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PIERLUIGI MARTORANA GENUARDI DI MOLINAZZO La monetazione aurea in Sicilia dal periodo punico al Regno d’Italia con saggi di Antonio Martorana EDIZIONE P.M.G.

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PIERLUIGI MARTORANA GENUARDI DI MOLINAZZO

La monetazione aurea in Siciliadal periodo punico al Regno d’Italia

con saggi diAntonio Martorana

EDIZIONE P.M.G.

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Con il Patrocinio

per la presentazione del Volume in occasione del Convegno“La monetazione aurea in Siciliadal periodo punico al Regno d’Italia”Palazzo Asmundo - Palermo26 Ottobre 2007

Edizione P.M.G.

Copyright © 2007 Pierluigi Martorana Genuardi di MolinazzoCopyright © 2007 Mave s.r.l. Palazzo Asmundo - Via Pietro Novelli, 3 - Palermo

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.Tutti i diritti riservati.

Impaginazione: Roberto Madonia

Stampa: Officine Tipografiche Aiello & Provenzano, Bagheria (Palermo)

Presidenza del Consiglio Presidenza Regione Siciliana

Assemblea Regionale Siciliana Provincia Regionale di Palermo Città di Palermo

Biblioteca Comunale di Palermo

Con il Patrocinio

Camera dei Deputati

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III

L’opera di Pierluigi Martorana Genuardi di Molinazzo “La monetazione Aurea in Sicilia dal

periodo Punico al Regno d’Italia”, non può essere annoverata tra le tante raccolte numismatiche

volte a catalogare una delle espressioni più fondamentali dei rapporti tra gli uomini: quella che

attiene all’uso della moneta.

Ciò deriva dal fatto che essa, caso unico finora, copre un arco di tempo vastissimo e si volge

ad un segmento, quello della monetazione aurea, che è certamente più significativo di ogni altro.

Ma la qualità dell’opera non è racchiudibile né negli aspetti meramente documentali né nella

veste grafica, per altro di altissimo pregio.

L’autore, superando con grande perizia il mero impegno della catalogazione, ci offre un signi-

ficativo contributo proprio nella valorizzazione della storia e della cultura siciliana, utilizzando

appieno l’enorme mole di reperti che ha avuto modo di studiare ed analizzare, moltissimi dei quali

si trovano all’estero, legandoli all’interno di un percorso volto a evidenziare ed esaltare i caratte-

ri peculiari proprio dei due millenni che ci stanno alle spalle.

In questo senso e senza alcuna forzatura, essa può essere metaforicamente definita come un

libro sulla Sicilia, sulla sua storia e sulla sua identità. Parlare di cultura siciliana in tempi di glo-

balizzazione, infatti, può sembrare una provocazione. Ma così non è quando si è in grado, come

Pierluigi Martorana Genuardi ha egregiamente fatto, di accompagnare questo processo con una

adeguata valorizzazione delle culture locali.

Il giovane autore, oltre ad aver compiuto una impegnativa ricerca che copre due millenni e

mezzo di storia, offrendo uno strumento di studio e di consultazione sull’argomento, destinato ad

essere una pietra miliare nelle bibliografie numismatiche, ci ha dato uno spaccato della nostra sto-

ria non sempre conosciuto e certamente di grande interesse.

L’autore, infatti, da profondo e appassionato conoscitore, non solo delle monete, ma di tutta

la storia e la cultura siciliana, ha saputo dare una dimensione universale attraverso l’analisi di

una dimensione storica e particolare, qual’è quella delle monete. Ha compiuto in tal modo un’ope-

ra di recupero dell’identità culturale della nostra isola che talvolta rischia di apparire sbiadita per

la mancanza di consapevolezza di un patrimonio di straordinario valore, come questa raccolta

testimonia.

Ciò dà la misura dell’ampiezza del respiro della ricerca, destinata ad accendere molteplici inte-

ressi in vari campi specialistici, anche se il suo carattere rimane profondamente storico e come tale

deve essere letto ed apprezzato.

In tal senso, questo testo apre un’interessante riflessione sul ruolo che l’estetica e l’archeolo-

gia possono esprimere nell’accompagnare i siciliani all’amore del bello e del tradizionale, valori

fondanti e immutabili della nostra identità.

Queste ragioni hanno indotto l’Amministrazione Regionale a sostenere la pubblicazione di

un’opera di tale prestigio, perché potrà contribuire a diffondere sempre più quell’immagine posi-

tiva e moderna della Sicilia, che da sempre cerchiamo di far conoscere al mondo intero.

Salvatore Cuffaro

Presidente della Regione Siciliana

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La Sicilia delle scienze e di Archimede, Zichichi e Majorana, la Sicilia degli architetti, dei gran-

di pittori, dei Greci, degli Arabi e dei Normanni, del Basile e di Ducrot, delle nuove tecnologie,

della gioia di vivere, tutta questa è la Sicilia che vogliamo far rivivere.

Le celebrazioni per il sessantesimo anniversario della prima seduta dell’Ars hanno avuto un

valore simbolico, quello di rappresentare la voglia della Sicilia di aprirsi alla cultura, all’arte,

all’imprenditoria.

Un plauso va all’opera racchiusa in questo volume che ben si inserisce nel percorso di rivalu-

tazione culturale che con il parlamento che presiedo abbiamo iniziato ad intraprendere.

Aprire lo scrigno dove è custodito il Corpus di monete auree prodotte da zecche siciliane nel

corso di venticinque secoli, dai Punici ai Savoia, non può non suscitare una forte emozione, spe-

cie se in quel Corpus figurano coni considerati vere e proprie opere d’arte, come nel caso delle

creazioni dei Maestri Firmanti.

La presente opera è l’occasione per soffermarsi a ripensare quali livelli di civiltà e raffinatezza

la Sicilia ha raggiunto lungo la sua storia: una storia ricostruita, per il tramite della testimonianza

monetale il cui valore documentale non è secondo a nessun’altra fonte.

Sono convinto del ruolo che la cultura può avere nella prospettiva del riscatto della nostra Isola,

ed a tutte le forme d’arte che favoriscono la conoscenza che è anche arricchimento immaginativo

e riappropriazione identitaria.

Gianfranco Miccichè

Presidente Assemblea Regionale Siciliana

IV

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Nel quadro delle iniziative rivolte alla divulgazione e conoscenza del patrimonio culturale e

artistico della Sicilia, un avvenimento editoriale di rilievo è la pubblicazione del volume di

Pierluigi Martorana Genuardi di Molinazzo sulla Monetazione aurea in Sicilia, dal periodo puni-

co al Regno d’Italia.

L’Amministrazione Provinciale, che ha posto tra le sue priorità anche la valorizzazione dei

“segni” lasciati da questa grande civiltà mediterranea, ha sostenuto con interesse la realizzazione

di quest’opera, che ripercorre uno straordinario iter nel campo manifatturiero delle monete, con

coni di assoluta bellezza, come quelli sicelioti del V secolo a.C. o gli Augustali di Federico II.

Bisogna rendere merito all’autore di aver perseverato nella sua non facile impresa, nata dalla

sua passione di collezionista e dalla preziosa eredità, materiale e intellettuale, che gli ha trasmes-

so la sua famiglia.

Oggi il risultato, valorizzato anche da una veste tipografica raffinata e accattivante, appaga le

attese di studiosi, numismatici e amatori, che – finalmente – attraverso il continuum dello scorre-

re delle tavole riprodotte nel volume, possono avere una visione organica dei manufatti aurei usci-

ti, lungo 25 secoli, dalle zecche di Sicilia.

A dare all’opera ulteriore rigore scientifico sono una puntuale presentazione alla Numismatica

greca e siceliota e una nota introduttiva, che, individua nel patrimonio numismatico d’epoca sice-

liota il terreno d’incontro tra Estetica e Archeologia, veri pilastri di una cultura autoctona e quin-

di coordinate essenziali per il recupero dell’identità culturale dei Siciliani.

Francesco Musotto

Presidente Provincia Regionale di Palermo

V

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VI

Conoscere la storia della Sicilia attraverso una documentazione inconsueta e, non soltanto per

esperti e studiosi, di grande fascino. È l’intendimento dell’opera, frutto di uno studio attento ed

impegnativo, di Pierluigi Martorana Genuardi di Molinazzo, fresca di stampa e dalla sontuosa

veste editoriale. Il volume rappresenta un avvincente viaggio nel mondo della numismatica isola-

na nell’intento di ripercorrere diacronicamente l’iter della monetazione aurea dai primi manufatti

punici sino ai Savoia.

Dovendo dunque coprire un asse cronologico di così lunga durata, la ricerca si è rivelata estre-

mamente impegnativa, considerata la vasta mole di lavoro connessa con il reperimento dei dati, la

collocazione progressiva dei materiali su quell’asse e la loro descrizione. E l’autore ha centrato

l’obiettivo, con una tenacia pari alla sua nota passione per il collezionismo numismatico.

Quel pubblico, generalmente privo di competenze specialistiche, cui l’autore mosso dall’impe-

gno di favorire la divulgazione della cultura numismatica, guarda con interesse, potrà scoprire un

aspetto, per i più inedito, del patrimonio antropologico della Sicilia relativamente allo sviluppo

secolare di un’attività manufatturiera nel settore monetale, che, alla fondamentale valenza docu-

mentaria spesso unisce la valenza artistica.

In tal modo quel pubblico potrà fruire, per il tramite della presente ricerca, di un arricchimen-

to conoscitivo di non poco conto, ripercorrendo momenti esaltanti della storia di Sicilia, attraver-

so una serie di testimonianze che disegnano l’identità culturale della nostra terra.

Diego Cammarata

Sindaco di Palermo

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VII

Quando uno storico si accinge a studiare l’evolversi della vita culturale ed artistica di un terri-

torio e delle sue genti è scientificamente portato ad esporre ed illustrare i documenti oggetto della

ricerca.

Il dottor Pierluigi Martorana Genuardi, con l’obiettivo di “inattese e stimolanti prospettive di

rinnovamento culturale”, ha scelto di presentare agli studiosi, ai collezionisti e agli appassionati

del variegato mondo siciliano, le monete d’oro coniate e circolanti nell’Isola per ben venticinque

secoli dal periodo Punico al Regno d’ Italia.

Con questo volume ci troviamo davanti ad una affascinante carrellata che parte dal periodo dei

maestri monetieri della metà del V secolo a. C. quando sull’arte siceliota agiva grandemente l’in-

fluenza di gusto attico della Trinacria, la terra dei tre capi.

Dopo la monetazione siculo-punica si passa alla romana Triquetera e, conclusa la parentesi

bizantina, si arriva al periodo islamico con i Fatimidi che avevano ben cinque zecche siciliane:

Balarm o Siqilliyah (Palermo), Masini (Messina), al Mu’izziyah (Taormina), Sirakusa (Siracusa)

e Qal’ at Kirkant (Agrigento). Segue il periodo normanno e svevo culminante con la figura di

Federico II che conia l’Augustale ad ispirazione degli aurei degli imperatori romani e segna il

ritorno dell’ oro monetato nel mondo occidentale. Nelle fasi succesive la monetazione sicula è pro-

tagonista del Regno delle due Sicilie per arrivare sino all’ Unità Italiana.

La NIP accoglie con favore questa meritoria iniziativa per molteplici motivi: ne cito solo due.

Il primo è il contributo che l’Autore dà alla diffusione della cultura numismatica in generale,

perché l’ampio periodo coperto dalle immagini monetali presentate diviene un compendio enciclo-

pedico sull’evolversi del “piccolo tondello” che è il protagonista della nostra vita professionale.

Il secondo è aver dato una chiave di lettura originale del legame di una terra, centro politico e

culturale del Mediterraneo, con i documenti aurei testimoni istituzionali dell’evolversi della sto-

ria e del gusto artistico.

Il prezioso volume va quindi inteso come un’opera che non soddisfa solamente i cultori della

scienza numismatica, ma diviene strumento utile di indagine per chi ama ed è affascinato da una

terra unica come è la Sicilia.

La stampa di un tomo così ricco riempirà inoltre di gioia i bibliofili per l’accuratissima veste

editoriale, per la rilegatura in pelle e per il limitato numero di esemplari prodotti.

Augurando al dottor Pierluigi Martorana Genuardi un meritato successo di critica, i

Numismatici Italiani Professionisti plaudono a questa iniziativa che agisce da stimolo culturale

verso la generosa terra di Sicilia.

Trieste, settembre 2007 Giovanni Paoletti

Presidente N.I.P.

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VIII

La ricerca di Pierluigi Martorana Genuardi di Molinazzo sulla Monetazione Aurea in Sicilia,

che adesso vede la luce in una splendida veste tipografica, è opera ascrivibile tra quelle inizia-

tive che perseguono l’intento di far conoscere, anche al di fuori dei contesti accademici e spe-

cialistici, testimonianze non adeguatamente note e valorizzate della civiltà di questa nostra terra

di Sicilia.

Nel nostro caso si tratta di manufatti monetali, dei quali viene evidenziata l’eccezionale impor-

tanza documentale che accompagna le vicende della storia siciliana lungo l’arco di venticinque

secoli. Ma è altrettanto interessante il fatto che spesso quel patrimonio metallico presenti pezzi

che si fanno apprezzare per livelli espressivi di notevole valenza estetica.

L’impegno ricostruttivo dell’Autore si avvale poi di un taglio divulgativo di alto profilo, fina-

lizzato dichiaratamente ad attrarre nell’orbita degli amatori della numismatica schiere di persone

prima indifferenti nei confronti della stessa.

La Fondazione Federico II, da sempre sensibile nei confronti di quelle iniziative che puntano

sulla valorizzazione del patrimonio culturale ed artistico della nostra Sicilia, non può che saluta-

re favorevolmente il lavoro del giovane studioso come una scommessa vinta, anche perché offre

l’opportunità di ripensare il ruolo che la numismatica siciliana occupa nell’ambito del nostro patri-

monio antropologico.

Esaminando attentamente le tavole monetali riportate nel testo, siamo indotti a concludere

come il termine stesso “Numismatica”, pur nel suo carattere generico, possa sottendere realtà

variegate e complesse, tali da trascendere lo stesso ambito collezionistico, alla cui base sta il pia-

cere disinteressato di raccogliere pezzi rari.

Partendo dal presupposto che, grazie ai suoi connotati testimoniali ed estetici, la Numismatica

merita di essere considerata elemento cardine della civiltà materiale, si comprende quale apporto

il lavoro di Pierluigi Martorana Genuardi abbia dato ai fini della riappropriazione della cultura

materiale siciliana.

Roberto Acierno

Direttore Generale Fondazione Federico II

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Associare il nome di Pierluigi Martorana Genuardi di Molinazzo al collezionismo significa ren-

dere merito a questo giovane illuminato, che del collezionismo ha fatto una ragione di vita, ado-

perandosi perché esso, da semplice “laboratorio di curiosità”, potesse diventare un microcosmo

portatore di peculiari valenze culturali.

Si spiega in tal modo l’onere gravoso di cui Pierluigi ha voluto farsi carico negli ultimi anni,

sviluppando una ricerca tesa alla decodificazione dei “segni” dei materiali oggetto del suo inte-

resse e, nel contempo, alla comprensione del loro grado di rappresentatività delle condizioni cul-

turali ed esistenziali della collettività che li ha prodotti. Il che è quanto dire: decifrare i termini del

proprio consistere. Ed i frutti di quella ricerca sono ormai ben visibili in contributi che trascendo-

no la dimensione del catalogo e si configurano come vere e proprie sfide per recuperare dimensio-

ni del nostro patrimonio antropologico, che sono parte integrante della nostra civiltà, del nostro

presente, della nostra stessa identità.

Ieri ho avuto l’onore, da Ministro per gli Affari Regionali, di tenere a battesimo, i due ponde-

rosi volumi di Pierluigi sui francobolli del Regno delle Due Sicilie, oggi, nella veste di amico ed

estimatore della famiglia Martorana Genuardi, ho il piacere di salutare l’uscita di questo magnifi-

co volume sulla “Monetazione aurea in Sicilia”.

Anche questa volta, si tratta di un’opera di notevolissimo spessore culturale, rivolta ad un pub-

blico colto, non necessariamente motivato da interessi collezionistici, auspicabilmente giovane:

per la ricchezza delle implicazioni che contiene (storiche, economiche, giuridiche, artistiche ecc.)

può essere terreno di interscambio con i diversi e molteplici poli che costituiscono il tessuto con-

nettivo della vita culturale. Senza essere condizionato dal mio legame affettivo con la famiglia

Martorana Genuardi e con Pierluigi in particolare, apprezzo il significato metaforico che ha il

viaggio dell’Autore nel campo della monetazione aurea siciliana poiché il vero obiettivo è la risco-

perta della Sicilia nella sua dimensione archetipica, come “luogo dell’inizio”.

Enrico La Loggia

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XI

Affermare che il presente lavoro di Pierluigi Martorana Genuardi di Molinazzo su La moneta-zione aurea in Sicilia, dal periodo punico-greco al Regno d’Italia sia un libro di numismatica, basa-to su criteri metodologici correlati con l’intento della catalogazione, ci sembra, per la verità,alquanto riduttivo.

È senz’altro un nummarium, frutto della sistemazione organica di un imponente materialemonetale aureo, che abbraccia ben venticinque secoli di storia isolana, ma è anche altro.

È indirettamente un libro di storia, in quanto centra l’obiettivo di offrire una prospettazioneesaustivamente organica della Storia di Sicilia dall’età punica al Regno d’Italia attraverso la testi-monianza monetale. È da considerare in tal senso, quale importanza assuma per lo storico la lettu-ra dell’immagine monetale: tale problema, posto che la moneta è un mezzo con carattere d’ufficia-lità, in quanto emesso e garantito dall’autorità al potere, comporta, come sottolinea MariaCaccamo Caltabiano, che essa «è soggetta agli stessi vincoli e regole che caratterizzano i linguag-gi parlati e condizionano qualsiasi tipo di comunicazione destinata ad una fruizione di massa»(M. CACCAMO CALTABIANO, Il pansicilianesimo e l’annuncio di un’era nuova. Su alcuni tipimonetali di Siracusa ed Erice all’epoca dei Maestri Firmanti, in Atti della Scuola NormaleSuperiore di Pisa, Quarte giornate internazionali di studi sull’area elima, Erice, 1-4 dicembre2000, Pisa 2003, I, p.105).

Ed infine, in considerazione dell’alto livello estetico di molti capolavori monetali riprodotti,specie quelli risalenti all’epoca dei Maestri Firmanti, è anche un libro d’arte.

Pertanto a quest’opera può essere attribuito un significato paradigmatico circa la capacità dellanumismatica di trascendere gli schemi classificatori, che sembrerebbero imprigionarla, e aprire,come vedremo, inattese e stimolanti prospettive di rinnovamento culturale.

Chi scrive è in grado di testimoniare, per aver seguito il presente lavoro nel suo farsi, qualimotivazioni hanno spinto questo giovane rampollo di una famiglia di Gattopardi ad intraprendereun emozionante viaggio, lungo il quale ha avuto modo di incrociare poleis e colonie, scali marit-timi ed empori. E ritiene anche di poter dire che, a ben vedere, si tratta di un viaggio di iniziazio-ne alla Sicilia, condividendo in chiave metaforica quanto ha scritto Gesualdo Bufalino: «Ove ... illuogo da visitare sia l’isola che dico io, ombrosa e lucente, gremita di vita e di morte, crogiolo dirazze e crocevia di secoli, l’impresa risulterà più che mai portatrice di turbamento e di rischio:se ogni viaggio significa una scommessa di conoscenza e di felicità, il viaggio in Sicilia è unesame senza confronto, è l’Esame» (in GUILLERMO ROUX, Immagini di Sicilia, Palermo,Novecento, 1998, p. 10).

Ma, a questo punto, cominciamo con il presentare l’Autore.«Tu non tocchi un libro, tu tocchi un uomo», soleva dire lo scrittore americano Matthiessen.

Così, toccando questo libro, tocchiamo l’umanità di Pierluigi, un’umanità al centro della qualesi colloca l’amore per la Sicilia.

Se Hawthorne manifestava il suo legame profondo con la terra natale americana con le seguen-ti parole: «La nuova Inghilterra è una zolla di terra grande abbastanza da riempire il mio cuore»,anche Pierluigi, riadattando quella frase, potrebbe dire di sé: «La Sicilia è una zolla di terra gran-de abbastanza da riempire il mio cuore».

Conosciamo poche persone capaci di mostrare, al pari di lui, nell’orgoglioso senso di apparte-nenza, quell’attrazione per il fascino magnetico di questa nostra terra, che, collocata al centro delMediterraneo, è apparsa come l’ombelico del mondo civile.

Analogamente a quanto ama fare, ad esempio, Santi Correnti, Pierluigi si compiace di elenca-re i primati di cui la Sicilia va fiera. La sua è un’ottica sicilianista che si colloca agli antipodirispetto alla visione desolante offerta nel Gattopardo dal Principe di Salina a colloquio conChevalley: una terra che porta sulle spalle «il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venuteda fuori, nessuna germogliata da noi stessi».

Più che avvolta nel crepuscolo in cui si consuma una saga del disfacimento e della morte, laSicilia appare a Pierluigi in tutta la sua solarità, splendente nella lussureggiante fioritura di tantevite, quante sono le gemme espresse dalla sua civiltà. Evidentemente, sotteso a tale sentimento diammirazione, è l’assunzione, forse inconsapevole, di un modello mitico tendente a riprodurre, per

Tra “Aesthetica”ed “Archaiologhia”. La numismatica per ilrecupero dell’identitàculturale in Sicilia.

di Antonio Martorana

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XII

usare le parole di Giuseppe Giarrizzo, «il mito della Sicilia mondo», microcosmo in cui conflui-scono, «in forme miniaturizzate, ma nette, tutti i beni e tutti i mali».

Legata alla Sicilia da un cordone ombelicale è la passione di Pierluigi per il collezionismo.Nella pleiade dei generi che arricchiscono le raccolte di casa Martorana Genuardi (francobol-

li, monete, maioliche, porcellane, mattoni di censo, armi, libri. cartoline ecc.) è infatti il materia-le di provenienza nostrana ad avere la parte più importante.

Per fortuna, questa nobile pratica, presso la citata famiglia, negli ultimi anni si è rilevata immu-ne dalla sindrome della miope conservazione privatistica, orientandosi, caso forse unico in Sicilia,verso un obiettivo promozionale assai interessante: la sistemazione museale nella stupenda corni-ce di Palazzo Asmundo, di proprietà della stessa in Palermo.

Vogliamo sottolineare il carattere coraggioso di tale scelta, tesa a consentire la più ampia fruibilitàpubblica di un patrimonio d’eccezione, altrimenti condannato alla segregazione all’interno della wun-derkammer di famiglia. Dietro ciascuno di questi oggetti, immobili e silenti nelle teche dei saloni delPalazzo, si cela una microstoria che si è intersecata con la vita degli uomini e con i grandi eventi.

Ciascuno di essi, se potesse, vorrebbe riannodare i fili delle vicende cui ha avuto modo di esse-re presente. È probabile che, dotato di una insospettabile sensorialità, avrà “vissuto” anch’esso leemozioni, le gioie ed i dolori di chi ne era possessore: chissà, avrà “sentito” i vagiti di un bimbo,gli inebrianti valzer nelle sontuose feste da ballo, i sospiri di voluttà degli amanti nell’alcova, lenote serenanti di un pianoforte nella quiete notturna... avrà “sentito” anche le preci accorate, l’ur-lo delle sirene di allarme, il sibilo sinistro delle bombe, il boato dei palazzi sventrati...

Proprio perchè custode di tali segreti, ogni cosa ha un suo linguaggio cifrato, è una metaforache induce a interrogarci sul destino dell’uomo, questo inquilino dello spazio e del tempo.

Il soffio della vita che ha investito quegli oggetti, come il turbinio del vento che sconvolge le pagi-ne di un libro, ha impedito che restassero schiacciati dai «grandi zoccoli immobili e muti» (Foucault)delle aride classificazioni temporali. Rendendoli partecipi dell’avventura dell’uomo, ha fatto sì chetrovassero una loro collocazione, tra il prima e il dopo, sull’asse sequenziale del “raccontare”.

Così il singolo manufatto è approdato a quelle teche percorrendo un sentiero “differenziale”,perchè diverso dagli innumerevoli sentieri, pur essi “differenziali”, percorsi da tutti gli altri ogget-ti in esposizione. Come accade nel racconto di J.L. Borges, Il giardino dei sentieri che si biforca-no, dove appunto è una trama di sentieri «che s’accostano, si biforcano, si tagliano o si ignora-no», protagonista è qui l’inestricabile mistero del tempo.

Eppure Pierluigi è riuscito a penetrare in quell’enigma, proprio perchè avendo instaurato, comegià fece il padre, un rapporto simbiotico con le cose, ne ha compreso il loro linguaggio cifrato,captando i segni celati di realtà non dette. In un certo senso potremmo dire che egli offre una rispo-sta in senso positivo alla provocazione di Eraclito: «Ci sono coloro che vivono da dormienti ecoloro che vivono da desti, i primi si lasciano trascinare dal flusso delle cose, i secondi le gover-nano e ne comprendono il senso». Evidentemente la metafora dei sentieri biforcantisi calza per-fettamente per i percorsi effettuati dalle monete, e, nel caso specifico da queste che possiamoammirare nel corredo iconografico qui presente.

Quanti segreti vorrebbero confessarci queste monete già al centro di mappe disegnate daltempo, protagoniste silenziose di vicende minute e di vicende grandi!

Saranno passate attraverso le corti o la casa di un ladro, da empori o da templi, da lupanari oda ville nobiliari, ma forse il piacere indescrivibile che fa brillare gli occhi dello studioso e delcollezionista sta proprio nell’alone di mistero che le avvolge, quasi sfingi impenetrabili capaci disollevare un’impetuosa onda di congetture.

No, non pecca d’immodestia Pierluigi, quando sostiene, con orgoglio, che nella storia del col-lezionismo siciliano un posto di rilievo spetta alla sua famiglia, né sbaglia quando fa risalire que-sta nobile usanza ad un capostipide d’eccezione, Federico II.

In merito a tale interesse, che si aggiunge alle molteplici doti dello Stupor Mundi, è davverosignificativo quanto ha scritto Calò Mariani: «Al vivo interesse per gli oggetti straordinari e pre-ziosi, mai disgiunto dall’attenzione alle qualità fisiche della materia e alle tecniche di produzio-ne, va fatto risalire il gusto antiquario di Federico II e la sua inclinazione al collezionismo».

E Vincenzo Abbate aggiunge:«Alla passione per i reperti, i marmi antichi che costantementenel Medioevo costituirono materiali di ripiego, i libri e la cultura, l’imperatore unì quella per legemmae, le lapides intagliate, i cameoli. La sua attenzione per la glittica è documentata da unaserie di pezzi antichi e di altri dovuti a incisori presenti nella sua stessa corte, ma con manifestaadesione ai modelli classici. Pietre, smalti e oggetti preziosi egli donò con munifica magnanimi-tà: la crocestauroteca di Cosenza splendido capolavoro dei laboratori di Palazzo Reale diPalermo, che una tenace tradizione vuole offerta nel 1222 in occasione della consacrazione dellaCattedrale, ne costituisce un mirabile esempio».

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XIII

Dopo Federico II, si andrà sviluppando in Sicilia, specie tra il tardo XVI secolo e la prima metàdel XVII, un collezionismo privato tra gli ambienti dei nuovi ceti aristocratici, decisi ad ostenta-re, attraverso le loro raccolte di oggetti preziosi, potere e ricchezza: si trattava di dare visibilitàallo status sociale ed al censo di appartenenza, per acquistare prestigio agli occhi di tutti e per con-solidare una posizione gerarchica all’interno del sistema sociale. «In tal senso» precisa Abbate,«tali ceti rivaleggiano l’un l’altro anche nel collezionare meraviglie d’arte e della natura, prefig-gendosi un unico fine: suscitare lo stupore del visitatore, la meraviglia, per l’appunto, che teoriz-zata da Cartesio, in Les passions de l’âme (1649), si configura come la prima delle passioni».

L’idea di avventurarsi nell’emozionante viaggio nel mondo della monetazione aurea siciliana èvenuta a Pierluigi nel momento in cui ha intuito che i pezzi della collezione di famiglia costitui-vano i lembi di un vasto terreno da eplorare, gli stralci di un avvincente racconto di cui era neces-sario ricostruire l’ordito. Scattava così la molla a recuperare, di tale ordito, i fili mancanti tra sub-bio e subbiello, a individuare insomma le monete che avrebbero dovuto coprire le smagliature,presenti in quella collezione, componendo la scansione sequenziale delle vicende siciliane attra-verso la monetazione aurea.

Pierluigi intraprendeva, così, lo studio appassionato sui testi presenti sugli scaffali della biblio-teca di famiglia e su quelli che riusciva a recuperare, conduceva ricerche su internet, tesseva unafitta rete di collegamenti con numismatici italiani e stranieri.

Il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti, nel senso che l’Autore ha centrato l’obiettivo di offrir-ci una prospettazione esaustivamente organica della Storia di Sicilia, dall’età punica al Regnod’Italia, attraverso la monetazione aurea.

Bisogna intanto riconoscergli l’onestà di essersi interrogato sul senso sociale del proprio lavo-ro, se è addivenuto alla decisione di dare allo stesso un taglio divulgativo, in modo da coinvolge-re un pubblico quanto più vasto. Tale scelta in un certo senso costituisce una specie di risarcimen-to del danno subito da una delle specificità più rilevanti, in senso estetico, del patrimonio antro-pologico siciliano: ci riferiamo al silenzio sui capolavori dei Maestri firmanti, riscontrabile nellastessa manualistica di storia o di storia dell’arte. Troviamo inammissibile tale ostracismo, cheobbedisce alle scelte di un sapere trasformatosi in un rapporto di potere, e che comporta quellache Franco Ferrarotti definisce come «differenziazione qualitativa tra ricercatori e gruppi umaniche sono oggetto di ricerca». L’illustre sociologo fa notare come tale differenziazione, «spaccia-ta come metodologicamente ineliminabile», alla fine si traduce «in un rapporto di dominio nelsenso che istituisce un rapporto ad una via soltanto, dai ricercatori agli oggetti di ricerca, ridu-cendo questi ultimi alla fissità passiva… del minerale… Il sapere si trasforma così in un rappor-to di potere. L’etnocentrismo si nutre di questo rapporto a-simmetrico, e giustifica, anche al livel-lo incoscio, una situazione di subalternità e di dipendenza a carico dei gruppi umani analizzati.La ricerca viene così a porsi come un processo di dominazione».

Di contro a tali distorsioni, imputabili ad una gestione imperialistica dei saperi, riteniamo didover apprezzare l’impegno dell’antropologo culturale volto alla costruzioe di categorie mentali chenon ci facciano smarrire nel labirinto dell’omologazione, facendoci «conoscere l’uomo totale ... apartire dalle sue rappresentazioni» (C. LEVI-STRAUSS, Antropologia, in Enciclopedia delNovecento, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1975, vol. I, p. 207).

Parimenti liberatoria rispetto agli schemi codificati del sapere, imposti dai detentori dell’ege-monia culturale, può essere una divulgazione seria, parallela al lavoro degli specialisti, che sappiaessere negatrice di quella differenziazione qualitativa di cui parla Ferrarotti, ed improntata alla«metodologia del rispetto», nel suo sforzo di riappropriazione delle matrici antropologiche del ter-ritorio. Alludiamo ad una divulgazione di alto profilo, in possesso di quei requisiti cui fanno rife-rimento Guido Clemente e Andrea Giardina. Questi due autorevoli studiosi del mondo antico, inquanto curatori di una serie di quindici volumi sui grandi temi della società greca e romana, tracui la moneta, sono fautori di un progetto, coinvolgente specialisti di rinomanza internazionale e«che pone in primo piano la divulgazione. Una divulgazione autentica, però, e quindi molto diver-sa da quella cui il pubblico italiano è abituato; divulgazione come trasmissione del livello più altodella ricerca». (G. CLEMENTE - A. GIARDINA, Prefazione a MICHAEL H. CRAWFORD, Lamoneta in Grecia e a Roma, Bari, Laterza, 1986, p. VI).

Scommettere su una divulgazione di qualità significa oggi evitare la deriva verso quella sortadi pre-analfabetismo cui hanno portato i nuovi sofisticati strumenti così invasivi e soggioganti daritenere superati i tradizionali requisiti del saper leggere, saper scrivere e saper far di conto.

Il presente lavoro si connota per una valenza sociale strettamente collegato all’intento divulga-tivo, ed è soprattutto apprezzabile per l’impegno a recuperare, attraverso le testimonianze mate-riali rappresentate dai coni aurei, il genius loci. Si tratta di risalire alle radici antropologiche dellarealtà siciliana, individuandone i valori fondanti.

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XIV

La ricerca di Pierluigi comporta un paziente lavoro di assemblaggio e di montaggio di un com-plesso di dati materiali, collocandoli in costellazioni o in sistemi dotati di una certa pregnanza signi-ficativa. E questa consiste nella compresenza di un valore testimoniale e di un valore estetico, comecoordinate essenziali dello statuto fondativo della numismatica siciliana. Pertanto, la ricerca risultamultiprospettica, consentendo di focalizzare piani diversi dell’analisi fortemente interrelati, da quel-li storici a quelli formali. Da un’esemplificazione si potrà vedere come le trasformazioni dell’imma-ginario, connotanti la forte spinta innovativa della produzione monetale siceliota legata all’esperien-za ermocratea, rimandi alle ideologie del momento e alla grammatica del potere.

Per un altro aspetto quella produzione, nei suoi manufatti più pregiati, richiede una lettura lecui premesse storiche e metodologiche investono il problema dell’arte nelle colonie greche diSicilia, specie in riferimento alla relazione tra esemplari monetali e scultura greca.

Tochiamo così una questione assai controversa, considerato che gli studi sull’argomento regi-strano due orientamenti diametralmente opposti. In base al primo, affermatosi nei primi decennidel Novecento, l’arte magno-greca e siceliota veniva vista come un riverbero provinciale, spessotardo e contraddittorio, di quella della madrepatria. Rispetto a tale visione riduttiva, in tempi suc-cessivi si affermò la tesi antitetica, di impostazione razionalistica, in base alla quale, «pur consi-derandosi i legami con l’arte della Grecia, si tese ad isolare ed esaltare gli elementi di divergen-za dall’arte ellenica, sin ad attribuire all’arte siceliota carattere autonomo di consapevole oppo-sizione alla tradizione classica» (E. DE MIRO, Scultura Greca di Sicilia, in AA.VV. La SiciliaGreca. Rooseum - Malmö, Palermo, 1989. p. 33).

Se, sia una corrente che l’altra, a detta dello stesso De Miro «finiscono con l’impoverire il pro-blema dell’arte siceliota ... e ne impediscono la comprensione dei termini storici e formali», è evi-dente come, alla luce di un accresciuto patrimonio documentale sulla produzione artistica locale,risponda meglio alla realtà una visione più equilibrata delle relazioni tra arte del continente elle-nico ed arte coloniale.

In quest’ottica l’arte greca di Sicilia non costituisce un fenomeno a sé stante, estraneo alle cor-renti di creatività artistica della madrepatria, così come non rappresenta «un’arte di puro riflessoprovinciale rispetto a quella della madrepatria; ma trattasi sempre della stessa arte greca che,tuttavia, fiorisce in un diverso ambiente, in una diversa tensione delle componenti spirituali, inuna diversa realtà storica, politica, economica e sociale» (ibidem).

Ascrivibile a tale tendenza equilibrata è la posizione di Gaetano De Sanctis, il quale, riferen-dosi alle colonie siceliote e magno-greche, considera positivamente la mancanza del vincolo dellatradizone, in quanto fattore ostativo all’accoglimento di correnti nuove del pensiero filosofico, delsentimento religioso e dell’arte: «là dove trovarono condizioni adatte per prosperare, come par-ticolarmente nella Sicilia e nell’Italia meridionale, i coloni parteciparono in larga misura e nonsensa originalità ai progressi della madrepatria e in un continuo scambio influirono su tali pro-gressi e ne subirono alla loro volta l’influsso, contribuendo alla ricca varietà dell’armonico svol-gimento del pensiero e dell’arte Greca» (G. DE SANCTIS, Storia dei Greci. Dalle origini alla finedel secolo V, Firenze, La Nuova Italia, 1961, 6a ediz., Vol. I, p. 425).

È questa la chiave di lettura per accostarsi alla grande arte monetale siceliota, nel cui firmamentobrillano i nomi di Euainetos, Kimon, Euarchidas, Eukleidas, Eumenes, Phrygillos, Sosion,Herakleidas, Choirion, Prokles, Exakestidas, unicamente a vari, purtroppo non identificabili incisori.

Quest’arte nella quale Salinas, prima, e poi Furtwäengler, colgono l’influsso attico-fidiaco, vavista sullo sfondo della evoluzione della plastica siceliota, avvalsasi in un primo momento dell’ap-porto prezioso di artisti ellenici approdati alle nostre coste, insieme ai primi coloni. Alcuni di loroavrebbero deciso di radicarsi nella nuova realtà, aprendo “ateliers” frequentati da allievi locali, iquali a loro volta sarebbero subentrati ai propri Maestri, dando vita ad una tradizione connotatada una sua sintassi e da soluzioni ritmiche di assoluta originalità.

Adesso una considerazione di carattere generale si impone.La monetazione aurea siciliana successiva all’epoca dei Maestri Firmanti non raggiungerà più

quei supremi valori espressivi, ma scorrendo la documentazione delle tavole, si ha la percezioneche molti manufatti monetali di varie epoche hanno pur sempre una dignità formale configurandoun itinerario di sicura suggestione estetica.

Tanto per risalire ad un conio di notevole pregio, ricorderemo l’augustale, moneta aurea fattaconiare nel 1231 da Federico II nelle zecche di Brindisi e Messina, e recante da un lato il bustoimperiale coronato da alloro, con la legenda CESAR.AUG.IMP.ROM e, dall’altra, un’aquila ad alispegate con la scritta FRIDERICUS. Questa moneta, così ricercata dai collezionisti, in un certosenso è la spia dell’intento dello Stupor Mundi di imitare i denari d’oro degli imperatori romani,dei quali egli si considerava successore, proclamandosi Augusto (da qui il nome della monetaAugustalis o Augustarius).

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XV

Rispetto alle coeve emissioni di altri stati, caratterizzati da una monotona ripetitività dei moti-vi, l’augustale rappresenta un manufatto di rara bellezza, risalente a un momento che, come osser-va Giuseppe Castellani, costituisce «una felice parentesi della monetazione di allora» e prelude«alla mirabile fioritura di monete artistiche italiane che raggiungerà il massimo splendore neisecoli XV e XVI» (G.CASTELLANI, Augustale, Voce in Enciclopedia Italiana, 1949, vol.V, p. 345).

Orbene, e siamo così allo snodo del nostro argomentare, abbiamo elementi per affermare chedue dei valori fondanti dell’identità siciliana vadano visti nell’“Aesthetica” e nell’“Archaiologhia”. A tale conclusione ci spingono due autorevoli studiosi, le cui tesi ci sembranoconvergere autonomamente verso l’obiettivo di un autentico rinnovamento della cultura in Sicilia:Luigi Russo e Vincenzo La Rosa. Il primo, docente di Estetica nell’ateneo palermitano e fondato-re del Centro Internazionale di Estetica, con sede in Palermo, esprime il convincimento che l’e-stetica sarebbe nata proprio in terra di Sicilia.

In una conversazione con Bent Parodi, il citato studioso afferma: «nei libri di scuola non c’èscritto, ma il primo pensatore della storia dell’estetica, colui che pose le condizioni della nascitadella disciplina e formulò la prima teoria estetica, oggi attualissima più che in passato, fu un sici-liano nativo di Lentini, Gorgia. Questo rapporto primigenio si è mantenuto in tutti i secoli succes-sivi... La Sicilia è stata sempre terra di alta cultura a dominante estetica. Questa vocazione giun-ge fino a noi attraverso nessi numerosi e ramificati. Per esempio, i due maggiori pensatori italia-ni, anche per ciò che riguarda l’estetica, della prima metà del Novecento sono anch’essi legati allaSicilia: Gentile, come si sa, era un siciliano; e l’Estetica del Croce, come è meno noto, fu addirit-tura pubblicata a Palermo dall’editore Sandron.

Mi piace, infine, ricordare che due fra i maggiori protagonisti della cultura italiana contempo-ranea dei quali mi onoro di essere stato allievo, Santino Caramella e Cesare Brandi, hannoentrambi insegnato Estetica nell’Università di Palermo. Insomma poche terre possono vantareuna così antica e prestigiosa tradizione negli studi di Estetica come la Sicilia».

(La conversazione è riportata in NICOLÒ D’ALESSANDRO, La situazione dell’arte in Sicilia(1940-1988), Palermo, Centro Studi Il Confronto, 1991, p.197).

Ma, si badi bene, vivere in una dimensione estetica non comporta una fuga dal reale, poichèl’estetica, come precisa ancora Russo, viene chiamata a «svolgere una funzione sociale strategicae delicatissima. Con l’avvento della società di massa e della cosiddetta “era tecnocratica” la cul-tura ha assunto ai nostri giorni una dimensione nuova ed assolutamente centrale. Non è più unmomento separato dell’esistenza quotidiana né una pratica riservata a pochi utenti privilegiati,bensì il modo specifico di essere ed elaborare tutta la propria esperienza del mondo da parte ditutti i soggetti sociali. Detto rozzamente e forse con troppa concisione: ci avviamo a realizzare,almeno in parte, la società estetica integrata preconizzata da Marcuse» (Ivi, pp,197-198).

Cogliamo in tali parole una piena consonanza con la riflessione di T.W. Adorno sul ruolo rige-nerativo dell’arte, intesa come «modificazione dell’esistente e non mero riconoscimento».

Da qui l’esoratazione del grande filosofo tedesco: «Facciamo in modo che la sua carica tra-sgressiva e creativa governi i nostri atti quotidiani, che la esteticità non venga relegata entro spaziben definiti e resa innocua, ma possa, accanto alle altre dimensioni dell’esistenza, aiutarci a vio-lare il principio della immutabilità del mondo».

Il fatto che Luigi Russo, con arditezza intuitiva, abbia visto nel lentinese Gorgia la figura chia-ve di una svolta epocale della filosofia e l’aver colto, nel contempo, che da quel momento germi-nale della riflessione sul problema dell’arte si sviluppa in Sicilia una tradizione «di alta cultura adominante estetica», significa rendere il dovuto riconoscimento alla statura di un filosofo il cuiideale supremo consisteva nell’innalzamento della cultura tramite l’effetto psicagogico della paro-la e il suo magico potere di incantamento. Sarebbe stato proprio Gorgia a fissare nell’eloquenzaattica i modi e le forme di una comunicazione in grado di gareggiare con la poesia, una comuni-cazione basata sul concetto di kairÍs (ciò che conviene nel tempo, nel luogo e nelle circostan-ze), sulla capacità, cioè, di adattamento del discorso, anche sotto il profilo psicologico, alle mol-teplici situazioni in cui ci pone la vita. Circa la straordinaria arte di catturare l’uditorio, nella qualeGorgia non aveva rivali in tutto il mondo greco, è significativo un episodio narrato da DiodoroSiculo, che si riferisce al 427, quando il nostro, a capo di una delegazione di Leontini, si recò adAtene per chiedere aiuto contro la minaccia siracusana. In quell’occasione, rivolgendosiall’Assemblea, «per la novità del suo linguaggio colpì grandemente di stupore gli ateniesi d’al-tronde ingegnosissimi e parlatori valenti».

L’individuazione della presenza di un’anima estetica nella nostra plurimillenaria tradizione puòtradursi, così, in una strategia della riconoscibilità di un tratto identitario essenziale del nobile sta-tuto della cultura siciliana. In quest’ottica va considerata l’arte monetale siceliota, che segue ilprocesso di sviluppo della scultura locale, da forme che appalesano il connubio tra decorativismo

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XVI

di un arcaismo giunto al tramonto e peculiarità dello stile severo, sino a soluzioni iconiche ricon-ducibili all’influsso di colui che segna l’incarnazione più alta dell’ideale estetico e culturale del-l’antichità: Fidia.

Proprio in tale clima spirituale si svolge l’attività dei Maestri Firmanti e di alcuni eccelsi inci-sori che mantengono l’anonimato. Nella loro esperienza, la techne adottata per piegare la duraresistenza metallica alla tensione rappresentativa della fantasia, ha dovuto fare i conti con l’esigui-tà spaziale del disco monetale.

Dalla sfida, ai limiti dell’impossibile, tra quello che Paul Valéry nel suo Discorso sull’estetica,del 1937 (in P. VALÉRY, La caccia magica, a cura di Maria Teresa Giaveri, Napoli, 1985, p. 39),definisce il «sentimento dell’arbitrario» e la necessità formale dell’opera, l’artista, vittorioso, per-viene alla synthesis, volendo trasferire ad un’arte mimetica, quale la scultura, un termine usato,relativamente alla poesia, nel saggio pseudolonginiano Perì hypseous. Come osserva GiovanniLombardo la synthesis « è l’arte di far calettare, in un perfetto equilibrio formale, le componen-ti ritmiche, metriche e sintattiche di un testo» (G. LOMBARDO, Valéry e la poetica del sublime.Apunti per un confronto, in AA.VV. Paul Valéry e l’estetica della poiesis, in Aesthetica Prepint,Palermo, 1989, n.23, p. 53).

La synthesis cui approdano i citati artisti monetali consiste in morfologie che vivono, in unaassolutezza formale, una loro dimensione paradigmatica, facendosi linguaggio espressivo, perusare una definizione husserliana, dell’intuizione eidetica. Vero «animal symbolicum» (Cassirer),l’incisore siceliota riesce a cogliere, partendo dall’oggetto empirico, l’essenza ideale.

Parimenti, c’è chi avverte la necessità che i Siciliani acquistino coscienza di quanto incida l’ar-cheologhia nel loro patrimonio culturale.

Il problema s’inquadra nell’ambito più vasto del rapporto tra archeologia, che, per etimogreco, è la “scienza dell’antichità”, vista attraverso le testimonianze materiali del passato, e larealtà del nostro tempo. Se una volta quella scienza appariva marginalizzata nel campo dellecuriosità erudite, si è venuta poi svincolando da quella posizione riduttiva per acquistare una sem-pre maggiore incidenza nella realtà contingente. Anzi, come avverte Sabatino Moscati, «è orapassata al centro di tale realtà o quanto meno degli interessi culturali che vi si esprimono, sic-ché può dirsi immersa con le sue conquiste… nel vasto campo della generale cultura». (S.MOSCATI, Archeologia, in Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto della EnciclopediaItaliana, 1975, vol. I, p. 215).

L’archeologia, precisa il citato studioso, interpreta una insopprimibile esigenza della realtà delnostro tempo, quella dell’acquisizione di una conoscenza storica basata sulle testimonianze mate-riali «quale termine di confronto e quindi di sapere per il nostro tempo».

Inoltre, essa comporta la valorizzazione dell’ambiente, tramite «la fruizione dei beni archeolo-gici offerti a una società che ormai li ritiene parte integrante e insostituibile della sua cultura, equindi della sua stessa esistenza» (ivi, p. 224).

Parlando dell’archeologia, si apre un suggestivo scenario ricco di vestigia di dimore, di templie di opere pubbliche, come pure di manufatti artistici, di utensili e di suppellettili domestiche: èlo scenario della cultura materiale che «può essere definita prima di tutto come la cultura dellamassa della popolazione… quella che concerne l’immensa maggioranza numerica della colletti-vità studiata» (ivi, p. 280).

Ed è proprio questa cultura materiale, alimentata da bisogni insopprimibili, tra i quali è prima-rio l’utilizzo della moneta, a dare all’archeologia un solido supporto epistemologico e metodolo-gico. Così, grazie a tale supporto, l’archeologia si rivela come la strada maestra per lo studio diun passato visto come germinazione di un presente effetto.

Lo scenario con cui si apre il saggio di Vincenzo La Rosa su “Archaiologhia” e storiografia:quale Sicilia? coglie un rapporto simbiotico tra i Siciliani e le testimonianze del passato, ma è unrapporto che resta circoscritto solamente nell’ambito di una fisicità spaziale, non essendo sorret-to dalla «coscienza del significato e del peso del passato più antico» (1):«Lugubri Telamoni, mar-ranzani e divi saraceni stanno ancora insieme lungo una Strada di Agrigentum, perchè i conticol passato remoto ancora non tornano, per gli abitanti dell’Isola del sole. I bimbi diSant’Angelo Muxaro apprendono oggi che nel loro territorio è situata la tomba di un grandesovrano di nome Miriminosse; quelli di Centuripe imparano che fra i mestieri possibili c’è l’an-ticariu (per chi scova, falsifica o incetta o commercia, vivendo in qualche modo di antichità); levecchie donne di Gela sanno che nel mese di maggio ci si recava con i figli in ispalla alla chie-setta di Bitalemi consacrata alla Vergine (costruita su un Thesmophorion greco, ricco di statui-ne del tipo dedicato alle divinità ctonie, appunto con figura femminile e bimbo in braccio o inispalla); i Siracusani di Ortigia vedono ancora le colonne del tempio di Atena inglobate nei muridel loro duomo. Ma al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori, la cultura siciliana

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non ha ancora preso coscienza del significato e del peso del passato più antico, quello, per inten-derci, che precede le imprese di Orlando o le impareggiabili storie di Giufà: anche se a più ripre-se vi ha fatto ricorso, usandolo strategicamente in chiave politica!» (V. LA ROSA,“Archaiologhia” e storiografia: quale Sicilia? in AA. VV. Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, LaSicilia, Torino, Enaudi, 1987, pp. 702-703).

Il contributo del presente lavoro si muove, in un certo senso, nella direzione auspicata daVincenzo La Rosa: creare il terreno favorevole perchè la cultura siciliana, al di là «della ristrettacerchia degli addetti ai lavori», acquisisca la consapevolezza di quale retaggio di civiltà ci siastato lasciato dalle generazioni vissute nell’età classica. È da quel retaggio che bisogna ripartireper costruire il futuro. Può sembrare, questo un obiettivo utopico, specie se si tiene conto dellepessimistiche conclusioni cui è giunto Natale Bonacasa nel proclamare“l’incapacità manifesta”,da parte degli archeologi siciliani, di“incidere sulla realtà socio-culturale dell’Isola”.

Ma La Rosa dissente da tale severo giudizio, deducendo che si possa tracciare uno scenariomeno desolante ove si consideri quanto hanno invece inciso nella cultura isolana le ricerche diPaolo Orsi e di Luigi Bernabò Brea,“entrambi siciliani di adozione”. Essi hanno fatto dell’isolagià dall’ultimo decennio dell’ottocento,“un punto di riferimento metodologico e storiografico pertutti gli studiosi di paletnologia” (ibidem).

Né possiamo ignorare in questa sede il poderoso impulso innovativo dato alla ricerca archeo-logica dal palermitano Antonio Salinas (1841-1914). Dopo aver esordito, per interessamento diMichele Amari, come archivista-paleografo, egli era stato chiamato giovanissimo, a ventiseianni, alla cattedra di Archeologia presso l’Università di Palermo (Primo professore della mate-ria nel Regno d’Italia), che avrebbe tenuto per circa un cinquantennio. Attraverso viaggi-studioin Grecia, Francia, Germania e Inghilterra, acquisì un’apertura europea che, secondo SantoMazzarino, avrebbe segnato la fine della Sicilia borbonica e della cultura “cosiddetta siciliana”.Così Salinas poteva innestare sul tronco della tradizione culturale isolana le metodologie di ricer-ca più aggiornate, alle quali avrebbe informato la sua sterminata produzione scientifica (circa uncentinaio di lavori, spesso brevi, ma, come avverte Biagio Pace “sempre pregevoli”).

È significativa l’ampiezza prospettica nella quale Salinas inquadrava i più svariati campi del-l’antichità isolana, con una particolare attrazione per il fatto numismatico e per i manufatti piùpoveri della cultura materiale (cretule, piombi, lucerne, tabulae sulfuris, ecc.). Tali documentierano esaminati dal nostro, per usare le sue parole «attraverso una tipica visione integrale del pas-sato», di un passato, però, tendente a dilatarsi in direzione dell’epoca bizantina, del Medioevo edell’età moderna. Vincenzo La Rosa coglie nel Salinas «un interesse più istintivo che programma-tico per il problema dell’artigianato, che risulterà una delle dichiarate chiavi di lettura nell’in-terpretazione del suo discepolo B. Pace» e riconosce che, malgrado l’apertura europea, sia statosempre vivo in lui il germe del sicilianismo.

Appassionato sostenitore della dimensione globale dei Beni culturali e della funzione pubblicadelle raccolte, dichiarò provocatoriamente superata l’epoca delle collezioni di soli capolavori,ribadendo che i musei «insieme ai monumenti dell’arte antica e moderna dovessero accogliere leopere dell’industria e quei ricordi storici che servono a testimoniare notevoli vicende politiche oa rendere una immagine perspicua della vita siciliana degli scorsi tempi» (A. SALINAS, Scrittiscelti, Palermo, 1976, vol. I, p. 360).

L’opera maggiore del Salinas, che costituisce uno dei capisaldi nella bibliografia numismaticadedicata alla Sicilia, s’intitola: Le monete delle antiche città di Sicilia. La sua stampa fu iniziataa Palermo nel 1867 e proseguita per 19 tavole, mentre altre otto, già predisposte, sono apparsepostume nel 1922.

Fondamentali le conclusioni cui il Salinas approda circa i tipi della monetazione siracusana, neiquali, assai in anticipo rispetto alle indagini di A. Furtwäengler, colse l’influsso attico-fidiaco.

Ci sembra di poter dire che le stimolanti argomentazioni di Luigi Russo e Vincenzo La Rosa,ove si traducano in una sfida capace di chiamare a raccolta tutte le risorse autentiche del territo-rio, possano aiutare la cultura siciliana ad uscire dal guado ove attualmente si trova, e dove rischiadi perdersi.

C’è chi ha già pensato di poter scrivere l’epitaffio sulla sua tomba: «La cultura siciliana è tra-montata e per sempre. Non credo a nessuna rinascenza o rinascimento. Ma, dicendo questo, nonprovo né rimpianto né tristezza. Triste divento quando sotto l’alibi della cultura siciliana si dis-sotterrano vecchi cadaveri; si ripropongono feti d’aborto in bocce di vetro come creature vive,nuove, belle. In tempi di risacca, anche questi detriti si raccolgono sulla spiaggia».

Così concludeva Vincenzo Consolo un suo intervento, permeato di profonda rassegnazione nelcorso di un incontro organizzato dalla Facoltà di Magistero dell’Università di Palermo sul tema«Rinascimento della cultura siciliana», cui parteciparono anche Gioacchino Lanza Tomasi,

XVII

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Gianni Puglisi, Natale Tedesco, Emilio Isgrò e Ludovico Corrao, sindaco di Gibellina (L’ORA, 31maggio 1982).

Ove la domanda «Rinascimento della cultura siciliana?» dovesse essere riproposta oggi, è dasupporre che molti, infastiditi dalla ripetitività del tema della «usurata sicilitudine», finirebberoper ritenere che la cultura siciliana è ormai al capolinea.

Eppure, volendo cogliere, dal nostro angolo visuale, un punto di sutura tra l’utopia accarezza-ta da Luigi Russo e quella accarezzata da Vincenzo La Rosa circa la capacità di incidere nella real-tà del nostro tempo da parte dell’«Aesthetica» e dell’«Archaiologhia», siamo indotti a pensare cheproprio il connubio tra le due discipline possa costituire l’asse portante di un profondo processodi rinnovamento culturale.

Ciò vale in particolar modo per la nostra isola, dove appunto l’«Aesthetica» el’«Archaiologhia», possono riconciliare i Siciliani con il Bello e la Tradizione, veri valori fondan-ti della loro specifica identità.

Ben vengano allora lavori come questo, che, in un certo senso, assume una valenza inverantedelle citate utopie, poichè il cammino dell’autore nel mondo affascinante della monetazione aureasiciliana ci fa vedere quali risorse ha espresso questa terra, la cui consapevolezza può rappresen-tare l’antidoto nei confronti di quel fatalismo che spesso, sul piano politico-istituzionale, ha favo-rito esperienze di malgoverno e di parassitismo.

Grazie, Pierluigi, per averci mostrato, attraverso lo splendore iconografico delle tavole checostituiscono la spina dorsale del tuo paziente lavoro, quali tesori ha germinato, in questa terra diSicilia, lo sperma del tempo.

XVIII

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XIX

Dando per scontato che la storia si fa con il supporto delle fonti scritte, il grande storico fran-cese Lucien Febvre era solito precisare che essa si può fare, anzi si deve fare, specie in assenza didocumenti scritti, «per mezzo di tutto quello che l’ingegnosità dello storico gli consente di utiliz-zare per fabbricare il suo miele, in mancanza dei fiori normalmente usati. Quindi con parole. Consegni. Con paesaggi e con mattoni. Con forme di campi e con erbe cattive. Con eclissi lunari econ collari da tiro. Con le ricerche su pietre, eseguite da geologi, e con analisi di spade metalli-che, compiute da chimici. In una parola, con tutto quello che, essendo proprio dell’uomo, dipen-de dall’uomo, serve all’uomo, esprime l’uomo, significa la presenza, l’attività, i gusti e i modi diessere dell’uomo». (L. FEBVRE, Problemi di metodo storico, Torino, Einaudi, 1976, p. 177).

La storia si fa con le monete, aggiungiamo noi, costituendo esse una tessera importante ai finidella costruzione di quel grande mosaico che è «l’histoire à part entiére». Tale modello totaliz-zante, che abbraccia le varie forme in cui si è espresso l’essere sociale, ci viene proposto dagli sto-rici formatisi nel clima innovativo della rivista francese «Annales d’histoire économique et socia-le», fondata nel 1929 da L. Febvre e M. Bloch.

Nel quadro della «totalità significativa» cui mira lo storico, è evidente che la numismatica si èinserita di diritto tra quelle scienze ausiliarie, che in quanto scienze dell’uomo, concorrono alla«complessa rivoluzione storiografica in continuo movimento», di cui parla Fernand Braudel nellasua prefazione al testo AA.VV., Problemi di metodo storico (Bari, Laterza, 1973, p.VII).

In relazione ai vari ambiti disciplinari con i quali la ricerca storica deve fare conti, si è avver-tita l’esigenza, anche al fine di evitare il rischio di offrire prospettive ideologizzate, che il metododi lavoro coinvolga un’équipe di specialisti. Solo il confronto che nasce da un efficace rapportointerattivo può abbattere gli steccati che spesso separano storici e studiosi di storia economica: duecategorie di lavoratori, come notano Bloch e Febvre, fatte per comunicare tra loro e capirsi, men-tre solitamente «si fiancheggiano senza conoscersi».

Non v’è dubbio come la numismatica, facendo oggetto del suo esame la monetazione vera epropria, ed investendo tutta la vasta area dei problemi che scaturiscono dal documento monetale,getta luce su una delle forme essenziali in cui si svolge la vita della collettività e degli individui,consentendo alla storia, per usare una felice espressione di Braudel, di entrare «a far parte di unmercato comune delle scienze dell’uomo» (F. BRAUDEL, Problemi cit. p. VIII).

Si è rilevato che l’invenzione della moneta non possa considerarsi né l’opera di un giorno, néla scoperta di un uomo geniale: si tratta del prodotto finale di una lunga ricerca tesa all’adozionedi uno strumento di scambio metallico, che, in quanto emanazione diretta dell’autorità al potere,sia in grado di soddisfare le molteplici esigenze dello scambio.

Nella sua veste di controvalore di oggetti di varia natura, la moneta era dotata di capacità diadeguamento a diverse realtà e possedeva i seguenti requisiti:

• una immediata riconoscibilità dal punto di vista valoriale;• l’adattabilità in operazioni tese al conseguimento, con estrema precisione, dell’ammon-

tare desiderato, in virtù della molteplicità di nominali, unità, multipli e sottomultipli;• la non deperibilità;• la capacità di conferire un valore di riferimento in operazioni di scambio di servizi non

commensurabili.Una questione di fondamentale importanza, oggetto di un’imponente serie di ricerche (si

rimanda in proposito all’ampio dibattito riportato nel lavoro di P. GRIERSON, The Origins ofMoney, London 1977), è quella delle origini della moneta. È un argomento che non manca di affa-scinare gli studiosi per quella distanza temporale da noi, sul cui sfondo, in un intrecciarsi di leg-genda e dati reali, si colloca il momento fondativo della numismatica greca.

Avverte a tal proposito Laura Breglia: «E sono appunto queste maggiori lontananze nel tempo,così come le maggiori lacune che i dati conoscitivi d’altra fonte ci presentano, a dotare di parti-colare interesse la numismatica di età greca, materia di particolare importanza d’altronde perchéinclude l’origine stessa e le fasi formative della moneta vera e propria di cui aiuta a comprende-re i problemi fondamentali, attraverso la possibilità di ricostruzione del processo logico che alla

Introduzione allanumismatica grecae siceliota.

di Antonio Martorana

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moneta stessa ha dato origine, determinandone sin dagli inizi i motivi di sviluppo. È pertantocompito della numismatica per l’età greca studiare la moneta nella completezza dei dati che puòoffrirci, dati di carattere analitico ed estrinseco, relativi alla sua qualità di manufatto, o al suocarattere di documento legale ed ufficiale di uno Stato o, eventualmente, al suo valore di testimo-nianza artistica, e dati di natura intrinseca, suggeriti dalla funzione stessa che la moneta è chia-mata a esercitare, funzione eminentemente utilitaria, ma che a sua volta crea la moneta e ne deter-mina i motivi intimi di trasformazione» (L. BREGLIA, La Numismatica, in Enciclopedia classi-ca, Torino, UTET 1959, sez. I, Vol. III, Tomo V, p. 494).

Ma prima di occuparci delle origini e di iniziare il nostro excursus nell’ambito tematico ogget-to della presente nota, ravvisiamo l’opportunità di toccare, in via preliminare, alcuni aspetti sin-goli che costituiscono le coordinate essenziali per una puntuale lettura del documento monetale,e che nel contempo spiegano la molteplicità degli interessi suscitati dai suoi elementi conoscitivi.

Ci riferiamo, in particolare alla tecnica monetale, alla questione dei rapporti iconografici dellemonete antiche con le forme di scambio degli oggetti premonetali nel processo che porta da un’eco-nomia premonetale all’introduzione della moneta, alla tipologia e cioè all’immagine monetale rispec-chiante la volontà dello Stato o di un signore di monopolizzare l’emissione del mezzo di scambio.

Più avanti, trattando in particolare dei coni risalenti all’epoca dei Maestri Firmanti, cerchere-mo di sviluppare un discorso circa il rapporto tra manufatto monetale e arte.

Uno dei più fecondi campi di ricerca consiste nella tecnica di fabbricazione della moneta, cheabbraccia due maniere: la coniazione e la fusione.

Per quanto riguarda la prima, che è il procedimento più antico e, nel contempo il più praticato,bisogna prendere le mosse dai primi manufatti monetali creati nelle città ioniche dell’AsiaMinore, intorno alla metà del VII secolo a.C.. Essi, attraverso l’irregolarità delle forme e lo schiac-ciamento in due parti opposte, di cui una presenta l’impronta più approfondita di un punzone,denotano un rudimentale sperimentalismo, implicante tuttavia, sia pure a livello embrionale, tuttauna serie di accorgimenti destinati a perfezionarsi nel tempo.

Il procedimento della coniazione si articola in tre fasi: preparazione dei coni, preparazione deitondelli e momento della coniazione. La preparazione dei coni rappresenta un’operazione alquan-to difficile, dal momento che i coni venivano incisi manualmente con il bulino su un blocco dimetallo o predisposti tramite un punzone a rilievo, utilizzato per imprimere il tipo sul conio, poida ritoccare a mano. Tale sistema facilitava il compito di mutare elementi della legenda o partico-lari del tipo, evitando che si dovesse rifare tutto il conio.

Altro momento importante era quello della predisposizione dei tondelli, ottenuti o tramite fusio-ne o ricavando da una verga pezzi dei metalli che poi venivano martellati per ridurli alla formarotonda. Alla fase preparatoria faceva seguito il momento conclusivo della coniazione: Il tondello daconiare veniva inserito tra i due coni, di cui uno era incassato in una piccola incudine, mentre l’al-tro in un punzone. Un operaio provvedeva a tenere fermo il tondello stringendolo dentro una tena-glia, mentre un secondo operaio reggeva il punzone ed un terzo lo percuoteva con il martello.

La pregevolezza della fattura dipendeva dalla giusta collocazione del tondello e dalla precisio-ne nello sferrare i colpi di martello; altrimenti una non corretta tenuta e una battitura mal assesta-ta producevano monete difettose «o perché il bordo sotto la pressione si spaccava o perché l’im-magine non era ben centrata, o infine perché il colpo ripetuto non ricalcava esattamente la primaimpronta così da determinare uno scivolo di conio. Irregolarità che se costituiscono dei realidifetti della moneta pure hanno per la classificazione un gran valore, segnalandoci ad esempio,con il loro infittirsi in una serie, particolari momenti della vita di una zecca, ora costretta daun’accresciuta richiesta di monete ad una coniazione più intensa e più affrettata, ora per la pres-sione di particolari contingenze, o per povertà d’attrezzatura, paga di una produzione tecnica-mente più scadente» (L. BREGLIA, La numismatica, in Enciclopedia Classica, cit. Sez. I, Vol. III,Tomo V p. 499).

La coniazione fu praticata manualmente sino alla metà del sec. XVI, allorché fa la sua compar-sa il bilancere monetario, o torchio a vite, inventato ad Augusta in Germania e subito adottato intutta Europa. Volendo fare un raffronto con la situazione odierna, diciamo che, pur essendo rima-ste le operazioni essenziali invariate, l’artista preposto alla preparazione dei coni presenta il suotondello per lo più in gesso ed in dimensioni maggiori rispetto al campo monetale. Si procede allafusione del modello di bronzo ed alla sua riproduzione tramite il pantografo su un punzone d’ac-ciaio in rilievo corrispondente alle reali dimensioni del campo monetale.

Mediante il punzone si ricavano i coni ed infine si passa alla battitura delle monete con la pres-sa monetaria, lo strumento che a partire dai primi dell’ottocento ha sostituito il bilancere.

Nel contempo avviene la fabbricazione dei tondelli, ricavati tramite la fusione della lega metal-lica, la laminatura, il taglio meccanico, la pesatura, ed infine la lavatura e l’imbiancatura.

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Effettuati tali passaggi, si procede all’operazione finale della battitura dei tondelli così ottenu-ti, escludendo quelli che alla pesatura risultano in eccesso o in difetto.

Un problema assai dibattuto è se l’antico incisore si avvalesse di modelli dalla dimensione piùampia rispetto al reale campo monetale. Il che avrebbe comportato un’operazione di ridimensio-namento del modello stesso per poterlo riportare sul conio. La tesi sembra trovare conferma nelfatto che spesso le immagini riprodotte sulle monete guadagnano qualitativamente se soggette adingrandimento fotografico, acquistando anche dignità d’arte.

L’incisore, anzichè tagliare l’immagine in materiali duri, quali il metallo e la pietra, la model-la in un materiale più morbido e meno costoso, con cui la imprime nella creta o nella sabbia. Intal modo egli ricava la forma nella quale sarà colato il metallo fuso.

A volte utilizza il legno allo scopo di ricavarne, tramite l’incisione, la forma vera e propria. Si tratta di particolarità dell’arte monetale che, come avverte la Breglia: «se da un lato permet-

tono la valutazione più completa di tale monumento d’arte, presentandoci sovente una sola operasotto vario aspetto, o modificata da sottili sfumature, o aiutandoci a datarla col sussidio di ele-menti estranei all’arte, tuttavia ne rendono più complesso, delicato ed estremamente paziente lostudio approfondito».

Un’altra questione complessa è quella del rapporto tra l’incisione monetaria e la glittica. Sullabase delle affinità dei materiali e degli strumenti di lavoro utilizzati, in entrambe le lavorazioni,sono molti a supporre che alcuni dei più qualificati incisori di coni siano stati anche incisori digemme. Una conferma in tal senso sembra venire dal fatto che il motivo di Herakles nell’atto distrangolare il leone, raffigurato sulle monete auree siracusane firmate da Kimon e da Euainetos,riappare su una gemma anonima databile intorno al 400 a.C.

Passando ora all’esame del procedimento della fusione, vogliamo precisare che esso, adottatosolo nell’antichità, comportava la preparazione di due forme in pietra o in argilla, che recavano leimpronte, una del dritto, e l’altra del rovescio della moneta. Rimandiamo alla analitica descrizio-ne del Panvini Rosati: «Le stesse forme recavano più impronte collegate tra loro da piccoli cana-li per far scorrere il metallo. Serrate tra loro strettamente le due forme in modo che dritto e rove-scio corrispondessero, si versava il metallo fuso attraverso un canale che comunicava con l’ester-no. Il metallo attraverso i canalini interni riempiva tutte le impronte e, solidificandosi, formava lemonete. Queste risultavano congiunte tra loro dal metallo che aveva riempito i canalini interni eche si era solidificato. La separazione di un pezzo dall’altro dava luogo talora ad un’escrescen-za di metallo (detta codolo di fusione) o a una mancanza sul bordo dei pezzi così ottenuti.Mediante la fusione si veniva ad avere con la stessa operazione sia il tondello monetale sia l’im-pronta sulla moneta». (PANVINI ROSATI, Tecnica monetale, in Enciclopedia Europea, Milano,Garzanti, 1978, Vol.VII, p. 734).

Va detto che tale tecnica venne utilizzata soltanto sulle prime serie di bronzo romane, in alcu-ne serie italiche ed etrusche (aes grave) e anche, ma in modo assai raro, nel basso impero, ritor-nando in auge nel ’400 con la medaglia. La fusione consente di ricavare nell’impronta un rilievosolitamente più pronunciato che non con la tecnica della coniazione.

All’origine, quando nella società ellenica qualsiasi attività economica era esercitata con il siste-ma degli scambi in natura, il livello dei prezzi e dei valori si basava sul costo dei bovini, calcolan-dosi il bue come unità di misura, naturalmente indivisibile.

La prima scala dei prezzi in valori metallici che si conosca nel mondo antico è quella micenea,strutturata sulla corrispondenza dei pesi di metallo con il valore di un bue. Conseguentemente, siaddivenne alla fissazione dell’unità di misura dell’oro con una pepita, o un anello d’oro del pesodi gr. 8,5, essendo proprio questo il prezzo di un bue in metallo aureo. Nel caso, invece, delloscambio di un bue con rame, bisognava corrispondere Kg. 25,500 di detto metallo.

A prescindere dalla natura della lega che si intendeva utilizzare, si adottò il termine talento(talanton) per indicare i rispettivi quantitativi d’oro, d’argento o di rame, necessari per ottenere incambio un bue. È significativo il fatto che scavi archeologici abbiano portato al rinvenimento,all’interno di tombe micenee e cipriote, di quantità considerevoli di anelli o fili d’oro avvolti inspirali, il cui peso corrispondeva, sia pure con lievi variazioni, alla misura di un talento o di unmezzo talento, di tale metallo.

L’utilizzo del bue come unità di misura negli scambi caratterizza l’economia della società ome-rica, tanto che le espressioni “dai molti buoi” in Omero, e “senza buoi” in Esiodo, stanno a indi-care, rispettivamente, la ricchezza e la povertà. Quella tradizione, basata sul mantenimento dideterminati livelli, in comparazione al costo dei bovini, trova larga testimonianza nel mondo grecodal XVI al X secolo a.C., il che mostra come l’uso sopravvivesse anche dopo l’invasione dorica.

In base alle antiche leggi della Roma repubblicana, le quote delle multe erano fissate in buoi emontoni. È il caso di ricordare che proprio l’immagine del bue, sotto un profilo tipologico, appa-

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riva impressa su quelle antiche formelle bronzee del valore di un asse, che rappresentano le primemonete d’Italia. Si va a toccare così un problema di difficile soluzione, quello inerente i rapportiiconografici delle monete antiche con le forme di scambi degli oggetti premonetali.

Si presume che, all’origine, gli scambi siano avvenuti in base ad una correlazione consapevo-le tra valore economico e valore d’arte, il che troverebbe conferma nell’insistenza con la quale neitesti omerici è sottolineata la qualità di tripodi, bipenni, asce, lebeti, utilizzati a fini di donazioneo di premiazione, in modo da costituire una vera e propria misura di valore (Iliade, IX, 121, 123;XXIII, 264, 267, 702, 885).

Tra i rinvenimenti archeologici a Troia, a Cipro e a Micene, compaiono grumi informi, globu-li, oggetti vari in oro, il cui uso come oro è testimoniato dalla loro presenza negli inventari deitempli. In un momento successivo si procede al taglio dei metalli preziosi in pastiglie o in globet-ti, secondo una determinata scala di pesi, in modo da poterli utilizzare con maggiore facilità inoperazioni di scambio.

È interessante vedere come tali pastiglie rechino striature, come segno apposto sul metallo damercanti o banchieri, quasi a garanzia del peso o della lega.

Ciò configura dunque l’uso di una vera e propria moneta privata, uso che non vincola i con-traenti all’accettazione, o meno, della garanzia di peso fornita dal sigillo. Qualora il loro rappor-to si esplicava nel segno della reciproca fiducia, si poteva evitare che, in occasione di ogni trans-azione, si ricorresse all’utilizzo della bilancia.

Le fonti letterarie ed archeologiche non ci consentono di ricostruire con chiarezza il processo cheporta da un’economia premonetale all’introduzione della moneta. Posto che tale percorso si svilup-pa in modo discontinuo, appare ormai assodato che nelle poleis l’adozione della moneta non rispon-de tanto ad esigenze commerciali su ampio raggio, quanto alla necessità di regolare i vari tipi di paga-mento, quali pedaggi, tributi, attività commerciali interne, corresponsione della paga ai mercenari.

Con un giudizio che si colloca in controtendenza, l’importanza dell’invenzione della monetaconiata è stata ridimensionata da J.M. Keynes, che vi ravvisa una certa casualità, sostenendo chela sua nascita è dipesa, nella Lidia a cavallo tra VII e VI secolo, dalla opportunità di trovare un’al-ternativa più spedita alla prassi corrente di pesare metallo prezioso per la paga dei mercenari (J.M.KEYNES, A Treatise on Money, London, 1930, pp. 11-15).

È ormai dimostrato come, inizialmente, la monetazione dovesse fare i conti con mille difficol-tà, prima tra tutte la difformità esistente tra gli standard ponderali adottati presso le varie poleis.Ciò non facilitava lo scambio interno, né rispondeva alle esigenze del commercio internazionale.Si spiega allora come i Greci, nella gestione dell’attività commerciale su scala internazionale, con-tinuassero a praticare il baratto.

Per quanto concerne invece le ragioni della successiva diffusione del mezzo monetario, è inte-ressante quanto osserva Crawford: «La moneta coniata per coloro che l’accolsero sarà stata sem-plicemente un’altra forma di ricchezza mobile, facilmente comprensibile a chiunque avesse fami-liarità con la cessione di metallo prezioso a peso, e utilizzabile - alla stessa maniera che il metal-lo prezioso non coniato - per doni, doti di figlie, grossi acquisti. È difficile non supporre, comun-que, che la moneta coniata servì anche a scopi comunitari, dal momento che permetteva a unapolis di fare pagamenti e riscuotere con relativa facilità tasse e ammende» (M.H. CRAWFORD,La moneta, cit., p. 129).

Ma il motivo preponderante che sta alla base dell’adozione va visto nel fatto che la monetaassumeva una forte valenza simbolica, in quanto testimonianza dell’autonomia della polis. Il rico-noscimento di ufficialità della monetazione segnava un passo avanti nel processo di affermazionedel potere centralizzato, come è dato evincere dal fatto che la tipologia usata si riferiva allo stem-ma o agli stemmi della polis, favorendo nel contempo lo sviluppo di una struttura fiscale.

Un problema di fondamentale importanza è quello dell’iconografia monetale, inerente l’imma-gine comunemente disegnata come «tipo», che viene apposta sul pezzetto metallico originaria-mente anonimo. Evidentemente l’immagine è espressione della manifestazione volitiva di unoStato o di un signore, tesa a monopolizzare l’emissione del mezzo di scambio, offrendo ognigaranzia relativamente al peso e alla lega. Conseguentemente, essa finisce per essere specchiofedele del clima politico, culturale e religioso che contrassegna la vita dello Stato o della città almomento dell’emissione.

Per quanto concerne i criteri ispiratori che presenziano alla scelta iconografica, sia che si trat-ti di raffigurazioni umane, o di raffigurazioni di animali o simboliche, sono state formulate varieteorie, tra le quali quella religiosa permea l’opinione comunemente invalsa.

I più autorevoli esponenti di detta teoria, Burgon e Curtius, sostengono che tutti i motivi, per-sino i cosiddetti «tipi parlanti», come la rosa a Rodi, la foglia di sedano a Selinunte, la foca aFocea, sottendono un significato religioso.

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Esiste poi la teoria commerciale, rappresentata da Ridgeway, orientata a «leggere» molteimmagini monetali come un riflesso memoriale di oggetti o animali, utilizzati in attività di scam-bio prima dell’introduzione della moneta.

Il lato debole di tale tendenza interpretativa consiste nel fatto che non trovano alcun appigliomemoriale, nell’ambito di una economia premonetale, categorie di soggetti e oggetti che in ognicaso non possono essere stati utilizzati in attività di scambio, com’è il caso delle fiere o di esserifantastici.

Una terza teoria infine, legata al nome di Mac Donald, è quella del tipo-sigillo, secondo cui ilmotivo figurato si identifica sempre sullo stemma della città emittente, identificabile anche con ladivinità locale ed il suo simbolo.

Nel periodo arcaico della monetazione greca, anteriormente alle guerre persiane, risulta agevo-le risalire ai criteri ispiratori che determinano la scelta iconografica. Tale facilità identificativa sideve alla essenzialità dei riferimenti tipologici. Successivamente, verificandosi una proliferazionesmisurata di motivi, non sarà più possibile orientarsi in tanta complessità con la stessa sicurezzadi prima.

Verrà a delinearsi, insomma, uno scenario assai variegato in relazione alla vasta gamma icono-grafica, nel cui ambito anche certe sfumature possono trasferire i significati dalla sfera sacra aquella eroica, o introdurre un simbolismo più o meno velato.

In tal modo, accanto alla netta prevalenza di rappresentazioni di immagini di divinità, come adesempio Atena ad Atene e Zeus ad Olimpia, si assiste ad un proliferare all’infinito di differenziazio-ni. Ciò accade, fa notare Laura Breglia, «sia che alla divinità si alluda attraverso un suo attributocome ad Efeso, dove il cervo riporta ad Artemide con riferimento chiaro, sia che l’immagine divi-na si rifaccia, non alla ristretta cerchia delle divinità olimpiche, ma alla multiforme teoria degli deiminori: le ninfe, i Sileni, le divinità fluviali, con cui la fantasia greca vivificava i luoghi ed arricchi-va la bellezza dei paesaggi, sia che la moneta riproduca il più ristretto numero degli eroi locali incui la polis adombrava la propria leggendaria origine» (L. BREGLIA, op. cit., p. 505).

Con il tempo si verifica che molte delle figurazioni inquadrabili nell’ambito dei cosiddetti «tipiparlanti» evidenzino la sovrapposizione del valore emblematico rispetto al significato religioso:ciò vale per il Pegaso a Corinto, per la civetta ad Atene, per la testa di Aretusa circondata da del-fini a Siracusa. Da quì il valore emblematico, come conferma il riscontro di fonti letterarie ed epo-grafiche, sia nella rappresentazione dello stemma della città che in quella del simbolo dello Stato.

L’evoluzione iconografica della monetazione greca può essere scandita in tre grandi periodisino all’avvento del predominio romano: dalle origini fino alle guerre persiane; dalle guerre per-siane ad Alessandro Magno; da Alessandro Magno al termine delle monetazioni autonome.

Il primo periodo è caratterizzato dal prevalere di immagini di animali, di piante, di esserimostruosi o fantastici, mentre raramente fa la sua apparizione la figura umana. Acquistano caratte-re di eccezionalità motivi come quello del satiro nell’atto di rapire una ninfa (in Tracia e a Thasos)o come Herakles e le Esperidi (Cirene). Solo dalla metà del VI secolo a.C. si cominciano a vederele teste di divinità, mentre alla fine dello stesso secolo si incontrano con frequenza i tipi umani.

Il secondo periodo registra la presenza sempre più numerosa di figure di divinità. Si nota inol-tre la rapida diffusione della testa umana, rappresentata generalmente sul dritto, mentre sul rove-scio viene riportata la figura intera. Una significativa novità si ha verso la fine del V secolo, con ildiffondersi delle teste frontali, di cui i primi esemplari vanno individuati nell’Athena di Eukleidase nell’Aretusa di Kimon, sui tetradrammi siracusani.

Il terzo periodo è contrassegnato da una straripante varietà di figurazioni, specie nei nominaliminori e nelle monete bronzee prodotte generalmente da tutte le zecche in cospicue quantità.

Un elemento innovativo va visto nella rappresentazione, sul dritto della moneta, del ritratto deisovrani dei vari regni sorti dopo la scomparsa di Alessandro Magno. L’introduzione, per quantoriguarda i tetradrammi, dei nuovi tondelli piatti ed espansi, offre una superficie ampia al coniato-re, consentendogli di creare tipi meno semplici, con figurazioni elaborate cui si accompagnanosimboli, monogrammi o lunghe leggende.

Secondo Michael H. Crawford il tentativo più sistematico di puntualizzare il senso dell’adozio-ne di unità monetarie ufficiali del mondo greco è stato fatto da E. Will nel suo studio De l’aspectethique des origines grecques de la monnaie, in «Revue Historique», 212 (1954).

Non condividendo la tesi secondo cui l’invenzione della moneta sarebbe avvenuta per far fron-te ad esigenze commerciali, Will afferma che il momento decisivo per la polis greca fu l’acquisi-zione di métra ufficiali, misure, pesi e unità monetarie. Tale ragionamento non trova la condivi-sione di Crawford, che lo ritiene anzi «azzardato», in quanto correlato a tentativi di individuaresopravvivenze arcaiche in pratiche monetarie molto più tarde. L’errore di fondo consisterebbe nelfatto che «Will confronta “l’aspect fonctionnel” di un oggetto destinato al sacrificio con il valo-

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re convenzionale di una moneta e vede una sopravvivenza di legami tra la sfera sacra e la sferamonetaria nell’uso dei templi come zecche o banche, nella nozione di falsificazione come sacrile-gio, nell’influsso di sentimenti morali sull’atteggiamento verso la moneta». (M.H. CRAWFORD,La moneta, cit., p. 6).

Per quanto concerne le origini, il relativo dibattito è centrato sui seguenti quattro nodi proble-matici: 1) l’individuazione del contesto geografico dove per la prima volta fu coniata la moneta;2) il momento storico in cui ciò si verificò; 3) i fattori che si rivelarono determinanti nell’adozio-ne di questa misura di valore e di questo strumento di scambio; 4) le funzioni che la moneta, conla rivoluzionaria introduzione, venne ad assolvere.

Volendo tacere delle leggende che, collegando le origini con personaggi mitici, difettano di unaqualche attendibilità, non si può prescindere dalle due principali tradizioni attestate dai sotto ripor-tati passi delle fonti greche:

1) ... ed egli inventò le misure che sono note come di Fidone, e anche i pesi e la moneta, que-st’ultima in argento e in qualche altro metallo (Eforo, fr. 115).

2) ... ed Eforo dice che la moneta d’argento fu coniata per la prima volta a Egina, da Fidone(Eforo, fr. 176).

3) ... e Fidone di Argo fissò delle misure ufficiali, ideò i pesi e coniò moneta d’argento a Egina(Marmor Parium, 30 derivato da Eforo).

4) ... e Fidone di Argo fu il primo a coniare moneta, a Egina; dopo aver emesso moneta, egliraccolse gli spiedi e li dedicò a Era di Argo (Orione, Etymologicon, s.v. obolos, con cita-zione di Eraclide Pontico = Etym. Magnum).

5) ... se Fidone di Argo fu il primo a coniare moneta, o Demodice, consorte di Mida diFrigia..., o Erctonio e Lico per gli Ateniesi, o i Lidi come dice Senofane o i Nassi secondol’opinione di Aglostene (Polluce, IX 83).

6) Gli Egineti furono i primi a coniare moneta, conosciuta come eginetica dopo di loro(Eliano, Varia Historia, XII 10).

7) ... poiché Fidone, re di Argo, fu il primo a coniare moneta d’oro, in un luogo dell’Argolidechiamato Eubea (Etym. Magnum, s.v. Euboikon nomisma).

8) Ionio, che governava la terra di Tessaglia, fu il primo ... a fare dell’oro moneta (Lucano, VI401-405).

9) ... e dicono che Ermodice, moglie di Mida re di Frigia, fu di rara bellezza, ma anche sag-gia ed abile, e che fu la prima a coniare moneta a Cuma (Aristotele, fr. 611, 37 Rose).

10) I Lidi «hanno press’a poco le medesime istituzioni dei Greci, a parte il fatto che prostituisco-no le figlie femmine… furono i primi fra gli uomini noti ai Greci a battere e usare monetad’oro e d’argento, e primi fra tutti divennero commercianti al minuto» (Erodono, I, 94, 1).

Domenico Musti ritiene la citata esposizione di Erodono «troppo vivacemente desultoria,perché si possa ricavare dalla vicinanza di tali notizie la prova che egli vedesse qualcosa incomune fra tutti questi fatti». Gli pare di poter cogliere, nel passo, un certo distacco dello stori-co di Alicarnasso da tutto ciò che riguarda la piccola attività commerciale, come la stessa eco-nomia monetaria «in una prospettiva negativa vagamente analoga a quella con cui egli tratta laprostituzione». Lo studioso conclude come non si possa prescindere da tale testimonianza circail contesto storico in cui per la prima volta fu battuta e si diffuse la moneta: quel regno di Lidia(700-546 a.C.), rivelatosi regione cerniera fra mondo greco ed impero persiano. Si tratta di una«priorità che appare del tutto coerente con i processi economici caratteristici del VicinoOriente, dove era tradizione pagare tributi, multe e retribuzioni, in quantità misurabili non solodi prodotti naturali, ma anche di metalli» (D. MUSTI, L’economia in Grecia, Bari, Laterza,1981, p. 72).

Pare che Erodoto alludesse ai creseidi, la moneta d’oro coniata da Creso, che quindi segnereb-be il momento aurorale della monetazione aurea del mondo antico. Autorevoli studiosi, qualiRobinson e Seltmann, sono propensi ad attribuire al regno lidio di epoca anteriore a Creso lo sta-tere ed i nominali minori, con il tipo della parte anteriore o della testa di leone.

Un sostegno a tale tesi offre il tipo di quadrato incuso impresso sui nominali minori e costitui-to da due quadrati contigui, soluzione che ricorda le più tarde serie di Creso.

Tuttavia, alle citate serie lidie devono considerarsi coeve, o quasi, le emissioni di città grechedella Ionia, quali Mileto ed Efeso. Il Babelon, che al problema dell’origine ha dedicato una ricer-ca fondamentale, osserva come al momento si sia nell’impossibilità di stabilire a quale delle dueregioni spetti la priorità assoluta nell’introduzione della moneta, se alla Lidia o alla Jonia.

Ma, in proposito formula una sua ipotesi: «Probabilmente in entrambe le regioni, a brevedistanza di tempo, sorse la moneta per iniziativa dei re lidi e delle città greche della Jonia in con-tatto con la Lidia, che vedevano con il nuovo mezzo di scambio grandemente facilitati i loro traf-

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fici, e sorse come evoluzione naturale dai suoi immediati predecessori, quei globuli cioè di elet-tro senza tipi, stampigliati rozzamente con punzoni o con semplici striature, che costituivano unavera moneta privata e che si ritrovavano nella Jonia e in genere nell’Egeo, misti talvolta allamoneta statale». (E. BABELON, Les origines de la monnaie, Paris, 1897).

Una importante testimonianza sul fatto che la moneta sarebbe nata con le prime emissioni inelettro della Lidia ci viene dalle fondazioni dell’Artemision di Efeso, noto come una delle settemeraviglie del mondo antico.

L’archeologo D.C. Hogarth, procedendo alla campagna di scavi finanziati dal British Museum,rinvenne, sotto il tempio principale, i resti di edifici di più remota fondazione, dalla cui presenzasi era portati a dedurre come già dal secolo VIII a.C. il sito fosse un luogo di culto. Fu proprionelle fondamenta di un grande tempio marmoreo, noto sotto il nome di «Tempio di Creso» e data-bile intorno al periodo 580-560 a.C., che avvenne il rinvenimento di 93 monete in elettro, unita-mente a vari gioielli e ad alcune statuette in avorio. Dai resoconti dell’epoca si sa che parte delmateriale fu trovata in un vaso, che si fa risalire al re lido Alyatte, padre di Creso, e parte in teso-retti sparsi nella fondazione di riempimento del tempio risalente al 580 a.C.

In base a detti resoconti il ritrovamento avvenne in questa sequenza:• Sette pezzi d’argento dal peso perfettamente regolare;• Due globuli in elettro non recanti alcun segno; • Tre globuli in elettro appiattiti marcati da un punzone; • Quattro globuli in elettro appiattiti, recanti striature parallele su un lato e punzonature sull’altro;• Venti globuli in elettro appiattiti con raffigurazioni di animali su un lato e punzonature sull’altro;• Cinquantasette globuli in elettro appiattiti con un lato a fondo liscio e varie punzonature

disposte in modo regolare sull’altro.Delle suddette monete, 91 corrispondevano al peso standard milesiano-lido, mentre le altre due

erano di Focea, riconoscendosi per il tipo della foca sul dritto, e corrispondevano al sistema euboico.Particolare interesse ha suscitato una moneta, di difficile datazione, ma comunque collocabile

prima del 610 a.C., il cui dritto è rappresentato da una serie di striature parallele tra loro, mentreil retro presenta più figure rettangolari classificabili secondo la tecnica del «quadrato incuso»:proprio tale manufatto sarebbe, per molti studiosi, la prima moneta.

Altro esemplare sul quale si è concentrata l’attenzione dei ricercatori è uno statere in elettro,databile 580 a.C. e recante la legenda «FAENOS EMI SEMA» (sono il segno di Faenos) a contornodi un cervo pascente, nel quale alcuni archeologi individuano il simbolo dell’Artemision di Efeso.

Poiché pare che il citato termine «SEMA» (segno, emblema) venisse usato solo in riferimentoalle divinità o a figure di rango reale, ha trovato credito l’ipotesi che Faenos fosse un sacerdote.

Passando ora all’esame dell’altra tradizione che fa capo a Fidone di Argo, padre di uno dei preten-denti alla mano di Agariste, figlia di Clistene di Sicione (circa 580 a.C.), ricorderemo che è Erodoto adattribuirgli l’istituzione di un sistema metronomico per gli abitanti del Peloponneso (VI, 127).

Lo storico non afferma che si debba a Fidone l’istituzione di una moneta vera e propria, ma inbase ad una testimonianza più completa (Strabone VIII, 3, 3, C. 358) l’Argivo sarebbe l’invento-re del sistema di misure note come “fidonie” e dei relativi pesi, come pure della moneta coniata:«Fidone di Argo, decimo successore di Temeno… fu il più potente degli uomini del suo tempo, eciò gli permise di riprendere sotto di sé tutta la porzione di dominio che era toccata a Temeno (eche però allora si trovava smembrata in più parti) e di inventare il sistema di misure chiamateappunto “fidonie” e i pesi (relativi) e la moneta coniata, sia quella in altra materia sia (in parti-colare) quella d’argento...».

Diffidando della cronologia alta (circa VIII secolo) cui il passo di Strabone si riferisce perFidone, il Musti ipotizza che l’Argivo sia vissuto nel settimo secolo (circa 650-30 a.C.), e che intale periodo siano nati un sistema di pesi e misure ed una moneta d’argento.

Lo studioso aggiunge: «poiché la moneta più antica nella Grecia propria sembra comparsaproprio nell’isola dorica di Egina, e questa, fra i tre grandi “lotti” dorici (quello di Temeno, con-centrato ad Argo; quello di Euristene e Procle, con centro a Sparta; quello di Cresfonte con sedein Messenia), è indirettamente collegata alle sorti di Temeno, si potrebbe accordare l’indicazionedell’archeologia, circa la priorità della moneta eginetica, con la tradizione sulla paternità fido-niana (o, meglio ancora, sulla “cronologia” fidoniana, fissabile intorno alla metà o alla secondametà del VII secolo a.C.), in conformità con la notifica di Eforo, in Strabone, VIII 6, 16, C. 376»(D. MUSTI, L’economia in Grecia, cit. p. 76).

D’altronde, facendo derivare l’istituzione della moneta da una fase premonetale, vien fattonotare come Fidone pervenisse all’emissione di moneta argentea soltanto dopo aver proceduto allaconsacrazione, presso il tempio di Era ad Argo, degli obeli di ferro del genere attribuito dalla tra-dizione a Sparta.

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XXVI

Da quanto esposto, possiamo dire che non si ha certezza se Fidone sia stato effettivamente ilcreatore diretto della moneta, ma con ogni probabilità è da attribuire a lui la regolamentazione deipesi e delle misure in uso nell’isola e la creazione di quel particolare sistema, definito appunto,per la sua origine, eginetico.

Era già stato Babelon a concludere che la nuova moneta d’argento sorse quindi ad Egina nellaseconda metà del VII secolo a.C. a distanza di pochi decenni dalle prime emissioni di elettro inAsia Minore. Ad essa spetterebbe dunque il primato della moneta in Grecia.

Sta di fatto che l’introduzione del mezzo monetale rappresenta un evento destinato a sconvolge-re i principi essenziali che, da tempi immemorabili, regolavano il commercio, basato su quella trans-azione bilaterale di oggetti con valore d’uso, che era il baratto.

Si sa che presso le comunità nomadiche e le società agricole erano gli armenti a costituire ilmezzo più diffuso di scambio, come testimonia l’uso ricorrente di termini quali pecunia, pecu-lium, peculatus. Un’affinità semantica li collega a sceltas (da schet = gregge) ed alla parola islan-dese fe, che significa, appunto, bestiame.

Quanto detto trova conferma nel fatto che Cartaginesi e Fenici, popoli con spiccata vocazionea trafficare, continuarono a preferire per lungo tempo il baratto, pervenendo molto tardi all’ado-zione della moneta.

Nel momento in cui, a seguito dell’evoluzione del sistema di scambi, sarà lo Stato ad avocare a séil diritto di offrire la garanzia del peso o della lega del tondello metallico, apponendo sullo stesso ilproprio emblema, e monopolizzandone l’emissione, si ha la nascita della moneta vera e propria.

A determinare la definitiva affermazione deve aver contribuito anche la considerazione dei van-taggi di natura logistica e organizzativa che essa comportava rispetto ai sistemi tradizionali di gestio-ne degli spazi necessari per amministrare le cospicue quantità di beni raccolti come tributo.

Come osserva Marco Attilio Levi, si trattava di una «semplificazione ... facilmente percepibilepensando alla differenza per la complicata pianta dei palazzi come quello di Mari, Cnosso, diFesto e di Micene, con tutti i magazzini e gli uffici occorrenti per amministrare i beni economiciraccolti come tributo, e la semplicità degli apprestamenti necessari per poter procedere allaconiazione della moneta. Per questo non occorreva altro che un piccolo forno a carbone, unabilancia, dei pezzi di ferro, per ricavarne per incisione i punzoni o il necessario per rifinirli... Lamodestia dei mezzi richiesti per impiantare una zecca, e il grande vantaggio che la pubblica auto-rità ne ricavava, spiega facilmente il successo dell’innovazione e la rapida introduzione di que-sta semplificazione negli scambi, che si rese presto necessaria per tutto il commercio dell’areamediterranea». (M.A. LEVI, La Grecia antica, Torino, Utet, 1971, p. 283).

Se la parola pecunia mostra un nesso con pecus, il termine moneta mostra invece la sua chiaraderivazione dal nome di IUNO MONETA («Giunone ammonitrice»), presso il cui tempio sullarocca capitolina era attiva la zecca di Roma repubblicana.

Prima dell’introduzione della moneta, anche l’Italia ha conosciuto una fase dello scambio delmetallo a peso: non si trattava di oro o argento, bensì di rame usato a pezzi informi (noto pertan-to come «aes rude», diffuso prevalentemente nella parte centrale della penisola e nell’Emilia)oppure a lingotti, con una impronta apposta rozzamente sui lati lunghi («aes signatum»).

Tra i metalli monetati immessi nei circuiti commerciali del mondo antico, maggiore diffusioneebbe l’argento, avvantaggiato dalla sua inferiorità valoriale rispetto all’oro e dal fatto di esseremeno ingombrante del bronzo. Esso fu dunque il metallo-moneta nel periodo dell’autonomiagreca, e, più tardi, in quello della repubblica romana. L’oro, invece, in virtù della sua preziosità erappresentatività, venne privilegiato nella monetazione delle grandi monarchie, come quella diLidia e quella di Persia, e, successivamente, delle dinastie macedoni, tolemaiche e seleucidiche,per finire con l’impero romano e l’impero bizantino.

Del bronzo si sa che, in epoca greca, fu oggetto di coniazione solo nel periodo seriore, delladecadenza e della soggezione a Roma; ebbe larga diffusione, come metallo monetato, tra le popo-lazioni italiche e sicule e mantenne una netta preponderanza nel sistema monetario romano.

Circa l’impiego di un quarto metallo, e cioè l’elettro, i cui pesi si avvicinano al talento d’oro ealle sue frazioni, troviamo interessante quanto rileva M.A. Levi: «Il fatto che viene coniata unalega nella quale l’oro entra solo per una parte, e in pesi differenti da quelli delle precedenti unitàdi scambio auree, permette di pensare che le prime emissioni di metalli coniati acquistino subitola caratteristica (continuata in seguito invariabilmente) di essere provvedimenti di imperio, costi-tuenti una forma di tassazione sopra le attività economiche, se non addirittura una forma di impo-sta permanente sul capitale. Grazie a questo nuovo sistema le monarchie non avevano bisogno dicontinuare nelle loro pratiche economiche monopolistiche o accentratrici per procurarsi le risor-se loro necessarie e per dominare gli uomini attraverso la vita economica, in quanto questa appli-cazione del monopolio dei metalli portava a tali risultati da permettere di rendere libere tutte le

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altre forme di scambio, e persino di dipendere dal mercato per tutte le esigenze cui non bastava-no le risorse dei beni della corona» (M.A. LEVI, La Grecia antica, cit. p. 283).

Sta di fatto che, a partire dalla fine dell’VIII secolo sino all’inizio del VII a.C., si consolidava unaprassi d’intervento degli stati nella vita economica, tramite il controllo dei mezzi monetari di scambio.

L’epoca in cui la moneta fa la sua comparizione, vede l’Asia Minore in posizione di suprema-zia economica e culturale rispetto alla Grecia peninsulare e ai territori esterni all’area egea. Si con-sideri che l’economia dei centri ionici dell’Anatolia, relativamente alle essenziali esigenze legatealle risorse locali, non si era discostata granché dalle forme rudimentali che connotavano l’econo-mia della civiltà omerica, basandosi su due metalli, il rame (o bronzo) e l’oro.

Di contro, l’attività economica della penisola ellenica era imperniata soprattutto sul ferro, dicui esistevano ricchi giacimenti controllati da Sparta in territorio laconico.

Destinato ad imporsi su vasta scala come modello cui si sarebbe conformata la monetazioneellenica fu un conio prodotto presso la zecca di Egina, istituita per conto della monarchia argiva.Con esso veniva introdotto un rapporto argento-ferro di 1:400, in sostituzione del precedente rap-porto tra oro e rame, accettato pure dagli Ioni, che era di 1:3000. Il successo arriso alla monetaeginetica (la famosa tartaruga; databile almeno prima del 550 a.C.), si spiega per essere stata idea-ta nell’intento di rappresentare un valore immediatamente calcolabile, sia in ferro che in argento.È noto infatti che si usava procedere alla divisione della verga d’argento in particole, dal valorecorrispondente esattamente a due manciate di schegge di ferro, denominate appunto dracme.

Ogni dracma si compone di 6 oboli e pesa circa g. 2400, dal momento che l’obolo (così chia-mato perché si tratta di una bacchetta di ferro assomigliante ad uno spiedo) pesa circa g. 400.

Tenuto conto del rapporto 1:400 tra argento e ferro, l’originaria dracma eginetica superava, peruna piccola frazione, i 6 g. d’argento (6,14), mentre l’originario obolo superava il peso di g. 1 peruna minima frazione. È stata notata l’assoluta irrilevanza delle difformità di peso tra le varie drac-me nei circuiti commerciali interni all’area egea, trattandosi soltanto, come avverte il Levi, «didiversi criteri di suddivisione dell’antica e veneranda misura di peso micenea rimasta conserva-ta dall’isola di Eubea: il talento euboico di Kg. 25 e mezzo, il peso usato per il rame e per il bron-zo, che si divideva in 60 mine euboiche di 425 h. l’una» (M.A. LEVI, op. cit. p. 286). Nessunaimportanza si attribuiva al peso della dracma, in relazione al fatto che essa costituiva, in ogni caso,una frazione nel peso totale invariabile della mina euboica.

Si spiega come, finquando Atene, Creta, Rodi, Megara e il Peloponneso non soggetto al con-trollo di Sparta emisero dracme di g. 6,7 o 6,14, conformemente al sistema argivo-eginetico,necessitavano 70 dracme per fare una mina. Quando invece ci si volle adeguare al modello diSamo e Cirene, passando all’emissione di dracme di g. 4,25, si addivenne alla divisione centesi-male della mina, occorrendo appunto 100 dracme per fare una mina. Pure nei casi di produzionedi doppie e quadruple dracme, fenomeno che interessò la stessa Atene, si procedette alla regola-zione del peso, in modo da fare della moneta una frazione della mina. Così, a titolo esemplifica-tivo, dei tetradrammi di g. 16,35, coniati a Focea e Mitilene, ne occorrevano 26 per arrivare alpeso, invariabile, della mina, mentre dei didramma di g. 7,87 emessi a Chio, ne occorrevano 54per fare una mina. Ciò, fa notare Levi, «spiega le variazioni di consistenza nella storia delle mone-te attiche, che derivavano da criteri di prestigio e di comodità: forse con le loro variazioni com-plicavano gli scambi, ma non variavano minimamente il reale contenuto metallico e quindi ilvalore intrinseco della moneta». (M. A. LEVI, op. cit. p. 286).

Il fatto che fosse in circolazione, contemporaneamente, una notevole varietà di valute, dalmomento che persino i piccoli Stati greci, nel battere moneta, non rinunciarono alla facoltà diregolarne la valuta in piena autonomia, costituì un inconveniente di non poco peso. Ma, a frontedi tale pluralità, i Greci seppero mostrare una intelligente capacità di adattamento, come puòdedursi dalla impressionante varietà di monete d’argento di provenienza asiatica (circa 2130), pre-senti nel ripostiglio di Auriol (circa 470-60 a.C.), nell’entroterra di Marsiglia.

Straordinario è il valore testimoniale dei ripostigli databili nel V secolo a.C. e contenenti mone-te ateniesi: si è visto, come quei materiali permettono di ricostruire con estrema chiarezza la para-bola dell’impero attico, sino alla sua dissoluzione.

Inoltre, grazie agli stessi, è facile cogliere le ragioni politiche che, nel periodo classico, sonosottese alla pratica del seppellimento dei tesori.

Posto che su tale pratica dovevano influire notevolmente le lotte interne e gli eventi bellici, unadimostrazione ci può venire da un grafico che ci fa vedere la diffusione delle monete, di prove-nienza attica e non, in base ai rinvenimenti delle stesse in ripostigli risalenti al periodo anterioree sopratutto posteriore alle guerre persiane. Heichelheim ha rilevato come, in base alle sue cono-scenze, si possono far risalire al V secolo a.C. ben 23 ripostigli contenenti monete attiche, che, daun raffronto con i ripostigli risalenti al VI secolo a.C., indicano un incremento di circa il 250%.

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Egli ritiene assai significativo che nessuno dei citati 23 ripostigli provenga dai territori dell’im-pero ateniese, «dove la pacifica e ordinata esistenza garantita dalla flotta attica non induceva alseppellimento dei tesori».

Di eccezzionale interesse si rileva pure il tesoretto rinvenuto a Taranto nel 1911 e contenenteoltre 600 monete d’argento.

Per Heichelheim è da scartare l’ipotesi che potesse appartenere a qualche pirata uso ad assali-re e depredare le navi lungo le rotte dalla Sicilia al Mar Egeo. È più attendibile l’ipotesi che con-tenesse i risparmi «di qualche navigato artigiano o artista che, per qualche tempo, aveva lavora-to in molte importanti città della Grecia arcaica» (F.H. HEICHELHEIM, Storia economica delmondo antico, Bari, Laterza, 1972, p. 462).

Sempre per il citato studioso, sulla base delle monete di più recente conio, emesse a Metaponto,la data del seppellimento dovrebbe cadere nel periodo tra il 500 ed il 490 a.C. ed inoltre non puòessere messa in discussione la eccezzionale importanza documentale per comprendere le relazio-ni economiche del mondo greco nell’epoca immediatamente prossima alle guerre persiane.

Se guardiamo alla provenienza delle oltre 600 monete del tesoretto tarantino, si rimane stupitiper l’impressionante numero di zecche dalle quali sono uscite: nell’ambito della Grecia centraletroviamo monete di Atene, Egina, Corinto, Eretria, Calcide euboica; relativamente all’Egeo set-tentrionale, sono presenti monete di Mende, Potidea, Acanto, Lete e Taso; altre provengono dallepoleis insulari di Pepareto, Teno, Chio, Thera, Cartea, Nasso e Corcira; alla Magna Grecia appar-tengono monete di Metaponto, Sibari, Crotone, Posidonia, Velia, Selinunte e Imera.

Heichelheim evidenzia come dinanzi a tale testimonianza «sarebbe insensato negare l’esisten-za di relazioni economiche tra la madrepatria greca e la Magna Grecia verso il 500 a.C. Esse anzici forniscono una risposta definitiva sul problema di quali città principalmente partecipassero aitraffici internazionali di merci e di uomini diretti verso le colonie occidentali prima delle guerrepersiane» (op. cit. p. 462).

La Sicilia era ormai una di quelle realtà che si configuravano come entità politiche ed econo-miche assolutamente autonome rispetto alla madrepatria. L’inarrestabile ascesa di Siracusa prefi-gurava il ruolo di grande potenza cui quella città aspirava. Lo stesso rinvenimento di ben 29 ripo-stigli siracusani, sempre risalenti al V secolo a.C., a fronte dei coevi 8 in rappresentanza di Atenee dei coevi 4 in rappresentanza di Corinto, conferma il grado di prosperità economica della polisaretusea, presente con la sua valuta sui mercati mediterranei, come in Tunisia e in Egitto.

Va precisato che le divise che si riferiscono ai citati ripostigli di Auriol e di Taranto, almenonella maggior parte, erano frazioni diverse di unità ponderali identiche, ed era proprio questo adagevolarne l’uso in contemporanea.

È apparsa chiara comunque l’artificiosità del sistema metrico chiuso e la sua natura composi-ta, vista la pluralità di elementi che ne costituiscono le coordinate.

Ciò è visibile attraverso l’alternanza in esso della divisione centesimale (una mina = 100 drac-me leggere, un pletro = cento piedi) con la divisione sessagesimale di origine babilonese (uno sta-dio = 600 piedi, un talento = 60 mine).

Nell’ambito di questo stesso sistema, essenzialmente unitario, si registra poi una serie di adat-tamenti per cui, come osserva Gaetano De Sanctis, «mentre la dracma si divide comunemente...in sei oboli, in Sicilia invece, per ragguagliarsi alla locale unità di misura del rame, la libbra(Λιτρα) , essa si divide in 5 litre argentee che si consideravano come equivalenti alle litre localidi rame: alla litra pesante di gr, 1,164 usata nelle colonie calcidesi corrispondendo una libbrapesante di rame di gr. 69,84, alla litra leggera d’argento usata nelle colonie doriche di gr. 0,87corrispondendo una libbra leggera di gr. 58,20». (G. DE SANCTIS, Storia dei Greci. Dalle ori-gini alla fine del secolo V, Firenze, La Nuova Italia, 1961, vol. I, p. 460).

Malgrado gli inconvenienti rilevati, l’introduzione del nuovo mezzo di scambio portava ad unatrasformazione graduale dell’economia naturale in economia monetale, con evidenti effetti bene-fici, sia per il traffico delle merci che per le facilitazioni nel risparmiare attraverso la tesaurizza-zione del denaro.

Il fatto che nascessero veri e propri mercati al minuto all’interno della polis arrecava un certobeneficio ai piccoli proprietari, i quali erano ora nella possibilità di vendere quanto annualmenterisultava in eccedenza per ricavarne moneta, il che consentiva, come fa notare Fritz M.Heichelheim, «per la prima volta nella storia umana, di fare risparmi continui e di salire nellagerarchia sociale migliorando per sempre la propria condizione» (F.M. HEICHELHEIM, Storiaecnomica, cit. p. 434).

I gruppi del libero proletariato, adesso, in assenza di gravami economici insopportabili e diimpedimenti di carattere strutturale come quelli che incidevano pesantemente nelle società del-l’antico oriente, potevano aspirare ad un miglior tenore di vita. In particolare la classe degli arti-

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giani autonomi e dei banchieri (naúkraroi, émporoi, kápeloi) vedeva a portata di mano la possibi-lità di facili arricchimenti, anche grazie alla pratica di dare denaro a credito.

Prese piede allora, già in epoca soloniana, un’attività speculativa ad opera di grossi proprietariterrieri, usi ad incassare cospicui quantitativi di moneta coniata, sottraendola alla circolazione.

È chiaro come, a risentire della conseguente penuria di liquido sulla piazza, dovessero esseresopratutto le fasce sociali a modesto reddito.

Venne a determinarsi, così, una sempre più netta divaricazione sociale tra le classi economica-mente più forti, che videro accrescere a dismisura le proprie risorse, ed il ceto dei piccoli proprie-tari e dei piccoli artigiani, i quali, indebitati, rischiavano di ridursi a servi della gleba, o addirittu-ra, di essere venduti come schiavi.

Per fortuna, a far uscire Atene da una crisi sociale sempre più grave, doveva intervenire Solone,nominato arconte e «riconciliatore» nel 594 a.C. (G. DE SANCTIS, Atthis. Storia dellaRepubblica Ateniese, Torino, 1912, 2a ediz., p. 203 sg.).

Con un’azione audace e drastica, ispirata ad un ideale denominato eunomia, Solone mirò a«bilanciare i lati positivi e quelli negativi della polis con la stessa armonia raggiunta all’iniziodel VI secolo dall’architettura e dalla scultura greche. Di conseguenza Solone, nella sua legisla-zione, con una mano concedeva alle diverse categorie, classi e persone di Atene tanto quanto,spinto dalle sue convinzioni, toglieva loro con l’altra... A questo modo schiettamente conservato-re egli creò le opportune premesse per la sua legislazione che avrebbe esercitato un benefico effet-to sociale ed economico per molti secoli» (F. H. HEICHELHEIM, Storia Economica cit., p. 438).

Usando i poteri di imperio dell’autorità statale in campo monetario, il legislatore ateniese deci-se l’eliminazione della dracma argiva-eginetica che rappresentava 1/70 della mina, per sostituirlacon la nuova dracma euboica di g. 4,25, cioè 1/100 della mina. L’effetto immediato di questa verae propria rivoluzione sociale fu che chi era debitore di 70 dracme presoloniane, cioè di una mina,per effetto della riforma vide il proprio debito ridursi del 30 per cento.

Ma, oltre ad un salutare alleggerimento della situazione dei debitori, la moneta ateniese, man-tenendo gli stessi contrassegni, cioè l’anfora a due sbarre incrociate a X, passava all’adozione diun sistema di misura analogo a quello adottato presso i maggiori centri commerciali del mondoellenico, cioè a Samo, a Cirene, nell’Eubea e a Corinto.

La circolazione monetaria in Atene, sotto Solone, continuò a basarsi sopra il didramma, il cuipeso è variabile tra i g. 8,23 e i g. 8,60 e l’obolo, di g. 0,17. È da precisare nondimeno che ildidramma, definito anche con il termine statere, viene diviso normalmente in due dracme, checontinuano a circolare, come i sei oboli in cui è suddivisa la dracma.

Nel periodo postsoloniano le monete non riportano più il simbolo tipico dell’Attica agricola,cioè l’anfora olearia, alla quale subentrano nuovi contrassegni generalmente identificabili con leimmagini presenti sugli scudi degli appartenenti ai potenti ceti nobiliari del tempo.

Sarà l’illustre ed antica famiglia degli Alcmeonidi ad introdurre nella monetazione il simbolodelle tre gambe bianche disposte a raggi di ruota, il triskeles: si tratta dell’episemon degli scudifamiliari, dalla iconografia ricorrente anche in immagini vascolari a figure nere e destinata ad esse-re adottata come espressione simbolica della Sicilia. Proprio quel simbolo comparirà nei didram-mi intorno al 590 a.C., immediatamente dopo le ultime emissioni soloniane. Il Levi ritiene ipote-si molto attendibile che l’alcmeonide Megacle, nel clima di reazione alle riforme soloniane, abbiaraggiunto una posizione egemonica in città, tanto da poter imporre sui coni monetali il simbolodella propria famiglia. D’altronde, rileva il citato storico, «dopo questo didramma del triskelescompaiono altre monete con teste di bue, teste di cavallo, parte posteriore di cavallo e ruote, tuttiepisema che compaiono identici in figurazioni vascolari del VI secolo sugli scudi di uomini com-battenti o della dea Atena. È possibile che, in questo periodo, il personaggio che teneva in manoil supremo potere della città potesse mettere le sue insegne di famiglia sulle monete, poiché acca-de che alcune serie susseguenti cambiano la matrice del retto senza cambiare il punzone delverso» (M.A. LEVI, op. cit., p. 288).

In base ai reperti numismatici, le prime monete coniate ad Atene probabilmente furono quelleche riportavano l’emblema dell’anfora. Seguì l’emissione di monete con incisi emblemi (scudi,posteriori di cavalli, astragali ed altri), interpretati come stemmi araldici: ad esse gli studiosi hannodato il nome di Wappenmünzen. Ancora dopo, fa la sua comparsa una moneta di maggiore dimen-sione, un tetradramma con al retto la testa di Atena ed al verso la civetta con un ramo d’ulivo e letre prime lettere del nome della città.

Un problema di non facile soluzione è quello della collocazione cronologica di questi tetra-drammi, che alcuni fanno risalire all’ultimo quarto del VI secolo a.C.

Ma anche le Wappenmünzen, sempre relativamente alla datazione, sono oggetto di tesi contro-verse. C’è chi le fa cominciare solo dopo il periodo soloniano (575 o 545 a.C.).

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XXX

Uno degli argomenti su cui ha insistito un certo orientamento storiografico è quello della cor-relazione tra l’introduzione del nuovo strumento economico e l’instaurazione dei regimi tirannici.In proposito il Musti osserva che, ove si accettasse tale rapporto, si potrebbe evincere che i tiran-ni abbiano avuto interesse a favorire l’affermazione del mezzo monetario, che, «se poteva colpirel’aristocrazia giudiziaria, aveva tuttavia la sicura conseguenza, in senso positivo, di creare lecondizioni per un intervento in favore del piccolo proprietario o del coltivatore diretto, bisogno-so di sussidi e di stimoli (ne è conferma la politica di Pisistrato) nonché per favorire lo sviluppodell’edilizia urbana, per incrementare in qualche misura l’urbanizzazione, e per stimolare la pro-duzione artigiana, e perciò le attività commerciali…

Ma, anche se il nesso cronologico e storico tra la fioritura delle tirannidi e l’istituzione dellamoneta dovesse venir meno, certe connotazioni socioeconomiche della tirannide sussisterebberocomunque, anche se in forma e grado diversi. Ciò tanto più, se il salto di qualità nella storia del-l’economia greca non si connette propriamente, o rigidamente, con l’introduzione della moneta,ma piuttosto con tutto ciò che viene ad incidere su una struttura e una mentalità di tesaurizzazio-ne e conservazione» (D. MUSTI, L’economia in Grecia, cit., pp. 79-80).

Quanto rilevato dal Musti aiuta a focalizzare l’istituto della tirannide nel reale ruolo che avevanell’Ellade del tempo, e porta alla sorprendente conclusione che esso rappresentava un elementodinamico nel processo di crescita del sistema politico greco, segnando addirittura una tappa lungoil cammino che avrebbe portato alla democrazia. Si trattava, infatti, di un potere concentrato nellemani di una sola persona, un potere che, se pur illegalmente conseguito con un atto di forza e con-solidatosi nel dispregio delle istituzioni esistenti, poteva contare sul pieno appoggio degli strati piùbassi della popolazione, decisi a rivalersi contro le vessazioni e gli abusi dei ceti aristocratici. Intale contesto la stessa politica monetaria dei tiranni appariva funzionale al consolidamento delregime. Non è casuale il fatto che le emissioni di tetradrammi cadano proprio nel periodo diPisistrato, testimoniando la volontà del tiranno di legare il proprio nome ad una moneta il cui pesodoveva corrispondere esattamente a quella del vero statere.

Dopo la morte di Pisistrato, il regime tirannico si protrasse con i Pisistratidi, come vengonochiamati i suoi figli Ippia ed Ipparco, sotto i quali fu mantenuta l’usanza di emettere monete concivette o con altri simboli, come quello del gambero.

Quando nel 510 a.C. tornò ad affermarsi l’oligarchia, costringendo Ippia alla fuga, furonoconiate monete di quattro dracme con la testa della Gorgone e con protome di buoi o di leoni: taletipologia perdurò nella monetazione sino a quanto, grazie a Clistene, vennero poste le basi dellacostituzione democratica.

A proposito della variazione tipologica della monetazione ateniese, Crawford ritiene che lacomparsa del tipo civetta vada vista come «una creazione della tirannide, degli ultimi anni diPisistrato o degli anni iniziali di Ippia… Ora, sappiamo che i tiranni, ad Atene fecero consapevo-li sforzi per favorire la polis in opposizione ai sentimenti particolaristici, con lo sviluppo dei cultidi Demetra ad Eleusi, di Dionisio e, ciò che è significativo, di Atena stessa. In tale contesto, laproduzione di monete con la civetta andrebbe vista come un deliberato atto politico» (M.H.CRAWFORD, La moneta, cit., p. 22).

Il citato studioso avanza il sospetto che il tipo voglia esprimere qualcosa che trascende la meradimensione ideologica, riverberando una politica sociale ed economica di tipo avanzato, basata suuna redistribuzione delle risorse all’interno della polis ateniese.

Ciò sembra accreditare la tesi che i tiranni abbiano dato una spinta propulsiva al consolida-mento dello strumento economico monetario, che, se da un lato poteva costituire un’arma con-tro l’aristocrazia fondiaria, da un altro consentiva di attivare una politica di ampio respiro socia-le, tesa a favorire i piccoli proprietari o i coltivatori diretti e nel contempo a promuovere lo svi-luppo dell’edilizia urbana e delle attività commerciali. Abbiamo toccato così il tema della stret-ta correlazione fra l’adozione in Grecia dello strumento monetario e l’origine della tirannide,tema che rimane al centro di un interessante dibattito fra gli studiosi. Domenico Musti è porta-to a vedere nei due fenomeni le facce di un processo socio economico di più vaste proporzionie proporre uno scenario in cui si mette in discussione che sia «la pura e semplice adozione dellamoneta a costituire una cesura nella storia economica greca» (D. MUSTI, L’economia inGrecia, cit. pp. 70-71).

Egli ribadisce che tale cesura, da non intendersi come un «taglio netto», bensì come un matu-rare di cambiamenti qualitativi, nel corso dei secoli, che provoca una diversificazione tra i com-portamenti di strati sociali e di regimi politici diversi, va vista nella prospettiva di un passaggiostrutturale: da un livello acquisitivo e conservatore, portato alla tesaurizzazione, ad un livello dina-mico, grazie alla forte spinta innovativa del valore di scambio e all’impennata dei processi produt-tivi e delle attività commerciali.

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XXXI

Si coglie così quella che Moses I. Finley ha definito come «la complessa ambiguità della tiran-nide greca», (M.I. FINLEY, Storia della Sicilia antica, Bari, Laterza, 1970, p. 68) vista la straor-dinaria capacità aggregante che essa dimostra, stringendo attorno a sé le fasce diseredate dellapopolazione cittadina e piccoli proprietari terrieri, artigiani e mercanti, senza escludere pezzi del-l’aristocrazia più o meno in difficoltà economiche. Come avverte il Musti, «la tirannide apparecome il frutto della crisi di una struttura economica, che era basata in grado eminente sui pro-cessi di tesaurizzazione e accumulazione, e perciò fondata sulla prevalenza della grande proprie-tà terriera e dell’aristocrazia proprietaria; coincide con l’avanzata dei processi di circolazione,detesaurizzazione, scambio, sul piano economico, e con forme nuove di aggregazione, e una piùmobile stratificazione sul piano sociale. In un certo senso. essa è l’espressione di una rivolta con-tro la vecchia stratificazione sociale, immobile nei suoi rapporti gerarchici» (D. MUSTI,L’economia in Grecia, cit. p. 67).

Intanto la Sparta licurghea, utilizzando una moneta di ferro addolcito, appariva arretrata su unaforma di scambio premonetale. Per rendere l’inconveniente, correlato alla necessità di custodire otrasferire cospicue quantità di quel mezzo metallico rudimentale, basti pensare che una mole cor-rispondente a dieci mine poteva essere contenuta negli spazi di una grande abitazione, mentre peril suo trasporto, occorreva un carro trainato da buoi. Da ciò si evince l’inadattabilità della citatamoneta per l’attività di scambio, specie con l’estero.

Si trattava evidentemente di un caso limite, costituente un fattore ostativo alla stessa tesauriz-zazione, pregiudicando tutte le possibilità di sfruttare le variabili derivanti dalle svariate combina-zioni dei processi di tesaurizzazione con quelli di scambio.

Tucidide sarà indotto a rilevare, estendendo impropriamente a tutto il territorio peloponnesia-co una condizione circoscritta alla sola Sparta, che gli abitanti del Peloponneso non hanno né ídiané koiná chrémata. Mentre pare che Platone, nel delineare un profilo dell’uomo timocratico, ancheattraverso pertinenti riferimenti ad aspetti comportamentali dettati da una mentalità tesaurizzatri-ce, alluda a costumi tipici degli Spartani. Il grande filosofo (Repubblica, VIII 548 a.C.) osserva inproposito: «Uomini siffatti... saranno avidi di ricchezza, come lo sono quelli che vivono nelle oli-garchie, e onoreranno ferocemente, nell’ombra, l’oro e l’argento, possedendo ripostigli e tesoriprivati, dove depositeranno e nasconderanno tali beni, e (per di più) case recintate... Essi saran-no avari delle loro ricchezze, poiché le onorano e non le posseggono manifestamente, e invecesaranno prodighi di quelle altrui, spinti come sono dalle loro passioni, e coglieranno di nascostoi loro piaceri, sfuggendo alla legge come i figli sfuggono al padre...».

Che gli Ateniesi andassero particolarmente fieri della propria monetazione trova una significa-tiva testimonianza documentale nel seguente passo di Senofonte: «Ma poi nella maggior partedelle poleis i commercianti devono esportare qualche cosa in cambio di ciò che hanno importa-to, dato che queste poleis non hanno monete che siano accettabili ovunque. Ma ad Atene di coseche servono agli uomini ce ne sono a disposizione per l’esportazione più che in ogni altro luogoe, se i commercianti non vogliono esportare niente, possono prendersi argento (in moneta) edesser sicuri di aver fatto un buon affare. Perché dovunque le venderanno, otterranno più denarodi quanto ne avevano speso» (Senofonte, Poroi, 3, 2).

Tali affermazioni, traboccanti di orgoglio, ci fanno comprendere come, in particolar modo itetradrammi ateniesi fossero assai richiesti in tutto il mondo greco, «in qualità di moneta pseudo-internazionale» (M.H. CRAWFORD, op. cit., p. 57).

Con tale espressione Crawford non intende «una monetazione che passava per valuta corren-te in una polis diversa da quella di origine - perché era improbabile che ciò accadesse - bensì unamonetazione che, in quanto ben conosciuta, era accettata per il cambio e possedeva una serie fis-sata di equivalenze rispetto ad altre monetazioni» (M.H. CRAWFORD, op. cit., pp. 57-58).

È noto come lo status della moneta ateniese come moneta pseudo-internazionale favorisse laproliferazione di imitazioni, sia all’interno del mondo greco, sia all’esterno.

Da un’iscrizione riportata da R. S. Stroud, apprendiamo che, ad un certo momento, e precisa-mente nel biennio 375/4, gli Ateniesi ebbero la percezione dell’entità del fenomeno (R.S.STROUD, An Athenian Law on Silver Coinage, “Hesperia”, 43, 1974, p.157), sicché i nomothé-tai furono chiamati ad assumere le decisioni più idonee per far fronte al problema.

Fu demandato ad un pubblico dokimastes il compito di decidere circa la validazione di mone-te con tipi ateniesi, sopprimendo le monete suberate o alterate.

Un dato da tener presente è che una polis deteneva il monopolio della coniazione all’internodella propria chóra. Illuminante appare in tal senso un passo delle Leggi di Platone, dove la con-sueta pratica della polis reale viene proiettata nella prospettiva utopistica della polis ideale.

In quest’ultima non si dovrà fare impiego di monetazione aurea ed argentea, ma avrà esclusivacircolazione una monetazione, presumibilmente bronzea, per le operazioni commerciali quotidia-

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XXXII

ne. Essa avrà validità solo nell’ambito della chóra, mentre, per coloro che si muovono all’estero,Platone prevede l’uso di un nómisma hellenikòn, moneta ellenica a carattere internazionale.

Passando dal piano teorico a quello pratico, due erano, secondo Lenormant, i criteri fondamen-tali che regolavano i procedimenti emissivi.

In un caso si attribuiva la responsabilità della emissione al principale magistrato politico citta-dino, che aveva cura di apporre il proprio nome o il proprio sigillo sulla moneta accanto al tipo.In alternativa, nel quadro di una divisione di poteri, finalizzata ad evitare pericolosi accentramen-ti e quindi ad offrire garanzie di maggiore libertà, si attribuiva la responsabilità a speciali funzio-nari addetti alle finanze e chiamati a rispondere delle proprie azioni direttamente al Senato e alpopolo. Espressione giuridica del controllo dello Stato sulla moneta furono i vari Decreti Monetariemessi dalle poleis.

Notevole importanza riveste il Decreto Monetario che sanciva l’espansione dell’area copertadal monopolio monetario ateniese, facendo espresso divieto ai membri della lega delio-attica diesercire zecche e imponendo loro la coniazione della propria moneta nel territorio dell’Attica. Iltesto del Decreto ci è noto attraverso la ricostruzione di studiosi moderni, cui si deve l’assemblag-gio di una molteplicità di frammenti provenienti da varie parti dell’impero. Circa la sua datazio-ne si è sviluppato un ampio dibattito che vede preponderante la tesi in base alla quale esso cadreb-be intorno alla metà del V secolo a.C. Le clausole poste dal Decreto ci sono note attraverso la partecontenente l’aggiunta al giuramento che, nel momento iniziale del loro mandato, erano tenuti aprestare i membri della boulé ateniese.

Per meglio precisare la sfera di intervento del monopolio ateniese, che comunque mortificavai diritti sovrani delle città confederate, va detto che il divieto è circoscritto alla coniazione dell’ar-gento, il che pare escludere le emissioni in altre leghe.

Nel chiedersi quale fosse il vero scopo del Decreto, Crawford ritiene che esso intenda «perse-guire un fine principalmente politico, simboleggiante per gli alleati il fatto che non erano liberi;in tale contesto è importante ricordare che agli alleati era vietato usare i propri pesi e le propriemisure, come pure le proprie monete d’argento» (M. H. CRAWFORD, La moneta in Grecia e aRoma, cit., p. 35). Il citato studioso peraltro ritiene improbabile che il provvedimento in questio-ne abbia arrecato qualche vantaggio economico, facendo anzi notare come iniziative analoghe –cita in proposito la rimonetazione a Delfi nel IV secolo – abbiano addirittura comportato delle per-dite. Da qui la deduzione di Crawford che il Decreto Monetario sia stato sostanzialmente «unprovvedimento simbolico, non basato su un calcolo del profitto» (Ibidem, p. 36). E nondimenoAtene volle attribuire ad esso una straordinaria importanza, come si evince dall’intento di salva-guardarne le clausole attraverso la loro introduzione nel giuramento della boulé. Il fatto però che,nonostante l’alta considerazione di cui godeva , il provvedimento sia ben presto decaduto, orien-ta Crawford a ritenere che esso non risalga al 449 a.C., bensì al tempo della guerra delPeloponneso.

A sostegno della sua tesi lo studioso inglese rileva come proprio durante quel conflitto cada l’u-nica citazione letteraria del provvedimento, cioè la sua “canzonatura” negli Uccelli di Aristofane(Uccelli, 1040).

In un successivo decreto ateniese del 415, conservato quasi integralmente in tre frammenti diiscrizione, veniva stabilito quanto segue:«Il popolo ateniese eleggerà quattro commissari, ognunodei quali si trasferirà in una di queste regioni: in Ionia, nelle isole, nell’area dell’Ellesponto e nel-l’area della Tracia. Si dovrà provvedere immediatamente a queste elezioni e gli strateghi dovrannoinviare i commissari entro … giorni; in difetto di che, ogni stratego dovrà pagare una multa di10.000 dracme. I governanti dei vari paesi dipendenti dovranno rendere pubblica una copia di que-sto decreto, facendolo incidere sopra una stele di pietra nell’agorà di ogni città, e si provvederàanche a mettere un’altra stele sulla facciata della zecca. Se i paesi non vorranno eseguire sponta-neamente queste disposizioni, esse verranno eseguite dagli Ateniesi. Ogni commissario avrà facol-tà di requisire ciò che verrà ordinato dal popolo ateniese. Il segretario della bulè dovrà aggiunge-re le seguenti parole al giuramento buleutico: se chicchessia nei paesi dipendenti conia moneted’argento, o non usa monete, pesi e misure ateniesi, ma impiega monete, pesi e misure di altri paesi,costui sarà sottoposto alle penalità già stabilite nel decreto precedente fatto votare da Clearco. Iprivati cittadini dovranno consegnare la loro valuta argentea straniera nei giorni che saranno sta-biliti, mentre le autorità ateniesi provvederanno al cambio. Sarà obbligo di ciascuno di scrivere epresentare una dichiarazione del denaro di cui dispone e consegnarla alla zecca. Gli incaricati lariceveranno e la trascriveranno sopra tabelle imbiancate, le quali dovranno essere esposte davan-ti alla zecca, affinché tutti possano vedere, in colonne separate, da una parte la moneta stranieraversata e dall’altra la moneta ateniese data in cambio» (in G.F. HILL, Sources for Greek History,Oxford, 1951, p. 295).

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XXXIII

Un altro Decreto, che trovò applicazione ad Olbia, sorprende per la singolarità delle clausolein esso contenute:

1) Si fa obbligo di scambiare la moneta d’oro e d’argento «presso la pietra nella piazza del-l’assemblea».

2) Lo scambio della moneta d’oro e d’argento deve essere effettuato con moneta di bronzo ed’argento di Olbia.

3) Si prescrive che i trasgressori siano legalmente perseguiti da funzionari che abbiano unospecifico mandato in tal senso.

4) Si prescrive che lo statere di Cizico venga scambiato ad un tasso fisso (senza agio), e chele altre monete vengano scambiate ad un tasso da definire (con agio).

5) È previsto il mancato prelevamento di tasse sulle operazioni di scambio.Crawford avanza molti dubbi sull’ipotesi che poleis greche dell’età classica possano aver trat-

to normalmente un significativo vantaggio dalla coniazione di monete d’oro e d’argento, escluden-do che i monopoli di Mitilene e Focea, o di Olbia, siano stati fonte di profitto.

Il citato studioso richiama l’attenzione sul fatto che l’autonomia della polis garantì che lemonete straniere non venissero considerate valuta legale e che venissero cambiate, con la conse-guente commissione bancaria. Sono davvero sorprendenti le situazioni cui Crawford fa riferi-mento: «Così un pescivendolo imbroglione, in una polis greca che probabilmente è Egina, è rap-presentato da Difilo intorno al 300 nell’atto di chiedere moneta eginetica. Il compratore non cel’ha, così viene applicata una commissione su ciò che offre; il pescivendolo poi gli dà il resto inmoneta attica, detraendo per questo esborso una seconda commissione. La barriera innalzatadalla commissione bancaria è ben illustrata da una iscrizione in onore di un siracusano checoprì la perdita del 5% che altrimenti avrebbe subito un’ambasciata, quando usò la moneta diTesso (probabilmente) invece che moneta di Rodi per acquistare del grano» (M.H. CRAWFORD,La moneta, cit., p. 32).

Intanto l’esito disastroso della guerra con Sparta portò, intorno al 407 a.C., all’esaurimentodelle ingenti riserve d’oro e di argento e di lingotti che giacevano nel Partenone e che ammonta-vano a circa quattro milioni di dracme d’argento. Fu allora che si prese la decisione di far fonde-re l’oro per ricavarne monete, mentre, nel 406 a.C., dilagava l’uso di emettere monete false,coniandole in ottone e rivestendole di un sottile strato di argento, destinato a dissolversi con l’u-sura in breve tempo. Atene faceva così esperienza diretta di un fenomeno cui era rimasta estranea,ma che si può far risalire al VI secolo, quando l’emissione di monete false fu ordinata da Policratedi Samo, trovando ovunque vasta diffusione, come testimoniano i numerosi ripostigli dove sonostate rinvenute monete danneggiate dai tagli praticati per verificarne la genuinità.

La pratica delle falsificazioni attecchisce in un momento buio, culminante con la sottomissionedi Atene all’egemonia spartana, che comportava l’abbattimento della democrazia e l’avvento delregime oligarchico dei cosiddetti Trenta Tiranni. «La Grecia, commenta Plutarco, dopo aver assag-giato il buon vino della libertà ateniese dovette servire il vinaccio servito dai tavernieri spartani».

Da quando gli Spartani, dietro consiglio di Alcibiade, avevano costituito a Decelea, localitàdell’Attica, un presidio fisso al fine di tenere costantemente sotto controllo Atene, questa vedevapreclusa la possibilità di sfruttare le miniere d’argento del Laurio. La crisi del mercato monetarioateniese si aggravava per il sopraggiungere della valuta aurea persiana. Gli stateri coniati con leriserve auree ateniesi venivano foggiati sul livello e sulle misure del dorico persiano.

Come fa notare il Levi, «aggiungendosi anche l’oro macedone, accadde un’alterazione nelrapporto oro-argento, che dal livello tradizionale, comune anche ai Persiani di 1:13,30, discese a1:10. L’emissione di monete ateniesi di ottone, iniziatasi proprio l’anno successivo all’emissionedegli stateri d’oro, diede la misura del disastro economico, ma nello stesso tempo fu una invisibi-le ed eccezionale conseguenza dell’assoluto imperio dello Stato in materia di circolazione» (M.A.LEVI, La Grecia antica, cit., p. 297).

È significativo in proposito quanto Aristofane nella Parabasi delle “Rane” fa dire al Corifeo(vv. 717 e segg.): «Sovente mi è parso che la nostra città tratti i migliori dei cittadini allo stessomodo come tratta la moneta antica e il nuovo oro: infatti queste monete antiche, non adulterate,riconosciute le migliori fra tutte, erano lavori perfetti, apprezzate ovunque, tanto dai Greci comedai barbari. Di queste non facciamo più uso ma pessimo conio. Allo stesso modo, fra i cittadini,offendiamo e maltrattiamo quelli che sappiamo essere di buona famiglia, saggi, giusti ed eletti,educati nelle palestre, nei cori e nella musica, mentre per ogni scopo noi facciamo uso dellemonete di ottone, gli stranieri, gentaglia nata da gentaglia, gli ultimi venuti, che in altri tempi nes-suno avrebbe voluto, neppure come capro espiatorio».

L’anno 336 a.C. segna una data importante nella numismatica greca: fa infatti la sua comparsala serie di monete auree di Alessandro Magno, recanti, al retto, l’immagine di Atena, in una impo-

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XXXIV

stazione iconografica chiaramente riconducibile alla celebre statua di Fidia, e, al verso, un’imma-gine della vittoria. Da allora tutte le emissioni di Alessandro sono permeate di quello spirito panel-lenico che fu un motivo centrale della sua politica, considerandosi egli, analogamente al padreFilippo II, non uno straniero rispetto ai Greci, ma un figlio spirituale dell’Ellade. Si spiega comela propaganda panellenica connoti le emissioni successive alla data del 336 a.C., emissioni nellequali al retto troviamo la testa di Eracle, il mitico eroe da cui i re di Macedonia si vantavano didiscendere in linea genealogica, mentre al verso troviamo la figura seduta di Giove Olimpico.

Vari studiosi hanno inteso evidenziare la plurivalenza della citata iconografia monetale, ipotiz-zando che la statua di divinità seduta poteva non necessariamente rappresentare Giove Olimpico,bensì identificarsi con Melqart, nel Baal Cilicio o nel Marduk babilonese.

Dopo aver effettuato l’invasione dell’Asia nel 334 a.C., Alessandro, nel breve arco temporaledi 11 anni estese la propria egemonia su tutti i territori che in precedenza erano stati tenuti sottocontrollo da parte della dinastia persiana degli Achemenidi. In base ad una tesi sostenuta da M.I.Rostovtzeff, egli avrebbe perseguito l’obiettivo di consolidare l’unità economica del proprio impe-ro, imponendo un sistema monetario caratterizzato da uniformità, procedendo alla fondazione dicittà ed all’apertura di rotte commerciali tra il Mar Rosso, il Golfo Persico e l’Estremo Oriente.

Tale unità economica era destinata a sopravvivere sotto i successori di Alessandro, grazie almantenimento del suo sistema monetario. Malgrado sopravvivessero taluni elementi «feudali» ilperiodo ellenistico fu contrassegnato, osserva Crawford, «dalla penetrazione del capitalismo com-merciale individualistico del vicino Oriente nel suo insieme e dall’organizzazione dell’Egittocome impresa capitalistica di Stato» (M.H. CRAWFORD, La moneta, cit. p. 73).

Nell’epoca del grande macedone si assiste al proliferare di numerose zecche, sia in Grecia chein Oriente, destinate tutte a crescere di prestigio, in quanto zecche dell’impero. In Asia MinoreAlessandro, oltre ad avvalersi delle zecche di Lampsaco e di Sardi, fondò nuove zecche a Mileto,a Side, a Tarso, ad Alessandria, all’Isso e a Damasco.

Tra le zecche attive in territorio macedone per impulso di Alessandro, non si può fare a menodi ricordare quelle di Pella e di Amfipoli, specie per la impressionante prolificità di quest’ultima,grazie alla vicinanza con le ricche miniere d’oro e d’argento di cui poteva disporre la Macedonia.

Dalla zecca di Amfipoli uscirono, durante il regno di Alessandro, 13 milioni di pezzi di tetra-drammi d’argento: una mole al cui confronto impallidisce il quantitativo di emissioni di città fio-renti, come Siracusa, la cui zecca produsse 340.000 monete d’argento nell’arco di un secolo emezzo. Sempre regnando Alessandro, in territorio peloponnesiaco fu aperta una terza zecca, e pre-cisamente a Sicione.

Ovunque, negli immensi territori sottomessi s’imponevano le monete del conquistatore, che,tanto le auree quanto le argentee, erano foggiate su modelli metrologici attici. Il sistema moneta-le alessandrino abbracciava una straordinaria varietà di tetradrammi, didrammi, dracme e monetedivisionali, nella scia della grande tradizione della moneta attica, ora assurta a nuovo prestigio conla ripresa delle estrazioni nelle miniere del Laurio. Notevole incremento registravano nel contem-po le coniazioni auree, in relazione alla considerevole quantità di oro immessa nel mercato (per laquale il rapporto oro-argento era di 1:10).

Gli stateri di Alessandro, sostituendo i darici persiani, diventarono la moneta aurea di più ampiadiffusione del mondo greco.

Quando Alessandro, a seguito dell’uccisione di Dario (luglio 330) per mano di Besso e deglialtri satrapi suoi complici, diventa finalmente l’erede legittimo, per diritto divino, oltre che perdiritto di conquista, dell’impero di Persia, il titolo di sovrano, nel senso di successore di Dario, fala sua comparsa, prima con una certa prudenza, sulle emissioni monetali, per poi affermarsi in uncrescendo.

È significativa in tal senso l’attività emissiva di una zecca egiziana, organizzata a partire dal326 a.C., e consistente nella produzione di un milione e mezzo di pezzi in otto anni.

Ma va rilevata anche la raffinata eleganza del disegno che connota i citati coni egizi, la cuicostante è data dalla tendenza a fondere elementi somatici del ritratto di Eracle con quelo diAlessandro.

Con l’uscita di scena del grande condottiero, l’immenso impero da lui creato si sgretola e dallesue rovine emergono tre grandi Stati, rappresentati dalle dinastie degli Antigonidi, dei Seleucidi edei Tolomei. Intanto, afferma il Levi, ha inizio «la complessa storia delle emissioni ellenistiche,nelle quali la competizione economica fra i vari stati è anche visibile nella palese competizioneper la bellezza dei coni» (M.A. LEVI, La Grecia antica, cit., p. 300).

Sotto Tolomeo anche l’Egitto, che mai aveva prodotto moneta autonomamente, dà l’avvio alleemissioni, inizialmente con i tipi e a nome di Alessandro, successivamente, dopo il 305 a.C. contipi diversi a nome dello stesso Tolomeo.

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XXXV

In territorio asiatico, circa nella stessa epoca, anche Seleuco comincia a coniare, inserendomotivi propagandistici come mezzo di comunicazione con i sudditi, specie con quelli residentinelle zone periferiche.

Dal regno seleucidico la moneta, verso la metà del III secolo a.C., passerà in un paese non elleni-co come la Bactriana e di qui nell’India, nei cosiddetti regni indo-greci, i quali, a loro volta, la tra-smetteranno ai regni indiani. Sempre dal regno seleucidico la moneta passerà, nella prima metà delII sec. a.C., ai Parti, le cui emissioni presenteranno chiari segni di imitazione delle coniazioni greche.

Il fatto che la monetazione di Alessandro abbracciasse non solo monete emesse presso moltezecche, quando il grande condottiero era in vita, ma anche monete coniate dopo la sua scompar-sa, pone un “problema pratico” che, secondo Crawford trova spiegazione nell’«incertezza sudove risiedesse precisamente il potere sovrano». Ma, precisa lo studioso, «il fatto è che la cosid-detta monetazione di Alessandro comprende a una estremità dello spettro quella che è chiara-mente monetazione di Alessandro o dei suoi immediati successori, e dall’altra estremità quellache è chiaramente solo monetazione di poleis che presenta i tipi della monetazione di Alessandro,Testa di Ercole/Zeus seduto: alcune emissioni furono coniate addirittura due secoli dopo la suamorte, una persino da Ario di Sparta, accanito nemico della Macedonia. Tutto questo riflettenaturalmente la posizione della moneta di Alessandro come moneta pseudo-internazionale; ma,al momento, non è per niente chiaro dove tracciare la linea di demarcazione tra emissioni rega-li e emissioni di poleis nella monetazione di Alessandro, linea senza la quale non è possibileusare la testimonianza della monetazione di Alessandro per l’analisi della politica fiscale elleni-stica. La questione è aggravata dal fatto che i tipi di uno dei successori di Alessandro, Lisimacodi Tracia, furono anch’essi perpetuati dopo la sua morte, perfino per altri due secoli» (M.H.CRAWFORD, La moneta in Grecia e a Roma, cit. p. 75).

Va sottolineato come emissioni di età ellenistica rivestono notevole valore documentale circagli aspetti giuridici della monetazione. Si è detto dei due criteri fondamentali che, secondoLenormant, presiedevano al procedimento emissivo. Nell’ambito dei due orientamenti esisteva,però, una vasta casistica di variazioni che offre a volte un’esaustiva chiarificazione su determina-ti particolari.

Secondo Laura Breglia «il caso più complesso e interessante» è quello riguardante i tetradram-mi ateniesi di epoca successiva alla metà del III secolo, con il tipo della testa di Atena al dritto edella civetta sull’anfora al rovescio. Si tratta di una serie nella quale si possono individuare treperiodi scanditi dalla firma dei magistrati: in uno il nome è indicato con un monogramma, in unaltro figurano due nomi, mentre in un terzo ne figurano tre.

Un dato di grande interesse documentale consiste nella lettera numerale che compare al R/ eche si riferisce al mese dell’anno lunare cui risale l’emissione della moneta.

In base al ripetersi ed al distribuirsi dei nomi, mai accompagnati dall’indicazione della caricaricoperta dal magistrato, gli studiosi hanno tentato di comprenderne le reciproche funzioni, addive-nendo alla conclusione che due dei nomi indicano magistrati annuali investiti della responsabilitàdella coniazione. Sono proprio loro ad assumere la diretta cura della moneta, offrendo piena garan-zia tramite l’apposizione su di essa del proprio nome, cui troviamo accoppiato per uno di essi quel-lo che si presume sia il sigillo personale. Relativamente al terzo nome, che varia con frequenza (finoa dodici volte) durante il periodo di carica degli altri due, pare che sia indicativo di un controllo eser-citato sull’attività e sugli operatori della zecca, ad opera di un collegio di dodici componenti.

Come fa notare in proposito Laura Breglia, «noi non ritroveremo in nessun’altra zecca delmondo greco, una così complessa e palese organizzazione di controllo», aggiungendo che «i siste-mi di controllo dovettero essere sempre per la moneta greca accuratissimi e severe le norme chene garantirono la bontà».

È durante il VI secolo che si ha uno straordinario processo espansivo del mezzo monetario intutto il bacino del Mediterraneo. Si aprono le zecche di Corcira in Occidente, di Cirene in Aprica,di Smirne nella Ionia e di Kamyros nell’isola di Rodi.

Il comune denominatore delle emissioni è dato dalla presenza, al rovescio, del cosiddetto qua-drato incuso, pur registrandosi tra le varie zecche notevoli differenziazioni, nonché dal fatto chegeneralmente tutte sono anepigrafi, riportando, al massimo, le iniziali del nome della zecca.

Dai luoghi di origine la moneta si diffonde come rivoluzionario fattore di civiltà, sino ai mar-gini del mondo classico, per merito dell’espansione commerciale greca. Essa arriva ovunque sor-gano sistemi di organizzazione civica o statale che abbiano nessi evidenti con la tradizione, la cul-tura e le esperienze del mondo classico, vale a dire sia nell’Occidente di tradizione greco-romanae cristiana, sia in Oriente e in Estremo Oriente.

Proprio per un’esigenza di adattamento alla pratica di un’attività commerciale che, nella zonad’influenza greca, era incardinata ormai sull’uso del metallo monetario, gli Etruschi, i Celti e i

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XXXVI

Fenici furono spinti a creare proprie monetazioni. Così se i primi manufatti monetali dei Fenici edegli Etruschi presentavano iconografie particolari, quelli dei Celti si limitavano ad imitare emis-sioni greche assai note e diffuse nel commercio internazionale.

Osserva in proposito Franco Panvini Rosati: «Veicolo principale per questa trasmissione del-l’idea di moneta furono le numerose colonie greche sparse in Occidente e in Oriente. L’adozionedi una propria moneta da parte di questi popoli avviene gradualmente, a secondo dell’intensitàdel loro contatto col mondo greco, del loro sviluppo economico e commerciale, dell’evoluzionedella loro organizzazione sociale. Per primi coniano, circa la metà del V secolo a.C., in Oriente ifenici con Tiro e in Occidente gli Etruschi: entrambi con tipi particolari e individui gli Etruschianche con una propria tecnica dal rovescio liscio, che trova riscontro solo in alcune emissionicipriote della fine del VI secolo a.C. Sul finire del V secolo cominciano a coniare in Fenicia ancheSidone e Arados e, nell’ultimo decennio del secolo, durante le guerre con Siracusa, i Cartaginesibattono in Sicilia le loro prime serie. Nella prima metà del IV secolo Cartagine comincia a conia-re anche nella madrepatria».

Le colonie che danno vita alla prima monetazione siceliota, condividendo un unico sistemamonetale d’impronta calcidese, articolato sul taglio di una dracma di gr. 5,70, sono Naxos, Zankleed Himera. Si tratta di centri portuali che riescono a far fronte alle esigenze di rifornimento, dipedaggio e di scambio, tramite uno strumento monetario dalla agevole convertibilità nelle volutedi più diffusa circolazione a quell’epoca (ateniese, corinzia, corcirea, achea e magno-greca ecc...)

La costa meridionale dell’isola si caratterizzava invece per l’adozione di un differente sistemamonetale, articolato su un didrammo (euboico-attico o, secondo un’altra tesi, euboico-corinzio) digr. 8,70 circa. Rientrano in tale area Selinunte ed Agrigento, seguite da Gela e Camarina.

A differenza delle colonie calcidesi, l’economia delle poleis della zona costiera meridionale siconnotava per i proventi della straordinaria ubertosità del suolo e per i fiorenti traffici con le popo-lazioni puniche viciniori e con la stessa Cartagine.

È significativa la tipologia adottata per la monetazione euboico-attica: la foglia di sedano (seli-non in greco, tipo “parlante”, con chiaro riferimento al nome della città) per Selinunte; il gran-chio e l’aquila per Agrigento; il cavaliere, a simboleggiare l’aristocrazia al potere, per Gela.

Per quanto concerne invece l’inizio della monetazione siracusana, sussistono varie ipotesi. Secondo B. V. Head risalirebbe al tempo in cui la classe dominante era l’aristocrazia guerriera

dei gamoroi (cioè “quelli che si erano divisi la terra”); per A. Holm sarebbe da collocare dopo lacacciata dell’oligarchia (circa 500 a.C.), per Gardner risalirebbe a circa il 520 a.C. Detta moneta-zione aderisce pure al sistema euboico-attico, ma con la variante dell’adozione del tetradrammo,in conformità all’uso ateniese. Tipologicamente l’elemento iconografico che accompagna sin dal-l’inizio la produzione monetale siracusana è il motivo della quadriga, alludente, con il suo eviden-te riferimento agonistico, alla citata classe egemone dei gamoroi.

In un secondo momento, sul rovescio della moneta comparirà la testa di Aretusa, contornata dadelfini festosamente guizzanti: è un omaggio al mito locale della ninfa innamorata del fiume Alfeoe il cui spirito sembra anche oggi aleggiare sulle acque della celebre fonte omonima, lussureggian-te di papiri, a pochi metri dal mare dell’Ortigia.

Destinata ad assumere, con la sua politica espansionistica, un ruolo egemonico nella Siciliapreromana, Siracusa può vantare il merito di avere scritto il capitolo più affascinante della numi-smatica antica, e, possiamo dire, mondiale. Intanto un primato che le va riconosciuto consiste nelfatto che si tratta dell’unica città della Sicilia e di tutto l’occidente ellenico che non abbia maismesso di produrre monetazione aurea in ogni momento della sua storia.

Una data memorabile della monetazione siracusana è il 480 a.C., essendo quello l’anno della vit-toria riportata dal dinomenide Gelone, tiranno di Siracusa, insieme all’alleato Terone, tiranno diAgrigento, sui Cartaginesi ad Imera. L’evento sarebbe accaduto, secondo Erodoto, nello stesso gior-no in cui nella baia di Salamina i Greci infliggevano una altrettanto severa sconfitta ai Persiani.

Tale sincronismo conferiva nell’immaginario collettivo un forte significato simbolico ai duesuccessi, visti, non senza forzature ideologiche e propagandistiche, come affermazione della gre-cità contro i barbari invasori.

È significativo che, nel clima di acceso patriottismo che le vittorie di Salamina ed Imera ave-vano alimentato, sia Atene che Siracusa intraprendessero in parallelo una politica espansionisticanelle rispettive aree di influenza. La tendenza egemonica di Siracusa finisce per condizionare tuttii centri di produzione monetaria in Sicilia, che, in segno di servilismo fanno presto ad abbando-nare i sistemi usati sino ad allora con le rispettive tipologie, per far proprio il sistema siracusano,basato sul peso euboico-attico e sul tetradrammo.

Strettamente collegata, a scopo celebrativo, con la strepitosa vittoria imerese, sarebbe stata l’e-missione della serie di decadrammi arcaici siracusani, denominati “damareteia”.

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XXXVII

Secondo la tradizione letteraria questi magnifici esemplari sarebbero stati coniati con il contro-valore in argento della corona aurea che i Cartaginesi vollero offrire alla consorte di Gelone,Damarete, in segno di riconoscenza per l’intercessione che fece guadagnare la libertà ai prigionie-ri. Tuttavia alcuni studiosi hanno avanzato di recente delle perplessità su tale attribuzione, ritenen-do che l’emissione debba farsi risalire al 470 circa.

Sul rovescio appare la testa di Artemide-Aretusa, che reca al collo e agli orecchi preziosi moni-li, e presenta una capigliatura foggiata ancora secondo la tradizione arcaica; l’impaginazione volu-metrica del profilo comincia a risentire dello stile severo. Sul dritto della moneta, reso con gran-de maestria è il tipo della quadriga che, per essere emblematico della potenza siracusana, saràmotivo di imitazione nelle monetazioni di città soggette al controllo politico di Siracusa. (Si spie-ga come rimarrà estranea invece a tale pratica imitativa l’euboica Naxos.

L’assenza della quadriga nella monetazione di questa città, che fu la prima colonia siciliana abattere moneta (per alcuni studiosi, intorno al 550 a.C., per altri, intorno al 530), testimonia ilrifiuto di subordinazione e l’irriducibile ostilità nei confronti di Siracusa. Infatti i temi che conno-tano le emissioni di Naxos, sin dall’inizio, sono di ispirazione dionisiaca e attingono alle tradizio-ni locali, insistendo sul motivo dei rigogliosi vigneti, fonte per l’isola di prosperità economica.

Sino alla completa distruzione della città per mano di Dionigi di Siracusa, nel 403 a.C., lamonetazione di Naxos resta fedele ai soggetti tradizionali, riportando, sul dritto del dramma, entroun cerchio adornato di perle, il profilo di Dioniso sorridente, con il capo incoronato di edera. Si ècolta in questa composizione dalla pregevole fattura una certa affinità con le migliori creazionidella ceramica attica a figure nere.

Sul rovescio il tipo del grappolo d’uva, con due foglie e pampini, sembra inneggiare alla fecon-dità vinicola delle terre di Naxos. Si tratta di un’iconografia destinata a persistere per circa un ses-santennio, lungo il quale è dato cogliere un’evoluzione stilistica, di chiara influenza ionica, versoforme plastiche di serenante dolcezza.

Dopo la presa della città, ad opera di Ippocrate, si avrà una lunga interruzione trentennale delleemissioni monetarie, destinate a riprendere solo nel 461, allorché Naxos potrà liberarsi dalla sud-ditanza a Siracusa. I 56 tetradrammi pervenutici e coniati tutti con gli stessi coni sono presumibil-mente un’emissione commemorativa dell’avvenuto affrancamento, riproponendoci il profilo diDioniso «i cui tratti appaiono però appesantiti mentre il rovescio rappresenta ormai un Sileno vistodi fronte, con la testa rivolta a sinistra, che tiene nella mano destra un cantaro dal quale si accin-ge a bere» (R. MARTIN, P. PELAGATTI, G. VALLET, G. VOZA, Le città greche, in AA.VV.Storia della Sicilia, Napoli, Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, 1979, vol. I p. 633).

Nel decennio 430-420 si assiste dietro l’influsso della grande plastica dell’epoca, ad un proces-so evolutivo, sotto il profilo iconografico e stilistico, dei tipi monetali di Naxos, dove appare unainedita rappresentazione di Dioniso con il capo riccioluto incoronato da un diadema.

L’ultima produzione monetale di Naxos, databile tra il 420 e il 403, anno in cui la città subiscela totale distruzione come atto di rappresaglia da parte di Siracusa per l’alleanza offerta ad Atenenella guerra del Peloponneso, si suddivide in due serie: «l’una, costituita da tetradrammi, pur con-servando l’effigie di Dioniso, presenta uno stile del tutto diverso, poiché il dio appare molto ringio-vanito, imberbe e quasi effeminato. L’altra, composta da didrammi, trasforma, come i tetradrammiprecedenti, il tema del Sileno ebbro in una vera e propria scena a carattere orgiastico e si rinnovasostituendo l’immagine di Dioniso con quella dell’Apollo Archegate, il dio colonizzatore, veneratoa Naxos. La potenza espressiva del viso del giovane dio si avvicina a una delle celebri immaginidell’Artemide Aretusa incisa intorno al 411 da Kimon sui tetradrammi di Siracusa. Si tratta dell’u-nica emissione monetaria firmata dall’incisore Procle, che alcuni hanno voluto identificare con ilProcle che, nel 403, abbandonò la città nelle mani di Dionigi» (Ibidem, pp. 633-634).

Per quanto riguarda Himera, di particolare interesse è il didramma coniato poco dopo il 472,quando viene scacciato dalla città Trasideo. La moneta segna l’abbandono dei tipi primitivi,agganciati al sistema metrologico euboico, e presenta sul dritto l’immagine del cavaliere ignudonell’atto di saltare dal cavallo galoppante (a sinistra), mentre, sul rovescio, raffigura una scena disacrificio, con la ninfa Imera che, alzando la mano sinistra, tiene nella destra una fiala con la qualefa un’offerta votiva. I temi trattati attingono alla mitologia locale e mostrano quanto essa incides-se nell’immaginario collettivo rispetto alla tradizionale iconografia olimpica.

Successivamente al 450, Himera adotterà lo schema siracusano, ma apportandovi una origina-le variante interpretativa. Sul dritto la ninfa protettrice, coronata da una Nike, è alla guida di unaquadriga; la sua immagine è riportata pure sul rovescio nella citata scena sacrificale; l’elementonuovo consiste nella rappresentazione, sulla destra della ninfa, di una fontana nelle cui acque vaa bagnarsi un piccolo Sileno nudo. I suddetti tipi monetali resteranno immutati sino alla fine delsecolo, registrando comunque una maggiore forza espressiva e una particolare cura nelle soluzio-

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XXXVIII

ni prospettiche. La distruzione della città, ad opera di Cartagine nel 409 a.C., porrà fine alle emis-sioni imeresi. Con i suoi esemplari monetali risalenti all’ultimo quarto del VI secolo a.C.,Selinunte può vantarsi, unitamente a Naxos ed Himera, di essere una delle prime colonie a batte-re moneta in Sicilia.

È la foglia del “selinon” (sedano), simbolo della città, a connotare tipologicamente, sul dritto,le prime emissioni: si tratta di monete di piccola dimensione, sul cui retro è inciso un quadratoincuso destinato in un secondo tempo ad arricchirsi di un motivo ad ali di mulino.

La produzione selinuntina sarà segnata da un radicale cambiamento all’indomani della cadutadi Ierone I, tiranno di Siracusa (467 circa): al didramma subentrerà, quale principale moneta, iltetradramma, con la rappresentazione, sul dritto, di Artemide e di Apollo nella quadriga (a sini-stra) e, sul rovescio, di una scena di sacrificio, che ha per protagonisti due dei fluviali intenti a ver-sare libazioni sull’altare di Asclepio. Gli elementi presenti nell’impaginazione scenica intendonosicuramente evocare un santuario della colonia megarese e costituiscono in ogni caso un segno didevozione, sia verso le tradizionali espressioni della mitologia panellenica, che verso le divinitàlocali, come i citati due dei fluviali.

Viene fatto notare come, se per un verso la tecnica esecutiva, influenzata dalla grande plasticaclassica, evolve verso forme più morbide nel modellato, addivenendo a più maturi esiti interpre-tativi del volume e della prospettiva, per un altro l’impostazione iconografia rimane sostanzial-mente invariata sino alla fine del secolo, e cioè sino alla distruzione della città ad opera deiCartaginesi, nel 409/408.

Presenta notevole affinità con la monetazione di Naxos e di Leontinoi, anche per la condivisio-ne delle tribolazioni subite specie nel corso del V secolo, la monetazione arcaica e classica diKatane (Catania). Nei primi tetradrammi, risalenti a periodo anteriore al 476 a.C., appare un toroandrocefalo rappresentante il dio fluviale Amenonos, mentre viene incoronato da una Nike involo. Nell’esergo l’immagine guizzante di un mostro marino. Sul rovescio ritorna ancora la Nike,sotto la quale è una conchiglia.

Dopo la deportazione della popolazione catanese, unitamente a quella di Naxos, pressoLeontinoi, ad opera di Ierone di Siracusa, la città, denominata Aitna, viene occupata da una popo-lazione di stirpe dorica.

Intorno alla metà del V secolo, all’immagine del dio Amenonos subentra quella di Apollo laurea-to, da collegare forse ad una precedente iconografia lentinese, ma è sul finire del secolo che si verifi-ca una evoluzione stilistica dai moduli rozzamente arcaici verso soluzioni plastiche di maggiore accu-ratezza, nelle quali si è ravvisato l’intervento di una personalità artistica d’eccezione: Euainetos.

Si spiega come da quel momento è dato cogliere un particolare affinamento stilistico nella resaespressiva del viso di Apollo, e, nel contempo, una felice interpretazione prospettica del tiro (della qua-driga) nell’atto di caracollare impetuosamente, come nelle serie siracusane e di altre città siceliote.

Alcuni studiosi sono dell’avviso che il momento culminante di tale processo di affinamento siaraggiunto da Herakleidas, l’unico incisore, insieme a Choirion, che abbia lavorato esclusivamen-te per la città di Catania. Fra i vari coni che sarebbero usciti dalla mano di questo artista, risulta-no di sicura attribuzione quelli del dritto di due tetradrammi, sui quali la firma è leggibile, per inte-ro ed in nominativo, accanto ad una testa di Apollo raffigurata quasi di pieno prospetto, entro lacornice di una spessa massa di capelli cinti da una corona di alloro.

Per una puntuale lettura iconografica di tali coni, che, evidenzia l’assoluta immunità da ogniimitazione e la grande forza espressiva di Herakleidas, si rimanda a quanto scrive in propositoAttilio Stazio nella voce omonima, in Enciclopedia dell’Arte antica classica e orientale, Roma,1960, pp. 1148-49.

Cantata da Pindaro come la più bella città dei mortali, Agrigento aveva dato inizio alle sueemissioni sul finire del VI secolo, mantenendo per quasi un secolo, tanto sui tetradrammi che suididrammi lo stesso tipo: sul dritto, l’aquila che simboleggiava Zeus, e, sul rovescio, il granchio,simboleggiante il fiume Akragas.

Una volta avvenuta la sottomissione di Imera ad opera di Terone, che ne scacciava il tirannoTerillo (Erodoto, VII, 165), facendo assumere la guida della città sottomessa al proprio figlioTrasideo (Diodoro, XI, 48, 6)conseguenza di tali vicende era il conflitto greco-cartaginese diHimera, nel 480 a.C. (Erodoto, VII, 165-7; Diodoro, XI, 20-6).

L’immenso bottino conquistato accrebbe vertiginosamente la floridezza economica diAgrigento, dove Terone fece coniare monete riproducesti al dritto il gallo di Imera e sul rovescioil tipo locale del granchio.

Succedendo a Terone nel 472 a.C. il citato figlio Trasideo (Diodoro, XI, 53, 1) si addivenne benpresto alla rottura tra Eumenidi e Dinomenidi, che portò allo scontro, presso il fiume Salso, tratruppe agrigentine e imeresi, da un lato, e truppe siracusane, dall’altro, sotto la guida di Ierone.

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XXXIX

Il successo arrise a quest’ultimo e segnò, con la fine della tirannide eumenide, l’entrata diAgrigento nell’orbita siracusana. Le emissioni agrigentine successive alla sconfitta riportanosignificativamente sul rovescio dei tetradrammi, come segno di sottomissione, una quadriga, men-tre dal dritto presentano non più una, ma due aquile intente a divorare una lepre. Siamo qui in pre-senza di creazioni tra le più alte dell’arte monetaria siceliota, uscite dalla mano di incisori del cali-bro di Myron e di Polycrates, in grado di competere con i celebrati capolavori siracusani.

D’altissima potenza rappresentativa è la scena della quadriga in corsa, sorvolata da una Nike,mentre caracolla drammaticamente. La mancanza di elementi d’appoggio, dando la sensazioneche l’evento si compia non su una pista di stadio, ma nell’aria, ha indotto alcuni studiosi a ritene-re che si tratti di una rappresentazione di Helios.

Attraverso la testimonianza monetale è possibile “leggere” gli avvenimenti di cui è protagoni-sta Zankle, nome siculo significante “falce” dalla forma arcuata del porto (P.R. FRANKI – M.HIRMER, La monnaie grecque, trad. J. Babelon, 1966, p. 40).

Le prime emissioni risalgono circa al 525 e consistono in monete incuse, recanti sul dritto undelfino circondato dalla linea quasi circolare del porto.

L’episodio della conquista della città, ad opera di nuovi coloni giunti da Samo, è ricordato nelleconiazioni del periodo compreso tra il 494 a.C. ed il 489/488, che seguono modelli sami, pur rima-nendo conformi al sistema ponderale euboico-attico adottato a Gela e a Siracusa.

Quando Anassilao, signore di Rhegion si impadronisce di Zancle, mutandone il nome inMessana, e costituendo così quello che è stato denominato come“l’impero dello stretto”, Messanae Rhegion sono accomunate dall’uso di una moneta dalla tipologia identica (inizialmente una testadi leone al dritto e una testa di vitello al rovescio; successivamente una biga di mule al dritto, percelebrare una vittoria olimpica del tiranno, e, al rovescio, la lepre, l’animale, cioè, che lo stessoAnassilao avrebbe portato in Sicilia).

Con la cessazione delle tirannidi, sia a Siracusa (466 a.C.) che nelle città alleate, si verifica unprofondo cambiamento nella tipologia monetaria, con l’abbandono dei motivi prettamente siracu-sani, a cominciare dalla quadriga.

È nell’ultimo quarto del V Secolo a.C. che si assiste ad una straordinaria fioritura di coni, che,soprattutto per l’eccezionale fattura compositiva, rimane indissolubilmente legata ai nomi di arti-sti eccelsi quali i ricordati Euainetos, Kimon, Euarchidas, Eukleidas, Eumenes, Phrygillos,Myron, Polycrates, Sosion, Herakleidas, Choirion, Prokles, Exakestidas, ecc.: è l’epoca dei “Mae-stri Firmanti”.

A Siracusa la prima delle emissioni auree è databile in corrispondenza del periodo di massimapotenza della città, verso il 413 a.C., anno della memorabile vittoria su Atene, e comprende trenominali di argento (gr. 1,16; 0,71; 0,58), recanti l’effige di Eracle, di Atena e i loro simboli. Ilsecondo gruppo comprende i celebri ercolini e cavallini, pezzi da 20 e da 10 dracme (gr. 5,80 e2,90), creati da Kimone ed Euainetos, con i tipi di Arethusa, di Anapo, con il gruppo di Eracle edil leone e con il cavallino libero in corsa.

A partire dal 405 a.C., e sino alla sottomissione a Roma, sarà Siracusa ad avere un ruolo di rap-presentatività della realtà isolana, deducibile anche dal fatto, che, a seguito dll’invasione punica,la sola zecca a rimanere attiva nella zona orientale fu proprio la sua.

Con Dionisio, fautore di un ambizioso progetto di opere pubbliche, teso a dare alla città unosplendido assetto urbanistico e monumentale, si sarebbe verificato, secondo una interessante teo-ria, un rinnovamento strutturale della produzione monetale locale. Il tiranno, infatti, avrebbeimposto l’uso della moneta a valore reale esclusivamente nella circolazione esterna, mentre intramoenia e nelle zone sottostanti al proprio dominio, era ammessa solo la circolazione a corso for-zoso di moneta bronzea sopravvalutata.

Si spiega come per questo, e per altri quantomeno spregiudicati ed arditi provvedimenti finan-ziari, la cui lettura non manca di suscitare perplessità, Dionisio rimanga uno dei personaggi piùdiscussi della tradizione antica, anche per il primato temporale del suo potere, durato per ben 38anni consecutivi, tra il 405 ed il 367 a.C. Eppure, malgrado questo lungo arco cronologico, si èdovuto costatare l’assenza di emissioni monetali attribuibili con certezza al periodo della suatirannide. Pertanto, come osserva Stazio, si rivela particolarmente suggestiva la tesi formulata direcente in base alla quale sarebbero a lui riferibili tanto le due serie di decadrammi, quella diKimon, correlata con la vittoria sui cartaginesi del 405 a.C., e quella di Euainetos, risalente inve-ce agli ultimi anni della sua tirannide (395-370 a.C.), quanto alcune emissioni auree: «di questela prima, tariffata a 20 litrae (<1 tetradrammo) d’argento e caratterizzata dai tipi della testa diHerakles al D./ e della testina di Aretusa al centro di un quadrato incuso (come nei primi tetra-drammi arcaici d’argento) al R./, sembra connessa con quel gruppo di emissioni auree provoca-te, in vari centri dell’area meridionale dell’isola, dall’invasione cartaginese, le altre, invece, che

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presentano i tipi della testa di Aretusa al D./ e di Erakles in lotta col leone (simbolo, forse, dellalotta dell’elemento greco contro la barbarie punica) al R./ o della testa giovanile al D./ e delcavallo (simbolo di libertà ?) al R./, sono equivalenti rispettivamente a 100 librae (=2 decadram-mi) e 50 litrae (=1 decadrammo) d’argento e sono state recentemente datate, come i decadram-mi del secondo gruppo, verso la fine dell’età di Dionisio I» (A. STAZIO, Storia monetaledell’Italia preromana, in Popoli e Civiltà dell’Italia antica, Roma, Biblioteca di Storia Patria, 1978,vol. VII, p. 155).

Ci troviamo in presenza di manufatti, che, per il loro pregio estetico, si collocano ai vertici del-l’arte monetale, rispecchiando le ambizioni di una politica tesa ad assicurare il suo prestigio, siaattraverso il potenziamento del proprio apparato militare, che attraverso un imponente progetto diopere pubbliche.

Dopo la scomparsa di Dionisio I (367 a.C.) le vicende monetali siracusane risultano avvoltenell’incertezza, e, in assenza di attendibilità da parte delle proposte di attribuzione a Dionisio II ea Dione, si tende ormai a ritenere che in quel periodo non vi sia stata attività emissiva.

Una vera e propria svolta si ha, con l’arrivo di Timoleonte, il restauratore della democrazia inSiracusa. Per suo merito la città, conobbe un periodo di floridezza economica, che secondo latestimonianza di Diodoro, impresse una spinta propulsiva all’attività edilizia monumentale, bloc-cata all’epoca dell’invasione cartaginese.

Con fondi, che, sempre secondo Diodoro, provenivano da una produzione agricola in nettaripresa, si assiste, sia a Siracusa, che in altri centri sicelioti, al restauro di templi e alla costruzio-ne o al restauro di teatri ed edifici pubblici.

Nella Sicilia dell’epoca, caratterizzata da un’economia prettamente rurale, lo sviluppo o la crisi delsettore urbano erano, come fa notare Finley, «sopratutto in funzione del successo o del fallimento nellecampagne» (MOSES I. FINLEY, Storia della Sicilia Antica, trad. it., Bari, Laterza, 1968, p. 132).

È probabile che i principali mercati di esportazione agricola fossero proprio in Grecia, il che cifa comprendere come le monete del sistema corinzio, basato su uno statere diviso in tre drammedi g. 2,90 ciascuno, contraddistinto dai tipi del pegaso alato al D./ e della testa di Atena con elmocorinzio al R./, invadessero la Sicilia, soppiantando il sistema monetario corrente, basato, come ènoto, sul tetradrammo attico.

È significativo che alcune monete di tipo corinzio venissero coniate proprio a Siracusa, cheattingeva ai cospicui quantitativi di argento facente parte dell’immenso bottino sottratto aiCartaginesi dopo la vittoria sul fiume Crimiso.

Si verificava che, ad adottare il sistema corinzio fossero numerosi centri urbani, non soltantodella Sicilia, come Leontinoi ed Erice, ma anche della Magna Grecia, come Locri, Medma,Rhegion, Terina. Il fenomeno è da correlare all’eccezionale incremento della produzione moneta-le presso la zecca di Corinto, accompagnato dall’introduzione di modifiche alle tecniche di fab-bricazione dei coni.

Intanto anche le zecche di città legate a Corinto da rapporti di dipendenza e di alleanza regi-stravano una intensa attività emissiva nella monetazione di tipo corinzio. Attilio Stazio parla inproposito di un «complesso e perfettamente coordinato sforzo organizzativo» in cui si inquadral’impressionante emissione di pegasi con destinazione Sicilia orientale. Qui essa «venne utilizza-ta e tesaurizzata, quasi in esclusiva, nel corso della metà del IV e fino ai primi anni del III seco-lo a.C.. I tesoretti seppelliti in quest’epoca, infatti, sono costituiti in media dal 70 % circa di pega-si di tipo corinzio e molti, anzi, contengono esclusivamente tali monete» (A. STAZIO, Storiamonetale, in Popoli e Civiltà, cit., vol. VII, p. 157).

Il problema di una così feconda produttività della monetazione corinzia è al centro di tesi con-trastanti, dal momento che, se da un lato si ritiene che la sua espansione sia stata determinata dallanecessità di far fronte agli oneri della spedizione timoleontea, da un altro si vede in essa un feno-meno conseguenziale, in quanto sarebbe stato proprio il successo arriso alla citata spedizione aincrementare il volume dei traffici tra Corinto ed i mercati della Sicilia orientale.

Sussiste poi un’altra tesi alquanto suggestiva, in base alla quale l’ampia immissione di pegasinell’area siracusana si sarebbe sviluppata già sotto Dionisio I, inquadrandosi nell’ambito dellaspregiudicata politica monetaria di tale tiranno.

Nel 307, nel corso della campagna militare che lo vedeva impegnato con successo controCartagine, Agatocle, primo dei dinasti di Siracusa, assumeva il titolo di re, ad imitazione dei dia-dochi (Diodoro, XX, 55, 5). La sua scalata al potere della città era iniziata nel 317. Conclusa nel306 la pace con il nemico punico, Agatocle di lì a poco avrebbe avuto il controllo di tutta la Siciliagreca, potendo aspirare alla egemonia anche in Magna Grecia e a un dominio territoriale dall’am-piezza non inferiore a quello delle monarchie ellenistiche, con le quali peraltro realizzò una poli-tica di alleanze, consolidata tramite matrimoni.

XL

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L’avvento di Agatocle sembrò foriero per Siracusa di nuova prosperità, come lasciarono vede-re la forte spinta espansionistica impressa all’edilizia monumentale e la rigogliosa fioritura, nellazona orientale, dell’industria della ceramica con la pregevole manifattura dei vasi decorati a figu-re rosse. La monetazione agatoclea, che utilizzava l’oro, l’argento, il bronzo, ma anche l’elettro,avrebbe testimoniato fedelmente l’irresistibile ascesa del tiranno sino all’assunzione del titolomonarchico. Due sarebbero stati gli obiettivi costanti della sua azione politica: l’unificazione,sotto il suo scettro, della Sicilia greca, e la difesa dei confini occidentali della nazione ellenicacontro la potenziale minaccia dei Cartaginesi e degli Italici.

Quella monetazione può essere suddivisa in tre periodi, corrispondenti alle tre iscrizioni chedocumentano il processo ascendente del potere sino alla consacrazione regale.

Nel primo, che va dal 317 al 310 a.C. è il solo etnico «SIRAKOSION» a costituire con regola-rità la legenda. La zecca continua a coniare stateri argentei, il cui elemento di novità, rispetto all’e-poca timoleontea, è quello di riportare al R./ il contrassegno del simbolo della triskeles, elementoiconico significativo delle ambizioni egemoniche del tiranno.

Man mano sulle suddette coniazioni si impongono, fino a soppiantarle, le emissioni di tetra-drammi argentei, di tipo e peso tradizionali, con la testa di Aretusa al D./, richiamante i coni deidecadrammi di Euainetos, e la quadriga (con triskeles) al R./. Risalgono al citato periodo le seriedi drammi in oro con i tipi della testa di Apollo al D./ e la biga al R./.

Il secondo periodo, che, in base a recenti studi si può far partire dal 306-305 a.C., è connotatodalla presenza del nome «AGAQOKLEOS» sulle emissioni auree ed argentee, la qual cosa motrala penetrazione a Siracusa di un uso di derivazione ellenistica, destinato a consolidarsi nelle suc-cessive emissioni. Nelle monete auree troviamo rappresentate al D./ una testa giovanile coperta dauna spoglia d’elefante e al R./ una Athena alata nell’atto di combattere, mentre in quelle argenteecampeggia al D./ una testa di Persefone e al R./ una Nike alata nell’atto di incoronare un trofeo.

Relativamente al terzo periodo, contrassegnato da una riduzione ponderale, è significativa lacomparsa, presumibilmente a partire dal 295 a.C., del titolo «BASILEOS», assunto da Agatoclenel 305 a.C., tanto sulle emissioni auree, con al D./ la testa di Athena cinta da un elmo corinzio,e al R./ il fulmine alato, quanto su quelle bronzee.

Sta di fatto che il volume di emissioni monetarie risalente all’epoca agatoclea, mostra unastraordinaria complessità per l’intreccio di nessi tipologici, per le analogie ricorrenti e le soluzio-ni stilistiche adottate, così come per le variazioni del rapporto valoriale tra oro ed argento, ogget-to oggi di studi particolari.

È evidente che tutti i suddetti elementi, come avverte Stazio, «conferiscono alla monetazionedi Agatocle - e, quindi, alla sua politica, - una dimensione e un respiro mediterranei, pienamentecoerenti col quadro degli equilibri dei maggiori reami ellenistici» (A. STAZIO, Le monete rac-contano l’antica storia della Sicilia, in G. VALLET, Sicilia greca, Palermo, Arnaldo LombardiEditore, 1990, p. 54).

Un’altra questione è sollevata dal fatto che la parabola agatoclea, emblematica di una ferreadeterminazione volitiva nel perseguire l’obiettivo del potere assoluto, sembra avallare la tesi di una«predisposizione» del mondo siceliota per la tirannide. Se ciò non può non stupire, alla domandasul perchè potesse attecchire tale tendenza autolesionistica, gli storici Francesco Benigno eGiuseppe Giarrizzo ritengono che si possa dare una risposta molto più semplice di quanto si pensi.Lo scenario della Sicilia del tempo vedeva i Cartaginesi saldamente insediati all’estremità occiden-tale dell’isola, ed era proprio la non gradita convivenza con un potenziale nemico a turbare il sonnodei Sicelioti. Era fatale che il loro bisogno di sicurezza e di protezione facilitasse l’emergere di per-sonaggi capaci di far presa sulle masse con la promessa di un governo forte e di un potenziamen-to dell’apparato militare, in modo da scoraggiare qualsiasi tentativo, di aggressione esterna «siapure a prezzo dell’abbandono della legalità democratica» (F. BENIGNO - G. GIARRIZZO, Storiadella Sicilia, Bari, Laterza, 1999, vol. 1, p. 47).

Nell’intento di chiarire la «posizione costituzionale» del tiranno, a seguito dell’adozione deltitolo regale, Finley riconosce che non si ha motivo di ritenere che quell’iniziativa comportassedei mutamenti nella realtà siciliana o che quel titolo «ricevesse altra sanzione che non fossequella del potere». Agatocle, precisa il citato storico, «era anch’esso sovrano dove la sua paro-la era legge, esattamente come Dionisio, che non si era fatto mai chiamare re. Il fatto significa-tivo, comunque, è che Agatocle seguisse la nuova usanza ellenistica e, almeno all’estero, il tito-lo gli fu utile nei rapporti con gli altri monarchi. Che all’estero egli fosse considerato un uomodi una certa importanza è evidente. Egli estese il suo regno in Italia; conquistò Leucade eCorcira, dando quest’ultima in dote alla figlia Lanassa quando sposò il re dell’Epiro, Pirro,cugino e unico parente ancora vivo di Alessandro il Grande». (FINLEY, Storia della Siciliaantica, cit., p. 139).

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All’indomani della scomparsa di Agatocle prende avvio un decennio tempestoso, duramentesegnato da lotte faziose all’interno e da conflittualità con i nemici esterni, (Cartaginesi eMamertini). Emerge intanto la figura di Iceta, di nobile famiglia siracusana, che, appogiandosi agliesponenti del partito oligarchico costretti all’esilio da Dionisio II, sconfigge quest’ultimo e occu-pa Siracusa.

La monetazione prodotta sotto il nuovo tiranno riporta una legenda, che, nell’inconsueta forma«EPI /KETA», è visibile una serie di dracme auree con testa di Persefone al D./ e biga al R./.

Anche l’avventura italiana di Pirro, dettata dall’aspirazione ad unificare ed egemonizzare i ter-ritori greci d’occidente, trova testimonianza in coniazioni nei tre metalli, con variazioni struttura-li e tipologiche, emesse nelle zecche della Magna Grecia, verosimilmente a Locri, ed in Sicilia, aSiracusa. Pare che proprio in questa città egli abbia coniato moneta a suo nome e con il titolo di«BASILEUS». Ciò cade nel corso della parentesi siciliana del suo intervento militare (278-276a.C.), che, se da un lato registra l’esito vittorioso degli scontri con Cartaginesi e Mamertini, dal-l’altro vede manifestarsi quelle incomprensioni e quei contrasti con la popolazione siceliota chefiniranno per indurlo a rientrare in Italia.

È databile in tale periodo tutto il complesso delle emissioni auree i cui elementi caratterizzan-ti sono i tipi della testa di Athena con elmo corinzio (sugli stateri) o di Artemis (sulle dramme alD./, mentre al R./ troviamo una Nike con corona e trofeo.

È coeva una emissione in argento, con i tipi della testa di Persefone al D./ e Athena combatten-te al R./, il cui insolito valore di g. 5,70 ha suscitato presso gli studiosi non poche perplessità, tantoda chiedersi se si tratti di una reviviscenza del sistema calcidese o di quello corcireo, o piuttostodi un semplice adeguamento ai sistemi monetali del luogo.

Le emissioni bronzee, sempre del periodo in questione, si collegano, sotto il profilo ponderale,tanto al sistema locale, quanto a quello romano.

La ripresa del repertorio agatocleo e la presenza invasiva di una iconografia bellica conferma-no il carattere strumentale di questa produzione in senso propagandistico, secondo il costume deimonarchi ellenistici.

Pirro che, come si è detto, di Agatocle aveva sposato la figlia Lanassa, intendeva raccoglierel’eredità spirituale del suocero, continuandone la politica anticartaginese ed unificatrice, sullosfondo dei «complessi equilibri del mondo mediterraneo» (A. STAZIO, Le monete raccontano,cit. in G. VALLET, op. cit., p. 54).

Allorchè Pirro esce di scena, sarà uno dei suoi generali, Gerone (meglio noto come Gerone IIper non confonderlo con l’omonimo tiranno del periodo dei Dinomenidi), ad impadronirsi delpotere, detenendolo lungo l’arco di un sessantennio.

Dai dati biografici che la tradizione ci tramanda su di lui, si delinea il profilo di un uomo fuoridal comune, ricco di interessi culturali e scientifici (fu autore di opere di agronomia), di saggezzaed equilibrio, di esperienza militare e di spirito tecnocratico.

Si spiega come, grazie a tali doti eccezionali egli sia riuscito a destreggiarsi intelligentementein una fase tormentata della storia siciliana, mentre sullo sfondo infuriava la prima guerra punicae, dopo, parte della seconda. È allora che lo scenario locale registra un convulso capovolgersi dellealleanze e il costituirsi di precari equilibri, destinati a crollare anche per l’irrompere di nuoveforze, come gli agguerriti mercenari, in gran parte di provenienza campana, che vanno ad aggiun-gersi ai tradizionali contendenti, i Greci ed i Punici.

La politica estera geroniana è segnata dalla rinuncia alle ambizioni espansionistiche dei suoi pre-decessori e riporta un solo, ma importante, successo militare a danno dei Mamertini,insediati a Messina, nel 269 a.C. Solo allora colui che si era definito prima«strate-gos», poi «autokrator» assume il titolo di«basileus», dedicando tutte le sue cure alriassetto amministrativo del proprio stato, che, grazie al benefico effetto della pace,conosce, al pari delle coeve monarchie ellenistiche, un periodo di grande prosperità economica, basa-ta sopratutto sull’agricoltura e la pastorizia, e l’incremento degli scambi commerciali.

In un primo tempo alleato di Cartagine (264 a.C.), Gerone, mosso da un felice intuito, finisceper schierarsi con Roma, ma lasciando la sua patria indenne dagli orrori del conflitto, poichè ilcontributo offerto al nuovo alleato consistette, in cambio della garanzia di indipendenza, in cospi-cui approvvigionamenti di grano ed in forniture di vario genere.

La monetazione geroniana, che si articola tradizionalmente in emissioni auree, argentee e bron-zee, mostra un chiaro influsso tolemaico per l’apparire, accanto al nome ed al titolo monarchico,e del ritratto del«basileus», della moglie Filistide, con il titolo di«basilissa», ed infine diquello del figlio Gelone, associato al trono dal 240 a.C.

Se l’immagine della «basilissa» (che si riallaccia iconograficamente all’esempio egizianodelle monete di Arsinoe II e di Berenice II) è assai ricorrente nelle emissioni argentee, più rara è

XLII

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invece, su tale metallo, quella di Gerone, tanto che si sarà trattato probabilmente di una sola serie,volta a celebrare l’assunzione del titolo regale.

Di gran lunga più vasta è la produzione bronzea, che riporta soltanto il ritratto di Gerone. Talescelta manifesta così un chiaro intento propagandistico, mirandosi a diffondere capillarmente l’ef-fige del «basileus» attraverso una più massiccia circolazione di coni bronzei.

Nelle emissioni auree si nota invece la persistenza dei tipi tradizionali della testa di Persefoneal D./ e della biga guidata da Nike al R./, chiaramente ricollegabili ad Iceta.

È interessante il fatto che tali emissioni riportino il nome Ieronos, privo del titolo regale. Laqual cosa, unitamente alla persistenza di tipi e pesi tradizionali, fa pensare, come per una serie dipegasi dal peso ridotto a g. 5,70 nei quali troviamo pure il nome di Gerone, ad una datazione pre-cedente l’anno 269 a.C.

È stato evidenziato da Stazio come alla vasta quantità emissiva ed alla pregevolezza manufat-turiera non corrisponde però «alcuna originalità tipologica, né vivacità stilistica».

Per Ierone, fa notare il citato storico,«la moneta ... non è più espressione di prestigio e simbo-lo dell’immagine della città o del regno, bensì soltanto strumento tecnico intermediario di scam-bi; e ciò appare in piena armonia con l’indole del sovrano e con gli orientamenti della sua poli-tica. In questa luce meglio si comprendono carattere e finalità della ristrutturazione del sistemamonetario siracusano da lui operata e limitata, si badi, alle sole emissioni in argento e in bron-zo, che costituiscono il nucleo concretamente ed efficacemente operativo della monetazione, men-tre l’oro - dalla consistenza assai ridotta - rispondeva quasi solo a funzioni di mero prestigio» (A.STAZIO, Le monete raccontano, cit. in G. VALLET, op. cit., p. 56).

Gerone scompare nel 215 a.C. e lo segue nella tomba, prematuramente, anche il figlio Gelone.Così il regno viene assunto, ma per breve periodo, dal nipote quindicenne Geronimo (215-214).Essendo grande allora l’impressione suscitata dalla rotta toccata ai Romani nella battaglia diCanne, a tal punto da rinfocolare a Siracusa ed in tutta l’isola sentimenti antiromani, Geronimoritenne che il momento era maturo per un cambiamento di fronte. Così, troncando l’alleanza conRoma, egli si schierò con Annibale, e, radunate le sue truppe a Leontini (circa 15.000 uomini) siaccingeva a muovere all’attacco contro i Romani che allora disponevano nell’isola di forze assaiesigue. Ma il destino volle che nella primavera del 214 a.C., dopo soli tredici mesi di regno,Geronimo cadesse assassinato, vittima di quell’odio repubblicano che egli stesso, lontano nelcarattere dal mite e prudente Gerone, aveva acceso con le sue violenze e le sue improntitudini, dicui rimane ampia testimonianza nelle fonti.

La crisi di regime che fece seguito alla sua scomparsa, impedì a Siracusa di procedere all’of-fensiva contro Roma, e non fu ininfluente sull’esito catastrofico del conflitto, quando le truppe diMarcello, nel 212 a.C., dopo un lungo assedio, conquistarono la città, sottoponendola ad un terri-bile saccheggio che la depauperava dell’immenso patrimonio di opere d’arte custodito nei templie negli edifici pubblici.

Le emissioni monetarie di Geronimo si pongono su una linea di continuità con la produzioneanteriore, come si evince dal fatto che il ritratto del sovrano appare solo in quelle argentee ed inquelle bronzee. Le monete auree conservano invece al D./ il tipo, ormai tradizionale, della testa diPersefone. Su tutte le emissioni si nota un unico tipo al R./, quello del fulmine alato circondato dallalegenda che riporta il nome, sempre accompagnato dal titolo regale ΒΑΣΙΛΕΟΣ / ΙΕΡΩΝYMOY.

Da un punto di vista iconografico, il fulmine, la cui scelta è chiaramente mutuata da Agatoclee da Pirro e, ancor prima, da Alessandro il Grande, appare un segnale emblematico della svoltapolitica effettuata da Geronimo rispetto ai cauti orientamenti diplomatici di Gerone II: acquistadunque un preciso significato propagandistico nel palesare il ritorno ai disegni espansionistici deicitati predecessori, interpretando anche i sentimenti antiromani del popolo.

Sarà proprio tale incauto mutamento di indirizzo a provocare, con la sua stessa rovina, il dis-astro del regno. La data della conquista di Siracusa ad opera di Marcello, il 212 a.C., rappresentalo spartiacque tra il periodo greco e l’immissione nel grande alveo della storia romana.

È da quel momento che la storia di Siracusa e di tutta la Sicilia viene a intrecciarsi con la sto-ria di Roma, il che ha un riflesso nel campo della monetazione, anche, se come osserva Stazio,«un processo di progressivo e reciproco adeguamento tra i sistemi sicelioti (e italioti) e quelli diRoma era già in atto da tempo, almeno dall’epoca di Gerone II, se non già da quello di Pirro».

Come osserva il citato studioso, lo stato attuale della ricerca non permette una chiara definizio-ne circa il carattere e l’entità delle relazioni tra questi sistemi e gli eventuali rapporti con altri siste-mi, come il tolemaico, l’epirotico e il corcireo, «sicchè ancora incerta appare la struttura delsistema siracusano in questo lungo e complesso periodo finale della sua monetazione» (ivi).

Se con la conquista romana si assiste alla cessazione delle pregiatissime emissioni auree edargentee, sopravvivono, incrementandosi notevolmente, le coniazioni bronzee in Siracusa e in altri

XLIII

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centri indigeni precedentemente privi di produzione autonoma. Si aprirà così un capitolo interes-sante per il valore documentale che dette emissioni, pur correlate alle esigenze della circolazionelocale, assumeranno ai fini dell’approfondimento delle vicende interne e delle pratiche cultualidelle varie città.

A proposito del peso testimoniale della tipologia monetale, è sorprendente constatare come, avolte, un segno introdotto dall’antico incisore possa presentare tale spessore simbolico da aprireorizzonti interpretativi nuovi.

In tal senso ci sembra illuminante una esemplificazione sulla base delle risultanze dello studio,precedentemente citato, di Maria Caccamo Caltabiano, dal titolo Il Pansicilianesimo e l’annunciodi un’era nuova. Il campo di osservazione riguarda qui il processo di rinnovamento stilistico checonnota i coni siciliani anteriori al 409, data in cui viene sferrato l’attacco delle forze cartaginesicontro le colonie greche dell’isola. In quella fase, passata alla storia come epoca dei «Maestri Fir-manti», è ricorrente il modello della quadriga siracusana, accompagnato dalla firma EYQ.

Orbene, quel modello è presente pure sui tetradrammi emessi allora ad Erice (recanti al rove-scio Afrodite assisa in trono con colomba in mano, mentre Eros le sta davanti tenendo un ramo-scello), ma si diffonde progressivamente, sia pure in un breve spazio temporale, sui tetradrammidi Camarina, Catana, Messana, Gela, Agragas, Himera, Selinunte, Segesta.

Il fenomeno si configura come una corale adesione delle città siceliote al programma origina-riamente lanciato da Ermocrate nel congresso di Gela (424 a.C.) e riassumibile nella formula«pasa Sikelia». Lo statista siracusano aveva aperto una prospettiva pansicilianista, centrata su «unideale di nazione ante litteram che, a prescindere dalle differenze etniche, unisse insieme tutti ipopoli della Sicilia» (M. CACCAMO CALTABIANO, op. cit., p. 107).

Sul piano prassico quell’ideale doveva portare alla tessitura di una rete di alleanze in funzioneantiateniese, tra Sicelioti e Siculi, da estendere anche a popolazioni del territorio italiano ed allastessa Cartagine.

Nel clima dei festeggiamenti per la vittoria conseguita da Siracusa su Atene nell’autunno del 413a.C. vennero coniati, a scopo celebrativo, i decadrammi recanti la firma di Kimon ed Euainetos.

La citata studiosa ravvisa in alcuni coni realizzati sotto il governo di Ermocrate «le premesseideologiche della propaganda dispiegata da Dionisio I nei lunghi anni di un governo che, inten-zionalmente, assunse i caratteri della basileia orientale. Tuttavia la tipologia monetale delle cittàsiciliane dimostra che il fenomeno monetale della cosidetta epoca dei maestri firmanti, sopratut-to quale si sviluppò negli anni successivi alla vittoria siracusana su Atene, fu specchio di uncomune sentire e della propaganda di una forte ideologia politica» (op. cit., p. 109).

Ciò viene confermato proprio dall’adozione del modello della quadriga in corsa, il cui verosignificato, trascendendo l’aspetto meramente agonistico, è profondamente permeato dall’ideolo-gia della vittoria. Ma non basta. Come fa notare la Caccamo Caltabiano, quella tipologia esprime«la ricerca di un’identità preellenica e protoellenica evocata attraverso le immagini monetali dieroi pregreci quali Pheraimon e Leukaspis, di ninfe locali quali Pelorias e Arethusa, di mostri tipi-ci delle aree degli stretti come Scilla e Tritone, e delle nuove personificazioni divine di città sici-liane quali Messana e Camarina» (ivi).

Nell’ambito della produzione monetale sotto Dionisio I è di straordinario interesse la simbolo-gia sottesa alla comparsa di un astro, generalmente correlata con una divinità femminile. Il model-lo è proposto su emissioni realizzate nei tre metalli; unitamente alla testina femminile è presentesul dritto delle monete auree recanti al rovescio il tipo dell’Eracle in atto di strozzare il leonenemeo. Invece, sulle coeve frazioni auree, è presente unitamente al cavallo al galoppo.

Detta simbologia può essere decifrata alla luce del ruolo che nella trilogia dei dialoghi platoni-ci intitolati a Timeo, Crizia ed Ermocrate, viene attribuito a quest’ultimo.

Quale propugnatore di un ideale di nazione «pansiciliana» capace di porre fine, al suo interno,alle divisioni provocate dalle differenze etniche, Ermocrate appare a Platone l’antesignano diun’era nuova, figura emblematica del rinnovamento che avrebbe visto nascere la società futura.

Pertanto l’astro che l’incisore introduce nella sua impaginazione iconografica va visto «nelcontesto di un’attesa soteriologica e di rinnovamento già delineatasi e sapientemente incoraggia-ta da Ermocrate forse già dai tempi del Congresso di Gela. Quel clima politico, saturo anche divalenze religiose e morali, trovò la sua traduzione visiva nell’adesione di quasi tutte le zecchesiciliane al tema vittorioso della quadriga in corsa» (op. cit., pp. 114-115).

È dunque in questo clima di grande tensione emotiva che nascono alcuni manufatti monetaliche si collocano, sotto un profilo artistico, tra i massimi capolavori della numismatica di tutti itempi. Con una téchne estremamente raffinata, capace di indirizzare l’osservatore su livelli altis-simi di suggestione simbolica, i Maestri che operarono a Siracusa nello scorcio del V secolo a.C.

XLIV

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esprimono, nella poiesis delle loro soluzioni plastiche, la tensione totalizzante verso un topos chesi fa conduttore dei sentimenti di grandeur della comunità siracusana nel momento più radiosodella sua storia.

Trattandosi del capitolo certamente più importante nella storia del rapporto della moneta conl’arte, vogliamo ricollegarci alla puntualizzazione teorica che, circa la natura di quel rapporto, faLaura Breglia.

Partendo dal presupposto che l’affermarsi di una più estesa comprensione critica, in concomi-tanza con un rinnovato interesse per la testimonianza monetale, comporta l’urgenza di una oppor-tuna chiarificazione circa alcuni aspetti teorici fondamentali per fissare «il valore preciso che aquella testimonianza può essere attribuito», la citata studiosa afferma che: «le particolarità di cuioccorre tener conto nello studio dell’arte monetale derivano da due ordini di fattori che sono pro-pri alla moneta, mentre del tutto estrinseci risultano rispetto al fenomeno dell’arte in sé il carat-tere ufficiale dell’impronta monetale cioè, unitamente agli elementi di carattere estrinseco chepossono datare l’esemplare, e la tecnica peculiare alla moneta che, moltiplicandole, ci permetteparticolari condizioni di studio e di valutazione».

La Breglia avverte che il valore ufficiale dell’impronta comporta, conseguentemente, che l’ar-tista si trovi impegnato nella lavorazione, non soltanto su un tema prefigurato, ma, generalmenteutilizza schemi preformati che non consentono di apportare modifiche, a meno che non si tratti diqualche piccolo dettaglio. Anche se tali aspetti possono sembrare irrilevanti, essi invece sonodeterminanti nel rendere “ineccepibile” la testimonianza monetale, relativamente a quei casi neiquali lo studioso utilizza il materiale monetale solo ai fini di ricavare un apporto documentario perpoter identificare un monumento o per poter integrare una fonte scritta.

Di contro, per i casi nei quali l’attenzione dell’osservatore è attratta dalla moneta per la suavalenza artistica, configurandosi questa come “opera d’arte in sé”, ci si trova nelle condizioni dipoter studiare il manufatto attraverso le numerose varianti.

Queste «ora ci aiutano a meglio comprendere la personalità di un incisore, ora ci permettonodi distinguere differenti individualità di artisti, ora ci danno modo di seguire l’evolversi di un’im-magine sotto l’influsso di visioni e tendenze differenti in quei casi in cui è dato seguire lo stesso«tipo» su una intera serie monetale. Caso di particolare interesse quest’ultimo in quanto puòdarci, specie in taluni casi, elementi importantissimi per la cronologia relativa di un periodo».

Si evince un relativismo cronologico, derivante dal fatto che «la moneta è, nel pezzo singolo,molto meno suscettibile di datazione di quanto non si soglia comunemente credere», sicché tranneche per alcune eccezioni, sussistono sparute possibilità di desumere sulla base di particolari intrin-seci l’esatta collocazione cronologica di un manufatto monetale. La storia della moneta presentacapolavori che non finiscono di sorprendere per i valori espressivi con i quali l’artefice rappresen-ta, entro una estensione estremamente contenuta, emblemi, simboli ed allegorie. Sul fatto che lacostrizione spaziale non costituisce un fattore preclusivo alla creazione di vere opere d’arte, così sipronuncia colui che oggi è considerato il «re della numismatica», Roberto Russo, in una intervistarilasciata al settimanale Panorama: «La moneta ha l’handicap di essere piccola e il piacere che pro-cura si fruisce individualmente. Ma la quantità d’arte che può esprimere è spesso superiore a quel-la di opere eccelse. In epoca greca si trovano artisti importantissimi: incisori fra i più autorevoli,come Cimone, il più grande, Eukleidas ed Eveneto, suoi contemporanei, attivi a Siracusa nell’ul-timo decennio del V secolo a.C., che addirittura le firmano». (L’intervista è riportata nell’articolodi LUIGI VACCARI, L’altra faccia della moneta, su Panorama, n. 16, 20 aprile 2006).

Sul primato che viene riconosciuto alla Sicilia per quel solare momento di capacità inventiva,segno di un profondo rinnovamento artistico allora in atto, è concorde la critica moderna.

Leggiamo con una certa emozione quanto osservava Salomone Reinach in una delle sue memo-rabili lezioni sulla storia generale delle arti plastiche, tenute presso la Scuola del Louvre, nel 1902:«Le più antiche monete greche sono del VII secolo e furono coniate sulla costa d’Asia. Fu sola-mente nel V secolo ch’esse divennero vere opere d’arte sotto l’influenza della scuola di Fidia. Ma,questa volta non è Atene che può aspirare al primo posto. Le più belle monete sono state prodot-te in Sicilia, ove incisori di genio, come Evenete e Cimone, hanno talvolta firmato l’opera loro.Le incomparabili monete siciliane, battute nella seconda metà del V secolo, fanno fede della supe-riorità dell’arte greca quanto l’Ermete di Prassitele e la Venere di Milo; il profilo della ninfaAretusa è forse la testa greca più squisita che noi conosciamo» (S. REINACH, Apollo. Storiagenerale delle arti plastiche, 3ª Edizione italiana sulla 5ª francese, Bergamo, 1909, p. 81).

Gli fa eco in tempi più vicini a noi Attilio Stazio: «Non v’è dubbio che fra le monete del mondoantico e - si potrebbe dire - in generale fra le monete di tutti i tempi, quelle emesse in Sicilia sianole più giustificatamente celebri per pregio artistico e per raffinatezza di esecuzione tecnica. Ciòavviene sopratutto negli ultimi anni del V secolo a.C. e si manifesta in particolare a Siracusa; e

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che tale eccellenza fosse effetto della consapevole volontà, da parte dei responsabili della pro-duzione monetaria, di affidare alle monete il compito di affermare e diffondere nella maniera piùnobile, cioè attraverso il segno dell’arte, l’immagine stessa della loro città, è dimostrato dal fattoche, spesso, nelle emissioni di maggior pregio artistico, compare, per intero o abbreviato, ilnome dell’incisore». (A. STAZIO, Le monete raccontano l’antica storia della Sicilia, in G.VALLET, Sicilia greca, cit., p. 39).

Sarebbero dunque i ricordati Euainetos (Evenete) e Kimon (Cimone) entrambi incisori dellazecca siracusana sul finire del V secolo, a contendersi la palma del più grande artista nella storiamonetale. Il destino volle che, essi, di cui purtroppo mancano notizie biografiche se non perquanto riguarda la loro produzione, vivessero contemporaneamente l’esperienza esaltante di inci-dere per Siracusa i coni del decadracma, la splendida serie commemorativa emessa probabilmen-te a partire dal 412 a.C. per celebrare la vittoria dell’Assinaros (413).

Prescindendo da opere minori di dubbia attribuzione, Euainetos incide per Siracusa tre conidel dritto (per il tetradracma, il decadracma, l’ettolitro) con tre diverse teste femminili, che tut-tavia si ispirano ad un motivo iconografico tradizionale. Nel tetradracma è significativo il fattoche, pur mantenendo la testa l’acconciatura caratteristica dei tipi euclidei, si coglie una certa spi-ritualizzazione della figura femminile, in virtù dell’affinamento di certi tratti somatici (naso ebocca) e della lucentezza dell’occhio. Attorno al volto in un tripudio festoso guizzano i delfini,nella parte alta, nello spazio libero tra le due code sono riportate le lettere dell’etnico, mentre suldorso del delfino anteriore è possibile vedere, anche se dissimulata, la firma dell’incisore.

Esaminando adesso il decadracma, dove sono presenti solo due tipi di teste, create appunto daEuainetos e da Kimon, esistono 21 coni firmati da Euainetos, a fronte di altrettanti coni anonimi:in essi riconosciamo i lineamenti di uno stesso volto giovanile, dalla bellezza radiosa e serenan-te nelle cinque varianti proposte.

Il fatto che esso sia cinto da una corona di canne fluviali ha fatto sempre pensare che si trattidi Aretusa, un’icona che, nel nostro caso, evidenzia la chiara influenza dell’arte attica.

Esiste un’emissione aurea, qui riportata, che si connota per un maggiore realismo nella rap-presentazione plastica della testina, dalla folta capigliatura raccolta in modo ordinatonello“sphendòne”a fiori.

Ma è particolarmente nei coni del rovescio delle opere citate che Euainetos dà la misura delsuo genio creativo.

Riprendendo un motivo ricorrente nell’arte greca, l’artista plasma nel metallo aureo, con per-fetta impaginazione volumetrica, il duello mortale tra Ercole e il leone di Nemea. Sbalordisce ilvigore tensivo con cui sono rappresentati i due contendenti avvinghiati: il corpo nudo dell’eroein ginocchio si flette con possente contrazione muscolare sino a disegnare un arco, nel cui senola belva, incastrata in una morsa che non le concede scampo, si dimena inutilmente.

A detta di alcuni studiosi, è forse il tema della quadriga quello in cui la personalità diEuainetos tocca i vertici eccelsi della sua gloriosa carriera artistica, trattandolo in varie versioni(tre volte per Siracusa ed una volta per Catana).

Vogliamo rimandare a quanto ha scritto in proposito Laura Breglia:«se in un conio siracu-sano (tetradracma) egli ha infatti reso il carro in lento, ma sicuro moto, completamente domi-nato dalla ferma padronanza dell’auriga, negli altri ha preferito cogliere momenti di tensione:il pericoloso sganciarsi di uno dei corsieri (tetradracma), a stento padroneggiato dall’auriga,il galoppo impetuoso magistralmente controllato (decadracma), il tumultuoso travolgere deicavalli che l’auriga incita nel giro della meta (Catana). Composizioni d’alta tensione dram-matica in cui, libero da ogni sovrastruttura culturale, Euainetos realizza la sua personalitàpiena, che sfugge ad ogni inquadramento accademico e cui la materia non pone ostacoli. Egliinfatti arricchisce il rilievo di elementi nuovi: l’illusione del movimento e dello spazio, in cuile figure si stemperano, acquistando in vibrante vitalità quello che perdono di potenza plasti-ca». (L. BREGLIA, Euainetos, in Enciclopedia dell’Arte antica classica e orientale, Roma,1960, vol. III, p. 509).

Altrettanto illuminante è il giudizio che la Breglia dà a proposito della rappresentazione deltipo del dio fluviale Amenamos, nelle varianti incise per Catana, e del tipo dell’Hipparis deldidracma di Camarina: «Se nella testa di Apollo del tetradracma di Catana lo stesso caratteredel tema vela di ideale nobiltà questi accenti nuovi, in un volto in cui ritroviamo la luminosa ecomposta bellezza dell’Aretusa, in contrasto col pittorico intreccio dei capelli, ritorna la singo-lare personalità di Euainetos nel tipo del dio fluviale Amenamos, che in più varianti incide perCatana, ed in quello dell’Hipparis del didracma di Camarina. Nell’uno, di profilo, ci rende infat-ti uno strano volto giovanile, asciutto e ardente, in cui, è stato detto, si realizza la mistione di trenature: la fiera, il fanciullo e il dèmone; l’altro, pensoso e calmo, fa emergere fino al busto - ardi-

XLVI

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mento nuovo- dal conchiuso giro di un’onda che corre intorno alla moneta. Per lo stesso didrac-ma rinnova -se il conio anonimo è suo- il vecchio schema della Ninfa di Camarina trasportata involo dal cigno, facendolo scendere nel mare e placando nel nuovo andare gli squilibri formali deitipi correnti. Piccole opere e dèi minori, in cui, pienamente libero, l’artista afferma se stesso e lapropria visione di bellezza» (L. BREGLIA, Euainetos, ivi, vol. III, pp. 509-510).

Per quanto riguarda Kimon (o Cimone) va precisato che, sotto tale nome, si conoscono due arti-sti che sarebbero vissuti a distanza di circa venticinque anni l’uno dall’altro. A Kimon il vecchioviene attribuita la firma riportata su un tetradracma di Imera risalente al periodo 440-430 a.C., coni tipi della biga e della ninfa Imera in atto di sacrificare presso l’ara.

Ma è Kimon il giovane ad avere firmato alcune serie di monete siracusane di assoluta bellez-za, e precisamente, i tre seguenti gruppi: i medaglioni, i tetradracmi e degli aurei da 100 litre.

A precedere in ordine di tempo, sono i decadracmi o pentecontalitra, la cui prima emissionerisale a circa il 412 a.C. In questa produzione sono distinguibili tre maniere che testimoniano l’o-riginale percorso dell’artista, culminante nella effige frontale di Aretusa del celeberrimo tetradrac-ma, espressione inarrivabile del tipo di bellezza ideale. E tuttavia l’idealizzazione, resa dallo sguar-do sognante, attenua appena la sensuale carnalità delle labbra turgide e dei piani vellutati di unvolto incorniciato dalle folte chiome, che, non trattenute dalla benda, si abbandonano in una vibran-te fluttuazione, mentre i delfini, in segno di amicizia nei confronti della ninfa, compiono i loro guiz-zi gioiosi. Secondo il Furtwängler, considerato il maggiore archeologo tedesco dopo Winckelmann,sarebbe evidente la diretta derivazione fidiaca dell’immagine kimoniana.

Circa le tre quadrighe kimoniane (una sul decadracma, e due, delle quali una non firmata, neitetradracmi), la più celebre è quella con la spiga all’esergo, talora in accoppiamento alla testaposta di fronte del dritto. È proprio la potenza rappresentativa con la quale l’antico artista ci rac-conta un momento culminante della corsa nell’arena a darci consapevolezza che questi eccelsi,anche se minuscoli, capolavori kimoniani, non possono soffrire alcun complesso d’inferioritàdinanzi a realizzazioni di maggiore consistenza materica.

Ha del miracoloso la maestria con la quale Kimon ci fa immaginare in quel tondello l’ebbrez-za vertiginosa della folla che, con un boato assordante, incita l’auriga mentre, nel momento peri-glioso del giro della meta, è intento con estrema tensione a governare l’impeto dei cavalli quasiimpennati nella folle corsa, ora tirando, ora allentando le redini.

Come osserva Laura Breglia, «col tempestoso balzo della quadriga vittoriosa contrasta l’agi-le, lineare, figura della Nike in volo, con le braccia tese in avanti a coronare la vittoria. Taleintensità di composizione, nella sua drammaticità tanto equilibrata, si disperde nel secondoconio del tetradracma, in cui la Nike incede nell’aria, quasi camminando sulla testa dei cavalli,mentre l’auriga si volge di fianco come a guardare gli spettatori e la quadriga che lo insegue».(L. BREGLIA, Kimon, in Enciclopedia dell’arte antica, cit, vol. VI, p. 362).

Quanto sinora detto ci induce a rilevare come la migliore produzione monetale siceliota dellaseconda metà del V secolo a.C. nella sua tendenza a strutturare il linguaggio secondo un ideale diperfezione stilistica, si ponga in sintonia con quella ricerca dell’assoluto che connota l’arte nellaGrecia del tempo.

Ricorderemo a questo punto che Platone, nel suo Simposio, nell’innalzare un inno all’idea eter-na del bello, visto nella sua incorruttibilità ed uniformità, come termine ideale dell’Eros, affermache «se mai momento della vita merita di essere vissuto dall’uomo, questo è quello che egli vivequando contempla la bellezza in sé». (Simposio, 211 d.).

Collegando la citata affermazione platonica con l’assioma di Mikel Dufrenne (Voce Estetica inEnciclopedia del Novecento, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1977, Vol. II, p. 822),secondo cui tutto quel che definiamo bello è estetico e nel constatare che ciò cui si riferisce talesignificante è frutto della creatività umana, arriviamo alla conclusione che la più raffinata produ-zione monetale appartiene all’arte.

Valutazioni restrittive, riconducibili alle arbitrarie gerarchie fissate nel segno di quel «proces-so di dominazione» dei saperi, di cui parlava Ferrarotti, hanno portato all’inserimento del capito-lo della monetazione siceliota nell’ambito delle cosidette «arti minori».

La nona del ciclo di lezioni tenute alla Scuola del Louvre da Salomone Reinach, nel biennio1902-1903, s’intitola appunto: Le arti minori in Grecia, e prende l’avvio da affermazioni che sem-brerebbero propendere per un concetto di subalternità dell’ «artigiano greco» rispetto all’ «artista».

Scrive Reinach: «L’artigiano greco era naturalmente inclinato a fare opera di artista. Si trat-tasse d’ornare un vaso, un tripode, uno specchio, di modellare una figurina in terra da cuocere,di incidere un sigillo o il conio di una moneta, egli eseguiva il suo lavoro col desiderio istintivodi piacere all’intelletto e di rallegrare gli occhi. Pure nelle cose più umili, egli si mostrava imita-tore e talvolta emulo dei grandi artisti del suo tempo» (S. REINACH, Apollo, cit. p.73).

XLVII

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Ma, subito dopo, l’illustre storico dell’arte precisa il proprio pensiero ponendo su un pianoparitetico la «grande arte» e «l’arte industriale», artisti ed artigiani: «Si può dire, sotto un taleriguardo, che in Grecia, non v’ha divario essenziale tra la grande arte e l’arte industriale, tantoartisti ed artigiani cercavano le loro ispirazioni alle medesime sorgenti e davan segno dello stes-so gusto sicuro» (ibidem).

Tale valutazione comporta l’abbattimento di qualsiasi discriminante tra creazione artistica eartigianato, spazzando via il pregiudizio che quest’ultimo sia un prodotto riflesso, non dotatocome l’arte, di vita autonoma.

Si è visto che lo stesso Reinach, sempre nella citata nona lezione, pone le «incomparabilimonete siciliane», coniate nella seconda metà del V secolo a.C., ai vertici dell’arte greca, rile-vando che esse fanno fede della superiorità di quest’ultima, al pari dell’Ermete di Prassitele edella Venere di Milo.

Siamo così al riconoscimento autorevole del valore di questo corpus monetale di eccezione,nel cui codice genetico la felice simbiosi tra techne, frutto di un severo tirocinio, e «covazione»fantastica, si traduce in declinazioni figurative che, con i loro ritmi e le loro armonie, diventanometafora capace di innalzare la realtà dell’uomo, fatto di materia e di nous, a specchio e sintesidella realtà cosmica.

Esempio mirabile dell’armonizzarsi di umano e divino è quel profilo kimoniano della ninfaAretusa, che, sempre secondo Reinach, «è forse la testa greca più squisita che noi conosciamo»(S. REINACH, Apollo, cit., p. 81).

Negli ultimi tempi si è venuta affermando sempre più la convinzione che gli esemplari creatida maestri celebrati trascendono la dimensione meramente artigianale per porsi su un piano pari-tetico con l’espressione artistica più similare, la scultura. Tra i più convinti assertori di tale digni-tà ricorderemo il Gardner, che, nell’opera The Types of Greek Coins (Cambridge, 1883) arriva asostenere che la storia dell’arte sarebbe diversa se avessimo una conoscenza più approfonditadell’arte “monetale”.

Ma, a ben vedere, il problema di una sperequazione tra arte e artigianato non sussiste alla lucedell’armonia e della coesione che connotano tutte le espressioni della creatività greca. A soste-nere con forza tale concetto è Ranuccio Bianchi Bandinelli, secondo cui l’elemento caratteriz-zante dell’arte greca fu in qualsiasi periodo «l’unità di tutte le arti figurative e l’altissimo sensoper l’organicità, per l’armonica coordinazione e coesione delle varie parti e membra di unaimmagine… In quest’età non vi è divario alcuno tra opere d’arte e di artigianato.

Entrambe sono perfette nel loro mestiere, nella stringatezza del linguaggio e nella eticitàdella forma. Per dire arte il greco usa il termine techne: esso è termine puramente strumentale,puramente artigianesco e indica una capacità manuale che rimane la stessa, sia essa usata acostruire un carro da battaglia o una nave, uno scudo per il guerriero, un incensiere o un tripo-de per il tempio, o per una statua da erigere nel santuario.

Questa identità perfetta tra artigianato e arte, è segno di una completa e piena aderenza delprodotto artistico al sentimento e al gusto di tutti i cittadini componenti la società che la produ-ce» (RANUCCIO BIANCHI BANDINELLI, Situazione dell’arte greca nella cultura contempo-ranea in“Archeologia e cultura”, Editori Riuniti, 1979).

Caduti dunque i pregiudizi circa il diritto di cittadinanza nel mondo dell’arte, il corpus mone-tale dei Maestri Firmanti può finalmente uscire dalle nebbie dell’obliterazione e rivendicare, conl’ originalità del suo linguaggio plastico, la propria identità di rappresentazione altissima dell’i-deale estetico della classicità, riassumibile nel motto:«La misura è perfezione universale».

Esso risplende di una solarità che, senza tema di offuscarsi, è segno di eterna giovinezza,«come sincronismo dell’arte che non può essere né antica né moderna, ma attuale, come lo è ilbattito di un cuore» (F. GALLO, Sironi, Palermo, Sellerio, 1998, p. 22).

XLVIII

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XLIX

In ragione della sua collocazione nel cuore di quel Mediterraneo che ha visto sviluppare la civil-tà, la Sicilia, come osserva Denis Mack Smith, «è sembrata a volte il centro stesso del mondo civi-le». L’isola si è trovata a ricoprire un ruolo di grande peso nella storia, sia in quanto oggetto dicupidigia per invasori stranieri che ad ondate si sovrapponevano alla popolazione autoctona, cheper la capacità di assimilare gli apporti culturali lasciati dai conquistatori.

Sta di fatto che nell’arco di almeno ventotto secoli essa è stata, come osserva Aurelio Rigoli,«la terra più contesa nel centro del Mediterraneo, ombelico del mondo civile. Sotto gli occhi avididell’Oriente e dell’Occidente, dell’Europa e dell’Africa, del Nord e del Sud.

Vi sembra forse eccessivo, quindi, giustificarli quei Fenici, quei Greci, quei Cartaginesi, queiRomani, quei Vandali, quegli Arabi, quei Normanni, quegli Svevi, quegli Angioini, quegli Spagnolieccetera che hanno via via dato l’assalto, che dopo aver sognato una terra così se la sono trova-ti sotto gli occhi, e ci hanno magari lasciato la pelle pur di tenersela?

Ecco: la Sicilia è un poco il sogno, poichè sempre l’uomo sogna, sia pure inconsapevolmente,una terra dove il sole risplenda di fuoco, e le erbe profumino balsamiche, gli alberi siano carichidi frutti smaglianti, il mare sia caldo e pieno di pesci e di lusinghe, e tutto questo sia di sanguevivo e di improvviso umore, e consenta uno spiraglio, un’illusione almeno, di felicità. L’uomosogna il ricordo, forse del paradiso terrestre che non ha conosciuto.

Ebbene, di tale natura è la Sicilia... Molti in realtà, l’hanno posseduta, e tutti, per peccato diorgoglio, l’hanno persa. Oggi appartiene ai siciliani; ma da ogni parte molti continuano a desi-derarla, e, sia pure senza scimitarre, vi sbarcano, se ne inebriano, vi si fanno una base sotto variaspetti unica al mondo». (A. Rigoli, Questa nostra Sicilia, Palermo, E.S.A., 1974, p. 5).

Il succedersi di varie dominazioni è stato visto come un fattore ostativo al costituirsi di una verae propria nazione siciliana, ma ciò che sembrava un limite ha invece finito per essere una ricchez-za, tanto da far rivendicare alla Sicilia la dignità di nazione.

Certo, è un fattore che ha contribuito a far attribuire alla Sicilia il valore di«metafora», sullabase di un’osservazione di Goethe all’epoca del suo soggiorno a Palermo:«qui è la chiave ditutto». L’assunzione di un modello mitico risponde alla tentazione di creare stereotipi che a volterischiano di banalizzare la storia isolana, tenendone nascosti i caratteri veri, tra i quali, a mio avvi-so, ha carattere di priorità una vocazione polietnica nel contesto dell’area mediterranea.

Mi piace considerare la Sicilia come un grande libro che è possibile sfogliare e che raccontauna storia che si intreccia saldamente con quella delle civiltà mediterranee.

Sappiamo che le prime notizie sulla Sicilia preistorica ci vengono dallo storico greco Tucidide,vissuto nel V secolo a.C.

Nel sesto libro della Guerra del Peloponneso egli ci parla dei «barbari» che abitarono l’isolaprima della colonizzazione greca, e quindi anteriormente all’introduzione della scrittura; «si diceche i più antichi ad abitare la parte del paese fossero i Lestrigoni ed i Ciclopi, dei quali io nonsaprei dire né la stirpe né d’onde vennero, né dove si ritirarono: basti quello che è stato detto daipoeti e quello che ciascuno in un modo o nell’altro conosce al riguardo».

Come si vede, le remote origini della Sicilia appaiono circonfuse da un alone mitico.Dopo le suddette popolazioni indigene, subentrarono i Sicani, i quali erano di provenienza ibe-

rica e diedero all’isola il nome di Sicania. Successivamente sarebbero arrivati nuovi gruppi etni-ci, prima quello degli Elimi in fuga dalla città di Troia, poi quello dei Siculi, che originariamenteabitavano l’Italia. Questi ultimi, messi in fuga dagli Opici, giungevano fortunosamente nell’isolaa mezzo di zattere e dopo aver riportato una vittoria nello scontro con i Sicani, li scacciavano versole zone meridionali occidentali.

Da loro l’isola avrebbe preso, definitivamente, il nome di Sicilia.Altro gruppo etnico di cui ci parla Tucidide è quello dei Fenici, stanziatisi «tutto intorno alla

Sicilia, dopo aver occupato i promontori sul mare e le isolette adiacenti», allo scopo di favorirel’attività commerciale con i Siculi.

Ma con il sopraggiungere della grande ondata dei colonizzatori greci, i fenici erano costretti abattere in ritirata su più stretti confini, andando ad abitare Mozia, Solunto e Panormo.

Prefazione

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Si deve, al grande archeologo Paolo Orsi, che a partire dal 1888 ricoprì la carica di Ispettoredella Sovrintendenza delle Antichità di Siracusa, un’accurata indagine delle fasi evolutive dellaSicilia preellenica attraverso le esplorazioni di centinaia di necropoli, da Pantalica a Caltagirone,e, proprio grazie a quelle scoperte, l’aver potuto basare su solide fondamenta la cronologia delperiodo preistorico e nel contempo chiarire la complessa trama di relazioni dell’isola con le civil-tà mediterranee. Gli studi dell’Orsi permisero di far luce sulle città e sulle necropoli greche diSiracusa, Gela, Camarina, Centuripe, nonché sulla mirabile fioritura di arte in quei territori, docu-mentando la successione di culture nel periodo che va dall’introduzione dell’agricoltura (neoliti-co) alla fine dei greci.

Sta di fatto che il quadro fornitoci dall’insigne ricercatore è rimasto fino ad oggi sostanzialmen-te inalterato.

La Sicilia fa il suo ingresso nella storia con la colonizzazione greca, che ha il suo momento diavvio con la fondazione di Nasso ad opera dei Calcidesi e di Siracusa per mano dei Corinzi, versola metà del secolo VIII a.C. Fece seguito la fondazione di Catania ad opera degli abitanti di Nassoe quindi quella di Zancle (Messina) ad opera dei Cumani.

Alla seconda metà del VII secolo a.c. risale la fondazione di Selinunte ed all’inizio del VI seco-lo a.C. quella di Agrigento.

Quanto detto aiuta a capire come sfogliare il grande libro della storia di Sicilia sia un’esperien-za emozionante, che ci fa immergere in momenti di grande splendore, come il periodo della civil-tà greco-sicula sul quale resta la significativa testimonianza dello storico Polibio (205-120 a.C.):«La Sicilia è più vasta della Grecia tutta, illustre di avvenimenti più che in ogni altra parte delmondo, con abitanti che superano tutti in sapienza; i Siracusani sono i più atti al comando; e pernon tralasciare nulla, perfino i ragazzi primeggiano nei giochi e negli svaghi e nell’acume con cuiriescono a svolgere i propri temi».

È stata sottolineata dagli studiosi la perfetta analogia tra la civiltà dei greci stanziatisi in Siciliae quella della madrepatria, analogia ravvisabile nel fatto che anche nell’isola l’istituzione fonda-mentale è la «polis», ossia quella entità statale sentita come comunità autonoma ed autosufficen-te di uomini liberi, dalla cui volontà promana la relativa organizzazione istituzionale.

Fattore centrale della storia greca. pur nella complessa varietà delle forme di governo vigential suo interno, la polis fu oggetto della profonda riflessione filosofica di Platone circa la città idea-le e teorizzata da Aristotele come la migliore forma possibile di convivenza umana.

È comunque da precisare che le colonie greche di Sicilia, per ragioni legate sopratutto ad esi-genze di difesa territoriale, superarono il concetto di polis indipendente, accostandosi ad unmodello di stato territoriale, destinato a svilupparsi in epoche successive. Ma, come è stato evi-denziato dagli storici, il prezzo che dette colonie dovettero pagare per la loro sicurezza territoria-le fu la caduta della democrazia ad opera dei tiranni che, intorno al 500 a.C. si insediarono in quasitutte le città della Sicilia greca. Fu infatti il “blocco di potere Gelone-Terone” a controllare lamaggior parte dell’isola. I tiranni, se vanno ricordati per le loro atrocità, come il taureo bronzeodi Falaride, che, nel ricordo di Pindaro, «ardeva le genti», diedero un forte impulso all’architettu-ra delle proprie città, facendo costruire edifici e templi che, per dimensione, superavano quelligreci. Per quanto più direttamente ci interessa, essi dedicarono particolare attenzione alla mone-tazione, curandone l’aspetto estetico tramite l’impiego di incisori i cui meriti artistici erano ampia-mente noti. Ricorderemo che quando Terone prese Imera, il tipo del granchio agrigentino compar-ve subito sulle monete della città sottomessa.

È pure significativo il fatto che Anassilao signoreggiante sulle due città dello stretto, Reggio eZancle, volle commemorare la vittoria riportata ad Olimpia introducendo il carro trainato da mulisulle monete dei suddetti centri. Un segno di cautela da parte di Ierone,Terone e Gelone fu il nonaver mai fatto incidere sulle monete il proprio nome o il proprio ritratto, né qualsiasi simbolo dipotere. Anziché offrire una dimostrazione di modestia, quella forma di riserbo forse era dettatadalla volontà di accreditarsi in una luce riabilitativa in tutto l’occidente greco, specie in unmomento in cui l’istituto della tirannide era scaduto nel discredito e nella condanna popolare.

La civiltà greco-sicula ha espresso figure tra le più insigni della classicità, come Teocrito,Stesicoro, Epicarmo, Gorgia, Empedocle e Archimede. Non riteniamo di esagerare se affermiamoche si deve anche all’apporto rilevante che i citati geni hanno dato al patrimonio artistico, filoso-fico e scientifico dell’umanità intera se il retaggio della grecità trascende i limiti cronologici delmondo antico e continua a pesare così tanto nel presente.

Nel tracciare un bilancio della storia di Sicilia non si può non ammettere che tra le molteplicivicende che hanno interessato la nostra isola lungo ventotto secoli, occupano una posizione prim-maria i quasi cinque secoli che segnarono la nascita e l’ascesa delle «poleis» greche, sino alla con-quista romana. Ancora al momento di narrare gli eventi del primo conflitto punico (264-241 a.C.)

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lo storico siceliota Diodoro, nativo di Agira, poteva premettere la seguente affermazione: «LaSicilia è la più nobile e la più bella delle isole, in quanto può contribuire molto significatamentealla crescita di un impero».

È ovvio che non ci proponiamo in questa sede di fare un excursus della storia di Sicilia, mariteniamo che scoprire le nostre radici e ripercorrere il cammino delle generazioni che ci hannopreceduto sino al momento presente è un’operazione doverosa per conquistare la nostra identità eattingere un orgoglioso spirito di appartenza. Ma è anche un’operazione ricca di sorprese, per iprimati che questa storia registra. Così per fare qualche esemplificazione, un primato, nel campodella comunicazione e del pensiero è da assegnare a Gorgia da Lentini (Lentini 480 ca-Larissa 383ca a.C.), in quanto inventore della retorica.

Egli fu il primo ad introdurre nella prosa figure retoriche e termini del linguaggio poetico, fu ilprimo a scoprire l’importanza della parola e dell’autonomia del linguaggio sul piano della persua-sione. Altro primato da non dimenticare è quello che spetta a Teocrito come creatore, in poesia, diquel genere idillico in cui si identificano «bozzetti» caratterizzati dalla idealizzazione della vitacampestre. Passando ad Epicarmo, vissuto a Siracusa alla corte di Jerone e Gelone, egli è consi-derato dallo stesso Aristotele l’inventore della commedia: un genere incentrato sulla caratterizza-zione di un tipo o sulla descrizione di un ambiente. Ma più che a divertire, Epicarmo mirava a farriflettere, tanto che dalle innumerevoli sentenze sparse nel suo teatro furono redatte delle raccol-te, che, ampliate e rimaneggiate nel corso dei secoli, gli fecero guadagnare la fama di filosofo escienziato. Per quanto riguarda il genio di Archimede, egli è universalmente noto per aver postole fondamenta dell’idrostatica, e, tramite la teoria dei baricentri, quelle della statica.

Passando ad aspetti meno impegnativi, un primato sempre interessante è quello della pubblica-zione del primo trattato di gastronomia ad opera di Archestrato da Gela. Ciò spiega come i Romanimagnificassero la culinaria siciliana, ma essi manifestarono altri debiti verso la nostra isola, comequello connesso all’uso dei bagni pubblici e delle sale da barba, nonchè l’uso di calcolare con lameridiana.

Non esiste grande autore della letteratura latina che non abbia dedicato attenzione alla Sicilia:basti pensare allo stesso Virgilio, autore del poemetto «Etna», dove viene cantata la leggenda diAntinoo ed Anapia, i quali salvarono i genitori paralitici da un’eruzione.

È significativo che lo stesso imperatore Augusto cantasse l’isola in un poemetto intitolatoappunto «Sicilia».

Primo teatro geografico della diffusione della religione cristiana in Europa fu proprio la Sicilia,patria di martiri universalmente venerate, come S. Agata e S. Lucia, nonchè di cinque papi: S.Agatone da Palermo (678-681), S. Leone II da Aidone (682-683), Conone (686-687), S. Sergio Ida Palermo (687-701) e Stefano IV da Siracusa (768-683).

Sfogliare il grande libro della Sicilia significa rivivere, dopo l’aureo periodo greco, altre epo-che di straordinario splendore, come quelle legate alla dominazione araba, a quella normanna e aquella sveva. È nota la considerazione di Michele Amari a proposito del«conquisto mussulmano»:si tratta di un’evento che«recò nel IX secolo e mantenne fino all’XI un incivilimento e una prospe-rità ignoti ad altre regioni italiane».

A sua volta lo storico Adolfo Holm, nel concludere la sua Storia della Sicilia nell’Antichità conl’occupazione dell’intero territorio isolano da parte dei Musulmani, osserva:«La nostra narrazio-ne cessa appena la Sicilia perde il suo carattere di terra classica, ed al lieto e sereno spirito elle-nico subentra lo spirito serio arabo-normanno-ispano, il quale anche oggidì (1896) costituisce ilcarattere del popolo di Sicilia e predomina specialmente nella parte occidentale dell’isola».

La tesi del citato storico tedesco è che, se la dominazione araba in Sicilia incise profonda-mente sulla sua storia e sulla sua civiltà, ciò si deve non soltanto alla lunga durata della presen-za musulmana (ben due secoli e mezzo), ma anche al processo di arabizzazione protrattosi inepoca normanna, un processo che, come osserva ancora l’Amari, fu particolarmente fruttuoso«per avere apportato nuove linfe alla decrepita società romano-bizantina, rinnovato il regimefondiario, introdotto nuove arti e culture; ma il pieno fiore di questo progresso si apre solo inepoca normanna». Fu appunto lo stesso Amari a sottolineare il miglioramento arrecato dagliArabi al paesaggio agrario siciliano, grazie a quella che è stata definita la «rivoluzione agricola»connessa all’introduzione di nuove specie di coltivazioni da incrementare grazie all’utilizzazionedi tecniche all’avanguardia e di sistemi irrigui.

A seguito dell’occupazione ad opera dei Normanni (1061-1091), vengono gettate in Sicilia lefondamenta di uno stato moderno.

Dalla tradizione teutonica, in base alla quale, i capi guerrieri avevano un peso non irrilevante,al punto di dare consigli al monarca o, addirittura, di eleggerlo, si sviluppa il Parlamento, istitutodi cui i Siciliani, rivendicano la priorità in Europa.

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LII

Non si trattava più di un organismo costituito dalle tradizionali rappresentanze dei nobili e degliecclesiastici, bensì dai bracci demaniali, vale a dire la rappresentanza delle città libere.

È da precisare comunque che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la curia di RuggeroII, come precisa Mack Smith «non era una restrizione al potere del Re, bensì un’emanazione dellasua volontà. Sembra difficile che l’approvazione parlamentare gli fosse indispensabile, ed è moltoprobabile che i baroni in parlamento si limitassero ad ascoltare e applaudire… il parlamentoaveva più il significato di un’occasione di incontro che quello di un’assemblea popolare; ed il Reapprofittava di questa occasione per assicurarsi del fatto che i suoi sudditi più eminenti fosseroal corrente della volontà reale e che l’avrebbero fatta conoscere là dove vivevano».

Nell’epoca Normanna si assiste ad una straordinaria fioritura artistica con la creazione di impo-nenti monumenti, tra i quali meritano di essere ricordati le cattedrali di Monreale, di Palermo e diCefalù, il Palazzo reale di Palermo, la Curia, la Zisa, la Martorana, S. Giovanni degli Eremiti, ilduomo di Messina e quello di Catania, il castello di Adrano, il castello di Paternò, la badia diCasalvecchio a Messina.

Un avanzamento in senso moderno dell’idea di Stato si avrà con Federico II di Svevia (1194-1250), il quale promosse un’amministrazione accentrata ed efficiente, che assicurò all’isola unperiodo di grande prosperità.

Come ha scritto Antonino Di Stefano, quella idea di Stato si prospetta nel «motivo centraledella concezione giuridica federiciana: la giustizia, che è poi l’idea della concezione classica eromana dello Stato». A sua volta il Simond ha scritto che «i cinquant’anni del suo regno segnanoper la Sicilia il periodo della sua più grande prosperità e del suo più grande splendore. Le cittàdiventano il centro di scambi con l’Occidente e nello stesso tempo il punto di riferimentodell’Oriente bizantino, dell’Africa musulmana e dell’Impero cattolico».

Per restare sempre in termini di primati, alla corte di Federico II nasce la scuola poetica sici-liana, che segna, come lo stesso Dante Alighieri nel«De vulgari eloquentia» e Petrarca nel«Trionfo d’Amore» riconoscono, la nascita della letteratura italiana e la stessa sorgente da cuisgorga la lingua nazionale.

Con la decadenza che segue all’estinguersi della dinastia sveva, la Sicilia non conoscerà piùquel ruolo di grande prestigio nell’area mediterranea che già le era arriso in epoca greca, duranteil periodo arabo-normanno e sotto gli stessi Svevi.

Preferiamo allora non avventurarci nel periodo che segue il 1250, anno della scomparsa dello«stupor mundi», perché con la«mala Signoria» degli Angioini si appanna definitivamente l’imma-gine di una Sicilia che fu realmente centro del mondo civile.

Con la caduta degli Svevi si era avuto anche il decadimento dell’arte poetica siciliana ed ilpassaggio del primato detenuto dalla Sicilia all’Italia centro-settentrionale ed in particolar modoalla Toscana.

Ma nel XV secolo l’isola sarebbe risorta a nuova vita, grazie alla presenza di grandi umanisti,di quegli studiosi cioè che si dedicavano con passione allo studio dei classici, cercando di attinge-re dai loro scritti quella lezione di umanità che deve illuminare il percorso dei popoli.

Così acquista grande fama per gli studi di greco la città di Messina e si distinguono poeti delcalibro di Giovanni Aurispa e di Antonio Beccadelli, detto il Panormita.

Nel panorama artistico del 1400 giganteggia la figura di Antonello da Messina, di cui basta soloricordare l’Annunziata, custodita nella Galleria Nazionale di Palazzo Abbatellis di Palermo.

Dopo il risveglio umanistico la cultura e l’arte in Sicilia si imposero nel più ampio quadronazionale ed internazionale con fugure di grande rilievo, quali il poeta Meli, l’architetto FilippoJuvara, i pittori Francesco LoJacono e Renato Guttuso, il musicista Vincenzo Bellini, lo storicoMichele Amari e scrittori quali Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa.

Bastano tali nomi a connotare l’altissimo contributo dato dalla nostra isola al patrimonio cul-turale ed artistico dell’umanità. Ma non possiamo altresì non citare la stessa EnciclopediaTreccani, che come non molti sapranno ha avuto in tre illustri siciliani, e precisamente in GiovanniGentile, in Calogero Tumminelli ed in Antonio Pagliaro, rispettivamente responsabile culturale,editoriale e redazionale.

Nel parlare di Federico II, ho omesso di accennare ad un aspetto della sua personalità chepotrebbe sembrare irrilevante a fronte delle sue eccezionali qualità di statista, di scienziato e diuomo di cultura, ma che invece acquista a mio avviso grande interesse per definire il caratteredello «stupor mundi».

Mi riferisco alla sua passione per il collezionismo, per la quale egli può essere considerato ilfondatore del collezionismo siciliano.

Non ritengo di peccare di immodestia se affermo che nella storia di tale collezionismo un postoimportante spetta alla mia famiglia.

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LIII

Un merito particolare è da riconoscere a mio nonno Pietro, ricordato da molti estimatori comeuno dei rappresentanti più autorevoli della moderna filatelia, che proprio per l’apporto dato allacrescita della stessa in Sicilia, fu chiamato a ricoprire la carica di Presidente dell’Unione FilatelicaSiciliana nel triennio 1960-1963. Uomo di cultura eclettica e studioso di storia delle religioni nonsi limitò a collezionare solo francobolli, ma anche monete ed armi.

Ma sopratutto devo attestare il mio debito verso mio padre Vincenzo, conosciuto da molticome «il colonnello» e da altri, parenti ed amici, come «Vivi» (dalle iniziali del suo nome di bat-tesimo Vincenzo Vito). Il suo gusto per le cose rare e belle denotava un senso estetico e unadimensione culturale che, relegando ai margini l’attenzione al valore venale degli oggetti stessi,erano alla base di un «modus vivendi» riconducibile all’ideale di vita come opera d’arte tipicodella cultura rinascimentale.

È a lui, ed a mia madre Angelita, che mi ha amorevolmente incoraggiato a perseverare in que-sta ricerca, che devo una iniziazione al mondo del bello, avvenuta attraverso le mille visite seraliche sin da piccolo, facevo sotto la loro illuminante guida, alla«wunderkammer» di casa, al museofamiliare dove erano custodite varie tipologie di oggetti, collocati secondo criteri di sistemazione,dai francobolli alle monete, dai libri alle vecchie carte geografiche, dalle carrozze alle armi, dallemaioliche alle pitture ecc.

Che nei vasti ambienti del piano terra di Villa Martorana Genuardi, trovassi, ad un tempo, librirari e armi di varie epoche rappresentava la continuità ideale da parte di mio padre, nei confrontidi una tradizione che, ribadiva, in quell’abbinamento un codice comportamentale ispirato all’uma-nesimo neo-platonico.

Infatti come osserva Vincenzo Abbate, il senso di tale connubio si spiega «perché la stanzad’armi e quella colma di libri non fanno altro che tradurre in immagini l’antico binomio di tra-dizione latina che apparentemente oppone le armi alle lettere, che è quanto dire la vita attiva(della forza dei sensi e delle passioni, per certi versi) contrapposta a quella dello spirito (dellaragione)».

Ma più che dai libri, più che dalle armi, l’emozione maggiore di quelle esplorazioni serali del-l’universo collezionistico famigliare mi fu procurata dalle monete auree siciliane della collezionenumismatica. Nel mio immaginario di fanciullo il poter tenere sul palmo della mano un decadram-mo siracusano, uno statere di Corinto, un Augustale di Federico II o la splendida e rara Trinacriadi Ferdinando III di Borbone, mi proiettava su scenari esaltanti ed avventurosi, alimentati sia dallemie letture domestiche come l’Isola del Tesoro di Stevenson o il Conte di Montecristo di Dumas,sia dalle reminiscenze scolastiche come quella relativa al tesoro di Priamo.

Improvvisamente ero io il protagonista di vicende che avevano sempre come momento culmi-nante la conquista di un tesoro, sia attraverso l’espugnazione di una città, che attraverso una azio-ne di pirateria.

Ben presto con la maturità avrei preso le distanse da tali fantasie, ma non per questo sarebbesminuita l’emozione per quei manufatti che vedevo sotto una nuova ottica, in quanto simbolo dipotere e ricchezza e testimonianza preziosa nella storia della civiltà.

Un ruolo non irrilevante nell’avere suscitato i miei interessi per la numismatica spetta anche amio zio Nino Genuardi di Molinazzo, collezionista istancabile di monete siciliane, dal periodopunico al periodo borbonico. Fu sopratutto lui, nelle sue visite a Villa Martorana Genuardi, araccontarmi la storia della Sicilia vista attraverso le emissioni monetali e a parlarmi della nostratradizione di famiglia.

Proprio attraverso mio zio Nino avvenne il mio primo approccio, all’età di dodici anni, conle monete auree siciliane del periodo greco, e appresi da lui che tali manufatti si collocano peril loro profilo estetico al vertice del collezionismo monetale in campo internazionale.

Con quell’approccio si accese in me il desiderio di approfondire nel tempo tale sterminatamateria acquistando dimestichezza con i tre elementi fondamentali della moneta: il metallo, iltipo, il peso, secondo la vecchia definizione riportata da Isidoro (De orig., XVI, 18, 12):«in numi-smate tria quaeruntur: metallum, figura et pondus. Si ex his aliquid defuerit, nomisma non erit».

Ma mi andavo rendendo conto che tra le implicazioni della numismatica c’è un valore esteti-co, per cui ciò che maggiormente conta è la qualità del tipo, cioè della figurazione.

Man mano che procedevo in quel viaggio appassionante, veniva il bisogno di un’approfondi-mento bibliografico, cui ogni vero collezionista è tenuto.

Ciò spiega come l’esigenza di una chiarificazione più volte, mi portava a consultare i testi chesi trovavano in bella mostra negli scaffali della biblioteca, sia di carattere introduttivo alla numi-smatica, sia di studio specifico sulle monete siciliane, come, solo per fare qualche esempio, quel-lo di A. Salinas su Le monete delle antiche città di Sicilia (Palermo, 1867) o quello di A. Holm,Storia della moneta siciliana (Palermo, 1906).

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LIV

Così si è consolidata una passione che ormai fa parte della mia vita e che costituisce una pro-spettiva di impegno culturale e di gratificazione da consigliare oggi a tanti giovani per evitare chepossano smarrirsi nel cupo bosco dei disvalori del nostro tempo.

Il collezionismo, dunque, come alternativa sana ai falsi miti di una società in cui l’omologazio-ne e la fuga nel privato denotano un malessere esistenziale che non può non preoccuparci.

Frutto di quella passione è oggi il presente lavoro che, nel tentativo di offrire una visione orga-nica ed esaustiva della monetazione aurea siciliana dall’antichità al Regno di Italia, riteniamopossa essere, di una certa utilità per gli studiosi e, nel contempo, appagare la curiosità di quanti,indotti da una qualche motivazione, vogliono esplorare l’universo numismatico.

La Sicilia per anni è stata identificata purtroppo con la mafia, con fichi d’india isolati in terreinospitali, con donne in gramaglie che piangono per strada i loro cari uccisi da mano criminale.

È deplorevole il fatto che una certa produzione cinematografica cui ha arriso un largo succes-so (pensiamo alla serie del Padrino) si sia prestata ad offrire un’immagine negativa della nostrarealtà, mitizzando addirittura personaggi al vertice dell’organizzazione tristemente nota comeCosa Nostra.

La smentita a tale mistificazione la dà il grande patrimonio di cultura e di arte che ha espressoquesta nostra isola ed a cui ho fatto riferimento inizialmente, e mi consola il fatto che può contri-buire a darla, per la straordinaria documentazione che contiene, questo nostro lavoro.

La storia dell’Isola, detta dai Greci Trinakria e poeticamente chiamata dai Romani Triquetra, èqui sinteticamente ripercorsa attraverso gli avvenimenti fondamentali e le civiltà che ne hannoarricchito il territorio con la loro cultura e le loro tradizioni.

Riteniamo a questo punto di dare delle informazioni propedeutiche alla consultazione del testo.Per tutti i conii è indicato il grado di rarità, per alcuni pezzi proponiamo un ingrandimento del-

l’immagine per consentire una migliore lettura della tipologia.Relativamente alle monete arabe abbiamo ravvisato l’opportunità di non far riferimento alle

legende cufiche in caratteri arabi, ritenendo di dover rinviare l’eventuale approfondimento in talsenso attraverso la consultazione di pubblicazioni specializzate.

Per facilitare l’orientamento del lettore nell’itinerario proposto, abbiamo ritenuto opportunoprocedere ad una suddivisione cronologica nei seguenti sette periodi:

I periodo punico, greco e romanoII periodo che va dai Bizantini alla dominazione araba.III dalla conquista normanna agli Svevi.IV gli Svevi.V dagli Angioini agli Aragonesi (Viceregno).VI dal Viceregno allo stato unitario.VII il Regno d’Italia

Di ognuno dei suddetti periodi saranno indicati i principali eventi e inoltre sarà prospettata unaperiodizzazzione nel cui ambito si indicheranno le emissioni auree che hanno avuto corso legale.

Avviandomi alla conclusione, intendiamo ribadire che il presente lavoro non ha altra pretesache quello di costituire un manuale pratico per collezionisti ed amatori, in grado di offrire unavisione organica, di una produzione monetale che fin’ora è stata oggetto di studi specifici ma fram-mentari, per altro di vecchia datazione e difficile reperibilità in commercio.

Evidentemente non abbiamo la pretesa, solo per il fatto che questo lavoro ha il vantaggio diessere più aggiornato rispetto ai citati studi, di voler togliere merito agli stessi, nella consapevo-lezza che essi costituiscono vere pietre miliari nella storia della numismatica.

Se la vastità della materia è tale da esporci al rischio che possano essere colte eventuali omis-sioni ed imperfezioni, saremo grati a coloro che vorranno farcene segnalazione.

Siamo convinti nell’affermare che un uomo, nel nostro caso, un collezionista, vale non perquello che possiede in vita, ma per quello che lascia agli altri. Solo così egli partecipa alla stesu-ra del libro della cultura e della storia.

L’augurio è quello di aver potuto dare, con questo nostro lavoro, un contributo in tal senso. Una consapevolezza, intanto, ci riempe di orgoglio ed è quella di aver onorato la memoria sto-

rica, quella memoria senza la quale, come rileva Indro Montanelli, un popolo non può definirsitale, «ma è una tribù di barbari accampata su un territorio».

Dedico questa mia fatica a mio figlio Vincenzo Federico, affinché possa in futuro, continuaredegnamente, riscoprendo nel proprio DNA il segno illustre della cultura e della passione collezio-nistica, che discende dai suoi familiari.

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LV

Un debito di gratitudine intendo attestare a tutti coloro che venendomi in aiuto a volte anche«ultra petita» mi hanno dato preziosi suggerimenti, incoraggiandomi a proseguire nella ricercasino al raggiungimento della meta.

Mi riferisco in particolare modo ad Antonio Martorana che con entusiasmo e nel contempo conrigore metodologico ha saputo focalizzare il fenomeno monetale nelle sue varie implicazioni (sto-riche, economiche e sopratutto artistiche), formulando una felicissima intuizione circa il connu-bio, «Archailoghia, Aesthetica» nella prospettiva del rinnovamento culturale in Sicilia.

Un sentito ringraziamento devo esprimere a Giuseppe Di Martino, per l’aiuto nella decifrazio-ne e nello studio della monetazione araba e a Giulio Bernardi per i preziosi consigli.

Non ultimo, necessario il ringraziamento a tutti coloro, Enti, Case d’aste, numismatici profes-sionisti, collezionisti, amatori che con il loro valido contributo mi hanno supportato in questo miolavoro.

Pierluigi Martorana Genuardi di Molinazzo