basso, ce la facevi ad arrivare in cima e sentirti conquistatore del mondo. Il peggio era scendere; la brama della conquista era terminata e non restava che un rassegnato ritorno. Gli altri avevano le madri ad at-tenderli inquiete, io avevo ad aspettarmi un’inquietante America e la compagnia solitaria della luna. E allora quegli strapiombi sembravano fauci di mostri pronti a man-giarti. Ma io non avevo paura. Mai. E sempre tornai a casa. Qualche volta più accaldato e qualche volta meno, ogni volta comunque correndo. Correvo sempre. Correre mi toglieva i pensieri, mi rendeva libero dalle zavorre del rimuginare.

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Correre è come bere, ti entra dentro e non ne puoi più fare a meno. La mia America comunque era più bella della torre, più vera forse. Tentennano, se la guardavi dalla strada del cimitero della Rocca, a un certo punto diventava talmente fina da sembrare finta. Un insi-gnificante foglio di carta pesta. Un falso presepio messo lì come un allocco. E allora capivi l’inganno e lo gridavi forte su per la salita delle streghe: «Non sei vera! Sei bugiarda, torre di Tentennano, esisti solo per far-ti temere dalle altre torri! Ma son arguto, io, se ti guardo da tutti i lati capisco al volo quanto sei piccola e sola!» L’America invece era possente da ogni suo lato. Ti intimoriva quasi, come Attila, e temevi che se ti fossi messo a cercare il suo cuore avresti girato invano per l’eternità. Altre volte, al contrario, sembrava talmente calda e piena e solidale, da farti esplodere di felicità incontinente. O forse, semplicemente, amavo tanto la mia fortezza perché era mia. Anche a quei tempi sentivo la diversità dai ragazzi del paese. Li a-vevo sentiti spesso litigare, alcune volte li avevo visti azzuffarsi per un tozzo di pane o un pezzo di formaggio, per un legno più bello, per qualcosa che l’altro possedeva e che per questo pareva assumere un aspetto improvvisamente affascinante. Per me non era così. L’America era mia, e proprio per questo mi pareva la reggia migliore del mondo, l’unico posto dove sarei potuto esistere. Non l’avrei cambiata per niente al mondo. E non finiva mai, l’America. Dal camerone centrale, quello dove stavo più spesso, potevi accedere a due stanzoni, uno a destra e uno a sinistra. Quello a sinistra era grande e con il soffitto senza angoli. La chiamavo la camera del Cielo tanto era alta, eppure la raggiunge-vi scendendo solo quattro scalini. L’altra stanza invece, sulla destra, era la camera buia, la mia camera segreta. Ci si arrivava scendendo otto scalini avvolti su se stessi che partendo comunque dal camerone centrale scendevano neri e alti. Una grotta pareva, la camera buia, e in certi momenti ho pensato che per qualche strana alchimia potesse

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essere realmente stata scavata e incastonata nella roccia che sorreg-geva tutto il paese. Le pareti erano diventate nere per la mancanza di luce, e anche il piccolo soppalco che timidamente si nascondeva a occhi curiosi era completamente brunito. Non si notava neppure, non solo per la mancanza di luce, ma perché era talmente abbando-nato che a volte mi dimenticavo che esistesse. E non c’è cosa più vera: ciò che non ricordi tende a scomparire. Mi capitava sovente di dimenticarmi di quel soppalco buio anche perché potevo salirci solo grazie ad una scala a pioli di legno. E di scala ne possedevo una e basta che tenevo nella stanza del cielo o giù, appoggiata all’olivastra, nel periodo della raccolta delle olive. L’umidità nella stanza buia era intensa, il caldo asfissiante, era l’unica stanza dell’America a essere così. Mi era capitato di vagheggiare con la fantasia pensando che avesse un collegamento con le acque calde e termali che venivano dalle montagne e che abbracciavano tutta la Val d’Orcia. Me le ero immaginate spesso, le cascate fresche di acqua cristallina, provenienti dall’Amiata, intrufolarsi per passaggi strani, arrivare in luoghi tanto profondi e scuri. Le vedevo affidarsi miti al cuore della terra e incontrarsi, ancora pure, dove l’antico vulcano faceva sempre da padrone. Le osservavo inchinarsi davanti al vulcano amiatino borbottante che, per grazia, le scaldava con il suo brontolare incessante. E le imma-ginavo nuove e salubri risalire fiere per sgorgare calde in una terra gentile, e le sognavo superbe donare parte della loro magia alla Val d’Orcia, rendendo la mia valle la più bella del mondo. Magari era proprio sotto la stanza buia che si dividevano e per garbo portavano un po’ dei loro benefici all’America, la regina di ogni al-tra casa. Visto che di luce non ce n’era, ci andavo solo quando volevo stare al buio completo, quando non volevo vedere nulla. Amo il buio: è pieno e rassicurante. Totale. Stranamente, in quella stanza, non vi giungevano neppure i rumori e il silenzio regnava impressionante. Avevo la sensazione che quella

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caverna curasse anche raffreddori e febbri, ma in conclusione la stanza buia rappresentava il mio isolamento volontario. Capitava qualche volta. Una di queste che ricordo con esattezza fu quando i miei occhi in-contrarono per la prima volta quelli di Andreuccia. Lei non li scorse neppure i miei, e sorvolò oltre, mentre io mi incantai. Era seduta al Sassone, sotto casa mia. Andavano sempre là a giocare i ragazzi d’inverno, perché era tiepido, anche quando alla Rocca ti-rava forte la tramontana. Dall’America arrivavo al Sassone bianco, uno sperone di roccia lun-go e pallido riparato da un alto muraglione, attraverso un viottolo piccolo e scarno, ripido come una scarpata e pieno di sassi e frasche pungenti. Mi piaceva perché era solo mio e anche perché potevo na-scondermici senza essere visto. Quel giorno Andreuccia stava seduta e badava a suo fratello, che per me allora era solo un bimbetto che doveva aver imparato da poco a camminare. Aveva fra le mani un pezzo di stoffa e pensai stesse cucendo una bambola di pezza. Non l’avevo mai vista e non sentii quel giorno la sua voce, ma i suoi occhi neri e brillanti mi infilzarono come un fuso fa a un gomitolo di lana e mi trattennero immobile, senza fiato. Due trecce nere e lunghe fin sopra alla vita le incorniciavano il volto magro e appuntito, scuro anche. Gli zigomi pronunciati e il naso magro stavano a indicare pasti misurati, ma ella pareva serena senza darlo troppo a vedere. Rimasi immobile, dietro il viottolo che portava a casa mia, a rubare la sua immagine agli occhi del mondo. Taceva con il volto adulto. Questo mi colpì di lei. Fu con un sussulto che udii Beba gridare: «Febo! Ma dove sei figlio del diavolo?» Andreuccia si voltò dalla mia parte e non ebbi il tempo di capire se mi avesse intravisto oppure no, tanto fui veloce a salire lungo il viot-tolo su fino all’America. Beba era sulla porta e mi disse che lasciava il cibo sul tavolo, che lo mangiassi se non volevo che ci arrivassero le galline prima di me. Ma corsi via anche da lei, fino alla stanza

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buia, e là ascoltai immobile e in silenzio il pulsare del mio sangue che pareva invadere ogni millimetro del mio piccolo corpo ossuto. Feci appena in tempo a udire il borbottio di Beba. «Povero Febuzzo, che ne sarà di questo povero Cristo?» Pensava così Beba. Tutto rapportato a Dio, al diavolo, alla chiesa, alle Madonne e ai Santi. Non esistevano altri pensieri. Temeva la camera buia Beba, e non ci entrava mai. Diceva che era lì che il dia-volo si nascondeva e raccontava, per mettermi paura e distogliermi dalla volontà di nascondermici, di un lungo tunnel che collegava quella camera al centro della terra dove il fuoco bruciava le carni dei peccatori. E io ci stazionavo per dispetto quando volevo che nessuno mi scocciasse. A volte lo facevo come prova di coraggio e se per caso un topo mi rosicchiava un piede, mi faceva fare salti tanto alti da toccare quasi con la testa il soppalco nero. La maggior parte delle volte ci andavo soprattutto per ascoltarmi, per comprendermi; ma questo accadeva soprattutto dopo Andreuc-cia. A volte mi fermavo e ascoltavo il rumore del mio respiro, e in certi momenti avevo l’impressione di udire anche il battito del cuore che rimbombava nelle mie orecchie sporche. Comunque l’America non finiva alla camera buia. Dall’entrata potevi scendere sette scaloni scavati nella terra e trovar-ti in una cantina luminosa dove mi piaceva stare d’estate. Lì ci arri-vavo anche dalla stanza del Cielo, quella in alto a sinistra del grande camerone, che aveva un buco da una parte, grande poco più di me e dove tenevo la mia unica scala in legno di cui vi ho già parlato. Gra-zie a quella scala potevo passare dalla stanza del cielo alla cantina ma solo quando non c’era da cogliere le olive che la scala serviva per arrivare in alto nelle grandi olivastre. La cantina non aveva finestre ma solo una porta che si apriva uni-camente da dentro perché scavata nella terra. E fuori, davanti, c’era la mia piccola aia. La luce veniva da buchi fatti fra i sassi. Io avevo sempre pensato che ce li avesse fatti mio padre, togliendo le pietre più piccine, per vedere la natura lontana. Da quei buchi si poteva anche sorvegliare il forno, che era subito fuori, mentre cuo-ceva il pane.

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E là tutto era mio, tutto fin dove l’occhio arrivava. A volte avevo pensato che anche la rocca di Tentennano fosse stata mia, rubatami da qualche astuto arrivista quando ancor giovane ave-vo a proteggermi solo una balia analfabeta. Beba era una donna, l’unica donna che avessi mai conosciuto. Mia madre era morta di mal d’amore dopo che mio padre era partito per l’America vera, quella di là dal mare, per trovarle medicine che sicuramente stava ancora cercando. La malattia si era aggravata risucchiandola nel limbo ad aspettare il marito. La lettera era arrivata nei giorni in cui mia madre si appre-stava pigramente alla morte. Forse era arrivata prima o forse dopo la sua morte, certo è che nes-suno l’aveva mai aperta. La mamma se n’era andata quando non avevo ancora compiuto due anni. Beba, dall’ignorante premurosa che era, mi aveva consegnato quella preziosa missiva quando avevo compiuto sei anni. Era il primo dono che ricevessi, il più bello che chiunque potesse donarmi, la prima cosa reale della mia famiglia, e mi aveva fatto credere che quello dei sei anni fosse un traguardo importante. Me l’aveva messa fra le mani ancora chiusa, come quando era arri-vata quattro anni prima. Io l’avevo osservata con deferenza non sa-pendo cosa farne. L’avevo annusata cercando di trovarvi l’odore del-la mia famiglia, ma era intinta solo dell’aglio che Beba metteva dap-pertutto. Era stata lei a smuovermi. «Oh Febo, ma che se’ baullo? Va da Zeno e fattela legge!» Ed io ero volato da Zeno, il sagrestano, che mi aveva accolto con gli occhi buoni. Probabilmente mi aspettava perché ricordo che lo trovai proprio davanti alla chiesa. Si era seduto sugli scaloni di sassi tondi e io l’avevo imitato. Zeno, con le mani tozze e callose, l’aveva aperta con precisione, senza neppure strapparle un angolino. E me l’aveva letta.

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Era bella. Mio padre l’aveva scritta a mia madre credendola ancora viva. La sua grafia elegante con ordinate lettere piene di riccioli ri-chiamava l’immagine di antichi scrivani. Presto sarebbe tornato da lei e me, scriveva, e ci avrebbe portato nell’America vera. Avremmo fatto tutti insieme un viaggio in nave, un viaggio lungo e affascinante, nel quale avremmo visto i pesci più grandi del mondo, come non c’erano neanche nell’Orcia. Avremmo visitato città che non finivano mai, enormi come tutta la provincia di Siena, e ci sarebbero stati almeno cento medici pronti a visitare la mamma. Poi diceva che per quanto l’America fosse bella, nulla era paragonabile ai nostri calanchi interrotti da colline morbide. Diceva che in America c’era un puzzo che noi alla Rocca neppure immagi-navamo, ma scriveva che c’erano tanti teatri e cavalli di tutti i tipi. E anche le automobili c’erano, ma tante come non ne aveva mai viste! La lettera finiva così: Dai un bacio al nostro Febo per me. Firmato Attilio Bianchini. Stetti a rimirare quella lettera fra le mani di Zeno per un lungo mo-mento. Nessuno di noi osò interrompere quell’idillio. Poi io gli ordi-nai: « Rileggetela un po’!» e lui calmo lo fece. Restammo lì fermi sulle scale larghe e ghiacce per una mezz’ora e gliela feci leggere tante e tante volte ancora fino a che ogni parola scritta da mio padre non entrò a far parte di me. Fu la prima cosa della mia vita che imparai a memoria. Poi gli dissi di tacere e lui tacque. «Ditemi un po’ Zeno, quanto tempo fa l’ha scritta il babbo?» «Tanto tempo fa, probabilmente l’ha spedita prima che tua madre se ne andasse.» «E perché non è tornato ancora?» «Non lo so» mi rispose semplicemente Zeno. «Ma tornerà?» gli chiesi con la fame di affetto che da sempre nutri-vo per lui. Zeno si strinse nelle spalle e allora lo guardai offeso. «Voi ‘un sapete niente! ‘Un ci sete manco mai andato in America, figuratevi. Ma ve lo dico io che ho lo stesso sangue del mi’ babbo: il Bianchini tornerà e insieme andremo via da qui.»

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Poi tornai correndo e urlando da Beba. Il sospetto dell’abbandono era già conficcato a forza nelle mie magre carni, ma lo dimenticai. Avevo notizie di mio padre, notizie vecchie, ma per me nuove e pur sempre notizie. Pieno solo della mia felicità esuberante, orgoglioso di possedere uno scritto di mio padre, finsi di leggerle la lettera con l’orgoglio di un adulto. Lei attese che finissi e si inginocchiò piangendo ai miei pie-di. «È un miracolo Febuccio! Sei un genio, proprio come il tu’ babbo... » piangeva e mi baciava le mani e ripeteva: «Scusami Cristo mio santo di aver dubitato del tuo volere. Febo è pari pari a te, figlio del miracolo!» E poi mi baciava gli occhi coll’alito che puzzava d’aglio e ripeteva: «Bravo Febuzzo mio, che hai imparato a leggere in manco mezz’ora!» Io le sorrisi orgoglioso, senza asserire, ma neppure negando. Forse quel giorno credetti realmente di aver imparato a leggere, ma presto dovetti ricredermi. Quel giorno Beba decise che ero pronto per imparare a conoscere le cose importanti della vita.

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CREDERE OBBEDIRE COMBATTERE Zeno, il sagrestano, era un uomo di chiesa strano. Non era solo sa-grestano, ma anche un bravo contadino che sapeva leggere, scrivere e fare di conto. Era lui che amministrava le terre di mio padre perché sembra fossero stati grandi amici, un tempo, anche se Zeno non me lo disse mai. Era più vecchio del mio babbo ed io lo immaginavo dargli moltitudini di consigli da uomo vissuto. I suo capelli bianchi lo facevano assomigliare a un saggio eremita ed era difficile imma-ginarlo diverso da come lo avevo sempre visto: un buon vecchio. Non so però se fossero mai stati realmente amici o se questo fosse un pensiero unicamente mio, perché mai nessuno me lo dichiarò a-pertamente. Era comunque una sensazione che sentivo, come se fra le vecchie mura del paese fossero rimasti echi di una loro presunta complicità. Erano anche le voci sottili del paese, dicerie senza mali-gnità, ma pareva vigere un silenzio assoluto, che neppure Zeno in-franse mai, su ciò che era stato realmente il loro rapporto. So per certo comunque che era stato Zeno, dopo la morte della mamma, ad affidare la mia cura alle premure di Beba, che da serva era diventata balia, e a lei passava un poco di denaro per il mio so-stentamento. Con il suo fisico piccolo e gli occhi bianchi tanto erano chiari, sem-brava un angelo invecchiato. Non aveva moglie ma una sorella, Siri-de, sempre seria con il fazzoletto nero che le lasciava fuori solo un pezzettino di naso rosso. Siride era molto più giovane di Zeno, ma la vedevi passare sempre rasente ai muri con il capo basso. Si vedeva dalla camminata che era offesa ad una gamba. E forse pure arrabbia-ta. Quando però camminava con le spalle curve era anche impaurita. Zeno invece aveva un volto aperto e sorridente, illuminato dal sole e dal bel pensare. Non so perché ma sono certo che ascoltasse sempre Siride e, prima di ogni decisione, la interpellasse come un oracolo. Ignoro da dove provenga questa mia certezza, non li vidi mai parlare

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più di mezzo minuto, non li vidi mai passeggiare insieme o insieme ridere e discutere. C’era però nei loro movimenti un’affinità d’anime a me completamente sconosciuta. Una complicità che percepii sem-pre come un postulato. Sono certo che si comprendessero a occhiate. In paese si diceva che si amassero di un amore blasfemo. Secondo me non era così. Zeno era troppo pulito e lei troppo nascosta. Zeno era pacifico e gentile. Siride riservata e taciturna. Zeno era come mi ero sempre immaginato Dio. A quel tempo era anomalo un uomo di chiesa così. Quelli che anda-vano in chiesa erano arcigni, cattivi e davanti a gente come me ag-grottavano le sopracciglia. Una come Beba, quelli, alla messa della domenica, non la volevano in prima fila. Lei lo accettava come una sorta di rassegnazione o forse come giusta punizione divina alle sue colpe. Io la comprendevo poco ma neppure me ne interessavo trop-po. Per istinto mi piaceva più Zeno, con il vocione forte e le mani callo-se, che il prete Don Luigi, dalle mani pallide e raffinate e con la vo-ce troppo fina. Effettivamente anche il parroco doveva fidarsi di Zeno perché la-sciava la chiesa completamente nelle sue mani di contadino. Fu pochi giorni dopo il mio compleanno che Beba si convinse a farmi vivere la prima importante esperienza della mia vita. Andare a messa. Ero andato solo una volta in chiesa, quando ero stato battez-zato, e lo avevo dimenticato. Fu così che a Pasqua, con Beba, varcai la soglia della chiesa di San Simeone. Non mi piacque. O meglio rimasi affascinato dal soffitto di stelle, dalle sculture gran-di e colorate, dall’oro dei disegni, ma da subito ebbi l’impressione che all’interno si compissero strampalati sortilegi, mi pareva che quelle mura alte e decorate nascondessero cose bizzarre e poco natu-rali. Entrando ci si lavava le mani e ci si bagnava la testa, cosa che Beba mi aveva sempre ripetuto di non fare troppo spesso per evitare raf-freddori. Lì era obbligatorio. «Anche d’inverno?» le chiesi. «Sempre!» rispose lei solenne.

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Dopo essersi bagnati, i credenti facevano strani segni toccandosi ora le spalle, ora la testa, ora il petto, obbligatoriamente voltati verso il fondo della chiesa dove c’era l’altare. Beba mi disse che questo era il “segno della croce”. Ogni punto che si andava a toccare era il pun-to estremo della croce su cui Cristo era stato crocifisso per espiare le nostre colpe. «Anche le mie?» le domandai. «Come no! Quelle di tutto il mondo.» Non capii di quale colpa stesse parlando, forse sapeva del pane che ogni tanto le rubavo, o forse mi aveva visto mentre tiravo la terra giù al sassone bianco per vedere i bordellotti impettiti scappare impauri-ti davanti alle femmine. Comunque anch’io mi feci il segno della croce. A pensarci bene l’avevo visto fare altre volte, soprattutto alle donne e alle vecchie, però come croce appariva piuttosto imprecisa. Mi fermai a immaginare quale strana croce bistorta dovesse venir fuori dal corpo storpio dell’uomo di stalla del fattore. Il paese era tutto presente a quella strana cerimonia. Nelle prime file i signori, quelli che possedevano poderi e terre, subito dietro i fattori con le famiglie inamidate. Poi i bottegai e gli artigiani, in fondo i contadini e i disgraziati. Io e Beba arrivammo presto ma ci sedemmo nell’ultima fila. «Oggi c’è il Vescovo di Siena» mi sussurrò Beba piena di emozione. Non sapevo cosa o chi fosse un vescovo e quando, dopo una scam-panata allegra di festa e una sonatina di campanelli, vidi entrare un uomo grasso, seguito da Don Luigi, una domanda mi nacque spon-tanea fra le labbra screpolate:. «Ma cos’ha mangiato per essere così grasso?» Non avevo mai visto nessuna vacca e neppure un bue e tanto meno un maiale così pieno. Sicuramente mangiava qualcosa di strano, qualcosa che alla Rocca non avevamo. Nessuno nel mio paese era così grosso, neppure il figlio del fattore che mangiava di continuo salsicce. Zeno, dietro di loro, altro non faceva che passare a entrambi le cose di cui necessitavano.

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I singolari balletti che si susseguirono furono modesti, molto belli invece gli abiti. Sontuosi e appariscenti, andavano dal rosso sangue all’oro e le vesti erano ricche e ricamate. Anche loro, come facevo io d’inverno, indossavano camicie lunghe fino ai piedi. Questo mi stupì, non avevo visto nessun altro, a parte me, indossare abiti simili. Don Luigi, a volte, ma sempre abiti neri. I miei, come i loro, erano colorati ma, mio malgrado, dovetti ammet-tere che erano meno belli. I loro erano fastosi e brillanti, i miei logori e impalliditi dal sole. Zeno invece, umile e sereno come al solito, aveva un vestitino bian-co e nero, di fattura semplice come quelli che portavo io. In quel momento lo sentii tanto simile a me da allargarmi il cuore. Con gli occhi bianchi osservava, in profonda ammirazione, gli altri due. Si vedeva che si reputava meno di loro e forse per questo mi sentii immediatamente vicino alla sua persona. Stava sempre dietro e borbottava parole astruse, a un cenno di uno dei due ubbidiva come un suddito accondiscendente. In verità non riuscivo realmente a comprendere cosa stesse accaden-do. Tutti si alzavano contemporaneamente e poi, sempre all'unisono, si risiedevano. Sembrava un gioco strano in cui uno a caso coman-dasse e gli altri lo seguissero. Provai anch’io ad alzarmi all’improvviso ma ricevetti in cambio solo sguardi ostili. Allora pen-sai che fossi ancora troppo piccolo e che potesse comandare il gioco solo un adulto. Le parole erano lontane, poi però cominciarono a cantare canzoni ancora peggiori in cori ora singoli ora collettivi, e si inginocchiava-no e qualcuno fra i signori andò addirittura accanto al prete a leggere nel suo libro. Era tutto affascinante e inquietante al tempo stesso, anche la nenia ripetitiva, in una lingua che mi era estranea, ma che tutti conosceva-no. Addirittura Beba la ripeteva estasiata fra le labbra fine e i denti man-canti. Tutti fuorché io. A un certo punto però accadde qualcosa di straordinario: sentii l’emozione salire. Il silenzio si fece austero. Tutti abbassarono lo

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sguardo sui propri piedi ed io li imitai. Però non seppi trattenermi dallo sbirciare. Il Vescovo teneva in mano una cialda rotonda che alzava verso il cielo. Cosa stava facendo? Il silenzio era prepotente e l’emozione tangibile. Percepii in quel gesto un momento di importanza sublime e allora con un soffio chiesi a Beba: «Cos’è quello? Che fa ora?» La risposta mi sconvolse tanto da rivoltarmi la stomaco. «Quello è il corpo di Cristo. E il prete lo mangerà, insieme al sangue di Cristo che è nella brocca. Poi offrirà a ognuno di noi un pezzo di quel corpo.» Io tacqui inorridito e Beba, non comprendendo appieno la gravità della situazione, abbassando la testa verso il mio orecchio bisbigliò: «Ma te sei troppo piccino. Ai cittini piccini come te non è concesso tale onore. Te Febo, lo potrai mangiare solo fra qualche anno, dopo che sarai passato a Comunione, proprio come me. Solo allora sarai un cattolico vero.» A quel punto non potei far altro che alzarmi inorridito e, dopo pochi attimi di smarrimento, scappare a gambe levate. Non volevo passare a Comunione e non volevo mangiare il corpo di nessun povero cristo e neppure berne il sangue. “Un privilegio” lo aveva chiamato Beba! Che fosse impazzita all’improvviso? Mentre rosso in volto correvo fuori dalla chiesa, un’intuizione mi si presentò lampante. Ecco perché io ero così diverso dagli altri paesani, ecco perché non stavo bene con loro. I rocchigiani erano tutti dei mangiatori di uomini! Sapevo che esi-steva gente così, che mangiava altra gente, ma pensavo che fossero lontani, non alla Rocca. Da qualcuno, a dire il vero, me lo sarei an-che aspettato, ma da Zeno no. Corsi via dalla Chiesa di San Simeone come un ossesso. Il portone sbatté forte dietro di me nel montante in legno e fui certo che tutte quelle orrende persone mi stessero guardando con la bava agli occhi per la necessità di mangiarmi.

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Chissà che fine avrebbe fatto quel poveretto del vescovo, così roseo e rotondo? Poi un dubbio mi assalì furioso. Che fosse così grasso perché man-giava la gente? Che l’avesse finita tutta, a Siena, e fosse venuto alla Rocca per questo? Che fine avrebbe fatto Beba? Ma la preoccupazione fu breve, neppure nella fame più bieca ce l’avrei fatta a mangiarla. Chi avrebbe mai potuto assaggiare una donna così brutta e con tutto quel tanfo d’aglio? L’aria di quella giornata mi entrò fresca nei polmoni. Ero libero io e potevo correre. E lo feci; caddi e mi rialzai giù per le scale e poi per la discesa che mi permetteva di fuggire lontano dalla chiesa. Corsi gridando di felicità! Le mie gambe avevano voglia di rincorrersi una dietro l’altra, senza sosta, senza limiti. E corsi lontano e mi sbucciai le ginocchia per i viottoli sassosi e scoscesi. Oltrepassai le vie strette e tortuose e superai anche l’America. Al Sassone bianco mi fermai senza fiato, pronto a ripartire per la strada ghiaiosa dei Perelli. Ridevo e mi sentii davvero felice mentre scappavo da tutti loro. En-tusiasta soprattutto di comprendere finalmente la mia diversità. Fu là che vidi per la seconda volta Andreuccia. E quel giorno capii che il mio destino era inevitabilmente legato al suo. Lei come un’illuminazione. Lei che non era in chiesa a Pasqua. Perché? Stava salendo la strada, dalla campagna in su, con il bambinello di fianco, tirandolo e sorridendogli appena. Allora le corsi incontro e le gridai: «Ma te ‘un sei alla messa di Pasqua?» lei senza neppure degnarmi di uno sguardo mi rispose con sufficienza passando oltre. «No. Non sono cattolica.» Questo mi entusiasmò, io e lei, due anime solitarie in un paese di mostri. E guardandole le spalle magre che si allontanavano, mi parve più delicata e gentile di come la ricordassi. Seppi in quel medesimo istante che neppure io sarei stato cattolico. E scappai giù per la cam-pagna a correre per non sentire l’emozione di essere diverso da tutti ma uguale a lei.

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Zeno venne a cercarmi due giorni dopo. C’era anche Siride con lui. Ma si fermò un poco più lontano. Era strana quando stava ferma, si vedeva che le sue gambe avevano due lunghezze diverse e la sua figura assumeva una postura scoordinata. Era giusto comunque che stesse in disparte. Le donne per bene non ascoltano i discorsi degli uomini! Zeno mi aspettò sotto al pergolato. Siride immobile, dietro il suo fazzoletto nero e il naso rosso fuori, lo attendeva all’inizio della via mentre lui vigilava sulla casa ma con gli occhi volti a guardare il poggio di Neno. Zeno non disse nulla della mia fuga pasquale. Non chiese neppure. Capì semplicemente e, dopo aver passato uno sguardo veloce su sua sorella che assentì lieve, mi disse senza alterigia ma con certezza antica: «Febo te hai bisogno d’andà a scuola. ‘Un ci so’ Santi che tengano.» Era per questo che mi piaceva Zeno, non solo perché sapeva leggere, ma soprattutto perché sapeva di vero. Non usava fronzoli e non ne aveva, non diceva mai né troppo né troppo poco. Parlava preciso per quello che era. Non giudicava, comprendeva. E poi odorava di terra e di umido, odorava come mi immaginavo odorasse il paradiso che tanto decantava Beba. Fu Zeno a decidere di mandarmi a scuola ma son certo che fu sua sorella Siride che si lavorò Beba con caparbia costanza. Zeno era troppo delicato per Beba e l’unica cosa che ottenne, con la calma che lo contraddistingueva, fu quella di riuscire a placare la malsana idea che avessi bisogno del prete per essere esorcizzato da quel caprone che mi aveva posseduto abitando all’America. Siride invece fu più astuta. Si lavorò Beba senza darlo a vedere, sen-za mai proferirle parola. Ogni giorno faceva in modo che qualche massaia buttasse là frasi al volo tipo “Sveglio Febo!” o “Avrebbe tanto bisogno il citto del Bianchini di imparà a fa’ di conto” Oppure quando vedeva passare Beba carica di panni da lavare face-va finta di parlottare alle sue comari nelle orecchie e Beba, che era curiosa come una cecca, ci cascava e acuminava il suo udito per sen-tirne i sussurri delle lavandaie che parlottavano.

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«Quel poro citto, il figliolo del maestro, è pari pari al su’ babbo!» O ancora: «Dice il sagrestano che il cielo ha previsto grandi cose per lui. Ne è certo.» Siride non parlava ma faceva parlare, gestiva senza darlo a vedere. Era strana Siride, sempre seria e con il muso accigliato. Era arrab-biata con il mondo forse perché era zoppa. Non ricordo il suo volto, ma solo il naso che spuntava oltre il fazzoletto. Probabilmente non sapeva neppure ridere o piangere. Eppure pareva essersi appassiona-ta a quella fissa della scuola. Non so se sia andata proprio così perché, ripeto, mai sentii la sua voce, mai seppi se fosse soave o arcigna, ma lasciò sempre fare alle altre. La mia balia, piena di malizia e per questo assai più facile da abbin-dolare, cadde nella rete agli inizi dell’estate quando un giorno Zeno la prese da una parte e le disse quello che a Beba apparve un gran segreto; che ero un cittino sveglio e apprendevo al volo. Lei fece finta di dimenticare che il Demonio si fosse impossessato di me e preferì credere alla certezza precedente, cioè che sapessi già leggere quale genio, uguale spiccicato a mio padre. Era così Beba, brutta come un topone, semplice come un fiumiciat-tolo. Nell’estate il suo pensiero si accomodò piano, calmo e placido, al fatto della scuola. Le piacque credere che fossi nato più per la scuola che non per la chiesa, e assecondò quell’idea misurata, elementare, ma anche estremamente vera, forse. La scuola era a pochi passi da casa mia. Appena dopo la casa di San-ta Caterina. Dovevo scendere giù dal viottolo ghiaioso fin sopra il falegname e poi spingermi su per una piccola salita di pietraia arro-tondata dalla pioggia ed ero là, in quella che sembrava una casa in mezzo alle case, accanto al municipio, anche. Ci potevo arrivare an-che passando dal pergolato ma, così facendo, sarei dovuto passare in mezzo a troppe case e questo non mi piaceva. I ragazzini della Rocca, nel vedermi passare, mi tiravano i sassi, a me come ai contadini che arrivavano sudici dalle campagne, e io allora li evitavo, se potevo. Di nascosto comunque mi divertivo a

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tirare la terra sulla strada del sassone per vederli starnazzare o cade-re come sacchi di patate. Spesso li sentii scappare gridando “Il ca-prone!”. Non so se capirono mai che fossi io a farli rotolare come biglie davanti alle ragazze ma, se lo fecero, non ebbero mai il corag-gio di venirmi a cercare nella mia America. Era agosto quando un pomeriggio caldo, complice della quiete son-nacchiosa dei citti del paese, mi prese la voglia di andare a ispezio-nare quel luogo ameno e importante al tempo stesso che mi aveva descritto Beba. Lei non c’era mai andata a scuola, ma le piaceva ri-petermi che mio padre ci aveva anche insegnato. Non so se fosse una sua fantasia, ma mi piaceva crederlo e la lettera scritta in grafia rotonda e arricciolata me ne dava conforto. Avevo mangiato poco, come mi capitava in estate e il sonno, che nel mio animo non mi coglieva quasi mai impreparato, tardava a giun-gere. Dormire era un po’ come morire, e temevo sempre di non esse-re sveglio e attento per qualche evento importante come il ritorno di mio padre. E poi il momento della sospensione dai rumori del paese era quello che preferivo. Potevo girare per la Rocca, ovviamente sempre guar-dingo a non farmi scorgere da alcuno, e osservare tutto quello spazio vuoto nella sua completezza. Adoravo la grande cisterna che riempiva la piazza in pendenza, e mi rinfrescavo bevendo alla piccola cannella brunita ai piedi della mo-numentale struttura. Di fianco a loro il pozzo di mattoni rossi sem-brava piegarsi al volere dell’enorme cisterna a undici lati, e veniva relegato a un ruolo di vile servitore. Anche per lui era fondamentale il luogo in cui era nato. In mezzo ad un giardino spoglio avrebbe assunto il ruolo di condottiero, là invece sembrava nascondersi triste dietro il piccolo platano. Quel giorno però non arrivai fino alla piazza, girovagai intorno alla scuola strusciandomi ai muri come fossi un gatto. Mi avviavo silen-zioso per le stradine rocchigiane non perdendo mai di vista la scali-nata della scuola. Ogni tanto, con le spalle appoggiate al muro di rimpetto ad essa, mi fermavo a osservarla. L’entrata era in mezzo

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alle case, una scalinata piccola e semi nascosta alle intemperie, con un passamano in legno scrostato solo a sinistra. Temevo che qualcuno mi vedesse e comprendesse il timore che essa mi procurava. Non paura, io non avevo paura di niente, ma la teme-vo come evento estraneo, infinitamente lontano da me. Dopo aver girato noncurante avanti e indietro un tempo che reputai sufficientemente lungo, stando ben attento che non ci fosse nessuno, sgattaiolai su per quelle scale ordinate, troppo diverse dalle scale della mia America. Il portone era chiuso e una grande scritta troneggiava sull’entrata. Tentai di penetrare quelle lettere senza successo. Allora mi venne un’idea, potevo ingannare lei come avevo fatto con Beba e ripetei a voce alta la lettera di mio padre, un paio di volte. La scritta purtrop-po non sembrò sortire l’effetto desiderato; rimase immobile e io, quasi quanto lei, continuai a rimanere ignaro su ciò che volesse dir-mi. Allora ebbi una specie di timore violento. Quell’edificio mi sembrò ostile e temetti riuscisse a comprendere quale infame bugia nascon-devo. Non sapevo leggere. E a scuola, la stessa in cui mio padre aveva insegnato, sarei stato deriso e peggio ancora sarei diventato il disonore della mia famiglia. Come se non bastasse la mia bruttezza a dare infamia alla grande casata Bianchini. Fu in quegli istanti, mentre rimuginavo nelle colpe che a causa mia affliggevano e avrebbero per sempre afflitto la famiglia, che la voce di Andreuccia giunse alle mie spalle per farmi trasalire. Ero in cima alla scala e mi voltai intrappolato. Mi avvidi allora che lei in quei pochi mesi era completamente cam-biata e pareva già una signorina. Con il suo corpo magrolino e co-munque molto più grande del mio, con la gonna nera che le arrivava ai piedi e un fazzolettino panna in testa, troneggiava sulla mia unica via di uscita. Quelli che fino a qualche mese prima mi erano sembrati un traguar-do importante, i sei anni, adesso mi parevano annullarsi davanti a lei. Ero troppo piccolo per lei o lei troppo grande per me.

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Son certo che arrossii e lei pure me lo fece notare «Non si distingue più il volto dai tuoi capelli» disse con la voce ri-dente ma la bocca seria. Ero intrappolato e temetti che potesse senti-re i battiti frettolosi del mio cuore improvvisamente in subbuglio. Colpa sua che mi teneva prigioniero. Ma continuò ostile facendo finta di non comprendere quanto la detestassi in quel momento. «Vuoi sapere cosa c’è scritto?» chiese avviandosi in su per le scale e avvicinandosi ad ogni passo pericolosamente a me. Cercando di farmi alto quanto più potevo e incapace di emettere un qualsiasi altro suono: «Nzù!» le feci orgoglioso. Un’altra al suo posto si sarebbe bloccata e, indignata e offesa, se ne sarebbe andata, ma non lei. Continuò a camminare ondeggiando i fianchi come fanno le foglie sul fontone. Volteggiò su fino a me fa-cendomi sentire ancora più piccino di quello che ero. Il suo odore di lavanda invase i miei sensi. Il cuore prese a sussultare ignorando il mio ordine perentorio di tacere. Adesso mi stava davanti e mi sentii piccolo come uno scarafaggio di fronte a lei. Le arrivavo a mala pena alle spalle, e meno male che Beba mi aveva sempre detto che ero troppo lungo. Fu allora che inaspettatamente prese la mia mano sinistra e portan-dola a indicare ogni lettera, come se io non le avessi risposto nulla, lesse scandendo ogni lettera: «C R E D E R E O B B E D I R E C O M B A T T E R E.» E poi ripeté: «Credere, Obbedire, Combattere, il credo di ogni buon fascista.» Non sapevo cosa volesse dire, sentivo solo il calore delle sue mani e sapevo che non era colpa di quell’Agosto impietoso, ero certo che dipendesse da lei, la ragazzina a cui arrivavo a malapena alle spalle. E la mia mano sudata non ce la faceva a staccarsi dalle sue, e i miei occhi in oblio non reggevano i suoi. Sarei voluto scappare correndo veloce come solo io sapevo fare, ma pareva che le mie gambe fosse-ro incollate in uno stagno melmoso. Tenevo gli occhi ostinatamente a terra quando vidi i suoi piedi, scalzi e neri, apparire sotto la gonna scura.

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Mi parvero i piedi più belli che avessi mai visto. Più delicati dei miei, meno sporchi anche, con il secondo dito leg-germente più lungo del ditone. Ebbi il desiderio straziante di abbassarmi e accarezzarglieli. Fu allora che, in questo miscuglio di emozioni nuove, scoprii il suo nome, quando un vocione roco di uomo la chiamò troppo brutalmen-te. «Sara? Dove sei? Rientra subito a casa!» Lei arrossì. «Mi chiamo Sara» sussurrò. «Ma non mi piace il mio nome.» Solo allora ebbi il coraggio di guardarla inebetito e non so da quale recondito passaggio arrivò la mia voce. Riuscii solamente a udirla, scevro da ogni volontà: «E come ti vorresti chiamare?» chiese la mia voce per me. Lei ci pensò su un attimo, e con gli occhi suoi voltati verso l’alto, rifletté. Fu un breve momento, sufficiente tuttavia, per mostrarmi la sua vera essenza. Negli occhi le apparvero, come per incanto, miriadi di luc-ciole d’oro e il mio cuore fece un giro su se stesso. «Andreuccia» disse infine. «Avevo una gatta che si chiamava An-dreuccia quando era ancora viva la mamma ed era bellissima.» Poi corse via. Rimasi immobile a tenermi la mano che aveva tratte-nuto fra le sue, con impresso il suo lieve odore di lavanda, immerso nell’immagine di quegli occhi neri frastagliati di pagliuzze oro, di stelle luccicanti. Fu quel giorno che mi innamorai di Sara-Andreuccia; che dico? An-dreuccia soltanto. Per me da quel momento non ebbe altri nomi. FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...