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SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI www.lanazione.it Empoli 150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO

La Nazione 150 anni Empoli

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SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DIwww.lanazione.it

Empoli150 ANNI di STORIA

ATTRAVERSO LE PAGINEDEL NOSTRO QUOTIDIANO

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sommario

4Così nacque in una sola notteil giornale di Bettino Ricasoli

7De Amicis: “Ma Roma,ha capito cos’è l’Italia Unita?”

9Così nasce la città industrialeI segreti del “miracolo Empoli”

11 Cronache del marzo 1870

13La città è messa a ferro e fuocodai fascisti arrivati da Firenze

14È in corso la marcia su RomaDa Empoli partono in tremila

17Bombardata dagli americani:le vittime sono 150, molti i feriti

19La Nazione a Fucecchionella casa dei Montanelli

20Dai velieri alle balenierequando Limite era un cantiere

23Un secolo e mezzodi cronache empolesi

25Gastone De Anna: Così nacquerole redazioni di provincia

26Mario Tuti: il geometra di Empoliche fu tra i capi del terrorismo nero

29Fu così che grazie ai gelatiil boom economico passò da Empoli

30Lorenzi, Pandolfini, Spalletti:qui il calcio ha una storia antica

Supplemento al numero odiernode LA NAZIONE a cura della SPE

Direttore responsabile:Giuseppe Mascambruno

Vicedirettori:Mauro Avellini Piero Gherardeschi

Direzione redazione e amministrazione:Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI)

Hanno collaborato:Alberto AndreottiBruno Berti Carlo Salvadori

Progetto grafico:Marco InnocentiLuca ParentiKidstudio Communications (FI)

Stampa:Grafica Editoriale Printing (BO)

Pubblicità:Società Pubblicità Editoriale spa DIREZIONE GENERALE:V.le Milanofiori Strada, 3Palazzo B10 - 20094 Assago (MI)

Succursale di Firenze: V.le Giovine Italia, 17 - tel. 055-2499203

I fascicoli sono sfogliabili on line su www.lanazione.it

EMPOLI150 anni di storia attraverso le pagine del nostro quotidiano.Non perdere in edicola il terzo fascicolo regionale che ripercorre, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative delle città.

In copertina: un giovanissimo Indro Montanelli con l’immancabile sigaretta tra le labbra e un gruppo di manifestanti.

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Gli studenti che avevano combattuto a Curtatone e Montanara, i professori, gli enti e gli amministratori, furono dagli inizi sostenitori del Ricasoli e del suo governo provvisorio

N essun altro giornale può vantarsi di essere nato con l’Italia e di averla accom-

pagnata giorno dopo giorno, fino ad oggi. E infatti, se anche una testata, la Gazzetta di Parma, sicuramente è più antica di quasi 100 anni rispetto al giornale fiorentino, è anche vero che per lunghi periodi ebbe un altro nome, in altri sospese le pubblicazioni, e in ogni caso non svolse il ruolo fon-damentale per l’Unità d’Italia che toccò al foglio di Bettino Ricasoli. Già, perché fu proprio lui, il “Sa-vonarola del Risorgimento” come lo definiva Spadolini, a volere che il nostro giornale fosse in edicola, redatto e composto in una sola notte, alla notizia dell’armistizio di Villafranca.

La storia è nota. L’11 luglio del 1859, nel pieno della seconda guerra di in-

dipendenza, quando le truppe franco piemontesi avevano vinto battaglie di rilevanza enorme, come quella di Solferino, e già si pensava come invadere e liberare il Veneto, all’improvviso fran-cesi ed austriaci firmarono un armistizio ed i Savoia non ebbero la forza per opporsi. Lo fecero perché la Francia cominciava a temere un attacco da parte della Prussia che stava ammassando le sue truppe ai confini. Lo fecero, perché un’Italia libera e indipen-dente poteva anche andar bene alla grandi potenze europee, ma non doveva essere eccessivamen-te forte. E dunque, ecco che al Piemonte veniva concessa quasi per intero la Lombardia, ma il Veneto il Trentino e la Dalmazia restavano agli austriaci, mentre in Toscana sarebbero tornati i Lorena, e in ogni caso si ipotiz-zava una federazione di stati del Centro Sud sotto la guida del Papa. Alla notizia, Cavour, dopo uno scontro durissimo con Vitto-rio Emanuele si dimise. E l’unico a sostenere la causa dell’Italia da unire, restò in quelle ore il capo del governo toscano costituitosi dopo la partenza del granduca, Bettino Ricasoli appunto.

La notizia dell’armistizio arrivò a Firenze nel pomeriggio del 13 luglio e i patrioti si riunirono in Palazzo Vecchio dove regnava la rabbia, il caos, la voglia di reagire ma anche un profondo senso di impotenza. E l’unico che dimostrò di avere le idee chiare, ben al di là della logica, delle possibilità offerte dalla diplomazia, si rivelò Ricasoli che non poteva a nessun costo accettare quanto stava accadendo.

E infatti, lui guidava un go-verno toscano provvisorio con l’unico scopo di arrivare

al plebiscito per l’annessione al Piemonte, e se fossero tornati i Lorena tutto sarebbe crollato. Sotto il profilo politico ma anche sotto il profilo personale. Così, dimostrandosi in quelle ore il vero artefice del Risorgimento, ancor più dello stesso Cavour che in qualche modo aveva gettato la spugna, Ricasoli spedì due ambasciatori a Torino e a Parigi per tentare di modificare le cose. Ma nello stesso tempo mandò a chiamare tre patrioti fiorentini, il Puccioni, il Fenzi ed il Cempini, che a suo tempo avevano propo-sto di stampare un quotidiano in appoggio alle posizioni del governo toscano, e disse loro: “È arrivato il momento, per domat-tina voglio il giornale.” E a niente valsero le timide proteste dei tre che, comprensibilmente, facevano notare come fossero già le nove di sera e come non sarebbe stato facile mettere insieme i testi e farli comporre in poche ore. Ma Ricasoli insisteva “O domattina o mai più.” E dette anche il nome alla testata “La Nazione”, che era tutto un programma, anzi, era il programma. Puccioni, Fenzi e Cempini presero una carrozza e si fecero portare in via Faenza alla tipografia di Gaspero Barbera, un patriota piemontese, qui comin-ciò un lavoro frenetico a redigere i testi ed a comporli. Come nelle migliori tradizioni del giornali-smo, redattori e tipografi lavora-vano gomito a gomito. Un articolo non era ancora concluso e già la prima parte passava ai com-

Nel tondo: Indro Montanelli cercò, (come lui stesso racconta nell’artico-lo di pagina 19) di entrare giovanissi-mo a La Nazione. Ma non “ebbe fortuna”.Il foglio di Ricasoli era comunque il giornale preferito dalla famiglia Montanelli di solide convinzioni liberali.

COSÌ NACQUE IN UNA SOLA NOTTEIL GIORNALE DI BETTINO RICASOLI

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Il quotidiano di Ricasoli uscì il

14 luglio con un formato ridotto e

senza l’indicazione dello stampatore. Fu solo con il 19 luglio del 1859 che venne distribuito (anno I° numero 1) il primo

numero ufficiale.

positori. Un articolo non era del tutto composto – all’epoca non estivano le linotype ed ogni paro-la era composta a mano – e già si facevano le bozze per le correzio-ni della prima parte. Alle cinque del mattino Ricasoli si presentò alla tipografia, lesse le bozze e dette il consenso. Alle dieci, tirate pare in tremila copie, due pagine in mezzo foglio, oggi diremmo formato tabloid, erano in vendita nel centro cittadino. Si trattava di un’edizione senza gerenza, senza il nome dello stampatore, senza il prezzo, senza pubblicità. Pratica-mente un numero zero.

E così si andò avanti fino al 19 luglio quando, finalmente, La Nazione uscì nel suo pri-

mo numero ufficiale, con formato a tutto foglio, le indicazioni di legge, i prezzi per l’abbonamento e per la pubblicità. Così, dunque, nacque il nostro giornale. Che conobbe i giorni fausti dell’Ita-lia Unita, e poi quelli pieni di problemi, non solo economici, in cui Firenze fu provvisoriamente capitale. Quindi la questione romana, la breccia di Porta Pia, e insomma tutte le fasi che con alterne vicende portarono alla nascita dello Stato italiano.

Ma fu proprio con Roma Capitale che La Nazio-ne dovette modificare

il proprio tipo di impegno. Che fare? Seguire il governo e il mondo politico fino a Roma, là dove si sarebbero svolte da allora in poi tutte le vicende, e prese le decisioni relative all’Italia? La domanda fu posta ed era più che legittima. Nessun altro quotidia-no aveva il diritto di continuare le proprie pubblicazioni nella sede del regno e del governo italiano, più di quello che l’Italia aveva contribuito a farla nascere. Ma fu compiuta una scelta, che di certo non fu di tipo economico: restare. Restare a Firenze, accompa-gnare la vita della città dove era nata, e dedicare sempre di più le proprie attenzioni anche alla vita quotidiana, a quella che oggi diremmo la cronaca di ogni gior-no. Insomma, da grande foglio risorgimentale carico di tensioni ideali, a giornale come oggi lo in-tendiamo. Con rubriche dedicate alla moda, allo sport, con grandi spazi dedicati alla vita musicale e teatrale. Con la disponibilità a

Nella foto: Il barone Bettino Ricasoli, che alla notizia dell’armistizio di Villafranca volle che fosse stampata, in una sola notte, La Nazione.

Nel tondo: lo spoglio dei voti del Plebiscito il 13 e 14 marzo 1860.

condurre grandi battaglie nel nome e per conto di Firenze, che già allora viveva con naturalezza la sua doppia natura, ancor oggi visibile: quella di una dimensio-ne provinciale aperta al mondo. Città universale e allo stesso tem-po città dove pochi personaggi, e fra loro in costante conflitto, dominavano la scena. Rese pos-sibile questa scelta di obiettivi un grande direttore, Celestino Bianchi. Che seppe conquistare il pubblico femminile, interessare anche la media e piccola borghe-sia mercantile, ma soprattutto richiamare intorno al foglio di Ricasoli le migliori firme italiane del momento. Che, del resto, già erano presenti su La Nazione, fin dai primissimi anni. E allora ecco il D’Azelio e il Tommaseo, ecco il Manzoni e il Settembrini, e poi il Collodi, il De Amicis, Alessandro Dumas, Capuana, il Carducci e in seguito anche il Pascoli, ed infiniti altri. Grandi firme che sarebbero continuate durante il fascismo e nell’Italia repubblica-na fino ad oggi. Da Malaparte a Bilenchi, a Pratolini, ad Alberto Moravia, a Saviane, a Luzi. Dopo aver ospitato Papini, Prezzolini, Soffici, e gran parte dei letterati delle Giubbe Rosse nel periodo che precede e che segue la gran-de Guerra.

Queste le scelte che permi-sero a La Nazione, pur do-vendo affrontare momenti

di crisi e di difficoltà, di battere ogni volta le testate concorren-ti. Se esisteva una difficoltà di vendita o addirittura di imma-gine, sempre riuscì a trovare gli uomini e le energie per risolle-varsi. Liberale infatti, fu sempre il quotidiano fiorentino, ma di un liberalismo illuminato che sa-peva aprirsi ogni volta ai temi di interesse sociale, e per farlo non esitava ad ospitare anche firme lontane dalle proprie posizioni. Così, quando si trattò di presen-tare ai fiorentini, e commentare, la nascita delle scuole serali, fu chiesto un articolo a un giovane e rivoluzionario poeta, il Carducci. E fu tra i primi giornali, La Nazio-ne di Firenze, a porre sul tappeto il dramma del lavoro minorile, e a pubblicare le relazioni di Sidney Sonnino sulla condizio-ne dei bambini, quelli del Nord Italia che a sette anni lavoravano anche 13 ore al giorno nell’indu-

stria della seta e quelli di Sicilia, costretti a starsene chini, senza luce né acqua, nelle solfatare di Sicilia. Ancora di più colpisce, per il giornale del Risorgimento, la moderazione con la quale fu seguita la questione romana e fu data notizia della breccia di Porta Pia. E infatti, mentre la retorica anticlericale si scatenava, creando con i suoi estremismi solo un effetto boomerang, La Nazione fu capace di analisi e di intuizioni che a distanza di 90 anni, con il Concilio Vaticano II, per-fino il mondo catto-lico avrebbe fatto proprie. Scriveva infatti il nostro giornale: “Il potere tem-porale ha trattenuto il cattolice-simo fermo sull’idea imperiale pagana.” Del resto non era il Ricasoli religiosissimo?

E dunque, è in omaggio ad una visione laica delle

differenze fra Stato e Chiesa, una visione totalmente deducibile dai vangeli che si combatté quella battaglia, che non significava affatto compiacersi di un assoluto anticlericalismo ideologico, o an-cor di più di una qualsiasi forma di ateismo conclamato. E ancora, quando si trattò di decidere se trasferirsi a Roma capitale, se-guendo le sorti del governo e del re, la spiegazione data ai lettori fu questa. “Noi non vogliamo che Roma attiri a sé tutta la forza intellettuale. Noi vogliamo che Napoli, Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Torino, serbino la loro in-fluenza legittima, portino il peso nella bilancia delle sorti politiche nazionali. Ogni regione ha elementi origi-nali da custodire e nello stesso tempo è sentinella dell’Unità inat-taccabile.” Una prosa intelligente, modernissima, attuale ancor oggi, 140 anni dopo.Un atteggiamento che La Nazione conservò anche in epoche ben diverse. Così, durante il fascismo, pur costretta come tutte le testate a pubblicare le veline del minculpop, non per questo La Nazione si allineò mai

totalmen-te al regime.

Tanto da opporsi, allorché il Regime voleva imporre come direttori uomini di asso-luta fede a Mussolini. E ospitare firme, come quella di Montale, il personaggio che per il suo antifa-scismo era pur stato “licenziato” dal Vieusseux. Uno stile, un modo di essere, che la premierà quando, pur con mille problemi tornerà alle pubblicazioni nel 1947.

E ancora, quando nel ’68 la realtà italiana dette segni di grande malessere e tutto

il nostro modo di essere società fu posto in forse, La Nazione non esitò ad assumere giovani della più varia estrazione politica ed ideologica, anche con provenien-ze ben diverse da quelle liberali, perché contribuissero ad aiutare la direzione a interpretare quanto stava accadendo. Erano i giorni del direttore Mattei ed ancor più del condirettore Marcello Taddei. La Nazione si poneva una volta di più il problema di come adeguar-si ai tempi. E se ciò le costò dei rischi, e dure minacce per alcuni dei suoi cronisti - quelli più espo-sti nei giorni del terrorismo - ciò non modificò la sua linea.

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Così Edmondo De Amicis un mese circa dopo la Breccia di

Porta Pia da lui stesso descrit-ta, raccontava di Roma, ormai pronta al suo ruolo di capitale

del Regno d’Italia.

Comincio con una dichiara-zione: chi viene in questi giorni per la prima volta

a Roma, con le idee cercate solo nello studio della storia o acquistate nella lettura di molti giornali, è costretto a guardarsi dattorno meravigliato e con-fuso, e quasi a dubitare che un disguido ferroviario lo abbia condotto in una città qualunque che Roma non sia. È vero che quando si entra in San Pietro, l’impressione che se ne prova è di tale sgomento, di tale umilia-zione, che si riconosce subito che solo Roma è capace di un miracolo simile: ma non di meno, io non vidi mai città che nelle mille ed una descrizione fosse più adulta, e più calunniata ad un tempo quali inaspettate e nuove meraviglie!... e quanti strani ed inattesi disinganni! La mente giovanile si forma ad esempio un immenso concetto del Campidoglio: io l’ho salito il Campidoglio: per rispetto alle grandi memorie storiche che racchiude taccio le impressio-ni… ed anco le sensazioni che ne provai. Fu una delusione… e

da La Nazione del 24 ottobre 1870

De Amicis: “Ma Roma,ha capito cos’è l’Italia Unita?”Un articolo pieno di perplessità alla vigilia del trasferimento del governo nella nuova capitale

grande. Il cervello di molti uomi-ni politici sognava e forse sogna tuttavia che a Roma si pensi e molto al Papa, al suo potere, alla sua influenza: in verità stando qui non solo si crede che il Papa sia partito, ma vi è da dubitare che la presenza del pontefice in Vaticano sia una leggenda antica, accettata, tanto per fare, dalla generazione presente. Che cosa fa Pio IX? Nessuno se ne occupa: le notizie che lo riguardano si ricevono da Firenze, ma quasi non si raccolgono. Ecco una prima meraviglia e non lieve. La vita politica della città si traduce in una sola parola: entusiasmo: cieco, veramente febbrile. Il solo aspetto continuo permanente di Roma è la dimostrazione. È una malattia: nel giorno mostra una fase cronica: nella sera tocca ai teatri il periodo flogistico. Ecco Roma. Ma debbo aggiungere che qua si sente molto, e si pensa poco. L’onorevole Sella che venne qua – come sapete – partì promettendo solennemente che il Re sarebbe venuto a Roma al più tardi fra 15 giorni, e che il trasferimento della capitale si sarebbe compiuto al presto. I ro-mani si compiacquero di ambe-due gli annunzi, specialmente (è giustizia il dirlo) del primo: ma non si occuparono né si occu-pano molto delle necessità che ambedue impongono. E queste

necessità sono molte e non è agevole provvedervi…

Purtroppo, venendo qui, ci si accorge come il Governo sia assolutamente fuori

di strada, non solo nelle idee, ma nei modi di attuarle per ciò che si riferisce al trasporto della capitale. Giudicando tale questione da Firenze, non si parlava che di difficoltà ma-teriale, del bisogno di locali, di necessità di ingrandimenti: tutte osservazioni di cui non si nega la giustizia, né la opportu-nità. Vero è che diversi ministri trovarono un sistema nuovo, per risolvere questa prima parte del problema: ogni consigliere della corona, meno uno o due, mandò qui i suoi ingegneri per studiare quale località si sarebbe presta-ta al collocamento del proprio dicastero: ma ogni ministro agì indipendentemente dai propri colleghi… Ma sono le difficoltà morali (per così dire) quelle di cui non si preoccupano a Firenze né

a Roma: e sono le più dure, le più lunghe, le più aspre per chi esamina la questione con occhio freddo ed imparziale… Occorre che dopo l’annessio-ne di Roma, facile a stabilirsi con un decreto, anco attivo, si determini la fusione dei romani negl’italiani. Qui non c’è il pen-siero o il sentimento che all’uo-po basti una imponente manife-stazione all’Argentina. Occorre che dopo l’estensione delle leggi italiane, facile ad ordinarsi con un altro decreto, si applichino non solo materialmente colla percezione delle imposte, ma con lo spirito nuovo che ani-mi tutte le istituzioni, tutte le consuetudini, ed accumuni la vita romana alla vita italiana. Questo è il più arduo problema che s’impone: il problema che non può risolversi dagl’inge-gneri, ma che richiede perfetta conoscenza di Roma in chi sta a Firenze, conoscenza che, o io m’inganno a partito, o non si ha costì che sbagliata, o esagerata o imperfetta.

Roma: un passaggio di carrozze a Ponte

e Castel Sant’Angelo (a destra).

In basso nel tondo: La vera immagine

dell’ingresso dei bersaglieri da Porta

Pia.La foto diffusa

ufficialmente riprodurrà in un

fotomontaggio la stessa scena con un

numero ben mag-giore di soldati.

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In origine fu la ricchezza garantita da un terreno par-ticolarmente fertile. Empoli,

infatti, e la sua pianura, rappre-sentavano già nel Medio Evo, una sorta di “granaio di Firen-ze», come già ebbe a definirle il Guicciardini. Ma oltre al grano vi si praticavano con successo colture specializzate, di pregio. E quindi olio, frutta, legumi e ortaggi. Senza parlare del car-ciofo di Empoli famoso in tutto il mondo, che oggi appartiene alla serie dei prodotti d.o.c., recentemente valorizzato anche dall’Unione Europea, anche se le carciofaie nella zona sono ormai pochissime. Per moltissimi anni e ancora nel dopoguerra, i contadini empolesi arrivavano ogni mattina a Firenze, con i loro ciuchi per portare al mercato i prodotti della terra.

Ovvio, con queste premes-se, che le prime industrie fossero quelle in qualche

modo collegate alla trasforma-zione dei prodotti agricoli. E quindi fabbriche di panni di lino, lana, canapa, concerie per quan-to riguarda il tessile, ma anche fornaci per la fabbricazione del

Così nasce la città industrialeI segreti del “miracolo Empoli”Uno dei maggiori poli industriali della Toscana era stato in origine il granaio e l’orto di FirenzeIl periodo delle vetrerie e quello dell’abbigliamento

vetro, per le maioliche e per i la-terizi. Si lavora già due secoli fa il rame, e si producevano cappelli di paglia e di pelo.

Nel 1830 in città venne fondata la prima manifat-tura italiana di fiammiferi,

la ben nota Rosselli, a Pontorme, mentre si sviluppava l’industria vetraia. L’arrivo di queste attività manifatturiere portò alla metà dell’Ottocento ad un notevole sviluppo urbanistico e demo-grafico della città, che si rivelò ancora più massiccio con la co-struzione di uno dei primi tratti ferroviari in Italia, la Ferrovia Leopolda, che proprio attraver-so Empoli collegava Firenze e Siena.

Fu anche costruito il nuovo ponte sull’Arno, realizzato tramite l’insabbiamento di

parte dell’alveo del fiume che lambiva le vecchie mura (Via Salvagnoli e Via Bisarnella). Pur-troppo l’urbanizzazione, in que-sto periodo, portò alla progres-siva distruzione delle mura cittadine. Scomparvero così le porte d’entrata:Porta Senese, Porta Fiorentina e Porta Bocca

Il carciofo, la verdura, il grano e

il vino tra i migliori della Toscana. Così Empoli arrivò alla

metà dell’Ottocento, quando si impose

la lavorazione del vetro.

d’Arno. I monumenti vengono abbattuti e il loro posto è preso da piazze alberate. Per fortuna è rimasta in piedi, a ricordare Empoli com’era, la Porta Pisana.

Nel settore vetrario, Empoli manterrà una posizione di alto livello fino all’ultima

guerra, quando il richiamo alle armi di molti giovani operai rese difficile da trovare la manodope-ra, inoltre erano diventati difficili gli approvvigionamenti delle materie prime e la spedizione dei prodotti finiti. Inoltre, i bom-bardamenti non risparmiano le vetrerie. E già col primo della serie, quello del 26 dicembre 1943, la Manifattura Vetraria fu completamente rasa al suolo. Nel 1947 le vetrerie empolesi, quasi tutte danneggiate durante la guerra, intendevano ripartire a pieno ritmo con la produzione di sempre. Ma ormai dovevano

fare i conti con una forte concorrenza, anche

straniera, e la crisi scatenò scontri

sociali e rese

difficili le relazioni industriali. L’avvento della plastica, poi, ri-durrà questo tipo di produzione ad una sorta di “nicchia”.

Eppure, Empoli industriale non piegò la testa. Nac-que una generazione di

giovani imprenditori, molti dei quali si dedicarono al tessile, e lavorarono pur fra mille difficol-tà fino a trasformare del tutto l’economia della zona che oggi è tra le più floride della Toscana. Empoli e i comuni che la circon-dano rappresentano oggi uno dei maggiori centri industriali della Toscana. Restano in buon numero le aziende di confezioni. Molto sviluppata è l’industria ali-mentare, in particolare quella dei gelati e della pasta, alla quale si aggiunge quella meccanica, infor-matica e del legno. Ci sono inol-tre fabbriche di prodotti chimici, concerie, fabbriche di laterizi, vetrerie, pelletterie e un’azienda che produce surrogati di caffè. Mentre continua l’agricoltura, in particolare con la produzione di cereali, ortaggi, frutta e miele.

Nel 1830 fu fondata in città la prima manifattura italia-na di fiammiferi: la Rosselli a Pontorme.Nell’ultimo dopoguerra si diffusero le aziende di confezioni. Oggi il comprensorio empolese è tra i più ricchi della regione.

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Il nuovo ginnasio diretto dal professor Danelli fa ottima prova, ed i professori che v’insegnano incontrano il favore della popolazione. Si crede che ora si pensi a dare un nome al nuovo Ginnasio. Noi desidereremmo che su questo proposito fosse

inteso il voto del Consiglio Municipale, perché per quanto il Ginnasio sia governativo, pure il Comune ne sostiene tutta la spesa: conseguentemente sembrerebbe giusto che in cosa di tale importanza non fosse posto da parte il Comune. E se un nome deve darsi che abbia una certa relazione col Paese. Nelle proposte relati-ve, noi vorremmo non fosse dimenticato il nome di quel grande statista che fu Vincen-zo Salvagnoli, gloria d’Italia, nativo di Empoli, e che ebbe tanta parte nel preparare la celebre rivoluzione nazionale.

Anche i padri Scolopi hanno, annesso al loro Collegio, aperto un Seminario che tornerà molto comodo per quelle famiglie del Paese che, potendo spendere, desi-derano per i loro figli, insieme alla istruzione, anche una educazione completa.

La nostra Società di Tiro Nazionale sotto l’attiva presiden-za dell’egregio signor Giuseppe Romagnoli, si prepara a prendere parte alla gran gara di Roma, dove siamo certi si distinguerà per i suoi addestrati tiratori e per il ricco dono che intende portarvi.

Il collegio che per ben cinque volte ha seguito e eletto a suo rappresentante in Parla-mento il generale Pozzolini è rimasto dolorosamente impressionato dalle voci, ormai troppo diffuse senza essere smentite, che quell’ufficiale generale possa esser colloca-

to in disponibilità.

Noi non possiamo sindacare le ragioni che han mosso la commissione superiore di avanzamento a proporre tale determinazione ed il Ministro che è il capo supremo ad accettarla: sappiamo però che il generale Pozzolini fu sempre stimato, è fra i

più giovani e robusti ufficiali generali: e gli amici di lui ricordano la serie non interrotta di missioni e di incarichi a lui affidati. Ricordano che fino al 1859 fu chiamato, il giorno successivo alla rivoluzione, a disimpegnare le funzioni di Segretario Generale al Ministe-ro della guerra in Toscana e inviato quindi dal Governo in Piemonte a stabilire più intimi rapporti col conte di Cavour che lo ebbe in grande stima: che andò in francia in missione molto confidenziale regolarizzando la posizione del Ministro granducale che non volle riconoscere il Governo provvisorio toscano: poi in Russia, quindi addetto militare a Vienna: e da ultimo fu prescelto a capo della missione in Albania.

Ovunque diè prova di alte qualità, di carattere e di non comune intelligenza. Co-mandante di Reggimento, di Brigata, di Divisione seppe farsi amare e stimare dai suoi sottoposti, ebbe elogi dai suoi Capi, ed incarichi e studi speciali. Con tutto ciò

ci si annunzia che venga messo da parte: è naturale quindi che la disposizione annunzia-ta, abbia qui recato meraviglia non lieve.

Il ginnasio? Dedichiamolo a Salvagnoli

Semiconvitto agli Scolopi

La Società di tiro Nazionale

In difesa del generale Pozzolini

Funziona bene la Banca Popolare

In breve

Cronache del marzo 1870

Domenica prossima 16 marzo corrente avrà luogo l’adunanza generale della nostra Banca Popolare Cooperativa. Si tratta dell’approvazione del bilancio, il quale anche quest’anno dà ot-timi risultati tanto da offrire un dividendo del 6 per cento. Debbono anche rinnovarsi le cariche sociali. Gli uscenti di ufficio sono tutti rieleggibili. Vaca però da molto tempo il posto di presi-dente e per questa nomina gli azionisti sarebbero unanimi nel riunire i loro voti sopra il nome del signor Giovanni Montepagani, persona che conosce bene la partita, che potrà certamente tornare molto vantaggiosa all’incremento della Banca, ed utile al piccolo commercio empolese, che ha il suo appoggio in questo istituto paesano.

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Una città agricola, una città sensibile agli ideali sociali-sti, che seguì con speranza

la rivoluzione russa. Questa era Empoli alla soglia degli anni Venti del Novecento. Sembrava, a molti giovani del Valdelsa e del Medio Valdarno, che il Partito Socialista non avesse la forza di oppor-si alle classi dominanti e più ancora al nascente fascismo. Per questo, sotto la guida di Abdon Maltagliati formarono la Guardia Rossa con lo scopo di difendere le organizzazioni proletarie. Nelle elezioni amministrative dell’ot-tobre 1920 i socialisti, sotto le nuove insegne rivoluzionarie, conquistarono tutti i Comuni del-la nostra zona con maggioranze schiaccianti. Il 20 febbraio 1921 il sindacalista empolese Spartaco Lavagnini sancì definitivamente il distacco dal Partito Socialista e la nascita del Partito Comunista a Empoli. A quel punto i giovani so-cialisti, la Guardia Rossa e molti sindacalisti, passarono in massa al nuovo partito.

Sembrò, questa scelta di cam-po, quasi una dichiarazione di “guerra” in un periodo

nel quale molte città venivano prese d’assalto dagli squadristi che incendiavano e distruggeva-no, picchiando tutti quelli che la pensavano diversamente e che si opponevano.

I fascisti toscani fino ad allora non avevano mai osato sco-prirsi nell’Empolese nel timo-

re di una forte reazione da parte della Guardia Rossa locale. Il 27 febbraio 1921 scattò a Firenze la repressione che era conseguenza di un ben preciso progetto. Furo-no assassinati alcuni dirigenti del movimento operaio fiorentino e fra questi l’empolese Spar-taco Lavagnini. Per protesta, a Empoli e in altre località toscane venne proclamato uno sciopero generale che sarebbe proseguito per diversi giorni. Si era ormai arrivati allo scontro sociale.

In questo clima, nel pomeriggio del 1 marzo 1921 si sparse la voce che gruppi di fascisti

stavano arrivando dal pisano e

sarebbero passati su dei camion da Fucecchio per dirigersi a Empoli. Erano in realtà gruppi di marinai di Livorno, ma forse qualcuno aveva avuto interesse a spargere la notizia in modo di-storto e provocatorio. Gli empole-si presero armi, forconi e bastoni e si prepararono alla difesa della città. E non appena i camion entrarono da Via Chiarugi, la gente si scagliò contro i camion uccidendo 8 marinai e ferendone altri. Gli altri marinai si salvarono perchè finalmente fu chiari-to l’equivoco. In seguito a questo episodio, il 2 marzo 1921 l’esercito mise Empoli in stato d’assedio, arrestan-do un migliaio di persone. Nel frattempo arrivarono i fascisti che misero Empoli a ferro e fuoco: bruciarono il Comune, le cooperative, le sedi di partito, le case del po-polo e la camera del lavoro. Nei giorni successivi la stessa sorte toccò alla “cintura ros-sa” di Empoli. Il 4 marzo 1921 a Fucecchio gli operai difesero con le armi la Casa del Popolo e il Comune. Poi caddero ad una

Nel 1920 i socialisti conquistarono tutti i comuni della zona

con maggioranze schiaccianti.

Il 20 febbraio 1921 il sindacalista

Spartaco Lavagnini fondò il Partito

Comunista Empolese.

Il 2 marzo 1921 l’esercito impose in città lo stato d’assedio: arrestate migliaia di persone.Nei giorni successivi Empoli, Fucecchio, Certaldo e tutti i comuni della zona conobbero la violenza delle Camicie Nere.

È il 2 marzo 1921

La città è messa a ferro e fuocodai fascisti arrivati da FirenzeL’omicidio di Spartaco Lavagnini, la Guardia Rossa e l’assalto contro i camion di marinaiEmpoli capitale Toscana dell’antifascismo

ad una le resistenze di Certaldo, Cerreto Guidi, Castelfiorentino, Montespertoli, Vinci e Castelnuo-vo d’Elsa.

Il 4 marzo 1921, ormai dila-gando la loro forza, i fascisti fiorentini vennero a fondare il

Fascio di Empoli al quale aderi-rono le più importanti famiglie di possidenti terrieri e industriali della zona, seguiti dai professio-nisti, dai commercianti e dagli studenti di tendenza nazionalista.

Ma la gran parte degli empolesi non diventò mai fascista, e nelle

elezioni comunali successive non vinse mai ad Empoli un candidato fascista. Questo sentimento antifascista si è protratto negli anni, tanto che la città viene spesso ancor oggi definita “ca-

pitale morale dell’anti-fascismo in Toscana”

ed è decorata con la medaglia d’oro dal

Consiglio Regio-nale.

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Empoli e i comuni della Val d’Elsa rappresentano una delle realtà dove lo scontro tra fascisti e antifascisti è più duro e violento, negli anni che precedono l’arrivo al potere di Mussolini. Ma nei giorni della Marcia su Roma, come dimo-stra la cronaca che segue, tutto fu in apparenza tranquillo. Le camicie nere avevano costi-tuito una loro base operativa nella sede del fascio e qui si presentavano (circa 5 mila) quanti avevano intenzione di continuare verso Roma (oltre la metà) o piuttosto fermarsi in città per evitare “colpi di testa” da parte degli avversari politici. In breve tempo la città sembra sotto il loro controllo. Del resto, quanto accadeva nelle varie province vicine, non lasciava spazio per azioni di qualsiasi tipo. Da Firenze erano partiti su Roma migliaia e migliaia di fascisti. Lo stesso era accaduto da Siena, da Lucca, da Pisa e Livorno.Tutto questo permetteva a La Na-zione di titolare che “I toscani sono in testa”. A rendere inutile ogni speran-za di reazione, fu inoltre l’at-teggiamento del Re. Il Governo aveva infatti proclamato lo Sta-

to d’assedio che doveva entrare in vigore a mezzogiorno del

29 ottobre e i ministri ave-vano deciso di “sedere in

permanenza a Palazzo Venezia”. Tutto sem-brava volgere verso uno scontro militare con i fascisti. Ma il re si era rifiutato di firmare l’atto. E dun-que, veniva lasciata via libera alle cami-

cie nere fascisti che nel frattempo avevano

invaso Roma. Quella che segue è la corrispondenza

inviata da Empoli la notte del 28 ottobre 1922.

Empoli 28.

Nelle ultime ore di questa notte si sono concentrati ad Empoli numerosi fasci-

sti provenienti dai paesi circon-vicini e dai dintorni di Firenze. Essi sono giunti con numerosi camions. Si calcola che abbiano sostato in Empoli più di 5000 fascisti.

Alle 2,30 essi si sono diretti silenziosamente alla sta-zione ferroviaria. Sono

stati formati dei treni composti di numerosi vagoni. Sul primo hanno preso posto circa 1500 fascisti, e nell’altro circa 1400. Il primo treno è partito alle 2,45 ed il secondo alle 3,10. Essi erano in completo assetto di guerra. Figu-rava pure una compagnia di sani-tà con materiale sanitario. I treni, diretti per la linea di Siena, erano guidati da personale fascista.

Stanotte i fascisti hanno occu-pato l’ufficio telefonico, ma il servizio continua a funzio-

nare normalmente a mezzo delle signorine sotto la vigilanza dei fascisti. L’ufficio postale è pianto-nato da una pattuglia dei carabi-nieri. Seguitano ora a giungere altri fascisti, i quali si recano alla sede del fascio in attesa di ordini.

I fascisti arrivano dai paesi dei dintorni e molti continuano in treno verso la Capitale Occupato l’ufficio telefonico. “ I toscani sono in testa”

Nel tondo in alto: i fascisti sotto il

Quirinale in attesa che Mussolini si

affacci al balcone.Per alcune ore il 29 ottobre si

temette l’entrata in vigore dello Stato

d’Assedio. Ma il Re si rifiutò di firmare il

provvedimento.

Nel frattempo, a dimostra-re il caos che regnava a Roma e le divergenze fra

il Governo ed il re, le agenzie di stampa battevano i seguenti comunicati a breve distanza l’uno dall’altro. Il Consiglio dei ministri ha deciso la proclama-zione dello stato d’assedio in tutte le provincie del Regno a cominciare dal mezzogiorno di oggi, 28 ottobre.

E ancora. Il Consiglio dei Ministri ha deliberato il se-guente proclama al paese:

manifestazioni sediziose avven-gono in alcune provincie d’Italia, coordinate al fine di ostacola-re il normale funzionamento dei poteri dello Stato e tali da gettare il Paese nel più grave turbamento. Il Governo, fino a quando era possibile ha tentato tutte le vie della conciliazione, nella speranza di ricondurre la concordia negli animi e di assi-

curare la tranquilla soluzione della crisi. Di fronte ai tentativi insurrezionali esso, dimissiona-rio, ha il dovere di mantenere con tutti i mezzi ed a qualunque costo l’ordine pubblico, e questo dovere compierà per intero a salvaguardia dei cittadini e delle libere istituzioni costituzionali.

Intanto i cittadini conservino la calma e buona fiducia nelle misure di sicurezza che sono

state adottate.

E infine. L’Agenzia Stefani è autorizzata ad annunzia-re che il provvedimento

della proclamazione dello Stato d’assedio non ha più corso... Ci risulta da fonte ineccepibile che la ragione del provvedimento della sospensione dello stato d’assedio è derivata da un netto rifiuto di Sua Maestà a firmare il decreto.

da La Nazione del 29–30 ottobre 1922

È in corso la Marcia su RomaDa Empoli partono in tremila

Due treni di Camicie Nere partirono da Empoli, durante la notte, alla volta di Roma. Trasportavano circa tremila fascisti in completo assetto di guerra.

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È una domenica, è il 26 dicembre del 1943 giorno di Santo Stefano, quando

suonano le sirene degli allarmi verso le 13. La gente pensa, spera, che i bombardieri alleati che intravede all’orizzonte si stiano dirigendo come altre volte verso altri obiettivi, perché mai prima di allora Empoli è stata bombardata, né c’è stato sentore che ciò possa avvenire. Gli aerei che avanzano nel cielo sono 36 velivoli americani B-26 Marauder, bimotori da bom-bardamento partiti dalla base di Decimomannu in Sardegna. Ognuno ha un carico di 1.360 chili di bombe. Il rumore dei loro motori è assordante, chi può corre verso i rifugi. Quando i bimotori arrivano sopra la città appare chiaro, dall’altezza del

volo e dalle manovre dei piloti qual è realmente l’obiettivo. Vengono sganciate 210 bombe delle 222 caricate sugli aerei.

La zona prescelta era quella della stazione ferroviaria. Qui cadranno 40 bom-

be. Le altre 170 raggiungono soprattutto il quartiere delle Cascine. Alla fine, quando final-mente i bombardieri si allonta-nano, fra le macerie, le urla dei feriti, con la città invasa dalla polvere bianca dei detriti, si può realmente capire cosa è succes-so. Le zone colpite sono, oltre la Stazione Ferroviaria e il parco di smistamento treni, i quartieri delle Cascine, del Puntone, di Ponzano, di Pontorme e di Prati-gnone. Fu questa la prima volta in cui Empoli fu bombardata,

Empoli, 26 dicembre 1943

Bombardata dagli americani:le vittime sono 150, molti i feritiObiettivo del raid è la stazione ferroviaria. Il vento di tramontana ha spinto le bombeverso la campagna. Si scava con le mani fra le macerie

ma i raid degli alleati continuaro-no fino al 28 luglio 1944

Ma dopo il 26 dicembre la città era stata quasi abbandonata, la gran-

de parte degli empolesi erano sfollati nelle campagne, e quindi i danni alle persone furono contenuti. Ma il dicembre fu una strage. Le vittime ufficiali furono 123 civili, 260 feriti di cui 54 tanto gravi che alcuni morirono nei giorni seguenti. Ci furono poi alcuni dispersi. Per tutto questo si calcola che le vittime finali del bombardamento siano state 150.

Perché Empoli non si aspet-tava il bombardamento? La gente era convinta che

prima della loro città fossero obiettivi possibili Firenze, Pisa,

la stessa Pistoia. Proprio per questo, quando il suono delle sirene si unì a quello dei motori dei bombardieri quasi nessu-no trovò il tempo di riflettere. Alcuni, addirittura, invece che scappare guardavano il cielo, curiosi e convinti che gli aerei alleati sarebbero andati oltre.

Gli obiettivi da raggiunge-re erano la stazione

ferroviaria e la linea ferroviaria Firenze-

Pisa. Ma quasi ogni zona fu

raggiunta, le case comin-ciarono a tre-mare per lo spostamento d’aria, molte crollarono.

L’aria era irre-spirabile.

Il bombar-damento si protrasse per

circa 10 minuti, un’eternità per chi da sotto non sa quando sarà finita. Per fortuna, almeno il Centro storico non era stato raggiunto in modo irreparabile. E questo perché quel giorno soffiava un forte vento di tra-montana che deviò le bombe, o almeno una parte di esse nella campagna.

Le zone più densamente popolate raggiunte dalle bombe furono quelle tra

Via Verdi e Via Giovanni da Empoli. Per ore, i volontari ed i vigili del fuoco scavarono con le pale, o a mani nude, nella spe-ranza di salvare i sepolti vivi, quanti erano rimasti intrappola-ti fra le macerie. E alcuni di essi, furono riportati alla luce anche dopo 24 ore. Intanto, qua e là, le fiamme divoravano le mura, mentre il pianto dei parenti del-le vittime si allargava di minuto in minuto a tutta la città.

Nessuno a Empoli si aspettava che

i bombardieri americani

avrebbero colpito la città. Ma l’illusione

finì miseramente il giorno di Santo Stefano del 1943.

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Indro Montanelli scrisse un lungo articolo per il centena-rio de La Nazione nel 1959. In esso ricordava come già i suoi nonni fossero affezionati al quotidiano voluto da Ricasoli. Ne riproponiamo oggi alcuni stralci.

Il mio più lontano ricordo della Nazione è la testata iscritta su un portacenere di

maiolica su cui mio nonno non ammetteva che si posasse altro sigaro che il suo... La Nazione non era il solo giornale che cir-colasse per casa. Uomo d’affari mio nonno era anche abbonato al Secolo e al Sole per meglio seguire l’andamento della borsa di Milano. Ma li consultava per ragioni tecniche e basta. Al più, essendo grande amatore delle opere liriche, e specialmente di Puccini, suo amico di caccia, vi cercava il resoconto di qual-che “prima” alla Scala. Ma non fidandosi troppo del gusto dei

milanesi e trovandolo troppo facile, credeva sì e no a quel che leggeva…

La Nazione arrivava in villa la mattina alle nove portatavi in bicicletta dal

postino Armando che fino a settantacinque anni continuò a fare questo mestiere, sempre di pedale, rifiutandosi pervicace-mente di applicare un motorino. E la sua prima tappa non era lo studio di mio nonno, che se ne riservava la lettura per dopo colazione, ma il salottino pri-vato di mia nonna, che sebbene alzata da più di un’ora, dichia-rava ufficialmente inaugurata la giornata solo dopo aver scorso gli annunzi mortuari…

Ai miei occhi di bambino, tuttora impegnato con le aste, le notizie della

Nazione giungevano a rate. La precedenza l’aveva il morto se, fra quelli elencati, ce n’era uno

di conoscenza. In questo caso, però, prima di procedere nella lettura mia nonna faceva il giro della casa per avvertire tutti e prendere le deliberazioni del caso. Bastava un telegramma, oppure ci voleva una lettera, addirittura una corona di fiori e la partecipazione ai funerali?...

Se niente di tutto questo avveniva, la lettura di mia nonna si concentrava

sull’affaire del momento di cui aveva imparato a misurare l’importanza dalle reticenze con cui lei ne riferiva… Solo dopo l’ora del tè, che mio nonno si ostinava a chiamare “beverone”, forse un po’ vergognoso di es-sersi lasciato convertire da sua moglie a quell’esotica bevanda, La Nazione entrava in mio pos-sesso. Non me lo contestavano perché nessuno sospettava che avessi imparato a leggere quel giornale prima di aver imparato a decifrare l’abbecedario.

Eppure, era proprio così, io seguivo le letture ad alta voce di mia nonna

con sì tesa attenzione, con sì spasmodico interesse, che ogni parola mi restava impressa nella memoria spesso per giorni e settimane. Sicchè di ogni notizia sapevo non soltanto in che pagina, ma in che colonna e a quale altezza stava scritta. Era il momento della mia giornata quando, con La Nazione sotto il braccio, sgattaiolavo da Gallo per leggergliela. Gallo era un vecchio servitore che, fulminato quattro anni prima dalla parali-si, era rimasto naturalmente in casa, e ora vi aspettava quieta-mente la morte…

Da parecchio tempo ormai Gallo s’era portato nella tomba la convinzione

che da me dovesse venir fuori qualcosa, quando La Nazione deluse le mie nascenti ambizio-ni giornalistiche. A Fucecchio essa aveva un

corrispondente locale che si chiamava Ottorino Freschi... se-condo il quale il mondo non era che un’appendice dell’Europa, l’Europa un’appendice dell’Ita-lia, l’Italia un’appendice della Toscana e la Toscana un’appen-dice di Fucecchio la cui cronaca quindi avrebbe dovuto, secondo lui, occupare ogni giorno la prima pagina del giornale… Che Empoli avesse quasi ogni giorno più di una colonna e Fucecchio solo poche righe, gli pareva un sopruso poco meno che mo-struoso…

Ottorino mi aveva promes-so un biglietto di pre-sentazione al direttore

Aldo Borelli, che poi diventò mio direttore davvero, ma al Corriere… Con la sua lettera d’introduzione un venerdì, giorno di mercato, mi presentai in via Ricasoli. Borelli non c’era, ma fui ricevuto da Siro Pennini che allora fungeva – credo – da capocronista. Egli lesse con attenzione il mio malloppo. Poi mi guardò e mi chiese: “Ma perché questa roba invece che alla Nazione non la porta ai carabinieri?” “Ai carabinieri?... Per fare arre-stare chi?” “Lei, l’autore. Perché qui dentro ci sono almeno venticinque querele per diffamazione...”

A questo primo tentativo ne seguirono altri non meno sfortunati…

Quando il mio primo editoriale apparve sul grande quotidia-no milanese lo mandai a mio nonno che non ne accusò mai ricevuta. Gli mandai il secondo, poi il terzo: identica sorte… Gloria: ci mettiamo alla sua ricerca sognando di vedercela riconoscere dai nostri compagni d’infanzia, e invece a farlo sono quelli della vecchiaia, che non ci interessano più.

Indro Montanelli

La Nazione a Fucecchionella casa dei Montanelli Il giornale scandiva i tempi della vita quotidiana“Solo chi scrive su queste colonne è un vero giornalista”

Nella foto: Indro Montanelli. Così lo scrittore narrava: “Imparai a leggere La Nazione prima di aver imparato a decifrare l’abbecedario”.

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Empoli e il mare, cosa hanno in comune due realtà geograficamente

e culturalmente così distanti? Eppure, alle porte della nostra città, a Limite sull’Arno, nac-que e si sviluppò una scuola di maestri d’ascia fra le più famose del mondo. Era successo che Pisa, quando nei primi anni del Seicento decise di arretrare i suoi cantieri navali in modo da renderli più sicuri, arrivò fino da queste parti. All’epoca Limite aveva sì e no duecento famiglie, la cui vita fu in qualche modo sconvolta da quegli uomini, bru-ciati dal salmastro, che da mat-tina a sera battevano sulle assi di legno per costruire imbarca-zioni. Picchiavano sui legni, per questo li soprannominarono i Picchiotti, che poi divenne il loro cognome, importante, quello di una famiglia che ancor oggi costruisce prestigiosi yacht. I maestri d’ascia insegnarono ai

Dai velieri alle balenierequando Limite era un cantiereGenerazioni di maestri d’ascia nacquero in riva d’Arno dalle nostre partiQui erano costruiti anche i Mas. Il varo e il trasporto fino al mare. La vita grama degli alzaioli

contadini della zona come si fa a tagliare un legno, con massima precisione, senza amputarsi un dito, a scegliere l’albero giusto a San Rossore o perché no alle Cascine di Firenze, a trasportare i tronchi lungo il corso dell’Ar-no fino a portarli all’ingresso del cantiere. Che era sull’Arno stesso, in uno specchio d’acqua di poche centinaia di metri ma calmo e profondo. Costruivano barche di ogni tipo, ed in parti-colare il “becolino”, che prese il nome dal suo costruttore, Do-menico Picchiotti detto “Beco”. I maestri d’ascia, fra i tanti segreti del mestiere avevano quello di tenere il legno sommerso, così da fargli perdere il “tenerume”, così che ne restasse solo la parte oleosa e quindi impermeabile. Altro segreto, per piegare le assi, era quello di “bollirle” per ore in una vasca. In questi cantieri nacquero barche leggendarie come i navicelli, che traspor-

permetteva di passare sotto le arcate senza sfiorare i piloni. Se tutto andava bene, rematori e maestri d’ascia si fermavano a ringraziare la Madonna in quella chiesetta fuori Pisa che, non a caso, si chiama “Madonna dell’acqua.”

Succedevano cose strane, ancora un secolo fa. Una volta Nicodemo Picchiotti

riuscì a portare il suo veliero a Pisa. Era stanco, distrutto, poteva sembrare un poveruomo. Aveva perso il cappello durante la navigazione, così entrò in un negozio pisano in riva d’Arno e scelse un cappello nuovo. “Buon uomo –gli disse la commessa– quel cappello non fa per voi, co-sta ben 5 lire”. Allora il Picchiotti prese il cappello corse al para-petto dell’Arno, e gettò il cappello nel fiume. Poi tornò nel negozio e ne prese un altro uguale.

Nel tondo in alto: i Picchiotti al lavoro. Il soprannome dato

dagli empolesi ai costruttori di barche divenne poi un mar-

chio e il prestigioso cognome di una fa-

miglia di costruttori navali.

Nel tondo in basso: un tipico navicello

dell’Ottocento.

tavano fino a 50 tonnellate di sabbia o addirittura i blocchi di marmo di Carrara che risalivano il fiume. Ma a Limite nacquero anche golette e velieri che attra-verseranno l’Atlantico, baleniere per i mari del Nord, barche che superavano anche i trenta metri. Solo nel 1857 ne furono varate undici. Un primato che ancor oggi sarebbe difficile superare.

Il momento più emozionante e complesso era quello del varo, visto che la pendenza

del cantiere superava il sedici per cento. Se la barca scendeva di poppa si formava una grande onda che arrestava la scesa e lasciava l’imbarcazione in balia della corrente. Per questo occorreva lavorare di remi e di ancore, con coraggio e intelli-genza, per non buttare a fondo il lavoro di mesi.

Già, erano affascinanti i cantieri di Limite, ma come fare per raggiungere

il mare aperto? Se L’Arno aveva troppa acqua le imbarcazioni non passavano sotto le arcate dei ponti, sedici, che divide-vano Limite fino dalla foce del fiume. Se invece di acqua ce n’era poca, le navi rischiavano di arenarsi. Per questo, lungo tutto il corso erano dei segnali che indicavano il livello del fiume e la sua navigabilità. Quando l’Arno li raggiungeva, quello era il momento di partire. Di salpare anzi. Sulle rive anda-vano davanti alcuni uomini a segnalare gli ostacoli, mentre gli scafi, zavorrati al massimo, venivano trainati da navicelli a 12 o perfino 16 remi. Si formava dunque un convoglio con due scafi. Il “rimorchiatore” a remi e dietro il veliero, ambedue mossi dalla corrente dell’Arno. E in prossimità dei ponti, i remaioli prendevano un ritmo ossessivo, così che il veliero assumeva una velocità superiore a quella della corrente, e diventava così gover-nabile con il suo timone. Questo

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Solo velieri, solo baleniere e navicelli? No, a Limite furono costruite anche

prestigiose imbarcazioni a motore. Qui nascevano Mas che furono utilizzati nella prima guerra mondiale, ma anche le lance che avrebbero trainati gli idrovolanti a cominciare da quelli usati da Italo Balbo nella ben nota trasvolata atlantica. E poi l’imbarcazione con la quale Giacomo Puccini trascorreva ore liete sul lago Massaciuccoli e so-prattutto il motoscafo Arno, che riuscì a battere infiniti record di velocità.

Poi i cantieri si trasferirono a Viareggio, lo specchio d’acqua di Limite si riempì

di fango, eppure si continuarono a costruire scafi, sulla terrafer-ma. E poi, con camion li traspor-tano altrove, e spesso erano barche per canottieri.

Nelle foto grandi: il becolino (a sinistra) e il complicato trasporto delle imbarcazioni di Limite verso il mare.La navigazione sul fiume era possibile solo quando l’Arno raggiungeva un’altezza preordinata e indicata da decine di pali.

Già, perché a Limite, assurdo paese marina-ro cresciuto a metà del

corso dell’Arno, accanto alle navi nacque una scuola natu-rale di vogatori, che negli anni hanno avuto la forza di sfidare i gondolieri veneziani e perfino i marinai portoghesi e i canottieri di Oxford. Ma la presenza dei cantieri a Limite, rese tutta la zona, e dunque anche Empoli, uno dei porti fluviali più rile-vanti nel corso dell’Arno. Anzi lo pose al centro di quella vasta rete di commerci fluviali che, ancora nei primi decenni del Novecento, rappresentava una autentica ricchezza per la zona. Così, da queste parti arrivavano le merci da tutta la Toscana, quella dell’entroterra e qui si imbarcavano per navigare fino a Pisa e quindi al mare. A rende-re possibile la navigazione sul fiume erano gli “alzaioli”, che

partendo da Limite raggiunge-vano Pisa o Livorno dopo un viaggio di 14 ore.

Qualche volta si arenavano e allora dovevano interve-nire con lunghe pertiche

per riprendere la corrente e farsi trascinare a valle. Era tutto un gioco di equilibri che richie-deva una profonda conoscen-za dell’Arno. Ma il peggio era tornare, risalire la corrente, un lavoro massacrante fino alla morte. L’alzaiolo, spesso aiutato dai suoi familiari, ripercorreva a piedi il tragitto, camminando sul greto da dove con una lunga fune trascinava in avanti l’im-barcazione. La barra del timone era legata in modo da tenere la barca lontana dalla riva. E se qualche padre mosso da com-passione concedeva ai propri figli di stare sulla barca mentre lui trainava, il rischio era grosso.

Accadde molte volte che la bar-ra, improvvisamente slegatasi perché il timone aveva battuto contro un ostacolo sul fondo, con un colpo secco e mortale sbattesse i bambini nel fiume e li affogasse.

Le cronache di allora, le cronache de La Nazione, lo dimostrano. Durò quel

massacrante esercizio per tutto l’Ottocento, ma anche per i primi decenni del secolo seguente. Un po’alla volta, però, la Ferrovia Firenze-Livorno costruita dopo l‘Italia unita assorbì i traffici mercantili e l’Arno perse la sua dimensione commerciale. Altre, ben più veloci, erano infatti diventate le strade per collegare Firenze ed Empoli al mare.

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Fin dalla nascita La Nazione seguì le cronache della nostra città Quando la redazione era al Bar Excelsior. Aldo Melani e la sua immancabile sigaretta

La redazione

Un secolo e mezzodi cronache empolesi

di Bruno Berti

La Nazione ha accompagnato Empoli e i comuni vicini dalla sua nascita, 150 anni fa,

raccontando cosa accadeva sul ter-ritorio e fornendo un’interpreta-zione dei fatti. Quando il giornale fu fondato l’Italia unitaria si stava consolidando e l’Empolese Valdel-sa era una zona in cui prevalevano le attività agricole, anche se l’indu-stria era già presente e si sarebbe presto fatta spazio. Il quotidiano seguiva ciò che accadeva, occupan-dosi di tutte le pieghe delle realtà cittadine. E così nel 1860 troviamo la notizia della proibizione del Volo del Ciuco (manifestazione riesumata solo recentemente) che, a parte la brutta fine dell’animale in questione che si sfracellava contro i muri di piazza Farinata degli Uberti, richiamava contrasti di secoli precedenti tra comuni, nel caso Empoli-San Miniato, che in tempi di unificazione d’Italia non erano molto ben visti.

Il rapporto con il territorio è stato garantito per i primi de-cenni di vita del giornale, come

allora avveniva, tramite corrispon-denze che cercavano di rendere al meglio quel che succedeva, dai

temi sociali ed economici a quelli politici e culturali. Empoli e i comuni vicini avevano una buona rappresentazione anche in virtù della manciata di chilometri che li separavano dalla sede del giornale. Poi, grazie all’aumento del numero di coloro che erano in grado di leggere, la copertura informativa fu ampliata. E così, verso la fine degli anni ’20 del secolo scorso, a fare da corri-spondente c’era Umberto Bini, un impiegato del Comune che si dedicava a coprire gli avvenimenti della città e dei comuni vicini. Bini fu impegnato con La Nazione fino alla fine degli anni ’30.

Dopo di lui, a occuparsi delle notizie dall’Empolese ci fu Giuseppe Arrighi, detto

Beppone, che rimase al timone fino al termine della seconda guerra mondiale. In quegli anni sul giornale c’erano anche firme di empolesi prestigiosi come Tomaso Fracassini e Vittorio Fabiani. Dopo la guerra a lavorare sulle notizie di Empoli e della zona per La Nazione, che allora aveva una pagina di cronaca, arrivò il professor Ugo Campori, poi presidente dell’Empoli calcio e per lunghi anni preside del liceo

classico cittadino. Il professore lasciò la corrispondenza de La Nazione nel 1951, quando gli su-bentrò Giovanni Lazzeri, studente di legge e segretario empolese della Cisl. Nel 1953 fu sostituito da Roberto Rossi.

In quegli anni il giornale non aveva una redazione: chi lavorava al giornale aveva

eletto a punto di riferimento un bar del centro, l’Excelsior di via Giuseppe del Papa, giusto di fronte alla sede del Comune. Nel 1954 a svolgere le mansioni di corrispondente arrivò Giuliano Lastraioli, studente di legge, che aprì la prima redazione del gior-nale, in via del Giglio nel palazzo della Banca Toscana, davanti al bar Italia, per tanti anni una vera e propria istituzione cittadina. Lastraioli, avvocato e storico di valore, ricorda ancora la lettera, custodita gelosamente nel suo archivio con la quale il giornale lo autorizzava «a ‘fermare’ l’ufficio. Il capo delle province Gastone De Anna mi dava anche la possibilità,

Nel tondo: Il capopagina di oggi Alberto Andreotti (a sinistra) con Sara Bessi, Sandro Fornaciari e Bruno Berti.

se necessario, di farmi anticipare i soldi dall’edicolante Maestrelli di via del Papa (che allora era anche il distributore del giornale), più noto come Duilio».

Nel 1955 Lastraioli lasciò l’incarico e al suo posto arrivò il professor Aldo

Melani, docente di mate-matica, il giornalista più

longevo nell’incarico di corrispondente, visto che rimase alla scri-vania di via del Giglio fino a metà degli anni ’80. Melani, cronista attento, era famo-so per la sigaretta, rigorosamente una Nazionale, che gli pen-

zolava perennemente dal labbro. Fu lui che si

trovò alla prese con il re-soconto delle lotte sindacali

delle lavoranti a domicilio delle confezioni empolesi, con la tragica alluvione del ’66 e con l’eccidio compiuto dal terrorista nero Mario Tuti nel 1975.

Aldo Melani, con il poten-ziamento della cronaca e dopo tanti anni di impegno,

fu sostituito da Riccardo Fonta-nini che rimase alla testa della redazione per un paio di anni. Il giornale arrivò a tre pagine di cronaca, con il formato grande, quello a nove colonne. Fontanini fu sostituito da Riccardo Rossi Ferrini, noto anche per gli articoli sulla Formula 1 di automobilismo.

Intanto la redazione si era trasferita negli ampi spazi della sede attuale, quella di piazza

Don Minzoni 8. All’inizio degli anni ’90 Ferrini fu sostituito da Antonio Bassi, già suo vice, alla guida della redazione fino alla fine del 2005. Poi è stata la volta di Stefano Vetusti che è stato alla testa della redazione empolese fino a metà del 2007. A giugno di quell’anno al suo posto è arrivato Alberto Andreotti.

Nella foto grande: Antonio Bassi tiene

il braccio sulle spalle di Paolo

Chrichigno (in piedi in seconda sulla

destra).Li circondano amici

e collaboratori della redazione.

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Negli anni Quaranta la redazione delle province era formata da quattro

redattori sotto la guida di Giu-seppe Cartoni il cui figlio, Mario, sarebbe poi diventato un noto cronista giudiziario. Fra questi era Nicola Della San-ta, almeno finché non fu richia-mato sotto le armi. Fu allora che entrò in scena un personaggio destinato a organizzare le reda-zioni provinciali così come sono ancor oggi, sia pure con ben altra consistenza di pagine e di giornalisti. Si trattava di Gastone De Anna, figura mitica del gior-nale, al quale si deve – assieme a Giordano Goggioli, ad Alberto Marcolin, e ai grandi direttori Russo e Mattei – il rilancio del dopoguerra che permise a La Nazione di raggiungere negli anni Cinquanta le centomila copie.

De Anna ha oggi novant’an-ni, non uno di meno. Ma anche una memoria di

ferro e una lucidità invidiabile. È capace, perfino, di divertirsi a raccontare quegli anni. Ha conservato l’ironia, la capacità di narrare e fare sintesi, che ne fece un grande giornalista. Com’era il clima in redazione? “Scansonato, ironico, divertente. Ma lavoravamo tutta la notte senza pause. L’editore era Favi, l’amministratore Gazzo, era tutto un gioco di parole.” Come organizzò il lavoro? “Dove era possibile contattavo i vecchi corrispondenti e riapri-vo i vecchi locali. Altrimenti cercavo edifici e uomini nuovi. Nel ’48, quando Favi morì, tutte le redazioni dei capoluoghi di provincia erano riorganizzate.” Qualche nome di allora, qual-che collega? “Passaponti a Pisa, Chiantini a Siena, Coppini ad Arezzo e poi Dragoni e Piero Magi. A Spezia Reggio che poi passò il testimo-

Le edizioni localiDe Anna: Così nacquerole redazioni di provinciaIl “fuori sacco” e i megafoni che annunciavano il ritorno in edicola del nostro giornale I “pionieri” di una grande avventura nel racconto di colui che seppe trovarli e organizzarli

ne al figlio, il conte Vitelleschi e poi Bassi a Perugia. E ancora Ciullini a Pistoia, Del Beccaro a Lucca, Valleroni e Pighini a Massa, Rossi a Grosseto. Mauro Mancini diresse la prima reda-zione di Prato. Poi divenne inviato speciale as-sieme a Piero Magi, e più tardi a Piero Paoli e Raffaele Giberti che ricordo con immenso affetto, veniva da Spezia. Intanto cresce-va anche la redazione province a Firenze. Era tornato Della Santa, poi arrivarono Gianfranco Cicci, Nereo Liverani, Romolo De Martino, Enrico Mazzuoli, Aldo Satta, Giancarlo Domeni-chini, Tiberio Ottini, Giuseppe Mannelli, Luigi Scortegagna, Rossi, l’indimenticabile Piero Chirichigno, Franco Ignesti e una splendida segretaria, la signorina Giorni, che divenne un po’ l’anima di quell’ufficio. Si andò avanti così sino alla fine degli anni Sessanta quando arrivarono giovani come Enrico Maria Pini, Riccardo Berti e Maurizio Naldini. Spero di non aver dimenticato nessuno.”

Come lavoravate? “Al contrario di oggi. Tutto il materiale viaggiava col fuori sacco, e in base alle ore in cui arrivava era controllato e tito-lato in redazione. Fu solo con il computer che le redazioni pre-sero a organizzare le loro pagine direttamente. L’impaginazione poi partiva dalle nove di sera con la prima edizione che veniva chiamata “Nazionale”. Poi si pas-sava alle province più lontane come Spezia, Perugia, Grosseto, e un po’ alla volta si arrivava a impaginare Prato. Quindi, alle tre di notte veniva preparata l’ultima edizione, quella che i fiorentini trovavano in edicola al mattino. Intanto i primi corri-spondenti erano diventati gior-nalisti professionisti, accanto a loro erano vari collaboratori, poi assunti come giornalisti anche loro, mentre la rete si infittiva fino a raggiungere anche i paesi più piccoli e sperduti.” Quando fu concluso il lavoro di organizzazione? “Praticamente mai, continua-

va giorno dopo giorno. Però, alla fine degli anni sessanta La Nazione dominava totalmente il suo territorio di diffusione, e cominciavano anche le edizioni di Sarzana con Osvaldo Ruggeri e di Pontedera con Orazio Petti-nelli. Era poi arrivato dal Nuovo Corriere un ottimo amministra-tore, Ivo Formigli, che già aveva collaborato con Favi”. Rimpianti? Lo rifarebbe quel lungo lavoro? “Subito. Credo di essere nato per svolgere quell’attività. Era-vamo una grande squadra, un gruppo di amici che riuscivano a lavorar bene divertendosi. La redazione era sempre affol-lata di personaggi famosi che venivano a trovarci. Per segna-lare notizie, per commentarle, semplicemente per scambiare due idee. Potevano essere attori o personaggi della televisione, atleti, uomini politici. Ci senti-vamo forti, i lettori del resto, ci davano ragione.”

Gastone de Anna (al centro della foto, in ginocchio) tra

i colleghi Rosario Poma e Paolo

Marchi. Alle loro spalle circondano

Wanda Lattes redattori e cronisti de La Nazione alla

fine degli anni Sessanta.

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Così, nel gennaio del 1975, in prima pagina, La Nazione dava notizia della rivolta nel carcere di Porto Azzurro guidata da Mario Tuti.

Il terrorista nero lasciò che i poliziotti controllassero la sua

collezione di armi, all’improvviso fece

fuoco e li uccise alle spalle.

Mario Tuti: il geometra di Empoliche fu tra i capi del terrorismo neroL’uccisione di due agenti, la fuga, il processo. Poi la rivolta a Porto Azzurro nel carcere degli ergastolani

quarto piano del penitenziario di Porto Azzurro sull’Isola d’El-ba. Armati con pistole e bombe rudimentali, tengono in ostag-gio venticinque persone tra le quali il direttore del carcere Cosimo Giordano e una donna, forse una vigilatrice. Assieme a Tuti ci sono Gaetano Manca, Mario Coppai, Mario Tolu, Ubal-do Rossi, Mario Marroccu, Luigi Tramontano e Roberto Masetti, gente pericolosissima, decisa a tutto, in galera fra l’altro per il sequestro di Sara Domini.

Roberto Masetti è stato uno dei più pericolosi banditi degli anni ‘70, battezzato

la”Primula rossa della Toscana”. Gli otto in rivolta hanno sicu-ramente sparato. Gli echi dei colpi sono arrivati a più riprese all’esterno della stanza circon-data da centinaia di carabinieri

Il 24 gennaio 1975 durante un’indagi-ne sul terrorismo nero viene emesso un mandato contro Mario Tuti, un geo-metra empolese fino a quel giorno consi-derato insospetta-bile. Tuti accoglie i poliziotti a casa sua, mostrando la piena disponibilità a col-laborare, e lascian-do che gli agenti controllino la sua collezione di armi. Ma all’improvviso estrae un’arma, spara una raffica di colpi, uccide il bri-gadiere Leonardo Falco e l’appuntato Giovanni Ceravolo, ferisce un terzo po-liziotto. Riesce così a sfuggire, prima in Corsica quindi in Francia. Alla fine viene arrestato sulla Costa Azzurra. Al processo terrà un contegno sprezzante, salutan-do col braccio alzato. Diventa così un mito per i giovani terroristi neri e i neofascisti. Nell’agosto del 1987, è a capo di una rivolta nel carcere di Porto Azzurro. Per giorni, assieme ad altri ergastolani, tiene sotto tiro 25 ostaggi. Ecco come La Nazione, con un servizio dell’inviato Enzo Bucchioni, ne dava notizia il 26 agosto del 1987.

Mario Tuti e altri sette detenuti sono asserra-gliati dalle dieci e mezzo

di ieri mattina nell’infermeria al

e di agenti. Ci sono dei feriti? Ci sono dei morti fra gli ostaggi? Nessuno sino a tarda notte era in grado di dirlo. La tensione era altissima ed ha raggiunto l’apice quando uno degli agenti car-cerari nelle mani dei rivoltosi, Andrea Miliani di 21 anni, è sta-to legato alle sbarre della cella e lasciato penzolare. A tarda notte gli ostaggi legati sono diventati due, il secondo sembra sia lo steso direttore del carcere.

Il sostituto procuratore della repubblica di Livorno, dottor Antonio Cindolo, che tiene i

contatti con Tuti, ha cercato di prendere tempo nel tentativo di far slittare i numerosi ultima-tum. Gli otto hanno richiesto prima un’auto blindata, poi una motovedetta e infine un elicottero sul quale dovrebbero prendere posto sei rivoltosi e

due ostaggi. “ ci bastano otto posti” ha gridato Ma-rio Tuti denunciando una spaccatura tra i detenuti.

La rivolta è iniziata poco dopo le dieci e mezzo. Ieri era

una giornata speciale nel carcere di Porto Azzurro. C’era l’udienza. Un via vai. I detenuti dalle nove alle un-dici sono andati nel cortile, nel campo sportivo. Alcuni hanno chiesto la visita in in-fermeria, il colloquio con la psicologa. Mario Tuti e Ma-rio Marroccu approfittando della situazione particolare, secondo una ricostruzione frammentaria, mentre erano

in infermeria avrebbero tirato fuori due pistole prese chissà come e chissà dove, bloccando tutti i presenti. Proprio Ma-rio Tutti, a Porto Azzurro da appena un mese, si sarebbe incaricato di catturare perso-nalmente il direttore. Un’altra versione parla invece di un altro stratagemma più ingegnoso. I detenuti avrebbero simulato la cattura di un loro collega arma-to di pistola nel cortile attiran-do l’attenzione di numerose guardie. A quel punto, in una grande confusione, sarebbero saltati fuori Mario Tuti e Mario Marroccu a loro volta armati che avrebbero bloccato e chiuso in infermeria tutti quanti.

Da Empoli si è fatta viva con una dichiarazione la madre di Tuti: “Non

posso raggiungerlo perchè sono anziana, ma se potessi parlargli gli direi di arrendersi.”

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Fu così che grazie ai gelatiil boom economico passò da Empoli

Renzo Bagnoli fu uno dei capitani

d’industria che permisero il boom

economico degli anni Sessanta.

Non per questo tradì mai la sua Empoli

e le sue modeste abitudini di vita.

organizzata come le migliori , tanto da trasformarla in società per azioni quando ancora nel calcio tutto funzionava con uno o più padroni che potevano fare e disfare a piacimento.

Oggi Sammontana copre il 14 per cento del mercato italiano di gelati. E

tutta Empoli è giusta-mente orgogliosa di quello stabilimento che accoglie chi arriva da Firen-ze. Non a caso, quando Renzo Bagnoli morì, la città intera partecipò alle esequie.

A fare la storia economica di Empoli sono alcuni capitani d’industria che,

senza perdere il rapporto con la città, l’hanno resa famosa in tutta Italia e nel mondo. Fra questi, il primo, è senz’altro Renzo Bagnoli, fondatore della Sammontana, la cui famiglia continua a gestire la grande azienda di gelati. Era nato nel 1923 a Marcignana, dove il padre Romeo aveva della terra. Studiavano in pochi nel primo Novecento, specie se provenien-ti da famiglie modeste, ma il giovane Enzo prese con facilità il diploma delle elementari e poi continuò a leggere e stu-diare per proprio conto, cosa che fece per tutta la vita. Il suo primo lavoro fu nelle vetrerie, ma quando il padre comprò il fondo di una latteria in via del Giglio, Renzo Bagnoli sembrò scoprire la sua “vocazione”. Il padre la pagò a forza di cambiali e Renzo, tornato dal fronte, si mise a lavorarci di buona lena, ben presto imponendosi per la qualità dei suoi gelati.

Cresceva Empoli, cresceva l’economia nazionale, cresceva la gelateria che

i Bagnoli avevano chiamato Sammontana, dove lavoravano Renzo e i suoi fratelli. Ma il latte non era molto, ancora circolava in Italia quello in polvere, porta-to fin qui dagli americani. Renzo Bagnoli riuscì a trovarlo nelle fattorie vicine e la qualità del suo gelato non ebbe concorren-ti. Ben presto la fama del gelato del Bagnoli superò i confini comunali, poi quelli regionali, tanto che nel ’58 fu iniziata la costruzione dello stabilimento industriale. E dunque, Renzo Bagnoli fu uno dei protagonisti di quel boom economico che permise all’Italia, primi anni Sessanta, di dimenticare le difficoltà della guerra. A rendere possibile il passaggio da una realtà artigianale a quella indu-

striale era stato l’occasione di acquistare a basso prezzo, dagli americani, macchine in grado di produrre artificialmente il freddo.

Ecco, c’era di che sentirsi soddisfatto, di limitarsi a lavorare e guadagnare.

Ma Renzo Bagnoli seppe fare anche i salti successivi, tanto che la Sammontana diventava nel 1973 una società per azioni, poi si apriva alla lavorazione dei semicongelati, e un po’ alla volta diventava – com’è oggi – una delle principali aziende alimen-tari italiane.

Il segreto? Finchè è vissuto, Bagnoli non ha mai perso di vista le sue origini modeste.

E dunque nei suoi rapporti con i dipendenti è sempre stato amichevole, cercando di far star bene tutti, perché le cose se andavano bene a lui andavano bene anche per gli operai.

Ma finchè non è dece-duto, pochi anni fa, Bagnoli ha conservato

un rapporto strettissimo anche con la città dove era nato e dove faceva impresa. Industriale di fama, non per questo rinunciava alla sua presenza alla Miseri-cordia, aiutava in varie forme le cause che considerava giuste, era presente nel mondo dello sport. Inizialmente, infatti, fu il “patron” di una squadra ci-clistica che gli dette non poche soddisfazioni, fino a vincere un campionato del mondo. Ma si dedicò anche al calcio, pren-dendo l’Empoli dai campionati minori e seguendolo sempre – qualunque fosse la carica che di volta in volta ricopriva – fino ai giorni della serie A. In pratica se Empoli ha una squadra di calcio che compete alla pari con quelle di grandi città di tutta Italia, lo si deve alla sua forza societaria, una società che Bagnoli volle, fin dall’inizio,

La storia di Renzo Bagnoli, da contadino a vetraio, a capitano d’industriaLa sua presenza nel ciclismo e ancor più nell’Empoli calcio

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Lorenzi, Pandolfini, Spalletti:qui il calcio ha una storia antica

Nella foto: giocatori dell’Empoli nel ritiro

di San Baronto. Da sinistra Buda, il nostro giornalista

Lastraioli, Nardi, Puccetti con il cane - mascotte e Bernard.

Nel tondo:Il capitano dell’Em-

poli Puccetti con il giornalista de La

Nazione Giuliano Lastraioli (a destra)

di Carlo Salvadori

Ad agosto saranno 89. L’Empoli Foot Ball Club nacque, infatti, nell’esta-

te 1920. Partecipò al primo campionato Figc nel 1921/22 in Terza categoria toscana girone A, giungendo secondo dietro ai fiorentini dell’Esperia Excel-sior. L’esordio fu trionfale: 4-1 sul campo della Virtus Firenze, doppietta di Tuti e reti di Ban-dini e Rigoli, col pisano Marzino Merlini allenatore-giocatore e Parigi Innocenti presidente. Il cannoniere Tullio Tuti alternava il ruolo d’attaccante a quello di portiere. Durante il periodo pionieristico, in cui il miglior risultato fu il 6° posto in serie C nel ‘38/’39, la squadra era co-munque formata soprattutto da calciatori di Empoli e dintorni, tra i quali Carlo Castellani, nato a Fibbiana di Montelupo nel 1909, e a cui è intitolato lo sta-dio. Goleador principe del club azzurro con 61 reti in 9 stagioni, morì nel campo di sterminio di Mauthausen nel 1944. Un salto di qualità avvenne nell’imme-

diato Dopoguerra, quando l’Em-poli disputò quattro stagioni consecutive in serie B, dove era stata ammessa in virtù del 3° posto ottenuto nel ‘45/‘46 nel torneo di serie C Lega Centro-Sud girone A. La prima gara fu però negativa: 0-1 in casa con la Pro Gorizia. Quella formazione azzurra includeva Benito ‘Vele-no’ Lorenzi ed Egisto Pandolfini, che la trascinarono al 3° posto. L’attaccante di Borgo a Buggia-no siglò 15 reti e, alla fine della stagione, passò all’Inter dove rimase 11 campionati per con-cludere la carriera nel ‘58/‘59 con l’Alessandria a fianco di Gianni Rivera. Invece, il cen-trocampista di Lastra a Signa, arrivato l’anno precedente dalla Fiorentina, segnò 12 gol e quin-di militò per 11 stagioni in ‘A’, di cui quattro in viola.

Entrambi hanno collezio-nato diverse presenze in Nazionale: Lorenzi è stato

il primo a vestire sia la maglia azzurra dell’Empoli sia quella dell’Italia, nel successo per 3-1 nel ‘49 a Madrid con la Spagna

La nostra squadra ha sempre prodotto giocatori illustriQuella volta che fu raggiunta la qualificazione per l’Uefa

in cui ‘Veleno’ sbloccò il punteggio. Anche Pandolfini festeggiò l’esordio con la rete del definitivo 2-0 al Paraguay, a San Paolo, nel Mondiale brasi-liano del ‘50.

Rimanendo in ambito internazionale, citazione d’obbligo per l’argentino

Juan Calichio, idolo delle ra-gazze empolesi dal campionato ‘48/‘49 in ‘B’ a quello ‘50/‘51 in ‘C’ . L’attaccante di Buenos Aires fu prelevato dalla Sampdoria e, in tre stagioni, firmò 30 gol. Frattanto, Silvano Bini aveva cominciato i suoi quasi 50 anni di ‘regno’. Nonostante il rischio corso nel ‘59/‘60 di retrocedere dalla serie D nei tornei mino-ri, scongiurato agli spareggi con Carrarese e Rieti, l’Empoli partecipò poi a 20 campionati in ‘C’, prima di tornare in ‘B’ nel ‘82/‘83, dopo 33 stagioni, guidato da Giampietro Vitali. Inizia così la favola azzurra e la storia diventa cronaca. Il sogno della serie ‘A’ materializzatosi nel ‘85/‘86, con Gaetano Salve-mini in panchina, grazie pure

alle penalizzazioni di Vicenza e Triestina. La salvezza, a cui tuttavia seguirono due retroces-sioni di fila.

Il ritorno in Paradiso nel ‘97/‘98, nel triennio d’oro – dalla C1 con vittoria della

Coppa Italia di categoria alla serie ‘A’ – di mister Luciano Spalletti, lanciato dal presidente-amico Fabrizio Corsi. Scivolati fra i cadetti, gli azzurri vennero risollevati da Silvio Baldini; quindi la ‘A’ anche con Mario Somma e con Gigi Cagni che, col 7° posto e il record di 54 punti, ha conquistato la qualificazione in Coppa Uefa, sfumata al primo turno contro lo Zurigo. Nuova discesa in Purgatorio e, oggi, la speranza di riveder le stelle solo attraverso i play-off.

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