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UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE SEDE DI BRESCIA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN LETTERE MODERNE LA RAPPRESENTAZIONE DELLA FAMIGLIA NEL CINEMA ITALIANO DEGLI ANNI TRENTA Relatore: Ch.mo Prof. RAFFAELE DE BERTI Tesi di laurea di: MARCO SBICEGO MATRICOLA N°2305869 ANNO ACCADEMICO 1999/2000

La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

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La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta - Tesi di laurea (vecchio ordinamento) in Storia e critica del cinema

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Page 1: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORESEDE DI BRESCIA

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIACORSO DI LAUREA IN LETTERE MODERNE

LA RAPPRESENTAZIONE DELLA FAMIGLIA NEL CINEMA ITALIANO

DEGLI ANNI TRENTA

Relatore:Ch.mo Prof. RAFFAELE DE BERTI

Tesi di laurea di: MARCO SBICEGO

MATRICOLA N°2305869

ANNO ACCADEMICO 1999/2000

Page 2: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Indice

Introduzione .............................................................................................. 5

Capitolo 1.

La famiglia italiana negli anni '30: intervento e influenza del regime. ..13

1.1 Il regime, la tradizione: un sistema integrato................................ 13

1.2 La stabilità della tradizione, i mutamenti dell'età fascista:

un'analisi diacronica tra varianza ed invarianza. ................................. 17

1.3 La famiglia nella prassi filmica tra tradizione e innovazione....... 19

Capitolo 2.

Modelli familiari e generi cinematografici. ............................................ 23

2.1 Il sistema dei generi ...................................................................... 23

2.2 Stereotipi diversi per storie diverse .............................................. 32

2.3 Il qui e l'altrove ............................................................................. 42

Capitolo 3.

Cinema di famiglia, cinema di donne?.................................................... 48

3.1 Protagonisti e spettatori ................................................................ 48

3.2 Il nucleo familiare: chi sotto i riflettori?....................................... 54

3.2.1 La donna protagonista............................................................ 59

3.2.2 L'uomo: oggetto del desiderio e archetipo paterno................ 75

3.2.3 I grandi assenti: bambini e ragazzi ........................................ 83

3.2.4 Il ruolo degli anziani .............................................................. 90

3

Page 3: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Capitolo 4.

La famiglia tradizionale e la sua immagine immutabile. ......................102

4.1 L'invarianza della rappresentazione: un fascismo passivo .........102

4.2 Donne, uomini e stereotipi ottocenteschi....................................106

4.3 Oltre un decennio, anzi due, e nulla è cambiato.........................114

Capitolo 5.

La famiglia nel cinema dal 1930 al 1943: un'analisi diacronica...........121

5.1 l'Italia, il regime, la famiglia: una linea di mutamenti................121

5.2 Movimenti già in atto: gli anni '20 e gli esordi del fascismo .....125

5.3 1930-1936: la fase del consenso tra stereotipi vecchi e nuovi ...130

5.3.1 Contadine, provinciali e nuove Cenerentole.......................136

5.4 1936-1940: i cambiamenti nella società e nella cinematografia

italiana................................................................................................140

5.4.1 Il triennio chiave del regime: gli eventi 1936-38.................141

5.4.2 Telefoni bianchi, rinuncia alla propaganda ed altre novità .146

5.5 1940-1944: la tragedia della guerra e la strada verso "Ossessione".

La famiglia distrutta, la famiglia mancata. ........................................156

5.5.1 Disfatta bellica e disfatta familiare: l' "impossibilità di

famiglia" .........................................................................................161

Conclusioni............................................................................................172

Bibliografia............................................................................................177

Filmografia ............................................................................................180

Immagini

4

Page 4: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Introduzione

Il cinema italiano degli anni Trenta, o, per essere più corretti, il cinema

italiano dal 1930 al 1943, cioè il cinema sonoro del periodo fascista,

gode da ormai venticinque anni di una ritrovata attenzione critica. Il

primo passo verso una rilettura, sentita ormai come necessaria, di quel

cinema si situa proprio a cavallo fra 1974 e 1976, con le fondamentali

iniziative della Mostra del nuovo Cinema, i convegni di Pesaro e di

Ancona con le relative retrospettive e pubblicazioni.

È in quelle occasioni, e da allora in poi, che si comincia a parlare forse

per la prima volta del cinema dell'età fascista in un modo nuovo,

finalmente libero da pregiudiziali ideologiche legate al ricordo della

dittatura, che avevano portato per decenni ad una sostanziale rimozione

in blocco di questa fase della nostra cinematografia. Il mutamento è

netto, ed è dovuto fondamentalmente ad una semplice questione

generazionale: a trent'anni dalla fine di quell'epoca maturano i tempi per

l'entrata in scena di una nuova generazione di critici, quella che non ebbe

modo di vivere durante il regime e che, quindi, ne affronta il cinema

senza essere condizionata da remore di memoria storica ; passati inoltre

gli anni di pressante forzatura ideologica diffusa che coincisero con i

movimenti del 1968, anche l'ostacolo di una lettura "politica" obbligata

sono finalmente rimossi.

La nuova vitalità che ne deriva per gli studi su questo cinema ha prodotto

importanti risultati e continua, con fortuna pressochè costante, fino ad

oggi. Se il cinema dell'età fascista ancora attira tanto gli studiosi è forse

perché sufficientemente lontano da garantire una sicura distanza critica,

forse perché per la sua stessa struttura ordinata si presta meglio di altri

all'esame, forse proprio perché tanto a lungo rimosso, forse infine

5

Page 5: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

perché, semplicemente, più lo si è in questi anni analizzato e più si è

visto che ancora molti spazi di ricerca ed anche molte sorprese poteva

rivelare.

Anche questa tesi, nel suo piccolo, nasce da questo stesso pensiero: che

nonostante l'ormai straripante mole di lavori pubblicati su questo cinema

ci sia ancora spazio per una ricognizione che sia in grado di portare a

risultati non banali, ed anzi che possa evidenziare elementi anche poco

notati e talora anche insospettati. Un'analisi, dunque, che di necessità

deve potere, quando ne sospetti l'utilità, indugiare anche minuziosamente

su un singolo aspetto, e soprattutto su un singolo testo filmico. È stata

questa infatti la prima linea-guida che mi sono imposto di seguire nel

dedicarmi a questa ricerca: l'attenzione ai film doveva, piuttosto che

limitarsi ad un livello medio di citazione quantitativamente vasta ma di

superficie, saper accantonare quando era il caso l'oggetto-film per

qualche istante, ma porre il testo filmico stesso al centro assoluto ed

imprescindibile dell'analisi ogni qual volta il discorso giungesse ad un

punto centrale, ad una acquisizione. Il rispetto sommo dovuto ai lavori di

chi prima e meglio di noi ha studiato e scritto sul cinema è sacro, ma

quando i testi primi, cioè i film, sono disponibili e fanno la loro

comparsa in scena, sono fermamente convinto che ad essi si debba

lasciare il primo piano. Tanto più che, al livello dell'analisi testuale, la

grande maggioranza di questa produzione non è stata studiata o lo è stata

superficialmente: si può dire che il 90% delle pagine scritte sul cinema

del fascismo si occupi, in realtà, di neppure il 10% dei film del periodo

fascista.

Questo argomento porta anche ad un'altra delle questioni tipiche circa

questo cinema, ovvero l'inestricabile problema della visibilità e del

reperimento dei film: uno scoglio contro il quale si scontra chiunque si

6

Page 6: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

accinga ad intraprendere degli studi di una qualche serietà. Degli oltre

settecento film prodotti in Italia fra il 1930 e il 1943 (ma anche il

semplice numero è quantomai incerto) quelli che sono sopravvissuti fino

a noi sono approssimativamente poco più di duecento; ma da questo a

poter pensare che essi siano tutti accessibili e visibili passa un'enorme

differenza. Quasi nulla è cambiato, nonostante il moltiplicarsi ed anche

un moderato aprirsi degli archivi e delle cineteche, da quando nel 1975

Casetti, Farassino, Grasso e Sanguineti, riuniti sotto il nome di "Gruppo

Cinegramma, scrivevano: "Le difficoltà materiali di accesso […]

l'irritazione e la frustrazione che accompagnano in Italia queste ricerche

[…] impediscono per lo più di considerare nella giusta prospettiva

storica l'esistenza residua dei film"1. A venire almeno in parte in

soccorso al ricercatore sono giunti nel frattempo l'home video e la

televisione, che ogni tanto ripesca del fondo dei suoi archivi uno di

questi film e lo trasmette in orari improbabili: è tramite questi mezzi che

sono riuscito, nel corso di qualche anno, a visionare e raccogliere un

numero comunque ristretto di titoli dell'epoca, agevolmente analizzabili

grazie alla praticità del supporto su videocassetta. Resta il fatto che, in

una produzione 1930-43 già pesantemente mutila, anche tra i film

superstiti una larga parte rimane di accesso difficilissimo o impossibile.

Per questa nostra tesi i film che abbiamo avuto modo di visionare ed

analizzare integralmente in modo adeguato sono stati all'incirca una

cinquantina. L'ineludibile necessità di sopperire alla ridotta proporzione

del campione visibile conduce ad affidarsi allo spoglio delle riviste

cinematografiche coeve (ma anche a quotidiani e periodici non di settore,

specialmente per quanto riguarda le recensioni), prime fra tutte Bianco e

1 Gruppo Cinegramma (F. Casetti, A. Farassino, A. Grasso, T. Sanguinetti), Neorealismo e cinema italiano degli anni trenta, in L. Miccichè (a cura di), Il neorealismo cinematografico italiano, Marsilio, Venezia, 1975, p. 341

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Page 7: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

nero e Cinema, fonti essenziali per ricostruire il panorama di tanto

cinema che non è più, per noi, recuperabile per via diretta. Alla visione

delle pellicole si è dunque alternata la lettura e lo spoglio in archivi e

biblioteche, tra i quali mi permetto di citare, tralasciando le note strutture

maggiori, l'archivio della Fondazione Micheletti di Brescia, ricco benchè

ancorra bisognoso di sistemazione, che ha mostrato grande disponibilità

verso le mie ricerche.

Reso il quadro delle fonti, è il momento di spendere ancora due parole

introduttive su questa mia tesi, per indicare almeno quali siano stati i

metodi seguiti (e quindi anche gli strumenti di analisi) e quali gli intenti

ed obbiettivi. La prima questione, particolarmente, è stata piuttosto

complessa: mancavano infatti punti di riferimento precisi che facessero

da guida in un'analisi che, fin dal principio, ho voluto condurre non su un

doppio binario che facesse scorrere parallelamente, ma quindi senza farle

sostanzialmente incontrare, la prospettiva propriamente storica legata al

dipanarsi degli eventi del periodo fascista, quella sociologica che

verificasse gli effetti della prima sui costumi e sui mutamenti della

società e particolarmente della famiglia in Italia, ed infine quella

principale, la prospettiva strettamente cinematografica, che doveva

essere scandagliata per vedere se, come, in che misura ed in quale modo

le costanti ed i cambiamenti storici e sociologici del periodo fascista si

riflettessero nella rappresentazione che della famiglia il cinema aveva

creato.

Vi erano passaggi che presentavano scarse o nulle difficoltà

metodologiche, come quello sugli stereotipi dei generi cinematografici,

questione che è stata ormai ampiamente dibattuta ed assorbita, o come

quello relativo alla suddivisione dell'attenzione fra i diversi membri del

sistema familiare, nel quale la scelta di scomporre dapprima

8

Page 8: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

elementarmente l'insieme in base alle componenti di sesso e d'età, per

poi analizzare le figure emerse in base al loro ruolo relazionale con le

altre figure del sistema familiare, è stata dettata semplicemente dalla più

immediata ed intuitiva logica. Dove invece il discorso sulle strutture si

faceva più arduo, come nei due capitoli su invarianza del modello

tradizionale e diacronia del modello modernista, è stato necessario talora

cooptare definizioni e categorie da altri campi, ed in alcuni casi,

avanzando nell'analisi verso le conclusioni più originali del lavoro, anche

utilizzare strumenti inconsueti e coniare definizioni nuove ad hoc. Con

tutto ciò, c'è almeno un testo ormai classico che è stato essenziale per

questa ricerca, dal quale proviene molto della struttura ed anche

dell'indirizzo del presente lavoro, oltre a strumenti e definizioni

essenziali, come quelle, centrali, di ideologia e mentalità, che pure ho

applicato con un minimo di libertà: si tratta della Sociologia del cinema

di Pierre Sorlin2, testo il cui apporto, a dispetto dell'esiguità di citazioni

dirette che ne ho fatto, segue costantemente le pagine di questa tesi,

sorvegliandola senza farsi troppo notare.

Più in generale, è stato fondamentale, nella comprensione degli stereotipi

operanti nei film, un lavoro di adattamento: di fronte alla estrema

carenza di testi propriamente cinematografici sull'argomento si rendeva

infatti necessario tentare un'operazione di cooptazione di modelli propri

di altre discipline; una delle sfide che questa tesi ha comportato è stata

dunque quella di applicare all'analisi del cinema degli anni Trenta

schemi e metodi provenienti dagli studi compiuti su quel periodo in

ambiti diversi, in primo luogo naturalmente la storia e la sociologia. Il

2 P. Sorlin, Sociologia del cinema, Garzanti, Milano 1979 (trad. di: Sociologie du cinéma, Ed. Aubier Montaigne, Paris 1977)

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Page 9: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

riflesso di questa operazione di traduzione interdisciplinare è evidente

soprattutto nelle parti riguardanti la figura della donna.

Fin qui il "come" del presente lavoro; quanto, infine, al "perché", mi

preme sottolineare un punto in particolare. Il cinema italiano del periodo

fascista si offre allo studioso, come detto, con un problema di carenza di

testi filmici ma anche con il pregio di presentarsi con strutture

superficiali immediate e riconoscibili, e questo ne agevola lo studio,

specialmente quando lo si affronta prendendo in esame un ambito

particolare, come per esempio un ambiente o l'opera di un regista o,

soprrattutto, un genere. Quello che risulta assai più complesso, e che in

definitiva manca al panorama degli studi su questo periodo, nonostante

qualche sporadico tentativo dagli esiti opinabili3, è un discorso di ampio

respiro che sappia porre in relazione la cinematografia con il contesto

storico e sociale, e sappia evidenziare i reciproci influssi. Un compito

arduo e oneroso, di enorme impegno sia per mole che per l'enorme

livello di acquisizione teorica che comporta; e non sarebbe stato certo

proponibile lanciare la nostra piccola barca in tanto grande ed agitato

mare. Si poneva, realisticamente, la necessità operativa di concentrare

l'attenzione su un ambito delimitato e delimitabile; ma, allo stesso

tempo, c'era da parte mia la volontà di non limitarmi ad un ristretto

lavoro di cernita tematica, ma di poter comunque mettere in opera, sia

pure solo su una parzializzazione del complesso della cinematografia di

quel periodo, una serie di metodi ed ancor più di intuizioni che avevo

cominciato ad elaborare già in precedenza, durante il mio corso di studi:

3 Mi riferisco in particolare allo studio di James Hay, Popular Film Culture in Fascist Italy, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis 1987. Nonostante la discreta fortuna che ha riscosso, personalmente ritengo che una certa superficialità, una mancanza di unità ed una tendenza al "meccanicismo" tipica di molta scuola statunitense ridimensionino di molto questo testo, che mi pare più da annoverarsi nella categoria delle "buone intenzioni" che delle pietre miliari, e che dovrebbe essere tuttalpiù un punto di partenza da tenersi presente per cercare, com'è auspicabile, di giungere finalmente a uno studio davvero valido sui rapporti fra cinema, società e regime nel periodo fascista.

10

Page 10: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

metodi ed intuizioni che potessero essere, se fattibile, applicati ad un

caso il più rappresentativo possibile per verificarne l'eventuale

adeguatezza anche ad un loro utilizzo futuro indirizzato finalmente

all'insieme complessivo (e complesso, se mi si consente il gioco di

parole) della cinematografia del periodo fascista.

La condizione necessaria per giungere a questo era dunque

l'individuazione di un "tema", di una porzione coerente di quel cinema,

tale che fosse sufficientemente ampia e rappresentativa da garantire una

larghezza di movimento alla ricerca ed insieme una esemplarità che

garantisse al massimo l'estensibilità finale di un'analisi che fosse in grado

di uscire dall'angusto spazio della ricerca "di settore" per giungere a

conclusioni accettabili anche come complessive. Il tutto senza

dimenticare che la scelta doveva tener conto della limitatissima

disponibilità dei testi filmici, che ai nostri fini erano essenziali ed anche

nella massima quantità possibile.

Da ciò la scelta del tema della famiglia: è infatti apparso subito lampante

come, in quel cinema, non solo l'immagine della famiglia e dei rapporti

familiari fosse talmente diffusa da non mancare, con maggiore o minore

rilievo, in quasi nessuno dei film di tutta la produzione, ma anche come,

attraverso la rappresentazione di quella struttura sociale fondamentale

che la famiglia era nell'Italia di allora, il cinema finisse con il

rappresentare di fatto uno spaccato pressochè integrale della società

presente, con una rappresentatività elevatissima rispetto al totale del

sistema in questione, quello cioè comprensivo non solo strettamente del

cinema ma anche dei suoi rapporti reciproci con la storia e la sociologia.

Attraverso quella struttura primaria che è la famiglia il cinema fascista

esprime se stesso e la società che esso rappresenta in tutte le sue

tendenze e tensioni, dal rapporto con il sistema dei generi al confronto

11

Page 11: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

fra tradizione e modernità, fra città e campagna, fra passato e presente,

fra il qui e l'altrove. Una rappresentatività che, talora, ha spinto la nostra

ricerca a spingersi brevemente anche oltre, in punti di particolare rilievo,

all'immediata tematica familiare, per mostrare brevissimamente come

qualcun'altro munito di buona volontà, dopo di noi e certo meglio di noi,

potrà dedicarsi a disegnare finalmente quel quadro generale dei rapporti

e degli schemi di tutta una cinematografia e della sua società che ancora

attende di essere realizzato.

12

Page 12: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Capitolo 1.

La famiglia italiana negli anni '30: intervento e influenza del regime.

1.1 Il regime, la tradizione: un sistema integrato. Quando si getta uno sguardo all'indietro verso gli anni del regime

fascista, oggi, è pressochè inevitabile per chi quegli anni non li ha vissuti

in prima persona trovarsi di fronte ad una serie di luoghi comuni, o

quantomeno di semplificazioni, che individuano la posizione del regime

o la situazione dell'Italia dell'epoca su certi temi o fenomeni. Definizioni

sintetiche formatesi ed accampatesi saldamente nel senso comune con

l'avallo un po' lapidario della tradizione orale, che tanto ancora

contribuisce a richiamare quegli anni, ma anche della storiografia nonché

delle ricostruzioni letterarie o spettacolari che si sono affollate negli anni

a noi più vicini (dopo decenni nei quali le ferite ancora aperte nel Paese

avevano spinto ad una sostanziale rimozione). Appare dunque

generalmente come assodata l'importanza, il segno determinante lasciato

dal regime su questioni come l'agraria o il clientelismo o l'istruzione di

base.4 Molto spesso queste analisi sono peraltro, proprio nella loro

semplicità e voluta mancanza di profondità, azzeccate nel dare un quadro

generale. Ma, in alcuni casi, questa analisi può non rendere l'esatta

immagine di un'Italia che, proprio in anni che ancor oggi costringono

talora ad una storicizzazione, per così dire, in bianco e nero, era invece

ricca di sfumature e chiaroscuri come forse non mai; un paese che fu

4 Tra gli innumerevoli testi di respiro generale sulla storia dell'Italia del periodo fascista si è fatto riferimento per questo lavoro particolarmente a: G. Sabbatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia., vol. IV, Guerra e fascismo 1914 - 1943, Laterza, Bari, 1997; A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, Manuale di storia. 3. L'età contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 1992.

13

Page 13: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

soggetto, o più propriamente direi oggetto, di quella che Gian Piero

Brunetta ha definito, con felice espressione, fascistizzazione imperfetta5.

I dettami del regime, più che sovrapporsi, si affiancarono, o addirittura si

adeguarono alle realtà di un'Italia profondamente legata alle sue

tradizioni e restia ai mutamenti. E quanto più un costume era radicato

nella mentalità, tanto più il fascismo dovette adattare i propri canoni,

scendere a compromessi, o rassegnarsi a lasciare che i suoi proclami

restassero tali, isolati dal paese reale; così fu frequente, nel ventennio,

che il costume sociale italiano e la costruzione ideologica del fascismo si

plasmassero vicendevolmente o si accettassero a vicenda in varia misura

e in modo variabile, con importanti cambiamenti di questo mutevole

rapporto anche nel corso stesso dei vent'anni della dittatura.6 È il caso,

tra l'altro, di uno dei settori della società e della morale sul quale si

ritiene comunemente che il Fascismo abbia più insistito e più inciso: il

sistema familiare.

La politica del regime nei confronti della famiglia fu sempre

caratterizzata, questo è certo, da un forte intervento a favore delle

famiglie numerose e, in generale, dell'incremento della natalità. Questo

ovviamente sottintende una "naturale" visione della donna nell'esclusiva

prospettiva di moglie e madre, anzi, secondo la nota formula

mussoliniana, "sposa e madre esemplare"7. Parallelamente, grande

importanza ebbero le organizzazioni infantili e giovanili. Il regime

5 Cfr. G. P. Brunetta, Cent'anni di cinema italiano, Laterza, Bari, 1991 6 Non è ad esempio una novità, ed anche noi avremo modo più avanti di entrare diffusamente nell'argomento, che la storiografia individui una frattura determinante nel rapporto fra il regime ed il paese reale negli anni dell'avvicinamento al nazismo, e particolarmente nel 1938 segnato dalle leggi razziali. Ma anche in altri momenti del ventennio si potrebbero individuare picchi e valli nell'ondivago consenso che legò gli italiani al regime; un consenso che, è bene ricordarlo, non fu mai neppure paragonabile a quello che il nazismo ebbe in Germania, sia per profondità che per convinzione. 7 P. Meldini, Sposa e madre esemplare, Guaraldi, Firenze, 1975.

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Page 14: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

fascista volle, per tutta la sua epoca, ergersi a difensore, protettore ed

angelo custode della famiglia, cuore sano e sacro della società italica.8

Eppure, nonostante tutto ciò, è bene andare estremamente cauti nel

cercare di istituire il parallelismo "famiglia fascista uguale famiglia

italiana e viceversa". La realtà ci pare essere piuttosto diversa, simile

semmai ad un sistema integrato, nel quale i due parametri, la famiglia

reale come ereditata dalla tradizione e quella voluta e indicata a modello

dal regime, si avvicinano per gradi correndo perlopiù su due binari:

paralleli, vicini, molto simili e mai in conflitto, ma non coincidenti, né

realmente interessati ad esserlo.

È rilevante - e da qui il nostro interesse per la questione - notare come

questa non-convergenza risalti in un modo assai particolare dall'analisi

delle opere cinematografiche dell'epoca, mentre meno agevole potrebbe

risultare notarla attraverso lo studio di altre fonti, comprese le fonti

dirette che certo non mancano. Peculiare del cinema di quel periodo è

infatti presentare, almeno a certe condizioni ed una volta raschiata la

patina della rappresentazione di genere9, un'immagine duplice: sia gli

echi dell'Italia così com'era realmente, sia un'immagine dell'Italia così

come il regime la voleva. Un dualismo di prospettiva che è caratteristico,

nel periodo di cui parliamo, dei mezzi di comunicazione e di spettacolo

di massa, e particolarmente del cinema, proprio perché su questi si

concentrò un'attenzione particolare da parte del regime, che non trovò

mai, dietro ai proclami mussoliniani che ne facevano "l'arma più forte", 8 Senza addentrarci nell'argomento, segnaliamo solo come esemplare il famoso "Premio Mussolini", che gratificava le famiglie più prolifiche con un contributo in danaro o più spesso con un pacco dono di prodotti vari. 9 Mi riferisco qui al concetto di genere nel senso propriamente cinematografico, piuttosto che parlare genericamente di trama o fabulazione o fiction, con diretto riferimento al fondamentale saggio di Casetti, Farassino, Grasso e Sanguinetti nel quale si mostra come l'articolazione in generi sia l'elemento centrale del cinema d'epoca fascista. F. Casetti, A. Farassino, A. Grasso, T. Sanguinetti, Neorealismo e cinema italiano degli anni trenta, in L. Miccichè (a cura di), Il neorealismo

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Page 15: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

una direzione univoca, una mano decisa che imponesse alla

cinematografia con fermezza di operare secondo direttive di regime. Vi

fu semmai una censura più spesso fastidiosa, iperzelante, arruffona e

lunatica che finiva spesso con lo sforbiciare metri di pellicola del tutto

innocenti per voler essere più realista del re, salvo poi farsi scivolare fra

le dita, magari, interi film non altrettanto innocui10.

Contrariamente a settori della cultura che furono strettamente

fascistizzati (come la stampa o l'educazione), dunque, il cinema conservò

sempre una maggiore libertà d'azione, all'interno della quale registi e

sceneggiatori avevano modo (sempre ammesso che ciò fosse nelle loro

corde naturalmente) di dipingere squarci non trascurabili di realtà

italiana, anche non edificante, magari accomodati dietro improbabili

intrecci romanzeschi, canzonette e l'immancabile lieto fine. La

descrizione della famiglia nel cinema del periodo fascista scorre così,

dietro il velo dell'assoluta mancanza di realismo e di plausibilità delle

commedie bianche o ungheresi o di film consimili quanto a tasso di

irrealtà, lungo binari esili, fatti di accenni, di allusioni, eppure ben

rintracciabili agli occhi del critico odierno.

Emerge così l'idea che, come nella società, così anche nel cinema si

svolgano due discorsi prossimi e paralleli sul mondo familiare: quello

della tradizione socioculturale italica, e quello della politica sociale

fascista. Due discorsi che parlano, in realtà, linguaggi molto simili, ma

che divergono in un elemento assolutamente fondamentale: l'uno è

cinematografico italiano, Marsilio, Venezia, 1975, pp. 331-385. Del concetto di generi e della loro sistemazione in epoca fascista si tratterà più a fondo nel capitolo successivo, al quale rimandiamo. 10 Le vicende della censura cinematografica nel Ventennio esulano dall'argomento che stiamo trattando, ma casi ed aneddoti riportati dai protagonisti di tali vicende sono numerosi; basti citare il racconto di Visconti, confermato da Giuseppe De Santis, secondo il quale, dopo che le prime proiezioni di Ossessione (regolarmente visionato e autorizzato dalla censura) avevano scatenato una feroce polemica, Mussolini stesso volle vedere personalmente il film a Villa Torlonia, e dopo la visione disse "No, è meglio lasciarlo circolare". Cfr. M. Argentieri, Il cinema in guerra, Editori Riuniti, Roma, 1998, p. 281.

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Page 16: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

stabile attraverso il tempo, l'altro è invece in mutamento, e fattore di

mutamento egli stesso.

1.2 La stabilità della tradizione, i mutamenti dell'età fascista: un'analisi diacronica tra varianza ed invarianza. Vi è dunque, almeno sotto un aspetto, un divario significativo tra

l'immagine della famiglia che gli italiani ereditano dal costume

tradizionale e quella che il regime cerca di proporre. La prima è fissa nel

tempo, sia relativamente all'ambito del ventennio fascista sia in senso più

estensivo prima e dopo di esso (si tratta di un sistema tradizionale

sostanzialmente inalterato quantomeno fin dal secolo precedente, e

destinato peraltro a resistere spesso pervicacemente alla

modernizzazione anche dopo il periodo fascista e nel secondo

dopoguerra). La seconda è invece mutevole, secondo la stessa dinamica

di un rinnovamento ed una variabilità tanto rispetto al periodo prefascista

quanto all'interno dello stesso ventennio fascista11. Di più, potremmo

dire che di un'unica equazione familiare il costume tradizionale

rappresenta la cifra fissa, mentre l'intervento del regime rappresenta la

variabile, il fattore che muta il risultato finale.

Il paragone è però complicato dal fatto che l'interazione fra i due fattori è

reciproca: le stesse direttive e linee di intervento del regime, infatti,

devono in continuazione piegarsi e adattarsi a usi tradizionali resi

inamovibili come macigni da un'inerzia secolare. Anche l'idea di uno

studio del cinema del periodo fascista e della sua rappresentazione della

famiglia che si concentri sul solo influsso della politica del regime sul

11 Che il regime abbia non solo mutato più volte pelle nel corso del ventennio ma anche espresso al suo interno divergenze importanti su questioni sociali e politiche di assoluto rilievo è cosa nota, ed esula dagli scopi di questo lavoro dilungarsi sull'argomento; citiamo qui, come esempio e solo in quanto pertinente e come anticipazione di ciò che diremo nel capitolo successivo, l'aspro scontro dialettico tra i bottaiani e i loro oppositori sulla questione del lavoro femminile.

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Page 17: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

costume finisce così per apparire non del tutto completa. Ci pare quindi

che il metodo più valido, per poter esaminare nel modo più comprensivo

possibile l'immagine familiare nei film di allora, sia necessariamente

tenuto a prendere atto del dualismo tra l'invarianza della tradizione e la

progressività dell'ideologia di regime; e, di conseguenza, a procedere

analizzando i due elementi separatamente, proprio per poter meglio

mettere in luce sia i momenti nei quali l'uno influisce sull'altro, sia il loro

procedere per vie distinte, ognuno nucleo e fulcro del suo moto o del suo

stato, ognuno eccentrico all'altro. Da un lato si esamineranno, nei film

del periodo di cui parliamo, la rappresentazione della scena familiare

dell'Italia anni Trenta nei suoi elementi invarianti, evidenziandone la

continuità temporale sia interna che esterna all'arco temporale in esame;

dall'altro, e con qualche attenzione anche maggiore giacchè pare questo

il lato ad oggi meno analizzato della questione, si analizzerà lo svolgersi

diacronico dei modi di rappresentazione della famiglia sullo schermo, le

sue variazioni dal 1930 al 1943 (con qualche breve escursione, di

necessità ed a fini di chiarezza del quadro complessivo, negli anni

immediatamente precedenti e successivi), le cause e conseguenze di tali

variazioni sia nel paese che, più strettamente, nel cinema italiano. In

questo modo, crediamo, sarà più evidente l'individuazione sia di quei

tratti della scena familiare che i film degli anni Trenta ci trasmettono

immutati fino alla fine della parabola del regime, sia di quei tratti che

viceversa attraversano con variazioni significative il cinema dell'epoca

fascista, registrando, segnalando e anticipando magari, con il loro

apparire, scomparire o accentuarsi sullo schermo, momenti nodali

dell'evoluzione non solo della famiglia, ma tout court della società

italiana. Perché, come vedremo, per il cinema del periodo fascista il tema

della famiglia pare essere tanto profondamente coeso in un tutt'uno con

18

Page 18: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

la realtà da poter ben figurare, nelle mani di autori di differenti capacità e

inclinazioni, tanto come canovaccio universale per intrecci insignificanti,

quanto, ed è di questo soprattutto che ci occuperemo, come specchio

dell'intera vita del paese, a volte sotto le vesti della sola

rappresentazione, a volte come metafora, a volte infine, specialmente

negli ultimissimi anni, come vero cavallo di Troia per l'introduzione

sugli schermi di un'aria nuova, sia sotto il profilo sociale e politico che

sotto quello prettamente filmico di un inedito sentore di realismo

montante.

1.3 La famiglia nella prassi filmica tra tradizione e innovazione. Va in scena la famiglia dunque, ma anche l'Italia tutta; infatti, a voler

ben vedere, tutto il cinema italiano di quell'epoca parla in qualche modo

di famiglia, ed anzi non è azzardato dire che, in modi diversi a seconda

del genere a cui appartiene un film, lo scenario dei rapporti familiari sia

lo sfondo irrinunciabile sul quale agiscono i personaggi in pressochè tutti

i film del periodo. Anche pellicole che apparentemente ne rifuggono,

riescono infine a far rientrare dalla finestra ciò che hanno cacciato dalla

porta. Si pensi, per far solo un esempio, a Uomini sul fondo (1941) di

Francesco De Robertis12.Un film girato da un ufficiale di marina al suo

esordio cinematografico, progettato e costruito come documentario,

documentario drammatizzato però abbastanza da competere per

spettacolarità con i film drammatici ed avventurosi ed attirare così il

grande pubblico. Pur nell'apparente documentarismo dell'approccio e 12 Nei titoli di testa o di coda non compare affatto il nome di De Robertis ma, come in altri casi analoghi, gli si sostituisce come "ideatore e direttore" del film il Centro Cinematografico della Marina, del quale il comandante faceva parte. Una pura questione di forma, visto che il film era chiaramente un'opera di tutta paternità di De Robertis, che infatti fu autore di soggetto, sceneggiatura, regia e montaggio. Come dichiarato anche nei titoli di testa, che sono in sostanza una lunga tirata retorica

19

Page 19: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

nell'isolamento che, per sua natura, la vicenda dei marinai imbarcati sul

sottomarino propone, compaiono a ripetizione riferimenti alla scena

familiare: dal reincontro dei marinai con i loro cari dopo lo sbarco,

subito nei primi minuti di film, alla scena in cui un marinaio parla al

telefono con la madre e la conforta, pieno d'amor filiale. Non bisogna del

resto dimenticare che, pur segnando Uomini sul fondo il debutto di De

Robertis in campo cinematografico, il comandante di marina si era già

cimentato con buon successo e consenso di critica come drammaturgo,

con il "dramma navale" La luce sul fondo del 1932, nel quale il motivo

centrale era un intimo dramma fra due coniugi, il conflitto fra amore e

dovere in un ufficiale di marina ed in sua moglie; già i recensori

dell'epoca sottolinearono la prevalenza della componente familiare, pur

nel quadro della ben delineata rappresentazione della vita del marinaio a

bordo di una nave da guerra13.

Di famiglia, dunque, parla tutto il cinema di questi anni. Ma

naturalmente c'è modo e modo per farlo, ed anzi è bene chiarire subito

che un numero notevole di questi film, pur mettendo rapporti ed intrecci

familiari in bella mostra ed in primo piano all'interno della propria trama

ed economia narrativa, finiscono paradossalmente per annullarne del

tutto la valenza. È il caso, ad esempio, dei più dozzinali (e non furono

pochi) tra i film cosiddetti "dei telefoni bianchi", o ancor più delle

commedie "all'ungherese" che ne sono sostanzialmente un sottotipo. In

questi film, la cui importanza ai fini del nostro discorso avremo

comunque modo più avanti di esaminare ampiamente, l'intreccio si basa

quasi sempre su meccanismi, appunto, di tipo parentale: generalmente un

matrimonio, ostacolato o desiderato o presunto o così via, ma

della Marina, il film entrò in produzione nel 1940 prima che l'Italia entrasse nel secondo conflitto mondiale. 13 Cfr. M. Argentieri, op. cit., p. 105.

20

Page 20: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

frequentissime sono anche le agnizioni filiali e le eredità, ed eventuali

ulteriori complicazioni genealogiche con coinvolgimento di zii, fratelli

ed antenati vari sono ben gradite. Il fatto è che, in queste commedie (si

badi, stiamo sempre riferendoci solo alla fetta più deteriore e seriale di

tale produzione) il sistema familiare costituisce in sostanza un mero

quadro di fondo stereotipato che consenta l'azione, la quale se ne giova

per intricarsi in trame sempre più aggrovigliate, incredibili e

stupefacenti, fino all'immancabile scioglimento finale; il tutto costruito

in modo che non vi sia "nessun aggancio. […] possibile con la realtà

esterna al film, dotato di regole proprie, autonome, automatiche e

miniaturizzate. Se A ama B, vuol dire che B non è B, ma è C travestito

da B, il quale B ama A.I personaggi minori (D, E, F) fingono d'ignorare

questo schema e ne ostacolano per un'ora e mezzo l'assetto

conclusivo"14. Un meccanismo affabulatorio, come si vede, che per sua

natura tende ad elidere ogni riferimento e sfumatura non essenziale alla

macchina narrativa, alla stringente logica della catena di accadimenti; il

modello narrativo di riferimento, così, finisce con evidenza ad essere

estremamente prossimo a quello della favola. Se si aggiunge che questi

film hanno in comune con la favola anche la dichiarata negazione del

legame con la realtà, si capisce perché essi siano singolarmente

insignificanti ai fini dell'analisi della famiglia, nonostante di famiglie e

legami familiari essi siano zeppi. Dico singolarmente, perché la loro

importanza come gruppo, come serie è invece di assoluto rilievo, e su di

essi torneremo a ragionare a lungo quando si parlerà degli anni del loro

boom. Peraltro, il filone dei "telefoni bianchi", o più in generale delle

commedie rosa, può annoverare tra i suoi autori migliori pressochè tutti i

registi più significativi dell'epoca, chi in pianta stabile e chi come 14 F. Savio, Ma l'amore no, Sonzogno, Milano, 1975, p. VI

21

Page 21: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

frequentatore più o meno occasionale; e proprio le commedie realizzate

da registi attenti e sensibili, come Camerini o Bonnard per citarne solo

due, sono uno dei momenti in cui il cinema del periodo fascista sa

mostrare il suo massimo in termini di realismo della rappresentazione,

offrendoci così elementi di analisi fondamentali sulla situazione dei

rapporti familiari in Italia tra gli anni Trenta e la fine della guerra;

rapporti e situazioni del mondo familiare, stavolta, tutt'altro che isolati

dalla realtà, anzi calati in essa. Intrisi di realtà, spesso, in un modo che è

difficile pensare gradito al regime, che preferiva certo che gli italiani,

stretti fra razionamento, guerra e dittatura, spalancassero occhi sognanti

di fronte ai principeschi palazzi e castelli di un'Ungheria da romanzo e

alle dozzine di eleganti vestiti che la diva di turno sfoggiava in un'ora e

mezza di film, piuttosto che pensare alle loro scarpe con le suole di

cartone e alle case colpite dalle bombe.

22

Page 22: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Capitolo 2.

Modelli familiari e generi cinematografici.

2.1 Il sistema dei generi Un'analisi della produzione cinematografica italiana negli anni '30 non

può non tenere in considerazione la questione dei generi, a prescindere

da quale sia il settore di analisi specifico, la famiglia o altri. A rendere

imprescindibile tale questione è, innanzi tutto, il fatto che il cinema

americano in questi anni assume definitivamente la posizione di

cinematografia dominante a livello mondiale grazie soprattutto alla sua

razionalizzazione produttiva, basata essenzialmente proprio sulla

codifica ed applicazione di quel sistema di generi che da allora saranno

definiti "classici".

In un cinema che, come quello italiano, usciva dal più nero dei periodi di

crisi, il modello americano non poteva non trovare terreno fertile,

almeno sul piano delle intenzioni. Luigi Freddi, a lungo deus ex machina

della cinematografia italiana, aveva ad esempio riportato dalla sua visita

ad Hollywood di qualche anno prima15 una viva ammirazione ed il

progetto di riformare la cinematografia italiana sulla falsariga di quella

americana; progetto che vedrà la sua realizzazione più compiuta in

quella "Hollywood italiana sulle rive del Tevere"16 che sarà Cinecittà. Il

più compiuto per non dire l'unico, dal momento che le intenzioni

15 Freddi era stato ad Hollywood e ne aveva studiato i sistemi di produzione quando, ancora come giornalista, era stato inviato a seguire le imprese aviatorie di Italo Balbo. Sul ruolo di Freddi alla guida (dal 1934 al 1940) della Direzione generale per la cinematografia, che non approfondiremo organicamente limitandoci in seguito a farne cenno quando si intreccerà col nostro discorso sulla famiglia, si sono scritte molte pagine; come riferimenti essenziali ci limitiamo per brevità a rimandare, oltre al volume secondo della fondamentale Storia del cinema italiano di G. P. Brunetta (Editori Riuniti, Roma, 1979, seconda ediz. 1993) ed alla raccolta autobiografica delle memorie dello stesso Freddi (L. Freddi, Il cinema, L'Arnia, Roma, 1949, 2 volumi), al testo di C. Carabba, Il cinema del ventennio nero, Vallecchi, Firenze 1974. 16 G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano cit. , vol. 2, p.9.

23

Page 23: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

hollywoodiane di Freddi e in generale l'inseguimento del modello

statunitense non avranno in realtà modo di attecchire troppo a fondo nel

cinema italiano. Le peculiarità della situazione italiana infatti, ovvero,

semplificando, il regime fascista ma anche un retroterra di linguaggio

filmico di registi e produttori, portarono ad esiti piuttosto divergenti dalle

intenzioni. Sta di fatto che uno dei punti sui quali il modello

hollywoodiano fu più compiutamente realizzato fu proprio l'ottenimento

di una produzione sistematizzata in generi; ma altrettanto vero è che tali

generi furono, per una pluralità di motivi, spesso diversi da quelli

d'oltreoceano, che pure facevano accorrere folle di spettatori nelle sale.

Che il cinema italiano sotto il fascismo abbia il suo tratto principale,

sotto l'aspetto del linguaggio, proprio nella strutturazione in generi è un

dato noto ed evidente. Che questa sistemazione si sia sviluppata più per

l'intervento di Freddi, con il contributo spesso anche dialettico di altri

uomini come Cecchi (a sua volta un profondo conoscitore e ammiratore

del sistema hollywoodiano)17 piuttosto che per via di un processo

naturale di evoluzione che avrebbe avuto luogo comunque, non è

discorso che ci interessa approfondire in questa sede. Ciò che ci interessa

esaminare è invece come l'organizzazione in un cinema di generi si

rapporta alla possibilità di rappresentazione, o meno, delle realtà sociali

italiane così come erano e così come il regime intendeva veicolarle;

concentrando la nostra attenzione, naturalmente, su quello che è il punto

nodale per eccellenza della società tradizionale italiana, anche e

soprattutto durante il fascismo: ovvero, la famiglia.

17 Bene sarà precisare che Cecchi, nonostante la sua conoscenza e stima verso il cinema dei generi per eccellenza, sembra di fatto aver dato ai suoi diciotto mesi alla guida della Cines un'impronta niente affatto vicina al cinema di genere, ma più rivolta ad una serie di film originali e di significativa sperimentazione linguistica, come 1860, La tavola dei poveri e Acciaio; il suo richiamo al sistema hollywoodiano si può notare dunque molto di più negli interventi teorici che nelle realizzazioni pratiche. A dare al cinema italiano la direzione verso il codice di genere fu, dopo la fine del periodo Cecchi-Cines, la neonata Direzione generale di Freddi.

24

Page 24: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

A proposito dei già citati film "sperimentali" del periodo Cecchi (1860,

La tavola dei poveri, Acciaio) è stato giustamente affermato da Casetti,

Farassino, Grasso e Sanguineti che queste prove rappresentano "un

cinema che inventa nuovi rapporti e nuove combinazioni fra se stesso

[…] e la politica"18. Gli stessi annotano, con riferimento particolare al

film blasettiano tratto da Viviani, "lo sconcerto della critica che non

riusciva a catalogare il film in nessuna delle categorie

preesistenti"19.Ecco dunque venire subito in luce, attraverso queste

parole, due elementi centrali del nostro discorso: da un lato la

suddivisione critica in generi, dall'altro la spesso ambigua e ondivaga

relazione fra cinema, politica e società. E vediamo anche come, proprio

in questo binomio, si esplicita un sostanziale dualismo, una discrepanza

che accompagnerà tutto il cinema del periodo fascista risultando però più

netta nei periodi estremi, ovvero nei primissimi anni '30 (fino all'avvento

di Freddi diciamo) e nei cruciali anni '42-'43, fino ad Ossessione: la

divisione fra "uno sperimentalismo << di qualità >>" e "una produzione

che si avvia a puntare sul prodotto << medio >>" è infatti strettamente in

rapporto, sia al livello dei singoli film sia a quello dell'indirizzo

complessivo della cinematografia nazionale, "con quegli apparati che

agiscono nel cinema come in un luogo in cui si produce dell'ideologia"20.

Alla sistemazione in generi del cinema italiano non è dunque estranea

una volontà politica, non solo di politica industriale nei confronti della

produzione, ma anche di ideologia. Il regime, si sa, sbandierava in

continuazione la cinematografia "arma più forte", ma è altrettanto noto

che le rarissime produzioni prettamente propagandistiche, oltre a cadere

nella trascuratezza quando non nel ridicolo, erano alquanto invise al

18 Casetti, Farassino, Grasso, Sanguineti, op. cit. , p. 345. 19 Ibidem. 20 Ivi, p. 347.

25

Page 25: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

regime e a Mussolini stesso. Ciò che si voleva era diverso, non

chiarissimo magari ma certo differente dai pastrocchi in camicia nera di

Forzano e simili: in tempi e situazioni diverse il regime chiederà al

cinema, peraltro senza dover fare sforzi per ottenere cose che a nessuno

spiaceva dare, ora l'educazione, ora la commemorazione, infine e

massimamente la distrazione.

La mappa dei generi nel cinema italiano dell'età fascista deve fare i conti

con una tara di partenza non indifferente qual è la perdita di buona parte

della produzione. Di molti film non ci restano che accenni dalle colonne

dei giornali, dalle recensioni della critica. Una critica che, peraltro, in

gran parte si esimeva quasi sistematicamente dall'affrontare la questione

del "genere", ritraendosi con disapprovazione, bollando come

"d'evasione" senza andar oltre gran parte della produzione, pressochè

coincidente con quell'ampio genere di commedia sentimentale con le sue

varianti cui vollero spregiativamente dare nome da uno dei suoi

accessori scenografici, il famigerato telefono bianco21. Nondimeno, pur

nella scarsità di titoli ancora visibili e nella negazione del concetto di

genere che la più avanzata critica di allora praticò, non è difficile

delineare quali fossero i generi che composero il panorama della

produzione italiana nel periodo fascista.

Della "commedia sentimentale" abbiamo già accennato; è necessario

aggiungere però che, nell'assoluta preponderanza che tale genere ha

avuto (specialmente a partire dal 1939, anno nel quale i di questo genere

passarono dai 3 dell'anno precedente a ben 15), si possono delineare vari

21 Rimane un piccolo mistero chi abbia usato per primo questa espressione, quando ed in riferimento a quale film; alcuni dei testimoni dell'epoca, compresi gli scenografi, non concordano neppure su chi per primo piazzò su un set quei candidi apparecchi telefonici. Rimane il fatto che, come spesso accade nella storia delle arti, un'espressione usata spregiativamente dai critici ha finito col restare impressa come un nome di battesimo ad una "tendenza". Sulla questione si rimanda a M. Argentieri (a cura di), Risate di regime, Marsilio, Venezia 1991.

26

Page 26: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

sottogeneri: dai "telefoni bianchi" in senso stretto, ai film "alla francese"

nei quali fu maestro Camerini, al filone "collegiale", per giungere infine

alle famigerate commedie "ungheresi". La commedia finisce col

diventare talmente invadente e talmente omnicomprensiva da poter

consentire, specialmente dal '39 in poi, margini di manovra ampissimi

agli autori; è perciò proprio in questo paradossale "svuotamento" che

sarà più facile reperire indicazioni autenticamente utili per un discorso

sulle società italiana, ed anche su altro. Ma per ora restiamo ai generi.

A fianco dell'onnivoro "mostro" della commedia, hanno diffusione i film

storici ed i film in costume. Li affianchiamo qui perché, come

acutamente rilevato da Casetti, Farassino, Grasso e Sanguineti, il

disprezzo che la critica dell'epoca riservava alla nozione di genere causa

la perdita della distinzione tra gli uni e gli altri22. E, del resto, non è fuori

luogo azzardare l'ipotesi che anche nella percezione di una parte del

pubblico spesso vi fosse una sovrapposizione, almeno per quanto

riguarda le epoche più lontane, come il medioevo o come quell'epoca

romana che, dopo i fasti del periodo del muto, finisce del tutto ai margini

del cinema, proprio mentre il regime ne assume e propaganda i simboli.

La prossimità fra i due generi è evidente particolarmente nei film

biografici, che trattano spesso allo stesso modo tanto personaggi reali e

ben noti quanto figure più oscure o avvolte nella leggenda, con assoluta

indifferenza alla storicità.

Non lontani, per loro natura, dai film in costume e storici sono i non

molti film tratti dalla letteratura, intendendo perlopiù la letteratura

cosiddetta "alta", e non racconti e romanzi d'appendice i quali finivano in

abbondanza a far da canovaccio per le commedie. Più importante fu

22 Casetti, Farassino, Grasso, Sanguineti, op. cit. , p. 347..

27

Page 27: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

senza dubbio il genere musicale, nelle sue due principali accezioni: il

"film-canzone" e il film operistico. Nel primo, esili storielle ora leggere

ora drammatiche consentivano ai cantanti di grido del momento di

esibirsi con i loro brani più famosi; nel secondo, più variegato, la grande

tradizione italiana dell'opera lirica veniva riutilizzata nei modi più vari,

da pedanti trasposizioni di teatro filmato a biografie dei compositori

infarcite di romanze, fino ad esperimenti più singolari come l' "opera

parallela". C'è da aggiungere peraltro che, fin dall'inizio dell'era del

sonoro, il cinema italiano non seppe resistere alla tentazione di infarcire i

film di arie, musiche e canzonette, cosicchè è quasi impossibile trovare

film nei quali non ci sia qualcuno che non riesce a trattenersi dal cantare;

e le commedie sono infarcite di dame canterine, maestri d'orchestra,

ragazzine dall'ugola incontenibile e via dicendo.

Grande successo riscuoteva infine il melodramma, da intendersi non nel

senso stretto di dramma in musica, ma semplicemente in termini di film

drammatico, spesso strappalacrime, con amori impossibili, eroi vessati

dai malvagi e pentimento o necessaria morte finale quale catarsi. La

presenza diffusa di elementi melodrammatici, intrinseca alla cultura

italiana, intrecciati in film di altri generi dovrebbe forse portare a

qualche cautela critica nella definizione del genere; ma per i nostri scopi

qui ci basta ricordare la diffusione, il successo e la produzione in copiose

serie che tali film ebbero. Sul modello di Italia e di italiani che trovava

rappresentazione in questi film, e in modo differente nei film commedia,

avremo modo di parlare tra poco, in quanto rappresenta, crediamo, un

punto centrale del nostro discorso.

Un ultimo accenno, in questa panoramica che per brevità accantona

generi o filoni meno praticati (come ad esempio il genere comico, che

pur potendo contare su attori preparati finì coll'essere dirottato verso la

28

Page 28: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

commedia, e ricordando il Nerone con Petrolini si può intuire il perché),

va al genere avventuroso. Tale genere ebbe sviluppo in Italia

specialmente con la fine degli anni '30, instradandosi in prevalenza lungo

il filone piratesco al quale le popolarissime storie di Salgari fornivano

ampio materiale. Non è un caso che questo genere si sia sviluppato solo

tardivamente nel nostro paese: semplicemente, i film d'avventura che

tanto facevano sognare l'immaginazione di giovani e meno giovani

erano, fino al 1938, quelli con i divi del genere, Errol Flynn, e prima

ancora, fin dal periodo del muto, Douglas Fairbanks; ovvero, i film

americani; e dal '38 quei film non arrivavano più nelle sale. Si procedette

così alla loro sostituzione con il surrogato autarchico, ovvero i pirati

della Malesia usciti dalla penna di Salgari, autore adattissimo, popolare e

non sgradito al regime. Questi film venivano realizzati con abbondanza

di mezzi, e le scenografie spesso venivano riutilizzate per più film,

secondo un metodo comune ad Hollywood.

Vi furono generi che, rispetto a quello che era il modello sostanzialmente

obbligato, cioè il cinema hollywoodiano, non entrarono a far parte del

sistema di codici del cinema di casa nostra, per diversi motivi. Il "noir",

ad esempio, non poteva avere diritto di cittadinanza in un paese dove non

era concesso mostrare sugli schermi carceri, delitti e criminali.

Naturalmente non vi fu un genere western, mancandone i presupposti

culturali, e ci pare poco convincente assimilare con l'etichetta di "genere

coloniale" una manciata di film troppo eterogenei fra di loro come

Bengasi, Passaporto rosso o Lo squadrone bianco. Scompare o quasi, in

ossequio alle direttive nazionaliste del regime, la commedia dialettale,

non solo per la questione linguistica ma anche per il suo tono troppo

popolaresco, forse troppo schietto; né fa molta strada, come detto, un

vero cinema comico.

29

Page 29: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Un cinema di generi, dunque, anzi "di generi fortemente codificati"23 ;

eppure, come si è già accennato, un cinema che proprio per questa sua

standardizzazione stretta, per questa sua, chiamiamola così,

iperserializzazione, consente meglio agli autori, almeno ad alcuni, di

inserire, e a noi di individuare, spunti significativi nella rappresentazione

dell'Italia di allora. Perché cos'altro erano quelle lussuose Budapest di

cartapesta, quei collegi dalle allieve belle e canterine, quei casti amori di

sartine, se non rappresentazioni dell'Italia e degli italiani come erano o

come si voleva che fossero o, infine, come si voleva che si convincessero

a non essere?

Sta di fatto che, attraverso i generi e specialmente attraverso i più

popolari di essi, cioè la commedia ed il melodramma, al cinema fu

concesso sia di lasciarsi sfuggire nel quadro qualche accenno alla

situazione della società italiana più di quanto fosse concesso ad altri

media come radio o giornali, sia di operare, tramite la fascinazione che è

propria dello schermo, con qualche ambiguità nel mostrare dei presunti

contromodelli che in realtà non sempre finivano col risultare tali.

Facciamo due esempi su tutti circa quest'ultimo caso. Fosco Giachetti

racconta che il ministro della cultura popolare, Alessandro Pavolini, lo

convocò a proposito della sceneggiatura di Noi vivi e Addio Kira e del

fascino che il personaggio del bolscevico Andrej esercitava, preoccupato

delle possibili reazioni del pubblico. "Ho paura che nei cinematografi di

terza categoria il pubblico applauda, mi dia dei fastidi" avrebbe detto

Pavolini24; cosa che puntualmente accadde, poiché effettivamente la

figura di Andrej risultava più affascinante delle altre; tanto è vero che il

film, che avrebbe dovuto essere anticomunista, finì col provocare più di

23 Casetti, Farassino, Grasso, Sanguineti, op. cit. , p. 346. 24 Citato in Argentieri, Il cinema in guerra cit. , p. 231.

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Page 30: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

un mugugno presso il regime. Pavolini aveva cercato di fermarlo in fase

di censura, ma dovette infine cedere ed approvare la sceneggiatura dopo

l'intervento del figlio del Duce, Vittorio Mussolini. Il film, messo in

cantiere in tempi di ottimismo del paese e del regime circa l'impresa

bellica ed uscito poi nelle sale in un momento difficile per il paese,

quando le sorti della guerra cominciavano ad essere manifestamente

negative, finì per suscitare così sentimenti più antiautoritari che

anticomunisti.

Con il secondo esempio cominciamo già ad entrare nel campo specifico

della nostra analisi sulla famiglia. Fra le "Direttive per la stampa",

ovvero le cosiddette veline, emanate da quell' Ufficio Stampa che

avrebbe più avanti costituito il nucleo del MinCulPop, ve ne sono alcune

specificamente dirette all'esemplificazione di un modello di donna

"fascista": "La donna fascista deve essere fisicamente sana, per poter

diventare madre di figli sani […] Vanno quindi assolutamente eliminati i

disegni di figure femminili artificiosamente dimagrate e mascolinizzate,

che rappresentano il tipo di donna sterile della decadente civiltà

occidentale"25. L'esempio delle "donne-crisi" in Italia non aveva peraltro

gran presa, ma il cinema, specialmente nel periodo delle commedie

all'ungherese, non mancò di mostrarne in abbondanza, sebbene nel

nostro cinema non vi sia mai stata una vera emula di Marlene Dietrich,

che di tale tipo di donna era l'archetipo26. Si potrebbe obiettare che si

trattava di contromodelli; ma, ci si perdoni l'espressione, spesso sullo

schermo le cattive fanno più tendenza delle buone.

Abbiamo dunque accennato a quale fosse l'immagine (o una delle

immagini) di donna che il regime tentava di imporre; abbiamo anche

25 In Ph. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 422 26 L'unica attrice proposta in tale senso ci pare essere stata l'Isa Miranda de La signora di tutti, film non a caso diretto non da un regista italiano ma da Ophuls.

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Page 31: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

aggiunto due cose essenziali per il nostro discorso, ovverosia che tale

modello non era certo estraneo alla realtà presente della società italiana,

e che nonostante tutto vi era sugli schermi un modello differente, al

quale donne e ragazze d'Italia potevano ispirarsi. E non solo il modello

da "mangiatrice di uomini", ma anche, più semplicemente, il tipo di

donna che tutte le commedie mostravano: sana, sì, e madre, forse, ma

tutt'altro che appiattita su questo schema. Una donna che sapeva essere ,

insomma, anche qualcosa oltre la "sposa e madre esemplare" dei

proclami fascisti. Vi era, insomma, "l'immagine della <<nuova donna>>

degli anni Trenta: una figura continuamente in bilico tra aspirazioni e

velleità moderniste e forti legami con il passato e con i condizionamenti

imposti dal regime fascista"27.

2.2 Stereotipi diversi per storie diverse Vi è, insomma, una duplicità di stereotipi sul piano della collocazione

della donna nella famiglia e nella società, secondo un fedele

rispecchiamento delle "nuove possibilità e, allo stesso tempo […] nuove

forme di repressione"28 che si presentano a queste donne, "affascinate

dal moderno e ostacolate dalla tradizione"29; una duplicità che emerge in

modo evidente proprio dal raffronto dei testi filmici di due generi

diversi, anzi dei due generi per eccellenza dell'Italia del tempo: il

melodramma e la commedia.

27 E. Mosconi, Figure femminili tra cinema ed editoria popolare, in R. De Berti - E. Mosconi, Cinepopolare. Schermi italiiani degli anni Trenta, "Comunicazioni sociali", anno XX n. 4 (Ott./Dic. 1998), p.648 28 V. De Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio, Venezia, 1993, p. 17 29 ibidem

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Page 32: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Il melodramma trova uno sviluppo, nel periodo da noi considerato,

piuttosto tardivo rispetto al complesso della produzione30; dopo che nel

'34 si era tentato di dare un padre nobile al genere affidando al genio di

Max Ophuls La signora di tutti, e dopo il fallimento di quell'esperienza,

era parso che il genere non trovasse terreno fertile. A dimostrare in modo

incontrovertibile il contrario giunsero invece, pochi anni più tardi, film

come Montevergine31 che, pur non avvicinandosi neppur lontanamente al

valore dell'opera girata da Ophuls, riempivano le sale inesorabilmente.

erché? Proprio perché il film di Ophuls era, e non avrebbe potuto essere

altrimenti, un'opera troppo sofisticata. Mancava al pubblico ogni

possibilità di identificazione, quindi di empatia; e in un genere come il

melodramma costruito in toto sulla commozione ed i sentimenti, questa

distonia non poteva che produrre un fallimento. Nella società italiana, il

cinema melodrammatico eredita il ruolo della narrativa d'appendice, e

naturalmente dell'opera lirica; e ne eredita anche un sistema ideologico

ed un mondo di riferimento.

Il melodramma assume in sé gli elementi narrativi tipici di un lato della

società italiana, quello tradizionale. Una società ancora rurale,

profondamente ed atavicamente cattolica, nazionalista di eroici furori

risorgimentali: una società, in una sola parola, conservatrice. Brunetta32

chiarisce precisamente che "la topologia del melodramma popolare (la

casa-patria e l'altrove) è binaria, come binaria è la contrapposizione di

tutti i valori che reggono il mondo dei personaggi: il bene e il male, la

donna angelicata e la donna perversa". E aggiunge che "questo tipo di

30 Lo sviluppo del genere vivrà il suo momento d'oro nel dopoguerra, con picchi nei primi anni '50, trovando il suo maestro in un regista già avvezzo al genere, Raffaello Matarazzo. 31 C. Campogalliani, 1939; il film è noto anche col titolo di La grande luce. 32 Storia del cinema cit. , P. 294-295.

33

Page 33: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

produzione diventa un ottimo contenitore ed un ottimo veicolo

dell'ideologia conservatrice"33.

Il melodramma diventa così il genere nel quale si identifica un modello

sociale, quello dell'Italia dei valori tradizionali; e naturalmente la

rappresentazione della famiglia non può fare eccezione, anzi ha una

posizione di spicco, sia in quanto nucleo indiscusso della società

tradizionale, sia in quanto gli intrecci di amori impossibili, tragedie,

agnizioni e via discorrendo vi ruotavano costantemente intorno. Il

melodramma rappresenta la famiglia italica nella sua immagine

immutabile arcaica, diciamo pure prefascista (anche se non certo

disprezzata dal regime) e soprattutto premoderna. Le famiglie sono

famiglie nucleari, i legami di sangue anche lontani sono vincoli sacri, la

donna trova il suo posto inesorabilmente solo nel matrimonio e nel

focolare domestico, sottomessa al suo uomo; quelle donne che escono da

questo schema sono donne perverse, irrimediabilmente perdute: e con la

loro morte, al meglio nobilitata da ravvedimenti sull'ultima soglia, la

società può riavere il suo ordine. Una catarsi in piena regola mi pare.

D'altronde il principio manicheo sotteso a questa visione del mondo non

può ammettere infrazioni, pena il crollo del sistema intero; quindi gli

stereotipi non possono essere che rigidi, ed abbiamo così dei testi che,

nel loro rappresentare un documento non tendenzioso di una delle facce

della società italiana, sono contemporaneamente costruiti secondo canoni

narrativi antichi, modelli omerici o fiabeschi, con una precisa struttura di

"funzioni"; e intendo qui tale termine con riferimento agli studi proprio

sulla fiaba di Vladimir Propp. L'eroe, contrastato da un antieroe o da un

falso eroe, viene messo in stato di disgrazia senza sue colpe, e deve

affrontare delle prove per recuperare il suo status e ristabilire l'ordine 33 ibidem

34

Page 34: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

sociale. Rispetto a questo schema, però, una cosa non può mancare nel

melodramma, una presenza che attraverso i libretti d'opera e il

Romanticismo risale fino alla tragedia antica: la morte. Una morte che è,

appunto classicamente, purificatrice, un sacrificio finale. Insomma,

quando nel melodramma l'immancabile ala della morte si fa presente

anche nell'ultima scena, nondimeno, per la società, spesso vivono tutti

felici e contenti. Espulso il virus dalla cellula, essa torna sana. Ed il

nucleo di questa cellula e, naturalmente, la famiglia: ecco infatti che sia

le vicissitudini sia i tragici finali fanno perno regolarmente

sull'infrazione del regolare sistema familiare, si tratti di amori non

destinati al matrimonio, o di abbandoni filiali, o di rifiuto della famiglia

come nido-nucleo. Vi è un'Italia che non perdona, un'Italia che necessita

di essere rassicurata nei suoi valori arcaici assistendo alla parabola di

distruzione che precipita sempre più in basso chi rifiuta tali valori, sino

alla morte se necessario. Non sempre il finale è tragico, spesso la donna

perduta (o, più raramente, l'uomo sciagurato) nel finale ottengono la loro

reintegrazione; ma il tutto, oltre ad avere un che di posticcio, da deus ex

machina, non muta il quadro generale: esempi morti o esempi vivi che

siano, questi personaggi ugualmente mostrano che al di fuori delle

antiche convenzioni non c'è che la rovina.

Ma abbiamo detto che quest'Italia, quella tradizionale, non è che uno dei

due volti della medaglia. Vi è infatti un'altra Italia, un'Italia più moderna,

più giovane, meno tradizionalista e meno rurale. Abbiamo già detto che

la struttura tradizionale della società basata sulla famiglia e sulla donna

come suo nucleo germinale non era certo sgradita al regime; ma non si

deve dimenticare che, oltre la sbornia ruralista che il fascismo coltivò nei

suoi primi anni, si fanno ormai largo a grandi falcate nel paese già a

cavallo fra i decenni '20 e '30 la modernizzazione, l'industrializzazione, e

35

Page 35: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

l'ineluttabile cambiamento sociale che ciò impone. Trova sempre più

consenso, in particolar modo fra le giovani generazioni e fra i sempre più

folti ceti urbani o urbanizzati, un modello sociale nuovo e diverso; e

naturalmente la prima realtà ad essere messa in discussione è quella

centrale della vecchia struttura sociale, ossia la famiglia. I giovani e le

giovani si trovano di fronte nuove scelte, nuove possibilità, nuovi

desideri; ed a rappresentare loro, il loro mondo e le loro aspirazioni

"borghesi" trovano un genere, che non esiterei a definire "borghese"

anch'esso: la commedia.

Contrariamente al melodramma, che, come si è detto, ha radici molto

lontane, la commedia così come si stabilisce negli anni '30 è genere del

tutto nuovo. Il sonoro e il cambiamento dei gusti hanno ucciso

sostanzialmente il film comico puro, ed il pubblico ora non si accontenta

più di gag e inseguimenti: vuole una storia. E la vuole, prima ancora che

divertente, sentimentale quanto basta: una storia lieta e leggera per far

sognare un po'.

Ma di quale pubblico stiamo parlando? È opportuno identificare subito a

quale spettatore potenziale si rivolgesse questo genere, per poter

giungere alla comprensione del meccanismo che lega la commedia alla

società italiana ed ai cambiamenti in atto in essa. Abbiamo già detto che

il melodramma rappresenta una parte dell'Italia, quella legata alla

tradizione; la commedia ne è il contraltare, è il cinema che si fa specchio

di una società italiana in rinnovamento. Si badi bene: non parliamo

affatto di una divisione di pubblico in senso materiale, con madri e

contadini da una parte e giovani e cittadini dall'altra. Parliamo invece di

una duplicità mentale, di due atteggiamenti; qualcosa che poteva

condurre una fanciulla a vedere un giorno Assenza ingiustificata34 e 34 Max Neufeld, 1939

36

Page 36: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

sognare di vestiti sfarzosi, serate al ballo e case principesche, e il giorno

dopo a vedere Melodramma35 (titolo di per se eloquente anzi che no, ma

è solo un esempio), sospirare, fare atto di dolore per la vanità del giorno

prima e correre a casa a ricamarsi il corredo. Non vi è un'Italia spaccata

in due, ma due Italie che per larghissimi tratti coesistono, e coesisteranno

ancora a lungo.

Il genere commedia non mette in atto, naturalmente, un attacco frontale

alla famiglia come istituzione tradizionale; tanto è vero che le storie

finiscono quasi immancabilmente con un lieto fine matrimoniale o giù di

lì. Quello che avviene è più sottile, e si lega a filo doppio alla situazione

generale dell'Italia fascista, al suo modernizzarsi, al suo diventare passo

passo una economia ed una società industriale e borghese. Nella

commedia, alcune situazioni critiche in ambito familiare trovano una

soluzione diversa da quelle del melodramma, e propongono così allo

spettatore l'ammissibilità sociale di un nuovo modello, ponendo il lieto

fine a suggello della validità delle scelte dei protagonisti. Un facile

esempio può essere nella situazione narrativa "matrimonio combinato

contro matrimonio per amore"; la commedia presenta una famiglia con

figlia in età da marito, un candidato gradito ai genitori (per posizione

sociale, ricchezza o comunque interessi materiali) ed un altro, invece,

amato dalla figlia, che egli riama. Giacchè siamo in un film commedia,

sappiamo bene come finirà: non solo la fanciulla e il suo amato

coroneranno il loro sogno col finale assenso dei genitori, ravvedutisi

intanto per qualche strano accidente narrativo, ma anche il buon amante

troverà modo di elevare il proprio status in modo che non vi sia

rimpianto per il buon partito rifiutato. Gli esempi si sprecano, da La

35 Robert Land e Giorgio C. Simonelli, 1934

37

Page 37: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

famiglia Brambilla in vacanza36 a San Giovanni decollato37 e una

pletora di altri film.

Inutile sottolineare quale sia l'importanza di un mutamento simile: il

rifiuto del matrimonio d'opportunità combinato dai genitori è un passo

d'indipendenza dalla famiglia originaria che non può non minare alle

fondamenta l'intero sistema della famiglia e particolarmente della

famiglia allargata, ed anche l'immagine tradizionale della donna come

soggetto socialmente sottomesso, che esce dalla potestà del padre solo

per sottoporsi a quella del marito. Ma negli anni '30 le giovani donne

cominciano ad essere, se non indipendenti, quantomeno parzialmente

emancipate; o, per centrare meglio la situazione, moderne. Una società

ed un'economia in rapido mutamento portano ad un ridisegnarsi

importante della figura della donna nel suo duplice rapporto società-

famiglia, mura domestiche-mondo esterno; e, anche questa volta, è nelle

commedie che questa nuova immagine trova il suo humus per mostrarsi

all'Italia insieme come realtà esistente e come modello propositivo.

La prima, grande novità che emerge prepotentemente dai film-commedia

è la donna lavoratrice. Questa nuova figura fa prepotentemente il suo

ingresso sugli schermi fin dal 1931, dal film capofila del genere: La

segretaria privata, un titolo di per sé eloquente. Il film di Alessandrini

identifica e mostra una nuova condizione sociale, e ciò risultava chiaro

già ai critici dell'epoca. Ecco cosa scriveva su "Cinema" Rosario Assunto

tracciando, nel 1940, una sorta di summa del genere e della concezione

sociale di cui parliamo: "La segretaria privata rappresentava il mito

consolatore e la illusione […] delle ragazze appartenenti ad una società

nella quale a nessuno era più lecito attendere inerte il proprio destino.

36 Carl Boese, 1942 37 Amleto Palermi, 1940

38

Page 38: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Nasceva, codesto film, mentre era nel punto più acuto quella

trasformazione di un ordine e di un sistema economico sociale che era

stata battezzata <<la crisi mondiale del 1929>>: in tutte le famiglie si

sentiva il bisogno di aumentare le entrate del bilancio domestico. E le

signorine […] deposto il ricamo in fondo ad un cassetto, studiavano

dattilografia, stenografia, computisteria per entrare nelle banche, negli

uffici, nelle aziende"38. E non solo di necessità economiche si trattava,

ma di nuove aspirazioni personali della nuova generazione femminile:

"Valido a dissipare la malinconia di un avvenire intravisto come uno

sfiorire quotidiano […] il ritornello di Elsa Merlini suonava come una

promessa"39.

Ci pare che il critico di "Cinema" avesse individuato perfettamente, pur

con gli inevitabili limiti del tempo, la situazione: un film, peraltro

rifacimento di un'opera tedesca dello stesso anno, con poche accortezze,

nelle mani di un regista non ingenuo e sotto l'influsso dell'aria che

spirava nella società italiana, aveva talmente colto lo spirito dei tempi da

trovare non solo degli emuli, ma da porsi a capofila di un genere.

Il successo delle commedie, enorme e incontrastato nell'ambito della

produzione italiana dell'era fascista, è probabilmente dovuto proprio a

questo: la sintonia con un settore emergente della società, e soprattutto

con i suoi desideri. Desideri, per carità, del tutto modesti e limitati: nella

prospettiva della ragazza al lavoro c'era comunque, immancabile, un

futuro matrimoniale. Ma era ormai chiaro ai più che tale condizione non

era l'unico esito della vita femminile; è ancora Assunto a notare che il

modello sociale proposto dalla commedia era, prima di giungere a certi

eccessi come gli iperlussi mondani del filone "ungherese", "un

38 R. Assunto, L'ultima mitologia, in "Cinema", numero 106, 25 novembre 1940, p. 365. 39 ibidem.

39

Page 39: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

consolatore garbato e persuasivo all'accettazione di una nuova,

ineliminabile concezione di vita"40.

Ma non vi sono solo le donne lavoratrici ad indicare come nelle

commedie sia rappresentato un modello di donna, di famiglia e di società

in rapido mutamento, in contrapposizione alla vecchia struttura sociale,

al modello familiare, definiamolo così, "dell'obbedienza": vi sono anche

altri segnali di come la famiglia inizi a perdere la sua imperativa

centralità nel contesto sociale. Un primo esempio può essere individuato

nella sistematica disobbedienza di tutte quelle collegiali e studentesse

varie che popolano molti delle commedie degli anni '30: le "birichine di

papà" sono insubordinate tanto verso le istituzioni del collegio quanto

verso la famiglia che lì le ha rinchiuse. Proprio Il birichino di papà41 è in

questo senso esemplare: non solo abbiamo la protagonista in fuga dal

collegio (nel quale inoltre ne combina di tutti i colori), ma abbiamo

anche tutto un altro sistema di rapporti familiari messi in gioco e che non

ne escono troppo bene: dal padre buono ma succube di una marchesa

futura suocera di ottocentesca severità, al fidanzato della sorella incline

alle grazie di amiche sciantose, fino a quello che è forse il meno

appariscente - eppure è già nel titolo!- ma più importante degli elementi:

il "birichino", non si dimentichi, è Chiaretta Gelli, e il suo iperattivo

trafficare non solo travolge d'impeto tutta una serie di convenzioni e

vecchie ipocrisie sociali, ma anche finisce coll'evidenziare un rifiuto

della stessa identità femminile così come ancora era spesso vista

all'epoca. Vi è, inoltre, un rigetto frontale della figura della matriarca,

incarnata nell'arcigna marchesa, e quindi della famiglia allargata, a

favore del legame diretto ed esclusivo con il padre, solo punto di

40 ibidem 41 R. Matarazzo, 1943

40

Page 40: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

riferimento affettivo in un contesto ostile. E dietro alla figura della

marchesa (e di suo figlio) si cela anche altro: è tutto un mondo, tutto un

sistema di convenzioni sociali ipocrite, premoderne e insomma

sorpassate quello che viene aggredito dal gioioso caos purificatore di

Nicoletta. Non inganni il riappacificamento e regolare matrimonio che

da al film il dovuto lieto fine: matrimonio sarà, ma attraverso

l'operazione di rottura sociale compiuta dalla ribelle Nicoletta (o Nicola)

la sorella maggiore ha acquisito una posizione di maggior peso e tutela

nella sua condizione di moglie; non sarà più accettato stendere l'ipocrita

velo del buon nome, del "non fare uno scandalo" sulle avventure del

marito, egli non può più contare sull'impunità del privilegio maschile,

della subalternità della moglie al marito per potersi permettere ciò che

vuole. Non era poco per i tempi. Ed era tutto l'opposto dello schema dei

rapporti coniugali nel melodramma, nel quale l'accettazione della donna

della propria sottomissione al marito era condizione necessaria, al di

fuori della quale non vi erano che l'estromissione dalla società e la

perdizione.

Un secondo esempio, infine, di come numerosi elementi nella commedia

italiana dell'età fascista segnalino una nuova voglia di libertà all'interno

del mondo familiare vogliamo segnalarlo nella movimentazione dei

rapporti genitori-figli. Abbiamo già accennato a questo aspetto della

questione parlando dei film in cui si mostra una situazione di matrimonio

combinato dai genitori e rifiutato dai figli. Questo caso è certo il più

ricorrente e visibile, ma non è il solo: si pensi a situazioni più astruse ma

né infrequenti né incredibili, quali quelle in cui i figli mostrano più senno

di genitori inadeguati, come accade per esempio in Frutto acerbo42 e

42 Carlo Ludovico Bragaglia, 1934

41

Page 41: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

ancor di più in una commedia dai tratti dolceamari come L'ultimo

ballo43.

Tutto questo dipanarsi di comportamenti rinnovati nell'ambito dei

rapporti familiari, ed in particolare la frequenza di richiami dei

personaggi (nella fattispecie perlopiù i giovani protagonisti, quelli cioè

destinati all'amoroso e nuziale lieto fine) ad un loro desiderio di libertà, è

come abbiamo visto frutto di mutate condizioni economiche e

conseguentemente sociali; ma che tale voglia di liberarsi dai legami

troppo stretti finisca confinata solo nell'ambito familiare, questo non è

scontato. Col passare degli anni non sarà più solo la famiglia l'istituzione

da cui liberarsi; ma allora, come vedremo, non sarà più il solo genere

commedia a dare fiato sugli schermi alla voglia di libertà della giovane

generazione.

2.3 Il qui e l'altrove La chiave per la comprensione del rapporto tra generi del cinema italiano

anni '30 e l'immagine della famiglia è sostanzialmente tutta già contenuta

nella contrapposizione fra melodramma e commedia. Pure, dopo aver

parlato di questo rapporto fra un genere il cui mondo sociale di

riferimento è rivolto al passato ed uno che invece è rivolto al presente ed

al futuro, è opportuno fare almeno un accenno, per quanto sintetico,

anche alla situazione dei generi rispetto allo spazio, e non solo al tempo.

Vi è infatti sia nei melodrammi sia nelle commedie, seppur con modalità

diverse, una frequente situazione di spostamento spaziale dell'azione al

di fuori dell'Italia. Tale rappresentazione straniera è meno ricca di spunti

nuovi rispetto a quanto già detto, quindi ci si soffermerà brevemente solo

sugli aspetti più importanti, in particolare sull'opposizione fra l'"altrove" 43 Camillo Mastrocinque, 1941

42

Page 42: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

della commedia e quello del melodramma e di altri generi genericamente

drammatici (come ad esempio il film storico, che spesso peraltro assume

in sé molti connotati melodrammatici).

La contrapposizione appare evidente: nelle commedie le storie vengono

ambientate fuori dal paese sia per consentire l'inserimento nella trama di

situazioni che non erano accettabili nell'Italia fascista, come il divorzio o

altri comportamenti sociali genericamente ritenuti poco morali dal

regime, sia per consentire di rappresentare grandi sfarzi, metropoli, lussi

e modernità che ambientati a casa nostra sarebbero suonati fin troppo

falsi ad un pubblico abituato, e mi permetto di parafrasare, più al pane

nero che ai telefoni bianchi44. Quindi ecco che le improbabili storie di

ricchi finanzieri e segretarie dall'inspiegabilmente lussuoso guardaroba

vengono ambientate a Budapest, o in alternativa a New York e così via.

Il pubblico poteva continuare a sognare e l'immagine dell'Italia come

paese morale e morigerato non veniva scalfita. E di entrambe le cose il

regime aveva un disperato bisogno: non si dimentichi che l'esplosione

delle commedie di ambientazione ungherese avviene proprio in

coincidenza con il calo del consenso riscosso dal regime. Ma questo sarà

argomento di un successivo capitolo, e ne parleremo assai ampiamente.

Per ora basti segnalare questo: attraverso l'ambientazione estera, in paesi

che sono presentati come l'Ungheria o l'America ma che in realtà sono

ben lontani dalla realtà di tali paesi e si avvicinano molto di più ad una

costruzione fiabesca di un paese di sogno, si introducono sullo schermo

nuovi comportamenti sociali, ancor più nuovi e financo bizzarri di quelli

che abbiamo descritto in precedenza. Le storie sono talmente incredibili

che il loro reale peso sociale non può che essere considerato irrilevante;

44 "Pane nero e telefoni bianchi" fu il titolo di una rassegna retrospettiva organizzata a Ravenna, in occasione della quale G. Casadio, E. G. Laura e F. Cristiano pubblicarono il libro Telefoni bianchi. Realtà e finzione nella società e nel cinema italiano degli anni Quaranta, Longo, Ravenna 1991.

43

Page 43: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

ma resta comunque il fatto che, Budapest o no, il pubblico italiano

assiste ad una sarabanda di balli, divorzi, adulteri, crimini e

comportamenti antisociali assortiti, e che tutto questo trafficare dei

personaggi ha termine comunque con un lieto fine. Certo, le adultere si

pentono, i corrotti si convertono, ma nel frattempo hanno fatto tutti la

bella vita; una vita non solo ricca, il che già risultava abbacinante agli

italiani colpiti dalle "inique sanzioni", ma anche e soprattutto libera: e

questa voglia di libertà, già tanto sentita sul piano sociale, comincia

ormai a farsi sentire anche sul piano politico. D'altro canto il regime non

poteva liberarsi di questa cinematografia: anzi, gettata quasi in partenza

la spugna del cinema di propaganda, questo cinema di svago,

chiamiamolo di "diversione", era qualcosa di cui il regime avvertiva la

necessità per lasciare che il lusso degli schermi riempisse i sogni degli

italiani, evitando che pensassero troppo alla difficile situazione nella

quale il fascismo stava conducendo sempre più il paese, dall'autarchia

alla guerra.

Ben diversamente si configura l' "altrove" del melodramma. Abbiamo

già detto come nel mondo tutto binario del melodramma anche la

topologia casa-patria / altrove non ammetta eccezioni: come il nido

familiare o la patria avita è il luogo del bene, così le terre straniere sono

l'incarnazione di ogni malvagità. L'esempio più tipico di questo schema

lo ritroviamo nei molti melodrammi che mettono in scena figure di

italiani emigranti. Basti citare, restando solo ai film più noti, Passaporto

rosso45 ed il già citato Montevergine, due storie di emigranti per i quali

l'America è foriera solo di sventura e perdizione, e che trovano il loro

riscatto solo nel ritorno alla loro terra. I film che trattano l'argomento

dell'emigrazione non sono pochi, e lo fanno tutti nel medesimo modo: sia 45 G. Brignone, 1935

44

Page 44: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

che gli emigrati si siano fatti una posizione o che siano dei poveri

diavoli, non potranno trovare la felicità e la pace se non tornando in

patria, abbandonando un mondo di scelleratezze ed amoralità che li

corrompe. Indifferentemente dal fatto che i paesi in questione siano gli

Stati Uniti o altre nazioni, quasi sempre sudamericane (ed in effetti

queste erano le mete degli emigranti), tali paesi vengono ugualmente

descritti in modo sommario ed incurante, con la sola preoccupazione di

metterne in mostra l'ostilità, la malvagità intrinseca; non ha importanza

neppure che tale connotazione negativa venga da donne perverse o

società criminali o emarginazione dello straniero: ciò che conta è che

non vi può essere altro che male al di fuori della propria patria, e l'unica

via che ha l'emigrato per recuperare la propria dignità è il ritorno nelle

terre dei padri.

Naturalmente il discorso non si limita ai film che parlano

dell'emigrazione, ma si estende anche ad una serie di film di argomento

diverso. Spesso non si tratta necessariamente di melodrammi in senso

stretto, ma, come abbiamo detto, il melodramma pervade del proprio

spirito anche film che appartengono ad altri generi, come il film di

guerra o il film storico. Nondimeno, la rappresentazione dei paesi

stranieri rimane la stessa: uno stereotipo completamente negativo, regno

della corruzione, terra di uomini ostili e malvagi. È fin troppo facile

citare il dittico Noi vivi - Addio Kira, a proposito del quale peraltro

abbiamo già visto come finiscano col mescolarsi alla condanna della

Russia bolscevica altri elementi, sia per ideologie sia per fascinazione

filmica delle ambiguità; ma vari sono i film consimili, anche se in realtà

il regime non avrà mai dal cinema molti film antisovietici: si ricordano

Orizzonte di sangue46, Sancta Maria47 e il rosselliniano L'uomo dalla 46 G. Righelli, 1942

45

Page 45: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

croce48, e quest'ultimo è certo meno tipizzabile dei precedenti. Anzi, è

forse proprio dai film del Rossellini preneorealista che possiamo

estrapolare alcuni dei pochi segnali positivi verso i popoli stranieri: sia

nel film citato che in Un pilota ritorna49 si fanno avanti quei sentimenti

di fratellanza, di comunanza nel dolore fra i popoli che tanto bene

avremo modo di conoscere nel dopoguerra. Ma si tratta, appunto, di

Rossellini. Il cinema fascista era un'altra cosa, e si avvicinava per esso il

momento di calare il sipario.

Sembra, in conclusione, che non vi sia luogo alcuno nel melodramma

degli anni '30 e soprattutto in quelli prodotti tra la fine del decennio e gli

anni '40 per una descrizione non demonizzata di paesi e popoli stranieri.

L'America è vista come terra di perdizione e di ogni follia, tanto nei

moderni Stati Uniti che nella incivile America Latina; della Russia

bolscevica si parla poco ma sempre malissimo, com'è inevitabile per un

paese non solo ideologicamente nemico, ma, peggio ancora, senza Dio.

Inutile dire che i pochissimi film con ambientazione africana (bisognava

pur mostrarle agli italiani queste colonie pagate a tanto caro prezzo)

tratteggiavano gli indigeni secondo i peggiori stereotipi razzista. Non

mancano neppure le frecciate a rivali secolari dell'Italia come

l'Inghilterra e i "cugini" francesi, specialmente in filoni collaterali come i

film storici e d'avventura più che in veri e propri melodrammi (infatti su

inglesi e francesi si scatena più il dileggio che la censura); e al regime

certo non spiaceva che gli italiani rinfocolassero il loro nazionalismo

sfogandosi contro paesi che erano peraltro, anche al momento, avversari.

Il dato più significativo circa la sostanziale inadeguatezza del nostro

cinema a fornire, in film drammatici, un ritratto positivo di un qualsiasi

47 P. L. Faraldo, 1941 48 R. Rossellini, 1943 49 R. Rossellini, 1942

46

Page 46: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

paese straniero, mi pare sia in modo abbastanza evidente la totale

mancanza di film dedicati agli alleati. Non un metro di pellicola speso

per rendere simpatici agli italiani quella Germania che tanto corteggiava

il nostro paese; men che meno si parla del Giappone, e se non vi fossero

i film dedicati alla guerra di Spagna (pochi e non troppo significativi su

questo punto50) anche dell'altro paese alleato del regime non si

troverebbe traccia. È indubbio che la Germania non era certo ben vista

dagli italiani, che ancora conservavano come sacri cimeli il rancore,

l'odio e l'orgoglio della Grande Guerra (con il consenso entusiasta del

regime, che non poteva che esaltare il nazionalismo postbellico;

nazionalismo nella cui atmosfera era nato il regime stesso, ma che poi

creerà più d'un pensiero quando si tratterà di accantonarlo e convincere

gli italiani a combattere a fianco dello storico avversario tedesco). Ma ci

pare che, più generalmente, sia la struttura stessa del mondo di

riferimento del melodramma a non consentire la rappresentazione sugli

schermi di paesi stranieri con tratti positivi. Per un mondo

anacronisticamente chiuso in se stesso e nelle proprie piccole, intoccabili

certezze domestiche non era ammissibile che vi potessero essere altri

paesi all'infuori dell'Italia nei quali gli uomini vivono felici. Proprio

mentre le commedie sembravano suggerire sempre più che per menare

vita felice non c'era che da guardare fuori dall'Italia.

50 Si ricorda L'assedio dell'Alcazar (A. Genina, 1940) e poco più.

47

Page 47: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Capitolo 3.

Cinema di famiglia, cinema di donne?

3.1 Protagonisti e spettatori Cominciamo con un quesito: a chi era indirizzato il cinema fascista? A

quali classi sociali, età, sesso apparteneva lo spettatore ideale del cinema

dell'età del regime? Tale domanda si lega a doppio filo, in virtù del noto

meccanismo di identificazione che si crea fra lo schermo e lo spettatore,

ad una questione gemella: quali erano i protagonisti della cinematografia

fascista?

Quando ci poniamo il problema dello "spettatore ideale" non vogliamo

certo addentrarci nell'argomento di quale fosse poi, nella realtà, la

composizione del pubblico nelle sale. Un simile lavoro, per quanto

interessante possa essere, incontrerebbe innanzi tutto un enorme ostacolo

materiale nel reperimento dei dati necessari. In un panorama di fonti

storiografiche nel quale persino il numero dei film usciti nelle sale è

incerto, e non di poche unità ma di svariate dozzine da una fonte

all'altra51, ogni ricostruzione che cerchi di basarsi su cifre desunte da

fonti d'epoca risulta improba; cercare poi di quantificare quanti uomini e

quante donne, quanti giovani e quanti anziani frequentassero le sale è da

escludere, dal momento che non esistono riferimenti a questi elementi fra

i dati di vendita dei biglietti. Si può tutt'al più, e pare più che sufficiente

per i nostri scopi, ricostruire approssimativamente quale fosse la

situazione grazie alle memorie, scritte ed orali, di chi era presente; e

naturalmente anche tramite le fonti indirette, per quanto esse vadano

prese con cautela. Tanto per restare nel nostro campo si osservino i film

51 Non staremo a citare tutte le fonti e le loro discordanze, ma le cifre indicativamente variano da circa 660 ad oltre 720 nel periodo 1930-1943.

48

Page 48: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

dell'epoca con l'occhio stavolta dello storiografo: quando nei film vi sono

scene ambientate dentro un cinema o all'uscita o entrata di esso, non si

vedono perlopiù altri che giovani, parimenti ragazzi e ragazze, con lieve

prevalenza dei primi; qualche sparuto signore, più spesso con signora al

seguito che solo, e mai donne mature da sole; pochissimi ragazzini, che

pure notoriamente per il cinematografo impazzivano e s'intrufolavano in

sala in ogni modo: ma probabilmente li si trovava nei cinema

parrocchiali o di terza visione, e non nelle sale lussuose che sole

vengono messe in scena nei film52. Famiglie al completo, a dar retta ai

testi filmici, al cinema non se ne vedono quasi mai. Di anziani non si ha

traccia.

A sentire le testimonianze della generazione che aveva vent'anni nel '40

la realtà non era molto diversa dalla finzione filmica53. Il cinematografo

era luogo soprattutto di giovanotti, borghesi di diversa levatura a seconda

della sala: i "signori" e i popolani frequentavano sale diverse in zone

diverse, non certo per discriminazione ma per il più semplice dei motivi:

il diverso prezzo del biglietto. Quanto alle signorine, la loro presenza nei

cinema, con amiche o meno spesso in gruppo misto o in coppia (il

cinematografo, non dimentichiamolo, era pur sempre visto dalla

generazione precedente come un'oscura sala di dubbia moralità) sembra

molto più legata allo spazio sociale: più frequente nelle metropoli come

Roma o Milano, decresce rapidamente nelle città più provinciali e

scompare nelle zone rurali, ove peraltro i cinematografi non

abbondavano certo. D'altronde, questa stessa dinamica sociologica è in

52 Bisogna inoltre ricordare che nei film l'ambientazione è quasi sempre quella metropolitana, perlopiù romana; la situazione sociale e del consumo spettacolare in realtà diverse del Paese era diversa in modo consistente da quella della capitale. 53 Per le preziose testimonianze dirette, che utilizziamo in questo punto e disseminate qua e là lungo tutto il lavoro, ringrazio in modo particolare Franco Chiodi, classe 1919 e una fervida memoria di quello che furono il cinema e la rivista nella Brescia dell'epoca.

49

Page 49: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

gran parte applicabile al consumo di spettacoli cinematografici in

generale, senza distinzioni di sesso, età o status. A nutrirsi di cinema

erano soprattutto le grandi città.

Confermata è l'assenza dalle sale delle persone più avanti con gli anni,

per un duplice motivo: le difficoltà economiche di cui spesso gli anziani

facevano per primi le spese, e la preferenza, fra chi poteva permettersi

svaghi, di altre forme di intrattenimento, come l'opera, la rivista o forme

non spettacolari54.

Le famiglie al completo non frequentavano il cinema se non raramente:

era un tipo di spettacolo non ritenuto in genere adatto a giovani e

bambini. L'eccezione era costituita da qualche (sparuto) film

particolarmente adatto ed espressamente dedicato ai fanciulli: molti di

coloro che a quel tempo portavano ancora i calzoni corti entrarono per la

prima volta in un cinematografo che non fosse la sala parrocchiale in

occasione dell'uscita di Biancaneve e i sette nani, il gioiello disneyano

che, crediamo, dovette far sgranare gli occhi non poco anche ai genitori

che li accompagnavano.

Ma abbiamo citato i cinema parrocchiali, e non a caso: per moltissimi,

specialmente nelle zone d'Italia dove più forte era la presenza della

chiesa in un contesto sociale moderno, il primo schermo fu quello della

sala parrocchiale. Vi si proiettavano film di poco rilievo e spesso di

nessuna circolazione nelle sale pubbliche: pellicole agiografiche, storie

virtuose, eventi miracolosi. Solo raramente arrivava qualche film, in

terza visione, di normale circolazione: la selezione, assolutamente

vincolante, del Centro Cattolico Cinematografico attraverso le sue

54 In particolare, i testimoni dell'epoca ci ricordano come, almeno nel nord Italia, la gran parte delle persone uscite per anzianità dal mondo produttivo passassero il loro tempo nelle osterie, non solo mescite di vino ma vero punto di aggregazione sociale, per tutti ma soprattutto per gli anziani: lì si incontravano i conoscenti, si discutevano le questioni, si leggevano i giornali, si ascoltava la radio, si concludevano anche affari, e naturalmente si passava il tempo con occupazioni come il gioco a carte.

50

Page 50: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Segnalazioni cinematografiche (e, prima della fondazione del CCC,

attraverso la Rivista del cinematografo del Consorzio Utenti

Cinematografi Educativi) censura con grande severità le pellicole sia

nazionali che estere, bollandone molte come inadatte tout court alla

visione da parte di occhi pii e concedendo a pochissime lo status di

"visibile anche in sala parrocchiale". Col passare degli anni, le schede

del CCC si baseranno sempre più, oltre che sul giudizio morale, su

quello ideologico, in una crescente concordia col regime: basti ricordare

che vennero ammessi alla proiezione parrocchiale molti film sulle guerre

d'Africa e di Spagna.

Le sale parrocchiali erano dunque in grandissima parte frequentate

proprio dai giovanissimi, per i quali erano scelti solo film educativi o

edificanti; tanto che era prassi comune che l'accesso alla proiezione

prevedesse non il pagamento del biglietto ma la presenza alla messa

domenicale, col noto meccanismo dei "timbrini"55: all'uscita dalla

funzione venivano timbrate apposite tesserine o simili che davano

l'ingresso alla proiezione del film. La frequentazione delle sale

parrocchiali era dunque non solo un fatto prettamente giovanile, ma i

fanciulli frequentavano tali spettacoli da soli, e non insieme alla

famiglia; la loro tutela era delegata ai sacerdoti. Più raramente i ragazzini

facevano parte del pubblico dei cinematografi pubblici: la libertà

concessa dalla famiglia ai giovanissimi era ancora estremamente

ristretta, e perlopiù erano ragazzini di famiglie popolari o della bassa

borghesia ad infilarsi nei cinematografi di terza visione, marinando la

scuola o spendendo gli spiccioli guadagnati con i loro piccoli lavori da

garzoncelli frequentando le sale negli spettacoli pomeridiani. I figli delle

classi più agiate, che studiavano e non entravano ancora bambini nel 55 O con sistemi similari, come tagliandi eccetera.

51

Page 51: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

comunque emancipante mondo del lavoro, non frequentavano le sale

cinematografiche se non saltuariamente e in casi particolari.

L'iniziazione al cinema avveniva alle soglie dell'ingresso nel mondo

adulto. Ed a qualunque età avvenisse era, è bene dirlo, un'esperienza

vissuta in proprio e non guidata dalla famiglia, in virtù del fatto che il

gap generazionale fra genitori e figli impediva che i primi potessero

avere gli strumenti culturali e la mentalità per guidare i secondi alla

scoperta di una forma di spettacolo che praticamente non esisteva

quando essi erano nati, o che era ancora una sorta di attrazione da

baraccone verso la quale resistevano forti pregiudizi; senza scordare

inoltre che l'avvento del sonoro aveva profondamente mutato l'essenza

stessa del cinema, e che la generazione precedente continuava a

preferirgli le più tradizionali forme di spettacolo come il teatro, la lirica e

la rivista.

Abbiamo dunque visto, pur se con approssimazione e con inevitabili

generalizzazioni (si è già detto come la situazione variasse moltissimo in

base a zone geografiche, fasce socioeconomiche e così via) quale fosse il

pubblico del cinema dell'età fascista. La domanda che si pone ora è se e

quale corrispondenza vi fosse fra il pubblico reale e un ipotetico

"pubblico ideale" al quale il regime fosse interessato a rivolgersi, in

modo più o meno diretto, tramite il cinema; o, più semplicemente, quale

rapporto intercorresse fra la società italiana reale e i modelli sociali che

filtravano dagli schermi.

Non è il caso di entrare qui nell'annoso e complessissimo dibattito fra

chi ritiene che questo cinema fosse profondamente fascista e chi lo

considera perlopiù un cinema afascista e privo di valenza politica; mi

paiono del resto di un'evidenza lapalissiana sia il fatto che una forma

espressiva come il cinema non possa non respirare profondamente l'aria

52

Page 52: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

dei tempi in cui vive, sia il fatto che il regime fascista non volle usare e

non usò mai lo spettacolo cinematografico come forma di propaganda

diretta (contrariamente a quanto avveniva negli stessi anni in

Germania56).

Il cinema italiano dal 1930 al 1943 può dirsi, più che un cinema fascista,

un cinema dell'Italia fascista: la differenza sta nel legame più con gli

umori del paese che con l'ideologia del regime. Sta di fatto che se vi è un

campo, un tema sul quale pare esservi una profonda aderenza fra la

società italiana (nella sua realtà e nelle sue aspirazioni), il regime fascista

e la rappresentazione cinematografica, questo è proprio il tema della

famiglia. In modi e momenti diversi o coincidenti il cinema ha

rappresentato la mentalità o la realtà o le aspirazioni degli italiani e delle

loro famiglie, come pure i diversi aspetti dell'ideologia familiare

propugnata dal fascismo, senza che l'uno e l'altro aspetto si trovassero

mai o quasi in contrasto, almeno fino agli ultimissimi anni del fascismo,

quando ormai il dissenso fra il paese e il regime cominciava a

manifestarsi anche e soprattutto in altri campi. Ma prima di giungere a

vedere come il cinema dell'età fascista abbia seguito nella

rappresentazione della famiglia percorsi ora fissi ora mutevoli sulla linea

diacronica, analizziamo tale rappresentazione familiare scomponendola

nei suoi singoli elementi, i membri della famiglia cioè. Quali erano i

personaggi sui quali il cinema concentrava maggiormente la sua

attenzione nell'ambito della famiglia? E secondo quali modelli li

rappresentava?

56 Il regime nazista fece un uso larghissimo e stringente del cinema come mezzo di propaganda diretta: non solo attraverso l'ossessiva elaborazione formale che ruotava attorno alla raffigurazione di Hitler nelle riprese cinematografiche dei suoi discorsi, ma anche attraverso il cinema di finzione, nel quale abbondavano i film razzisti, antisemiti e incentrati sul destino di dominio mondiale che attendeva la Germania e la razza ariana.

53

Page 53: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

3.2 Il nucleo familiare: chi sotto i riflettori? La prima necessaria precisazione è che in questi paragrafi ci occuperemo

della rappresentazione che il cinema dà dei diversi membri della famiglia

in modo generale, tracciando quadri complessivi di quali fossero le linee

guida individuabili a prescindere dalla datazione dei singoli film e dal

fatto che l'istituzione famiglia subisca o non subisca processi di

rinnovamento della propria presenza nel cinema; questo sarà invece

argomento dei due successivi capitoli, nei quali si analizzeranno appunto

un modello di rappresentazione della famiglia che rimane costante nel

corso degli anni del regime, e uno che invece subisce trasformazioni nel

corso degli anni ed in particolari momenti.

Pare però opportuno dapprima individuare quali siano le figure familiari

che il cinema del periodo fascista porta con più frequenza sugli schermi,

ed individuare i caratteri prevalenti che queste figure assumevano.

Necessaria operazione preliminare è stabilire quali delle relazioni

familiari siano significative o meno nell'ambito del nostro discorso, cioè

quali siano i rapporti di parentela che individuano membri del nucleo

familiare che sono attivi nelle strutture narrative dei film e quali quelli

che restano invece prevalentemente inattivi, non sfruttati. Infatti,

all'interno di una famiglia gli individui contano innanzi tutto per ciò che

rappresentano, per il loro ruolo in rapporto con gli altri membri: non

esiste un padre se non c'è un figlio.

Vediamo così che alcuni dei rapporti familiari rimangono fuori dagli

schermi, ed in particolare, fra i rapporti di parentela primari, è quasi del

tutto assente la dinamica del legame fra fratelli o sorelle. Queste ultime

talora compaiono, in virtù generalmente del ruolo narrativamente

comodo che la loro complicità può rivestire, ma praticamente mai si

sviluppa nel racconto un qualsivoglia punto di interesse rispetto al

54

Page 54: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

rapporto fra di esse. Penso ad esempio a film come L'allegro fantasma57

nel quale le tre sorelle servono esclusivamente ad inserire canzonette nel

film (si tratta infatti dell'allora noto Trio Primavera), tanto che esse sono

del tutto indistinte e che, se invece che tre sorelle vi fosse una sola

ragazza, nulla nella narrazione muterebbe (e, a dir la verità, il film ne

avrebbe guadagnato assai); oppure a Il birichino di papà, dove pure il

centro dell'azione si snoda proprio attorno alla benefica intromissione

della sorella minore nella vita della maggiore, senza però che questo

fornisca nessuno spunto che vada oltre la pura funzione narrativa volta ai

soli fini dell'intreccio; oppure ancora ad un film importante e di livello

superiore come La signora di tutti, nel quale la sorella della protagonista,

dopo una presenza nella prima mezz'ora di film puramente di contorno

nei soliti panni della sorella-complice, scompare completamente per

l'intero film, per un'ora, prima che lo spettatore scopra, nel finale

(l'ultima scena dell'allucinato flashback della morente protagonista,

prima che il tempo filmico torni lineare e ce la mostri morta) che proprio

quella sorella è la causa del suicidio di Gaby / Isa Miranda, in quanto

essa ha sposato l'unico vero amore della vita dell'infelice donna fatale.

Tutto ciò, sia ben chiaro, senza neppure che tale sorella appaia: viene

solamente nominata. Lei ed il suo rapporto con la sorella hanno né più né

meno la stessa importanza di un oggetto scenico, di uno di quei fazzoletti

con le iniziali ricamate che riempivano da secoli la storia del racconto di

ogni tipo. Il rapporto di sorellanza, dunque, è presente sugli schermi in

modo del tutto inattivo, puramente come espediente narrativo; ma

peggior sorte ancora è quella che tocca ai fratelli, che non hanno neppure

questa parte: sono semplicemente assenti.

57 A. Palermi, 1941

55

Page 55: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Naturalmente in questo schema di legami familiari, e passiamo ora alle

relazioni che sono attive nella cinematografia degli anni '30, vanno

incluse, e sono anzi fondamentali, anche le relazioni "in fieri", e non solo

quelle già consolidate: quindi non si tratta solo di mogli e mariti, ma

anche e soprattutto di fidanzati, di future mogli e futuri mariti, di uomini

e di donne in età e condizione tali da porsi nel momento di approccio, di

accesso al nucleo familiare, o meglio di passaggio da un nucleo familiare

all'altro; sebbene quest'ultimo passaggio, quello cioè relativo al transito

dal nucleo familiare d'origine e dallo status di figlio al nuovo nucleo

familiare col relativo status di marito, risulti spesso curiosamente

assente, rimosso, particolarmente per quanto riguarda l'uomo. La

stragrande maggioranza dei film dell'epoca prevedeva due attori giovani

che, attraverso varie vicende, finivano con il conoscersi, l'innamorarsi

romanticamente e lo sposarsi (che poi il matrimonio venisse mostrato

come lieto fine o solo annunciato o reso scontato da baci o fidanzamenti

non fa in realtà alcuna differenza); ma non sempre veniva mostrato nella

narrazione il nodo cruciale del passaggio dalla famiglia d'origine alla

nuova, e nella grande maggioranza dei casi ad essere rappresentata in

questo momento era solo la famiglia originaria della donna; molto più

raramente quella dell'uomo, e in casi ancor meno frequenti entrambe.

Anche quando ciò avveniva, inoltre, non si approfondiva troppo

l'argomento: pare che la questione dell'uscita dalla famiglia paterna e

l'approdo alla nuova fosse un fatto che coinvolgeva soltanto le donne. Il

motivo non è troppo difficile da individuare: lo status della donna in età

da marito rimaneva nonostante tutto quello di una figura sottomessa, che

usciva dalla potestà del padre solo per entrare sotto la potestà del nuovo

uomo, il nuovo padrone, il marito. È questo principio di "cessione" della

donna come soggetto subordinato quando non oggetto, che già

56

Page 56: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

cominciava a venire rifiutato dalla nuova generazione negli ambienti più

toccati dalla modernità, che a mio parere provoca la parziale rimozione

della questione nel cinema dell'epoca. In molti film e specialmente nelle

commedie (che come detto sono collettivamente la punta più avanzata

nella rappresentazione dei desideri e dei comportamenti sociali moderni)

le famiglie originarie sono semplicemente assenti dalla storia: esse sono,

letteralmente, rimosse, nel nome di quel desiderio di libertà per sé che le

donne cominciavano ad avvertire come un'urgenza non più rimandabile.

Le "segretarie private" non sembrano aver famiglia. E l'operazione

riguarda anche la grandissima maggioranza di quei film in cui la famiglia

d'origine compariva e ricopriva un ruolo centrale nella narrazione: con la

rarissima, parziale eccezione di qualche melodramma, infatti, quando

veniva mostrato in un film il momento topico del transito fra una

famiglia e l'altra lo svolgimento della vicenda era sempre uno solo: la

figlia innamorata di un uomo che i genitori non acconsentivano a farle

sposare (o fidanzare, come detto) rifiutava l'eventuale matrimonio

d'interesse gradito dalla famiglia, convinceva i genitori attraverso varie

peripezie e poteva unirsi infine al suo amato. Non è presente invece la

soluzione autoritaria, cioè l'accettazione a forza da parte della ragazza

del matrimonio senza amore voluto dalla famiglia. Questo è il dato più

indicativo: il cinema non può rappresentare la soluzione tradizionale

(perché, non dimentichiamolo, era così che andava normalmente

nell'Italia di solo una generazione prima, ed ancora in quegli anni il

matrimonio combinato era prassi non scalfita soprattutto fra i ceti non

urbanizzati) poiché essa non è accettata dal suo pubblico, che era

composto proprio da quei giovani borghesi che cominciavano a rifiutare

tale vecchia mentalità. Ma c'è anche, a fianco del motivo prettamente

cinematografico di tale rimozione, una più sottile questione, di stampo

57

Page 57: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

prettamente sociale, antropologico. Se pensiamo anche al melodramma,

che pure come si è detto rappresentava i valori e i costumi sociali di

un'Italia tradizionale ed antimoderna, vediamo ugualmente come non vi

siano tragedie legate alla proibizione di un determinato matrimonio e

all'imposizione di un altro, legate cioè al transito dal vecchio al nuovo

nucleo. La motivazione è che anche nell'ambito di questa realtà sociale

più arretrata, il valore primario del matrimonio è e rimane quello della

riproduzione, della continuazione della specie e della stirpe. La soluzione

tragica di un matrimonio imposto, o anche di un matrimonio che si riveli

infelice a causa di traumi nel passaggio fra la famiglia d'origine e la

nuova famiglia58, non era accettabile in quanto comportava, con la morte

della protagonista, che il ciclo generazionale della vita venisse spezzato,

e per di più in conseguenza di un atto compiuto proprio dalla famiglia

originaria. Un simile evento andava contro le più primarie norme sociali,

in modo del tutto inaccettabile. Così, di fronte alla crescente pressione

della modernità col suo portato di nuove esigenze sociali, le dinamiche

antropologiche spingono verso il male minore, ossia l'abdicazione della

famiglia originaria dalla sua autorità nel momento dell'uscita dal vecchio

nucleo e della formazione del nuovo in nome della superiore priorità

della continuazione della stirpe. Ed il cinema, che più di ogni altro

medium dell'epoca era per sua natura in grado di percepire

inconsciamente tali dinamiche, che entrano così a far parte della

rappresentazione.

58 È il caso, ad esempio, di Mamma (regia di G. Brignone, 1940), nel quale una donna avvezza alla vita di città ed alla socialità mondana sposa un tenore e viene da lui condotta a vivere nella vecchia casa di famiglia, isolata in campagna, con la di lui madre, donna troppo diversa da lei. Il trauma del disadattamento causa tale infelicità alla donna, lasciata peraltro sempre sola dal marito impegnato in continue tournee, da condurla alla fuga ed ad un passo dall'adulterio; ma la situazione si risolverà con la riappacificazione degli sposi attraverso il sacrificio della madre. Come si vede, la salvaguardia della nuova famiglia è prioritaria sulla vecchia; ed infatti, nel finale del film, dalla scena della morte della madre si passa in dissolvenza sulla nascita del figlio della coppia: la continuazione della stirpe è stata salvaguardata ed il ciclo naturale, scongiurata la rottura, può continuare.

58

Page 58: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Ma come si vede è soprattutto di donne che abbiamo parlato; ed è infatti

la donna la figura centrale del cinema dell'età fascista, protagonista

indiscussa del mondo familiare nel quale solo essa è compiuta e regina

incontrastata degli schermi d'Italia. Ed è da essa, e dalla posizione che i

film le riservano entro il sistema familiare, che deve partire

necessariamente l'esame dei singoli ruoli familiari e delle immagini che

il cinema dà di essi.

3.2.1 La donna protagonista Molto abbiamo già detto sull'immagine della donna nel cinema italiano

degli anni '30, e molto ancora avremo modo di dire più avanti sui

mutamenti che tale immagine subisce nel corso degli anni dal 1930 al

1943. Quello che ci interessa ora è concentrarci sulla figura femminile

nel panorama generale del periodo, delineando quale sia il peso della

donna nei rapporti d'importanza, sia narrativa che sociale, all'interno del

contesto familiare, e quali siano gli stereotipi centrali secondo i quali

essa è rappresentata, lasciando per il momento da parte la questione del

se e come alcuni di questi stereotipi si evolvano durante il periodo preso

in considerazione.

Lo spunto obbligato di partenza è il divismo femminile, e la sua

superiorità netta su quello maschile. Di fatto, tutto il cinema dell'età

fascista è un cinema, se non di dive, di donne. Meglio ancora, di ragazze.

Infatti le protagoniste di tutta questa cinematografia, tanto delle

commedie quanto dei drammi o delle avventure o delle rievocazioni

storiche, sono sempre e solo fanciulle o giovinette, sul punto di sbocciare

alla vita o cariche di vitale femminilità in fiore o in boccio. Prima ancora

di vedere in che modo dive come Doris Duranti o Alida Valli o Carla del

Poggio incarnassero aspetti diversi della donna in film di diverso taglio

59

Page 59: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

ed ambiente, si precisa subito che non vi è posto per signore mature,

donne di mezza età e fascini matronali tra le protagoniste di questa

stagione: la donna del cinema anni '30 è, quasi per statuto, la bella

fanciulla in età da marito59. Il tipo di personaggio, cioè, che consentiva

identificazione, emulazione e sogno alle giovani italiane insolubilmente

legate dai lacci, dorati, falsi e vagheggiati, dell'ideale dell'amore

romantico.

"Il rapporto fra cinema e pubblico va studiato dettagliatamente,

specialmente rispetto alla storia, sia perché il cinema ha un ruolo nella

formazione mentale del pubblico sia perché il film utilizza le

convenzioni già esistenti nell'ambiente. Per esempio bisogna domandarsi

se le giovani donne sono spinte dall'esperienza reale a volersi innamorare

o se cercano invece di raggiungere certi miti" scrive la Lesage60; e di

seguito individua, come punto centrale attorno a cui si snoda il ruolo

narrativo del personaggio femminile, il mito dell'amore romantico,

"concetto dominante della società" posto "come massima soddisfazione

della vita della donna"61.

È infatti il mito dell'amore che contraddistingue, in tutta la

cinematografia dell'età fascista, il ruolo della donna, qualunque tipo

sociale essa incarni. Non vi è differenza sotto questo aspetto fra le varie

figure di donna che questo cinema ci presenta, siano esse collegiali o

maestrine, povere o ricche, segretarie o campagnole. Ugualmente che il

loro mondo sia fra le rose o i banchi o le scrivanie o i fornelli, tutte

59 Nella totale assenza di protagoniste di mezza età, con le attrici confinate tuttalpiù e nemmeno con frequenza nel comprimario ruolo di madri delle protagoniste, un ristrettissimo numero di film porta invece in primo piano la figura della donna anziana; ne renderemo conto in questo capitolo nel paragrafo dedicato appunto alla figura degli anziani. 60 J. Lesage, Strumenti per una critica femminista di cinema, in "Effe", n. 5 (maggio 1976), p. 30. 61 Ibidem.

60

Page 60: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

hanno un solo desiderio ed un solo destino: l'innamoramento romantico

ed il matrimonio.

D'altro canto vi sono motivi anche d'opportunità in questo schema non

sgradito al regime: conciliando il sogno romantico e la realtà

matrimoniale, quella che si crea è un'alleanza fra immagine filmica e

società, volta a far sì che i desideri e le nuove aspirazioni social-

sentimentali delle giovani generazioni di "italiani di Mussolini", ormai

non ulteriormente eludibili, si indirizzino poi concretamente verso la

giusta, necessaria e tradizionale funzione sociale della donna nella

famiglia, quella di sposa e madre esemplare. L'Italia cattolica e fascista

non può permettersi che i giovanili grilli per la testa di coloro che

devono ingrossarne le file permangano oltre l'età della fanciullezza.

Così, quello che tutto il cinema fascista narra intorno alla figura della

donna è, si potrebbe dire, un rito di passaggio, passaggio dalla

spensieratezza della gioventù all'assennatezza della virtù muliebre; e ne

fa un rito celebrato sullo schermo in piena letizia e sicuro lieto fine da

uomini belli o ricchi o entrambi che sposano ragazze incredule e felici

della loro buona sorte, del loro grande sogno d'amore coronato. Ciò

affinchè, attraverso questo rito cinematografico, le giovani donne

idealizzino e si liberino di ogni remora circa la necessità e la bontà di

tale passaggio alla condizione coniugale.

Che il ruolo naturale della donna nella società fosse quello di compagna

dell'uomo e riproduttrice della specie, nell'età fascista è cosa fuor di ogni

dubbio. Ma, una volta salvaguardato questo fondamentale punto, appare

evidente che esso non può essere un tema narrativamente interessante

per il cinema, dal momento che esso non è in grado di formare una

storia, ma soltanto di darne l'abbrivio al lieto fine nuziale. Il fatto che il

protagonista e la protagonista si sposeranno o fidanzeranno alla fine del

61

Page 61: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

film è, oltre che scontato, insufficiente, anche perché essendo tale

destino comune a tutte le donne, non fornisce spunto per nessun tipo di

caratterizzazione. Spunti che forniva invece, ed in abbondanza, una

banale occhiata alla realtà quotidiana concreta della donna. Le italiane,

infatti, accomunate da questa via a senso unico verso il matrimonio,

avevano però molto altro su cui differenziarsi, e molto altro sapevano

esprimere e di fatto stavano esprimendo proprio in quel momento nella

società italica e fascista. In effetti, proprio allora cominciavano ad

emergere dietro l'ancora intoccabile sfondo della figura di moglie e

madre nuovi aspetti della presenza della donna nella vita sociale, ed

insieme ad essi si formavano nuovi modelli di donna: modelli che,

sollevati dalla realtà ed intinti in un buon bagno di sogno, vengono

prontamente immessi sugli schermi. Nascono così i personaggi-tipo: le

collegiali, le dame da telefoni bianchi, le segretarie, le ragazze di

provincia. Ed, insieme ai personaggi, nascono i filoni del cinema dell'età

fascista; un cinema che ritengo di poter definire, proprio per questo suo

costruirsi in base alla figura femminile, un cinema di donne.

Tutto cominciò, si è soliti dire, con il trillante "Oh come son felice,

felice, felice!" gorgheggiato al mondo da Elsa Merlini ne La segretaria

privata. Se ciò è vero per quanto riguarda i testi filmici, vedremo come

invece dal punto di vista sociale l'origine stia più a monte. Ma quello che

ci interessa ora è evidenziare come, in quella figura, è già riassunta gran

parte dell'immagine femminile del cinema fascista, con i suoi temi

centrali, primo fra tutti quello, inedito e non certamente usuale, del

lavoro.

Abbiamo già riportato le parole di chi individuava, nel 1940, come La

segretaria privata rappresentasse l'uscita allo scoperto di un'intera

generazione di ragazze per le quali, per la prima volta, il lavoro poteva

62

Page 62: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

considerarsi una realtà normale; ed anche come la "crisi del '29" ed un

nuovo modello economico di nascente consumismo imponessero alle

famiglie nuovi introiti. In quello stesso articolo62 Assunto indicava la

gaia segretaria Merlini, crediamo per primo, come "Cenerentola del

secolo ventesimo", con felice definizione che identifica immediatamente

i due poli centrali del discorso: la matrice fiabesca da un lato, la

modernità dall'altro. Perché la rappresentazione della donna nel cinema

degli anni '30 si sviluppa attraverso questo doppio registro: la volontà (o

necessità) di far sognare, di indirizzare il pensiero dello spettatore fuori

dalle difficoltà e miserie quotidiane, e la presa d'atto di una rinnovata

situazione della donna nel suo rapporto con la famiglia e la società in

evoluzione, primariamente vista attraverso il nuovo tema della vita

femminile: il lavoro.

Infatti, pur senza contravvenire alla nota e inflessibile ideologia della

"moglie e madre esemplare", il cinema dal 1930 in poi comincia a

proporre nuovi personaggi femminili, nei quali tale ideologia è, per così

dire, filtrata attraverso il tema del lavoro. Il successo de La segretaria

privata creò un nuovo mito, non solo quello di Cenerentola con il

matrimonio dell'umile dattilografa col principesco direttore di banca, ma

anche e soprattutto quello della donna che lavora; anzi, della donna che

può lavorare senza per questo che venga meno nulla della sua

femminilità, che infatti si sublima e si appaga nel lieto fine matrimoniale,

con un matrimonio che riesce ad essere insieme d'amore e di grande

convenienza sociale.

Si trattava di un successo che generò immediatamente un filone di film

consimili, nei quali fin dal titolo si identificava la protagonista come

62 R. Assunto, cit.

63

Page 63: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

donna lavoratrice: La maestrina63, La telefonista64, La segretaria per

tutti65 e via di seguito. Ed il successo era dovuto proprio alla

commistione di quel favoleggiato desiderio di amore romantico e

matrimonio socialmente elevante, e di identificazione nelle protagoniste

di un modello presente e ben reale nel paese, quello della donna al

lavoro.

Appare evidente che questa figura di lavoratrice non era facile da

conciliare con quella tanto cara al regime e tanto radicata nel costume

italico di moglie e madre. Pure, fu necessario trovare il modo di far

coesistere le due realtà, perché il regime non era più nelle condizioni di

permettersi che la pur tanto pressante propaganda per la battaglia

demografica e l'educazione domestica privasse il paese di forza-lavoro

divenuta ormai indispensabile per sostenere un'economia che

particolarmente dopo la crisi del'29 stava andando in sfacelo. Anche

all'interno delle fila del regime si scontravano, sul tema, due anime ben

diverse: da un lato i bottaiani, favorevoli all'ingresso delle donne nel

mondo del lavoro, dall'altro l'ala oltranzista, nettamente contraria in

nome della donna destinata a mettere al mondo nuove schiere di italiani

nel chiuso del focolare domestico. Il terreno su cui trovare la

conciliazione fra i due aspetti non fu difficile ad individuarsi; basti

pensare alle parole della bottaiana Castellani, una donna, una dirigente

del Partito ed una sostenitrice dell'apertura al lavoro femminile: "Chi

conosce le donne che lavorano sa che aspirano, 99 casi su 100, al

matrimonio e al compito familiare"66; ed erano parole del tutto

corrispondenti alla realtà. Bottai e la sua corrente avevano perfetta

63 G. Brignone, 1932 64 N. Malasomma, 1932 65 A. Palermi, 1933 66 Citato in P. Meldini, op. cit. , p.79

64

Page 64: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

coscienza di come il lavoro femminile fosse una necessità che, per

quanto potesse essere o meno accettata come intrinseca alla

modernizzazione della società, era in quel momento in Italia resa

indispensabile dal disastro economico di fine anni '20.Si ponevano

giocoforza le condizioni preliminari per un rinnovamento sociale stabile

della funzione della donna, che per la prima volta diventava soggetto

economicamente attivo; ma lo si faceva, per ora, attraverso un richiamo a

condizioni eccezionali di necessità, al fine di convincere la donna ad

impiegarsi nel lavoro in nome, oltre che della nazione, proprio di quella

famiglia che la propaganda continuava a ritenere lo sbocco infine

obbligato della condizione femminile. E così le donne del cinema del

fascismo saranno delle donne che lavorano; e di fatto una donna che non

lavora non la si vedrà quasi mai se non in ruoli particolari, caratterizzata

come modello negativo e di dissolutezza mondana. Ma, sempre, sono

donne che lavorano con in testa la famiglia, ed anzi in vari casi (come ad

esempio Vecchia guardia67 e Come le foglie68) sono esplicitamente

donne che lavorano per rimediare ad una difficile situazione familiare, in

assenza dell'uomo; e, si intuisce, non lavoreranno più quando i loro

uomini torneranno e si potrà realizzare finalmente il loro sogno, il loro

desiderio di famiglia.

Ma l'accesso della donna la mondo del lavoro comportava un rischio non

indifferente rispetto alla stabilità sociale. Benchè le donne d'Italia, come

diceva la Castellani, vedessero ancora lo sbocco matrimoniale come loro

sublimazione e meta, era evidente che si presentavano due pericoli: uno

rappresentato dalla possibile sensibilizzazione delle donne a certi stimoli

di socialità avversi al regime, come quelli presenti nel mondo della

67 A. Blasetti, 1935 68 M. Camerini, 1934

65

Page 65: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

fabbrica (non si dimentichi che le donne venivano ancora considerate

come soggetti intellettualmente deboli e facilmente traviabili), l'altro

rappresentato dalla possibilità che l'aspirazione al lavoro finisse col

"superare l'intensità di aspirazione al matrimonio e alla famiglia"69; due

casi che finiscono col combaciare, dal momento che proprio

nell'organizzazione sociale della fabbrica emergono quegli elementi

destabilizzanti di nuova comunità che rischiano di porsi in alternativa

alla comunità familiare. Si pensi, a questo proposito, ad Acciaio70,

rarissimo caso di film d'ambiente industriale nel periodo fascista, dal

quale emerge per più d'un verso la volontà di celebrare il trionfo

comunque della famiglia anche fra uomini e donne dell'ambiente della

fabbrica.

Non che il rischio di un'eccessiva emancipazione femminile fosse troppo

insidioso per la mentalità delle donne italiane, come la Castellani aveva

colto. In Noi vivi, ad esempio, quando Kira / Alida Valli sente fare un

discorso sull'emancipazione femminile storce il naso, e a fare tale

discorso è un'antipaticissima "rossa", brutta, scarmigliata, sudiciona, un

perfetto ed esemplare concentrato di anti-femminilità. Un simile discorso

non può far breccia: le italiane, sia le fidanzatine dello schermo come lei

che tutte quelle che vi si identificavano, non vogliono indipendenza ma

un uomo per il quale palpitare. Cionondimeno, con il solito doppio

reciproco rimando che la realtà da un lato ed il regime dall'altro operano

sul cinema, gli indirizzi dei film rispecchiano la volontà sia delle donne

che della propaganda, indirizzando l'immagine del lavoro femminile solo

verso "quei settori in cui la funzione di moglie e madre esemplare nella

69 A. Frabotta, Per una nuova storia della donna nel cinema italiano, in A. Miscuglio e R. Daopulo (a cura di), Kinomata. La donna nel cinema, Dedalo, Bari 1980, p. 80. 70 W. Ruttman, 1933

66

Page 66: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

famiglia fascista non venisse messa in discussione"71. Così, mentre

Acciaio rimane un caso del tutto isolato, si verifica l'esplosione sugli

schermi delle segretarie, delle dattilografe, delle sartine, delle maestre,

delle commesse. Esattamente quei lavori nei quali, proprio in quegli

stessi anni, le donne facevano ormai la parte del leone: in vent'anni dal

1911 al 1931 la presenza femminile nel settore impiegatizio si era

quintuplicata, nell'insegnamento vi erano 8 donne ogni 3 uomini, nei

servizi domestici le donne erano quasi 8 volte gli uomini, e così di

seguito. Restava invece immutato, cioè ancora in nettissima minoranza,

l'apporto femminile all'industria72. Il pericolo della sovversione da una

socialità cattolica basata sulla famiglia tradizionale ad una socialità

operaia e proletaria in odore di socialismo basata sulla comunità operaia

era così scongiurato, con soddisfazione tanto della Chiesa quanto del

regime, che in questa difesa della famiglia toccano uno dei loro punti di

massimo accordo.

Abbiamo osservato che, nel cinema del periodo fascista, una donna che

non lavora non si vede quasi mai, non almeno come protagonista e come

modello positivo e propositivo; piuttosto accade che la donna non sia,

fisicamente, parte integrante del film. È il caso, per esempio, di un non

esteso gruppo di film come Luciano Serra pilota73 o Il grande appello74

o ancora Squadrone bianco75 ed anche, per certi versi, della prima parte

di Cavalleria76 con l'eroismo del soldato "emergente" Amedeo Nazzari a

polarizzare il centro dell'azione drammatica. Questi film, storie di guerre,

drammi fra uomini, eliminano completamente la donna. Non c'è posto

71 A. Frabotta, op. cit, p. 80 72 Per questi dati cfr. A. Frabotta, op. cit. 73 G. Alessandrini, 1938 74 M. Camerini, 1936 75 A. Genina, 1936 76 G. Alessandrini, 1936

67

Page 67: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

per la figura femminile nello scenario tutto virile e quasi misogino di

questi eroismi bellici. La compagna del guerriero non può, in questi film

che sono fra i pochissimi di guerra (e quindi di propaganda per le

conquiste italiane: basta guardare gli anni di produzione per capire il

contesto storico), permettersi di rubare la scena all'eroico soldato

italiano. Ed infatti per questo soldato, come vedremo parlando della

figura maschile, la donna può solo essere o causa di guai o, più spesso

appunto, premio finale al vincitore che ritorna. Ma per ora torniamo alle

donne. Anzi, alle ragazze.

Abbiamo detto infatti che le donne del cinema fascista sono donne al

lavoro, ma c'è una eccezione, e non da poco: il filone cosiddetto

"collegiale". Filone bizzarro, mi permetto di dire, particolarmente nella

misura in cui ad impersonare queste collegiali o orfanelle che non

dovrebbero a rigor di logica avere più di quindici anni sono le stesse

attrici, non proprio nell'età per il ruolo, che erano impresse a fuoco

nell'immaginario degli spettatori italiani come "fidanzatine" ormai ben

lontane dall'età dei trastulli e in piena età da marito77. Spesso la

credibilità anche fisica di queste collegiali era nulla; ma al pubblico

piacevano tanto che nessuno protestava. Forse che molti italiani, in anni

che ormai conducevano tra sinistri scricchiolii verso l'imminente

tragedia, preferivano davanti agli schermi sognare quella beata

fanciullezza, cercare un'impossibile immedesimazione che fosse quasi

regressione, illudersi di sfuggire al mondo adulto?

77 Solo per citare qualche caso come esempio, si pensi a Maria Denis, classe 1916, protagonista nel ruolo di studentessa pestifera del film di Alessandrini Seconda B nel 1934 e successivamente tornata al ruolo della liceale, dopo otto anni ed innumerevoli film, con I sette peccati di Kish, nel 1942: una "liceale" di ventisei anni dunque. Allo stesso modo Silvana Jachino, nata pure nel 1916, interpreterà una delle due collegiali protagoniste di Le educande di Saint-Cyr (regia di Gennaro Righelli) nel 1939, a ventitrè anni; al suo fianco, completa un duo di poco credibili fanciulle Vanna Vanni, addirittura più vecchia della Jachino di un anno.

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Page 68: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Immedesimazione o meno, è fuor di dubbio che tutte queste candide

fanciulle, raggianti, vitali, piene solo della loro gioventù leggera, della

loro onesta, pura, ingenua adolescenza, servissero a raccontare sognanti

storie d'amore adagiate in un mondo di fantasia, a portare il pubblico

lontano dagli affanni della realtà quotidiana e dalle ombre che da essa si

proiettavano minacciose sul futuro, un futuro di ristrettezze, di fame, di

guerra. È da queste basi ideologiche, sullo sfondo di una società che non

vuole essere adulta, che nasce questa cinematografica infatuazione

dell'adolescenza.

Ma cosa fanno, dove vivono queste adolescenti d'Italia? È naturale che

negli anni del fascismo la vita delle fanciulle si svolgesse racchiusa nel

protettivo nido familiare, secondo la tradizione italica. Ma della vita

quotidiana in casa di una adolescente c'è ben poco di interessante da

raccontare: proprio per la sua normalità, per la sua sostanziale

caratteristica di sistema chiuso, di guscio protettivo, l'ambito del

quotidiano familiare offre ben pochi spunti interessanti ai soggettisti ed

agli sceneggiatori. Non resta perciò che buttarsi, secondo il copione tanto

in voga del deamicisiano "Cuore", sull'unico aspetto della vita delle

fanciulle italiane che si svolge fuori dall'ovattato e grigio orizzonte

domestico, ovvero, l'ambiente scolastico.

Quella manciata di ore mattutine che la normale scuola propone sono

però un limite spesso troppo ristretto per un valido svolgimento

narrativo: difficile in così poco tempo poter formare quei microcosmi di

rapporti personali che rendono interessanti le peripezie delle studentesse.

Ecco così che la soluzione ideale è quella del collegio: un ambiente

narrativamente intrigante, un sistema autonomo perfetto per un serrato

svolgimento dell'azione, un luogo-tempo nel quale, proprio per la loro

separazione forzata dal mondo esterno, le fanciulle del regime

69

Page 69: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

concentrano ed esplicitano tutto l'arco delle loro esperienze: non solo

studiano, ma soprattutto complottano, sognano, amano. La dinamica

rimane la stessa sia che si tratti di collegi sia della loro variante

strappalacrime, l'orfanotrofio, sia che l'ambientazione porti le

protagoniste nell'Ottocento e quindi negli educandati. Ed anche quando

non di collegi ma di semplici scuole si trattava, pare comunque che fosse

esclusivamente tra i banchi che le adolescenti vivevano una vita degna di

nota.

Prendiamo ad esempio uno dei film classici del genere,

Maddalena…zero in condotta78, nel quale appunto non ci si trova in un

collegio ma in una normale scuola diurna per ragazze della buona

borghesia, la Scuola Commerciale "Audax" (e si noti come queste

ragazzine svagate e raffinate, che hanno tutto fuorchè l'aria di dover

lavorare per vivere, studino in una scuola commerciale, cioè indirizzate

verso un impiego in quel mondo di segretarie e dattilografe che ben

conosciamo ormai). Qui le studentesse entrano ed escono con comodo

dalla scuola, vivono in famiglia, a casa, ma pare proprio che di questa

casa e questa famiglia non importi loro un bel nulla: è emblematico a

riguardo il modo in cui Maddalena organizza nella propria casa

l'intricato doppio intrigo sentimentale senza curarsi punto del suo allibito

padre che resta travolto dagli eventi, comprese due richieste per la mano

di sua figlia fatte da due sconosciuti che gli parlano di incomprensibili

cacce al bisonte. Ed altrettanto significativa è l'irresistibile figura della

"privatista" Irasema Dilian, che pur essendo nuova della scuola, pur

frequentandola solo occasionalmente, pur avendo istitutori che la

educano fra le familiari mura di casa, come si compete al suo rango di

contessina, nondimeno instaura subito un legame forte con la classe, ne 78 V. De Sica, 1940

70

Page 70: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

fa il suo mondo di esperienze: la soddisfatta bramosia con cui si strafoga

dei cannoli di Maddalena, lei che nella sua casa di contessa deve avere

stuoli di cuochi al suo servizio, ci fa sospettare che quella non sia

golosità, ma piuttosto fame di vita e di esperienze, fuori da una vita in

famiglia che non riserva emozione alcuna. Nelle pur severe scuole e

perfino, paradossalmente, nei collegi, queste ragazze sembrano trovare

una libertà che non hanno in casa: non tanto libertà fisica, quanto una

libertà di crescita che trovano solo a stretto contatto con le loro simili.

Quella libertà di crescere e di fare esperienze proprie che, nella

comunione d'animi fra ragazze, fa affrontare anche gli schiaffi che dalla

vita si ricevono, come mostra in modo esemplare il delicatissimo Violette

nei capelli79. Questo film è quasi esemplare nel suo mostrarci come

queste tre piccole donne che crescono, crescano forti nella solidarietà fra

di loro. L'orfanella Lilia Silvi fugge dalla tetra casa della inacidita sarta

con la quale vive, e si fa adottare dall'eccentrica famiglia di un musicista;

guadagna così un padre, ma soprattutto due sorelle piene di vita come lei

(la sportiva Carla Del Poggio e la ballerina Irasema Dilian, ancora loro,

sorelle ora come compagne di banco della scuola "Audax"); ed infatti il

padre muore, gli affanni piombano sulle tre ragazze restate sole al

mondo, ma la solidarietà fra di loro non viene meno e le fa andare avanti

Proprio la sorellastra è quella che più fa sacrifici: si sobbarca il compito

di sbarcare il lunario grazie alla sua esperienza di sartina, fa da sorella

maggiore alle altre due, svezza il figlio nato a Irasema Dilian dalla colpa

e da un amore impossibile. Il velo di disperata tristezza che copre nei

momenti più drammatici il volto di questa stupenda ballerinetta triste

diventata così dolorosamente donna è lo stesso che ci mostrerà Mario

Soldati, e saranno passati pochi mesi, sul viso della Edith di Malombra; 79 C. L. Bragaglia, 1942

71

Page 71: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

e la dolorosa perdita dell'innocenza dell'angelica Irasema Dilian ci pare

oggi una pietra tombale, prima ancora che su un filone, su un sogno

infranto di una nazione violata.

La grande quantità di questi film "collegiali" potrebbe far sospettare che

nel periodo fascista la maggior parte delle ragazze d'Italia vivesse fra le

mura di un istituto. Ovviamente non era affatto così, ma questi luoghi

rappresentavano, anche agli occhi del regime, un surrogato da commedia

di una serie di valori chiave: innanzi tutto la religione, e poi una

concezione militare della vita. Il collegio faceva pensare spesso ad un

convento per la costante presenza di suore o di laiche che avrebbero

potuto esserlo in tutto e per tutto, ed i grembiuli non si allontanavano

troppo dalle tonache; ma quegli stessi grembiuli erano anche una sorta di

uniformi come quelle militari, e quell'edificio chiuso fra alte mura con le

sue marce in fila, i suoi esercizi ginnici e la sua, almeno in teoria,

disciplina inflessibile, faceva senza fatica venire alla mente anche

l'immagine della caserma. Un convento e una caserma però nella quale,

perché il film fosse un poco interessante, doveva pur succedere una ridda

di pasticci, guai ed insubordinazioni; ecco così che, mentre alle orfanelle

nei collegi si addice una misurata quiete adombrata di romantica

malinconia, alle benestanti studentesse è consentito combinare ogni sorta

di irrispettose disobbedienze. Vi è un motivo ben preciso dietro a questa

differenziazione, oltre alla naturale diversità dei personaggi; finchè tutte

le discolacce dei buoni collegi del cinema italiano hanno un fondo di

ricchezza altoborghese dietro al loro istinto ribelle, infatti, si può evitare

che la violenza ribelle di questi personaggi si scarichi contro l'ordine

sociale. Consentire che a sovvertire un centro di ordine e disciplina come

un collegio fosse una orfanella povera sarebbe stato un inaccettabile

rischio per quella stabilità sociale che già le ristrettezze dei tempi

72

Page 72: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

d'autarchia e di guerra mettevano, con l'accresciuto squilibrio fra poveri

e ricchi, a dura prova. Ed infatti sono sempre agiatissime queste

collegiali, come Maddalena col suo zero in condotta, come le educande

protagoniste di Un garibaldino al convento80, come quell'uragano di

Nicoletta/Nicola ne Il birichino di papà, film quest'ultimo che forse più

di ogni altro in questo filone si spinge alle estreme conseguenze del caos

e della sovversione dell'ordine delle cose. Non solo di ordine sociale ma

addirittura dell'ordine di natura si direbbe, dato che ci troviamo di fronte

un nucleo familiare che, già scombussolato dall'assenza della figura

materna, vede addirittura una figlia femmina virtualmente tramutata in

un maschiaccio, per educazione, impeto ed atteggiamenti, fino ad

arrivare a chiamarla, in privato come in pubblico, Nicola. Il tutto

secondo il volere, l'avallo e l'incoraggiamento del padre, che peraltro

questo maschiaccio di fanciulla si guarda bene dal chiamare babbo o

papà, rivolgendosi a lui semplicemente come Leopoldo, roba da

compagni d'armi o d'avventure. E questo birichino, che è certo una

birichina col volto e la voce di Chiaretta Gelli ma fin dal titolo comincia

a voler fare confusione, sembra specializzata nel ridicolizzare ogni forma

d'autorità: in collegio non passa un secondo senza mandare gambe

all'aria la disciplina, e l'austera presidentessa viene costantemente

ridicolizzata dalla "piccola selvaggia". Punizioni di ogni sorta degne di

un galeotto non la spaventano, anzi aumentano il suo furore distruttore,

come nella scena del saggio di danza, uno dei passi più dissacranti forse

dell'intero cinema del regime, con il sabotaggio e la messa in ridicolo di

quello che era tra l'altro uno dei riti del fascismo, le rassegne ginniche

della gioventù. E mentre la presidentessa è verde di rabbia e i genitori

delle altre allieve si agitano tra l'incredulo e lo scandalizzato, il buon 80 V. De Sica, 1942; le due protagoniste sono Carla Del Poggio e Maria Mercader.

73

Page 73: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

papà Leopoldo non fa che inorgoglirsi e strillare felice "È Nicola, è

Nicola!", turbando ancor di più gli astanti con l'idea che in un tanto

rigoroso collegio femminile vi sia un Nicola. Perché il rapporto fra

Nicoletta, anzi Nicola, e il padre che la adora è non solo un rapporto

esclusivo che li isola sia dagli altri membri della famiglia sia dal mondo

esterno, che sembrano non capirli, ma è una complicità che pare un

autentico invito alla sedizione familiare. Una sedizione in nome, sia

entro che fuori la famiglia, della rottura di ogni ipocrita convenzione: se

ne accorgerà il povero Franco Scandurra, promesso sposo della sorella di

Nicoletta, quando cercherà di fare il cascamorto con una sciantosa: nulla

gli verrà risparmiato per metterlo in riga, compresi uno stordito avvocato

e un rapimento anomalo. Il bigottismo della marchesa cade vittima dei

colpi impietosi sparati dalla vulcanica ribelle all'indirizzo suo e di tutto

un mondo basato sull'insincerità e su un ipocrita culto delle convenzioni

e dei riti sociali. D'altronde siamo ormai sul finire del 1942 e gli italiani

covano ormai più d'un pensiero di ribellione e di pulizia sociale; nel

clima di disfatta che aleggia non basta più neanche la vecchia formula

della scappatoia nella fantasia, che dagli schermi aveva cullato il paese

con sogni d'amore e fanciulle in fiore lungo quegli anni di ristrettezze;

anche le favolette sentimentali ormai smarriscono il loro fresco profumo

di violette sovrastato dall'acre odore di sudore, sangue e sconfitta. Il

1942 è l'anno tra gli altri anche di Violette nei capelli, il film, come si è

detto, della perdita dell'innocenza, della delusione dei desideri, dei

sacrifici infiniti di Carina/Lilia Silvi; quella stessa Silvi che proprio

l'anno prima, a un decennio esatto da La segretaria privata, aveva dato

corpo con Scampolo81 ad una storia ugualmente modellata sul mito di

Cenerentola. Ma nulla è più uguale: se sullo sfondo della segretaria Elsa 81 N. Malasomma, 1941

74

Page 74: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Merlini c'era l'Italia che viveva nel culto di capuffici e capi d'ogni

genere, in marcia verso il futuro, ottimista e fiduciosa nel regime che

l'aveva rinsaldata, dietro la vagabonda sartina Scampolo c'è invece

l'Italia in guerra, alla quale stanno venendo meno le ultime speranze nel

futuro, un'Italia pessimista che sta per perdere anche la forza di rifugiarsi

in questi ultimi viaggi nella fantasia sempre più stridenti con la realtà; e

che di capuffici e soprattutto capi d'altro genere non vuol più sentir

parlare.

3.2.2 L'uomo: oggetto del desiderio e archetipo paterno Paradossalmente dunque, come abbiamo visto, da una società

tradizionalmente maschilista si sviluppa un cinema che, pur restando

moralmente legato ad una concezione paternalista e riduttiva della donna

com'è quella che fa del matrimonio e della maternità lo sbocco naturale e

inevitabile, offre ad essa il ruolo di figura largamente centrale del suo

sistema narrativo. Questo può accadere perché il cinema del periodo

fascista è, come abbiamo detto, un cinema che ha come sua cifra la

concezione dell'amore romantico: così accade, come in tanta parte della

storia del costume, che la donna, socialmente sottomessa all'uomo, lo

tenga però a sua volta soggiogato alla servitù d'amore.

Ma in un cinema che ha come suo obbiettivo principale quello di far

sognare, i due poli del rapporto, cioè uomo e donna, non possono avere

uguale spazio: incarnare il sogno meglio si addice alle donne che agli

uomini, la cui superiorità ancora non è messa sostanzialmente in dubbio,

in quanto all'uomo dell'era fascista, soldato di Mussolini in guerra e in

pace, si addice concretezza, sacrificio, spirito d'azione, e non smancerie

o grilli per la testa. Ecco così che inevitabilmente l'uomo ha una figura di

rincalzo in quella preponderante parte dei film del periodo che

75

Page 75: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

raccontano sognanti storie d'amore: in quell'universo è la donna a farla

da padrona. Anche il divismo del tempo si indirizzava quasi a senso

unico: a fronte di tante stelle e stellette che riempivano i rotocalchi e i

sogni degli italiani, tra gli uomini invece gli unici a raggiungere un vero

status di divi sono Amedeo Nazzari, Fosco Giachetti e, con sfumature

diverse, Vittorio De Sica. Insomma, in questo cinema l'uomo pare essere

al centro dei pensieri molto più che dell'azione. Gli ingranaggi del cuore,

che tanta parte hanno nella produzione degli anni '30, sono assai meglio

manovrati dalle donne, e all'uomo non resta che, consenziente, girare con

essi. Ed in effetti si potrebbe formulare un'ipotesi di lettura della

posizione defilata, in questo cinema di aneliti femminili, dell'uomo: egli,

narrativamente, è indispensabile alla storia in quanto dev'essere

l'elemento scatenante, il motivo per il quale la donna palpita, si strugge,

combina equivoci e vive situazioni impreviste, ed è altrettanto

indispensabile in quanto deve essere, com'è d'obbligo, la meta finale che

appaga le peripezie della donna concedendole il suo amore e

conducendola al suo destino di moglie e madre. Nel mezzo dell'azione,

però, la sua presenza è richiesta tutt'al più solo come controparte:

l'azione vera è nelle mani della donna. All'uomo, evidentemente, è

richiesto solo di mostrarsi prima disponibile, e poi attendere che gli

eventi e i battiti di ciglia delle loro spasimanti intrattengano il pubblico

per un'oretta; tutt'al più possono collaborare, mostrarsi galanti e riamare,

ed il pubblico gradirà specialmente se sullo schermo ci sono i pochi divi

maschili dell'epoca (in primis De Sica), ma una volta che il meccanismo

è in moto l'uomo può anche sparire per un po'. Pare insomma che questo

uomo che tanto fa innamorare sia spesso, narrativamente, una sorta di

"motore assente": lui ci mette un sorriso nelle prime scene, e al resto,

visto che almeno in amore comandano loro, ci pensano le donne.

76

Page 76: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Per trovare lo spazio di manovra dei personaggi maschili è dunque molto

più opportuno gettare lo sguardo un poco più in là delle imperanti

commedie o anche dei melodrammi più classici; si trovano spunti più

interessanti sulla figura dell'uomo se lo si esamina nei ruoli di lavoratore

o di soldato piuttosto che nel suo ruolo, che pure sarebbe più

strettamente attinente alle questioni che ci interessano, di marito o di

promesso sposo o di possibile fidanzato, ruoli che come abbiamo appena

visto comportano in qualche modo una sua sparizione, una messa in

sordina. È un dato del tutto evidente che, nel cinema del fascismo, vi è

un appiattimento assoluto dell'ambito familiare sulla sola figura della

donna. Già detto dei mariti e della loro assenza narrativa, non bastano

pochi personaggi di padri burberi ma buoni o di mariti in contrasto con le

mogli a negare il fatto che, per questo cinema (e questa società), la

famiglia è un fatto essenzialmente femminile; l'uomo, che deve

occuparsi delle responsabilità del lavoro e in generale delle questioni del

mondo esterno alla famiglia, prende in quanto pater familias le decisioni

importanti, ma nel quotidiano rimane indifferentemente estraneo alle

questioni domestiche, ben felice di lasciare sulle spalle della moglie le

incombenze familiari. Peraltro tale scenario è, nei film, più intuito e

individuato a sprazzi che non descritto: la vita del nucleo familiare in

quanto tale è infatti, come detto, tenuta fuori scena proprio in quanto non

narrativamente interessante, privilegiando invece le avventure, con

destinazione finale matrimonio e famiglia, delle giovani e dei giovani

italiani; ed è solo come elemento di contorno a queste vicende che

vediamo quasi sempre rappresentata la famiglia, il che, com'è evidente,

porta ad un'immagine di tipo stereotipo basata sulle tradizionali figure

narrative del padre brontolone ma buono con la figliola oppure severo ed

intransigente in modo ottocentesco, della madre pettegola e in caccia di

77

Page 77: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

un buon partito per la figlia oppure della buona madre consolatrice, e

così via; figure insomma mai a tutto tondo e molto di maniera.

La figura maschile trova così le sue espressioni più significative non nei

ruoli dell'amoroso o del marito, ma in storie nelle quali l'elemento

sentimentale, pur sempre presente, è utilizzato in modo funzionale in

un'ambientazione indirizzata a focalizzare elementi narrativi diversi, con

spiccato riferimento a temi cari al regime e destinati a formare

un'immagine di uomini italiani forti, onesti e nobili. In buona sostanza, le

più interessanti figure maschili sono quelle dell'uomo lavoratore,

eventualmente emigrato, ma soprattutto dell'uomo soldato.

Sull'uomo lavoratore il discorso che conduce il cinema del fascismo è

semplice e immediato: il pericolo "rosso" che veniva dai lavoratori delle

industrie, sensibili alle idee proletarie, viene messo sotto silenzio e

rimosso dagli schermi (Acciaio è, come si è detto, l'unica chiara

eccezione, ed è un'eccezione che si concentra su una storia d'amore e

rimuove i rischi politici affidando all'ambiente della fabbrica la

celebrazione della morale corrente), mentre trionfano gli ambienti

borghesi, nei quali l'uomo o è il modello del "principe azzurro", cioè

l'imprenditore o direttore di banca o simili, pronto a innamorarsi della

Cenerentola di turno, oppure è il bravo ragazzo di modesta famiglia che

con un qualsiasi serio lavoro e la sola, innocua ambizione delle mille lire

al mese sa attrarre a sé una brava ragazza e conquistarne, a scapito

magari di ricchi e nobili pretendenti nullafacenti più graditi alla famiglia,

il romantico amore e la promessa nuziale. Tutto piuttosto chiaro come si

vede: il lavoro, quello vero, tanto è ostentato per la sua novità nel caso

delle donne, tanto è messo fuori scena per gli uomini. Gli unici accenni

di qualche rilievo sono appunto, in numerosi film del genere commedia

sentimentale, quelli allo scontro per il cuore di una donna fra giovanotti

78

Page 78: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

modesti ma seri lavoratori e riccastri oziosi e mondani: ed è davvero

scontato come andrà a finire. Non molto più significative sono le figure

di lavoratori italiani emigrati: qui l'immancabile motivo nazionalistico

porta ancor più ad appiattire i personaggi su uno stereotipo di onesto e

gran lavoratore che si scontra con la mollezza e corruzione morale del

paese straniero. Ben più interessante e ricco di spunti è invece il

discorso sull'uomo soldato; discorso nel quale il cinema fascista mette in

atto, pur nell'esiguo numero delle opere, anche una qualche sottigliezza

inaspettata.

È noto che la scelta del regime in campo cinematografico fu quella di

rinunciare ad una propaganda diretta a favore invece di un controllo

diffuso sulla produzione, tramite il coinvolgimento statale nelle case e la

censura preventiva. Nonostante questa scelta non mancano comunque,

concentrati specialmente in un determinato e ristretto periodo di anni,

una serie di film con intenti propagandistici o celebrativi; gli anni sono

quelli immediatamente a ridosso dell'impresa d'Africa, ed i film in

questione sono quel ridotto gruppo di pellicole di argomento bellico

intese a formare, nei pensieri del regime, uno spirito di emulazione e di

accettazione del sacrificio (perché, come noto, al già notevole sforzo

bellico seguiranno le "inique sanzioni" e le ristrettezze dell'autarchia). E

non è un caso che in questi film del 1936 e dintorni, come Squadrone

bianco o Cavalleria per citarne solo alcuni, vi sia come una costante la

presenza di un eroe soldato che trova alla fine la morte nell'adempimento

del suo sacro dovere: il messaggio che si vuole mandare è che per la

patria gli uomini dell'Italia fascista devono essere disposti ad ogni

sacrificio, anche a quello della vita, come il capitano Santelia o il

cavaliere-pilota Umberto Solaro.

79

Page 79: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

La missione del soldato non può conoscere distrazioni, neanche quella,

tanto cara al cinema di quegli anni, dell'amore: basti vedere come, nei

due film citati, per l'uomo che serve la sua patria in armi la donna sia un

elemento di disturbo, una pericolosa forza centrifuga dai doveri virili che

va evitata: in Cavalleria, più melodrammatico, la donna amata da Solari

è un amore impossibile poiché lei, per salvare le sorti economiche della

famiglia ridotta alla bancarotta, ha accettato di sposare un ricco nobile

che non ama; in Squadrone bianco, che è più propriamente un film

bellico, la questione si accentua ulteriormente e del discorso entra a far

parte anche un altro elemento, forse il più rilevante rispetto alla figura

maschile, ovvero quello dell'emulazione di un surrogato paterno. Ma

vediamo meglio di cosa si tratta.

In Squadrone bianco un tenente di cavalleria dalla vita mondana e

viziatella subisce una delusione amorosa, scaricato dalla donna, ancor

più mondana di lui, che egli ama. In conseguenza di questa delusione si

fa assegnare ad uno squadrone in Tripolitania, dove trova un capitano

integerrimo con cui entra in collisione a causa della sua borghese

mollezza. Ma lo squadrone parte in missione, a caccia di una colonna di

ribelli, e durante la dura marcia nel deserto gli screzi ed il confronto con

l'esemplare capitano forgiano in lui, dopo l'iniziale crisi, una nuova

tempra di uomo, un vero soldato forte, leale e coraggioso. Quando, dopo

la battaglia con i ribelli, lo squadrone rientra alla base è lui a guidarlo: il

capitano è morto, combattendo eroicamente. Nel forte c'è un gruppo di

turisti in visita, e fra essi la donna che il tenente amava: ella lo

riavvicina, ma lui, ormai, è un soldato vero, e non ha più spazio per i

sentimenti di un tempo: la sua vita, vita da uomo vero finalmente, è lì,

nel deserto, da soldato.

80

Page 80: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Ciò che ci interessa notare è come, pur partendo dal movente iniziale

dell'amore per una donna, il film si dipana integralmente come la storia

di un rapporto esclusivamente virile, quello fra il capitano ed il tenente;

tanto è vero che, in conclusione, la donna verrà rifiutata in nome del

superiore amore per la patria. Il rapporto che si crea fra i due uomini,

uno tutto d'un pezzo, autorevole, benvoluto dai suoi uomini e l'altro

fiacco, svogliato, privo di nerbo e di passione, è inizialmente di aperto

conflitto; ma quando giunge il momento di mettersi alla prova, a contatto

con il vivo esempio del capitano il tenente comincia a riscattarsi,

attraverso un'etica del sacrificio che, con un climax ascendente che passa

attraverso la rinuncia al cammello, la febbre, il nuovo malore e la

rinuncia all'acqua tanto preziosa per culminare nella battaglia, quando

egli si espone ad ogni pericolo combattendo in prima linea, venendo

ferito ben due volte e ciononostante continuando a fare il suo dovere di

soldato.

A ingenerare questo cambiamento, questo riscatto morale è l'esempio del

capitano: egli riprende duramente il tenente quando è necessario, ma sa

essergli vicino e solidale nei momenti difficili, e con le opere più che con

le parole lo fa crescere e lo conduce a diventare un vero uomo e un

degno soldato. Quando infine questa crescita è compiuta, egli può

consegnarlo finalmente formato al mondo ed all'esercito dell'Impero, e

gli indica come ultimo insegnamento esemplare la via del sacrificio per

la patria, attraverso il proprio immolarsi sul campo di battaglia. Il tenente

ora ha compreso, è maturo, ed è pronto a prendere il suo posto e a

ricondurre lo squadrone in salvo.

Non si tratta, mi pare evidente, di una semplice storia di amicizia virile

ed eroismo militare, e si va oltre anche il semplice schema del romanzo

di formazione: il processo che abbiamo descritto fra il capitano Santelia

81

Page 81: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

ed il tenente Ludovici è, a tutti gli effetti, l'archetipo di un rapporto fra

padre e figlio. Ed è anche, sia in sé stesso sia per traslato attraverso

questa stessa figura di padre, metafora del rapporto fra il Duce e il suo

popolo.

Come un padre il capitano deve saper essere duro con un

sottoposto/figlio viziato; come un padre lo conduce con sé e lo fa

crescere sotto il proprio esempio, ne forgia il carattere e lo fa entrare nel

mondo delle responsabilità; come un padre, infine, gli dà l'esempio

ultimo nel sacrificio, e secondo il ciclo immutabile scompare e lascia il

posto all'erede, finalmente pronto a sostituirlo e seguire le sue orme. Allo

stesso tempo, come si vede, il modello del rapporto fra questa figura

paterna, questo padre ideale e la sua progenie è il medesimo che nella

mistica fascista rappresentava il legame tra il Duce ed il suo popolo: una

figura di guida, dallo spirito coraggioso e forte e dalla morale

integerrima, che conduce l'Italia e gli italiani ad una nuova

consapevolezza del proprio destino di eroismo, attraverso lo spirito di

obbedienza e di sacrificio per il bene collettivo. Nella cinematografia

degli anni '10 e '20, complice l'infinitamente maggiore ingenuità sia del

cinema sia, quando si instaurò, del regime, la figura del Capo era stata

incarnata dagli "uomini forti", i forzuti del tipo di Maciste, con una

simbologia elementare: l'eroe buono, forte e coraggioso, si batte contro

gli oppressori malvagi e li sconfigge imponendo la sua nuova morale e la

sua nuova legge di giustizia. Ora l' "uomo forte" è al potere, il cinema ha

enormemente raffinato i suoi mezzi espressivi ed anche il regime ha

sviluppato una simbologia meno ingenua: non è più un invito

all'adesione quello che si deve trasmettere, ma alla fiducia, un invito a

mettersi ciecamente nelle mani del Duce in nome della Patria, fiduciosi

che, per quanti sacrifici egli richieda all'italiano, lo fa per il suo bene e in

82

Page 82: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

nome del bene comune, per far crescere l'italiano forte nel Suo esempio,

come si addice ad un buon padre.

3.2.3 I grandi assenti: bambini e ragazzi È noto che uno dei settori della società in cui il regime operò in modo

più organizzato, più totalizzante e più visibile fu l'inquadramento dei

giovani. In questo, il regime diede prova di una significativa capacità di

mutamento - per molti altri aspetti mancante, tanto da giustificare

appieno quella folgorante definizione di "dittatura imperfetta" che ne

diedero poi gli storici - delle convenzioni socioculturali italiane: da

sempre infatti tradizione voleva che il solo punto di riferimento per la

gioventù fosse la famiglia, mentre il fascismo, che pure sulla morale

della famiglia poggiava tanti suoi assunti, in primis proprio quello della

"battaglia demografica" cioè della prolificità, volle con tutta evidenza

instaurare un sistema di matrice formalmente pseudomilitaresca che

ordinasse le schiere dei fanciulli in gruppi di disciplinati fascisti del

futuro82.

Le basi su cui avveniva l'ordinamento della gioventù erano

semplicissime: il sesso e l'età. Piccoli italiani e piccoli Balilla, piccole

italiane e giovani italiane erano le formazioni divise per età

propedeutiche, nell'idea del regime, all'adesione volontaria e convinta

delle nuove generazioni ai quadri adulti del Partito. L'adesione alle

associazioni giovanili fu presto resa obbligatoria per tutti, finendo col

non andare oltre una grossa faccenda di facciata, con la massa dei

giovani intruppata in sfilate e in quei giochi ginnici che dovevano essere

l'ideale preparazione ad essere perfetti "soldati del Duce" una volta usciti

dalla fanciullezza.

83

Page 83: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

L'importanza data dal regime all'indottrinamento della gioventù si può

notare anche da quello che era l'altro ambiente di formazione, ovvero la

scuola dell'obbligo, la scuola elementare. La riforma Gentile fu, com'è

ancor oggi evidente, uno degli interventi del fascismo che ebbero più

peso nella realtà delle nuove generazioni di italiani, tanto più che,

rimossi gli orpelli più visibilmente fascisti ma lasciato intatto il sistema

nel suo complesso, i medesimi principi verranno a lungo conservati nel

sistema scolastico dell'Italia repubblicana. I testi unici delle scuole

elementari, che erano editi dallo stato, erano il frutto dell'unione degli

elementi di propaganda del regime più elementari e di quel paternalismo

educativo ancora di matrice tardoottocentesca e postrisorgimentale che

dava loro una tipica atmosfera che oggi definiremmo,

deamicisianamente, da "Libro Cuore". Su quei libri i "Figli della Lupa"

apprendevano ad onorare caduti e reduci, amare il Duce e sognare

avventure di guerra. E perfettamente complementari ad essi erano le

letture che tutti i fanciulli avevano per le mani fuori da scuola, quei

romanzi salgariani che trasponevano in esotici panorami del tutto

immaginari (poiché, come noto, il loro autore aveva scritto della Malesia

senza essersi praticamente quasi mai mosso dalla sua Verona) la stessa

giovanile voglia di avventure, lo stesso elogio del coraggio e della lealtà.

Una letteratura per ragazzi che, come il suo autore, non aveva nessuna

intenzione di essere fascista ma che, di fatto, trovava tutto il gradimento

del regime, tanto più quando i valorosi corsari ridicolizzavano il perfido

nemico inglese.

Non c'è bisogno di dilungarsi oltre per vedere come il fascismo

riservasse all'inquadramento della gioventù un occhio di riguardo, dalle

scuole alle associazioni giovanili fasciste ai noti incentivi alle famiglie 82 Per l'inquadramento storico si rimanda a Sabbatucci-Vidotto, Storia d'Italia cit.

84

Page 84: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

più prolifiche83. Ciò che preme è invece rilevare come, in un quadro

generale tanto fortemente indirizzato ad una educazione fascista della

gioventù, gli anni '30 manchino in modo pressochè assoluto di una

qualsivoglia rappresentazione di questi bambini e ragazzi sugli schermi

cinematografici.

Tutto quello che possiamo ricavare dalle sparutissime apparizioni di

giovani e fanciulli sugli schermi sono elementi in grandissima parte

marginali, di poca importanza sia circa una definizione dell'immagine

dei giovani nel fascismo, sia e soprattutto circa la rappresentazione dei

giovani nell'ambito familiare. Su quest'ultimo punto, che è poi quello che

più sarebbe qui pertinente, non vi è, a conti fatti, assolutamente nulla. Il

bambino o il fanciullo, che già appare incomprensibilmente dimenticato

da tutto il cinema del periodo fascista, è completamente rimosso dalla

scena familiare. Anzi, in un quadro che vede la figura del fanciullo usata

perlopiù in funzione melodrammatica, il ruolo prevalente è proprio

quello dell'orfanello strappalacrime.

Su questa traccia, cioè il melodramma d'appendice con orfano ed

eventuale agnizione finale del genitore creduto morto, si snodano gran

parte dei pochi film del periodo con i fanciulli come personaggi, da La

cieca di Sorrento84 a Principessina85 al dittico repubblichino Senza

famiglia/Ritorno al nido86 così via. La figura dell'orfanello, o ancor più

spesso dell'orfanella, non viene a mancare neanche in film non

83 Il già citato "Premio Mussolini" ed altre forme simili di sostegno alla natalità. 84 N. Malasomma, 1934 85 T. Gramantieri, 1943 86 G. Ferroni, 1944; realizzato a Venezia. Pur non essendo i film del periodo della Repubblica di Salò parte significativa del nostro discorso, sia per ragioni strettamente cronologiche sia per l'estraneità della situazione sociale della RSI rispetto al quadro del periodo fascista che ci interessa, ci è parso opportuno citare anche questi due film anche per segnalare come, in virtù di uno stereotipo da letteratura d'appendice, l'immagine dei fanciulli non abbia trovato, né prima né dopo, quell'adesione alla realtà che proprio nei fanciulli costituirà invece, come diremo tra poco, uno dei tratti salienti del Neorealismo.

85

Page 85: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

melodrammatici, come il curioso Fermo con le mani! 87 , film d'esordio

di Totò nel quale al comico si cerca di adattare il modello, che gli era

palesemente estraneo, di Charlot, tant'è vero che gli viene pure

affiancata, appunto, un'orfanella88. La bimba in questione era

impersonata dalla piccola Miranda Bonansea Garavaglia, che era anche

la voce con cui parlava sugli schermi nostrani la diva bambina per

definizione, Shirley Temple; e la Garavaglia alla Temple si rifaceva, nel

look e nelle parti recitate, come alla piccola dive d'oltreoceano si

richiamavano pressochè tutte le stelline in erba della cinematografia di

casa nostra. Il modello Temple, che tanto successo riscuoteva tra il

pubblico, era evidentemente quanto di meno adatto a costruire una storia

ed un personaggio di qualunque spessore non banalmente romanzesco:

una causa in più dell'insipienza di questi film e delle figure giovanili che

ne erano protagoniste.

Talvolta all'orfanella vera e propria si sostituisce la figura di una

bambina che i genitori in realtà li ha ma, per qualche motivo, soffre per

una lontananza fisica o psicologica da essi. È il caso di due film in

particolare, il calligrafico Piccolo mondo antico89 nel quale la piccola

Ombretta soffre per la lontananza forzata del padre fuggito in Piemonte,

e La fuggitiva90, interpretato come il precedente da Mariù Pascoli, la più

nota forse delle dive bambine di casa nostra, nel quale a mancare alla

piccina è la mamma, una Anna Magnani troppo impegnata a far carriera

come soubrette per potersi dedicare alla figlia e alla famiglia, tanto da

farsi creder morta. Così la bambina si affeziona ad una governante, una

ragazza capitatale appresso per caso, la quale non tarda a far breccia

87 G. Zambuto, 1937 88 Sulla figura di Totò, che esula dagli scopi di questo lavoro, si rimanda a A. Anile, Il cinema di Totò, 1930-1945 : l'estro funambolo e l'ameno spettro, Le Mani, Recco 1997 89 M. Soldati, 1941 90 P. Ballarini, 1941

86

Page 86: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

anche nel cuore di papà; ma per la morale italiana, cinema compreso, il

matrimonio è sacro, e la giovane si farà da parte alla ricomparsa della

vera madre.

Accanto a quest'ultimo film se ne pongono altri, come ad esempio Una

notte dopo l'opera91, che allo stesso modo mettono in scena ragazze dal

cuore tenero che si prendono cura di bambine restate senza la madre. "In

questo genere di raccontini edificanti le bambine vengono usate come

scintilla per accendere un rapporto amoroso ultra-casto"92, ed accade

così, come in quest'ultimo film citato, che l'angelico surrogato materno

resti "invischiata nella trama familiare, diventando una virginale mater,

ancor prima di esser sfiorata da un uomo"93.

Da tutto quanto si è detto finora l'unica nota di rilievo è proprio la

sostanziale estraneità dei bambini da una tematizzazione, una qualsiasi,

nel cinema del periodo fascista: essi sono perlopiù assenti, e quando

sono presenti o anche protagonisti non si staccano dal clichè

dell'orfanella o comunque da un bozzettismo mèlo che occhieggia da un

lato alle atmosfere deamicisiane (oltre ai film già citati si pensi ad

esempio a Piccolo alpino94, che al motivo dell'orfano che ritrova infine il

padre creduto morto mescola quello della grande guerra, col piccolo

protagonista che segue al fronte l'alpino che gli ha salvato la vita),

dall'altro al modello di Shirley Temple e delle altre bambine prodigio

d'oltreoceano (e non è un caso che in Italia e in America si girino quasi

contemporaneamente, e presumibilmente senza coscienza della curiosa

concomitanza, due film di argomento identico, centrati sulla storia di una

bambina e del suo puledro destinati a fare fortuna vincendo una gara

91 N. Manzari e N. F. Neroni, 1942 92 Stefano Masi, Enrico Lancia, Stelle d'Italia. (Vol. I) Piccole e grandi dive del cinema italiano dal 1930 al 1945, Gremese, Roma, 1994, p. 122 93 ibidem 94 O. Biancoli, 1940

87

Page 87: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

ippica: le due pellicole ebbero addirittura il medesimo titolo, Gran

Premio95).

Si può dire, anzi, che vi sia stata una certa singolare diffidenza di questo

cinema nei confronti delle figure di bambini costruite a tutto tondo fuori

dagli stereotipi: forse per quella ineliminabile innocenza dello sguardo

che i bambini hanno, e che ne farà, pochissimi anni dopo, i veri

protagonisti di tanta parte del nuovo cinema, del neorealismo, a partire

dall'antesignano preneorealista I bambini ci guardano96 per arrivare a

Sciuscià97 e Ladri di biciclette98 passando per la memorabile scena finale

di Roma città aperta99. Appunto l'occhio privo di ipocrisie che è proprio

dei bambini renderà, del resto, assai sgradito al regime I bambini ci

guardano, spietata rappresentazione della famiglia piccoloborghese in

disfacimento.

La conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, di questa diffidenza del

cinema del fascismo verso la rappresentazione dei bambini ci viene dalle

sorti di due film, forse gli unici due del periodo fascista (a parte

ovviamente il succitato film di De Sica) che vollero mettere al centro

della storia una figura di bambino non stereotipata ma viva e ritratta

nella sua sensibilità. Uno di essi è Ragazzo (1933) di Ivo Perilli, l'altro è

Il canale degli angeli (1934) di Francesco Pasinetti; nel primo un

fanciullo è il protagonista della storia, nel secondo il bambino è il

testimone dall'occhio rivelatore, proprio come sarà un decennio più tardi

nel film di De Sica.

95 Il film italiano, per la regia di G. Musso ed U. Scarpelli, con la solita Mariù Pascoli, è del 1944; quello americano, il cui titolo originale è National Velvet, è del 1945 ed ha per protagonista una giovanissima Elizabeth Taylor. La coincidenza è talmente curiosa che non escluderei, personalmente, che una qualche ispirazione circa il soggetto vi possa essere stata. 96 V. De Sica, 1943 97 V. De Sica, 1946 98 V. De Sica, 1948 99 R. Rossellini, 1945

88

Page 88: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Su Ragazzo si sa, in verità, assai poco100: tutto ciò che ci rimane è la

trama, perlopiù ricostruita dai diretti interessati, che raccontava di un

ragazzo sbandato nella Roma del degrado e dei quartieri popolari, dei

biliardi e delle chiatte sul Tevere, che trovava la sua redenzione

nell'iscrizione al partito fascista. Un soggetto apparentemente del tutto

innocuo ed anzi di gradimento del regime dunque; ed invece il film non

giunse mai nelle sale. Mussolini in persona, pare, lo bloccò quando era

già praticamente in macchina nei cinematografi ed annunciato per la sera

dai giornali e dalle locandine. Perilli ne affidò una copia alla cineteca del

Centro Sperimentale, dove peraltro fu regolarmente visionato negli anni

seguenti dagli allievi; ma dopo l'8 settembre quella copia fu data alle

fiamme dai nazisti che devastarono il Centro. Quale fosse in realtà la

prospettiva del film e cosa avesse realmente scatenato le ire del Duce

rimane per noi impossibile a dirsi; ma i testimoni dell'epoca che

poterono vederlo hanno spesso ribadito che l'anticonvenzionalità di

quella figura di ragazzo di strada nella Roma che il regime avrebbe

voluto far scomparire era tutto l'opposto dei consueti stereotipi sulla

fanciullezza.

Il canale degli angeli era invece un film di impianto differente, simile

per molti versi a I bambini ci guardano anche se certamente l'apporto di

Zavattini diede al film di De Sica qualcosa di unico ed anche se il

decennio di distanza - oltre naturalmente alla intrinseca qualità dei film,

che qui non è in discussione - doveva portare ad esiti diversi. Pure, nel

film del giovanissimo Pasinetti si narrava dell'adulterio (e già questo è

cosa eccezionale) di una madre, visto attraverso gli occhi di un bambino;

il quale non è solo spettatore, ma anche partecipe delle sofferenze della

100 Le annotazioni qui riportate per entrambi i film si rifanno essenzialmente ai contributi di F. Savio, op. cit. , e G. P. Brunetta, Storia… cit.

89

Page 89: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

madre, sensibile alla situazione fino ad ammalarsene, fino

all'ottenimento, con la partenza dell'amante, del ricompattamento del

nucleo familiare. Ciò che è significativo è che, nonostante il film sia

circolato regolarmente, il film fu completamente ignorato dalla critica:

neppure il meticolosissimo Francesco Savio è riuscito a reperire il

benchè minimo accenno sulle riviste dell'epoca, né consta a Brunetta che

se ne sia parlato neppure sulle riviste dei Guf; per saperne qualcosa

bisogna rifarsi ad interventi del dopoguerra, stimolati anche dalla

prematura morte del regista. Ancora una volta, dunque, i bambini

vengono messi in un cantuccio nascosto dal cinema di regime:

evidentemente si preferiva di gran lunga perpetuare la tranquilla,

rassicurante immagine di maniera degli orfanelli e di simili vetusti ma

funzionali stereotipi deamicisiani.

3.2.4 Il ruolo degli anziani Come per i bambini, anche gli anziani non sono soggetti particolarmente

amati dal cinema del periodo fascista; in una cinematografia che si

impernia sugli amori romantici di belle fanciulle non abbonda certo il

posto per la terza età. Ma rispetto all'assenza quasi totale dell'infanzia,

gli anziani trovano più spazio nei film del periodo, sia disseminati a far

"colore" nei film in ruoli di carattere quali nonni, zie e via dicendo sia, e

questo è certamente più interessante, attraverso la tematizzazione di un

argomento verso il quale c'è una certa ambivalenza nei film di quegli

anni, ovvero la nostalgia dei tempi passati. Tema attraverso il quale trova

qua e là il modo di filtrare anche, per quanto riguarda la rappresentazione

della scena familiare, uno dei punti più rilevanti della dinamica di

rinnovamento sociale dell'età del fascismo, ovvero la contrapposizione

90

Page 90: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

fra famiglia allargata e famiglia nucleare, fra vecchie e nuove

convenzioni familiari.

Vi è anche, per la verità, un altro tema nel quale compaiono gli anziani,

ma ci limiteremo qui ad accennarne dal momento che essendo

specificamente indirizzato ad altri scopi non rientra nell'argomento che

ci interessa: si tratta del tema dei reduci. Le tangenze fra le due

tematiche sono peraltro marginali, dato che le figure di reduci più

importanti, come ad esempio quello che ne è l'archetipo, il protagonista

di Luciano Serra pilota101, oppure il Roberto di Vecchia guardia102, non

appartengono di fatto alla schiera degli anziani. Il tema del reinserimento

dei reduci nella società e della continuità fra la grande guerra e il

fascismo, dunque, non si riconnette quasi mai con quello degli anziani,

se non in figure marginali e di contorno come i vari invalidi e mutilati di

guerra.

Approfondire il modo in cui il cinema del regime prima glorificherà e

poi, quando non sarà più funzionale ad un regime ormai consolidato,

cercherà di rimuovere l'immagine dei reduci, non è pertinente al nostro

discorso, e se ne è accennato solo per completezza. Come detto infatti la

tematica nella quale si rivelano i più interessanti aspetti delle figure degli

anziani è quella dello strappo generazionale, del rimpianto dei vecchi

tempi e della relativa deprecatio temporum contro la nuova società e i

nuovi valori.

I film che si occupano di questa tematica non sono numerosissimi; del

resto parlare, in epoca fascista, di rimpianto per i tempi andati non era

certo cosa troppo popolare. Eppure la ricorrenza di questa nostalgia del

passato è più che occasionale, e a favorirla e consentirla era l'appoggio

101 G. Alessandrini, 1938 102 A. Blasetti, 1935

91

Page 91: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

ideale al pensiero di una delle correnti del fascismo (perché è bene

ricordare che il fascismo come regime non fu mai una dittatura compatta

al suo interno, ma un continuo intrecciarsi di posizioni diverse, talora

anche in contrasto fra loro) che negli anni '30 godeva di fortuna alterna

per non dire ridotta: la corrente ruralista, tendenzialmente antiborghese

ed antiindustriale, che dopo aver ben servito agli scopi di un regime in

cerca di consenso era divenuta ormai ingombrante nella nuova Italia che

il fascismo teneva saldamente in mano grazie soprattutto all'alleanza con

gli industriali ed al silenzioso sostegno delle classi borghesi. Come

scrivono Giardina, Sabbatucci e Vidotto, infatti, "i maggiori successi in

termini di partecipazione e consenso il regime li ottenne non a caso

presso la piccola e media borghesia"103, mentre, dietro alla propaganda

ruralista, la politica economica del regime "avvantaggiò soprattutto le

grandi imprese e favorì i processi di concentrazione aziendale"104,

finendo invece in campo agricolo "col mettere in crisi molte medie e

piccole aziende"105. Erano, quelle dei ruralisti convinti, le frange del

fascismo più socialmente tradizionaliste e più legate al mito continuista

che univa in un'ideale spirito italico il risorgimento ed il fascio.

E non è un caso che i film di cui parliamo si rifacciano tutti, appunto, al

mondo risorgimentale: da Un garibaldino al convento106 a Una

romantica avventura107, che nel risorgimento sono praticamente

ambientati attraverso l'uso estensivo del flashback e si inseriscono così

nel prolifico genere storico, fino a quello che è, almeno per i fini della

nostra ricognizione, il più interessante di essi, che è invece ambientato

103 Giardina, Sabbatucci, Vidotto, op. cit., p.620. A questo testo ed alla citata Storia d'Italia a cura di Sabbatucci e Vidotto si rimanda anche per le questioni circa le correnti ruraliste nel regime fascista. 104 idem, p.624 105 ibidem 106 V. De Sica, 1942 107 M. Camerini, 1940

92

Page 92: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

nell'Italia contemporanea e ci dà quindi modo di effettuare l'analisi

diretta del confronto passato/presente che viene esplicitato sullo

schermo: stiamo parlando di La damigella di Bard108. In tutti e tre i film

vi è una protagonista che, ormai anziana, nutre rimpianti per il bel tempo

andato; rimpianti che sono narrativamente connotati, al livello più

superficiale, come sentimentali, e che si estendono facilmente al naturale

rimpianto per la giovinezza passata. Ma il passo è breve per giungere,

senza sforzo intellettuale, a leggere in essi anche una più generale

nostalgia per una società del passato che non trova più posto nell'Italia

del presente.

La damigella di Bard è il film nel quale questa tematica viene più

direttamente esplicitata. La protagonista, un'anziana nobildonna caduta

in miseria (interpretata da una magnifica Emma Gramatica), ma ancora

ricolma di una signorilità d'altri tempi, anche nelle avversità. Il palazzo

di famiglia, che l'ha vista vivere tutta la sua ottuagenaria vita, ormai è di

un altro, un gretto e volgare borghese, speculatore e senza alcuna finezza

o nobiltà d'animo; e di quel palazzo lei sale tutte le scale, in quella che è

però una discesa di condizione: già costretta al tempo della vendita del

palazzo a lasciare il primo piano, quello "nobile", per il secondo, è infine

costretta ora, ad ottant'anni, a lasciare anche quello e finisce relegata

nella soffitta, fra la miseria più nera; ma è una miseria affrontata con una

dignità da contessa, più nobile delle volgari ricchezze borghesi. La

damigella accoglie con la massima cortesia l'ufficiale giudiziario che le

pignora ogni cosa, e rifiuta, benchè sia senza cibo né legna per scaldarsi,

la somma faraonica che un borghese professore le offre per le lettere di

Costantino Nigra che la damigella conserva: il suo cimelio più caro,

ricordo di un amore che si perde ormai nella storia ma che resta per lei 108 M. Mattoli, 1936

93

Page 93: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

l'unico presente importante. È evidente che ai borghesi, agli uomini

nuovi non è dato di capire i valori di questa donna e del suo mondo: essi

appartengono ad un mondo troppo diverso, privo di ogni grazia e nobiltà

d'animo, grettamente governato dal danaro. Ciò che per loro è storia, per

lei è vita. Il disprezzo per la borghesia speculatrice che traspira da questo

film è notevole, toccando punte di acredine impressionante nella figura

del "nuovo padrone", l'arricchito ragionier Facozzi, tratteggiato con

spunti impietosi che non lasciano scampo a lui ed a quelli della sua

risma, come quello, esemplare, del circolo delle dame di carità, dove non

solo figura come il più classico dei parvenu, ma dove deve pure subire

l'onta di vedere che lui è sopportato dai veri nobili solo in virtù dei suoi

soldi, mentre la contessa, che egli aveva persino malamente scambiato

per una delle questuanti, è invece la signora del consesso, accolta con

ogni onore.

Il biasimo per la nuova società e l'esaltazione dei valori del tempo che fu

non possono naturalmente, in un film del genere, che condurre ad un

lieto fine che faccia trionfare le ragioni della nobiltà di sangue contro

quelle della ricchezza borghese: e così, grazie al solito meccanismo

dell'agnizione (la contessa scopre che Franco, il giovane amato dalla

marchesina Renata, ragazza di nobile cuore sulla quale ella veglia

maternamente, non è un borghese squattrinato ma il figlio misconosciuto

del proprio fratello, morto senza potergli dare il nome), il casato dei Bard

ritrova una discendenza, la damigella ritorna in possesso dei suoi

possedimenti e Franco, non più semplice borghese ma conte di Bard, può

finalmente sposare Renata. La marchesina aveva frattanto rifiutato anche

le insistenti proposte di matrimonio del figlio del ragionier Facozzi, ricco

sì ma non accettabile come pretendente in quanto mancante di quarti di

nobiltà.

94

Page 94: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

È questo uno dei punti centrali di questo e degli altri film citati: il trionfo

della morale dei tempi passati contro il volgare presente si celebra

soprattutto attraverso il completo rifiuto di ogni incrocio fra classi

sociali. Un atteggiamento certo anacronistico, e volutamente: non è ai

valori della società degli anni presenti che si vuole fare riferimento, ma

ad un tempo passato giudicato più degno. È l'esatto contrario di quanto

celebravano, negli stessi anni, le commedie bianche, le storie di

segretarie e modeste fanciulle che salivano la scala sociale - quella della

nuova società borghese naturalmente - attraverso il matrimonio con il

capo, il banchiere o il padrone dell'azienda: le storie ricalcate sul

modello della Cenerentola insomma. Ma a questo punto è bene fare una

precisazione: Cenerentola nella tradizione è una giovane inizialmente

defraudata del suo rango, che infine viene reintegrata ed a un livello

ancor più elevato; mentre le segretarie delle commediole degli anni '30

non hanno alcunchè alle loro spalle. Più realmente prossimo al modello

della Cenerentola ci pare essere allora, e non sembri paradossale, proprio

il Franco de La damigella di Bard, che ottiene grazie anche ai propri

meriti personali la reintegrazione nel mondo della nobiltà al quale

appartiene, benchè ignaro, per nascita. La sua è dunque la sola risalita

sociale possibile: proprio perché intesa non a mutare la struttura delle

gerarchie di classe, ma a ripristinarla. In questi film infatti, ed anzi in

quasi tutta la produzione cinematografica dell'epoca ambientata nel

passato più prossimo, vi è costantemente, come nota Gori, "un invito,

neanche tanto velato, al rispetto delle gerarchie, al mantenimento delle

differenze di classe, insomma all'immobilismo e alla pace sociale"109.E

sotto questo aspetto tali film diventavano, ora sì, un veicolo gradito al

109 G. M. Gori, Patria diva. La storia d'Italia nei film del ventennio, La casa Usher, Firenze, 1988, p.57.

95

Page 95: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

regime, che ormai stabilizzatosi non vedeva più di buon occhio le

rivendicazioni sociali ed invitava ognuno a stare al suo posto. Non è

d'altronde certo un caso che questo film e gli altri che abbiamo citato

appartengano ad anni nei quali certe perplessità cominciavano a sfiorare

il paese: il 1936 delle sanzioni, il 1940 e il 1942 dei dubbi sulla guerra.

Tra gli italiani c'era chi cominciava a notare che a tirare la cinghia ed a

morire al fronte era alla fine sempre la povera gente e non i signori; al

regime era dunque niente affatto sgradito che lo schermo proponesse a

tutti la concordia ordinum. Così accadeva che un messaggio nostalgico e

passatista, non troppo ben visto dal fascismo, convivesse con l'aspetto di

conservatorismo sociale che gli faceva da corollario ed insieme da

viatico, essendo questo sì grato ai gerarchi. Il messaggio di intoccabilità

delle differenze sociali filtra anche per opposizione: sempre nei primi

anni della guerra l'esempio di ciò che accade a chi le infrange ci viene

dal calligrafico Piccolo mondo antico110, nel quale il matrimonio fra

classi sociali diverse ha luogo. Il patriota e nobile Franco sposa la

modesta borghese Luisa, e l'infrazione del codice sociale attira su di loro

la sventura: culmine ne è l'annegamento della piccola Ombretta, figlia

della inammissibile unione. E non è solo nei melodrammi che viene

trasmesso questo messaggio: si pensi per esempio ad alcuni film di uno

dei registi meno ingenui del periodo, Mario Camerini, come Gli uomini

che mascalzoni!111 o Il signor Max112. In questi film emergono,

ombreggiati dietro a spunti populisti di dolceamara polemica

antiborghese, l'invito a rientrare nell'ordine costituito dopo il tempo delle

pazzie giovanili, e il "rifiuto di ogni promiscuità di classe: i giovani

poveri e simpatici sposeranno le buone fanciulle proletarie, le quali dopo

110 M. Soldati, 1941. 111 1932. 112 1937.

96

Page 96: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

le caste frivoleze dell'adolescenza, diventeranno mogli-madri

perfettamente inquadrate e comprese della loro missione di angeli

domestici. Ogni velleità di arrampicata perturbatrice deve essere

scoraggiata"113.

Un altro dei capisaldi della concezione sociale d'altri tempi che gli

anziani rappresentano nei film del periodo è ugualmente in contrasto con

la linea di evoluzione della società italiana in senso borghese e

capitalistico, ed è ancor più strettamente di pertinenza della nostra

analisi: si tratta della contrapposizione fra la famiglia allargata e la

famiglia nucleare.

Abbiamo già visto come, passata la ventata ruralista, il fascismo avesse

preso senza indugi l'inevitabile direzione dell'industrializzazione del

paese, con tutte le conseguenze che questo cambiamento della struttura

socioeconomica del paese comportava; la famiglia era una delle realtà

sociali più toccate da questa evoluzione, poiché la montante

industrializzazione conduceva al decadimento della famiglia come

istituzione funzionale al processo produttivo, quale era da sempre la

tradizionale famiglia allargata nella società rurale. La trasformazione

però ha naturalmente tempi lunghi e trova resistenze notevoli, dovute

all'inerzia che un sistema sociale secolare porta con sé: così, nelle

diverse situazioni (città e campagna, alta borghesia e ceti popolari), vi

sono ampie disparità nell'inserimento nella nuova società, e quindi anche

nell'inserimento delle famiglie nel nuovo sistema sociale della famiglia

nucleare, più funzionale al nuovo sistema economico che si andava

diffondendo. Molti nuclei familiari cominciano a non essere più inseriti

in modo integrato nel sistema produttivo tradizionale e contadino e

113 C. Carabba, Ideologia e propaganda nella commedia degli anni Trenta, in Miccichè (a cura di), Il neorealismo… cit. , p. 401.

97

Page 97: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

conseguentemente nella famiglia allargata, ma contemporaneamente non

sono ancora inseriti appieno nella nuova istituzione sociale che è la

famiglia nucleare, che diverrà la norma solo con la generazione

successiva e la ricostruzione, nel dopoguerra. Anche da queste tensioni

in corso derivano gli accenti nostalgici e tradizionalisti che in certi film

si ritrovano in riferimento alla famiglia allargata, rappresentata quasi

sempre da una figura di matriarca, talora anche da un padre e alcune zie.

La prima cosa che si nota, dunque, è che questa famiglia allargata è

praticamente sempre, sugli schermi, anche una famiglia in qualche modo

monca, incompleta in qualche sua parte: i padri sono vedovi, le matrone

ancor di più, le zie palesemente zitelle, come pure molti altri personaggi

di donne anziane. Nel cinema degli anni '30 per vedere delle famiglie al

completo in tutti i loro componenti bisogna guardare altrove, a quei film,

in primo luogo le commedie, che rappresentavano il mondo dell'Italia

della modernità: famiglie, quindi, nella loro interezza, ma famiglie

nucleari, padre, madre e figlio/figlia; non sono contemplati, in queste

famiglie borghesi ed urbane, i gruppi allargati, né tantomeno le figure

parentali anziane: i vecchi, non funzionali al processo produttivo,

vengono rimossi da un sistema familiare che nasce come risposta ad

esigenze economiche progressive dettate dal nuovo capitalismo.

Le famiglie allargate, dunque, ci vengono già proposte dai film con una

tara di partenza, ovvero l'assenza di un membro. Inoltre, essendo

inevitabilmente rappresentate da una o più persone in età avanzata, e

trovandosi sempre nei film anche la figura della giovane o del giovane

che rappresentano le nuove generazioni e sono (o desiderano essere)

integrate nel mondo socioeconomico moderno, l'impietoso confronto non

può che portare acqua al mulino della nuova generazione e del nuovo

concetto di famiglia. Per le anziane zie o madri, per il loro mondo d'altri

98

Page 98: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

tempi fatto, anche socialmente, di gozzaniane "buone cose di pessimo

gusto", non c'è che la comprensione, la solidarietà, un po' di nostalgia di

quella che può avere chi è ormai a pieno titolo lanciato in un'epoca

diversa. Agli anziani, portabandiera di valori ormai superati dai tempi,

resta tutt'al più una carognesca lotta contro le nuove convenzioni nella

quale far pesare per una volta ancora, forse l'ultima, il peso ormai sfinito

del loro status di capoclan; lotta per la conservazione di un mondo

irrimediabilmente passato, forse migliore del nuovo, chissà, ma

comunque ormai impossibile; lotta dalla quale usciranno,

inevitabilmente, sconfitti.

L'esempio per eccellenza di queste figure di anziane lo diedero le sorelle

Gramatica, sia in coppia sia quando sullo schermo appariva la sola

Emma, la più famosa. Abbiamo già visto Emma nel ruolo della

damigella di Bard, ed abbiamo evidenziato nella storia le tracce di una

nostalgia invincibile per un passato migliore: ma, nonostante il lieto fine

tenda a stabilire un'ideale supremazia della vecchia società sulla nuova, è

evidente come il mondo ideale della nobiltà nel quale insiste a voler

vivere la damigella sia un isolato anacronismo. E il dato della struttura

familiare lo conferma: pur reintegrato nel rango nobiliare, Franco

sposerà la sua Renata, nobile anch'essa, ma la famiglia a cui daranno vita

sarà presumibilmente una famiglia nucleare e di tipo borghese.

Le sorelle Gramatica danno vita insieme, in almeno altri due casi, a

personaggi di anziane donne sole che si aggrappano disperatamente,

contro la logica degli schemi familiari moderni, a dei giovani nipoti, che

tengono in casa con loro e nei confronti dei quali nutrono una gelosia

quasi morbosa. I due film in questione sono Sissignora114 e, soprattutto,

114 F. M. Poggioli, 1941

99

Page 99: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Sorelle Materassi115, entrambi girati da Poggioli negli anni '40, entrambi

melodrammi senza l'ombra di un lieto fine. Nel primo le sorelle sono due

arpie che tiranneggiano la servetta, la protagonista Maria Denis,

sottoponendola ad ogni angheria e licenziandola infine in tronco quando

scoprono che la ragazza nutre dolci sentimenti per il loro nipote

gelosamente adorato, dal quale non intendono a nessun costo lasciarsi

abbandonare; nel secondo, ancor più significativo, le anziane e sole

sorelle Materassi (che sono tre: oltre ad Emma ed Irma Gramatica c'è nel

ruolo della terza sorella, la meno anziana ma già vedova Giselda, Olga

Solbelli, che fu preferita alla terza delle Gramatica, Anna, meglio nota

col cognome Capodaglio, non celebre quanto le altre due), magliaie

fiorentine vissute in una femminilità inutile che le rende ora cattive, ora

patetiche, adorano con gelosia soffocante quel nipote che è bene o male

il solo uomo della loro stirpe e l'ultima continuazione della famiglia.

Mala loro disperata brama di continuazione ed unità della famiglia viene

presti, inesorabilmente, disillusa: il giovane, del tutto insensibile ai loro

anacronistici desideri, le abbandona dall'oggi al domani per sposare la

mangiauomini Clara Calamai, lasciandole desolatamente sole nel loro

isolamento dal mondo e dall'oggi con il cruccio della gelosia, del dolore,

della solitudine. Poco importa che il mondo del loro passato sia

tratteggiato come un mondo migliore rispetto al presente amorale e

vizioso del nipote scapestrato: alla fine è comunque quest'ultimo,

inevitabilmente, a vincere. Del passato non può restare che il rimpianto,

e la superficiale nostalgia di chi lo osserva guardando all'indietro,

vivendo nel mondo moderno.

La simbolizzazione estrema di questo soccombere del vecchio ordine

sociale basato sulla famiglia allargata e matriarcale la troviamo forse in 115 F. M. Poggioli, 1943

100

Page 100: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

un film che abbiamo già citato, il "mèlo-canzone" Mamma; ancora una

volta il ruolo del titolo tocca ad Emma Gramatica, madre (anche qui

sola) di un famoso tenore, che torna all'avita casa di campagna, ove vive

l'anziana genitrice, con la giovane sposa, donna di mondo, insofferente

dell'angusta e chiusa vita rurale e della convivenza con la vecchia

suocera, ingombrante relitto di un mondo passato. Perché la felicità

possa coronare l'amore della coppia moderna, la madre deve togliersi di

mezzo: e così essa si immola salvando l'unione dei due, e con la sua

scomparsa la coppia può vivere felice. Così alla morte della madre, e con

lei del passato, corrisponde la nascita del figlio della coppia: scompare la

famiglia allargata con la figura della matriarca, e il suo posto viene preso

dalla nuova famiglia nucleare, ora completa nel suo assetto di

padre/madre/figlio. Il futuro è loro: per il passato, per quanto di nobili

sentimenti esso sia, non c'è più posto. La nuova società esige

un'istituzione familiare più adeguata al sistema capitalistico e industriale:

la famiglia nucleare, quella che nei film che più incarnavano la

modernità dell'epoca, cioè le commedie "bianche", era ormai

rappresentata come l'unica realtà di fatto per il nuovo mondo delle

segretarie felici.

101

Page 101: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Capitolo 4.

La famiglia tradizionale e la sua immagine immutabile.

4.1 L'invarianza della rappresentazione: un fascismo passivo Esistono dunque nel cinema italiano del periodo fascista due differenti

tendenze, come abbiamo ampiamente anticipato, che coinvolgono i modi

di rappresentazione della famiglia e le ideologie che sono sottese a tali

rappresentazioni. Da un lato troviamo una tendenza, esplicitata in modo

particolare nelle commedie (ma non solo), rivolta ad esprimere gli

elementi di rinnovamento della società; dall'altro vi è invece una

tendenza, che meglio si nota nei melodrammi (ma non esclusivamente),

che si fonda sull'assetto sociale e familiare più tradizionale. Quello che

vogliamo vedere ora è come queste due tendenze si comportino in modo

diametralmente opposto lungo l'asse diacronico dal 1930 al 1943;

ovvero, come la linea di rappresentazione filmica che si attiene al

modello sociale tradizionale mantenga i suoi contenuti ideologici

immutati lungo gli anni in questione, mentre quella che si lega alla

rappresentazione degli aspetti sociali più moderni compie in quegli stessi

anni una evoluzione sia di significanti che di significati, seguendo le fasi

delle variazioni, anche ridotte, dell'ambito sociale del paese. Questo

secondo aspetto, ricco di spunti, sarà oggetto del prossimo capitolo;

vediamo dunque qui invece di approfondire il tema, già toccato per

larghi accenni nelle pagine precedenti e peraltro di più piana lettura,

dell'invarianza lungo il corso degli anni che permea la visione della

società rappresentata secondo l'ideologia più tradizionalista nei film

dell'epoca.

Quanto vediamo raffigurato sugli schermi da queste pellicole non è

punto diverso, in effetti, da quanto avveniva realmente nel paese: a

102

Page 102: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

fronte di un sostanzialmente ridotto nucleo di italiani e di famiglie

italiane socialmente avanzate, che si può in pratica limitare agli strati

medio e altoborghesi delle maggiori città industrializzate, vi era la

grande maggioranza della popolazione che continuava invece ad

attenersi a modelli di società più antichi e più radicati nella mentalità

italica. Questo sistema sociale tradizionale, che comprendeva tutta una

serie di aspetti ma al centro del quale vi era la struttura fondamentale

della famiglia come insieme sociale minimo, non era un portato del

regime fascista: si trattava di un costume che proveniva

cronologicamente da molto prima, da una lentissima, impercettibile

sedimentazione secolare, e che poteva tranquillamente riferirsi come

termine più immediato alla società ottocentesca quando non a quella

dell'ancien régime; per molti strati del popolo italiano gli anni, le guerre

e le rivoluzioni erano passate senza lasciar tracce sensibili nella loro vita

quotidiana e nelle loro usanze sociali, con un semplice, indifferente

cambiamento dei padroni. Lo stesso regime fascista non solo non

apportò significativi mutamenti a questo quadro116, ma ne fece suo

buona parte e ad esso si appoggiò spesso, discostandosene in parte (ma

solo in parte) solo negli ultimi anni, quando tra le priorità della politica

del regime l'industrializzazione prese il posto del ruralismo. Ma anche

allora molti aspetti di questo sistema sociofamiliare tradizionale rimasero

fra i modelli del regime: si pensi solo a come, negli anni dell'autarchia e

delle sanzioni, ed ancor di più in quelli della guerra, il regime

indirizzasse la sua propaganda all'elogio della donna massaia

parsimoniosa, regina della cucina in economia: il "fronte interno" non

116 Anche se è bene sottolineare come l'operazione fascista di bonifica e sistemazione delle zone rurali del paese sia stato, è ora di riconoscerlo, uno dei più rilevanti interventi di politica sociale ed insieme economica compiuti in Italia almeno nella prima metà del secolo, se non oltre. Se però tale iniziativa ebbe successo nel condurre intere popolazioni rurali fuori da un'economia quasi medievale ed ai limiti della sussistenza, non altrettanta presa ebbero tali progressi sotto l'aspetto sociale.

103

Page 103: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

era solo quello delle donne al lavoro dunque, ma anche e soprattutto

quello delle donne tra le mura domestiche117.

Quello che vediamo rappresentato sullo schermo quando un film

tematizza questi elementi di società italica tradizionale, vale a dire la

ruralità, la famiglia patriarcale, le virtù domestiche della donna,

l'accentramento delle decisioni nelle mani dell'uomo e così via, non era

una raffigurazione di propaganda fascista, né di una società voluta o

sorta dal fascismo: era semmai il fascismo stesso che, nato nei primi anni

del secolo da quella società, vi si era in gran parte conformato per

seguirne le aspettative, e ad essa era restato legato anche quando il potere

era conquistato e la situazione mutata. Mi pare insomma di poter ritenere

eccessivo che a questa tipologia sociale si possa dare la definizione di

"fascista", proprio perché essa è al fascismo preesistente, e non ne

subirà, se non in piccola parte, condizionamenti tali da mutarla: questo di

cui parliamo è un paradigma sociale che rimarrà invariato lungo il corso

del regime, e che sarebbe probabilmente resistito anche alla sua caduta,

se non fosse intervenuto invece a mutarlo almeno in parte un altro

evento, più traumatico anche sotto il profilo sociologico: il dramma della

guerra mondiale, comprensivo di sbarco ed aiuti americani e di lotta

partigiana. Saranno proprio la perdita degli uomini partiti in guerra, il

contatto con i soldati americani (al sud) e l'esperienza della guerra civile

(al nord) a determinare uno sconvolgimento nelle dinamiche sociali,

come si può ben vedere (ed anzi questo è forse il tema centrale di tutta

una produzione) dai film del neorealismo. Ma anche questa sarà, come

diremo, più una parentesi che un punto e a capo; e la questione ci

117 Sulla questione della propaganda in favore della parsimonia domestica, del consumo autarchico e dell'economia familiare in tempo di guerra si rimanda al prezioso contributo di F. Cristiano, Sanzioni e autarchia nell'Italia dei telefoni bianchi, in G. Casadio, E. G. Laura, F. Cristiano, Telefoni bianchi. Realtà e finzione nella società e nel cinema degli anni Quaranta, Longo, Ravenna, 1991.

104

Page 104: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

porterebbe oltre il soggetto della nostra attenzione Per ora ci limitiamo a

notare come, negli elementi più significativi della rappresentazione

familiare quando essa viene focalizzata secondo il modello tradizionale,

non si riscontri alcun mutamento interno al consolidato e arcaico sistema

sociale lungo gli anni del regime; non solo, ma gli stereotipi immutabili

che vengono utilizzati fanno capo ad una serie di paradigmi che sono

direttamente di matrice ottocentesca. Tanto invariabile è questo sistema

sociale premoderno che non solo non subisce scossoni nel ventennio

fascista, ma che può riferirsi in modo indifferenziato e identico ad un

modello, spesso anche cooptato da altre forme culturali, appartenente al

secolo precedente. Cooptato da altre forme culturali si è detto, in quanto

il rapporto, come mondo di riferimento, con l'Italia tradizionale ed i

modelli tardoottocenteschi è mediato con frequenza attraverso la

letteratura, soprattutto un certo verismo d'appendice degli ultimi anni del

secolo. Non necessariamente questo significa un'ambientazione storica

del film, anche se ciò avveniva spesso; più in generale si intende che era

a quei testi che facevano riferimento sceneggiatori e registi quando

volessero costruire sullo schermo scorci di un'Italia di valori e costumi

tradizionali. Non era certo una volontà realistica che li guidava, ma

bozzettismo dell'immagine e conservatorismo della mentalità; tanto è

vero che, se solo avessero voluto, questi registi e sceneggiatori borghesi

e stracittadini avrebbero trovato quei valori intatti nell'Italia della

provincia, della sottoistruzione, della sussistenza. Rendendosi così conto,

non senza sorpresa, che quella certa Italia immobile ed inveterata che

essi rappresentavano annusandola dai libri non era affatto diversa da

larghi strati di quella attuale e reale; e questo forse, assuefatti a città,

Stracittà e Cinecittà, l'avevano trascurato o dimenticato. Ma questo

discorso ci condurrebbe a divagare; restiamo invece alla questione

105

Page 105: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

centrale, e portiamo ora alcuni esempi di come in questi film si utilizzino

stereotipi familiari di ascendenza ottocentesca che si attagliano

perfettamente anche all'Italia contemporanea ed al modello tradizionale

di famiglia che ancora era dominante in tanta parte del paese. Ancora

una volta le esemplificazioni più rilevanti, tali da poterle ritenere

omnicomprensive, sono quelle relative all'immagine della donna; e, di

riflesso, alla figura dell'uomo.

4.2 Donne, uomini e stereotipi ottocenteschi Che la donna sia la figura centrale di tutto il cinema dell'età fascista lo

abbiamo già detto più volte; ma ancor più assume rilievo questo essere

protagonista quando si tocca l'aspetto della rappresentazione della

famiglia secondo il canone tradizionalista. Questo perché è proprio in

questo mondo che la donna riveste la sua massima importanza: essa è al

centro della rappresentazione perché è al centro della famiglia, in quanto

la famiglia tradizionale, allargata e prolifica, ha il suo fondamento

proprio nella figura della donna nei due ruoli essenziali che tale società

conservatrice le assegna: la donna-moglie e la donna-madre. Due ruoli

nei quali, come si vede, essa non è sostituibile.

La serie degli stereotipi, delle iconografie familiari e femminili del

cinema fascista, che abbiamo già ampiamente descritto, si fonda su un

retroterra che unisce due pulsioni parallele: sul piano narrativo la

pulsione all'amore romantico, che si espleta nel doppio registro del

melodramma e della commedia sentimentale; sul piano sociale la

pulsione al compito di moglie fedele e madre devota, meglio incarnata,

come si è detto, nel melodramma (giacchè la commedia, pur

tematizzando come happy end il matrimonio, era il terreno piuttosto

della rappresentazione delle passioni giovanili spensierate e della nuova

106

Page 106: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

figura di donna lavoratrice). Quest'ultimo aspetto della virtù muliebre

viene mostrato più spesso attraverso esemplificazioni in negativo

piuttosto che in positivo; ciò anche perché, narrativamente, faceva certo

più brodo raccontare storie di donne perdute e punite piuttosto che

mostrare la piatta vita quotidiana di donne devote alla famiglia.

L'immancabile castigo finale che spettava alle donnacce infedeli era una

lezione morale molto più efficace che non una oleografia della brava

sposina italica.

Queste pulsioni, ovvero il romanticismo (spesso d'appendice) degli

eventi e l'intoccabilità della morale muliebre, rimangono pilastri

inattaccabili della cinematografia del regime per tutta la sua durata; e il

loro radicamento nel cinema come nella società è un dato consolidato

pregresso, che era già pane quotidiano per la letteratura ed anche per il

cinema dell'intero secolo e della stessa cinematografia degli anni '20,

quella parte depressa dell'ancora muto cinema italiano (già in età

fascista, non dimentichiamolo) che tanto piccola traccia ha lasciato di sé.

Non intendiamo certo addentrarci qui in un discorso sul cinema degli

anni '20, ma è incontestabile che anche dietro alle fosche e decadenti

figure di donne dannunziane allora imperanti vi fosse un retroterra di

profondo tradizionalismo sociale: non per nulla queste donne erano per

loro statuto eroine dal destino tragico.

Il punto è piuttosto secondo quali schemi, appoggiandosi a quali temi

questi due punti centrali che abbiamo individuato trovino posto nei film

e si propongano agli spettatori italiani come modelli. In un certo modo si

potrebbe innanzi tutto dire che già nell'interazione fra di essi l'uno

veicola l'altro; cioè, il motivo dell'amore romantico fa da viatico, da

piacevole cornice narrativa e persino da edulcorante, per la

rappresentazione e per l'accettazione della morale conservatrice,

107

Page 107: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

dell'immagine della donna fedele e sottomessa, che accetta come

naturale il suo ruolo domestico. Ma anche altre tematiche rivestono

un'importanza particolare nel fornire un retroterra, definiamolo così, un

"mondo di supporto" adatto alla messa in scena della morale

conservatrice della famiglia e della donna. Una di queste tematiche sarà,

e non potrebbe essere altrimenti, quella della vita campagnola, del

ruralismo tanto caro al regime e al "figlio del fabbro"; un'altra, o se si

preferisce una diramazione di questa, sarà quella della provinciale

insidiata dall'aria viziosa della grande città e dei suoi spregiudicati

borghesotti (la stessa città e la stessa borghesia che,

contemporaneamente, celebravano sugli schermi il nuovo che avanza

attraverso le commedie).Altri temi ricorrenti sono quelli della scelta di

un uomo concreto e onesto come marito piuttosto di un fatuo nobile o

ricco, o del sacrificio, anche supremo, per il marito; oppure quelli che

portano in scena antimodelli, prototipi negativi, come il tema della

caduta morale senza ritorno della donna peccatrice o quello dello

scambio accidentale di mariti e fidanzati, che nelle commedie

esorcizzava certe piccole aspirazioni, di modesta meschinità borghese,

alla trasgressione del vincolo coniugale.

Tutti questi elementi non solo si ritrovano in abbondanza nei film

dell'intero periodo fascista, ma sono anche ampiamente distribuiti lungo

il suo intero corso, e attraverso gli anni non subiscono alcuna variazione

di nessun tipo, né narrativa né, soprattutto, sociologica. A partire,

naturalmente, dal più ricorrente ed ampio di questi, ovvero il ruralismo,

tema caro in primis a Blasetti: già dalla sua opera prima, Sole (1929)118,

118 Sole, ritenuto per più versi, e non a torto, il film della "rinascita" del cinema italiano dopo la crisi, nasce muto e viene sonorizzato solo due anni dopo; escludendolo qui dalla nostra disamina per motivi cronologici non possiamo però astenerci dal menzionare che, col suo ruralismo, anch'esso si attiene al modello che stiamo evidenziando.

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Page 108: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

il "regista con gli stivali" mostra questo suo interesse, ma ancor meglio si

può vedere nel suo cinema l'ideologia contadina con tutto il suo portato

di tradizionalismo sociale cominciando dal suo primo film parlato, Terra

madre (1931), per proseguire immediatamente col suo film successivo,

Palio (1932): il tema rurale resterà sempre caro a Blasetti, ma questi due

film, situati cronologicamente all'estremo inizio del periodo, ci

forniscono due perfetti esempi del modello ideologico-sociale di

partenza, che come vedremo sarà anche, immutato, quello d'arrivo. Nel

primo, le virtù contadine della popolana "zappaterra" Emilia (Leda

Gloria) conquistavano l'amore del padrone, il duca Marco, a spese della

mondana svenevolezza tentatrice della bionda, e straniera, Daisy. In un

invito all'antica virtù della donna di campagna italica chiaro che più non

si potrebbe, Blasetti non manca di inserire anche il motivo, pur'esso

costante per tutta la parabola del cinema del fascismo, della perfidia da

maliarda rubamariti della femmina straniera. Esattamente lo stesso

schema viene reiterato dal regista l'anno seguente, in Palio, dove ancora

una volta come nel film precedente troviamo l'opposizione fra due

donne, una popolana semplice e schietta (interpretata sempre da Leda

Gloria, vera musa popolana del primo Blasetti, in attesa dell'incontro

folgorante con Elisa Cegani) ed una perfida sciantosa. Quest'ultima, non

contenta di aver sottratto il fantino Zarre all'amore della brava fidanzata,

lo attira pure in un agguato e lo fa malmenare per impedirgli di correre il

Palio. Ma, naturalmente, sarà la ragazza del popolo a spuntarla, e l'amore

e la giustizia trionferanno. Nella tornita e un po' naif Leda Gloria degli

esordi blasettiani si individua perfettamente il prototipo del personaggio

della donna del popolo operosa "che si accinge a diventare moglie e

madre"119. 119 Masi - Lancia, op. cit., p.16.

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Leda Gloria impersona un ruolo simile ancora nel 1934, quando, sotto la

direzione stavolta di Guido Brignone, interpreta nel film Oggi sposi la

parte di una provincialotta sbarcata in viaggio di nozze nella grande città,

Roma: un ruolo, questo della provinciale nella metropoli, che è il

prolungamento diretto di quello della contadina. Nel consueto schema di

opposizione fra purezza rurale ed insidie cittadine, alla candida sposina

accade proprio di essere travolta dalla "inospite Babilonia"120 con i suoi

mille tormenti, lontani anni luce dall'ingenua, placida e serena vita

paesana. Esattamente lo stesso tema e lo stesso motivo, come fanno

notare Masi e Lancia, che rivedremo quasi vent'anni dopo, nel

postbellico 1952, in Lo sceicco bianco121. Questo sconfinamento dal

nostro ambito cronologico ci ricorda come le tematiche di cui stiamo

trattando siano resistenti al trascorrere del tempo anche oltre la fine del

fascismo, ed a questo accenneremo ancora brevemente nel prossimo

paragrafo; per ora restiamo nei nostri margini del periodo fascista, e

limitiamoci ad evidenziare come l'identica svalutazione della società

cittadina, borghese e moderna, che vediamo ai primissimi albori degli

anni '30 in Terra madre permanga lungo tutta l'età del regime, giungendo

immutata ai primi anni '40, quando ancora "in film di Visconti o Blasetti

la città è il polo negativo di una visione del mondo in cui la salvezza e il

massimo di integrazione tra individuo e realtà è solo nel mondo

rurale"122. Un mondo che ha i suoi valori distintivi proprio nella sacralità

della famiglia, in una femminilità di tipo materno e casalingo, in una

bellezza severa e pudica; è un mondo che è la realtà di una società

italiana ancora ampiamente agricola, una società legata, come

perfettamente nota ancora Brunetta, parlando stavolta di Montevergine

120 F. S. [Filippo Sacchi], in Corriere della Sera, 1 Marzo 1934. 121 Di Federico Fellini, con Brunella Bovo nella parte della sposina di provincia. 122 G. P. Brunetta, Storia… cit., p.277.

110

Page 110: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

che è film del 1939, "a un cattolicesimo arcaico, a un'ideologia ruralista

come momento di conservazione di questi valori"123. E ancora, questo

cinema, "ottimo veicolo dell'ideologia conservatrice"124, è visto come

l'efficace sostituto "alla narrativa popolare e all'opera lirica

dell'Ottocento"125.

Non c'è però solo la tematica ruralista a delineare, nei film del periodo

fascista, una traiettoria fatta di elementi immutabili in difesa di valori

sociali conservatori ed assetti familiari tradizionali. Prendiamo l'esempio

più classico di modello negativo: la "donna perduta" Il fatto che essa sia

tale per scelta o per sventura o per semplice fiacchezza d'animo non

riveste alcuna importanza: la condanna cade inesorabile sul suo capo. La

sua colpa primaria è una: essere una donna estranea allo schema

familiare, e come tale un pericolo per la stabilità sociale, sia in quanto

esempio di sedizione sia come concreta minaccia per gli altrui uomini e

quindi per l'integrità loro e delle loro famiglie. È il caso, nel 1934,

dell'Isa Miranda del già ampiamente citato La signora di tutti; ed è il

caso, con diversi svolgimenti narrativi ma con la medesima morale

familiare, delle prostitute interpretate da Paola Barbara in La

peccatrice126 e da Laura Solari in La statua vivente127, rispettivamente

del 1940 e del 1943. Nel primo di questi due film una ragazza, sedotta e

abbandonata, dà alla luce il figlio della colpa (il quale però muore dopo

pochi giorni) e fugge dalla casa materna. Una doppia esclusione dal

sistema familiare, dunque: sia come moglie/madre che come figlia.

Inevitabile perciò che nel film la ragazza scenda tutti i gradini

dell'abiezione. La possibilità di salvezza, attraverso l'ospitalità di una

123 idem, p. 294. 124 idem, p. 295 125 ibidem. 126 Regia di A. Palermi. 127 Regia di C. Mastrocinque

111

Page 111: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

sana e proba famiglia di contadini, le viene preclusa quando il figlio di

questi, che l'ama, scopre il suo passato e la respinge. Essa precipita così

sempre più a fondo, in città naturalmente, nel gorgo del peccato, fino alla

prostituzione. Ma troverà infine la sua possibilità di salvezza, e sarà

naturalmente nel rientro nel canone familiare: preclusole per la sua colpa

iniziale il ruolo di sposa esemplare, il suo reinserimento nel sistema-

famiglia non può che avvenire attraverso il ritorno nella casa della

madre, che comprende e perdona; non senza che, a spingere la sventurata

al pentimento, vi sia un'immancabile morte, non sua stavolta ma di una

compagna di postribolo.

Non scampa invece alla morte un'altra prostituta, la Rita di La statua

vivente, la quale, non avendo di fronte a sé la via del rientro nella

famiglia originaria ma solo il sogno di formarne una sua (perché nel

cinema fascista anche le peccaminose prostitute hanno in fondo un cuore

che anela ad un onesto marito e ad una casa piena di pargoletti), non può

avere altra sorte che una morte tragica: la salvaguardia della sacralità

della famiglia non può permettere che una prostituta acquisisca lo status

di moglie, che ne uscirebbe dilaniato nei suoi requisiti di purezza e

fedeltà. Tanto più che in questo film la prostituta prende letteralmente il

posto di una moglie: Rita assomiglia in modo impressionante alla sposa

di un marinaio, destinata a morire in un incidente il giorno stesso delle

nozze (ed infatti sia la moglie che la prostituta sono interpretate da Laura

Solari). Rita cerca allora di sostituirsi alla defunta moglie legittima nel

cuore e nella vita del marinaio, ma egli la scaccia: non c'è posto per le

prostitute nel mondo dei rapporti familiari, ogni suo tentativo di

redenzione, per quanto sincero, è destinato a fallire. Il ruolo di sposa

fedele, rifiutato una volta, è precluso per sempre. Immancabile giunge

così il castigo finale: quando Rita attende il marinaio nella di lui casa

112

Page 112: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

indossando gli abiti della defunta, egli non può certo gradire, come

credeva la sciagurata; ma anzi, la considera una profanazione, un insulto

alla sacralità del rapporto coniugale, alla moglie morta. Fuori di sé,

dunque, la uccide. L'infrazione della famiglia è un delitto che si paga con

la morte.

Esempi ulteriori di come il conservatorismo sociale dell'Italia di allora

trovi nello scenario familiare uno dei suoi cardini invariabili nel corso

degli anni si potrebbero trovare in molti altri film ed espressi secondo

angolazioni diverse. Si è già detto come, uscendo dal genere

melodrammatico per gettare uno sguardo anche sulle commedie dei

telefoni bianchi, lo scambio del partner sia uno dei temi più frequenti,

ma mostrato proprio in modo tale da esorcizzare certe aspirazioni

piccoloborghesi all'infrazione dell'irrevocabilità del legame

matrimoniale: si pensi a quante commedie mettevano in scena errori di

persona entro l'ambito coniugale, come Il fidanzato di mia moglie128, o

altre bizzarrie della situazione coniugale, come Dopo divorzieremo129.

Tutte storie che, inevitabilmente, finiscono col ribadire l'intoccabilità e la

centralità dell'istituzione matrimoniale.

Ed infine non poteva mancare, in una società conservatrice come quella

di cui abbiamo parlato, ancora profondamente maschilista, il tema della

donna come sottomessa compagna dell'uomo che si sacrifica per lui: un

sacrificio che, nel quotidiano, poteva anche voler dire spaccarsi la

schiena nei lavori di casa, ma che al cinema assumeva naturalmente una

dimensione più elevata, quasi sacrale, fino all'iperbole del sacrificio

estremo della vita: è l'esemplare caso di Nozze di sangue, nel quale la

pura ed incolpevole sposa dal significativo nome di Immacolata, resa

128 C. L. Bragaglia, 1943 129 N. Malasomma, 1940

113

Page 113: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

non più tale alla vigilia delle nozze con l'inganno da un perfido furfante,

dapprima sopporta l'esibito tradimento del severo marito, ed infine

giunge ad immolare la sua vita per salvare quella di lui. Anche qui la

colpa, per quanto involontaria, non trova espiazione se non nella morte;

ma la prova di perfetta virtù muliebre data dalla povera ragazza dopo la

sua involontaria caduta al di fuori della morale familiare accettata le

consente alfine, con la sua morte da agnello sacrificale, di circondarsi

postuma di un'aura di donna martire, con un velo, seppur luttuoso, di

santità.

4.3 Oltre un decennio, anzi due, e nulla è cambiato Vi è dunque, come abbiamo appena visto, una linea ideologica

tradizionalista e conservatrice attiva in Italia negli anni del fascismo che

rappresenta nella cinematografia una linea minoritaria, ma che nella

società era ancora, alla faccia del mondo moderno e urbanizzato messo

in scena nelle commedie, il modello largamente dominante nel paese. E

si tratta, come abbiamo visto, di un'ideologia, di un modello sociale che

si conserva immutato lungo tutto l'arco cronologico degli anni del

cinema fascista. Ma non solo: il sistema sociale e familiare conservatore

in questione proviene da una cultura arcaica che è pregressa al fascismo,

e che per larghi tratti continuerà ad essere dominante o attiva anche nel

dopoguerra. Non solo nella realtà socioculturale del paese, ma anche

nella rappresentazione della società italiana e della famiglia che di questa

realtà darà il cinema.

Abbiamo già accennato a Lo sceicco bianco, e a come questo film (che

non è di un qualsiasi regista sprovveduto o manierista, ma di Federico

Fellini) nel 1952 rappresenti una storia ed una morale sociale

sostanzialmente non differente da quella di un analogo film di quasi

114

Page 114: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

vent'anni prima. Mi permetto dunque poche righe di digressione sul

cinema degli anni successivi alla caduta del regime proprio allo scopo di

evidenziare come l'invarianza di quella certa prospettiva sociale di

matrice rurale, antimoderna, cattolica e strapaesana si perpetui non solo

durante tutto l'arco degli anni del fascismo, ma come continui ad essere

operativa anche nei film del periodo successivo; e, naturalmente, non

solo nei film ma anche nella società italiana reale.

Nell'immediato momento successivo alla caduta del regime ed alla fine

della guerra si sviluppa in Italia, sotto l'impulso di un'emozione morale

potentissima e di una commistione irripetibile di situazioni sociali,

culturali, produttive, politiche ed artistiche, quella cinematografia

memorabile che passerà alla storia sotto il nome di neorealismo. Un

cinema, questo lo si può affermare con certezza nonostante alcuni studi

abbiano cercato di evidenziarne i rapporti di continuità (assai esteriori a

mio parere) con la cinematografia precedente, di chiara e netta rottura

col passato, non solo sotto l'aspetto del linguaggio ma anche e soprattutto

sotto il profilo sociale, con un ruolo che si può ben definire

rivoluzionario. In realtà, salvo rari casi del tutto particolari come quello

di Chiarini, non si può dire che vi siano critici o studi determinati a

rilevare esclusivamente l'aspetto della continuità fra cinema degli anni

'30 e neorealismo; abbondano piuttosto gli studi nei quali le due

componenti, quelle che i quattro critici del "Gruppo Cinegramma"

definirono "continuità e frattura" si mescolano in varia misura, mutevole

anche col passare degli anni130. Quello di stemperare la contrapposizione

130 Cfr. Casetti, Farassino, Grasso, Sanguineti cit.; in particolare per le definizioni di "frattura" e "continuità" cfr. pp.331-343. Questo saggio è probabilmente il più significativo esame sui rapporti di attrazione e repulsione fra il cinema degli anni '30 e il neorealismo. Fondamentale l'approccio semiotico alla questione, con l'analisi dei rapporti di frattura e continuità affrontata attraverso l'analisi intertestuale e il campo di relazioni semiotiche costituito dalle "citazioni". Qua e là affiorano però, anche in questo esemplare studio, certe indulgenze verso la linea della continuità che non mi sento di condividere pienamente.

115

Page 115: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

netta fra il "prima" e il "dopo" è esercizio critico che dobbiamo

soprattutto alla generazione di studiosi che, non essendo stata parte in

causa all'epoca della guerra e del neorealismo, potè finalmente parlare di

neorealismo e cinema fascista senza determinate pregiudiziali

ideologiche: quella generazione, non a caso, che farà rinascere in grande

stile il dibattito sul cinema dell'età fascista a metà degli anni '70, in

corrispondenza con i noti convegni di Pesaro e Ancona. Cionondimeno,

personalmente ritengo che anche i più raffinati fra i critici

contemporanei, compreso Gian Piero Brunetta per molti aspetti131,

tendano oggi a sopravvalutare gli elementi di continuità tra neorealismo

e cinema dell'età fascista. Più opportuno sarebbe a mio giudizio parlare,

come ho già accennato, di continuità oltre il neorealismo, con la

riattivazione, ad anni '50 in corso, di modi e linguaggi precedenti alla

catastrofe bellica; mentre l'avventura neorealista, nel suo breve e intenso

periodo, rimase appunto una sorta di parentesi: una scuola senza né

maestri né discepoli.

Infatti, dopo pochissimi anni, non solo questa eterogeneissima "scuola"

andò sfaldandosi, ma fu rapidamente insabbiato il suo stesso lascito in

termini di cinematografia sociale. I grandi autori che avevano dato fama

imperitura a quel momento della nostra cinematografia si avviano,

superato il momento traumatico dell'immediato dopoguerra, lungo le

loro diverse strade creative; mentre i minori, cessato il periodo d'oro,

prontamente si disperdono al servizio di una produzione di maniera, di

genere. Ed è forse proprio questa nozione di "genere" a dare la chiave del

131 Anche nel volume secondo della sua fondamentale Storia del cinema italiano (cit.) Brunetta tende a dare molto rilievo agli aspetti di continuità fra cinema fascista e neorealismo, sia attraverso la presentazione delle istanze "realiste" della critica del tempo (particolarmente il gruppo di "Cinema"), sia attraverso un costante riferimento a film, autori e correnti che del neorealismo sarebbero "antecedenti". Si vedano, a proposito, in particolare il capitolo "Il cammino della critica verso il neorealismo" (pp. 197-230) ed il paragrafo dall'altrettanto significativo titolo "Spostamenti progressivi verso la realtà" (pp.275-8).

116

Page 116: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

discorso: il cinema neorealista era stato il cinema dell'antigenere per

definizione, il cinema della "messa in disordine" rispetto all'ordine del

sistema dei generi preesistente; e lo stesso disordine era stato portato nel

mondo dei rapporti sociali, sconvolti dall'esperienza bellica e

rappresentati nella loro più brutale realtà. Proprio in quanto tale, questo

cinema non poteva sopravvivere a se stesso: il suo status di momento

azzeratore, di caos purificatore, non poteva che avere breve vita,

destinato fin da principio ad essere accantonato, museificato quando il

paese fosse pronto a riprendere il suo cammino ed assumesse quindi un

nuovo ordine. Ordine politico, ma anche e per quanto ci riguarda

soprattutto ordine sociale; e quindi, inevitabilmente direi, ordine

cinematografico. Finito il bellissimo falò, si scopre che la società italiana

non è poi granchè mutata nel passaggio di regime dal prima al dopo la

guerra; ed anche i suoi desideri e la sua fame di cinema restano legati a

modelli che sono in gran parte riproposizioni appena aggiornate del

cinema che fu negli anni '30. Sono passati pochi, pochissimi anni dai

capolavori di Rossellini, Visconti, De Sica, ma già si rifacevano vivi i

vecchi modelli, sia sociali, in un generale rappel a l'ordre, che

cinematografici, con la ricomparsa proprio del massimo nemico dei

registi e critici del neorealismo: il cinema dei generi. Come non

riconoscere sotto le spoglie delle tornite "bellezze in bicicletta" le eredi

delle cinguettanti segretarie e dattilografe delle commedie di regime? La

cosiddetta "commedia all'italiana" non discende forse direttamente da

Camerini e dal cinema dei telefoni bianchi? Notava Carabba oltre

venticinque anni fa, restando non troppo ascoltato, come "l'analisi

scandagliata delle vane commedie degli anni Trenta permetterebbe di

stabilire vari punti di contatto con i brutti e cattivi filoni di strepitoso

successo del <<trentennio democratico>>, dal deprecato bozzettismo

117

Page 117: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

manieristico dei <<poveri ma belli>> all'insincero moralismo falsamente

accusatore dei <<Sorpassi>> alla Gassmann"132. E ancora, non sono

forse i drammoni cupi, chiusi, colmi di amori tragici e disperati di

Poggioli i progenitori diretti del filone postbellico ultrapopolare e

lacrimevole che trova il suo massimo esponente in Matarazzo? Gli

esempi potrebbero, se questa fosse la sede più appropriata, continuare; è

comunque un fatto che, specialmente sotto il profilo sociologico, le

traiettorie che si disegnano nella cinematografia fra gli anni '30 e gli anni

'50 risultano alla resa dei conti molto meno segnate dall'esperienza

neorealista di quanto si possa pensare. L'eccezionalità stessa di quel

cinema, il suo essere irripetibile ed improrogabile, finisce così con

l'apparire a noi posteri, e col rappresentare per i contemporanei, più una

parentesi che una rivoluzione. Una parentesi nel clima della società e del

cinema italiano almeno, perché, sul piano dell'importanza per la

cinematografia mondiale, che l'esperienza neorealista potè recepirla

senza i fardelli che pesavano sulla società italiana, fu rivoluzione vera, e

feconda.

In Italia invece, si è detto, una parentesi: e più ancora che sul piano del

linguaggio fu tale proprio sul piano della rappresentazione sociale. La

guerra e la repubblica avevano cambiato certo molte cose nella società

italiana, ma ancora una volta larghissimi strati della popolazione erano

stati toccati dal cambiamento solo marginalmente, e le consuetudini

sociali e familiari antiche, così com'erano sopravvissute pressochè intatte

ed immutate nel passaggio attraverso tutto il ventennio fascista, ancora

erano riemerse incrollabili nel dopoguerra. Di nuovo rappresentavano

soprattutto le larghe fasce d'Italia che vivevano in una società rurale

oppure di piccolissima borghesia, con il loro tradizionalismo 132 C. Carabba cit., in Micchichè (a cura di) Il neorealismo… cit., p.394-5.

118

Page 118: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

conservatore; di nuovo ad essere nucleo fondamentale di questa società

tornava ad essere la famiglia, concepita in senso arcaico, come sistema

chiuso di relazioni allargate e ramificate in schemi di subalternità. E di

nuovo, infine, al centro naturale della famiglia tornava, anche nella

rappresentazione cinematografica, lei, la donna: naturalmente con i

medesimi connotati di prima.

Scriveva Varese a dieci anni dalla fine della guerra a proposito della

"nuova" figura femminile nel cinema italiano: "La donna di questi film

del dopoguerra è, in genere, compagna all'uomo nelle preoccupazioni

economiche e nell'incertezza della vita, talvolta compagna anche nelle

lotte politiche e sociali"133. Il tempo, si sa, non è generoso con le analisi

critiche toccate dal calore del momento presente. Così oggi, nel chiederci

se veramente fosse cambiato qualcosa nella figura della donna nella

società e nel cinema nel passaggio dagli anni del fascismo a quelli del

dopoguerra, ci basta ribaltare impietosamente proprio quelle stesse

parole: dal confronto tra le riflessioni sulla figura femminile dei film del

dopoguerra e quelle dei film degli anni '30 emerge un quadro nel quale,

senza variazioni di rilievo, il ruolo della donna rimane quello di

compagna dell'uomo, cioè detto senza mezzi termini di subordinata

all'uomo, sempre e comunque in nome dell'unità della famiglia della

quale essa è il perno, "nella quale il suo ruolo di moglie e madre deve

essere perpetuo"134. E non diversamente accade se si tocca il tema, pure

più moderno e quindi apparentemente meno soggetto alle spinte

tradizionaliste della conservazione sociale, della donna al lavoro: pur con

l'inserimento di tematiche modernamente sociali, come la

disoccupazione, nella rappresentazione del mondo privato le fanciulle

133 C. Varese, Questa la donna nel cinema italiano del dopoguerra, in "Cinema Nuovo", n. 30 (1954). 134 A. Frabotta,. cit., p. 83.

119

Page 119: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

rimangono perlopiù bozzetti sentimentali, e sono, ancora, dattilografe

con l'anelito infine ad un tradizionale matrimonio; e ancora la città è il

polo negativo di un'opposizione bene/male con la campagna, è il luogo

del crollo, anche simbolico e morale. Lo si può vedere persino in film tra

i migliori degli autori più severi, com'è quello, del 1952, a cui abbiamo

fatto riferimento senza nominarlo in queste ultime righe: quel piccolo

capolavoro di "realismo popolare" che è Roma: ore 11 di Giuseppe De

Santis.

120

Page 120: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Capitolo 5.

La famiglia nel cinema dal 1930 al 1943: un'analisi diacronica.

5.1 l'Italia, il regime, la famiglia: una linea di mutamenti Quando, nel 1930, il cinema italiano scopre le voci, il fascismo è ormai

consolidato all'interno del paese. Negli otto anni trascorsi dalla marcia su

Roma il regime ha conquistato, sotto ogni aspetto, il controllo della

nazione. Tredici anni durerà ancora il regime, fino a quell'ordine del

giorno del 25 luglio 1943 che ne concluderà la parabola (salvo la

agonizzante esperienza repubblichina); tredici anni che vedranno

alternarsi fasi di maggiore o minore consenso. Un periodo durante il

quale molti saranno gli eventi, molti i cambiamenti, sia nella società che

nel cinema.

Nel capitolo precedente abbiamo esaminato come, durante l'età del

regime, una certa linea di pensiero connotata in senso tradizionalista

attraversi la società e venga rappresentata sugli schermi del paese; e

soprattutto abbiamo evidenziato come questa linea sia anche

temporalmente invariante, si conservi cioè immutata nelle sue basi

attraverso tutto il periodo preso in considerazione (ed anche oltre). In

questo capitolo, invece, prenderemo in esame la tendenza opposta, l'altra

linea di condotta che attraversa l'Italia in quegli anni, ovvero la linea più

votata alla modernizzazione, sociale, economica, e naturalmente

familiare; ed il modo in cui questi mutamenti sociali vengono

rappresentati nel cinema. In realtà non è tanto sugli aspetti in loro stessi

di tale modernità che vogliamo soffermarci, anche perché già

121

Page 121: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

ampiamente scandagliati in ottimi studi135, ma piuttosto sul fatto che,

contrariamente alle posizioni tradizionaliste che rimangono invariabili

durante gli anni, questa linea di ri-strutturazione sia della società che del

cinema ha un suo andameno diacronico preciso col variare dei momenti,

col trascorrere degli anni. Essa non solo rappresenta il mutamento, ma è

in continuo mutare essa stessa; il suo variare, produrre nuove figure

sociali e nuove raffigurazioni cinematografiche è il contraltare

dell'immobilità di valori di cui abbiamo parlato in precedenza: due

tendenze che convivono nel paese, e nel cinema, come due facce della

stessa medaglia.

La prima, indispensabile premessa a questo discorso è che sarebbe del

tutto fuorviante cercare sommariamente di affibbiare a queste due

prospettive le etichette "fascista" e "antifascista". Sarebbe operazione

completamente fuori luogo, perché è solo negli ultimissimi anni del

regime che il settore più ricettivo e dinamico del cinema comincia a far

filtrare, in modo spesso inconsapevole, i segnali della spaccatura che si

va aprendo tra il regime ed il paese; e peraltro attraverso il territorio

semantico della modernizzazione transiteranno dal principio alla fine

temi, figure e discorsi tutt'altro che sgraditi al regime, ed anzi in certi

momenti persino più vicini agli interessi reali del fascismo di quanto non

lo fosse, per esempio, il ruralismo.

È dunque assai difficile dare una definizione univoca per i film che

prenderemo in esame in questo paragrafo, proprio perché l'unico fattore

ad accomunarli è l'appartenenza ad una linea in evoluzione di

rappresentazione della società italiana. Non si può parlare di registi

protagonisti espressamente di questa tendenza, se non in modo del tutto

135 In particolare sul ruolo che in quest'ambito ha la donna (soggetto centrale sia dei mutamenti sociali che del cinema come si è detto) spiccano i lavori di Elena Mosconi (Figure femminilitra cinema ed editoria popolare cit.) e Victoria De Grazia (Le donne nel regime fascista cit.).

122

Page 122: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

superficiale: la stretta convivenza dei due modelli faceva sì che anche

nella pratica del lavoro cinematografico essi nascessero indistintamente.

Ugualmente non si può parlare di generi privilegiati: se è vero infatti che

la commedia fu, per sua natura testuale, più vicina alle spinte moderniste

della società, è altrettanto vero che l'evoluzione della società italiana

trova spazio anche negli altri generi, compreso il "tradizionale"

melodramma.

Impuntarsi nel cercare di stabilire in quali misure siano i film a

rappresentare la società esistente e in quale siano il cinema e i media a

proporre un modello sociale è, si sa, come chiedersi se sia nato prima

l'uovo della gallina. Importante è solo tener bene presente che questi

reciproci influssi esistono, sapere quale sia la loro forza ed in direzione

di cosa si orientino. Nel caso del cinema del fascismo abbiamo visto già

come la direzione sia duplice: da un lato la conservazione sociale,

dall'altro il modernismo. In entrambi i casi si tratta, a mio giudizio, di

modelli dalla forza rilevante; ma forze connotate diversamente: l'una,

quella tradizionalista, è forza statica, sostanzialmente passiva; l'altra è

invece una forza dinamica, che da un lato produce movimento, dall'altro

lo segue attentamente. Ed infatti vedremo come, lungo questa linea,

venga alla luce in modo evidente un'evoluzione che trova i suoi punti di

accumulo in determinati momenti dell'epoca in questione, e

segnatamente in corrispondenza niente affatto casuale con avvenimenti

storici precisi, con punti di svolta della società italiana del periodo

fascista.

Due spartiacque fondamentali costituiscono i margini, che peraltro vanno

presi, come sempre nella storiografia, come riferimenti elastici, dei tre

momenti che la prospettiva sociologica può individuare nei tredici anni

di cui parliamo: uno è, naturalmente, l'entrata in guerra; l'altro, più

123

Page 123: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

dilatato temporalmente ma forse ancor più cruciale, è l'insieme di eventi

politici che hanno luogo a cavallo fra la fine del '35 e il '38, fra cioè la

guerra d'Africa e le leggi razziali. Ma prima di introdurre in dettaglio

questa questione cronologica, è doveroso accennare anche ad almeno

un'altra importante linea di demarcazione che attraversa il cinema degli

anni '30, una linea che qui lasceremo in secondo piano perché più

propriamente legata alla produzione cinematografica piuttosto che alla

rappresentazione cinematografica della società, che è il nostro tema: si

tratta della rottura che avviene dal 1934 con l'istituzione della Direzione

generale per la cinematografia ed il passaggio del ruolo di uomo-guida

del cinema italiano da Cecchi e Freddi. È indubbio che tale mutamento

abbia enormemente segnato il cinema del periodo, ma, ai nostri fini, in

termini cioè di raffigurazione della società e della famiglia, risulta molto

più significativo seguire i mutamenti che il cinema rappresenta attraverso

l'altra prospettiva, quella che ci consente di collegare il lavoro dei

cineasti alla realtà sociale del paese, piuttosto che evidenziare come la

gestione Freddi abbia forse (ma non potremo saperlo mai) tarpato le ali

ad un possibile cinema italiano "d'autore" per puntare sul modello

americano degli standard di genere.

Vi sono dunque momenti precisi nei quali il cinema avverte, in qualche

modo, il mutare della situazione sociale in Italia in corrispondenza a

determinate situazioni storiche venute a crearsi; e, a fianco di una

corrente tradizionalista che per sua natura non si presta a fornirne

riscontro, dà voce a tali momenti di frattura con un mutarsi, spesso

appena accennato ma non lento, degli elementi della rappresentazione

sociale del paese sugli schermi. Come si è detto, tali momenti

corrispondono a precise situazioni sociopolitiche che originano dal corso

del regime fascista; è perciò opportuno, innanzi tutto, stabilire un punto

124

Page 124: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

di partenza, il termine a quo dal quale esaminare il cammino del cinema

in parallelo a quello del regime: tale termine non può che essere l'inizio

dell'età del cinema sonoro e la contemporanea rinascita del cinema

italiano dopo il periodo oltremodo buio degli anni '20, e quindi è

indispensabile evidenziare brevemente quale fosse, all'alba del 1930, la

situazione dell'Italia sotto il profilo sociale e quali fossero le linee sulle

quali si muoveva e si era mosso nei suoi otto anni di potere il regime

fascista. Il fatto che in quegli anni il cinema italiano fosse poco più che

un'entità vegetante non ci esimono infatti dal ricordare per quali vie la

società ed il regime fossero giunti alla situazione, che per noi sarà di

partenza, dell'inizio degli anni '30.

5.2 Movimenti già in atto: gli anni '20 e gli esordi del fascismo Nelle poche pagine di questo paragrafo si parlerà dunque ben poco di

cinema, e molto invece di storia e società: pur con la necessaria brevità

cercheremo di dare atto dei mutamenti sociali che erano già in corso

negli anni '20, e di quale fosse la situazione dalla quale si muoveranno

gli ulteriori cambiamenti del decennio successivo sui quali ci

concentreremo.

Alle soglie del cambio di decennio, dunque, il regime ha appena portato

a termine con successo la sua opera di stabilizzazione e di conquista di

consenso all'interno del paese. È del 1929, infatti, il Concordato firmato

tra lo stato fascista e la Chiesa, che sacrificando larghi settori di laicità

dello stato chiudeva l'annosa questione romana, e soprattutto conquistava

al fascismo la forza di orientamento morale padrona assoluta del paese,

cioè la chiesa, potendosi giovare contemporaneamente di un enorme

successo propagandistico agli occhi degli italiani tutti. L'indizione, non a

caso poche settimane dopo, di nuove elezioni (le prime tenute col nuovo

125

Page 125: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

sistema plebiscitario), mostrava chiaramente come il regime fosse ben

conscio del grande guadagno di consenso che i Patti Lateranensi gli

avevano fornito. I risultati delle votazioni, di per loro scarsi di significato

dato il sistema totalitario col quale si tennero, indicarono comunque nelle

cifre che intorno al regime vi era ormai un consenso diffuso, foss'anche

solo un'accettazione passiva. Per quanto ovviamente inaffidabili come

per ogni votazione tenuta in regime non democratico, con sistemi

plebiscitari e senza controllo sulla veridicità dei dati, i risultati appaiono

comunque come un segnale che la grande maggioranza degli italiani era,

se non favorevole al fascismo, almeno non contraria: si registrò "un

afflusso alle urne senza precedenti (quasi il 90%) con un 98% di voti

favorevoli. Un risultato da valutare con cautela […] ma comunque

indicativo di un diffuso orientamento favorevole al regime136. Un

consenso ripristinato appieno dopo i momenti difficili della metà del

decennio, con il delitto Matteotti e la seccessione dell'Aventino, e basato

sul significativo passaggio da un fascismo duramente squadrista ad una

fase di, per così dire, normalizzazione; un passaggio dalla fase della

presa del potere a quella della gestione del potere conquistato.

Questo consenso, appena rinsaldato sulla base dell'accordo con la chiesa

cattolica, non significava però che il paese avesse visto la sua situazione

sociale ed economica migliorare negli anni del regime: benchè infatti

l'Italia continuasse a muoversi lungo le linee di sviluppo comuni a tutti i

paesi dell'Europa occidentale (con l'aumento della popolazione,

l'urbanizzazione, la crescita dell'industria e dei lavoratori del terziario, in

Italia specialmente nella pubblica amministrazione), "alla vigilia della

seconda guerra mondiale l'Italia era ancora un paese fortemente arretrato

e il suo distacco dalle grandi potenze europee si era accentuato piuttosto 136 Giardina, Sabbatucci, Vidotto, op. cit., p.616

126

Page 126: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

che colmarsi"137. Il reddito medio di un italiano era lontanissimo da

quello di francesi e inglesi, e le condizioni materiali conseguenti erano

una dieta povera, basata sui farinacei e scarsa di proteine, ed un ancora

più evidente carenza di beni di consumo durevoli, compresi i mezzi di

comunicazione, come radio e telefono.

Le condizioni materiali di vita, insieme ad un identico ritardo anche sul

piano sociale, restavano dunque seriamente arretrate, nonostante la

propaganda del regime mostrasse un paese efficiente e produttivamente

fascistizzato, ma "l'arretratezza economica e civile della società italiana

fu per certi aspetti funzionale al regime e all'ideologia fascista, o quanto

meno ne favorì le tendenze conservatrici e tradizionaliste. Il fascismo,

come il nazismo, predicò il <<ritorno alla campagna>>[…] e tentò di

scoraggiare, senza peraltro riuscirvi, l'afflusso dei lavoratori verso i

centri urbani. Il fascismo inoltre, d'accordo in questo con la Chiesa,

difese ed esaltò la funzione del matrimonio e della famiglia, come

garanzia di stabilità e come base per lo sviluppo demografico"138. Se da

un lato il regime "voleva mantenere in vita strutture sociali e tradizioni

del passato"139 all'altro lato però, contemporaneamente, "era in qualche

modo proiettato verso il futuro, verso la creazione dell'<<uomo

nuovo>>, verso un sistema totalitario moderno"140; per la realizzazione

di tutto ciò era però necessario superare l'ostacolo dell'arretratezza

economica, che era legato soprattutto, come il regime dovette presto

notare, proprio alla struttura ancora profondamente rurale della nazione,

ai "piccoli paesi sperduti dove non arrivavano le strade carrozzabili, non

c'erano scuole e non si sapeva cosa fossero la radio e il cinema"141. Ecco

137 idem, p.617 138 idem, pp. 617-620 139 idem, p.620 140 ibidem 141 ibidem

127

Page 127: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

un primo accenno al cinema: lo accantoniamo un istante prima di

ritornarvi; per ora ci preme sottolineare come, resosi conto che la propria

ideologia ruralista originaria non era più funzionale alla costruzione

dello stato fascista nella nuova fase del consenso e del potere acquisito, il

fascismo lasciò che questa linea di pensiero restasse sempre più sullo

sfondo, sempre più solo sbandierata e non applicata, passando nella

nuova fase a prendere come suo interlocutore privilegiato quel gruppo

sociale che più e meglio avrebbe potuto assicurargli la stabilità nel

controllo del paese sia sotto l'aspetto sociale che sotto quello economico:

ovvero la borghesia. I ceti piccolo e medio borghesi furono quelli presso

cui il fascismo riscosse i maggiori successi, sia perché favoriti

nell'ascesa sociale dai nuovi canali della burocrazia del regime (che si

moltiplicava a dismisura) e dalla crescita del settore terziario, sia perché

erano queste le classi più sensibili ai valori che, accantonato il ruralismo,

erano quelli esaltati dal fascismo: il nazionalismo, l'ordine sociale, la

gerarchia. L'alta borghesia e la grande industria rimasero meno

ammaliati dal regime, ma quando fu evidente che per gli interessi dei

grandi capitalisti i burrascosi strepiti populisti del regime non erano

pericolosi attacchi ma solo propaganda innocua, i gruppi industriali non

ebbero problemi nel dare un tranquillissimo ed indifferente appoggio alla

politica fascista, ricevendone in cambio, quando gli effetti della crisi del

'29 si fecero sentire, sostegno statale per sanare le perdite e commissioni

per i cantieri della grande stagione di lavori pubblici che si aprì come

strumento per contrastare la crisi. Sarà invece solo negli anni '30 che lo

Stato diverrà, con le nazionalizzazioni, prima stato-banchiere e poi ststo-

imprenditore. Operazione questa che porterà in effetti il paese ad uscire,

a metà del decennio, dalla fase più acuta della crisi, ma che creerà un

precedente, una struttura ed una nuova enorme burocrazia parastatale che

128

Page 128: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

segneranno fino ai giorni nostri la struttura socioeconomica della

nazione.

Ma torniamo ora, per concludere prima di entrare nel dettaglio della

situazione nel paese e sugli schermi all'alba degli anni '30, al precedente

accenno al cinema. È quasi superfluo ritornare sulla nota questione del

"cinema arma più forte" dei proclami mussoliniani, ma non è superfluo

soffermarsi invece su come e quanto questi proclami vennero o meno

applicati; dopo oltre sessant'anni la storiografia continua a discutere del

se e quanto il cinema di quegli anni debba essere considerato

strettamente un "cinema fascista". Credo che questo mio studio illustri

chiaramente la mia modesta opinione a riguardo, ma mi pare opportuno

in questo contesto ripetermi in modo sintetico: quel cinema fu fascista

allo stesso modo in cui fu fascista l'Italia, cioè molto e diffusamente, ma

in modo sostanzialmente superficiale; ed anche torno a dire che molti

aspetti di quel cinema che oggi definiamo "fascisti" furono in realtà più

fattori già insiti nel paese che il fascismo fece suoi, piuttosto che precisi

diktat ideologici strutturati ed imposti dal regime. La scelta di rinunciare

quasi fin da subito ad un cinema di propaganda diretta fu ugualmente

una realistica e corretta presa d'atto, da perte di uomini non ingenui come

Freddi e Pavolini, del semplice fatto che in Italia quel modello non

avrebbe funzionato. Si scelsero così altre vie, meno dirette, ma non per

questo, infine, meno efficaci; e se ciò comportava che i messaggi

generali che sortivano dagli schermi fossero meno diretti e più di

compromesso, ciò non era altro che il riflesso di un regime che, mentre

su altri media come la stampa e la radio poneva il suo controllo totale, al

cinema lasciava una libertà d'azione che risultava più funzionale.

Qualcuno nel regime dovette aver capito allora che, lasciando che il

cinema incarnasse senza troppi steccati ambizioni, sogni e paure degli

129

Page 129: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

italiani, esso avrebbe prodotto, senza neppure doverlo forzare, una

cinematografia che rappresentava fedelmente anche il regime: poiché le

cosonanze di base fra esso e la nazione furono, in virtù

dell'opportunismo situazionista che il regime seppe applicare, a lungo

profondamente coincidenti: mentre si soddisfava una fetta del paese con

affermazioni di propaganda, si accontentava l'altra fetta con le

realizzazioni pratiche, e via così invertendo l'ordine dei fattori quando

fosse necessario, senza tuttavia che il prodotto cambiasse. Almeno fino

ai decisivi anni 1936-38, quando il prodotto-consenso comincerà a non

soddisfare più gli italiani, in conseguenza della nuova politica del

regime. Ma un passo per volta: vediamo ora come il cinema

rappresentava la società e quindi la famiglia italiana negli anni

precedenti, quelli fra il 1930 e il 1936, quelli insomma del maggiore

consenso.

5.3 1930-1936: la fase del consenso tra stereotipi vecchi e nuovi Con l'introduzione nel 1930 del cinema sonoro (o parlato che dir si

voglia) inizia dunque un nuovo periodo per la cinematografia italiana,

che coincide con il momento di ripresa dopo la letale crisi degli anni '20.

In genere però si tende ad attribuire tradizionalmente il titolo di "film

della rinascita" ad un film che fu girato ancora muto, ovvero l'opera

prima di Alessandro Blasetti (un regista che, pur senza essere un grande,

lascerà un segno profondo nello sviluppo della cinematografia italiana,

di quell'epoca ma anche in seguito): Sole, girato nel 1929 proprio alle

soglie dell'introduzione del sonoro. Se non fosse proprio per il fatto che,

per cronologia e per statuto di film muto, esso esula dal nostro ambito,

potremmo tranquillamente partire da quest'opera nella nostra

130

Page 130: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

ricognizione su questo primo periodo: gli elementi ci sarebbero tutti, a

cominciare da quella costante che è l'ormai più volte citato ruralismo.

È un dato di fatto che, in questa prima fase, i discorsi-chiave siano

sostanzialmente due: un dualismo ed una frattura. Il dualismo è quello, di

cui abbiamo già abbondantemente fatto cenno, fra le tendenze ruraliste e

quelle moderniste, potremmo dire fra Strapaese e Stracittà; la frattura è

quella, come abbiamo anticipato, fra la prima fase con la gestione Cecchi

e la seconda con la Direzione generale e Freddi. La prima questione è

più strettamente legata al nostro discorso sulla famiglia nel cinema, ma

la seconda è, a mio parere, più rilevante perché carica di conseguenze

determinanti per lo sviluppo successivo che il cinema italiano ebbe, nel

periodo fascista per non dire anche oltre. Cominciamo perciò da

quest'ultima, senza troppo dilungarci e rimandando per un

approfondimento ai testi specifici che abbiamo già citato all'inizio del

secondo capitolo.

La "rinascita " del cinema italiano, quella cioè che si fa tradizionalmente

cominciare all'estrema soglia del muto con Sole, nasceva sotto la guida

dell'uomo che, forse unico, aveva continuato a tenere duro per quanto

possibile durante il periodo buio: Stefano Pittaluga. Questo nonostante il

succitato Sole non fosse una produzione della sua Cines, ma della

neonata Augustus, casa indipendente appositamente istituita da Blasetti e

dai suoi compagni d'avventura delle riviste "Cinematografo" e "Lo

spettacolo d'Italia" mediante i proventi delle riviste, i risparmi personali,

l'aiuto di alcuni sostenitori ed una sottoscrizione azionaria: il film fu,

come ricorda Blasetti, prodotto con questi limitati mezzi e "attraverso

digiuni memorabili ed ostacoli di ogni natura"142. Riconosciuto

unanimemente dalla critica come il film che riportava il cinema italiano 142 A. Blasetti, Scritti sul cinema (a cura di A. Aprà), Marsilio, Venezia 1983, p.344

131

Page 131: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

ai fasti di un tempo143, Sole non ebbe un riscontro di pubblico altrettanto

lusinghiero: dal punto di vista commerciale il film fu un insuccesso,

riducendo il gruppo della Augustus, come disse ancora Blasetti, alla

fame. Ma Pittaluga, che in precedenza non aveva voluto impegnarsi nella

realizzazione di Sole, riconobbe in Blasetti e nel gruppo che aveva

lavorato con lui una valida forza produttiva, e decise così di chiamare il

regista, col quale aveva avuto più di uno scontro in precedenza sulle

pagine delle citate riviste blasettiane, ad aprire la produzione della nuova

Cines, da lui riaperta e riattrezzata nei vecchi stabilimenti di via Veio; e

dei quadri della nuova Cines entrarono a far parte anche gli altri

collaboratori della ormai liquidanda Augustus (tra i quali vi erano, per

citarne solo alcuni, Barbaro, Vergano, Solaroli e Pasinetti). Pittaluga fu

dunque il primo, con questa ristrutturazione, a credere in una ripresa del

cinema italiano in corrispondenza con l'avvento del sonoro e ad

introdurrre i nuovi apparecchi nella produzione e nell'esercizio. Pittaluga

si trova così in una situazione quasi monopolistica, tanto che in questa

prima fase il 90% dei film prodotti in Italia sono realizzati sotto il suo

marchio; la legge del 18 giugno 1931 (che tanto peso avrà nel

determinare la via intrapresa dal cinema italiano), che insieme ad

elementi protezionistici approntava aperture di credito per il cinema e

stabiliva premi e sovvenzioni su base quantitativa, sembrava e di fatto

era fatta su misura per lui: ma Pittaluga non potè vederne i frutti, dal

momento che morì appena prima che entrasse in vigore.

La guida della rinata Cines passò così negli anni successivi nelle mani di

Ludivico Toepliz; il quale volle accanto a sé, come direttore artistico,

Emilio Cecchi. Sarà quest'ultimo, per un breve quanto intenso ed

143 Cfr.: A. Blasetti, Il cinema che ho vissuto (a cura di F. Prono), Dedalo, Bari 1982, p.214 e passim.

132

Page 132: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

importante periodo, il vero deus ex machina della cinematografia

italiana.

"Agli inizi degli anni trenta lavorano per la Cines Blasetti, Righelli,

Camerini, Almirante, Campogalliani, Bragaglia. Prima della direzione

Cecchi non esiste un vero programma, né alcun piano produttivo, mentre

grazie a lui, dal 1932 si cercherà di stabilire un rapporto piùstretto fra

letterati e cinema e di modificare - attraverso film e documentari - gli

stereotipi rappresentativi dell'Italia e degli italiani", afferma Gian Piero

Brunetta144; e ancora: "Il breve arco di tempo che va dall'avvento del

sonoro alle prime iniziative della Direzione generale per la

cinematografia, istituita nel 1934 presso il ministero della cultura

popolare, vede i timidi passi du una ripresa non tanto in termini

quantitativi, quanto di ricerca di nuovi moduli produttivi e di nuove

strade, narrative ed espressive"145.

Dunque solo con l'avvento di Cecchi la Cines - e quindi il cinema

italiano tout court - trovano una loro direzione coerente, una politica

cinematografica. Una coerenza che pure deve convivere con qualche

tendenza più eterogenea: se infatti da un lato Cecchi diede un marcato

impulso ad una cinematografia che voleva essere, per così dire, di

qualità, d'autore, dall'altro è pur vero che la produzione Cines viene da

lui orientata a soddisfare le richieste di un pubblico medioborghese, con

le sue aspirazioni ancora alquanto ondivaghe fra un assetto sociale più

tradizionale ed il prepotente richiamo alla modernità ed alle possibilità di

ulteriore ascesa sociale che ciò presentava. La direzione in cui si muove

Cecchi è proprio quella di cercare di conciliare questi due aspetti:

riuscire ad offrire al pubblico una produzione che non atterrisca per una

144 G. P. Brunetta, Storia… cit., p.6 145 idem, p.231

133

Page 133: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

sua eccessiva novità, ma contemporaneamente che sappia rinnovare

l'immagine dell'Italia, sfuggendo alle convenzioni più popolari ed

oleografiche come pure all'artificiosità da teatro di posa del cinema dei

decenni precedenti. Un'operazione che viene svolta, e non senza apparire

nella sua brevità priva di un qualche successo, attraverso l'unione nelle

pellicole di un elemento tradizionale e rassicurante con un altro

innovativo e problematico: in particolare, si nota come si scelga di

seguire un'impianto narrativo consolidato (la commedia o il

melodramma) ma ponendone lo svolgimento in ambienti inusuali ed

innovativi. Nascono così quelli che sono i film più rappresentativi del

periodo Cecchi, 1860146, La tavola dei poveri147, Gli uomini che

mascalzoni…148 e Acciaio149.

Il primo è in qualche modo un caso a parte, che, innovativo già dal suo

linguaggio, trova la necessaria accettazione nel motivo risorgimentale;

negli altri tre casi si può vedere come, sullo sfondo di vicende d'intreccio

piuttosto usuali (la commedia sentimentale in due casi, il melodramma

per La tavola dei poveri), venga messa in scena un'Italia del tutto

sconosciuta agli schermi: l'ambiente dell'industria, non certo immune da

malcelata sospettosità da parte del regime; la Milano "scoperta"

dall'obiettivo di Camerini (che degli "esterni" è il più fedele assertore: si

pensi, restando solo nel breve periodo di cui stiamo parlando, a Figaro e

la sua gran giornata, Il cappello a tre punte, T'amerò sempre, Come le

foglie, tutti ampiamente girati in esterni in vari luoghi del paese); il

mondo, infine, dell'amarissimo teatro dialettale di Viviani, anch'esso per

niente gradito dal regime, nella sua lotta ai dialetti in nome dell'unità

146 A. Blasetti, 1934 147 A. Blasetti, 1932 148 M. Camerini, 1932 149 W. Ruttmann, 1933

134

Page 134: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

nazionale. L'unione con soggetti noti e codificati garantisce che lo

spettatore segua il film alla scoperta di aspetti del paese prima d'allora

assenti dagli schermi, e spinge lo spettatore stesso a realizzare la fusione

fra primo piano e sfondo, ovvero fra le vicende esemplari dei personaggi,

che sono romanzesche, e l'ambiente in cui si svolgono, che invece è

l'ambiente reale di determinate parti e situazioni del paese. Il

procedimento può, infatti, adattarsi ugualmente a rappresentazioni del

tutto diverse: tanto all'introduzione nel visibile dello spettatore della

Milano metropoli moderna come città reale e non immagine astratta, con

una nuova possibilità di identificazione, quanto all'umanizzazione, fuori

da ogni cornice di "colore" ma invece con tutto il campionario della sua,

perdonateci la citazione, miseria e nobiltà, della Napoli che Blasetti

preleva da Raffaele Viviani; come pure si adatta alla inedita

focalizzazione del mondo dell'industria, sia in quanto a macchinari sia in

quanto ad operai.

Ma, si è visto, non vi sono solo le moderate ma significative

sperimentazioni della produzione di punta della Cines di Cecchi: sia

all'interno della produzione della stessa Cines, sia nelle altre case di

produzione che timidamente si stavano (ri)affacciando, si guardava con

maggior interesse a filoni che fin dal loro esordio mostravano di

garantire un successo di pubblico senza preoccupazioni. Il primo film

sonoro italiano, La canzone dell'amore, aveva mostrato il perdurante

gradimento per il melodramma; mentre l'anno seguente La segretaria

privata aveva portato sugli schermi il nuovo modello narrativo vincente,

la commedia sentimentale con contorno di aspirazioni moderniste

all'ascesa sociale. Del primo di questi film non parleremo: sulla struttura

del melodramma e sull'assetto tradizionale della società italiana che vi si

lega ci siamo già dilungati in precedenza. La novità è invece il secondo,

135

Page 135: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

il film che introduce, per nefasto che lo si sia considerato, una nuova

linea di rappresentazione sociale oltre che un nuovo genere destinato,

come vedremo, a gonfiarsi a dismisura negli anni a venire, quando le

ragazzotte di provincia che arrivano nella grande città non si

contenteranno più di un posto da dattilografa ma vorranno anche candidi

telefoni e rose scarlatte.

5.3.1 Contadine, provinciali e nuove Cenerentole Ma per ora restiamo agli esordi del genere, anzi partiamo proprio

dall'esordio: La segretaria privata, appunto. In questa prima fase,

quando le cinguettanti telefoniste manovrano telefoni che ancora non

sono bianchi, non si può ancora parlare a pieno titolo di questo filone

come di un cinema profondamente fascista, come è invece

frequentemente definito il cinema dei telefoni bianchi in senso stretto

(che va dal 1936 in poi cioè, come vedremo)150. Per il momento,

piuttosto, ciò che emerge è come questi film, a cominciare proprio dal

primo di essi, rappresentino molto di più una mentalità diffusa in un

settore del paese che non propriamente un'ideologia di regime (usiamo

qui le nozioni di mentalità e ideologia nel senso propriamente riferito ai

fondamentali studi di Sorlin)151. Né era ancora operativo in pieno, in

questa fase, un altro dei temi che poi arricchiranno negli ultimi anni

molti dei film meno deteriori del genere, ovvero la contrapposizione

città/campagna risolta a favore della componente strapaesana e rurale

contro le insidie della metropoli. Per il momento, in virtù soprattutto del

citato legame che si istituisce fra realtà sociale di sfondo e narrazione 150 Il punto centrale del dibattito sulla maggiore o minore organicità di quel cinema con il regime è stato toccato nella nota polemica condotta attraverso le pagine del quotidiano "La Repubblica" all'indomani del seminario di Ancona del 1976; si distinsero tra gli altri in quell'occasione, sul versante di chi vedeva in quei film un fascismo profondo, Farassino, Lizzani e Kezich.

136

Page 136: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

romanzesca in primo piano, quelle che vengono messe in scena non sono

ancora le sognanti quanto stranianti falsità di lusso che serviranno pochi

anni dopo a coprire le ristrettezze di un paese immiserito dall'autarchia e

dalle sanzioni, ma un autentico desiderio di promozione sociale,

discutibile finchè si vuole nei mezzi e negli scopi ma comunque senza

dubbio corrispondente ad una realtà sociale che si andava diffondendo

nel paese: quella di una generazione che, spinta dalla modernità e dal

desiderio di una vita diversa, più moderna, più agiata e, infine, più libera

da condizionamenti sociali tradizionali, dalle campagne e dalla provincia

partiva verso la città (e l'inurbamento era un dato di fatto nel paese) alla

ricerca della propria strada.

Era una conseguenza naturale di ciò che ad assumere la posizione

centrale nel testo filmico fossero allora coloro che erano le nuove figure

emergenti di questo mutamento sociale: ovvero le donne. È in questa

fase che allo stereotipo femminile tradizionale se ne affianca uno nuovo,

quello appunto delle segretarie o dattilografe o telefoniste e così via. Il

modello di personaggio femminile precedente subisce uno scossone, che

pur senza mutarlo lo pone comunque in una posizione concorrenziale,

dopo che per lungo tempo non vi erano stati modelli alternativi al doppio

stereotipo donna fatale/donna angelicata, poste in una contrapposizione

appiattita dato che non erano altro che la raffigurazione di un modello

virtuoso e della sua nemesi. Con la comparsa del nuovo stereotipo ci

troviamo invece di fronte ad una alternativa reale: esattamente la stessa

che stava nascendo in quegli anni nel paese, ovvero la possibilità, per

un'ampia fascia di popolazione, di scegliere per il proprio futuro la via

dell'inurbamento, dell'ingresso in un nuovo contesto sociale aperto a

modelli del tutto diversi da quelli tradizionali, che consentiva una 151 In particolare P. Sorlin, Sociologia del cinema, Garzanti, Milano 1979

137

Page 137: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

maggior libertà d'azione alla donna, sia con l'accesso al mondo del

lavoro sia con un nuovo concetto di promozione sociale ed, infine, di

famiglia. Non è infatti difficile riconoscere, nei viaggi che le radiose

provinciali compiono verso la città, innanzi tutto una autentica fuga da

un mondo oppressivo e senza prospettive appaganti, ed in sintesi una

fuga dalla famiglia originaria. Anzi, non solo dalla propria famiglia

d'origine, ma dalla stessa istituzione della famiglia chiusa tradizionale

tout court. Le "segretarie private" non rifiutano certo il principio di

famiglia ed il matrimonio, questo sarebbe impensabile; ma la loro

anabasi verso la città e la modernità è un palese desiderio di un modello

familiare diverso, che le ponga, nella loro condizione di moglie, su un

livello più elevato che in precedenza: all'interno della nuova famiglia,

quella nucleare, esse potranno assumere il centro della ribalta,

guadagnare potere decisionale, ed affrancarsi dall'opprimente patriarcato

della famiglia allargata.

Ecco dunque che nascono le nuove Cenerentole degli anni Trenta, le

segretarie che sposano i loro facoltosi direttori. Dello schema favolistico

in questione abbiamo parlato in precedenza, ma ci preme qui sottolineare

un'ultimo fatto: il modello che si origina dalla Segretaria privata (che

peraltro era già un remake di un omonimo film tedesco dello stesso anno,

ed è un peccato non aver potuto procedere ad un confronto testuale delle

due pellicole che avrebbe messo, credo, assai meglio in risalto le

peculiarità sociali della rappresentazione italiana) ottiene fin da subito un

potente successo di pubblico e finisce così, per la disperazione dei critici

dell'epoca, per dar vita prima ancora che ad un genere ad un autentico

filone in carta carbone: si pensi solo a come il medesimo meccanismo

narrativo venga pedissequamente riproposto in film come La telefonista

138

Page 138: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

o ancora Due cuori felici152. La nota discendenza di tutta questa

cinematografia da romanzi, commedie teatrali o direttamente film di

provenienza tedesca e poi ungherese è certo un fattore uniformante già in

partenza; ma i cineasti italiani ci mettono poi del loro nel cercare di

staccarsi il meno possibile dal modello di partenza, finendo prestissimo,

con le solite eccezioni dovute a singoli registi con patricolari doti

personali come Camerini, col dare vita ad un clichè che appare da subito

ripetitivo. Così già nel 1933, nel recensire Non son gelosa di Carlo

Ludovico Bragaglia, Enrico Roma attacca "l'abusata strada di tutti", "la

formula standard della Cines, che tante delusioni ci ha procurato"153.

Già ai critici contemporanei erano dunque evidenti due cose: che la

Cines sotto la guida di Cecchi aveva creato delle speranze di avere in

Italia un cinema di qualità (e nelle parole dei critici il nome a più riprese

citato o invocato è quello di Renè Clair), e che dalla stessa Cines, quasi

monopolista della produzione, stava però sorgendo anche, ed anzi stava

divenendo la norma (mentre i citati film di Blasetti e pochi altri parevano

restare eccezioni), un cinema di genere ed orientato ad una produzione

seriale, che, dopo aver rapidamente scoperto sia le peculiarità del nuovo

linguaggio del cinema sonoro sia le nuove possibilità narrative

dell'immissione sullo schermo di modelli sociali inediti ricalcati dalle

situazioni e dagli ambienti autentici del paese, si stava rapidamente

cristallizzando in stereotipi di minor prospettiva e largo consumo. Erano

già, dunque, le prime avvisaglie della direzione che il cinema italiano

avrebbe definitivamente imboccato, di lì a pochissimo, sotto la guida di

Freddi e con l'avallo del regime che allungava un'altra mano sul cinema

attraverso l'istituzione della Direzione generale per la cinematografia.

152 B. Negroni, 1932 153 E. Roma, I nuovi films, in <<Cinema illustrazione>>, n. 17, 26 aprile 1933, p.12.

139

Page 139: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Sarà con Freddi che il cinema italiano verrà definitivamente ridisegnato

come un cinema di genere, secondo il modello hollywoodiano a lui tanto

caro; e così proprio Freddi si può a buon diritto considerare il

responsabile del proliferare delle dattilografe e segretarie nel nostro

cinema, ed infine quindi dei telefoni bianchi: anche se quando avverrà

l'autentico boom del genere Freddi sarà ormai verso la fine della sua

esperienza a capo della Direzione generale: e, non a caso, verrà piazzato

invece a capo proprio della Cines appena assorbita dallo stato. Lì

continuerà a proporre il suo modello di un cinema di buon livello medio,

basato sulla codificazione e standardizzazione di genere; ma ormai i

tempi saranno tali che molte cose cominceranno a sfuggire di mano: è

sotto la sua giuda, ad esempio, che Bonnard dirigerà Campo de'fiori,

film decisamente eccentrico rispetto allo schema freddiano. Ma prima di

arrivare a parlare di questi ultimi momenti del cinema dell'età fascista,

bisognerà passare per la fase cruciale che determina l'inversione di rotta,

nel cinema come nel paese: gli anni che portano dalla guerra d'Africa a

quella mondiale.

5.4 1936-1940: i cambiamenti nella società e nella cinematografia italiana Come accennato, c'è un periodo chiave nel corso del regime fascista,

durante il quale si accumulano, nel relativamente breve volgere di tre

anni o poco più, una serie di eventi, decisioni e mutamenti che

porteranno il paese, il regime ed il cinema ad un decisivo cambiamento

di rotta: ovvero, in sostanza, dal generale consenso alla nascita di un

latente dissenso, che deflagrerà poi platealmente con la disfatta bellica.

In questo periodo si concentrano numerose novità dal punto di vista

strettamente politico, con dirette conseguenze economiche e quindi

140

Page 140: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

sociali; e contemporaneamente si realizza una significativa variazione

nell'ambito della produzione cinematografica, la quale riflette la nuova

situazione sociopolitica con diverse modalità. Per capire l'enorme

esplosione delle commedie con la nascita dei film dei cosiddetti "telefoni

bianchi", ma anche per leggere le evoluzioni che subiscono nei film le

figure della donna, del marito e della istituzione familiare nel suo

complesso, non si può assolutamente transigere dall'esaminare nel

dettaglio quali furono gli eventi storici, le scelte del regime che

condussero a questo slittamento dei modelli cinematografici. È

opportuno quindi, prima di addentrarci nello specifico del filmico,

rendere sinteticamente conto dei determinanti eventi di quel triennio che

va dal 1936 al 1938.

5.4.1 Il triennio chiave del regime: gli eventi 1936-38 "<<Al Nuovo Teatro prima Gala di Passaporto rosso di Guido Brignone.

Protagonista Isa Miranda. È l'epopea di tre generazioni italiane, che

attraverso i tempi hanno recato in terre lontane il dono prezioso del 'latin

sangue gentile' >>. Così annunciava un'inserzione pubblicitaria nella

cronaca di Ferrara del Corriere Padano del 19 novembre 1935. Ma in

prima pagina un titolo a cinque colonne richiamava ad altri italiani in

terra lontana, l'Africa Orientale, e ricordava ai compatrioti: <<Tutto il

popolo italiano agli ordini del Duce è in linea per resistere e vincere

anche la battaglia economica>>. Il giorno precedente erano diventate

operative le 'inique sanzioni' decise dalla Società delle Nazioni contro il

nostro paese". La citazione di questo passo dal lavoro su "Sanzioni e

autarchia nell'Italia dei telefoni bianchi" di Filippo Casadio154 ci è parsa

davvero troppo appropriata per non aprire così il nostro discorso sul

141

Page 141: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

periodo cruciale della storia, anche cinematografica, dell'Italia fascista.

Si parte appunto da quello che è, storicamente, il primo momento

cruciale nella catena di eventi e scelte politiche che condurranno il paese

a mutare profondamente l'assetto dei rapporti fra popolazione e regime:

ovvero la guerra d'Africa e, diretta conseguenza, l'istituzione delle

sanzioni. Siamo, come visto e come noto, alla fine del 1935. Il regime,

galvanizzato dall'impresa imperiale, operazione facile ma dipinta in

patria come eroica conquista, affronta di slancio anche il problema delle

sanzioni chiamando in causa il tanto caro "popolo italiano"; con una

poderosa campagna propagandistica che presentava l'Italia come vittima

di una congiura internazionale delle nazioni plutocratiche contro l'Italia

proletaria ed il suo sacro diritto di conquistarsi il proprio "posto al sole".

Quest'immagine fece breccia nell'opinione pubblica, comprese le classi

popolari, e generò un'imponente mobilitazione contro le sanzioni.

Un'ondata di imperialismo popolaresco percorse il paese, esplicitandosi

in forme le più svariate, dalle manifestazioni antiinglesi ai cortei

bellicisti, ed anche in forme più concrete, come quella esemplare della

donazione delle fedi nuziali per sovvenzionare l'economia del regime, il

famoso "oro alla patria".

Se economicamente l'impresa d'Etiopia si rivelò un fardello più che un

guadagno, dal punto di vista del risultato politico il successo fu

clamoroso ed indiscutibile. La campagna contro l'Etiopia, conclusa

vittoriosamente con la proclamazione dell'impero nel maggio 1936,

segnò, per il regime fascista, il punto di massimo consenso.

Ma ben presto, svaniti gli entusiasmi coloniali, il fronte apparentemente

compatto dei consensi cominciò a denotare le prime significative

incrinature: e nell'arco di poco tempo, praticamente di un triennio, il 154 in Casadio, Laura, Cristiano op. cit., p.51

142

Page 142: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

distacco fra il regime ed il paese si andò irreparabilmente allargando,

giungendo così alla vigilia della guerra mondiale ad assumere

proporzioni notevolissime, che sarebbero emerse appieno poco dopo,

alla viglia della disfatta.Sarà allora che il regime perderà

progressivamente anche il sostegno sul quale ancora più poteva contare,

quello dei giovani. Ma una cosa per volta: è fdondamentale, ora, vedere

quali furono gli eventi che protarono alla formazione di questa crepa, di

questo latente dissenso che origina proprio dal punto in cui il fascismo

pareva aver conquistato il massimo del successo nel paese, e che sortirà

effetti visibili anche nell'immagine della società e della famiglia che

verrà rappresentata dal cinema. Procediamo dunque secondo l'ordine

degli eventi.

Una prima causa di disagio nel paese discende direttamente dai postumi

dell'avventura africana. La nuova fase di politica economica inaugurata

dal regime portò gli italiani e soprattutto le fasce sociali meno agiate, che

già non versavano in ottime condizioni, ad un generale peggioramento

delle condizioni di vita materiale, con una netta perdita del valore

salariale: le spese militari conseguenti alla volontà del fascismo di

ostentare un prestigio nazionale, alla necessità di domare gli incessanti

focolai di guerriglia in Etiopia nonché, in quell'immediato periodo, alla

partecipazione alla guerra di Spagna, suscitarono perplessità e scontento,

e nondimeno difficoltà e ristrettezze nella vita quotidiana. Quest'ultimo

aspetto venne ulteriormente aggravato prima dalle sanzioni (il cui peso

venne comunque ingigantito dal regime a fini propagandistici: mai

particolarmente efficaci né restrittive, le sanzioni furono infine cancellate

già nell'estate del '36) e poi dal rilancio in grande stile, che Mussolini

volle traendo spunto proprio dall'episodio delle sanzioni, della politica

dell'autarchia.

143

Page 143: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

La ricerca forzata di una sempre maggiore, ed impossibile,

autosufficienza economica, portò qualche vantaggio, anche cospicuo,

alle grandi industrie; ma i risultati furono tutt'altro che brillanti,

specialmente sul piano del consenso e della situazione socioeconomica

delle fasce meno abbienti del paese, che videro i salari salire molto meno

del costo della vita e portarono, in sostanza, a mutamenti notevoli anche

nell'assetto sociale: è questo uno degli elementi che più peseranno nella

entrata nel il mondo del lavoro delle donne, fenomeno che tanta

importanza riveste nella costruzione dell'immagine filmica dei rapporti

familiari.

Al fianco delle preoccupazioni economiche crescevano nel paese anche

quelle propriamente politiche. Il progressivo avvicinamento del fascismo

alla Germania ed al nazismo. Già la tradizione risorgimentale e della

Grande Guerra non poteva vedere di buon occhio l'amicizia con lo

storico nemico tedesco; inoltre vi era una diffusa antipatia per lo Stato

nazista, i suoi metodi bellicosi e la sua volontà di potenza. Dal momento

in cui si accostò al regime di Hitler il fascismo cominciò ad operare una

graduale stretta totalitaria, niente affatto gradita al paese; ma la

manifestazione più seria ed aberrante di questa nuova linea fu senz'altro

l'introduzione, nell'autunno del 1938, delle leggi razziali che

discriminavano gli ebrei. Per il tessuto sociale fu un fulmine a ciel

sereno: non c'era mai stata in Italia alcuna forma di antisemitismo

diffuso, e la già poco numerosa comunità ebraica era complessivamente

ben integrata nella società. Queste misure ricalcate in forma attenuata su

quelle naziste del 1935, tanto gratuite quanto ripugnanti, anziché

suscitare il consenso e l'orgoglio nazionale che Mussolini auspicava

finirono solo con l'infliggere un altro duro colpo al rapporto, ormai

palesemente segnato, tra il fascismo e gli italiani. Le leggi razziali

144

Page 144: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

suscitarono ad ogni livello sociale sdegno, sconcerto o quanto meno

preoccupata perplessità, aprendo per giunta anche un contrasto con la

Chiesa.

Guerra coloniale, sanzioni, autarchia, leggi razziali: in tre anni una serie

di mutamenti che portano ad un significativo ribaltamento di posizioni

nella società italiana, da un sostanziale consenso ad un dissenso diffuso.

Da questa serie di eventi ne abbiamo tralasciato uno, che non è compreso

nella storia generale ma fa specificamente parte della storia

cinematografica, ed anzi ne è un nucleo essenziale per capire cosa

succede nel cinema italiano dal 1938 in poi. Infatti, accanto ai succitati

fenomeni storici che naturalmente si riflettono in modo consistente anche

nel cinema (si pensi solo a come le leggi razziali portarono fuori dalle

scene autori anche importanti, primo fra tutti Aldo De Benedetti; i quali

comunque continuarono a lavorare pur dovendo rinunciare alla firma, a

comparire cioè nei credits e nei titoli di testa) ve n'è uno centrale, ovvero

l'istituzione del monopolio sull'importazione dei film stranieri. In

Sostanza, il provvedimento provoca il ritiro della majors e la scomparsa

dei film americani dagli schermi del paese. Basti ricordare come la

produzione statunitense occupasse i quattro quinti del mercato per capire

quale enorme, sconvolgente impatto il provvedimento ebbe sul nostro

cinema. Nascono così, com'è nella natura delle cose, nuovi film per

colmare il vuoto lasciato dalle pellicole americane, ed interi nuovi

generi: primo fra tutti, quel genere di commedia che evolve (o involve se

si vuole) dalla già affermata commedia rosa delle "segretarie per tutti", e

che prenderà il deteriore nome, che ancora resiste ad ogni tentativo di

trovare nuove definizioni, di cinema dei telefoni bianchi.

145

Page 145: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

5.4.2 Telefoni bianchi, rinuncia alla propaganda ed altre novità La difficile fase che attraversa l'Italia in questo periodo compreso fra la

guerra d'Africa e quella, ben più tragica, mondiale, porta a cambiamenti

sottili ma percettibili nella cinematografia (oltre che naturalmene nella

società). Si può dire che, per quanto riguarda i riflessi più diretti nelle

pellicole di quegli anni, il dato più rilevante fra i mutamenti economici e

politici di cui abbiamo parlato sia quello delle ristrettezze economiche

conseguenti all'autarchia. Un effetto, come si è accennato,

profondamente perturbante nei rapporti sociali, con l'allargamento del

divario fra classi agiate e classi popolari che genera una serie di reazioni

nella stessa struttura sociale ed anche naturalmente all'interno dell'ambito

familiare. Ma sugli schermi queste difficoltà non trovano la loro

principale manifestazione in una rappresentazione diretta, che peraltro

sarebbe stata inammissibile per un regime che voleva dare del paese

un'impressione di serenità, al più di sana frugalità ma certo non di

ristrettezze; anzi, per contrasto il cinema che emerge e domina gli ultimi

anni del regime, da qui in avanti, è un cinema che celebra il trionfo del

lusso, della mondanità, dello scialo. E non solo, ma anche per contrasto

con la stretta totalitaria che il regime stava operando il cinema dominante

di questi anni rappresenterà situazioni di libertinismo impensabile, come

divorzi e placidi adulteri, con la sola cautela di situarli in non sempre

credibili ambientazioni ungheresi, o tedesche o americane. Nasceva

insomma, in questo momento di difficoltà economiche e consenso in

caduta libera, un cinema quanto mai lontano dalla realtà; un cinema,

come ho avuto modo di definirlo, di diversione, utilizzando questo

termine sia per opposizione con l'impensabile idea di un cinema "di

eversione" che fosse contro il regime, sia per meglio sottolinearne la

differenza dal semplice "cinema d'evasione": in quanto, infatti, una

146

Page 146: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

cinematografia d'evasione è quella che non si prefigge altro scopo che

intrattenere lo spettatore, mentre ritengo che il cinema dei telefoni

bianchi fosse, magari non nelle intenzioni di tutti i registi ma certo con

consapevolezza da parte di produttori e uomini di vertice dell'ormai

parastatale cinema italiano, un cinema dal cosciente ed esplicito

substrato ideologico, che si indirizzava nella direzione di non tanto

divertire quanto propriamente di-vertere, sviare, allontanare

scientemente ed iperbolicamente i pensieri degli italiani dalle difficoltà,

miserie e cupissime prospettive che si paravano loro quotidianamente di

fronte.

Così il cinema del regime, in questa delicata fase, rinuncia

deliberatamente all'opzione della propaganda diretta. I proclami

mussoliniani sul cinema "arma più forte" si riducono ad un balletto di

dame e cavalieri ricchi e svagati avvolti nel lusso di case da favola e

vestiti sfarzosi. D'altro canto, le inclinazioni populiste del regime

venivano già perfettamente veicolate dai film che seguivano la corrente

tradizionalista del costume sociale, di cui abbiamo largamente parlato

nei capitoli precedenti: con l'autarchia questi film diventano (anzi

continuano ad essere) il veicolo perfetto per propagandare senza sforzo

l'immagine della "moglie e madre esemplare", lo "spirito di patriottismo

che freme nel cuore di tutte le donne italiane"155 nella difesa di quello

che viene chiamato il "fronte interno". Erano infatti sempre le donne al

centro dei riflettori, in quanto era a loro che toccava la gestione delle

risorse familiari e la convivenza con i problemi dell'economia autarchica.

I film che propongono questa visione sociale si affiancano perfettamente

a tutta quella serie di pubblicazioni di propaganda che in questi anni il

regime produce ad uso delle contadine, delle "massaie rurali", e poi 155 Benito Mussolini, Messaggio dell'Anno XIV

147

Page 147: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

anche delle massaie di città, con l'intento di diffondere l'imperativo della

massima frugalità attraverso anche una serie di istruzioni pratiche per

produrre di più, consumare meno ed italiano, e non sprecare nulla.

Ma il centro motore del cinema di questi anni è senza dubbio, come

dicevamo, rappresentato dal cosiddetto cinema dei telefoni bianchi.

Dallo spoglio che abbiamo effettuato, basandoci essenzialmente sul

fondamentale repertorio di Savio156 con qualche piccola integrazione,

l'esplosione del filone dei telefoni bianchi con i suoi sottogeneri (la

commedia "ungherese", i film "alla francese", l'imitazione

hollywoodiana eccetera) appare evidente fin dai numeri: dai tre film del

genere usciti nel 1937, ed altrettanti nel 1938, si passa di colpo ai 15 del

1939, e successivamente, salendo ancora, il numero si mantiene costante

praticamente fino alla caduta del regime, con 16 film nel '40, 19 nel '41 e

20 nel 1942. Solo nel fatale 1943 il numero comincia a scendere ad 11:

ma ormai in quel momento il regime è caduto, l'Italia è spaccata in due e

nelle sale circola, scatenando polemiche e discussioni, il film d'esordio di

un certo Luchino Visconti, intitolato Ossessione.

Di questo cinema, che abbiamo chiamato di diversione, sono da

esaminare diversi aspetti, relativamente soprattutto all'ampio raggio di

fattori che giustificano il repentino affermarsi del genere, le sue

motivazioni ed il ruolo che esso va a rivestire nel contesto della

cinematografia italiana. Questi film rappresentano sicuramente la

rinuncia del regime alla propaganda attiva a favore invece della

diversione; ma anche è indubbio che queste commedie soddisfano per gli

spettatori una necessità di fuga sognata da una realtà quotidiana sempre

meno piacevole. Necessaria, per naturali leggi di mercato, era anche la

sostituzione con produzioni nazionali dei film hollywoodiani che proprio 156 F. Savio, Ma l'amore no cit.

148

Page 148: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

da quell'anno scompaiono dagli schermi italiani lasciando un vuoto

enorme; ed infine, si può anche avanzare l'ipotesi che anche fra i registi e

gli sceneggiatori vi fosse un'incapacità o impossibilità di mettere in

scena una rappresentazione anche moderata della realtà italiana senza

sentirsi ipocriti o senza incorrere in una censura che stava in quel

momento stringendo le sue maglie. Alcuni giovani registi basilarmente

avversi al fascismo, per loro formazione più portati alla cura dello stile

ed al legame con la letteratura, si rifugeranno nella "bella forma" proprio

ad evitare anche quell'appoggio trasversale al regime che intravedevano

nella suggestione alienante delle commedie; ma saranno una estrema

minoranza.

Fin qui il panorama generale della situazione; ma, in dettaglio, quali

effetti ebbe questo sostanziale mutamento sull'immagine della famiglia

che il cinema mostrava? In primo luogo, ovviamente, il nuovo

ingigantito peso del genere commedia nella produzione italiana portò ad

un'accentuazione della linea modernista che esso rappresentava rispetto a

quella tradizionalista più radicata nell'ambiente dei melodrammi; quindi,

come detto, una maggiore visibilità dei modelli della famiglia nucleare,

della vita urbana e dell'indipendenza ed importanza della donna, non

solo come lavoratrice ma anche nella figura, che è centrale nel cinema

dei telefoni bianchi, della donna ricca ed autonoma, la quale comunque

infine non sfugge al copione matrimoniale delle precedenti commedie

sentimentali; peraltro la maggiorranza di questi film sono talmente e

volutamente alieni da ogni proposta realistica, anche solo per

opposizione, da risultare privi di valore ai fini della nostra ricognizione.

Ma vi furono anche particolari evoluzioni che si possono legare più

strettamente alla situazione sociale del momento. Centrale è, ancora una

volta, la figura femminile. Si è già parlato del filone collegiale-

149

Page 149: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

scolastico, che in questi anni fa registrare anch'esso una espansione

notevole; ed in questo appassionarsi degli italiani per le liete storie di

giovani studentesse ai loro primi, teneri approcci con la vita si è letto un

impossibile desiderio di regressione, di ritirata di fronte alle sempre più

cupe responsabilità adulte di un paese che si vedeva ormai sulla strada di

una crisi senza ritorno, di un dramma che avrebbe spazzato via ogni

innocenza e candore. Ma anche sul versante delle donne al lavoro e su

quello più propriamente muliebre delle donne angeli del focolare si nota

l'accentuazione dei caratteri di maggior spicco. L'autarchia porta ad una

maggior attenzione alle virtù muliebri delle donne, ma non tanto in realtà

sul piano strettamente materiale dell'economia domestica (evidentemente

non proponibile in un cinema che doveva, programmaticamente, far

sognare: ciò avrebbe troppo richiamato alla realtà), quanto sotto l'aspetto

della fedeltà coniugale: si mettono in scena così divorzi ed adulteri, veri i

primi e presunti i secondi, ma sempre con un immancabile lieto fine ai

fiori d'arancio o con una perfetta riconciliazione fra mariti e mogli. Il

matrimonio può attraversare il film nei panni di un balletto d'equivoci

(ammesso che si sia a Budapest o fuori d'Italia, naturalmente), ma alla

fine tutto deve comunque tornare al suo posto. E d'altronde modelli

sociali, o anche antimodelli, legati con la realtà, questi film ne

propongono davvero troppo pochi perché ne esca qualcosa di più

significativo. Il cinema dei telefoni bianchi, in fondo, rappresenza nel

suo complesso proprio questo: la cancellazione della proposta di

identificazione, la rimozione del legame con il reale; è un cinema che

rappresenta un momento di una nazione rifiutandosi di descriverla, che è

rappresentativo proprio nel suo volerle disperatamente sfuggire.

Solo alla fine di questo periodo, quando ormai la crisi economica ha

piegato le famiglie e già in lontananza echeggiano sinistri rimbombi

150

Page 150: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

d'artiglieria, cominciano timidamente ad affacciarsi allo scoperto i primi

significativi indicatori di un'Italia che non solo c'è e non è Budapest, ma

che stretta fra ristrettezze mortificanti e prospettive di sangue mostra di

dissentire; ovviamente sugli schermi non compare alcuna contestazione

esplicita al regime, ma in alcuni film, rari per ora ma che aumenteranno

dopo l'inizio della fine, dopo il '40, si possono rintracciare qua e là spunti

che vanno in direzioni eccentriche al moto del regime e della sua

ideologia. Un tema è quello dell'uomo soldato, con l'accentuazione di

quella figura di "marito assente" che abbiamo già esaminato, ed il suo

passaggio da situazione narrativa simbolica a rappresentazione di

situazioni reali: in particolare ciò accade, com'è scontato, nei film di

filone bellico che accompagnano o seguono la campagna d'Etiopia. In

questi contesti si nota una significativa emergenza di componenti

misogine da un lato (che abbiamo già illustrato nell'analisi di Lo

squadrone bianco)157, e la rappresentazione invece della privazione della

figura dell'uomo dalla famiglia, costituita o costituenda, nell'altro. Ma

quest'ultimo è un discorso che vedremo emergere soprattutto in seguito,

quando la guerra tornerà realtà presente e viva, a strappare gli uomini di

nuovo e più tragicamente dalle loro case e dalle loro famiglie.

Fermiamoci per ora su un altro punto, ovvero su come alcuni primi

segnali comincino a mostrare un disagio sotto l'aspetto della prospettiva

familiare, mostrando una sorta di velata destrutturazione, un cedimento

del modello della famiglia come fulcro della società, elementi che si

accentueranno negli anni della guerra fino a raggiungere il culmine con

Ossessione, ma che già fanno le loro prime, sporadiche comparse.

Il film nel quale questi elementi si possono notare con la maggiore

importanza è una pellicola non troppo nota, minore, L'argine di Corrado 157 infra, par. 3.2.2, pagg. 62 segg.

151

Page 151: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

D'Errico158. La storia non esce da canoni ben conosciuti: un traghettatore

di provincia della Bassa romagnola, che ha una donna, s'invaghisce di

una elegante signora del bel mondo cascatagli sotto mano per un guasto

della sua auto: dopo una notte d'amore lei se ne va senza neppure

salutare, e lui infatuato abbandona tutto, compresa la sua donna, dalla

fama e moralità non certo cristalline, e se ne va in città sperando di

ritrovarla, prendendo lavoro presso un compaesano che ha fatto fortuna e

possiede un locale alla moda. Parte ma non sa che la sua donna, al paese,

aspetta un figlio da lui. In città ritrova la bionda tentatrice, ma si rende

conto del suo errore, dell'amore per la sua donna al paese e della

desiderabilità della campagna alla città, quindi si pente e torna nella

dimora avita, dove l'aspettano la sua donna, la loro creatura, insomma

una famiglia.

Fin qui tutto pare normale, ed anzi non manca il tema caro al regime

della sana vita rurale migliore di quella viziata di città né, persino, quello

del pentimento e ritorno alla comunità parafamiliare allargata ed alla

famiglia propriamente detta. Ma di che tipo di società chiusa si tratta,

com'è composta questa comunità campagnola della Bassa romagnola che

ci appare del tutto isolata dal resto del mondo, fotografata in una

sospensione irreale eppure ben concreta fra nebbie, campi e acque da

Vaclav Vich? Questo è il primo punto rilevante, perché questo sistema

sociale chiuso e quasi primordiale si fa notare per un'assenza, e proprio

quella fondamentale: l'assenza delle donne. Questo villaggio di

campagnoli, che quasi sembrano vivere tutti insieme nell'osteria, è una

società tutta al maschile, con due sole eccezioni: da un lato la madre del

protagonista Zvanì (niente padre in compenso), che col suo ruolo

istituzionale di ostessa finisce col presentarsi quasi come la figura 158 1938

152

Page 152: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

materna, o almeno matriarcale, di tutta la comunità; dall'altro, e messa ai

margini anche fisici della comunità, una "donnaccia", forse un tempo

una prostituta ma comunque presentata dalla "voce collettiva" della

comunità, e dalla madre di Zvanì che non può soffrirla, come una "donna

di molti", inaccettabilmente audace; è interpretata da Luisa Ferida, e si

chiama Sina (che è sicuramente il diminutivo di un nome come Teresina

o simili, ma non possiamo non pensare perfidamente al fatto che la

"sina" è, in molti dialetti della pianura padana, la femmina del maiale).

Non altre donne qui, solo uomini, dove siano le loro mogli, le loro

famiglie non è dato sapere: la stuttura familiare, che proprio nelle

campagne aveva il feudo della difesa della famiglia allargata, trova qui il

suo punto di non ritorno, con la aperta contraddizione di un intero

villaggio che si configura secondo le modalità di rapporto di una

famiglia allargata, di un clan, ma contemporaneamente abolisce la figura

che della famiglia è il vivo cardine continuativo, ovvero la donna. E per

questa via si giunge ad un estremo difficilmente immaginabile: assente,

la donna viene di fatto "surrogata", non solo attraverso la presentazione

della comunità intera come famiglia, ma addirittura in modo diretto, con

un incredibile episodio di autentico travestitismo. I villici, con lo scopo

di giocare uno scherzo a Zvanì impazzito di passione dopo la repentina

partenza della bella e raffinata cittadina, gli fanno credere che essa sia

ritornata: ma in realtà sotto quel vestito e quella parrucca si cela proprio

uno dei contadini, che lo irride con atteggiamenti effemminati da

sciantosa. Pare solo una burla, ma il freddo cinismo con cui viene sia

organizzata che filmata lascia pochi dubbi sul fatto che vi sia

quantomeno una affiorante destrutturazione di ogni canone familiare, se

non un preciso per quanto celato attacco alla struttura-famiglia. Se fosse

un momento isolato potremmo dubitarne, ma come si è visto non è così,

153

Page 153: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

il disassemblamento della convenzione sociale è qui un dato di fondo.

L'episodio en travesti si conclude, e non potrebbe essere diversamente

visto che il climax è ormai al suo vertice, con il momento drammatico

che attiva la svolta drammaturgica: Zvanì, accecato dalla furia (che è sì

furia per l'irrisione e furia passionale, ma anche furia per il sacrilegio

compiuto contro la convenzione familiare: infatti egli è sostanzialmente

il portavoce del rispetto verso la famiglia, tanto è vero che è il solo ad

innamorarsi, il solo ad avere nel villaggio una madre, il solo, infine, a

creare in conclusione del film una famiglia), spara ad uno dei

compaesani artefici della burla, ferendolo. Sconvolto, quindi, prende la

via della città, in fuga dal delitto ed in cerca della sua bella borghese,

abbandonando la sua famiglia, quell'unica striminzita famiglia del

villaggio formata da un lato dalla madre e dall'altro da una donna amata

ma di dubbia moralità, e per di più in aperto scontro fra le due donne. Un

simile esito, caratterizzato cioè dalla figura semantica dell'esclusione,

dell' "eroe bandito per sua colpa" (ci rifacciamo ancora a Propp159), è

inevitabile, dal momento che egli ha violato l'unità del sistema chiuso,

intrattenendo rapporti con l'intruso, che è estraneo al massimo grado:

perché cittadina, perché socialmente e culturalmente diversa, infine

perché, colmo del turbamento, donna in una società di uomini. Il suo

arrivo crea potenziali sconvolgimenti che vanno evitati: e se lei se ne va

ma il pensiero di lei in Zvanì continua a mettere a rischio la stabilità del

sistema chiuso, allora egli dev'essere allontanato. Drammaturgicamente

ineccepibile ed antico quanto la tragedia greca ed oltre. Solo che stavolta

la struttura sociale non si mobilita contro un elemento perturbatore in

difesa della famiglia: al contrario, si attiva proprio contro colui che è

colpevole del naturale desiderio di unione alla donna, donna 159 cfr. Vladimir Propp, op. cit.

154

Page 154: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

antimuliebre finchè si voglia ma pur sempre una donna e quindi base del

principio di famiglia, e non un contadino travestito. E la Sina, che col

suo amore per Zvanì e col figlio che porta in grembo è l'unica potenziale

forza familiare vitale del contesto, rimane abbandonata: lo schiaffo

all'istituzione famiglia è reiterato, e solo forzatamente viene, come

d'obbligo, sanato nel lieto fine.

Ma anche la seconda parte del film, quella ambientata nella città, non

cessa di perturbare il quadro familiare. Nella metropoli e nel locale del

compaesano John, che si è arricchito in america ed è poi tornato in patria

ma non al paese, aprendo un lussuoso night club in città, la famiglia è la

grande assente. Le coppie sono irregolari, le dame si accompagnano a

più cavalieri, e soprattutto compaiono le figure delle entreneuse, in

particolare Olga, donna ormai matura e d'incipiente sfiorimento,

palesemente carente proprio di un legame familiare; all'arrivo del bel

Zvanì, rinunciato ben presto ad ogni vaga idea amorosa, l'entreneuse

assume in rapporto con lui un altro ruolo, ancora una volta caustico nei

confronti degli assetti familiari: quello di sostituto materno. Che una

donna di tale specie rivesta un ruolo positivo di conforto materno è un

altro elemento anomalo, un'altra incrinatura in quel compatto assetto

familiare di cui abbiamo parlato nel capitolo sulla struttura sociale

tradizionale: è evidente che da quel modello siamo, qui, ormai

ampiamente al di fuori, se non contro. Non basterà dunque certo, a

cancellare tutto questo, diciamolo pure, scempio dell'immagine

familiare, l'obbligatorio lieto fine, con la ricomposizione dei dissidi, sia

familiari (con Zvanì che torna da Sina e dal loro figlio per formare una

regolare famiglia) sia sociali (col ritorno nel "nido", al paese, non solo di

Zvanì ma anche di un John riconvertitosi alla vita rustica): suona tutto

troppo forzato, troppo insincero, non credibile dopo tutta una serie di

155

Page 155: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

immagini antifamiliari ben più convincenti e perturbanti; e il

"riconciliatore" banchetto finale richiama alla mente, più che una grande

famiglia felice, certe abbuffate a base di spaghetti e ipocrisie sociali che

vedremo parecchi anni più tardi in tanta "commedia all'italiana". Era

inevitabile che un film simile venisse rigettato dalla critica: ed infatti fu

stroncato e accusato di "ridicolizzazione della nostra gente e dei nostri

sentimenti"160. A modo suo, il recensore in questione aveva capito.

5.5 1940-1944: la tragedia della guerra e la strada verso "Ossessione". La famiglia distrutta, la famiglia mancata. Quando, il 10 giugno 1940, la voce del Duce Mussolini proclama agli

italiani che è giunta l'ora delle decisioni irrevocabili, tra gli italiani che

restano come pietrificati davanti alla radio ci sono anche gli uomini del

cinema. Sotto gli altoparlanti di Cinecittà si radunano divi e registi, ma

anche generici, comparse, maestranze. Le reazioni del micromondo

cinematografico italiano, non dissimili da quelle che percorrevano in

quegli istanti tutto un paese all'ascolto, non sembravano stavolta

concedere alcun credito al persuasivo istrionismo del dittatore, del divo

che monologava sul proscenio di Palazzo Venezia. Fra i presenti c'è

anche Elsa De Giorgi, che così racconta quei momenti: "Nessuno parlò,

nessuno si mosse per alcuni eterni minuti… Guardai intorno ad una ad

una le facce che mi circondavano: in ciascuna, lo stesso deserto che era

nell'aria senza suono. Sulla faccia di Camerini, laggiù investita dal sole,

traspariva una desolazione stupita. Blasetti aveva gli occhi sbarrati come

un ragazzo maltrattato. Valenti si mordeva il labbro superiore e il suo

viso era duro, cattivo"161.

160 Anonimo, in Bianco e Nero, 31 ottobre 1938 161 E. de Giorgi, I coetanei, Einaudi, Torino 1955, p.53

156

Page 156: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Il racconto della De Giorgi non brilla per lo stile: pieno di grossolana

retorica, assomiglia proprio ai poco credibili dialoghi di tanti film di

allora, e non dei migliori, così infarcito di maniera e bassa letterarietà.

Ma, all'ultimo, il registro cambia repentinamente: quando entra in scena

Osvaldo Valenti, la camicia nera più nera del cinema italiano, un

realismo duro e immediato si impadronisce del discorso. Un crudo

dettaglio fisico, un moto nervoso, un volto semplicemente "cattivo": la

faccia di Osvaldo Valenti è la faccia che il cinema italiano durante quella

guerra non avrà mai. Nessun film, nell'ultimo, sanguinoso atto del

fascismo, mostrerà la faccia bellicosa di un paese ansioso di scendere in

trincea. E non solo perché i registi non lo vogliono e il regime non lo

chiede: semplicemente, perché quel paese non esisteva.

Con l'entrata in guerra, e presto anche con i primi rovesci bellici, il

regime perse definitivamente anche quei settori di consenso che gli erano

rimasti, principalmente quello, su cui più contava, dei giovani. Quelle

ristrette frange dell'opinione pubblica che, attratti dai fulminei successi

della Germania, credettero come il regime in una vittoria da ottenersi con

poco sforzo, si dovettero amaramente ricredere subito. La disfatta, prima

ancora di essere palese sul piano bellico, si mostrò in tutta la sua

evidenza su quello sociale. E il cinema, che pure continuerà a dipingere

di bianco i telefoni senza soluzione di continuità anche nei momenti più

drammatici, non può non registrare, magari a margine, magari di

sfuggita, magari anche oltre la volontà conscia degli autori, questo

crollo: che è crollo, anche per non dire soprattutto, delle strutture sociali,

e quindi della famiglia.

Le crepe che avevano cominciato a comparire con la fine del consenso

dal 1938 ora si allargano fino a diventare voragini. L'immagine della

famiglia-modello fascista, che già prima sugli schermi veniva più

157

Page 157: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

suggerita, sottintesa che non mostrata, crolla, si dissolve sotto il peso

della guerra. Al posto della moglie e madre esemplare che accudisce il

focolare o tutt'al più si divide fra casa e lavoro per il bene della famiglia

e della patria compaiono figure di donne indipendenti forzatamente e

senza scelta; le donne lontane dai mariti non sono più fiduciose Penelope

che confortano o attendono gli uomini lontani o in difficoltà: di Penelope

hanno semmai la solitudine e l'incomprensione per quella causa che

sentono iniqua e assurda, quella causa che sottrae loro figli e mariti e

restituisce invece tristi medaglie. Non vi è alcuna fierezza nel loro essere

private dell'uomo: vi è senso d'abbandono, scoramento, soprattutto

preoccupazione per il futuro.

Quanto di più lontano si possa immaginare, insomma, non solo dai

proclami bellicosi del regime e della propaganda, ma anche dal polo

principale del cinema di quegli anni, che è ancora quello dei telefoni

bianchi. Anzi, si può senz'altro notare come negli anni di guerra il

genere, fedele al suo statutario intento diversivo e sognante, accentui

ulteriormente i suoi tratti esteriori più marcatamente lontani dalla realtà

italiana. Ma, contemporaneamente, nello stesso ambito di questo genere

ormai tanto standardizzato e codificato trovano lo spazio per emergere,

in alcuni casi per sensibilità e volontà di registi o sceneggiatori non

ingenui, in altri per semplice impossibilità di tenere fuori del tutto dalla

pellicola le atmosfere dei duri giorni presenti, alcuni elementi di critica,

qualche sfuggente accenno, qualche infiltrato scampolo di realtà che

spunta a turbare la fasulla serenità delle lievi storie romantiche. Sono

elementi che aumentano col passare dei mesi, col precipitare degli

eventi, prendendo sempre più spazio, fino a culminare, alla vigilia della

caduta del regime, nel film che chiude una fase e ne apre un'altra, nel

film che è, sotto l'aspetto della nostra analisi, il capolinea senza ritorno

158

Page 158: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

della dissoluzione della famiglia e di tutto ciò che di essa si è detto fin

qui: Ossessione. Ma, nel suo fare a pezzi ogni fiducia nel modello

familiare, esso non ci appartiene più: è troppo avanti, e troppo in alto,

per poterlo includere con tutto il suo senso dell'umano, dell'ineluttabile e

del disperato fra le tappe della nostra ricognizione sull'immagine della

famiglia nel cinema fascista; è, piuttosto, il muro contro il quale si

schiantano tanti anni di convenzioni, il pettine del senso tragico che

scioglie in un solo strappo i dorati, fasulli nodi della rappresentazione di

sensi, sentimenti e rapporti fra uomini e donne.

In questo periodo, più che mai, il discorso deve essere condotto con lo

sguardo acutamente rivolto ai testi filmici, per non perdere la bussola di

fronte alla situazione di un paese nel quale la guerra mondiale prima e la

guerra civile poi avevano spazzato via le basi delle certezze sociali e

familiari, precipitando il sistema dei rapporti interpersonali verso un

autentico grado zero. La propaganda del regime, dal 1940 in poi, si

concentra integralmente sulla guerra lasciando ampiamente da parte

questioni d'altro genere, comprese quelle legate alla famiglia, quando

esse non siano direttamente connesse alla guerra. L'esito quasi

inevitabile è che nel cinema, che basava la sua rappresentazione della

famiglia sempre e comunque su modelli accomunati al fondo dalla

prospettiva dell'amore romantico, lieto o tragico che fosse, il tema della

famiglia e quello della guerra non trovino modo di coniugarsi a fondo.

Del resto è la guerra stessa ad essere ben poco presente nel cinema:

narrare i trionfi e gli eroismi, veri o meno, dei nostri soldati restava

compito quasi esclusivo dei filmati Luce, mentre il cinema di finzione,

coerentemente con la linea scelta e seguita da tempo dal regime, si

teneva quasi sempre lontano dal tema bellico e dagli intenti di

propaganda e continuava a proporre agli italiani storie sempre più prive

159

Page 159: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

di appigli con i drammatici momenti presenti, con intenti di distrazione,

o di "diversione", per allontanare dagli italiani i pensieri funesti e

regalare loro il sogno di una impossibile fuga dalla tragica realtà. È dalla

fine del '41, quando l'atmosfera si fa ancora più opprimente ed è evidente

a tutti che la guerra non s'è affatto messa come quella rapida, trionfale e

non troppo cruenta impresa che Mussolini aveva promesso agli italiani,

che cominciano ad affiorare, in modo inizialmente sommesso ma

estrememente diffuso nei film di tutti i generi e di ogni livello

qualitativo, i segni di un dissenso e disagio ormai oltre il livello di

guardia ed i riferimenti, per niente eroici o marziali, a tragedie e miserie

di una guerra che aveva ormai allontanato, definitivamente ed

irreversibilmente, il paese dal regime che in quella tragedia l'aveva

condotto. Col passare del tempo questi elementi si infittiscono, si

rafforzano, invadono i film in modo sempre più significativo anche se

magari anche confuso: spesso, come sottolinea Argentieri, anche in

assenza di ogni volontà polemica o ideologica ed anzi soprattutto nel

caso di film ed autori privi di uno spessore in questo senso, vi è "qualche

segnale che scappa di mano ai registi e agli sceneggiatori"162. Non è

quindi solo nelle pellicole di maggior rilievo o dei registi di maggior

profondità che la dissoluzione del sistema familiare si mostra, ma,

complessivamente, in tutto l'insieme di una produzione che non poteva

non essere, volente o nolente, influenzata e permeata dai rivolgimenti in

atto.

162 M.Argentieri, Dal teatro allo schermo, in M.Argentieri (a cura di), Risate di regime. La commedia italiana 1930-1944, Marsilio, Venezia 1991, p. 93

160

Page 160: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

5.5.1 Disfatta bellica e disfatta familiare: l' "impossibilità di famiglia" I film di quest'ultimo periodo (e particolarmente tra 1942 e 1943) che

potremmo prendere in esame per evidenziare i segnali della crisi

dell'Italia e del mondo familiare sono dunque tutt'altro che pochi, ed è

necessario procedere ad una funzionale scrematura per poter disporre di

un'analisi più significativa. In molti, anzi diciamo pure nella totalità, dei

film che generalmente vengono considerati come i "precursori" del

neorealismo questi elementi di rottura sono numerosi ed evidenti, ma

proprio per la loro caratteristica di essere pellicole in qualche modo già

proiettate "oltre" il periodo del cinema fascista converrà accenarne

soltanto e rinunciare all'analisi approfondita, che rischierebbe di

fuorviare rispetto al quadro che vogliamo dare, che è quello del rapporto

fra cinema e società familiare nel suo complesso, nel suo livello diffuso,

e non quello di eccezioni e casi limite. Film come I bambini ci guardano,

Quattro passi fra le nuvole, per non parlare di Ossessione - che è, lo

ribadiamo, il film della svolta, il punto di non ritorno, almeno per quello

che concerne il nostro discorso sull'immagine della famiglia - sono, nella

loro eccezionalità, ricchi di riferimenti (magari anche in negativo, come

proprio nei primi due film citati che pongono volutamente,

ostentatamente la guerra fuori dal discorso, dall'intreccio e dalla

costruzione dei personaggi, salvo poi lasciare che si insinuino nel testo

piccoli accenni sfuggenti come quelli sul razionamento o

sull'abbigliamento), ma sono altresì poco rappresentativi di quel livello

diffuso di sentire che è proprio dell'interazione fra cinema e società. Pur

senza dimenticarci di tali film, dunque, sarà opportuno preferire loro

delle opere piu "integrate" nel momento storico e sociale,

paradossalmente anche di valore artistico poco o molto inferiore ma più

sintomatiche, più rappresentative del "livello medio" del cinema che

161

Page 161: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

dialogava con gli spettatori nelle sale tra un oscuramento e un altro.

Un'altra necessaria selezione deve concentrarsi su quei film che, prodotti

o iniziati nell'ultimissimo periodo del regime e della guerra, furono poi

ritoccati o terminati dopo la Liberazione o dopo la fine del conflitto.

Nonostante vi siano in alcuni di questi film elementi estrememente

interessanti per la descrizione della crisi in corso e della sua traduzione

cinematografica, sarebbe filologicamente scorretto accettarne

indiscriminatamente il testo ed affidarsi ad essi per un'analisi: troppo alto

il rischio che, dopo la fine del fascismo, essi siano stati completamente

stravolti, con soggetti mutati, dialoghi sostituiti e simili ribaltamenti

ideologici; ed in vari casi non si tratta di rischio ma di certezza, come ad

esempio è per Uomini e cieli, i cui dialoghi furono in più passi rifatti in

modo evidente con il senno di poi, ed a cui fu addirittura aggiunta a

guerra finita una didascalia iniziale che lo dichiara girato "prima che

ancora finisse l'ingiusto martirio della guerra" e lo dedica ai reduci.

Infine sono da collocare al di fuori della nostra disamina, o almeno ai

margini, i film girati nella Repubblica Sociale nei tristi giorni di Salò: la

situazione di eccezionalità sia politica che produttiva e l'assoluta perdita

di contatto fra quel cinema e società (dovuta sia alla brevità del

fenomeno sia all'ormai aperta situazione di guerra civile e di dissenso

generale) ci costringe a considerarli come un caso a parte, un corpo

estraneo e non significativo e utilizzabile per il nostro esame. Tanto più

che a quasi tutti questi film repubblichini toccò la stessa sorte di cui

abbiamo detto sopra, ovvero la distribuzione in versione "riveduta e

corretta" nel dopoguerra: è il caso di Ogni giorno è domenica, film girato

da Mario Baffico nella Venezia repubblichina, che i serissimi dubbi su

un rifacimento postbellico dei dialoghi ci obbliga ad emarginare dalla

nostra analisi, ed è un peccato, dal momento che gli spunti sia

162

Page 162: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

genericamente antibellici che specificamente relativi alla frantumazione

tragica dell'immagine di famiglia sarebbero innumerevoli e

perfettamente rappresentativi ai nostri fini; vi si riscontrano infatti tutta

una serie di ribaltamenti dei topoi più comuni delle commedie

sentimentali, e domina un'atmosfera di tragica privazione, quella che,

come avremo ora modo di mostrare attraverso l'analisi di uno dei film

che più la evidenzia, abbiamo definito "impossibilità di famiglia".

Il film in questione è Campo de'fiori, girato nel 1943, all'immediata

vigilia della caduta del regime, da Mario Bonnard, un regista che, senza

avere il talento né le velleità di quelli che diverranno da lì a pochi mesi

gli "autori" per eccellenza, i maestri cioè del neorealismo (neorealismo

del quale Bonnard non farà mai parte), pure è tra i più scoperti nel

portare sugli schermi i segnali della crisi sociale e soprattutto familiare

ormai deflagrata.

Già l'anno precedente, in Avanti c'è posto, il regista era stato fra i primi

a ricordare apertamente in un film che, alla faccia dei telefoni bianchi,

l'Italia era un paese in guerra: vi si vedono soldati in partenza dalla

stazione con tanto di fucili in spalla, si discute di cartoline precetto, si

notano i vetri coperti di carta per evitare le schegge in caso di

bombardamento, si fa persino della sottile satira sulla cucina autarchica.

In Campo de'fiori Bonnard mette sulla scena di una Roma "minore" di

ambienti popolari, come il mercato della piazza che dà il titolo al film,

due attori che si ritroveranno insieme di lì a poco a scrivere un capitolo

di storia del cinema sotto la direzione di Roberto Rossellini: Aldo Fabrizi

ed Anna Magnani. Ne fa due bottegai, un pescivendolo e una verduraia;

affianca loro Peppino De Filippo in un ruolo sui confini tra l'amaro e il

beffardo, un barbiere dalla vitalità fasulla ed autoconsolatoria che cela la

malinconia di un uomo impercettibilmente vicino al ridicolo.

163

Page 163: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

In questo scenario della Roma popolare, Bonnard non nasconde nulla e

fa spazio a tutti gli accenni di vita quotidiana che per qualsiasi italiano in

quel momento significavano guerra e dittatura: le generali condizioni di

ristrettezze economiche, il razionamento, l'oscuramento (con Fabrizi che

loda i suoi pesci dicendo che "sono pieni di fosforo, io l'adopero per

l'oscuramento. La sera quando cammino, invece di portare la lampadina

mi metto una triglia all'occhiello"). C'è una balia che lascia l'incarico

perché suo marito è stato richiamato al fronte e va a lavorare in fabbrica,

c'è una pentola che dovrebbe bollire in quindici minuti ma impiega

invece oltre un'ora perché il gas va e viene; c'è infine una costante,

pesante e ostentata presenza opprimente di poliziotti, e persino del

carcere, nel quale finisce rinchiuso anche il protagonista, naturalmente

senza alcuna colpa.

Ce ne sarebbe già più che a sufficienza per un discorso generale sulla

messa in scena della crisi della società; ma il film va ben oltre ed

esplicita - ed è per questo che l'abbiamo scelto come esemplare - tutto un

complesso sistema di figure della dissoluzione della famiglia, anzi, della

privazione della sua stessa prospettiva, in breve di quella frustrazione

diffusa del desiderio di realizzazione familiare che abbiamo chiamato

impossibilità di famiglia.

Questa frustazione della volontà di legame familiare coinvolge tutti i

personaggi: non solo i due protagonisti nel rapporto fra loro che rimane

negato fino in extremis, fino ad un obbligatorio e svuotato lieto fine

tutt'altro che convinto e per niente trionfale, ma anche gli altri

personaggi. Il pescivendolo Peppino (Fabrizi), che è il protagonista

principale, è al centro di una ripetizione costante di questa situazione: gli

è negato prima il rapporto con la bella cliente, a più riprese e per più

motivi (il carcere, la scoperta del matrimonio di lei e in generale

164

Page 164: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

l'inaccostabilità del suo mondo), poi anche la consolatoria parentesi

genitoriale con il figlio di lei giunge ad inevitabile conclusione, non

senza un'ultima frustrazione della speranza di legarsi alla madre; la

quale, dal canto suo, è intrappolata in un degrado morale involontario ed

inevitabile, che la costringe addirittura a separarsi da suo figlio, a causa

dell'assenza del padre del bimbo che è al Nord e del fallimento della sua

impresa. L'inciso tra la natura, con la famiglia di pastori che hanno in

custodia il bambino, non è incidentale: questa placida scena agreste tra i

boschi d'Abruzzo è l'Arcadia, è il luogo del sogno nel quale solo si può

realizzare il desiderio impossibile della pace del nucleo familiare. In

tutto il film la sola famiglia felice, anzi la sola famiglia tout court, è

questa incolta famiglia di pastori isolati dal mondo, e solo in questa

parentesi si dà un attimo di pace e felicità per il protagonista; al ritorno

in città, fra il dramma del mondo, si vedrà come il sogno svanisca in

fretta.

Il barbiere Aurelio (De Filippo), infine, di questa negazione dei rapporti

è la figura più malinconica. Dietro il suo atteggiarsi a libertino si cela

l'impossibilità di istituire un rapporto stabile, rappresentata nel film in

primo luogo dagli insistiti quanto delusi, derisi e finanche patetici

tentativi di approccio con la fruttarola Elide (Magnani); ma anche il

progressivo evidenziarsi di come le sue avventure siano del tutto

immaginarie, fanfaluche autoconsolatorie e malinconiche create per

mascherare la sua solitudine. Il simbolo di questa sua condizione,

dell'autoillusione che egli si crea è in quel suo motto, quel refrain

ripetuto ossessivamente nelle conversazioni con Peppino e che, ogni

volta, risulta sempre più una patetica menzogna: quel "noi dominiamo!"

che vorrebbe mostrare la propria superiorità sulle donne, il proprio pieno

controllo della sfera dei sentimenti, persino una quasi sprezzante

165

Page 165: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

superiorità alle pene di chi ama e a chi è legato in un rapporto coniugale;

ed invece finisce col rivelarsi una miserevole rimozione per

deprecazione di qualcosa che non si può avere, e che, in realtà, si

desidererebbe disperatamente: in quell'espressione emerge, infine,

l'amarissima autoironia di un uomo solo, di una figura che è palesemente

quella di un loser; un personaggio che, forse più di tutti gli altri, è il

simbolo ed il rappresentante della frustrazione del desiderio di rapporto e

di stabilità, colui che più porta il marchio dell'impossibilità della

famiglia.

Vogliamo concludere con un altro breve esempio, un film che ci è

particolarmente caro dal punto di vista critico per come mostra che

l'emergere dei segnali della crisi si fa vivo anche in film per ogni aspetto

poco rilevanti, tipicamente di genere e persino mediocri: insomma non in

pellicole di particolare significato o cura o supportate da una cosciente

intenzione di veicolare questi aspetti, ma in lavori del tutto standard,

nella produzione media. Quest'analisi consente inoltre di vedere come i

segni della frustrazione della volontà di famiglia non si presentino solo

in film di ambientazione contemporanea, ma anche in generi

statutariamente lontani dalla realtà, com'è quello del film d'avventura:

genere al quale appartiene il nostro film, La figlia del Corsaro Verde,

realizzato nel 1941 dal veterano Enrico Guazzoni.

Di questo film ho già avuto modo di dare una lettura in precedenza163,

ma vorrei qui concentrarmi particolarmente sulla questione

dell'irrealizzabilità dei desideri di legami familiari. Il soggetto del film è

tratto da un omonimo romanzo di Emilio Salgari164, e questo, a

163 Cfr. M. Sbicego, "La figlia del Corsaro Verde": tra evasione ed inquietudini, in "Caffè Trieste" 7 (Anno III n. 2 - Maggio 1998), pagg. 3-6 164 In realtà questo è uno dei numerosi romanzi che vennero pubblicati, talora sotto il nome del padre, dai figli di Emilio Salgari, Nadir e Omar, che rielaborarono insieme ad autori epigoni gli appunti lasciati dal padre alla sua morte. Il romanzo è in realtà opera di Omar Salgari e Scurial. Nelle diverse

166

Page 166: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

prescindere dalle sue altre valenze, ci consente un'operazione

interessante: il confronto testuale fra il film e il romanzo, tanto più

probante in quanto i due testi sono precisamente contemporanei. Vale

dunque la pena di notare subito che le discrepanze presenti nella trama

tra film e romanzo devono essere considerate come significative, dal

momento che invece, per quanto riguarda i dialoghi del film, essi sono

presi di peso, parola per parola, dal libro165.

La trama è tipicamente salgariana: Carlos, il figlio del governatore della

colonia di Maracaibo (Fosco Giachetti) si infiltra come spia fra i pirati

che infestano le acque del posto; qui conosce Manuela (Doris Duranti),

la bella e combattiva figlia del Corsaro Verde, un tempo capo dei pirati,

la quale ha come scopo di vita la vendetta contro il governatore che le ha

ucciso il padre ma, ignara, si innamora proprio del di lui figlio. Quando

però i corsari rapiscono le figlie dei notabili di Maracaibo, fra cui

Isabella (Mariella Lotti), figlia del governatore e quindi sorella del nostro

eroe, egli si tradisce e viene condannato a morte. Ma Manuela lo salva e,

con l’aiuto degli uomini rimasti fedeli al Corsaro Verde, i due

sconfiggono i pirati che si sono rivoltati sotto la guida del perfido Zampa

di Ferro (Camillo Pilotto), salvano le fanciulle e liberano la colonia

occupata, dopo un feroce scontro nel quale la stessa Manuela si batte

fino a perdere la vita a fianco del suo impossibile amore.

Fin qui, tutto parrebbe normale. Ma è nei dettagli che emergono in

controluce i motivi che segnalano come la crisi della società e della

famiglia italiana sia ormai talmente diffusa da penetrare autonomamente

nella rappresentazione cinematografica, anche oltre la volontà esplicita

edizioni del libro si oscilla fra l'attribuzione a Emilio o Omar, con la seconda che prevale col passare degli anni; ma nel 1941, nei titoli di testa del film, si scrive "tratto dal romanzo omonimo di Emilio Salgari". 165 L'edizione del testo da noi utilizzata è: Omar Salgari, La figlia del Corsaro Verde, Carroccio, Milano 1947

167

Page 167: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

dell'autore, quasi per osmosi potremmo dire. Innanzi tutto, uno sguardo

al romanzo fa subito balzare all'occhio un fatto: il film si attiene parola

per parola al libro per quanto riguarda i dialoghi, e vi resta

sostanzialmente fedele anche nella trama, ma con'un'eccezione molto

precisa: di tutte le innumerevoli scene e situazioni di prigionie, arresti e

carcerazioni presenti nel film non si trova nel romanzo la minima traccia.

Fin dall’inizio del film si parla molto di otto pirati incarcerati a

Maracaibo, e in seguito si troveranno agli arresti o comunque privati

della libertà sia il protagonista Carlos, e per due volte, che le educande

col precettore, sequestrate e segregate dai corsari, per non parlare del

mulatto Cabezo, tenuto alla catena; non solo, ma le educande, persino

quando stanno comodamente al sicuro nei palazzi della corte di Spagna,

si sentono testualmente "in prigione". L'assoluta assenza di tutti questi

passi nel romanzo, caso quasi unico in un film che per il resto vi si

attiene pedissequamente, consente di sospettare con cognizione di causa

che dietro a tutto ciò ci sia il rigetto della mancanza di libertà dell'Italia

fascistissima dei tempi di guerra. Per averne un'ulteriore conferma, basta

vedere come questo tema della prigionia (o meglio della privazione di

libertà) faccia il paio con un altro, non meno significativo: quello della

ribellione/tradimento. Anche qui gli spunti sono abbondanti, e ancora

una volta sono resi più significativi dall'assenza di alcuni di questi

episodi nel romanzo. Si comincia scoprendo che la capitale governativa

Maracaibo è infestata di spie dei corsari, poi si fa cenno a degli

inquietanti sommovimenti interni nella capitale di Spagna, e lungo tutto

il film si vede covare sotto la cenere lo scontento dei pirati che monta

sempre più fino alla rivolta finale contro i loro stessi compagni. Il

personaggio di Carlos, il protagonista, è addirittura emblematico:

ritenuto, testualmente, un "traditore" da suo padre per il suo disinteresse

168

Page 168: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

alle grane del governo e ai rischi che la colonia corre, cerca di

riconquistarne il consenso infiltrandosi fra i nemiciottenuta la loro

fiducia, immediatamente li tradisce cercando di fare esplodere la nave; il

piano fallisce, viene scoperto e riesce ciò nonostante a farla franca senza

perdere la fiducia dei corsari; infine, definitivamente confessatosi

traditore, spinge al tradimento la stessa Manuela. Tanta aria di fronda

non può essere, a mio parere, casuale, in un paese in guerra e che non

avrebbe desiderato altro, ormai, che potersi liberare del drammatico peso

che sopportava.

Ci sono, dunque, almeno due nuclei tematici attorno ai quali si

addensano i segnali della drammatica crisi italiana; ma oltre a questi ce

n'è almeno un terzo, ed è quello che più ci interessa: il discorso sulla

famiglia, anzi sulla famiglia mancata; su quella che genericamente

Argentieri chiama "la sfasatura tra i desideri e il loro inverarsi"166 e che

noi, nello specifico della nostra linea di lavoro, abbiamo chiamato

impossibilità di famiglia.

Tutti i personaggi, in questo film, desiderano fortemente qualcosa, ed in

particolare ciò che più di ogni altra cosa sembra essere bramato da tutti e

a tutti negato è il rapporto di coppia o familiare: alle educande viene

prima negata quella presentazione a corte nella quale sperano di

incontrare nobili e piacenti principi azzurri, e poi anche ogni più

modesto tentativo d’approccio coi marinai è frustrato dal precettore, che,

a sua volta, nella maniacale brama di elogi dalla corte che lo assilla

mostra tutta la sua natura di uomo profondamente solo e arido. Carlos,

che sin dalla prima scena è presentato nel pieno di un rapporto pessimo

con suo padre, dovrà poi perdere la donna che ama per riavere la sorella;

166 M.Argentieri cit., in Argentieri (a cura di), Risate di regime cit., Marsilio, Venezia 1991, p. 93

169

Page 169: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

ma proprio la corsara Manuela è il massimo simbolo di questa

insuperabile frustrazione del desiderio di famiglia: privata ab origine del

padre, cerca per lui una vendetta che non troverà, ed inoltre viene

defraudata anche del ruolo che in quanto figlia le spetterebbe come erede

legittima al comando dei corsari; è invece relegata al ruolo di "buon

partito" negando la sua volontà decisionale, di libertà, autonomia ed

autodeterminazione; in più è insidiata dalla prospettiva senza apparente

via di sbocco di un matrimonio senza amore, degradante ed addirittura

disgustoso.

Ma si va anche oltre: lo scopo della sua vita, cioè uccidere il governatore

di Maracaibo per vendicare il padre (l'idea della famiglia originaria),

entra in conflitto con l’amore per Carlos (l'idea della famiglia da

costituire), uscendone sconfitto; l’amore stesso per Carlos, che pure è

ricambiato, viene prima mortificato dalla equivoca gelosia per la di lui

sorella Isabella, ed infine stroncato sul nascere dalla morte di Manuela,

sulla quale il film si chiude. Niente famiglia per lei e per Carlos, e

nemmeno soddisfazione della vendetta in nome del padre e della

famiglia originaria: la frustrazione del desiderio familiare, l'impossibilità

di famiglia non potrebbero mostrarsi con un volto più cupo di questo,

quello della morte. Guazzoni e lo sceneggiatore Alessandro De Stefani

(un professionista tutt'altro che ingenuo, e si devono probabilmente a lui

molti degli accenni che abbiamo evidenziato) non si sforzano neppure di

appiccicare alla storia un lieto fine posticcio; e peraltro questa soluzione,

che era di prassi nei film, era immancabilmente presente nel romanzo

originale.

L’assenza ostentata del rituale happy end fa di La figlia del Corsaro

Verde un caso raro nel panorama dei film "leggeri" del periodo fascista

che ormai si avvicinava alla sua fine: un ennesimo indicatore di come la

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Page 170: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

frustrazione delle aspirazioni, familiari e non, avesse ormai superando il

livello di guardia. Il cinema, senza per ora farlo troppo notare, si stava

già incamminando per questa strada nella direzione che avrebbe portato

un giovane regista di nome Luchino Visconti, due anni dopo, a realizzare

quel film cardine della storia del cinema che è anche il punto di non

ritorno del discorso sull'impossibilità di famiglia, elevata col genio del

singolo artista a condizione tragica dettata da un Fato ineluttabile.

Quando verrà presentato in anteprima nella primavera del '43,

Ossessione troverà una pioggia di opposizioni censorie; ma era tardi per

il regime, ormai, per censurare il riflesso dei propri scempi.

171

Page 171: La rappresentazione della famiglia nel cinema italiano degli anni Trenta

Conclusioni

Giunto al termine, logico e cronologico, di questo lavoro, non posso non

notare come, fra mille questioni che abbiamo toccato, alcune in modo

marginale ed altre invece sviscerandole fin nel più profondo, altre mille

ne restino giocoforza emarginate. Per conferire all'esposizione una sua

integrità strutturale si è dovuto compiere ripetutamente un sacrificio

necessario di infinite questioni secondarie, seguendo un principio di

economia: si è ammesso a far parte del nostro discorso solo ciò che

fornisse alla ricerca una quantità di comprensione superiore alla quantità

di disordine che vi introduceva. Approfondire la questione del

reinserimento dei reduci nella società, per esempio, sarebbe stato certo

interessante, ma, restando ai fini della comprensione del quadro dei

rapporti familiari nel cinema, avrebbe creato molta più divagante

confusione di quanto fosse desiderabile, e dato che l'importanza di

questo tema nell'ambito della rappresentazione familiare è tutto sommato

molto marginale, si è rinunciato a parlarne, in nome di una maggiore

unità e linearità del discorso.

Credo che questa operazione di sfrondamento abbia contribuito

positivamente al lavoro, o quantomeno a favorire l'individuazione

immediata di quelli che sono i nuclei forti di riflessione intorno ai quali

ci siamo concentrati. Dapprima si sono indagati quelli di carattere

generale, cioè che riguardano il cinema italiano degli anni Trenta ed il

tema familiare nel loro complesso, senza divisioni né cronologiche né

ideologiche: il sistema dei generi e i diversi stereotipi familiari di ogni

genere, i diversi ruoli familiari e la loro prevalenza o marginalità nel

cinema fascista, la duplice centralità della figura femminile nel cinema e

nella famiglia e le sue modalità e variazioni, la sostanziale

172

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"defamiliarizzazione" dell'uomo, che abbiamo definito il "motore

assente" della catena degli eventi filmici, il rapporto fra diverse realtà

familiari concrete e le proposte ideologiche della propaganda verso la

famiglia.

Il quadro, ormai solido, così delineato ci ha permesso di spingerci un

passo ancora avanti, alla scoperta di una duplice dicotomia che si cela

nella rappresentazione familiare sugli schermi (e parallelamente fuori di

essi, nel paese). Due modelli sociali e familiari, quello tradizionalista,

conservatore, rurale e patriarcale da un lato, quello modernista, borghese,

urbano e nucleare dall'altro, percorrono l'uno accanto all'altro l'età

fascista senza reciprocamente sottrarsi spazio; e parimenti percorrono il

cinema di quegli anni, che per ognuno di essi scopre, formula e

istituzionaliza dei topoi, dei ruoli e talora persino dei linguaggi. Ma,

come detto, il dualismo si raddoppia, con la scoperta che questi due

diversi modelli si comportano in modo opposto lungo l'asse cronologico:

mentre il primo mantiene invariati i propri schemi sia di mentalità che di

rappresentazione lungo l'intero l'arco temporale dal 1930 al 1943, il

secondo fa registrare diacronicamente una evoluzione, tanto sul piano

della forma che su quello dei contenuti ideologici.

Ed è quest'ultima linea cinematografica che, infine, diviene così lo

spazio di espressione, o meglio di affioramento dato che non sempre si

tratta di processi coscienti o volontari, dell'intero corso dei mutamenti

sociali che attraversano il paese nel suo passare, lungo gli anni del

fascismo, da un sostanziale consenso passivo ma diffuso ad un sempre

più marcato dissenso, che cresce attraverso il tempo marcando dei

momenti centrali in tale processo. Un dissenso anch'esso dapprima

passivo o celato (e tale resterà fino alla caduta del regime fascista e, in

termini cinematografici, al Neorealismo) ma parimenti sempre più

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generalizzato, che si esprime in un crescendo, e che abbiamo analizzato

seguendone le espressioni più direttamente connesse alla

rappresentazione del mondo dei rapporti familiari, seguendo il percorso

di questo crescendo fino al suo culminare in Ossessione e nel livello zero

dell'impossibilità della famiglia.

Quando si arriva alla conclusione di un lavoro come questo rimane

sempre una questione in sospeso: sono più le domande a cui si è risposto

o piuttosto quelle che si sono ulteriormente create? Sulla prima parte del

quesito non sta certo a me esprimermi, anche se qualche piccolo lume,

almeno su alcuni aspetti, credo immodestamente di averlo qua e là

acceso. Quanto alla seconda parte, ho pochi dubbi sul fatto che questa

tesi di domande ne abbia proposte parecchie. E non posso che dirmene

soddisfatto. Se una ricerca di questo genere debba essere più un punto

d'arrivo o di partenza mi pare un falso problema: entrambe le cose sono

ugualmente essenziali, ed un'analisi che sia veramente vitale non può

non aprire nuovi quesiti, nuovi spunti per il futuro. La questione dei

rapporti fra le mentalità familiari e la loro rappresentazione

cinematografica, già di per sé aperta a smisurate possibilità, o rischi, di

digressione e diramazione, diviene un autentico calderone di ogni

elemento quando la si ponga nel contesto di un paese e una situazione

storico-sociale come quella dell'Italia nel cruciale, complesso e spesso

contraddittorio periodo del fascismo. La stessa scelta del tipo di

approccio metodologico, che potrebbe prevedere, diversamente da

quanto fatto in questo lavoro, opzioni come l'analisi di un solo genere, o

di un singolo tema ristretto come per esempio la figura dell'orfano

piuttosto che quella del divorzio, o ancora dell'opera di un solo regista,

inevitabilmente risulta decisiva nello stabilire cosa sarà incluso

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all'interno dello studio e cosa invece dovrà necessariamente restarne

fuori o ai margini.

Negli anni che hanno seguito la "riscoperta" critica del cinema degli anni

Trenta, dai convegni di Pesaro e Ancona in poi e fino ad oggi, gli studi

su questo periodo si sono moltiplicati a dismisura, con risultati spesso

fondamentali, sia sul piano di una sistemazione generale sia fornendo

quadri pressochè esaustivi su aspetti particolari e limitati. Quello che

forse si è visto meno, e soprattutto in area italiana, è stato un serio studio

di base storica e insieme sociologica di ampio respiro. In questa tesi si è

sentita spesso la mancanza di complete analisi del genere, che ha

costretto ad un lavoro supplementare; talora affidandosi allo studio,

importante certo ma che non ci ha mai convinto appieno per un certo suo

semplicismo molto "americano", di Hay167, che ci accorgiamo solo ora di

non avere di fatto mai citato nel testo, e ciò non sarà senza un perché

evidentemente; talora adattando invece proficuamente al nostro contesto

alcuni strumenti, metodi e definizioni della Sociologia del cinema di

Sorlin168, in modo estremamente proficuo, sia per l'impostazione

complessiva del lavoro sia anche in precisi punti (come l'utilizzo, per

quanto con qualche libertà, delle definizioni di mentalità e ideologia),

nonostante si trattasse di strumenti pensati per l'analisi del cinema

italiano del periodo immediatamente successivo; talora, infine, in

mancanza di precedenti e strumenti adeguati specialmente nello

specifico della ricerca sulla famiglia, elaborando di necessità definizioni

ex novo. Se questi strumenti, sia ammessi sia riadattati sia nuovi, siano

davvero funzionali ed efficaci per un'analisi di indirizzo sociologico e

storico insieme del cinema fascista, come mi pare lo siano stati per ora

167 James Hay, Popular Film Culture in Fascist Italy, Indiana University Press, Bloomington 1987 168 Pierre Sorlin, op. cit.

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nella strutturazione di questa mia tesi, lo potrà verificare chi voglia, in

seguito, occuparsi di colmare quei numerosi spazi di ricerca che, come

abbiamo detto, ancora rimangono numerosi in attesa di essere sviscerati

nel dettaglio.

176

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1937-1943, Roma, Ed. Bianco e Nero, 1964 (5 voll.)

179

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Filmografia Rendiamo conto qui dei film che sono entrati nella nostra ricerca limitatamente solo ai titoli che abbiamo specificamente visionato ed analizzato integralmente e personalmente. Per quanto riguarda gli altri film citati nel testo che non sia stato possibile visionare in tutto o in parte, sia che essi siano ancora attualmente visibili o che siano irrimediabilmente perduti, i riferimenti sono comunque presenti, per tutti, in nota nel testo. • A che servono questi quattrini, Esodo Pratelli, 1942 • Addio giovinezza!, Ferdinando M. Poggioli, 1940 • L'allegro fantasma, Amleto Palermi, 1941 • Apparizione, Jean de Limur, 1944 • L' argine, Corrado D'Errico, 1938 • L'assedio dell'Alcazar, Augusto Genina, 1940 • Il birichino di papà,Raffaello Matarazzo, 1943 • Campo de' fiori, Mario Bonnard, 1943 • La canzone dell'amore, Gennaro Righelli, 1930 • Casanova farebbe così, Carlo Ludovico Bragaglia, 1942 • Cavalleria, Goffredo Alessandrini, 1936 • La cena delle beffe, Alessandro Blasetti, 1941 • La corona di ferro, Alessandro Blasetti, 1941 • La damigella di Bard, Mario Mattoli, 1936 • Ecco la felicità!, Marcel L'Herbier, 1940 • La famiglia Brambilla in vacanza, Karl Boese, 1942 • La figlia del corsaro verde, Enrico Guazzoni, 1940 • Fermo con le mani, Gero Zambuto, 1937 • La fornarina, Enrico Guazzoni, 1942 • La fortuna viene dal cielo, Akos Rathony, 1942 • Grandi magazzini, Mario Camerini, 1939 • Luciano Serra pilota, Goffredo Alessandrini, 1938 • L'ultima carrozzella, Mario Mattoli, 1943 • Maddalena… zero in condotta, Vittorio De Sica, 1940

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• Mamma, Guido Brignone, 1940 • 1860, Alessandro Blasetti, 1934 • Mille lire al mese, Max Neufeld, 1939 • Nozze di sangue, Goffredo Alessandrini, 1941 • Ore 9 lezione di chimica, Mario Mattoli, 1941 • Ossessione, Luchino Visconti, 1943 • Passaporto rosso,Guido Brignone, 1935 • Piccolo alpino, Oreste Biancoli, 1940 • Piccolo mondo antico, Mario Soldati, 1941 • San Giovanni decollato, Amleto Palermi, 1940 • La segretaria privata, Goffredo Alessandrini, 1931 • Se io fossi onesto, Carlo Ludovico Bragaglia, 1942 • Il signor Max, Mario Camerini, 1937 • La signora di tutti, Max Ophüls, 1934 • Sorelle Materassi, Ferdinando Maria Poggioli, 1943 • La telefonista, Nunzio Malasomma, 1932 • Tempo massimo, Mario Mattoli, 1934 • Teresa Venerdì, Vittorio De Sica, 1941 • Ti conosco, mascherina!, Eduardo De Filippo, 1943 • Tosca, Karl Koch, 1941 • I tre aquilotti, Mario Mattoli, 1942 • L'ultima carrozzella, Mario Mattoli, 1943 • Gli uomini che mascalzoni…, Mario Camerini, 1932 • Uomini sul fondo, Francesco De Robertis,1941

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IX

Manifesto di Il Signor Max di M. Camerini (1937)

Un “Cinefurgone” della metà degli anni ‘30. Questi automezzi, voluti dal regime per portare i cinegiornali anche nei borghi rurali più isolati, proiettavano naturalmente anche film di finzione

I

Immagini

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IX II

Nell’immagine in alto, Alessandro Blasetti fotografato nelle paludi Pontine, nel dicembre del 1928, durante le riprese di Sole. Sullo sfondo, altri membri della troupe. Sotto, un fotogramma di Sole.

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IX III

Telefoniste con le calze di seta, ma solo nella finzione cinematografica: la realtà non era di lussi, ma di stenti. L’immagine è tratta da La telefonista

Nino Besozzi ed Elsa Merlini nel tanto vituperato capostipite delle “commedie bianche” italiane: La segretaria privata

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IX IV

Una moglie trascurata, insoddisfatta ed inquieta: è Carola Höhn, qui con il marito tenore (Beniamino Gigli), nel melodramma classico Mamma.

A sinistra: un appassionato bacio fra Memo Benassi e Marta Abba in Il caso Haller di A. Blasetti (1933). A destra: Alida Valli nel melodramma L’amante segreta di C. Gallone (1941): come si vede i telefoni non erano bianchi solamente nelle commedie.

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IX V

Un’immagine da Ore 9 lezione di chimica: le fresche e candide bellezze tra i banchi di scuola che il cinema fascista tanto amava avevano spesso un’aria un po’ troppo matura per delle scolarette. A destra del gruppo si vede per esempio un’Alida Valli ormai decisamente donna.

A sinistra, Clara Calamai e Vittorio De Sica ne L’avventuriera del piano di sopra di R. Matarazzo (1941). A destra, Luigi Almirante in Il presidente della Ba.Ce.Cre.Mi di G. Righelli (1933): il film aveva come frase di lancio: “Trovate esilaranti, eleganze e modernità”.

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IX VI

A sinistra: Doris Duranti è La figlia del Corsaro Verde, personaggio rappresentativo come pochi altri della tragica frustrazione del desiderio di famiglia che emerge negli anni della guerra. A destra: un fotogramma da Il birichino di papà. L’insubordinazione di Chiaretta Gelli/Nicoletta (o se si preferisce Nicola) si sfoga in questa scena contro lo scalcagnato avvocato, come altrove contro le ipocrisie familiari ed ogni altra forma d’istituzione e d’ordine costituito.

Emma ed Irma Gramatica insieme ad Olga Solbelli (a destra nella foto) in una scena di Le sorelle Materassi. Emma è in questi anni la protagonista di quasi tutti i più importanti ruoli di donna anziana, contrita e naturalmente sola: da La damigella di Bard a Mamma a Sissignora.

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IX VII

Irasema Dilian: dalla “privatista” di Maddalena...zero in condotta (in alto, con Carla Del Poggio) alla spettrale Edith di Malombra (in basso), passando per la perdita dell’innocenza dell’Olivia di Violette nei capelli (al centro, da sola e con Lilia Silvi e Carla Del Poggio). In tre anni, dal 1940 al 1942, il volto spensierato del cinema italiano si è ormai velato di cupi presagi

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IX VIII

Alcuni documenti fotografici del connubio fra cinema e regime, tra storia politica e storie personali. Sopra e a fianco, tre immagini dei divi più “neri” del cinema fascista: Luisa Ferida e Osvaldo Valenti. In senso orario: la Ferida con un volontario della Decima Mas; Valenti in divisa repubblichina; l’attore che fotografa la compagna. Le due immagini a destra provengono dall’Archivio di Stato di Milano. Sotto, il gotha della cinematografia italiana esce da una visita al Centro Sperimentale: da sinistra a destra si riconoscono Luigi Freddi, Esodo Pratelli, il ministro Dino

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IX

A mettere la pietra tombale sugli scenari familiari del cinema fascista arriva, di ritorno dalla Francia e dalle esperienze con Jean Renoir, Luchino Visconti, che con Ossessione chiude un’epoca per cominciarne un’altra. Qui sopra, Visconti durante la lavorazione del film; in alto, Clara Calamai e Massimo Girotti in una scena.