7
le vie della scienza, le vie dell’educazione La ragione cartografica, ovvero la nascita dell'occidente Franco Farinelli Università di Bologna Modena, 7 settembre 2007

La ragione cartografica, ovvero la nascita dell'occidente

Embed Size (px)

DESCRIPTION

Acerca de la historia y el nacimiento de la cartografía occidental.

Citation preview

Page 1: La ragione cartografica, ovvero la nascita dell'occidente

le vie della scienza, le vie dell’educazione

La ragione cartografica, ovvero la nascita dell'occidenteFranco FarinelliUniversità di Bologna

Modena, 7 settembre 2007

Page 2: La ragione cartografica, ovvero la nascita dell'occidente

1

LA RAGIONE CARTOGRAFICA, OVVERO LA NASCITA DELL’OCCIDENTE

“Wittgenstein, state pensando alla logica o ai vostri peccati?” . “A tutt’e due” rispose, e si richiuse nel silenzio. B. Russell, Ritratti a memoria 1. “Erano bei tempi, splendidi, quelli dell’Europa cristiana, quando un’unica cristianità abitava questo continente di forma umana”, scriveva Novalis nel 1799. Nel Medioevo l’Europa aveva forma umana perché allora non esisteva, o quasi, lo spazio, e il mondo si componeva di un insieme di luoghi. Spazio è una parola che deriva dal greco stàdion. Per gli antichi greci lo stadio era l’unità di misura delle distanze, e significava dunque alla lettera un intervallo metrico lineare standard. Ne deriva che all’interno dello spazio tutte le parti sono l’un l’altra equivalenti, nel senso che sono sottomesse alla stessa astratta regola, che non tiene affatto conto delle loro differenze qualitative. Tale regola è quella rappresentata dalla scala, che dal Cinquecento inizia ad apparire sistematicamente sulle carte, e indica il rapporto tra le distanze lineari del disegno e quelle che esistono nella realtà. Di conseguenza se il mondo è ridotto ad un unico spazio ogni parte può essere sostituita da un’altra senza che nulla venga alterato, proprio come quando due cose che hanno lo stesso peso vengono spostate da un piatto all’altro di una bilancia senza che l’equilibrio venga compromesso. Luogo, al contrario, è una parte della superficie terrestre che non equivale a nessun altra, che non può essere scambiata con nessun altra senza che tutto cambi, perché le qualità di un luogo sono irriducibili a quelle di qualsiasi altro. Va da sé che spazio e luogo non sono cose ma immagini o modelli che ci facciamo delle cose, non corrispondono al significato del mondo, per riprendere la distinzione di Frege, ma soltanto a due suoi diversi sensi, a due opposte maniere in cui esso può presentarsi. E poiché ogni luogo ha la sua particolare misura, nessuna di esse è standard. Se il mondo è un insieme di luoghi ,e lo pensiamo e rappresentiamo nella sua interezza, le cose si limitano a stare tra loro in proporzione, come accade sul globo, per il quale non esiste scala, sul quale non vi è, a rigore, nemmeno un pezzetto di spazio. Dunque, poiché lo spazio serve a ridurre il mondo a tempo di percorrenza, a meno di non essere un messaggero o un soldato nel medioevo il problema della velocità in genere non esisteva. Ciò valeva anche per i mercanti, l’arma dei quali era la segretezza delle relazioni e delle fonti di approvvigionamento piuttosto che la rapidità.

Si prenda il caso di Marco Polo, il più celebre dei mercanti e viaggiatori medievali, che nell’ultimo quarto del Duecento da Venezia arriva in Cina lungo la “via della seta” attraverso la Persia, l’Afghanistan, il Turkestan. Egli cavalca lungo una strada lunga e pericolosa, sebbene conosciuta da millenni, e ogni giorno si presenta l’opportunità, se non la necessità, della correzione dell’itinerario, e della sosta. Nella città cinese di Canpiciou (oggi Zhangye, passato il deserto del Takla Makan e ad ovest del Fiume Giallo) Marco, insieme con suo padre Niccolò e suo zio Maffeo, soggiornano ad esempio un anno intero, per fatti loro. Si comprende allora come Marco conoscesse tutti gli idiomi dei paesi attraversati: il turco parlato dai mongoli, il persiano arabizzato, il mongolo, il turco che parlano gli Uiguri che abitano il Sinkiang. Prima di tornare indietro, i Polo vissero nei domini del gran Khan, l’imperatore dei mongoli, per quasi diciassette anni.

Page 3: La ragione cartografica, ovvero la nascita dell'occidente

2

Marco dunque cavalcava senza fretta, sostando ogni sera nei caravanserragli e per mesi interi, all’occorrenza oppure a piacimento, nelle città, apprendendo lingue e costumi, informazioni e racconti. E ogni giorno le cose del mondo gli rivelavano la loro propria durata, e allo stesso tempo misuravano quella della sua vita. Nel Milione infatti, lo straordinario resoconto dei viaggi di Marco, i deserti, le foreste, le montagne non hanno ancora lunghezza, così come le direzioni del cammino non sono ancora fissate secondo l’astratta rigidità dei punti cardinali. Per avanzare si prende a tramontana oppure a greco, dunque secondo la direzione dei venti, seguendo il loro corso. E al riguardo si leggono espressioni del tipo: “Carcam è una provincia che dura cinque giornate”, oppure “Quando l’uomo si parte e à cavalcato queste venti giornate di montagne di Cuncum”, eccetera. Così come non esiste nel Milione lo spazio, allo stesso modo non esiste il tempo, se non nella forma dell’alternarsi della notte e del dì e delle stagioni. Al contrario, luoghi e giornate sono la stessa cosa, coincidono nell’esperienza del cammino, e gli uni servono da misura alle altre e viceversa. Si tratta di una misura relativa che muta di volta in volta, e che non ha nulla di metrico, di lineare, di standard. Come i luoghi, anche le giornate non sono infatti uniformi. Intanto, le condizioni climatiche variano in continuazione: per il loro ritorno in Cina i Polo impiegano tre anni e mezzo, a causa della neve, della pioggia e delle grandi inondazioni, e perché cavalcare d’inverno è tutt’altra cosa che cavalcare d’estate. Inoltre, cambia di continuo la natura dei luoghi e di conseguenza il mezzo di locomozione. Dalle fonti trecentesche si ricava che il tempo medio per arrivare da Tana in Crimea alla Cina era allora, per un mercante, di circa 9 mesi, nell’ordine così suddivisi: 25 giorni con carri trainati da buoi, 9 per via acqua, 50 giorni con una carovana di cammelli, 115 con somari someggiati, 75 a cavallo.

Esisteva soltanto un’alternativa, grazie alla quale si impiegava fino ad un decimo del tempo normale: lo yam, il sistema postale dell’impero mongolo, basato su una rete di stazioni per messaggeri che dalla capitale Canbaluc si diramavano per tutto il regno ad intervalli di 25 miglia l’una dall’altra. E’ l’unico esempio di spazio che Marco descrive, dominio della linearità e perciò della rapidità e dell’equivalenza delle parti, funzionale soltanto al controllo del territorio, all’esercizio del potere. Ma non è certo il mondo di Marco, se mai egli ne ha avuto uno. Di sicuro egli avrebbe ricordato molte più cose, si legge in un manoscritto inedito del Milione, se un giorno avesse mai pensato di tornare indietro. Soltanto lo spazio, che è uniforme e continuo, implica il ritorno, la reversibilità del movimento. Ma se il mondo si compone di luoghi, di parti non continue, non omogenee cioè non composte della stessa sostanza, non isotropiche cioè non voltate nella stessa direzione, non è detto che il ritorno del viaggiatore avvenga. Anzi. E il mondo di Marco, dove i luoghi durano piuttosto che essere estesi, è senza spazio perché egli viaggia senza mappe. 2. Nel caso di Cristoforo Colombo, il primo dei viaggiatori moderni, vale invece tutto il contrario. Il suo problema è la fretta, tornare indietro quanto prima. E’ per questo che cerca il levante andando verso ponente. In quel che resta del suo diario di bordo del primo viaggio, sono riportati anzitutto calcoli, rapporti cioè tra grandezze spaziali e temporali del tutto convenzionali (l’ora, la lega, il miglio) giustificate soltanto dal fatto che quel che preme è la velocità, cioè l’astratto rapporto tra astratte quantità. E tali relazioni si situano all’interno di un ambito altrettanto astratto, non più definito dal nome dei venti, che pure continuano a soffiare, ma dalla invariabile geometria dei punti cardinali. Questo accade perché la rappresentazione geografica ha già preso il posto del mondo, lo spazio ha già ricompreso e assorbito tutti i luoghi, la carta fa già le veci di quel che raffigura fino ad anticiparne la natura e le fattezze, e prefigurarne addirittura l’esistenza. Si consideri quanto è riportato, in quel che resta del diario di bordo, alla data del 25 settembre. Sia Colombo che Martin Pinzòn, il comandante della Pinta, sono ormai convinti di essere vicini alla terra. Tale convinzione si fonda sul semplice fatto che ambedue hanno “trovato dipinte certe isole in quelle acque”, verosimilmente sulla carta dell’oceano preparata per Fernando Martinez, canonico di Lisbona, da Paolo dal Pozzo Toscanelli, il più grande e misterioso tra i cosmografi moderni, e da questi trasmessa in copia al navigatore genovese. Soltanto il giorno dopo “ci s’avvide che quella che avevano detto esser terra, non era terra, ma cielo”.

Page 4: La ragione cartografica, ovvero la nascita dell'occidente

3

Si dirà che si tratta di semplice impazienza, e che comunque non erano molto lontani dalla costa, avendo ormai percorso circa tre quarti della distanza. Resta il fatto che, una volta arrivati, sono convinti di essere dove non sono. Soltanto verso la fine dei suoi giorni, nel corso della quarta spedizione, Colombo sarà colto dal sospetto che la terra da lui toccata non sia il favoloso Catai di Marco Polo ma un “altro mondo”, un “nuovo mondo”, termini che significativamente iniziano a comparire soltanto nella relazione del terzo viaggio. E se non fosse in fondo tragica, la serie di equivoci che ne segue sarebbe, come le autentiche tragedie, a tratti davvero esilarante. Quel che in ogni caso riesce commovente è lo sforzo di Colombo, giunto davvero in vista della terra, per far coincidere quel che vede, e che Toscanelli non ha mai visto, con i tratti e i lineamenti dipinti sulla carta che porta con sé, cui crede ciecamente. In altre parole: pur di rendere conforme la terra alla sua immagine cartografica, egli piglia a calci il mondo. Se nel mondo di Marco Polo, dove non esiste né spazio né tempo, le cose durano, in quello di Colombo, dominato invece dall’astrazione spazio-temporale, esse al contrario sono estese: le miniere di Beragua, spiega ad esempio nella relazione del suo ultimo viaggio, “si estendono lo spazio di venti giornate a ponente e si trovano ad eguale distanza dal polo e dalla linea equinoziale”. Lo spazio significa qui l’intervallo tra un nodo e l’altro del reticolo dei meridiani e dei paralleli, esattamente secondo il metodo messo a punto da Tolomeo nel secondo secolo d.C. per trasformare il globo terrestre in una mappa. Ed è proprio tale astrattissima misura a ricomprendere ed inghiottire per sempre, come il suo letterale significato evidentemente esprime, i giorni (i viaggi, il mondo) di Marco Polo.

Le cose stanno quindi esattamente all’opposto di quel che ancora oggi spesso si crede: l’effetto dell’impresa di Colombo, il primo viaggiatore che viaggia con una mappa, non fu affatto quello di rendere sferica l’immagine della Terra che prima si supponeva piatta, ma al contrario di trasformare tutta la Terra, da sferica che era e si credeva, in una gigantesca tavola, in un gigantesco spazio, in un’unica gigantesca mappa. Così nasce, con l’impresa colombiana, l’Occidente: esso nasce quando l’Europa perde la propria “forma umana”, quella che Novalis tanto rimpiangeva.

3. Ma quando la Terra aveva assunto forma umana, e a quale prezzo? Già per Tolomeo, il più grande geografo dell’antichità, la Terra “è una testa”. Ma la testa di chi? La storia di Salomè insegna che si tratta della testa di Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti e il primo degli apostoli cristiani. “Tabula rasa del desiderio”: è questa per René Girard1 la definizione di Salomè, la cui danza ha sedotto l’intera immaginazione occidentale. Per Girard tale definizione resta soltanto una metafora ma invece essa va intesa assolutamente alla lettera, come la più folgorante e precisa definizione della carta geografica. Si pensi al particolare decisivo dell’intero racconto, l’”unico di cui ci si ricorda quando si è dimenticato tutto”, perché è su di esso “che tutto riposa, indubitabilmente”: il “vassoio”, il piatto su cui Salomè comanda le sia portato il capo di Giovanni. A Girard ciò pare soltanto “un riflesso da buona casalinga”, e comunque “il massimo della piattezza”. Ma sia Marco che Matteo, gli evangelisti che sono stati i primi a narrarci questa storia, non dicono affatto che si tratta di un semplice piatto. Ambedue adoperano il termine pínax (discus traduce la versione latina) che significa, prima di vassoio, tavola che reca un disegno oppure una pittura e comunque una figura. Vale a dire esattamente la stessa parola con cui Strabone prima ed Agatemero poi designano quel che sbrigativamente indichiamo come la prima carta, ma che più propriamente costituisce la prima raffigurazione geografica della Terra che la nostra cultura ricordi: la tavola di Anassimandro. La cui “tracotanza”, la cui empietà consiste appunto, a differenza di quanto sostengono le interpretazioni correnti, nell’aver per primo osato fissare e perciò uccidere, con la sua scultura filosofica, la natura, che per definizione era per i Greci perpetuo processo e movimento, nell’aver perciò sacrificato la vita del mondo in funzione della conoscenza (del dominio del mondo stesso, nell’aver dunque introdotto l’equivalenza tra rigore scientifico e rigore (rigidità) della morte - soltanto il rigor mortis consente la misurazione di quel che nasce vivo. 1 R. Girard, “La danse de Salomè”, in P. Dumouchel, J. Dupuy et al., L’auto-organisation. De la physique au politique, Paris, Seuil, 1983, pp. 336-52.

Page 5: La ragione cartografica, ovvero la nascita dell'occidente

4

Ma che tavola di Salomè sia una carta (che, anzi, l’episodio della decollazione del Battista sia la prima compiuta illustrazione delle micidiali conseguenze di quel che oggi spensieratamente definiamo il processo della riduzione cartografica) è suggerito, oltre che dal termine che serve alla sua designazione, dal meccanismo del linguaggio di cui la figlia di Erodiade, che per tutta la storia non desidera nè pensa autonomamente, è semplice portavoce: un linguaggio che procede soltanto per nomi propri, come soltanto sulle carte accade. Per nome proprio qui s’intende, esattamente come Whitehead e Russell nei Principia Mathematica prescrivono, ogni “nome che rappresenti in maniera diretta qualche oggetto”. Ovvero, con il Wittgestein del Tractatus: “Il nome è il rappresentante, nella proposizione, dell’oggetto” (3.22). Cioè: “Il nome significa l’oggetto. L’oggetto è il suo significato” (3.203), che è la prima e principale regola della logica cartografica. Come testimonia Norman Malcolm a proposito dell’idea centrale del Tractatus, secondo la quale ogni proposizione è un’immagine, cioè in definitiva una mappa: “L’idea venne a Wittgenstein mentre militava nell’esercito austriaco, durante la prima guerra mondiale. Lesse una rivista che descriveva le circostanze e il luogo di un incidente automobilistico per mezzo di un diagramma o di una cartina; gli venne fatto allora di pensare che quella cartina era una proposizione, e che in essa si rivelava la natura essenziale delle proposizioni, vale a dire la raffigurazione della realtà”2. Girard ha ragione: chiedere la testa di qualcuno, come Erodiade fa con Salomé, implica una dimensione retorica. Salomè invece “prende sua madre alla lettera. Non lo fa apposta”. Ma non perché, come Girard aggiunge, bisogna essere adulti per distinguere le parole dalle cose. Non è semplice questione di età. Al contrario Salomè assume la figura di una bambina appunto perché il suo ruolo consiste nel far coincidere alla lettera le parole con le cose, e non viceversa, nel sostituire cioè alle imprevedibili e indisciplinabili metafore del discorsivo linguaggio quotidiano le prevedibili e disciplinate corrispondenze biunivoche tra cose e parole che regolano ogni linguaggio tecnico, di cui quello cartografico assume pertanto valore archetipico e originario. Esattamente: “il medium è il messaggio”, è il mezzo, nella duplice, letterale accezione di ciò che sta tra due estremi e che pertanto funziona da tramite e perciò da arnese, e che dice non soltanto come le cose si fanno ma anche, prima ancora, che cosa le cose sono. E sulla carta, e soltanto sulla carta, una testa è nient’altro che una testa. Soltanto in virtù di tale (inconsapevole e irriflessa: tra poco si vedrà) funzione ontologica prima ancora che logico-modale il mezzo — il linguaggio cartografico — è in grado di dettare le modalità dell'esecuzione. Di ogni esecuzione, da quella emblematica e cruenta di Giovanni ad ogni successiva realizzazione di un qualsivoglia progetto. Sicché tutto quello che di architettato e costruito vediamo intorno a noi discende dal primigenio sacrificio del Battista, la cui morte, inaugurando l'«epoca dell'immagine del mondo», per riprendere l'espressione di Heidegger, segnala l'avvento del Moderno e ne anticipa la natura.

Con precisione, a sua volta, tecnica. “Voglio che tu mi dia subito su una tavola la testa di Giovanni il Battista”, esclama quella che noi chiamiamo Salomé: né Marco né Matteo le danno in realtà un nome, e noi la chiamiamo così soltanto perché lo storico ebreo Giuseppe Flavio parla di una figlia di Erodiade così nominata. “Subito”: come la tavola, anche la velocotà dell'esecuzione (la rapidità nella realizzazione della fase finale del piano) è qualcosa che la figlia aggiunge per conto proprio, ma non in maniera autonoma, alla richiesta della madre. Ed è proprio Girard, altrove e senza saperlo, a dare ragione di tale aggiunta: nel ripercorrere, sulle orme di Giobbe, l'antica strada degli uomini perversi, e rintracciando nella metafora del torrente l'illustrazione della logica del desiderio. Spiega Girard: “In un clima semidesertico, i corsi d'acqua non forniscono mai agli uomini ciò che essi desiderano. Quando le nevi si sciolgono l'acqua sovrabbonda e rigurgita, ma durante il resto dell'anno, quando regna la sete, non resta che sabbia”. E aggiunge che sono proprio tale “assenza di moderazione”, tale “perpetua congiunzione della mancanza e dell'eccesso”3 a caratterizzare l’universo delle relazioni che riguardano quel che desideriamo. Prima ancora, però, questo è il meccanismo della logica binaria, fondato sull'esclusione di ogni termine intermedio, come soltanto nella rappresentazione cartografica accade. Soltanto su di una tavola geografica una 2 N. Malcolm, Ludwig Wittgenstein, Oxford, Oxford University Press, 1958, p. 37. 3 R. Girard, La route antique des hommes pervers, Paris, Grasset, 1985, pp. 75, 77.

Page 6: La ragione cartografica, ovvero la nascita dell'occidente

5

cosa c’è o non c’è, esiste o non esiste: a differenza di quanta accade nel linguaggio, all'occorrenza carico di sfumature e sapientemente allusivo, tertium non datur. E’ questa la seconda regola della logica cartografica. Ed è a questa regola, appunto, che va riferita la subitaneità nella richiesta della ballerina: proprio come non ammette, sul piano logico, termini mediani, il regime torrenziale del desiderio (dell'atto mimetico, cioè della cartografia) non consente, dal punto di vista del processo, stadi intermedi, ovvero intervalli temporali nel passaggio da uno stadio all'altro. Così, il “vassoio”, cioè la tavola, implica il “subito”, il “subito” la tavola. Altrimenti detto: ciascuno dei due termini sta per una delle due principali norme che governano il linguaggio della carta geografica, che con Russell e Whitehead, prima ancora che con Wittgenstein, diventa il linguaggio della logica.

In altre parole: la messa in atto della richiesta di Erodiade si traduce in una trasformazione ontologica che equivale ad una letterale cosificazione. Esattamente come per il giovane Marx, il prodotto del lavoro umano si presenta qui “come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce”. E proprio l’estraneazione del produttore dal prodotto della sua attività (dal pensiero) determina l’estraneazione dall’attività produttiva stessa, dal linguaggio. Anche in questo caso, come già per Feuerbach prima ancora che per Marx, l'alienazione si fonda sullo scambio di ruolo tra soggetto e predicato: il primo sottomesso, nonostante le proprie umane sembianze, al dominio del secondo. Con la differenza, decisiva, che il predicato in questione (di cui il soggetto diventa predicato: predicato del proprio predicato) non è semplicemente ciò che del soggetto si dice, ma investe alla radice la possibilità stessa che il soggetto ha di dire: è insomma, riguardando l’origine stessa del dire, il predicato originario, quello dal quale tutti gli altri dipendono. E proprio tale carattere stabilisce la primazia (l'originarietà, se si vuole, il carattere primordiale) dell'alienazione di natura linguistico-cartografica rispetto a tutte le altre forme, tutte successive e conseguenti. Sostiene Jean-Pierre Vernant che tutti i miti raccontano un'unica storia: quella della differenza tra chi è primo dal punto di vista temporale e chi è primo dal punto di vista del dominio, tra chi è cronologicamente all'origine del mondo e chi presiede al suo funzionamento. Se cosi è, da Hegel fino ai giorni nostri altro non si è fatto che continuare quest'unico, lunghissimo racconto, con una sola novità: la sostituzione, nel ruolo del prevalente, del “che cosa” al “chi”. Sostituzione che proprio la storia di Giovanni Battista e della sua morte avvia.

Di nuovo: Girard si arresta all'analogia, e non si accorge dell'identità. Così scrive: perché “più leggera, più maneggevole, veramente portatile, la testa assicura una rappresentazione migliore dopo che la si è staccata dal corpo”. E’ evidente che la relazione tra il corpo e la testa di Giovanni viene qui pensata in termini analoghi a quelli che esistono tra la superficie terrestre e la carta geografica, di cui il capo assume tutte le caratteristiche esteriori. Ma, di nuovo, esattamente (ed esclusivamente) in tale amputazione consiste il procedimento della raffigurazione cartografica: nella meccanica mutilazione del rappresentato, che coincide, come ogni esercizio nominalistico, nell’abolizione della questione stessa dell'essenza delle cose, e della riduzione dell'esistenza — dell'unico possibile livello cui la realtà viene schiacciata — a pura e semplice presenza, sprovvista d’ogni ontologica risonanza. Riduzione del reale a semplice presenza (a forma fenomenica, se si vuole) che è appunto la terza e suprema regola dell'atto cartografico.

Quest’ultima segna la sparizione di ogni forma di soggetto: non soltanto di Erode, del soggetto che appare, ma anzitutto di Erodiade, che proprio in quanto nascosta, fuori dalla stanza dove Salomé balla, è il soggetto reale. Nessuno dei due raggiunge il proprio scopo, che è l'esclusività del proprio rapporto con la radice stessa del potere, quella che consiste nella funzione della nominazione: per questo, e soltanto per questo, ambedue si contendono Giovanni il Battista, colui che per definizione (per nome) impone i nomi alle cose, dunque stabilisce l’ambito e il perimetro stesso al cui interno il potere dello stesso re può esercitarsi. E che fa questo in virtù non di un altro potere ma della Legge: il potente Erode, scrive l’evangelista Marco, “temeva Giovanni, sapendolo giusto e santo, e vigilava su di lui; e anche se nell'ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri”. Erodiade raggira Erode ma non annulla la Legge, sconfigge anzi il potere ma soltanto a prezzo della possibilità della manifestazione in termini umani (della visibilità, in fondo) della Legge stessa. Il momento del suo oggettivo trionfo è perciò quello della sua

Page 7: La ragione cartografica, ovvero la nascita dell'occidente

6

personale sconfitta: con l'uccisione del Battista essa cessa di funzionare da “presupposto” del processo in atto, cioè del mondo, e il suo ruolo viene preso dal Presupposto, dal disumano congegno logico-linguistico che corrisponde alla cartografia. Disumano perché impersonale (sebbene non propriamente metafisico) e perché, come la Legge nei romanzi di Kafka, non rimanda a nessun “oltre”, a nessuna verità nascosta. Una sorta di fondamento che precisamente nell’assenza di ogni questione relativa all’essere trova il proprio silenzioso e nascosto Fondamento. L'innominata figlia (non può aver nome chi uccide e perciò muta in disumana la radice stessa della nominazione) danza ancora oggi sotto gli occhi di tutti, e sono le sue sempre più vorticose mosse a produrre il nostro mondo: un computer è nient'altro che una mappa che produce altre mappe. Il regno di Erodiade, invece, non fu mai di questo mondo. L'astutissima donna restò sempre lì, sulla soglia dove s'era nascosta, arrischiandosi sulla Terra soltanto di notte, e il suo destino coincise con quello del sabba, del gran raduno clandestino, da lei guidato, di coloro capaci di partecipare al mondo dei vivi e in-sieme a quello dei morti, alla sfera del visibile e a quella dell'invisibile. E’ dal Seicento che di essa non si sente più parlare4 — ancora oggi, tertium non datur, cioè non videtur.

Davvero perciò, come dice Girard, “il desiderio non è saggio”. Non lo è nemmeno il peccato, che è la sua realizzazione, così come non è saggia la logica, che — abbiamo visto — è il suo strumento (per questo Wittgenstein pensava alla logica quando pensava ai propri peccati, e viceversa). La barra di de Saussure, la linea orizzontale che con la sua interposizione permette di distinguere, all’interno del segno del segno, il significante dal significato, diventa un bar perchè è la stessa cosa del vassoio di Girard: la tavola della Legge, la subdola matrice di ciò che Wittgenstein chiamava “spazio logico”, l’altare quale la realtà viene scomposta e allo stesso tempo tenuta insieme, ciò che non si può toccare si muta in ciò che si può toccare, la presenza in assenza, l'assenza in presenza, le categorie insomma s'incontrano l'un l'altra, l'esistente si muta nel sussistente e viceversa, l’”è” nel “dovrebbe”. Tale altare è la carta geografica, la Carta, “l’agenzia produttrice di pensiero”, come avrebbe detto Freud, da cui l’intera pratica moderna, cioè l’ Occidente, discende. Essa è il Metodo, parola che alla lettera significa “quel che viene dopo (o che sta oltre, cioè di là da) il viaggio”. FRANCO FARINELLI

4 C. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino. Einaudi, 1989, passim.