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LA PHILOSOPHIA DEI MONACI: LOGICA E SIMPLICITAS 1 La ScolasticaL’età carolingia (IX – X sec.) segna l’origine e i tratti della vita intellettuale medievale per diversi secoli. Il primo di questi tratti è una vera e propria novità nella storia della cultura: <<Tutto ciò che ha a che vedere con lo scrivere e il leggere si conchiude nel mondo della Chiesa. La Chiesa “dominio” e “territorio” della cultura: questo è ciò che di nuovo e decisivo ha introdotto l ’età carolingia... quella dell’intellettuale medievale è una figura che si trova ad essere inclusa e come rinchiusa nella figura dell’uomo-di-Chiesa. Esclusivamente o con assoluta prevalenza, si tratterà sempre di intellettuali che sono di fatto monaci, chierici e, dal secolo XIII, frati. Clericus diventerà sinonimo di alfabetizzato e letterato, e laicus, per contro, di analfabeta o di indotto. E’ unicamente l’appartenenza ad un ordo religioso-istituzionale a rinchiudere in sé la possibilità di attività intellettuali>> 1 . Non solo. L’intellettuale medievale, oltre ad essere sempre un uomo della Chiesa è anche un uomo della scuola, ovvero può esercitare la sua funzione di studioso e di insegnante solo all’interno di quelle specifiche istituzioni che sono le scholae. Il fenomeno ha la sua genesi nell’imposizione, da parte di Carlo Magno (742- 814), di un’unica Regula per tutti i monaci occidentali, la Regula sancti Benedicti che prevedeva, tra l’altro, circa 1500 ore di lettura all’anno. Così, la schola e la philosophia si sono trovate solo nelle mani dei benedettini, diffondendosi nei monasteri (nel IX secolo, nei monasteri di Orbais, Auxerre, Fulda, Corbie; nel X secolo, nei monasteri di Lautenbach, Tours, Montecassino, Bec, Marmoutier). Anche quando si comincerà a parlare di una vera e propria cultura “filosofica” (tra l’XI e il XII secolo), questa sarà appunto filosofia “scolastica”: <<nata dalla scuola, rivolta alla scuola, elaborata per la scuola. E’ la schola quella che impone all’intellettuale i suoi propri compiti, le basi, gli argini e i ritmi e i modi della sua attività. Quelle che consideriamo le “grandi opere” dei “grandi filosofi” medievali sono nella stragrande maggioranza dei casi lezioni scritte, dispense... dall’età carolingia la scuola di qualunque tipo di scuola si tratti e in qualunque periodo si collochi è istituzione di quella istituzione che è la Chiesa. In un mondo di intellettuali- ecclesiastici e di intellettuali-maestri, il pensiero, l’intelligenza, la filosofia dove è fiorita, hanno avuto sede nelle sedi della Chiesa, nella “casa del Signore”. Nel monastero, nella cattedrale, nel convento. Anche fisicamente la scuola è inclusa in quegli edifici. Ma c’è un’inclusione più profonda: non è forse maestra essa stessa la Chiesa? Dall’età carolingia il monopolio ecclesiastico della cultura ha trovato la sua giustificazione: lo studio come l’insegnamento fanno parte della predicazione della verità, e questa è funzione propria ed essenziale della Chiesa>> 2 . Possiamo allora definire con “Scolastica” la cultura elaborata nelle scholae, il cui asse portante fu il rapporto fede-ragione. In questo rapporto emerge il ruolo della filosofia, intesa soprattutto come strumento di interpretazione della Sacra Scrittura, di chiarificazione e difesa della fede, in vista della costruzione di una sistematica dottrina teologica. Furono essenzialmente tre i tipi di scuola che si susseguirono nei secoli del medioevo: 1) Scuola monastica (IX-XI sec.) E’ un tipo di scuola che ha come protagonista assoluto la figura del monaco-maestro, in piena civiltà agraria, con le scholae incluse nei monasteri. Come vedremo la philosophia, concentrata nel monastero, racchiusa tra la terra e la Bibbia, ha vissuto un rapporto difficile con la schola. Infatti, alle soglie del XII secolo, con la 1 Franco Alessio, “Il pensiero dell’occidente feudale”, in Vegetti -Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, Vol. 1°, Zanichelli, BO, 1989, p.349 2 Franco Alessio, “Il pensiero dell’occidente feudale”, cit., p.350 Torre di San Nicola nell'abbazia di Bec in Normandia

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LA PHILOSOPHIA DEI MONACI:

LOGICA E SIMPLICITAS

1 – La “Scolastica”

L’età carolingia (IX – X sec.) segna l’origine e i tratti della vita intellettuale medievale per diversi secoli. Il primo di questi tratti è una vera e propria novità nella storia della cultura: <<Tutto ciò che ha a che vedere con lo scrivere e il leggere si conchiude nel mondo della Chiesa. La Chiesa “dominio” e “territorio” della cultura: questo è ciò che di nuovo e decisivo ha introdotto l’età carolingia... quella dell’intellettuale medievale è una figura che si trova ad essere inclusa e come rinchiusa nella figura dell’uomo-di-Chiesa. Esclusivamente o con assoluta prevalenza, si tratterà sempre di intellettuali che sono di fatto monaci, chierici e, dal secolo XIII, frati. Clericus diventerà sinonimo di alfabetizzato e letterato, e laicus, per contro, di analfabeta o di indotto. E’ unicamente l’appartenenza ad un ordo religioso-istituzionale a rinchiudere in sé la possibilità di attività intellettuali>>

1.

Non solo. L’intellettuale medievale, oltre ad essere sempre un uomo della Chiesa è anche un uomo della scuola, ovvero può esercitare la sua funzione di studioso e di insegnante solo all’interno di quelle specifiche istituzioni che sono le scholae. Il fenomeno ha la sua genesi nell’imposizione, da parte di Carlo Magno (742-814), di un’unica Regula per tutti i monaci occidentali, la Regula sancti Benedicti che prevedeva, tra l’altro, circa 1500 ore di lettura all’anno. Così, la schola e la philosophia si sono trovate solo nelle mani dei benedettini, diffondendosi nei monasteri (nel IX secolo, nei monasteri di Orbais, Auxerre, Fulda, Corbie; nel X secolo, nei monasteri di Lautenbach, Tours, Montecassino, Bec, Marmoutier).

Anche quando si comincerà a parlare di una vera e propria cultura “filosofica” (tra l’XI e il XII secolo), questa sarà appunto filosofia “scolastica”: <<nata dalla scuola, rivolta alla scuola, elaborata per la scuola. E’ la schola quella che impone all’intellettuale i suoi propri compiti, le basi, gli argini e i ritmi e i modi della sua attività. Quelle che consideriamo le “grandi opere” dei “grandi filosofi” medievali sono nella stragrande maggioranza dei casi lezioni scritte, dispense... dall’età carolingia la scuola – di qualunque tipo di scuola si tratti e in qualunque periodo si collochi – è istituzione di quella istituzione che è la Chiesa. In un mondo di intellettuali-ecclesiastici e di intellettuali-maestri, il pensiero, l’intelligenza, la filosofia dove è fiorita, hanno avuto

sede nelle sedi della Chiesa, nella “casa del Signore”. Nel monastero, nella cattedrale, nel convento. Anche fisicamente la scuola è inclusa in quegli edifici.

Ma c’è un’inclusione più profonda: non è forse maestra essa stessa la Chiesa? Dall’età carolingia il monopolio ecclesiastico della cultura ha trovato la sua giustificazione: lo studio come l’insegnamento fanno parte della predicazione della verità, e questa è funzione propria ed essenziale della Chiesa>>

2.

Possiamo allora definire con “Scolastica” la cultura elaborata nelle scholae, il cui asse portante fu il rapporto fede-ragione. In questo rapporto emerge il ruolo della filosofia, intesa soprattutto come strumento di interpretazione della Sacra Scrittura, di chiarificazione e difesa della fede, in vista della costruzione di una sistematica dottrina teologica. Furono essenzialmente tre i tipi di scuola che si susseguirono nei secoli del medioevo:

1) Scuola monastica (IX-XI sec.)

E’ un tipo di scuola che ha come protagonista assoluto la figura del monaco-maestro, in piena civiltà agraria, con le scholae incluse nei monasteri. Come vedremo la philosophia, concentrata nel monastero, racchiusa tra la terra e la Bibbia, ha vissuto un rapporto difficile con la schola. Infatti, alle soglie del XII secolo, con la

1 Franco Alessio, “Il pensiero dell’occidente feudale”, in Vegetti-Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, Vol. 1°,

Zanichelli, BO, 1989, p.349 2 Franco Alessio, “Il pensiero dell’occidente feudale”, cit., p.350

Torre di San Nicola nell'abbazia di Bec in Normandia

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rinascita delle città e l’allargamento degli orizzonti culturali in tutta Europa, queste scholae si estingueranno e i monaci cesseranno di essere maestri, per tornare alla meditazione e alla preghiera, all’ombra del chiostro, o al lavoro della terra.

2) Scuola cattedrale (XII sec.)

Nella nuova Europa fatta di città e non più di esclusivo dominio terriero, di vescovi e non di abati, di chierici e non di monaci, la cultura si sposta, in un primo tempo, nelle scholae episcopali, poi in quelle cattedrali e canonicali. Inoltre, con le Crociate a est e la “riconquista” cristiana della penisola iberica a ovest, si dilata la biblioteca della schola, includendo filosofia e scienze dei Musulmani, degli Alessandrini e dei Greci antichi. All’auctoritas per eccellenza della Scrittura, si aggiungono nuove auctoritates e nuovi auctores. Si tratta di un periodo di transizione, ricco di fermenti e di drammi intellettuali e personali, in attesa di una nuova grande ricomposizione. 3) Scuola universitaria (XII-XIII sec.)

Con i secoli XII e XIII nascono a Bologna e Parigi le prime Università, sotto forma di corporazioni (Studia) di maestri e studenti, create dai pontefici. Esse contribuirono alla formazione di una nuova classe di intellettuali (studium) che avrebbe affiancato i poteri tradizionali del regnum e del sacerdotium.

2 – La “parabola” della Scolastica

Il primo tipo di schola voluta da Carlo Magno (Schola palatina), con l’intento di far sorgere nella terra dei Franchi una nuova Atene, fu istituita e diretta da Alcuino di York che organizzò l’istruzione su tre livelli: - istruzione elementare; - studio delle sette arti liberali, ovvero di quelle discipline che costituivano il “trivio” (grammatica, retorica, logica o dialettica) e il “quadrivio” (aritmetica, geometria, astronomia, musica); - studio approfondito del Testo Sacro.

Le sette arti liberali – Miniatura

dall'Hortus deliciarum di Herrad von

Landsberg (circa 1180)

La miniatura raffigura la concezione del sapere nella Scolastica medievale, secondo la visione dell’Hortus Deliciarum. Le sette arti liberali appaiono illustrate con molta cura. Nella parte alta del rosone, si trova la Grammatica, poi in senso orario, la Retorica, la Dialettica, la Musica, l’Aritmetica, la Geometria e l’Astronomia. La Filosofia è la regina, posta al centro; sulla corona spiccano tre teste, raffiguranti l’Etica, la Logica e la Fisica, e dal suo petto sgorgano le sette fonti della sapienza. Socrate e Platone sono collocati ai suoi piedi, ma sul suo cartiglio si legge: “Omnis sapientia a domino Deo est”. In basso, all’esterno del rosone, si trovano poeti e maghi che rappresentano i rischi della vita intellettuale non rivolta alla conoscenza. [Da Régine Pernoud, Immagini della donna nel Medioevo, Jaca Book, Milano 1998, tav. 160]

“Omnis sapientia a domino Deo est” In questa scritta, sul cartiglio retto nelle mani della Filosofia, si racchiude tutto il senso del travagliato rapporto ragione-fede che ha caratterizzato almeno cinque secoli della Scolastica. Infatti le sette Arti, nell’ordinamento di Alcuino, dovevano costituire i sette gradini di una scala gerarchica (hyerarchia) che monaci e discepoli dovevano salire, piuttosto in fretta, per arrivare alla fine (ovvero al “fine”): penetrare la parola di Dio.

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L’intera scala porta il nome di Philosophia che racchiude in sé sette “serve” (ancillae), la cui funzione è, appunto, quella di agevolare la penetrazione dell’ordine divino finalizzato alla salvezza. La stessa Philosophia, nel suo insieme, si caratterizzava quindi come ancilla della Theologia. Sennonché, ogni tanto, soprattutto tra l’XI e il XII secolo, qualche chierico comincia a sostare un po’ troppo su un gradino, dimenticando che deve arrivare alla fine della scala! Questi chierici di città sembrano innamorarsi di un’Arte particolare e dell’auctoritas di riferimento (Donato per la Grammatica; Aristotele per la Logica; Boezio per l’Aritmetica, Geometria e Musica...), dimenticando che l’unica vera Auctoritas è la Parola del Signore. Il problema si fa piuttosto drammatico, in particolare, per l’uso della Logica (o Dialettica) in rapporto ai dogmi della fede. Si tratta del problema del ruolo che può avere l’indagine razionale del singolo uomo nella ricerca della verità e, per contro, del ruolo che in tale ricerca spetta all’ordine divino e, quindi, alle gerarchie ecclesiastiche che lo rappresentano sulla Terra. Sulla base dell’evoluzione di questo problema (rapporto ragione-fede) è possibile suddividere in quattro fasi la “parabola” della Scolastica: 1) Pre-scolastica. Corrisponde al primo periodo della rinascita carolingia (IX-X sec.) in cui è ingenuamente

e assolutamente data per scontata l’identità di ragione e fede. 2) Alta Scolastica. Dalla seconda metà dell’XI secolo alla fine del XII si affaccia il problema di una

potenziale contraddizione tra fede e ragione e si cercano le prime “soluzioni” (Anselmo d’Aosta). 3) Apice della scolastica. Il 1200 (XIII secolo) è il secolo della “fioritura” della Scolastica che coincide

proprio con la capacità dei filosofi (Tommaso d’Aquino, in particolare) di armonizzare tra loro ragione e fede che, pur restando distinte, conducono alla stessa meta.

4) Dissoluzione della scolastica. Il XIV secolo è il secolo della “crisi” (“l’autunno del Medioevo”, secondo la definizione dello storico Johan Huizinga), segnato dal tramonto delle sue due maggiori istituzioni, il papato e l’impero, e dalla laicizzazione della cultura. In questo nuovo contesto un filosofo come Guglielmo di Ockham riconoscerà l’impossibilità di un accordo tra fede e ragione, tra ricerca filosofica e verità rivelata, svuotando di significato il problema stesso che stava a fondamento della Scolastica.

3 – Dialettici e antidialettici: logica e simplicitas

A cavallo tra il X e l’XI secolo, un grande monaco-maestro, Gerberto d’Aurillac, esortava ad usare la

ragione, cioè fare logica ed essere logici. Gerberto si formò nei conventi benedettini, poi in Catalogna (presso gli “Infedeli”); dal 972 fu maestro nella scuola di Reims; nel 982 divenne abate di Bobbio; nel 991 arcivescovo di Reims; nel 998 arcivescovo di Ravenna; dal 999 al 1003 (anno della morte) papa col nome di Silvestro II. Coltivò tutte le scienze, meccanica e matematica in particolare, scrisse commenti alla Isagoge di Porfirio, alle Categorie e al De interpretatione di Aristotele e ai Commentari logici di Boezio. Fu autore di una Geometria, di un Liber de astrolabio, e di un De rationali et ratione uti, dove si proponeva di vedere che cosa significhi “fare uso della ragione”, una questione che egli aveva disputato a Ravenna con Otrico di Magdeburgo, alla presenza dell’imperatore Ottone II. Questo accento particolare che viene messo su quella che doveva essere solo “una” delle sette artes della Philosophia, la Logica, sembra uno sbocco inevitabile per i monaci-maestri dell’Alta Scolastica. Infatti lo scholasticus, nei primi secoli del Medioevo, era l’insegnante delle sette arti liberali. Ora, anche se l’Aritmetica, la Geometria o la Musica non sono la Logica, per coltivarle si deve sempre usare la logica. Quindi la philosophia (cioè la totalità della scala di sette gradini) è sempre, direttamente o indirettamente, logica, e il monaco, per il solo fatto di essere maestro di philosophia, è “costretto” ad essere sempre anche un maestro di logica e un fedele lettore di Aristotele. Questa che sembra la conclusione ovvia, come osserva sempre Franco Alessio ne Il pensiero dell’occidente feudale

3, di fatto,

<<lungo il secolo XI fu invece la conclusione più esecrata, l’impegno più clamorosamente rifiutato, la lettura contro cui insorsero più intransigenti rivolte di monaci ... Come mai? Perché? ... furono certamente, anzitutto, motivi religiosi: la stessa ispirazione monastica fece tanti monaci anti-logici (che non vuol dire: “illogici”).

3 Franco Alessio, “Il pensiero dell’occidente feudale”, cit., p.384

Affresco di Gerberto d'Aurillac nel Duomo di Bobbio (si noti l’astrolabio ai piedi di Gerberto)

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Il monaco condannò allora sempre più accanitamente negli altri... quello che, allora, scoprì di esecrare in se stesso: la genuflessione da maestro davanti ad Aristotele logico, oltre quella da monaco davanti al Signore>>. Mentre la logica impone regole, vincoli, leggi proprie (chiamate, appunto, “logiche”), la Parola di Dio è intrinsecamente “mistero” che, anziché rispondere alla domanda “perché?”, richiede meditazione, silenzio e preghiera. In realtà nessuno metteva in discussione la fede nella Parola di Dio, rivelata nella Sacra Scrittura, ma, mentre alcuni intendevano giustificare le credenze della fede affidandosi alla ragione e, quindi, alla scienza che gli è propria, la dialettica; altri, diffidando della dialettica, si appellavano all’autorità dei santi e dei profeti e limitavano la ricerca filosofica alla funzione di difesa delle dottrine rivelate. Da qui la polemica tra dialettici e anti-dialettici che occupò tutto l’XI secolo, anche se, in realtà, anche gli assertori più rigorosi della superiorità della fede, non tralasciano mai completamente la ricerca, propriamente scolastica, della via migliore per condurre l’uomo alla comprensione della verità rivelata.

Fra i dialettici spiccò la figura di Berengario da Tours (arcidiacono di Angers nel 1040; morto nel 1088),

convinto sostenitore della necessità di fare uso della logica anche nella discussione di argomenti dogmatico-religiosi. Secondo Berengario, che si appellava a S. Agostino, rinunciare all’uso della ragione significava abbandonare la dignità umana, poiché la ragione è la sola facoltà per la quale l’uomo è a immagine di Dio e rinnova in sé, di giorno in giorno, l’immagine divina. Celebre fu la polemica con Lanfranco da Pavia, riportata nell’opuscolo De sacra coena adversus Lanfrancum, sulla “transustanziazione” (“mutamento di sostanza”, da pane a Corpo di Cristo e da vino a Sangue di Cristo) nell’Eucarestia. Berengario, sul piano ontologico, tiene fermo il principio aristotelico secondo cui gli “accidenti” di una cosa non possono sussistere senza la “sostanza” della cosa stessa. Ora, poiché nel sacramento dell'Eucaristia gli accidenti del pane e del vino rimangono anche dopo la consacrazione, la sostanza non può essere andata distrutta e il pane e il vino devono rimanere tali. Ciò vale anche sul piano logico; infatti nella formula eucaristica (hoc est corpus meum) il predicato nominale “corpus meum” non può contraddire il soggetto, indicato dal pronome “hoc”, che è la sostanza del pane consacrato, senza distruggere la verità della proposizione. Conseguentemente non rimane, per Berengario, che interpretare simbolicamente la presenza del corpo e del sangue di Cristo nelle forme eucaristiche del pane e del vino. Questa dottrina, che fu condannata dalla Chiesa, andava a collidere con la definizione dogmatica dell'Eucaristia, la quale affermava la trasformazione “reale” della sostanza del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo.

Il più notevole avversario di Berengario, e sostenitore della tesi ortodossa, fu Lanfranco da Pavia (1010-

1089). Lanfranco, allievo della già fiorente scuola di Bologna, dopo numerosi viaggi, divenne monaco

nell’abbazia di Bec, in Normandia, che per suo merito divenne famosa; dal 1070 al 1089 (anno della morte)

fu arcivescovo di Canterbury. Nel Liber de corpore et sanguine Domini, contro Berengario da Tours, che sosteneva la presenza solo simbolica del corpo di Cristo nell’ostia consacrata, Lanfranco argomenta invece che, dopo la consacrazione, il pane e il vino si trasformano realmente nel corpo e nel sangue di Cristo, pur conservandone le apparenze. Lanfranco, logico celebrato, non è un nemico della dialettica, anzi ritiene che essa possa aiutare a comprendere anche i misteri divini, ma che deve sottomettersi all'autorità delle Scritture quando entri in conflitto con esse. Se la dialettica, abbandonata a sé, fallisce nel campo dei misteri della fede, guidata e sorretta dalla fede può rendere utili servigi alla fede stessa. E’ proprio questo che rimprovera a Berengario: <<...abbandonando le sacre autorità ti rifugi nella dialettica, ma se io dovessi ricevere o dare una risposta a proposito dei misteri della fede, preferirei sentirmi rispondere e rispondere io stesso, che riguardano le sante autorità piuttosto che le ragioni della dialettica>>. Nonostante ciò Lanfranco, nell’esporre le lettere dell'apostolo Paolo, ovunque se ne presentò l'opportunità presentò le sue tesi, i suoi argomenti e le sue conclusioni secondo le regole della dialettica. Si può dire che nel rapporto tra ragione e fede,

Lanfranco abbia assunto lo stesso atteggiamento che fu poi del suo grande discepolo Anselmo d’Aosta.

Lanfranco da Pavia con ai piedi Berengario da Tours (XVIII sec.) - Toile collection de l'Abbaye du Bec

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L’esponente più significativo della tendenza anti-dialettica fu però certamente Pier Damiani (1007-1072).

Ritiratosi in eremitaggio a Fonte Avellana, nel 1035, divenne poi cardinale e vescovo-conte di Ostia, suo malgrado; lottò, infatti, per alcuni anni, per essere solo vescovo e non anche conte, ritenendo che il potere politico dovesse essere privato delle connotazioni sacrali che aveva progressivamente assunto (e che diede origine alla cosiddetta “lotta per le investiture”).

La sua intransigenza riformatrice nell’ambito della politica ecclesiastica fa tutt’uno con la polemica contro logica e philosophia. Il suo modello non è il monaco carolingio con la tradizione benedettina alle spalle, ma l’eremita cristiano del III-IV secolo, che conduceva una rigorosa vita solitaria. Esiste infatti un solo libro degno di essere letto, la Bibbia; la dialettica (e in generale le arti o la perizia umana) non deve assumersi in modo arrogante il ruolo principale nella vita dell’uomo, ma deve seguire l’insegnamento delle Sacre Scritture

<<come una serva la sua padrona, con il debito ossequio>>. Infatti, per Pier Damiani, l’origine del male risiede proprio nella brama di andare oltre il limite, in particolare nell’oltrepassare il limite della simplicitas e della semplice necessità per accedere al superfluo. <<Il superfluo è il lusso predatore del signore, la proprietà del clero, l’adornamento della chiesa, la scuola del monaco, la logica nella Scrittura... In sé e per sé la logica è semplicemente un gruppetto di regole estrinseche per dare un po’ d’ordine alle parole. Fatta di parole, ordina parole. Tuto qui. E’ un’ars disserendi, né più né meno che la grammatica elementare. Come la grammatica, più in là del confine delle parole non può andare, e non deve andare>>

4. E’ celebre la condanna di Pier Damiani degli studi grammaticali,

presentati quasi come “tentazione diabolica”, condotta nel De sancta simplicitate scientiae inflanti anteponenda. La “follia” della logica consiste proprio nel voler trascendere il limite delle parole, presumendo, da un lato, di poter regolare i pensieri che stanno alle spalle delle parole; dall’altro, di poter governare con le sue leggi logiche le cose che stanno al di là delle parole: <<Tentando di presentare un ordine necessario nelle cose, fa apparire impotente la Volontà di Dio: non sono i Filosofi a dire che il mondo è tutto ordinato dalla necessità?... Il pensiero reso curioso cercherà non la meditazione della Parola, ma di intendere l’ordine dell’universo. Soggiogato dalla logica, vedrà nella necessità logica l’immagine, il riflesso di un universo retto da necessità analoghe a quelle dei suoi sillogismi. E’ per questa via che fra l’anima e la Parola si intromette la logica, che scruta e non venera il Mistero; e fra le cose e la Volontà si intromette un ordine logico-necessario, che si sostituisce ai decreti misteriosi del Volere di Dio sulle cose>>

5.

Invece Pier Damiani vuole proprio salvare e rivendicare l’onnipotenza di Dio nei confronti del mondo, poiché è chiaro che se il mondo è un ordine logico-necessario, Dio non è più l’Onnipotente. L’occasione per un approfondimento di questa problematica (affrontata nel De divina omnipotentia) è data a Pier Damiani da una conversazione con Desiderio (abate di Montecassino) a proposito di un’osservazione di San Gerolamo, secondo cui nemmeno Dio potrebbe restituire la verginità ad una fanciulla che l’avesse persa. Generalizzando, Desiderio, sostenendo che <<neanche Dio può far sì che ciò che è accaduto, non sia accaduto>>, pone un limite alla Volontà e al Potere di Dio, un limite che è proprio l’ordine dell’universo! La replica di Pier Damiani (affidata all’intero opuscolo De divina omnipotentia) è la tesi dell'assoluta superiorità dell'onnipotenza divina nei confronti della natura e della storia. Il mondo non è un ordine logico-necessario: poiché le leggi sono date alla natura da Dio, le cose naturali obbediscono alle loro leggi finché Dio lo vuole; ma, se egli non volesse, le cose andrebbero diversamente, senza che vi sia una connessione necessaria tra i fenomeni. La pioggia, per esempio, normalmente segue alla nube, ma Dio potrebbe far piovere pietre, o la stessa acqua, senza l’intermediazione della nube! Anticipando inconsapevolmente un aspetto dello “scetticismo” di Hume (filosofo empirista inglese del ‘700), Pier Damiani sostiene che non possiamo prevedere nessun evento futuro basandoci sulle nostre esperienze passate, poiché tutto ciò che accade potrebbe accadere altrimenti, secondo l’imperscrutabile e onnipotente volontà divina. Tale onnipotenza non trova un limite neppure nel passato: giacché Dio può fare che le cose

4 Franco Alessio, “Il pensiero dell’occidente feudale”, cit., p.387

5 Franco Alessio, “Il pensiero dell’occidente feudale”, cit., p.387-388

L'esterno dell'eremo e della basilica del Monastero di Fonte Avellana

Comune di Serra Sant'Abbondio - Provincia di Pesaro e Urbino

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accadute non siano accadute; ovvero, essendo la volontà di Dio eterna, quindi fuori dal tempo, poteva non farle accadere. Così Pier Damiani può rispondere all’abate di Montecassino che, se Dio volesse, potrebbe ridare la verginità alla fanciulla che l’avesse perduta o, meglio, potrebbe far sì che il fatto non sia mai accaduto, come potrebbe fare sì <<che Roma non sia esistita>>. Il passato è il “nostro” passato di noi che siamo nel tempo, ma Dio non è nel tempo, è eterno; non è nello spazio, è infinito. Eternità temporale e infinità spaziale sono la semplicità assoluta, quella simplicitas assoluta che il monaco deve imitare e a cui deve aspirare. Queste tesi sull’onnipotenza divina (che a molti Scolastici sembravano implicare una vanificazione dello stesso principio di non contraddizione, poiché, per esempio, “le cose accadute non sono accadute”...) venivano utilizzate da Pier Damiani, non solo per togliere validità autonoma all'intero mondo della natura e alla storia umana, ma anche, in campo politico, per togliere all'imperatore ogni dignità di potenza autonoma e di considerarlo come un semplice delegato del papa.

3 – Logica e simplicitas in Anselmo d’Aosta

Con Anselmo d’Aosta (1033-1109) l’aut-aut di Pier Damiani – o logica o simplicitas – viene a cadere,

poiché, come vedremo, nel Proslogion (opera che rappresenta l’apice della Scolastica dell’XI secolo) la logica trionfa nella simplicitas, e la simplicitas è la simplicitas della logica. Anselmo, nato ad Aosta nel 1033, si formò all’insegnamento di Lanfranco da Pavia (priore dell’abbazia benedettina di Bec, in Normandia) da cui apprese grammatica e logica e un uso prudente della dialettica, concepita sempre al servizio della fede cattolica.

Divenuto a sua volta priore e poi abate di Bec, Anselmo vi passò gli anni intellettualmente più fertili della sua vita, scrivendo (tra il 1076 e il 1078) il Monologion e il Proslogion. Nel 1093 lascia l’abbazia e l’insegnamento per accettare l’incarico di arcivescovo di Canterbury, in Inghilterra. Dopo travagliate vicende legate ai conflitti tra papato e monarchia inglese, che indussero Anselmo a prendere la via dell’esilio, nel 1103, egli riprese il suo incarico di arcivescovo di Canterbury fino alla morte, avvenuta nel 1109. Nell’affrontare i problemi relativi al rapporto tra fede e ragione Anselmo si ispira al principio agostiniano: crede ut intelligas (“credi per capire”); ma, essendo altrettanto vero che anche la ragione, come la fede, deriva dall’illuminazione divina, è possibile, e a volte necessario, dimostrare la fede con motivi razionali (nella versione agostiniana: intellige ut credas, “capisci per credere”. Fondamentalmente, Anselmo è convinto che non vi possa essere contraddizione tra fede e logica, poiché il loro accordo è intimo ed essenziale, anche se le modalità di questo accordo possono essere diverse. In un primo momento, nel Monologion, Anselmo vi perviene con più argomentazioni basate sull’esperienza (che la tradizione filosofica chiamerà a-posteriori); in un secondo momento, nel Proslogion, con un’unica argomentazione logica a-priori, cioè senza il minimo ricorso all’esperienza, ma solo sulla base della definizione della semplice parola “Dio”.

Nel Monologion (“soliloquio”) il metodo filosofico-razionale utilizzato da Anselmo è l’esemplarismo e il gradualismo, di ispirazione platonica. Vi sono infatti nel mondo molti “beni”, quali più, quali meno (per esempio bene è la salute, ma, quando c’è la salute, meglio la bellezza, ecc.). Gli innumerevoli beni, pur essendo diversamente beni gli uni rispetto agli altri, sono tutti beni. Dobbiamo, per forza logica, concludere che ci deve essere un “sommo bene” in virtù del quale tutti i singoli beni, fra loro diversi, mostrano d’essere “bene”. Questo “sommo bene” che non ha “né pari né migliori di sé”, e costituisce tutti gli altri beni, è Dio. Il ragionamento che ha portato al “sommo bene” (prima prova), può essere ripetuto in modo analogo per le cose più o meno grandi, dalle quali possiamo inferire il “sommamente grande”(seconda prova); per gli innumerevoli e diversi “esseri”, da cui il “sommo ente” (terza prova); infine, per i diversi gradi di “valore” dei vari enti, da cui il “sommo valore” (quarta prova). Come si è già detto, tutte queste prove sono a-posteriori, partono cioè dall’esperienza del mondo per risalire (con logica necessità) a Dio come condizione necessaria dell’esperienza stessa.

Una statua di Anselmo d'Aosta collocata all'esterno della cattedrale di Canterbury

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Nel Proslogion (“colloquio”) invece l’argomentazione non tiene metodologicamente conto dell’esistenza del mondo; il mondo dell’esperienza, con tutti i suoi beni, i suoi esseri, i suoi gradi, viene messo tra parentesi. Più tardi si dirà che l’argomentazione è a-priori, ovvero che avviene nel puro regno della logica. Il “colloquio” in realtà è un vero e proprio “duello” tra Anselmo e l’insipiens. <<1) L’insipiens è un singolare personaggio che Anselmo “ricorda” dalla Bibbia. Anzitutto, non è uno sciocco qualunque. Non è nemmeno un minorato: ha orecchie per udire parole. Ancora, non è uno sprovveduto: ha intelletto per intendere il significato delle parole che ode, conosce quanto basta la logica per intendere definizioni, farsi convincere da argomentazioni logiche, sapere che contraddirsi è il peggio per un essere raziocinante. Il duello è dunque ad armi pari. 2) Sin qui identico ad Anselmo, l’insipiens si mostra quale egli è: l’uomo che dice “no” all’esistenza di Dio. Singolare personaggio, conosce le armi della logica (scientia) e tuttavia rifiuta la Sapientia: egli è il “no” dell’incredulo di contro al “sì” del credente Anselmo. Ad armi pari, il duello è fra avversari>>

6.

Partendo dalla semplice definizione della parola Deus: “qualcosa di cui nulla può pensarsi più grande”, Anselmo fa cadere l’insipiens in contraddizione logica, per concludere che Dio non può nemmeno essere pensato come non esistente! Leggiamo direttamente l’argomentazione logica di Anselmo nel Proslogion:

<<Non tento, o Signore, di penetrare la tua profondità, poiché non posso neppure da lontano paragonarle il mio

intelletto; ma desidero intendere almeno fino a un certo punto la tua verità, che il mio cuore crede e ama. Non cerco

infatti di capire per credere, ma credo per capire. Poiché credo anche questo: che “se non avrò creduto non potrò capire”

(Is, 7, 9).

Dunque, o Signore, che dai l’intelligenza della fede, concedimi di capire, per quanto sai che possa giovarmi, che tu

esisti, come crediamo, e sei quello che crediamo.

Ora noi crediamo che tu sia qualcosa di cui nulla può pensarsi più grande. O forse non esiste una tale natura, poiché “lo

stolto disse in cuor suo: Dio non esiste” (Sal, 13,1; 52, 2)? Ma certo quel medesimo stolto, quando ode ciò che dico, e

cioè la frase “qualcosa di cui nulla può pensarsi più grande”, intende quello che ode; e ciò che egli intende è nel suo

intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro infatti è che una cosa sia nell’intelletto, altro è

intendere che la cosa sia. Infatti, quando il pittore si rappresenta ciò che dovrà dipingere, ha nell’intelletto l’opera sua,

ma non intende ancora che esista quell’opera che egli ancora non ha fatto. Quando invece l’ha già dipinta, non solo l’ha

nell’intelletto, ma intende pure che l’opera fatta esiste. Anche lo stolto, dunque, deve convincersi che vi è almeno

nell’intelletto una cosa della quale nulla può pensarsi più grande, poiché egli intende questa frase quando la ode, e tutto

ciò che si intende è nell’intelletto.

Ma certamente ciò di cui non si può pensare il maggiore non può esistere solo nell’intelletto. Infatti, se esistesse solo

nell’intelletto, si potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà, e questo sarebbe più grande. Se dunque ciò di cui

non si può pensare il maggiore esistesse solo nell’intelletto, ciò di cui non si può pensare il maggiore sarebbe ciò di cui

si può pensare il maggiore. Il che è contraddittorio. Esiste dunque senza dubbio qualche cosa di cui non si può pensare il

maggiore e nell’intelletto e nella realtà.

E questo ente esiste in modo così vero che non può neppure essere pensato non esistente. Infatti si può pensare che

esista qualche cosa che non può essere pensato non esistente; e questo è maggiore di ciò che può essere pensato non

esistente. Onde se ciò di cui non si può pensare il maggiore può essere pensato non esistente, esso non sarà più ciò di

cui non si può pensare il maggiore, il che è contraddittorio. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste in

modo così vero, che non può neppure essere pensato non esistente.

E questo sei tu, o Signore Dio nostro. Dunque esisti così veramente, o Signore Dio mio che non puoi neppure essere

pensato non esistente… Nessuno infatti che intenda ciò che è Dio può pensare che Dio non esista, anche se dice in cuor

suo queste parole, o senza dar loro significato o dando loro un significato diverso. Dio infatti è ciò di cui non si può

pensare il maggiore. Ora chi intende bene questo, capisce che egli esiste in tal modo da non poter neppure essere

pensato non esistente. Chi dunque capisce che Dio è tale, non può pensare che egli non esista.

E ti ringrazio, buon Signore, ti ringrazio, poiché quel che prima ho creduto per tuo dono, ora lo intendo grazie al tuo

lume, sì che anche se non volessi credere che tu esisti, non potrei non capirlo con l’intelligenza>>7.

In questo rapidissimo duello, la sconfitta dell’insipiens è già segnata appena ammette di comprendere il significato della parola Deus. Infatti, comprendere il significato di una parola significa riconoscerla come un’idea del proprio intelletto, anche se non si riconosce a questa idea un’esistenza extra-mentale. A questo punto l’insipiens ha già perso, poiché “qualcosa di cui nulla può pensarsi più grande” è ciò che, per definizione, si potrebbe pensare “più grande” di una pura e semplice esistenza solo mentale, ovvero si potrebbe pensare come esistenza reale. Dunque l’insipiens cade in contraddizione nell’atto stesso in cui afferma di avere il concetto di Dio solo nell’intelletto, poiché ciò equivale ad ammettere, contro il principio del

“terzo escluso” (tertium non datur), che “qualcosa di cui nulla può pensarsi più grande è ciò di cui si può pensare il più grande!”.

6 Franco Alessio, “Il pensiero dell’occidente feudale”, cit., p.392

7 Anselmo d’Aosta, Proslogion, 3, 5, in Opere filosofiche, Laterza, Bari 1969, pp. 89-91

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Detto in termini simbolici: se Dio [D] è <<il maggiore>>, ma è solo nell’intelletto [I], quindi D=I, allora potrebbe esserci D=(I+R) (dove [R] sta per realtà) che è maggiore di D=I. L’unica possibilità per non contraddirsi (in particolare, per non violare il principio del “terzo escluso”, poiché D non può essere contemporaneamente = e ≠…) è di ammettere che Dio, per essere “il maggiore”, deve per forza esistere; infatti: (I+R) > I. Più tardi questo passaggio immediato dal mondo della logica alla realtà di Dio, verrà chiamato argomento ontologico.

L’aspetto più notevole del Proslogion è che il trionfo della logica pura (senza nessun ricorso all’esperienza) è, al tempo stesso, il trionfo della semplicità.

Con la stessa semplicità con cui gli architetti dell’XI secolo onoravano Dio, mediante le forme di una cattedrale romanica (forme basate su semplici regole aritmetico-geometriche, fondate sulla proporzione), Anselmo dimostrava l’esistenza di Dio con un solo, semplice, folgorante argomento logico-ontologico. Questa semplicità sarebbe piaciuta a Pier Damiani, ma, a differenza dell’eremita di Fonte Avellana, logica e simplicitas trionfano insieme: <<La dura alternativa di Pier Damiani – o logica o simplicitas – svanisce: assistiamo ad una logica saldata con la simplicitas da un monaco che è uno zelante maestro anche come abate>>

8.

l

3 – Le vicissitudini dell’argomento ontologico Nella storia del pensiero filosofico-teologico l’argomentazione ontologica ha avuto alterne fortune, anche se possiamo dire che è stata rifiutata dalla maggioranza dei filosofi. Il primo ad accorgersi del problema insito nello “stratagemma” logico di Anselmo fu un suo contemporaneo, il

monaco Gaunilone di Marmoutier, autore di un Liber pro insipiente che, in realtà, più che una difesa

dell’insipiens è una confutazione di Anselmo. La confutazione di Gaunilone consiste, fondamentalmente, nella distinzione tra il significante (il suono della parola Deus) e il significato (o idea di Dio). Noi intendiamo i significati delle parole solo perché, direttamente o indirettamente, abbiamo “visto” le cose che esse significano. Ora, l’insipiens non ha mai visto la realtà di Dio, per cui la parola Deus rimane solo un suono nelle sue orecchie, senza penetrare nel suo intelletto. Pretendere di ricavare l’esistenza di Dio dalla definizione (a-priori) “qualcosa di cui nulla può pensarsi più grande”, sarebbe come, obietta Gaunilone, dedurre l’esistenza di un’isola dall’averla definita “perfettissima”:

<<Alcuni dicono che in qualche parte dell'oceano vi è un'isola, che [...] supera per abbondanza di beni tutte le altre terre

[...]. Ma se poi costui, come conseguenza di quanto detto, aggiunga: "Non puoi più dubitare che quest'isola, superiore a

tutte le altre terre, che con certezza sai esistere nel tuo intelletto, esista veramente nella realtà in qualche luogo; e poiché

è meglio esistere anche nella realtà che esistere solo nell'intelletto, è necessario che quest'isola realmente esista; poiché,

se non esistesse, qualsiasi altra terra esistente nella realtà sarebbe migliore di essa e così quest'isola già intesa da te

come migliore, non sarebbe migliore". [...] Se, dico, costui con parole volesse assicurarmi che veramente non si può

8 Franco Alessio, “Il pensiero dell’occidente feudale”, cit., p.390

Facciata della chiesa di San Michele Maggiore a

Pavia - Stile romanico-lombardo - Secoli XI-XII L’architettura romanica si basava su principî universali e razionali. Nelle sue grandi costruzioni applicava un sistema metrico, procedendo, nelle planimetrie, sulla base della semplice forma del quadrato. Gli architetti romanici riuscirono a far risaltare la bellezza delle pesanti mura (dovute a carenze tecniche) e delle superfici massicce, facendo leva soprattutto sulla proporzione e rinunciando ad altri facili effetti, quali l’uso dei colori, dei mosaici e di materiali preziosi.

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dubitare dell’esistenza di quest’isola, io crederei che, così parlando, egli voglia scherzare>>9.

Ovviamente Gaunilone crede in Dio, ma è convinto che le <<argomentazioni più robuste>> siano <<le argomentazioni che servono a scuotere il cuore dell’incredulo, non a convincere il suo intelletto; del resto – si chiedeva un monaco – che farsene di una mente convinta, con un cuore incredulo?>>

10.

Anselmo, nel Liber apologeticus, si difende sostenendo che il concetto di perfezione assoluta (“qualcosa di cui nulla può pensarsi più grande”) non può applicarsi alle idee delle cose mondane, come un’isola, ma solo all’idea di Dio. In realtà l’arcivescovo di Canterbury “aggira” il vero problema sollevato da Gaunilone, ovvero la legittimità del passaggio dal piano logico al piano ontologico. In altre parole, un conto è il piano del pensiero, con le sue deduzioni logiche, e un altro conto è il piano dell’esistenza effettiva di ciò di cui si parla: in virtù di che cosa si può legittimamente passare dal concetto di Dio alla sua realtà? Secondo lo storico della filosofia e della scienza, Ludovico Geymonat, Anselmo e Gaunilone sono i rappresentanti emblematici di due modi, altrettanto importanti, di concepire la ricerca filosofico-scientifica:

<<Ciò che dà loro un posto molto significativo in questa storia, è la loro capacità di inserire nella fede la discussione

razionale e di precisare attraverso i loro dibattiti due posizioni – quella dell’apriorismo metafisico e quella del più

schietto empirismo – che sono fondamentali per qualunque indagine filosofica (ispirata o no alla fede) e che vedremo

ricomparire in fasi assai più mature del pensiero umano>>11

.

La posizione di Gaunilone è stata ripresa, quasi due secoli dopo, da Tommaso d’Aquino (che, all’apice della Scolastica, aveva elaborato le famose “cinque vie”, a-posteriori, che dimostravano l’esistenza di Dio). Secondo Tommaso, l’arcivescovo di Canterbury presupponeva già, surrettiziamente, ciò che voleva dimostrare, ovvero l’esistenza di un essere perfettissimo. Infatti, il vero problema non è di sapere se un essere perfettissimo, in quanto tale, possa fare a meno di esistere (ovviamente, per essere perfetto, o “completo”, deve anche esistere), ma quello di sapere se esso realmente esista! <<Per chiarire l’argomentazione tomistica: dicendo che, se nel Partenone di Atene esiste un quadrato d’oro, esso deve per forza avere quattro lati, è ovvio che non ci si sbaglia. Il vero problema rimane però quello di sapere se tale quadrato d’oro esista realmente>>

12.

In età moderna il principale sostenitore dell’argomento ontologico anselmiano fu il filosofo razionalista Cartesio che lo utilizzò (assieme ad altre due prove a-priori) nelle sue dimostrazioni dell’esistenza di Dio, un concetto metafisico funzionale alla costruzione della sua visione razionalistica e meccanicistica dell’universo. Con Cartesio, accolsero l’argomento ontologico altri filosofi razionalisti del ‘600-‘700, come Spinoza e Leibniz.

La critica all’argomento ontologico verrà ripresa, verso la fine del ‘700, dal grande filosofo Immanuel Kant, fondatore del “criticismo” nell’ambito della gnoseologia (teoria della conoscenza). Kant, nella Critica della ragion pura, da un lato riprende la critica di Tommaso d’Aquino, sostenendo che l’argomento ontologico è tautologico, in quanto presuppone già quello che deve dimostrare (cioè l’esistenza di Dio); dall’altro lato è impossibile, in quanto si fonda sulla pretesa, indimostrabile, di poter derivare l’esistenza (di Dio) da un’idea, ovvero di poter passare immediatamente dal piano logico al piano ontologico, senza ricorrere all’esperienza.

9 Difesa dell’isipiente (Liber pro insipiente), cap. VI, in: Anselmo d'Aosta, Proslogion; con la Difesa dell’insipiente da

parte di Gaunilone e la Risposta di Anselmo; introduzione, traduzione e note di Lorenzo Pozzi, Milano, BUR, 2012 10

Franco Alessio, “Il pensiero dell’occidente feudale”, cit., p.394 11

L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Vol. 1, L’antichità-Il medioevo, Garzanti, MI, 1981, p. 423 12

Abbagnano-Fornero, La ricerca del pensiero, Vol. 1B, Dall’ellenismo alla scolastica, Paravia, MI, 2012, p.209

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LA PHILOSOPHIA DEI MONACI: LOGICA E SIMPLICITAS

PAROLE CHIAVE

Scolastica: termine per indicare la cultura elaborata nelle scholae, il cui asse portante fu il rapporto fede-

ragione. In questo rapporto emerge il ruolo della Filosofia, intesa soprattutto come strumento di interpretazione della Sacra Scrittura, di chiarificazione e difesa della fede, in vista della costruzione di una sistematica dottrina teologica.

Arti liberali: quelle discipline che, nella concezione del sapere della Scolastica medievale, costituivano il

“trivio” (grammatica, retorica, logica o dialettica) e il “quadrivio” (aritmetica, geometria, astronomia, musica). Le sette Arti, nell’ordinamento di Alcuino, dovevano costituire i sette gradini di una scala gerarchica (hyerarchia) che monaci e discepoli dovevano salire per arrivare alla fine (ovvero al “fine”): penetrare la parola di Dio. L’intera scala porta il nome di Philosophia che racchiude in sé sette “serve” (ancillae), la cui funzione è, appunto, quella di agevolare la penetrazione dell’ordine divino finalizzato alla salvezza.

Transustanziazione: “mutamento di sostanza”, da pane a Corpo di Cristo e da vino a Sangue di Cristo,

nell’Eucarestia.

Simplicitas: concetto teorico, e atteggiamento morale, proprio di alcuni monaci-maestri dell’Alta

Scolastica, contro la pretesa della dialettica di assumersi in modo arrogante il ruolo principale nella vita dell’uomo, il quale deve invece limitarsi a seguire l’insegnamento delle Sacre Scritture. Per Pier Damiani, infatti, l’origine del male risiede proprio nella brama di andare oltre il limite, in particolare nell’oltrepassare il limite della semplice necessità per accedere al superfluo.

Argomento ontologico: argomentazione (comparsa per la prima volta nel Proslogion di Anselmo

d’Aosta) a-priori, ovvero che avviene nel puro regno della logica, dell’esistenza di Dio, senza il minimo ricorso all’esperienza, ma solo sulla base della definizione della semplice parola “Dio”.

Logico: che riguarda il pensiero razionale, il quale si basa sul principio di non contraddizione.

Ontologico: che riguarda il piano dell’essere o della realtà (delle cose, dell’universo, di Dio).

Tautologia: ripetizione, nella definizione di un concetto, del concetto stesso o del contenuto che vi è già

implicito. Il predicato della proposizione tautologica si limita a rendere esplicito ciò che è già implicito nel concetto del soggetto.

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LA PHILOSOPHIA DEI MONACI:

LOGICA E SIMPLICITAS

BIBLIOGRAFIA UTILIZZATA

Franco Alessio, “Il pensiero dell’occidente feudale”, in Vegetti-Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, Vol. 1°, Zanichelli, BO, 1989

Anselmo d’Aosta, Proslogion, 3, 5, in Opere filosofiche, Laterza, Bari 1969

Anselmo d'Aosta, Proslogion; con la Difesa dell’insipiente da parte di Gaunilone e la Risposta di Anselmo; introduzione, traduzione e note di Lorenzo Pozzi, Milano, BUR, 2012

Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Vol. 1, L’antichità-Il medioevo, Garzanti, MI, 1981

Abbagnano-Fornero, La ricerca del pensiero, Vol. 1B, Dall’ellenismo alla scolastica, Paravia, MI, 2012