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La parte rimanente

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Gabriele Fioretti, narrativa

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Gabriele Fioretti

LA PARTE RIMANENTE

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LA PARTE RIMANENTE Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Gabriele Fioretti ISBN: 978-88-6307-279-2

In copertina: Immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Aprile 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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ad Antonella, Valter e Michele

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“I see you - the only one who knew me And now your eyes see through me

I guess I was wrong So what now? It's plain to see we're over,

And I hate when things are over, When so much is left undone”

“Breakfast at Tiffany's”, Home (1995)

Deep Blue Something

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I Voglio di più dalla vita. Lo so, bisognerebbe mettersi in coda, tanta è la gente che la pensa come me. Ma è così: voglio di più dalla vita. Penso di meritare di più. Per quello che è e per quello che è stato. E se non me lo merito, che il Responsabile del più grande starnuto mai fatto nella storia dell’Universo, altrimenti chiamato Big Bang e che dovrebbe aver dato origine a tutto, venga a dirmelo in persona. Perché, poche balle, è la sacrosanta verità: voglio di più dalla vita. E me lo merito pure. Qui piove. Il micio dorme. Il Po minaccia i Murazzi e sotto casa mia vedo i tetti dei bassi fabbricati che si sono trasformati in piscine. Sembra dicembre. Siamo alla fine di maggio. Intanto io sono sul mio divano Ikea rosso fuoco, tranquillo e comodo sulla parte lunga, chaise longue, con una lattina vuota di coca zero sul tavolino e due o tre paia di Nike buttate in un angolo, vicino alla porta d’ingresso. In mano: No Logo di Naomi Klein. Come faccio a leggere il manifesto dei no-global con delle Nike sparse per casa, la coca e l’Ikea? E penso. Non solo a No Logo e ai reticoli di fondo della vita. Penso a quel giorno. Penso a quel viaggio: chissà che fine hanno fatto gli altri, chissà che cosa sono diventati, chissà cosa hanno fatto, chissà se hanno dimenticato; chissà se, come me, si svegliano nel mezzo della notte, sudati, pensando a quel giorno, quel maledetto giorno, quel bastardo 22 giugno di dieci anni fa che ci ha cambiati tutti per sempre, o almeno me.

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Chissà se alla fine Andrea e Francesco si sono poi sposati davvero. Chissà se Enrico e Samuele sono andati a vivere insieme, dopo aver reso partecipi le rispettive famiglie del loro amore, che anche negli anni Novanta non era così popolare. Chissà... Intanto io mi sveglio ancora di notte, con a fianco un corpo, che non è per forza sempre lo stesso, e sono in mezzo a un incubo, mutevole ma ricorrente: ho negli occhi il botto, le lacrime, i suoi occhi chiari, quasi trasparenti in certe giornate di sole di giugno… Bastardi il tempo e la memoria: ti perseguitano, non ti lasciano tranquillo, non ti lasciano riposare, mai. Così, in quelle notti maledette dalla loro monotona ripetitività, mi alzo dal mio letto, apro il frigo: una birra desperados fredda che, con il suo sapore dolciastro dell’aromatizzazione alla tequila, spero funga da dolcificante artificiale mentre mi godo la spazzatura tv delle ore notturne, accompagnato solamente dal rumore delle auto che passano quattro piani più sotto. Ogni tanto, uno dei corpi si alza dal mio letto, scende le scale del soppalco e viene a chiedere «va tutto bene?». «Secondo te, se andasse bene, me ne starei a vedere delle cazzo di trasmissioni notturne, seduto sul divano, alle 3.30 del mattino e con una birra in mano?» è l’unica, acida, risposta che riesco a formulare. Capita così che il corpo decida di andarsene da casa mia senza aspettare l’alba, oppure torni a dormire e possa così avere le mie scuse la mattina, o meglio poche ore dopo, al momento del caffè, quando se ne andrà. Ovviamente per non tornare più. Cazzo! Mancano un paio di giorni alla fine di maggio: il prossimo 22 giugno saranno dieci anni. Chissà. Tornare là, dopo tutti questi anni… Ho sempre evitato accuratamente di tornare in quei luoghi, perlomeno fino ad oggi… Ma forse sarebbe giusto… Sarebbe l’ideale per assorbire, oppure, come dicono quelli bravi: per elaborare. Ma alla fine. Con tutte le cazzo di notti insonni, con tutte le cazzo di desperados alla tequila, con tutte le cazzo di domande che mi sono fatto, con tutte le cazzo di sedute che ho fatto, con tutte le cazzo di serate di “chiacchiere” con amici sinceri che hanno cercato di aiutarmi, come

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cazzo è che alla fine anche stanotte sono qui, alle tre del mattino, con la solita desperados in mano (“io sono qui alle quattro del mattino, l’angoscia un po’ di vino, voglia di bestemmiare!” ha detto Francesco Guccini, i veri poeti – come lui - si vedono nelle parole semplici…) a cercare delle risposte, mentre sullo schermo un paio di zoccole mi chiedono di chiamarle per farmi sentire uno stallone? BI-BIP! BI-BIP! BI-BIP! BI-BIP! BI-BIP! BI-BIP! BI-BIP! BI-BIP! BI-BIP! Come spesso accade la sveglia mi coglie sul divano, la bottiglia vuota di desperados è rotolata per terra. La doccia fredda del mattino è ciò che mi riporta al mondo terreno, al giorno d’oggi. Insieme alla benzina che costa sempre di più e alle sigarette a oltre quattro euro (oh cristo, sono quasi ottomila lire! Quando ho iniziato a fumare, costavano poco più di tremila… ma vaffanculo Seba, basterebbe smettere). Finita la doccia, tornato dal viaggio extraterrestre, la Mokona piscia il caffè “aroma intenso”: un buon modo per iniziare la giornata e per dare il pretesto alla prima paglia da bruciare. La vespa blu vecchia di vent’anni aspetta fedele in un garage in affitto a trecento metri da casa. Arrivare in ufficio senza un orario prestabilito è uno dei vantaggi che mi porta, ogni tanto, ad esagerare con le domande notturne e con le desperados per presentarmi di conseguenza anche verso mezzogiorno, senza che alcuno proferisca verbo: d’altronde l’agenzia vive, per buona parte, delle mie intuizioni o delle mie idee. Un esempio? Non voglio essere presuntuoso a dire che la prima campagna pubblicitaria con protagonista la pallacanestro (o meglio: un suo attore importante col cinque sulla schiena e una parlata mista serba e bolognese) e una famosa azienda di dolciumi piemontese sia una mia idea esclusiva, ma il mio contributo è ben presente. Oppure che una fabbrica di cioccolato del basso alessandrino abbia avuto più d'una spinta verso l'alto grazie alle campagne create dalla nostra agenzia, con l'ovvio sostanzioso apporto del sottoscritto. Nel caso, poi, dell'auto più venduta negli ultimi anni, il corpo che ha suggerito il nome da dare alla vettura, è uscito dalle mie lenzuola sfanculata per la classica domanda «…va tutto bene, Sebastiano?» alle cinque di un afoso mattino agostano di qualche anno fa…

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All'avvio, la vespa rantola un po’ come sempre, ma alla fine non mi lascia mai a piedi: si parte in direzione Paradise City,l’agenzia che mi vede come pubblicitario non esattamente di successo, ma con un buon tocco di genialità che mi permette alcuni vantaggi (stipendio che mi fa vivere, orari flessibili...). Magari mettessi la giacchetta come Accorsi in L’ultimo bacio: sarei un bravo pubblicitario di successo con moglie e bella casa. Magari, appunto. Con l’eccezione di quell'essere celestiale che è Giovanna Mezzogiorno, ed i suoi meravigliosi occhi insieme a lei. Ma se poi, tempo un paio di anni, divento omosessuale e impazzisco per uno del mercato del pesce che diventa la mia Fata ignorante? Ecco, sì, farebbe ridere… soprattutto Enrico e Samuele. Ma oggi è una dura giornata da sopportare per chi non viene abbandonato dalla memoria. Oggi siamo a fine maggio: oggi è venerdì 29 maggio 2008… dieci anni fa... Era proprio il 29 maggio 1998: in quel cazzo di venerdì, Andrea e Francesco ci dissero che si sarebbero sposati con l’arrivo del nuovo millennio. Esattamente a metà del 2000, il 1 luglio, si sarebbe stata la cerimonia. Cavolo, mancava ancora un anno e mezzo, ma loro, carini come sempre, “carini” come i 101 cuccioli di dalmata dell’omonimo film, “carini” come Charlotte di Sex & the City, volevano che noi fossimo i primi a saperlo. In fondo, eravamo i loro migliori amici. Prima ancora dei loro genitori, che quasi stramazzarono al suolo alla notizia, nel timore di essere schizzati dal fango del disonore di un matrimonio riparatore. Mentre Francesco stava schiumando di rabbia, tenuto a malapena a bada dalla dolcissima Andrea; la stessa saggiamente spiegava ai genitori, di lei prima e di lui dopo, che i preservativi erano un’invenzione tutt’altro che recente e che, forse, visto il pulpito dal quale stava giungendo la predica, sarebbe stato il caso che proprio i genitori di Andrea ci avessero pensato ventisette anni prima, quando la concepirono, siccomesua madre si presentò all’altare con una leggera pancia di quattro mesi. Scongiurato il disonore del matrimonio col pancione, entrambe le coppie di genitori furono quasi felici. Per parte nostra, esultammo per la coppia perfetta, quella che fa inneggiare all’amore sempiterno. Quella indivisibile coppia fu l’oggetto di un numero non quantificabile di brindisi in quel maledetto cazzo di venerdì. Baci a profusione: anche

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Gaia aveva gli occhi che le ridevano, in quella maniera unica che faceva rappacificare con il mondo intero. Andrea piangeva quasi dalla gioia che vedeva riflessa negli occhi di tutti noi, mentre al Jungle Beach sollevavamo un calice dopo l’altro e Samuele ed Enrico continuavano a riempire i nostri bicchieri ed informare della grande novità la folla ignara che passeggiava tra i tavolini assiepati sulle rive dei Murazzi. «Notte difficile, genio?» «Capo, lei vede dentro di me: diciamo il solito, ma oggi la puntualità la fa regina, eh?» «Sebastiano, va bene, sono solo le dieci e mezza, quindi ti concedo la battuta, ma ti ricordo che a fine giugno dobbiamo presentare la campagna abbonamenti alla squadra di basket Nuova Pallacanestro Torino. Nell’ultima settimana, da quando abbiamo vinto la gara per aggiudicarci la campagna, sei stato praticamente un fantasma: come sei messo?» Mentre il capo mi parla, appoggio la mia tracolla di pelle consunta sul tavolaccio, coperto di fogli, e ne estraggo il mio portatile laccato bianco , ma coperto di ogni tipo di adesivo, manco fosse una Fender ed io un chitarrista punk-rock. Lo accendo. «Nuova Pallacanestro Torino, Nuova Ossessione? Dovremo prendere l’immagine dell’Urlo di Munch e metterci la canotta della Nuova Pallacanestro Torino, cambiare lo sfondo del quadro e inserire una curva di un palasport pieno, consiglio il Paladozza di Bologna; dovrebbe essere abbastanza d’effetto. Non male, eh capo?» «E che ne so io di curve e basket, Sebastiano? E cosa è il PalaDozza di Bologna?» «Capo, pensavo una cosa così: è giusto uno schizzo fatto con Photoshop. Giusto per rendere l’idea a chi dovrà farlo per davvero.» Il mio piccolo Apple MacBook datredici pollici ruota di novanta gradi mentre sto finendo di parlare, illustrando un piccolo fotomontaggio che funge da bozza e da salvagente per questa partenza in seconda di mercoledì mattina. Ovviamente non sa che è pronto da almeno sette-otto giorni con l’intenzione di migliorarlo, ma i calendari di lavoro e gli scadenziari sono fatti per essere stravolti dall’attualità. «Buona idea, Seba, decisamente una buona idea…» «Però capo, li chiama lei i Subsonica…» «Chi? I Subche?»

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«Subsonica, capo, Subsonica. È un gruppo musicale, proprio di Torino. “Nuova Ossessione” è il titolo di una loro canzone, pure abbastanza famosa. Per un lancio adeguato, occorrerebbe organizzare un evento dove loro suonano il pezzo, magari con un urlo in apertura di esecuzione e, alla fine del brano, il logo della campagna abbonamenti appare su un maxischermo alle spalle del palco che, proprio durante l’esecuzione del pezzo, trasmette le migliori azioni dell’ultima stagione della Nuova Pallacanestro Torino» «E dove la facciamo questa cosa, secondo te? Affittiamo lo stadio Olimpico o il Delle Alpi?» «Capo, a ironia scarseggiamo eh! Basta andare sui Murazzi: lì è pieno di giovani, ossia proprio il nostro target. E se Giuda’s riapre in tempo dopo l’incendio, ci scappa pure che lui si fa pubblicità gratis per la riapertura e ci infiliamo l’evento a costo zero. Resterebbero da scritturare solo i Subsonica, ma capo, questo è lavoro per lei» «E perché ci dovrei pensare io?» «Facile, capo: perché è lei che deve trovare la grana…» «Ah, ecco! E non lo farebbero per una campagna promozionale, un bel cambio merce? O per amore del basket?» «Capo, non credo proprio. La mia idea prevede che suonino e, che io sappia, non conosco un gruppo musicale affermato che suoni gratis o in cambio merce per una campagna promozionale gratuita o, peggio ancora, per amore dello sport…» «Quindi?» «Quindi, capo: fuori la grana e, come dicevano i Subche…Liberitutti» «Sebastiano...» Il Capo si gira scuotendo la testa e se ne va nel suo ufficio da direttore creativo dell'agenzia Paradise City, tacchettando nel suo tailleur grigio con giacca doppiopetto e capello raccolto in chignon; mugugnando per i soldi che dovrà spendere, ma comunque contenta che il suo “fottuto genio” le abbia già regalato il nocciolo su cui indirizzare la campagna. «Pronto? Ufficio commerciale EnSa» «Ehm… pronto… Enrico?» «No sono Samuele, chi parla?» «Ehm… non so come dirlo…Non so se ti ricordi di me. È passato un po’ di tempo…» «Seba! Ma quanto tempo! Ma come stai? Enrico! C’è Seba al telefono...»

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«Chi…Seba? SEBAAAAAAAAAAA! Quanto tempo! Chiedigli come sta!» «Ciao ragazzi. Oggi sono dieci anni…» «Dieci anni? Ma dieci anni di che, Seba? Stai bene?» «Samuele, oggi è il 29 maggio 2008, dieci anni fa…» Samuele interrompe: «Oddio: è vero! Sono già passati dieci anni!» «Che succede Samu? Perché hai la faccia triste? Seba non sta bene?» «Enrico, oggi è il 29 maggio 2008, dieci anni fa…» «Oh, cazzo! Povero Seba…» «Non farti sentire Enrico, cretino!» «Dai, Samuele, non importa, dì anche ad Enrico che non importa. Sono dieci anni, ormai. Non sarà una frase in più o in meno a cambiare le cose. Né per me, né per lei. Ascolta Samuele, poi racconta questa cosa anche ad Enrico. Voglio che sia per tutti. Se manca uno, va tutto a monte.»” «Dimmi Seba, però aspetta che ti metto in viva voce: così anche Enrico sente direttamente dalla tua voce» «Va bene. Ci sono» «Vai Seba, siamo tutto orecchi, sia io che Enrico» «Allora, ragazzi. Non so come dirvelo: quindi non ve lo dirò, perché sapete che non sono mai stato bravo con le parole, nonostante queste siano praticamente il mio lavoro. Dunque, vi chiedo scusa, innanzitutto. Questo è quanto posso dirvi per la mia quasi assenza totale negli ultimi dieci anni delle vostre vite. Spero che stiate bene, spero che i vostri sogni si stiano realizzando o che siano già realizzati. Spero che siate felici, finalmente insieme, perché, a quanto ho visto, cercando Enrico ho trovato entrambi nello studio commerciale EnSa – ah, un nome migliore potevate trovarlo, eh?-. Dunque: non sono ancora passati dieci anni da quel giorno di merda, però oggi è il 29 maggio… e… come dire… oggi sono dieci anni da quella serata al Jungle Beach. Vi ricordate tutti i brindisi ad Andrea e Francesco? A proposito, loro?»” «Beh, Seba, lo sai: loro sono sempre stati la coppia perfetta, Romeo e Giulietta senza le famiglie Capuleti e Montecchi dietro, almeno una volta risolto il problemino del matrimonio che i genitori credevano riparatore.» «Ho capito: due o tre figli?» «Due figli, due femmine: Carla e… ehm…Gaia. E non sono rimasti molto bene per il fatto che non hai nemmeno risposto al loro invito di matrimonio, alle loro telefonate, agli inviti per i battesimi delle loro

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figlie. E non credere che sia solo perché hai cambiato casa più d’una volta. Anche se ormai è passato tanto tempo…» «…» «Tutto bene, Seba?» «Come cazzo faccio a stare bene! Scusa Samuele… ehm… non volevo rispondere così. Non a voi. Scusate, di solito mi fanno domande del genere solo delle donne che mi conoscono appena e che mi vedono sul mio cazzo di divano alle tre o alle quattro del mattino, con una cazzo di birra in mano, che guardo dei cazzo di programmi sconci sulle tv private. Insomma…» «E queste donne, alle quattro di mattina, che ci fanno a casa tua, Seba?» «Enrico, questa è una domanda del cazzo, concedimelo. Che vuoi che ci faccia una donna alle quattro del mattino a casa di un uomo?» «Ok, Seba. Scusa la domanda idiota, ma a parte tutto, possiamo fare qualcosa?» «Sì, Enrico! Grande Enrico! Allora, vi spiego cosa avrei in mente: oggi…beh…come detto, oggi sono dieci anni da quel 29 maggio 1998, quando la coppia perfetta, Andrea & Francesco, ci dette l’annuncio delle loro nozze per il 1 luglio 2000, giusto? Allora, ho pensato: visto che sono dieci anni da quella serata indimenticabile, perché stasera non torniamo al Jungle Beach?» «Ma perché, è ancora aperto?» «Sì, Samuele, è ancora aperto. Non gode proprio di ottima salute, ha cambiato un paio di proprietari e di gestori, ma lavorano ancora abbastanza bene. Ci sarebbero da avvisare Andrea e Francesco… però, come dire: non so a questo punto, dopo il mio silenzio… come prenderebbero una mia telefonata…» «Va bene, cuor di leone! Ci pensiamo noi… Appuntamento alle dieci, dieci e mezzo di stasera… è il caso di trovarci al Jungle Beach, allora?» «Samuele, è venerdì. Il Jungle Beach a quell’ora ha esaurito l'happy hour ed è troppo presto per i giovani che fanno la serata. È giusto trovarci lì, dove tutto è iniziato, ma dobbiamo fare verso le nove, così almeno mangiamo qualcosa» «Ma a quell’ora stiamo ancora lavorando!» «E vorrà dire che per un giorno esci prima, Enrico. Diventerai milionario domani sera. Fa lo stesso, te lo giuro!» «Ma con le scadenze che abbiamo, Samuele, e i clienti. Diglielo anche tu…» «Va bene, Seba! Alle nove al Jungle Beach!» «Ma Samuele! Le scadenze!»

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«Enrico… stasera usciamo prima, alle sette e mezza tu vai a casa e ti fai una doccia rilassante, ti vesti. Alle otto arrivo io e mi preparo. E per le nove siamo al Jungle Beach. Lo so che la prima scadenza è per lunedì prossimo. Ho capito, ma...» «Ma è venerdì 29 maggio 2008, dieci anni…» «Appunto, hai sentito Enrico?» «Va bene, Seba: hai vinto tu…» «Grazie Enrico. Grazie, Samuele. A più tardi.»

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II La giornata è stata un lungo stillicidio di ore, di minuti. L’attesa che arrivasse sera è stata peggiore della tortura cinese della goccia d’acqua: un minuto, una goccia, un minuto, un'altra goccia. Ti perfora la testa ed il cervello vedere come il tempo possa essere il peggiore alleato di un essere umano in attesa. Altro che trovarsi dal lato sbagliato della porta del bagno nei momenti di estremo bisogno fisiologico. Le telefonate di lavoro, le ricerche su internet, lo scambio di email, pure Facebook: tutta roba che mi ha aiutato un po' a far scorrere le lancette dell'orologio, ma, alla fine, non è stato possibile lavorare in maniera decente, anche con il tocco di folle e lucida genialità che mi è stato donato da chissà chi. Il ricordo di quel maledetto bastardissimo giorno è uno stiletto piantato tra la cervicale e la scapola destra: mi trafigge e si trasforma in quel dolore sordo, piccolo, ma inestinguibile che mi ha accompagnato per ogni cazzo di giro di lancetta, fino alle sei di sera. Poi è finalmente scattata l’ora decente in cui sgattaiolare da Paradise City. Per quanto flessibile possa essere la mia presenza e il mio orario di lavoro in agenzia, devo per forza avere un minimo di rispetto anche per gli altri. Anche e soprattutto per evitare rotture di palle dal tailleur-e-tacco-sette, per essere chiamato nell’ufficio del direttore dell’agenzia a sentire le solite parole sulla professionalità, sulla necessità della presenza in ufficio della forza lavoro e menate varie… È quasi divertente come il capo inizi il suo monologo appena mi siedo sulla sua poltrona di design minimalista, che arreda nello stesso stile, in colore nero acciaio e bianco, tutto il suo ufficio. Bel tipo, il nostro direttore: anzi, non fosse proprio il mio direttore, magari non sarebbe male farci un giro... solo che se poi mi svegliassi in

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piena notte, come al solito, per sedermi su quel cazzo di divano con una cazzo di desperados a guardare delle cazzo di telepromozioni oscene con le mie questioni in ballo, potrebbe scapparle la consueta fatidica domanda. E, a quel punto, dopo la mia inevitabile mia risposta da aggressione blitzkrieg, che succederebbe? Che se ne andasse subito o che tornasse tra le lenzuola, il problema sarebbe comunque il giorno successivo, in ufficio: non basterebbero tutti i “Just do it” del mondo per recuperare. Così la lascio parlare, inizio a muovere gli occhi tra le sue stampe stile inizio secolo (ma quante cazzo di foto sono state fatte con oggetto operai sui grattacieli newyorchesi? Nemmeno fossero stati top model ante litteram o campagne per un’impresa edile), quando la sua voce aumenta di volume o diventa più stridula, torno a fissarla sciorinando occhi da pesce lesso, con gli angoli della bocca all’ingiù a dissimulare dispiacere e costernazione. In realtà, mi concentro sui suoi denti, li fisso (belli, però, non c’è che dire: perfetti, bianchi, levigati. Appuntamento quindicinale dall’igienista dentale?) e poi piano piano salgo dal naso ritoccato chirurgicamente verso gli occhi, le sopracciglia curate sopra pupille cerulee e determinate di donna in carriera sposata e separata («dopo soli quattordici mesi», dicono le lingue pettegole dell’agenzia). Infine mi soffermo sui suoi capelli lisci, biondi, che in ogni santo giorno mandato da Dio sulla Terra sono raccolti in uno chignon elegante, austero, che fa pendant con l’arredamento del suo ufficio da direttore, così come con il tailleur perennemente in tinte istituzionali blu o nero o grigio. Terminare la mia perlustrazione del suo viso solitamente significa che è trascorso tempo a sufficienza ed è arrivato il momento di cercare la via d’uscita. Solitamente sono passati circa quindici o venti minuti: il tempo necessario a dissetare l’ambizione da manager in carriera e di ricordare sempre chi tiene il bastone dalla parte del manico e chi lo rincorre cercando di addentare la carota. A volte basta un «Capo, ha ragione», a volte serve un eloquio maggiormente strutturato che possa portare motivazioni e convincere della mia buona fede. Alla fine, per mia fortuna, il cestista serbo Sasha Danilovic che scherza col bimbo nello spot natalizio della Kinder e altre varie sono componenti che vanno nella colonnina dei più, nel calcolo mentale più/meno eseguito dal Capo mentre ascolta le mie parole contrite e così, come il bimbo che viene sgridato, posso alzarmi e tornare al mio banco dove fare i compiti.

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Ore 18.27 venerdì 29 maggio 2008 La vespa blu sfreccia così veloce che la decalcomania con le farfalle intorno al ramo di fiori di ciliegio quasi si stacca dalla fiancata. Passando vicino a Corso San Maurizio è irrinunciabile l’occhiata alla guglia della Mole, allora quasi autonomamente lo sterzo gira a sinistra e si dirige verso via Po, fregandosene bellamente dei sensi unici favorevoli o contrari, al massimo ci si ferma ai semafori. Che essere cilindrati da un'auto perché il tuo era rosso e il suo verde, non è una bella fine. La coda delle pupille viene impressionata dai gruppetti di studenti mentre passo di fronte alla Facoltà di Lettere, Lingue e Filosofia di Palazzo Nuovo. Tanti capelli lunghi, tante kefiah, tante Doc Marten’s… la nostalgia dell’università mi insegue cercando di abbrancarmi, ma la vespa 50 è più veloce di lei e imbocca via Po con una brusca sterzata ancora a sinistra, dirigendosi dritta sparata verso Piazza Vittorio. La Gran Madre, là in fondo appena dopo il ponte sul Po, allarga le braccia pronta ad accogliere la mia vespa. Uno sguardo delatore di appuntamenti di lì ad un paio di ore ai Murazzi, al Jungle Beach, e di rimbalzo un’occhiata veloce sull'altro lato dei Murazzi per vedere se Giuda’s ha già segnali di vita risorta dopo l’incendio: è pur sempre un possibile cliente da cooptare per un’eventuale riapertura e lancio in grande stile annesso (oh… sempre sul pezzo, sempre al lavoro, anche in mezzo ai propri cazzi… il Capo dovrebbe essere talmente orgogliosa da propormi l’aumento o la settimana corta). Riporto gli occhi sulla strada e il ponte sul Po è già un ricordo. La vespa si inerpica per le stradine dietro alla Gran Madre, fino alla chiesa dei Cappuccini. Una selva di scooter giovani, crani con i capelli a crestina, scarpe ultimo grido e frangette si affollano sul muretto che dà su Torino: limonate tra adolescenti, in attesa che giunga l’ora di tornare a casa per cena e che i Cappuccini diventino il dominio di coppiette più adulte e di qualche sparuto gruppo di amanti della cannabis. Come faccio a saperlo così bene? Perché accendersi una paglia scrutando Torino è una delle poche cose che assopisce un po’ le cazzate che ho in testa. Quando succede che nemmeno la desperados sul divano in piena notte abbia i suoi effetti, la luce del fanale tondo della mia vespa proietta, sul pavé di via Po, la scia luminosa che mi trascina come una filovia verso questo punto d’osservazione privilegiato, dove posso

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vedere la vita scorrere laggiù e restarmene tranquillo, senza sentirmi preso troppo dentro. Godendomi le nuvolette di fumo azzurrognolo delle mie Camel lights, che si avviluppano ai miei pensieri, fino ad addolcirli con delicatezza: gli occhi vagano tra le due rive del Po, popolate dai giovani torinesi affamati di vita sociale, e il lungo sentiero di lampioni che delimita il perimetro di Piazza Vittorio e risale su per via Po, fino a Piazza Castello. Lì, in quelle notti, a cavalcioni di una vespa vecchia di vent’anni e con l’unica luce data dall’incandescente punta della mia sigaretta, scruto i viali di Torino, tutti uguali e perpendicolari tra di loro, per cercare l’angolo dove il mio cuore e la mia anima hanno nascosto la serenità di una vita marchiata a fuoco dieci anni fa. Terminata la contemplazione, la vespa riprende la strada di casa fino ad arrivare all’ultimo piano della casa di ringhiera dove dormo, e ogni tanto vivo, in un appartamento su due livelli: entro nell’ingresso-soggiorno con il mio amato divano Ikea rosso fuoco con chaise longue, di fronte allo spartano mobile tivù basso che schiera tutto insieme tv, iBall e base per iPod.Telecomandi schierati sul bracciolo. Dopo aver gettato le chiavi sulla mensola aggrappata al muro subito alla mia destra, la mano sinistra lancia il casco, che vola dolce verso l’angolo più remoto del divano, mentre la mano destra afferra il telecomando per l’iPod che infilerà la serie London Calling, London’s burning, Tommy Gun, Spanish Bombs e Lost in the supermarket, nel mezzo skippa Should I stay or should I go perché lo spot Levi’s l'ha un po' troppo banalizzata e specialmente oggi, una volta uscito dall'ufficio, ho proprio poca voglia di qualsiasi cosa rimandi all'arte dell'advertising. Scavalco il divano e in un salto sono in cucina per una sorsata di lemonsoda, ormai sgasata, che mi inumidisca un po’ la gola essiccata dalle polvere sottili dello smog sabaudo. Salgo i trentaquattro gradini a coppie e piombo nella camera da letto soppalcata sull'ingresso soggiorno, apro l’armadio di fronte al letto futon matrimoniale per tirare fuori un paio di jeans blu, quelli che considero portafortuna, da mettere su una camicetta rossa a manica corta che indosserò sotto il giubbotto di pelle preferito, quello da motociclista comprato con lei al mercato di Porta Palazzo un pomeriggio autunnale di oltre un decennio addietro. Mentre l’eco di Joe Strummer che urla nel microfono che Londra prima chiama e poi brucia, gli abiti disegnano una parabola perfetta che si conclude nel cesto della biancheria del bagno del soppalco, entro nella

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doccia che i Clash hanno ormai lasciato il passo a Robert Smith che mi viene a dire che finalmente è venerdì e si sente innamorato e subito dopo mi ripete beffardo, cazzocazzocazzocazzo, che i ragazzi non piangono… il destino è stronzo, certo, ma impostare la riproduzione casuale del mio iPod e trovarsi una dietro l’altra It’s Friday I’m in love e Boys don’t cry è una vigliaccheria bella e buona. Ma d’altronde, visto che un aggeggio elettronico non può avere premeditazione, è colpa mia: basterebbe non tenere lì dentro canzoni del genere. E meno male che sono sotto la doccia, così posso far finta di non sentire le lacrime rigare le mie guance, mentre si confondono con l’acqua calda scrosciante. Il tempo di uscire dalla doccia, accaparrare il telecomando e la ricerca di una colonna sonora meno intonata a sto cazzo di 29 maggio si conclude con la erre moscia e arrotata di Guccini che mi racconta di Cyrano. La lingua fa più danni della spada, la lingua non perdona e tocca. Terminata la vestizione sono ormai le 20.30: una mezz’ora per arrivare ai Muri. Mai stato tanto puntuale in vita mia. Andiamo Seba, è il momento. Non ci sono più le mezze stagioni: è drammaticamente vero. Ieri pioggia, stanotte tetti piatti trasformati in piscine. Oggi l’aria calda di questa sera di maggio è quasi gradevole, forse la desperados “preventiva” bevuta quasi d’un fiato prima di uscire ha rilassato leggermente i miei nervi. La vespa scivola leggera e quasi liquida sui cubetti di porfido del centro torinese. Il casco bianco, coperto di adesivi “da Fender” come il mio computer, è come il puntino di un navigatore satellitare e disegna traiettorie nitide. Sono puntuale e lo è pure la desperados preventiva che, infingarda, mi abbandona proprio mentre parcheggio la mia vespa. Pagherei anche dieci euro perché me ne stappassero subito un'altra in uno dei baracchini posti all'inizio della piccola discesa dei Murazzi appena passato il semaforo, ma qui non si va oltre la Beck’s, la Ceres o la Moretti. E io devo affrontare il Jungle Beach e il successone che la mia brillante operazione revival ha creato. Vorrei scappare, vomitare tutto, non importa se sulle mie scarpe o su quelle di un energumeno di due metri e centodieci kg che concederà alle sue ossute nocche il piacere di ricordarmi come tutto ciò sia estrema maleducazione. Eppure. Eppure, mentre il mio stomaco si contorce come nemmeno un tossico in crisi d’astinenza, le mie gambe vanno sicure senza un attimo di

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esitazione verso la destinazione, quasi recitando un copione a memoria. Gli occhi iniziano ad intravedere che la stempiatura precoce di Samuele ha continuato inesorabile la progressione, mentre la sua mano accarezza dolcissima quella di un ragazzo biondo con il ciuffo. Di fronte a loro, una “sciuretta” minuta coi capelli a caschetto castano chiaro e dei vispi occhi verdi che ruotano di continuo, come un turista giapponese che si trovi in mezzo alle dune del deserto del Gobi e non sappia se e cosa fotografare. Al fianco della “sciuretta”, che deve essere per forza Andrea, un ragazzo ancora giovane nell’aspetto, che è identico a come me lo immaginavo trentasettenne dieci anni fa: Francesco. Atletico come sempre, capelli ormai sale e pepe, taglio moderno spettinato. Insomma, ecco la coppia perfetta oggi. L’amore fatto due persone, seppure colga una leggera vibrazione discrepante dalla coppia ideale della scorsa decade. Devo scegliere solo se esordire da stronzo ironico o arrivare e lasciare a loro la prima mossa. Sei mesi fa, non avrei avuto dubbi: sarei arrivato, innanzitutto in ritardo dei classici ed istituzionali venti minuti ed avrei sparato come benvenuto un «ragazzi come siete invecchiati male, Andrea ma ti sei vista? Eri un gioiellino, una piccola gemma da custodire come la rosa del Piccolo Principe. Ora sei identica alla professorina inacidita e permanentata che perculeggiavamo quando la gioventù splendeva nei nostri occhi ridenti e fuggitivi». Giusto per gradire. Ma oggi non può che essere diverso: dieci anni fa iniziava tutto quello che stasera ci ha (ri)portati qui. Loro sono qui perché io li ho chiamati e farmi mandare a fare in culo appena arrivato non è l’ideale. Anche perché dovrò chiedere loro una cosa molto importante, soprattutto per chi ha due figli. «Beh, ragazzi… ciao! è un piacere enorme rivedervi… dopo tutti questi anni» «Seba! Ma come stai? C’hai una faccia…» Mi trattengo, mi mordo la lingua per non far scattare il solito risponditore automatico. «Ehm… Grazie, Andrea… ti trovo bene anche io… immagino che questo fusto brizzolato al tuo fianco sia il caro vecchio Francesco…» Il bacio ad Andrea e l’abbraccio a Francesco. «Oh, Seba! Ci saremmo anche noi: va bene che ci siamo sentiti oggi al telefono, ma non è proprio ieri l’ultima volta che ci siamo visti»”

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«Hai ragione Samuele, hai ragione. Però mi aspettavo di vedere anche Enrico stasera e, oddio, vuoi dire che… beh,Enrico: se hai trovato la fonte di Cocoon potresti anche condividerla con noi… specie con Samuele che magari gli farebbe comodo per rinfoltire il capello, così da poter decidere da che lato fare la scriminatura…» Una risata collettiva è la colonna sonora degli abbracci agli altri due amici. L’atmosfera si è sciolta. I primi trenta secondi sono stati come quei dieci minuti in cui uno risale in bicicletta dopo un decennio a piedi. Iniziamo a chiacchierare come se non fossero passati otto - dieci anni, ma solo otto - dieci giorni dall’ultima volta che le loro vite avevano intercettato la mia. Enrico e Samuele non hanno perso il vizio: appena sbucano, inevitabili, le foto di Carla e Gaia e iniziano gli altrettanto inevitabili brindisi alla salute ed al futuro dei due pargoli, i due omosessuali a cui voglio più bene al mondo, si alzano e coinvolgono ignari passanti nei nostri brindisi. È meglio che non descriva il profondo tuffo al cuore quando mi è piombata fra le mani una foto di una bimba e Francesco, imbarazzatissimo, mi ha soffiato con voce tremolante: «Lei è Gaia». Fortuna che avevo già scolato due martini bianchi che, sommati al fondo creato dalla desperados “preventiva”, mi hanno permesso agevolmente di sfoderare il miglior sorriso di questa terra mentre rispondevo: «È bellissima, Francesco, bellissima… e proprio perché ha preso tutto da sua mamma…» Meno male, avrei potuto crollare. Perché nemmeno a digiuno e con un litro di birra in corpo potrei negare che sto pensando, in ogni singolo secondo, a come tirare fuori l’argomento. C’è chi dice che le donne abbiano un sesto senso. La mia Gaia e Andrea erano molto legate: sarà il fatto che sono cresciute insieme, dai tempi degli astucci Naj-oleari alle medie fino ai primi fidanzatini, per giungere a Francesco e me. Sta di fatto che per certi versi si somigliano. O dovrei dire: si somigliavano e ora si somiglierebbero ancora. Anzi, più d’uno le pensava sorelle per la stessa gestualità o per lo stesso strano modo di ridere arricciando il naso. Dio, come mi mancano quelle fossette a lato delle narici. Forse il fatto che la comune frequentazione affondi radici fino a circa venticinque anni fa, dai tempi dei paninari, non ha fatto altro che obbligarle a crescere insieme, farle vittime delle stesse influenze, delle stesse varicelle, degli stessi morbilli. E che quindi crescendo insieme

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possa risultare naturale (aiuto! Ho bisogno di un sociologo o di uno psicologo dell’età evolutiva!) che si sviluppino tratti comuni, anche somatici, in entrambe le persone. D’altra parte Napoleone, il mio bellissimo e bianchissimo gatto, docile e affettuoso come un cane, dorme nella stessa identica maniera del suo padrone: si appoggia sul fianco destro e allunga gambe e braccia, tenendole parallele e quasi in contatto tra di esse, come se duplicasse la sua posizione “in piedi”, però sdraiato su un lato. Il problema appunto è che anche io dormo nella posizione identica, da sempre. Anche Gaia si lamentava che non ci stava nel letto se mi piazzavo nella “mia” posizione. Tra l’altro io sono ben più vecchio di Napoleone e, soprattutto, il micio è entrato nella mia vita sei anni fa, quando non aveva che poche settimane ed era una piccola palla di pelo color neve con due occhioni azzurrissimi e totalmente spaventati per l’essere stato traslocato in un appartamento di due piani, grande sì abbastanza per un gatto, ma non fino a quando non avesse imparato a salire la scala che porta di sopra, alla camera da letto soppalcata. Saranno quindi le tesi dell’evoluzione a spiegare il perché Andrea inizia a guardarmi in una maniera strana, veramente strana. Testa obliqua, sguardo interrogativo, palpebre socchiuse. Andrea ha gli occhi verdi, vispi come mi ricordavo, ma quel modo di guardare non è propriamente suo: ha un che di ancestrale, di già visto. Qualcosa che una volta mi bucava lo stomaco, mi bucava la fronte e mi vedeva dentro. Era un raggio che partiva dall’azzurro e finiva nel pallore appena sopra le mie sopracciglia. Gaia mi guardava così. E mi guardava così solo quando io avevo qualcosa. Non c’era verso di negare l’evidenza: vedeva dentro quelle mie strane vibrazioni e apriva la bocca, inesorabilmente, per mettermi spalle al muro. Fortunatamente Andrea non ha lo stesso grado di conoscenza intima; inoltre, nonostante l’atmosfera si sia ormai sciolta grazie alla festosità di Samuele ed Enrico, non c’è ancora quella complicità che permetterebbe di spiattellare la realtà del mio momento. Però, mi guarda. Mi fissa interrogativa. Accenna qualche inarcamento di sopracciglio a cui reagisco da vero uomo: mi dileguo, con la classica scusa della pisciata da eccesso di liquidi ingeriti. Per essere la primissima serata di venerdì, ce n’è di gente. Mi occorrono dieci minuti buoni per attraversare l’asfalto dei Murazzi che separa il dehor del Jungle Beach dall’ingresso vero e proprio. Due

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scimmioni bodyguard-security, vestiti come tutte le bodyguard-security di questo mondo, fanno la selezione all’ingresso e pure per pisciare devo essere squadrato da capo a piedi da un ipervitaminizzato di 195 centimetri per 115 chili, rasato, orecchino a bucare un lobo e l’immancabile auricolare a coprire l'altro lobo. E non dimentichiamo il completo nero con t-shirt in tinta. Dopo aver passato l’esame di moda, entro tra una massa calda, ansimante, saltellante che riempie per intero lo spazio di quegli otto metri che mi separano dalla porta a spinta di metallo rosso ruggine, che mi consentirebbe finalmente di espletare le mie funzioni e lavarmi la faccia, per ritrovare almeno un minimo di sangue freddo. Un esponente di un famoso duo pop degli anni ‘80 italiani infila al mixer un pezzo dietro l’altro, facendo impazzire di gioia ballerina e salterina il suo pubblico, composto per la maggior parte da studenti universitari che forse non sanno chi sta mixando brani di dance elettronica o che forse, semplicemente, fingono di non vedere come vent’anni siano passati addosso a chi era giovane musicista nei rutilanti Eighties, soprattutto per chi no tienes dinero. Finalmente, ma faticosamente, le mie mani spingono quel rosso ruggine e la porta del bagno si apre su uno spettacolo di incipriamento nasale che dà una fotografia netta, anzi innevata, di come la gioventù odierna all’hashish e alla marijuana preferisca ormai qualcosa un pelo più pesante, o forse dovrei dire un granello di polvere più pesante? Svolgere le mie funzioni vitali è comunque un modo per riprendermi e per provare ad organizzare le mosse successive. Mentre mi sciacquo le mani e successivamente mi bagno con acqua fredda la fronte e il collo, un risiko mentale di parole, frasi, domande e risposte si affolla davanti ai miei occhi stralunati che si riflettono nello specchio del bagno del Jungle Beach. Come parlarne ai ragazzi là fuori? Nessuno, caro Seba, avrebbe detto che sarebbe stato facile, ma ti ci trovi in mezzo, hai fatto trenta, vuoi di più dalla vita, anzi pensi di meritare di più dalla vita: quindi, fermarsi adesso è da idiota. E pure da stronzo nei confronti di te stesso. Il viaggio di ritorno verso il tavolo è il medesimo dell’andata, cambia solo che faccio partire un'ordinazione per una bottiglia di champagne, della stessa marca bevuta esattamente dieci anni fa. Mi viene risparmiato giusto l’esame riguardante il dress code da parte degli energumeni. «Seba, tutto bene? C’hai una faccia che ti raccomando...»

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Samuele ed Enrico restano impietriti alla pericolosissima domanda che arriva da Andrea. I due titolari dello studio EnSa sbarrano gli occhi, aspettano la mia inevitabile, consueta reazione al solito quesito. Invece io, con un prodigioso ed imprevedibile dribbling degno di George Best, sorprendo tutti: sfodero un paso doble che siede tutti i difensori, pardon i partecipanti alla nostra rimpatriata, e mi siedo mentre con un cenno al cameriere ordino una seconda bottiglia di champagne. «Ti dirò, Andrea: potrebbe andare meglio, ma non ci lamentiamo!» Mento, sapendo di mentire. «Però, inutile nascondere a voi certe cose, ragazzi. Andrea: tu hai lo stesso modo interrogativo di guardarmi che aveva lei, quando c’era qualcosa di diverso o di strano. In fondo, oggi ho cercato Samuele ed Enrico e siamo riusciti ad organizzare questa serata. Il motivo? Tu, Andrea, e tu, Francesco, non potrete certo dimenticare che proprio oggi, dieci anni fa, eravamo tutti qui, al Jungle Beach, perché voi ci avevate annunciato la vostra intenzione di sposarvi.»” E qui la vibrazione strana la colgo io: sia in Andrea che in Francesco. Qualcosa che è in distonia con l’idea di amore eterno di cui sono sempre stati l’incarnazione terrena. «Ma, Andrea e Francesco devo essere sincero con voi e con Samuele ed Enrico. Dieci anni fa, ci avete dato l’annuncio delle vostre nozze per il primo luglio di otto anni fa, l’ormai passato anno domini 2000. Vi ricordate tutto di quel periodo, vero? Non parlo solo del maggior numero di capelli presenti sulla testa di Samuele.» L’annuire sorridente da parte di tutti è utile e mi serve a stemperare la tensione, mentre pago e stappo lo champagne, arrivato con tempismo fuori dal comune. Mentre verso il vino nei bicchieri, le bollicine emanano profumo leggero leggero di crosta di pane ed io riprendo a parlare, per cercare di affondare il colpo: «Ecco. Dieci anni fa, con una bottiglia dello stesso champagne che stiamo bevendo stasera, festeggiammo tutti insieme la vostra bella decisione. Tutti insieme decidemmo di battezzare le nostre ultime vacanze senza fedi all’anulare con un viaggio: per salutare una fase della nostra vita che stavamo per abbandonare. Per questa ragione, mentre sollevo questo calice brindando al vostro felice matrimonio, alle vostre bellissime Carla e Gaia, io propongo di ripercorrere la serata di dieci anni fa fino in fondo. FINE ANTEPRIMACONTINUA...

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