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La mia lezione di congedo
(25 maggio 2016)
PROSPETTIVE DI TEOLOGIA TRINITARIA
Prof. Guido Innocenzo Gargano
Parlando di teologia, partendo da una prospettiva più strettamente
filologica che tenga conto dell’importanza della Celebrazione Liturgica, e
dunque della lex orandi come contesto naturale della lex credendi, si
potrebbe scoprire una sorta di parentela tra il greco legein e il latino
legere, per cui si potrebbe dedurre che il nostro leggere nasca dal
dettare/declamare/proclamare con la necessaria correlazione tra dire,
ascoltare, scrivere, leggere, e vivere. Succederebbe così che l’udito,
venendo percosso dal suono della parola, permetterebbe a quest’ultima
di passare – come spiegava Agostino1 – dal pensiero interiore al pensiero
esteriore, provocando il destinatario della parola a decidere di vivere
diversamente da prima, grazie a ciò che i Padri della Chiesa chiamavano
compunzione del cuore.
Un’applicazione analogica di tutto questo alla provocazione
proveniente dal Mistero trinitario permetterebbe di parlare di
condivisione di natura dei due attori misticamente presenti in una
celebrazione liturgica: il Padre dello Sposo, e lo Sposo che è una carne
sola con la Sposa (Chiesa). La origeniana coaeternitas del Padre e del
Figlio, comporterebbe poi un riproporsi di quella misteriosa relazione tra
il generante e il generato cui i Padri Cappadoci amavano collegare lo
Spirito Santo.
1 Cfr Silvia Salamandra, Verbo interiore/verbo proferito: un esempio della presenza di elementi della filosofia stoica in Agostino, “Urbaniana University Journal-Euntes Docete” LXVI (2013) 3, 165-186.
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La contemplazione di questo mistero insondabile supporrebbe, da
parte dell’esperienza umana, il riconoscimento pieno che il primato spetti
all’interiorità. Tuttavia non si potrebbe parlare di essa se non accettando
la presenza di un dirimpettaio che permetta di individuare la
manifestazione concreta di tutto questo nella vita storica di una creatura
che chiamiamo uomo/umanità la quale si riconosca, nel suo essere ed
esistenza, come totalmente frutto di una relazione vissuta a sua volta
anch’essa nell’orizzonte del mistero.
Dalla nostra esperienza accademica abbiamo imparato anche che
non si può parlare di apprendimento se non quando il suono, che ha
avuto origine nell’interiorità del docente, diventa realtà interiore anche
del discente, grazie all’ascolto attento (prosochē) del discepolo. Già Dante
Alighieri diceva che “non fa scienza senza lo ritener aver inteso”; e tutti
sanno che nei processi fisici si impone sempre una synapsis perché si
stabilisca quel particolare contatto elettrico che genera l’energia.
L’ascolto però, e lo sappiamo bene, può essere ottenuto attraverso
gli strumenti più vari che vanno dall’uso della lingua e della parola fino
all’utilizzazione di tutte quelle forme scientifiche di conoscenza e di
comunicazione razionali e simboliche, interne o esterne all’uomo,
mediate da ciò che oggi potremmo chiamare anche tecnologia, come
quella dei mass media che raggiungono ciascun senso corporeo, psichico
o spirituale, addirittura alla velocità della luce; tecnologia che la capacità
creativa dell’uomo inventa e perfeziona continuamente per raggiungere
l’obiettivo di una relazione, la più intima ed efficace possibile, con l’altro
da sé2.
2 Lo sforzo che fanno tutti i nostri cantanti o artisti contemporanei che utilizzano i mass media, di provocare udito e
vista per coinvolgere il più possibile emotivamente corpo e anima i partecipanti a un concerto e ottenere così
un’adesione il più possibile entusiasta e acritica alle proprie proposte non soltanto sonore, ma anche di contenuto
ideologico, con il coinvolgimento di tutti i sensi umani, ne è esempio lampante sui nostri schermi, nei nostri stadi e
nelle nostre piazze.
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Oggi però non riusciamo più a fare a meno di con-relazionarci anche
col cosmo in cui navighiamo tutti, in questo frattempo della nostra
esistenza. Sin dalla scuola d’infanzia abbiamo appreso infatti che questa
nostra terra è parte infinitesimale di un insieme costituito da indefiniti
universi all’interno dei quali si danno relazioni indefinite a loro volta
correlate agli indefiniti respiri dei quali il nostro è uno degli innumerevoli
altri che sono stati prima e che saranno ancora dopo di noi. Realtà che
riusciamo appena a immaginare e in cui sembra nascondersi una non
ancora sufficientemente chiara indefinita possibilità di rapporti che
lasciano pensare, con la fisica quantistica, ad un probabilismo tale da
toccare le soglie stesse di quell’unicum umano, e più ancora divino, che
chiamiamo libertà.
In tutto questo, dal momento che è ovvio un inizio così come
sembra ovvia anche una fine di questi nostri indefiniti universi, il discorso
su Dio non può non essere che un tentativo di risposta all’ineffabile
epifania del Mistero che, per convenzione, noi chiamiamo Dio, che sta
all’origine, ma anche alla fine come pienezza degli stessi, attraverso un
Verbum che è anche Logos.
Già Platone spiegava, del resto, che in ogni proposta di logos/sermo,
orale o scritto che sia, si hanno dei passaggi che avvicinano alla verità
attraverso i famosi gradini di: 1.ascolto/lettura; 2.opinioni (doxai);
3.discernimento; 4.conoscenza/dianoia, grazie alla lama di luce della
intelligenza razionale (noēsis).
Ma Platone stesso, e poi anche Agostino, fedele discepolo di
Platone, spiegavano, con riferimento esplicito al sottinteso (Platone la
chiamava hyponoia), che accompagna sempre ogni manifestazione del
mistero, perché né il dire può esprimere totalmente il pensare, né il
pensare può mai esprimere totalmente il pensiero che ha dato origine al
pensare stesso: Nec dicuntur ut cogitantur, nec cogitantur ut sunt (De
Trinitate,2,3,4). Il che indica chiaramente la consapevolezza che: sempre
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la realtà eccede il nostro pensiero così come il pensiero eccede il nostro
pensare, e il nostro pensare eccede il nostro dire. Il che porta a
concludere che il mistero è alla base di tutto, accompagna tutto ed è il
traguardo di tutto.
Conseguenza ovvia è che del mistero possiamo conoscere soltanto
ciò che al mistero stesso è parso bene rivelare e che nel mistero possiamo
sperimentare.
Per questo motivo Origene poteva sintetizzare la sua metodologia
teologica raccomandando ai suoi studenti di tener conto che “per
comprendere il senso nascosto in un testo profetico occorre possedere la
stessa ispirazione avuta dal profeta”.
Che era come dire: la fede, e soltanto la fede, è la chiave di cui abbiamo
bisogno per avvertire la visita, appunto misteriosa, del mistero.
Ma la fede è certamente un dono.
Da qui la consapevolezza che, se si prescinde dal dono, il rischio di
trovarsi soltanto di fronte ad una airesis, cioè ad una scelta che risponda
solo alla propria ricerca individualistica, è dietro l’angolo. Infatti l’apertura
alla verità, comporta la accettazione di un altro importantissimo principio
patristico sintetizzato in queste poche significative parole di un autore
medievale latino: Ecclesia tenet et legit librum Scripturarum. E tutto
questo a partire, e anche questo per fede, da ciò che scriveva Gregorio di
Nissa già nel IV secolo e cioè che: “Chi vede la Chiesa vede direttamente
(antichrys) Cristo”3.
Ma dire Chiesa/Ecclesia e dire comunione di persone convocate in
unum <epì to auto>, significa anche riconoscere in essa una misteriosa
presenza, non soltanto simbolica, dello stesso <Mysterium Trinitatis>,
come suggerisce l’incipit della Lumen gentium del Concilio Vaticano II.
3 Vedi H.Langerbeck, Gregorii Nysseni Opera, VI, p.383, 6. Citazione in G.I. Gargano, La teoria di Gregorio di Nissa, o.c., p.217, ma leggi anche tutto ciò che si può apprendere da Gregorio di Nissa nelle pagine 216-221 di quel mio lavoro.
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Da qui la mia sollecitazione, per il futuro della ricerca sul nostro
trattato De Trinitate, di un più approfondito studio critico del pensiero
teologico che caratterizza da sempre i nostri colleghi teologi orientali.
Penso che finora ci si sia preoccupati, e credo giustamente e con grande
arricchimento della nostra riflessione di fede, di ciò che si imponeva alla
riflessione teologica, nel secolo cosiddetto breve, in Occidente. Credo
però che la storia di questi primi anni del terzo millennio ci stia
presentando un panorama in cui la centralità del pensiero occidentale
non sembra più così determinante come lo è stato per tutto il tempo della
cosiddetta Modernità.
Il novum sta albeggiando già, e forse è già sorto qua e là il sole di
una giornata diversa, che apre altri orizzonti di fronte ai quali non
possiamo più attardarci, paghi delle nostre conquiste. Penso perciò che
una rivisitazione del concetto teologico di comunione non ridotta,
ovviamente, a comunicazione o interconnessione che è davanti agli occhi
di tutti, ma che affronti il fondamento, direi ontologico, della comunione
di tutto il genere umano in quanto tale, sia indispensabile.
Se finora sono stati, e continuano ad essere essenziali, la scoperta
della persona e il rispetto della personalità, che permettono di non
ridurre ad astrattezza il trinomio della Rivoluzione francese (egalité,
liberté, fraternité), credo che sia urgente adesso proseguire a cercare
ancora - senza negare nulla, anzi per scoprirne la radice, nonostante tutto
cristiana, di questo trinomio - facendo un passo avanti per evidenziare
appunto il fondamento trinitario divino di tutte queste conquiste.
Per parte mia sono convinto che sia stato proprio questo
fondamento trinitario divino a convincere i Padri della Chiesa del primo
millennio della storia cristiana a lottare così decisamente contro
l’arianesimo, riproponendo sempre, a costo della propria vita, l’ineffabile
mistero trinitario. Essi dimostravano così chiaramente la convinzione che
con l’arianesimo venivano messi in gioco non soltanto delle idee astratte,
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ma i fondamenti stessi della visione di Dio e, per ciò stesso, della visione
dell’uomo e dell’umanità.
Da qui il primato che andrebbe riconosciuto sempre al pensiero
fondante dei Padri della Chiesa, stante la permanenza – che è sotto gli
occhi di tutti – di problemi analoghi (penso non soltanto all’arianesimo
che si ripropone più vigoroso con l’Islam, ma anche alla gnosi
permanentemente presente sia sotto forma di
intellettualismo/materialismo che sotto forma di sentimentalismo
emozionale che pervade in lungo e in largo la nostra società
contemporanea a tutte le latitudini, che vive situazioni pendolari di
superattivismo e superspiritualismo abitati comunque dall’indifferenza).
Alcuni nostri colleghi ortodossi orientali parlano della necessità, in
questi determinati contesti, di un ritorno ai valori perseguiti nell’antichità
cristiana dalla Chiesa indivisa per ritrovare la priorità assoluta della verità
della Chiesa, proposta e simbolizzata in radice con l’evento della
convocazione nella comunione eucaristica, caparra della realizzazione
piena della salvezza4.
Ci si può incamminare, sia pure in modo critico, su questa strada di
ricerca senza cadere nella nostalgia di forme e definizioni ormai
considerate obsolete pressoché da tutti noi?
Sono convinto che comunque si tratti di una sfida da lanciare ai
colleghi teologi del prossimo futuro. Sfida che potrebbe partire da ciò che
scriveva qualche anno fa il prof. Jean Zizioulas, quando si azzardava a dire:
4 “Un retour à la problematique ontologique de l’eglise indivise signifie: retrouver la priorité absolue de la
verité de l’Eglise, l’événement du rassemblement et de la communion eucharistique en vue de la realisation
de l’Evangile du salut”, o.c., p. 10. Per le osservazioni di Christos Yannaras, ma anche per l’insieme delle tesi proposte da Jean Zizioulas sospetto che le loro idee provengano da un grandissimo teologo russo del primo novecento, Pavel Florenskij e soprattutto dalla sua opera fondamentale: La colonna e il fondamento della verità, pubblicata a Mosca nel 1914. Questa opera è stata tradotta in italiano e publicata dall’editore Rusconi di Milano nel 1974 a cura di Elemire Zolla e con la traduzione di Pietro Modesto, ma poi riedita di nuovo, con una traduzione riveduta, integrata e corretta da Rossella Zungan e Natale Valentini in: Pavel A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, a cura di Natalino Valentini, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2010. Leggere il Florenskij è determinante, così mi sembra, per capire gran parte del pensiero cristiano orientale contemporaneo.
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“L’essere ecclesiale è legato all’essere stesso di Dio. Infatti per il
fatto che l’uomo è membro della Chiesa egli diventa immagine di Dio e
dunque esiste come Dio stesso è, partecipando del modo d’essere di Dio.
Un modo di essere che non si riduce però a un comportamento morale,
cioè a qualcosa che può compiere l’uomo. Si tratta infatti di un modo di
essere in relazione col mondo, con l’altro e con Dio. E dunque è un fatto di
comunione, che non può perciò realizzarsi mai come affermazione di un
individuo, ma soltanto come realtà ecclesiale”.5
Dio – dichiara apertamente questo nostro collega orientale - ha
scelto di rivelarsi soltanto all’interno della Ekklēsia e all’interno del modo
di essere dell’Ekklēsia stessa, per cui c’è una sorta di reciprocità
necessaria tra il modo di essere comunionale di Dio e il modo di essere
comunionale della Chiesa.
Con l’aggiunta, tutt’altro che secondaria, che ha il colore di una
sottile polemica sul modo stesso di essere – secondo lui - del credente
cattolico romano, in cui il teologo ortodosso avverte che non
bisognerebbe dimenticare che: La persona non può esistere senza
comunione: ma anche che ogni forma di comunione che negasse o
sottomettesse la persona sarebbe inammissibile”6.
Non è difficile dedurre che, secondo il Zizioulas, là dove non ci
dovesse essere una Chiesa comunionale non ci potrebbe essere neppure
una completa manifestazione del mistero trinitario.
Con conseguenze estremamente serie non soltanto sul piano di un
possibile superamento dell’inevitabile scisma tra le chiese, ma anche di
5 “L être ecclesial est lié à l’ être même de Dieu. Du fait que l’homme est membre de l’Eglise, il devient
<image de Dieu>, donc il existe comme Dieu-lui même est, il acquiert la <manière d’être> de Dieu. Cette
manière d’être n’est pas un comportement moral, c’est-à-dire quelque chose que l’homme accomplit. C’est
une manière de relation avec le monde, avec l’autre et avec Dieu, un fait de communion, et c’est pourquoi
elle ne peut pas être réalisée comme exploit individuel, mais seulment comme fait ecclésial”, o.c., p. 11.
6 Ivi, p.14
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una soluzione urgente del problema, per non essere costretti ad
ammettere, ove non fosse rispettata questa connessione, che si
tratterebbe di una vera e propria devianza dogmatica7.
Potrebbe una teologia trinitaria cattolica ignorare sfide come
questa? Sono consapevole che si potrebbe certamente rispondere a
partire <dal basso>, nell’approccio al mistero trinitario, come suggerisce
Zizioulas, ma a condizione che questo <dal basso> non elimini la necessità
di coniugare l’ecclesiologia con la cristologia in modo tale che la
triadologia risulti fondata simultaneamente su Cristo e sul suo continuo
rapporto con la Chiesa, articolando con estrema attenzione i criteri
dell’unità con i criteri della distinzione, ma rispettando scrupolosamente
anche la taxis/ordo tradizionale, al quale non avrebbero rinunciato in
alcun modo né i Padri orientali, né, e più ancora, i Padri occidentali. I miei
studenti sanno quanto sia importante rispettare l’ordine di cui ci
serviamo nel nostro segno della croce fatto nel Nome del Padre, del Figlio
e dello Spirito Santo.
Il compito di spiegare il come questo possa essere ulteriormente
articolato va affidato ovviamente a chi crederà importante proseguire su
questa strada nella ricerca della Teologia Trinitaria.8
7Spiega Zizioulas: “Pour que l’Eglise puisse offrir se mode d’existence, elle doit être elle-même une image di mode
selon lequel Dieu existe. Toute sa structure, ses ministères, etc. doivent esprimer ce mode d’existence. Et cela signifie
avant tout que l’Eglise doit avoir une foi droite, une vision correcte au subject de l’être de Dieu. L’orthodoxie quant a
l’être de Dieu n’est pas un luxe pour l’Eglise et pour l’homme: elle est une nécessité existentielle” Ivi. 8 Cfr a questo proposito il recentissimo libro di Jean Paul Lieggi, La sintassi trinitaria. Al cuore della
grammatical della fede, Aracne, Ariccia (Roma) 2016. Jean Zizioulas sintetizza comunque così il pensiero
dei Padri appartenenti alla parte orientale della Grande Chiesa: “L’être de Dieu est un être relationnel: sans
le concept de communion, on ne saurait parler de l’être de Dieu. La tautologie <Dieu est Dieu> ne dit rien sur
l’ontologie, tout comme l’affirmation logique A=A est une logique morte et par conséquant une negation de
l’être, lequel est vie. Il serait impensabile de parler du <Dieu Un> avant de parler du Dieu Qui est
<communion>, c’est –à-dire de la Sainte Trinité. La Sainte Trinité est un concept ontologiquement primordial
et non une notion qui s’ajoute à la substance divine ou bien qui lui fait suite comme cela se voit dans le
manuels dogmatique de l’Occident et, helas, dans ceux de l’Orient des temps modernes. La substance de
Dieu, le <Dieu>, n’a pas de contenu ontologique, n’as pas d’être veritable si ce n’est en tant que communion.
Ainsi la communion devient-elle dans la pensée patristique un concept ontologique. Dans l’existence il n’y a
rien d’existant et d’intelligible par soi-même, rien qui puisse, en tant qu’individu, tenir <tout seul> tel le
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Un’ulteriore sollecitazione per la ricerca futura potrebbe nascere
anche dalla connessione di questa problematica cristologico-trinitaria con
la teologia eucaristica, a partire, anche in questo caso, da affermazioni
della teologia ortodossa orientale come la seguente: “L’Eucaristia
manifesta la Chiesa non semplicemente come qualcosa che è <in-stituito>
(in-stitué), cioè come un puro dato storico (historiquement donné), ma
come qualcosa che, in sovrappiù, è <con-stituito> (con-stitué), realizzato
costantemente, perché si tratta di una libera comunione che raffigura la
vita divina e il Regno che viene”9.
Riceveremmo così il suggerimento a riflettere sul fatto che
l’Eucaristia non è affatto una sorta di realtà parallela, analoga ad
un’assemblea che ascolta semplicemente la parola di Dio, ma piuttosto
l’escatologizzazione – come ci suggeriscono i colleghi orientali - della
parola storica, della voce del Cristo storico, che ci raggiunge, qui ed ora,
non solo come <dottrina> ma anche come <vita>10, cosa che permette
<tode ti> d’Aristote, puisque même Dieu existe seulment grâce à un fait de communion. De cette façon le
monde antique a entendu pour la premiere fois que c’est la communion qui rend les êtres vrais: rien
n’existe sans elle, même pas Dieu. Mais cette communion n’est pas une relation comprise pour elle-
même…Tout comme la <substance>, la <communion> n’existe pas par elle même: c’est le Père Qui en est la
<cause>. Cette thèse des cappadociens qui introduisirent le concept de <cause> dans l’être de Dieu revêt
une importance incalculable. Car elle signifie que l’ultime catégorie ontologique qui fait que quelque chose
<est> réellement, n’est ni une <substance> impersonnelle et incommunicable, ni une structure de
communion présupposée par elle-même ou imposée par necessité, mais bien la <personne>. Le fait que
Dieu (Trinité) doit Son existance au Père, c’est-à-dire à une personne, signifie: que Sa <substance>, Son etre,
n’est pas contraignant pour Lui (Dieu n’existe pas parce qu’Il ne peut pas qu’exister);que la communion n’est
pas une structure contraignant pour Son existence (Dieu ne communie pas, n’aime pas parce qu’Il ne peu
que communier et aime. Le fait que Dieu (Trinité) existe à cause du Père signifie que Son existence, Son être,
sont la conséquence d’une personne libre; ce qui veut dire, en dernière analyse, que non seulment la
communion mai encore la liberté, la personne libre, constituent l’être véritable. L’être véritable procède
seulement de la personne libre, de la personne que librement aime, c’est-à-dire affirme son être, son
identité au moyen d’un fait de communion avec d’autres personnes”Zizioulas, o.c., pp.12-14.
9 Ivi. 10 Cfr ivi. Da queste suggestioni sono partito per evidenziare la necessità di partire proprio dall’esperienza dell’essere
Ekklēsia, e dal modo di essere Ekklēsia, nell’Eucaristia celebrata, fonte e culmine di tutto l’essere della Chiesa, per
riflettere correttamente sul mistero trinitario. Il che comporterebbe, a mio parere, che non sarebbero assolutamente
innocui o secondari almeno i seguenti elementi recepiti dal pensiero dei colleghi orientali: primo, vivere l’appartenenza
all’ Ekklēsia; secondo, riflettere su ogni contenuto della fede a partire dalla stessa Eucaristia celebrata; terzo, parlare di
corretta <fides quae> e <fides qua> soltanto se si è perfettamente concordi con la <traditio fidei> e cioè con ciò che
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loro di dire con semplicità che la celebrazione eucaristica è una immagine
del Paradiso sulla terra.
Tutto questo mi ha convinto che sintesi come quelle proposte, per
esempio dal Simonetti, tese a rintracciare le origini, e in un certo senso
anche le cause e lo sviluppo, della dottrina trinitaria, hanno sì enorme
importanza, ma soltanto a condizione che ci si avvicini al problema
tenendo conto non soltanto della prospettiva cristologica ma anche della
prospettiva ecclesiologica ed escatologica della nostra fede trinitaria.
La Divina Liturgia, celebrata nel <Giorno del Signore>, comporta così
inevitabilmente l’esigenza di considerare la natura comunionale della
Chiesa, conditio-sine-qua-non dell’esaudimento dell’epiclesi che: da una
parte fa sperimentare quella particolare unità nella distinzione della santa
Chiesa che è sulla terra immagine visibile dell’invisibile mistero del Padre
del Figlio e dello Spirito Santo; dall’altra di essere a contatto con il corpo e
il sangue del Signore, partecipando della natura divina; e infine di essere
anche un già escatologico nonostante che resti nell’attesa del plērōma
atteso per la fine dei tempi.
Le conseguenze di un simile cambiamento di prospettiva
comporterebbero – tra l’altro - l’applicazione del principio teologico
scandito nel Concilio di Calcedonia (451), ma da sempre comune nella
Grande Chiesa indivisa , e cioè che nella contemplazione del mistero di
Dio non si dovrebbe mai né separare, né confondere, ma sempre
affermare, la sostanziale unità nella distinzione, operazione che è
possibile compiere soltanto all’interno della consapevolezza che si tratti
appunto, sempre e semplicemente, di com - unione.
La centralità del riferimento alla Liturgia celebrata comporta però
l’impossibilità, per chi non condivide la fede, di accedere a quella
“semper, ubique, ab omnibus creditum est”; quarto, dire che soltanto allora si è in linea con il centro stesso della nostra
fede, quando si è in grado testimoniare quella simultanea comunione sincronica e diacronica con la Chiesa universale
che si vive in pienezza soltanto nella condivisione della Divina Liturgia.
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comprensione particolare del dato del Nuovo Testamento che eccede,
per definizione, la sua semplice dianoia o conoscenza unicamente umana,
quali che siano i metodi storico critici, le analisi narratologiche, le
scoperte ottenute con le tecniche di ogni tipo, a proposito dei generi
letterari, degli accorgimenti simbolici e delle forme retoriche o altro,
eventualmente utilizzati in modo più o meno cosciente dagli autori di un
qualunque testo originario proposto dalla Scrittura o dalla Tradizione.
Scriveva Filone alessandrino: “Credi tu davvero di poter afferrare
integralmente la verità? No. E’ essa che ti verrà incontro a braccia aperte,
se tu la ricercherai sempre con sincerità”.
Se dunque è un dono la fede, è un dono anche la comprensione del
mistero per eccellenza della nostra fede, che attinge al Mistero
trinitario.
I Padri della Chiesa, erano ben consapevoli di tutto questo. E infatti
se partivano sempre dal silenzio (sighé) epicletico nella loro ricerca iniziale
della verità, concludevano anche sistematicamente il loro itinerario
ancora col silenzio (siopē), questa volta apofatico, sollecitando così, sia in
se stessi che negli altri, la prostrazione adorante di fronte al mistero di
Dio, avvolto nella sua assoluta indicibilità.
Mi sono accorto, e mi avvio verso la conclusione, che i ben 25 anni
di insegnamento di teologia patristica greca presso il Pontificio Istituto
Orientale e i 34 anni circa di insegnamento di ermeneutica patristica della
Bibbia presso il Pontificio Istituto Biblico mi avevano di fatto preparato,
senza che io lo sapessi, a questi anni di insegnamento sfociati nei due
volumi di Lezioni di Teologia Trinitaria che chiudono il mio cammino
accademico in questa Facoltà Teologica dell’Università Urbaniana.
Per questo mi permetto adesso di indicare alcune piste di ricerca a
chiunque intenda proseguire sulla strada dell’avvicinamento al mistero
trinitario, che è stato oggetto della mia riflessione di credente.
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Per esempio:
- Mi sembra che l’antropologia contemporanea abbia ancora molte
cose da dire ai teologi, come certamente gli studenti hanno potuto
apprendere dalle lezioni del nostro Decano il Prof. Giovanni Ancona.
- Per ciò che riguarda una riflessione più specificamente legata al
mistero trinitario, mi sembra di poter suggerire che bisognerebbe
lasciarsi interpellare con maggiore attenzione:
- a) dalle continue scoperte scientifiche sulle categorie di tempo e
spazio ma anche di inizio, fine e rinascita degli universi creati;
- b) dalle ipotesi sulle origini e sulla preistoria dell’umanità, ma anche
di tutto ciò che ruota intorno ai cosiddetti <novissima>, che noi
inglobiamo nell’escatologia; e, anche in questo caso, il riferimento al
prof. Ancona è d’obbligo;
- c) dalla molteplicità straordinaria di popoli, culture e religioni che
hanno abitato questo nostro pianeta a partire dalla nascita stessa
della vita;
- d) dalle ipotesi di una presenza di vita, non necessariamente umana,
ritenuta ormai sempre più probabile, anche in altri pianeti di altri
soli e di altre galassie;11
- e) ci si potrebbe poi lasciare arricchire un po’ di più, senza
pregiudizi, da ipotesi come quelle teilahrdiane sull’evoluzione
cosmica;
- f) non dovremmo mancare di fare altrettanto anche con certe
proposte più strettamente religiose frutto dell’incontro in
profondità con le grande fedi viventi come quelle di autori come
Raiumundo Panikkar e Jaques Dupuis, per fare soltanto due dei
nomi più conosciuti;
11 Ho letto proprio oggi (11 maggio 2016), mentre mi preparavo a scrivere queste righe, un articolo su <la repubblica> (p. 35) di Elena Dusi intitolato: I nuovi 1284 pianeti lungo la via lattea. “Nove sono abitabili”, con un commento di Giovanni Bignami intitolato: Giordano Bruno aveva ragione: i nostri vicini sono dietro l’angolo. Al di là delle esagerazioni tipiche dei giornalisti resta un dato di fatto: l’opinione pubblica, attratta e incuriosita da certe cose, prima o poi farà domande ai teologi su queste ipotesi generate da ricerche scientifiche che non potranno più essere ignorate.
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- g) un altro campo da considerare con maggiore attenzione potrebbe
essere quello, qualche volta sondato davvero in profondità, dai
cultori della psicologia e della psicanalisi con risvolti tutt’altro che
trascurabili soprattutto sulla nozione di natura, di persona, di
coscienza, di relazione, di libertà, etc. così importanti nella
riflessione teologica sul mistero trinitario;
- h) dal punto di vista più vicino alla riflessione filosofica
propriamente detta si potrebbe indagare con maggiore akribeia
sulla correlazione reciproca tra teologia positiva, e teologia
negativa; e tra principio di non contraddizione e coincidenza degli
opposti, lasciandosi provocare con maggiore simpatia da criteri
metodologici ritenuti <orientali> che utilizzano nozioni come quelle
di antinomia e di apophasis che portano con se un ripensamento sul
concetto di energie increate con la conseguente nozione di Theōsis
spesso non rivisitata adeguatamente dalla teologia occidentale della
grazia;
- i) non sottovaluterei la necessità di una considerazione più
appropriata della nozione di ispirazione che sta a monte non
soltanto della teologa, ma anche di ogni tipo di arte: da quella
musicale a quella poetica, passando attraverso le infinite forme
artistiche propriamente dette, prima fra tutte l’iconografia;
- l) penso infine che si imponga, da parte occidentale, una
riconsiderazione dell’insieme delle problematiche legate alla
teologia dell’immagine con risvolti tutt’altro che secondari nella
riflessione sul mistero trinitario, che attingono alla somiglianza e
all’assimilazione, così importanti, che potrebbero aprire strade
nuove a visioni altrimenti tradizionali come quelle di Gregorio di
Nissa e di Agostino di Hippona.
E adesso mi concederete di dare spazio ai saluti e ai ringraziamenti:
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A cominciare ovviamente dal Rev.mo Padre Rettore della Pontificia
Università Urbaniana e dal Decano della nostra Facoltà, ma poi
coinvolgendo nello stesso ringraziamento tutti i colleghi che potrei
nominare uno per uno.
Da tutti loro ho ricevuto ciò che mi aspettavo, e ciò che non mi
aspettavo, accettando di proseguire all’Urbaniana il mio servizio
accademico nella Chiesa. Si è trattato comunque sempre di doni
straordinariamente belli e gratificanti.
Né vorrei dimenticare i responsabili delle attività editoriali della Rivista
e delle Pubblicazioni della Urbaniana University Press, dei responsabili
degli Istituti Affiliati e della Segreteria.
Ma ciò che forse, e non credo che i colleghi se ne abbiano a male, è
stato il movente non soltanto accademico ma decisamente affettivo nel
senso più alto dei termine, sono gli studenti provenienti da ogni angolo
del mondo, che sono la parte sostanziale di questa nostra Università.
A loro la mia gratitudine senza misura nel Signore, perché sono stati
loro a darmi quella energia e quell’entusiasmo indispensabili che, per la
grazia determinante del Signore, mi hanno permesso di vivere gli anni
passati in mezzo a voi con una grande gioia di vivere e una impagabile
gratitudine verso tutti.