63
Alla ricerca di libri che gli editori ormai non pubblicano più: le librerie si svuotano di classici e capolavori e si riempiono di vestiti e telefonini Roger Scruton, “Eliot, cultura e religione per ritrovare ciò che è perduto” Il Foglio, 19 maggio 2007 3 Luigi Mascheroni, “Chi conta molto e chi nulla nell’editoria” Il Domenicale, 19 maggio 2007 9 Geraldine Schwarz, “Come ti vendo il piccolo editore. Un segreto di nome ‘Vivalibri’” la Repubblica, 25 maggio 2007 13 Giorgio Vasta, “Il letto di procuste e la Cura Ludovico #6” www.nazioneindiana.com, 25 maggio 2007 15 Seia Montanelli, “Cresce un nuovo genere di libri, quelli scomparsi e dimenticati” Stilos, 26 maggio 2007 17 Paola Calvetti, “Il codice Campbell” D la Repubblica delle donne, 26 maggio 2007 21 Chiara Dino, “Libri, vestiti e brioche” D – la Repubblica delle donne, 2 giugno 2007 25 Mirella Appiotti, “Grandi Libri per pochi euro” Tuttolibri – La Stampa, 2 giugno 2007 29 Nicola Lagioia, “Roth e Dylan e l’elogio del cattivo carattere” www.nazioneindiana.com, 6 giugno 2007 31 Giuseppe Scaraffia, “Il tramonto del giovane Gatsby” Il Foglio, 4 giugno 2007 33 Silvio Bernelli, “I persecutori AA. VV.” www.ilprimoamore.com, 4 giugno 2007 37 Idolina Landolfi, “Céline, viaggio alla fine dell’Europa” il Giornale, 5 giugno 2007 39 Claudio Gorlier, “Pirandello quanto ci manchi” La Stampa, 6 giugno 2007 41 La rassegna stampa di Oblique dal 15 maggio al 16 giugno 2007 Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 1

La rassegna stampa di Oblique · – Aldo Piccato (traduzione di), “Oprah Winfrey & l’Apocalisse” Il Foglio, 7 giugno 2007 43 – Vito Punzi, “Scorpacciata (indigesta) di

Embed Size (px)

Citation preview

Alla ricerca di libri che gli editori ormai non pubblicano più:le librerie si svuotano di classici e capolavori

e si riempiono di vestiti e telefonini

– Roger Scruton, “Eliot, cultura e religione per ritrovare ciò che è perduto”Il Foglio, 19 maggio 2007 3

– Luigi Mascheroni, “Chi conta molto e chi nulla nell’editoria”Il Domenicale, 19 maggio 2007 9

– Geraldine Schwarz, “Come ti vendo il piccolo editore. Un segreto di nome ‘Vivalibri’”la Repubblica, 25 maggio 2007 13

– Giorgio Vasta, “Il letto di procuste e la Cura Ludovico #6”www.nazioneindiana.com, 25 maggio 2007 15

– Seia Montanelli, “Cresce un nuovo genere di libri, quelli scomparsi e dimenticati”Stilos, 26 maggio 2007 17

– Paola Calvetti, “Il codice Campbell”D – la Repubblica delle donne, 26 maggio 2007 21

– Chiara Dino, “Libri, vestiti e brioche”D – la Repubblica delle donne, 2 giugno 2007 25

– Mirella Appiotti, “Grandi Libri per pochi euro”Tuttolibri – La Stampa, 2 giugno 2007 29

– Nicola Lagioia, “Roth e Dylan e l’elogio del cattivo carattere”www.nazioneindiana.com, 6 giugno 2007 31

– Giuseppe Scaraffia, “Il tramonto del giovane Gatsby”Il Foglio, 4 giugno 2007 33

– Silvio Bernelli, “I persecutori AA. VV.”www.ilprimoamore.com, 4 giugno 2007 37

– Idolina Landolfi, “Céline, viaggio alla fine dell’Europa”il Giornale, 5 giugno 2007 39

– Claudio Gorlier, “Pirandello quanto ci manchi”La Stampa, 6 giugno 2007 41

La rassegna stampa di Obliquedal 15 maggio al 16 giugno 2007

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 1

– Aldo Piccato (traduzione di), “Oprah Winfrey & l’Apocalisse”Il Foglio, 7 giugno 2007 43

– Vito Punzi, “Scorpacciata (indigesta) di Rilke”Il Domenicale, 9 giugno 2007 49

– Mirella Appiotti, “L’Adelphi un’altra recerche”Tuttolibri – La Stampa, 9 giugno 2007 51

– Roberto Carnero, “Un best-seller ci salverà”Il Mattino, 9 giugno 2007 53

– Leonardo Colombati, “Bellow. Il dono di Saul è narrare le idee”il Giornale, 9 giugno 2007 55

– Paolo Di Stefano, “Snob o populisti, autori sconfitti dalla modernità”Corriere della Sera, 11 giugno 2007 57

– Edgar L. Doctorow, “Il potere della scrittura”la Repubblica, 11 giugno 2007 59

– Aridea Fezzi Price, “Tennessee Williams. Un diario che si chiama desiderio”il Giornale, 14 giugno 2007 61

– Dario Pappalardo, “Pubblicherò libri imperfetti”la Repubblica, 15 giugno 2007 63

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 2

Eliot, cultura e religioneper ritrovare ciò che è perduto

Roger Scruton, Il Foglio, 19 maggio 2007

Una critica della modernità fatta dal suo interno, la liberazione poetica del pensiero dalsentimentalismo dell’umanesimo liberale

Indiscutibilmente Thomas Stearns Eliot èstato il maggior poeta di lingua inglese delXX secolo, il critico letterario anglofono più

rivoluzionario dall’epoca di Johnson e il piùinfluente pensatore religioso nella tradizioneanglicana dai tempi del movimento del metodi-smo di John Wesley. La sua visione sociale e poli-tica è presente in tutti i suoi scritti, ed è stataassorbita e riassorbita da generazioni di lettoriinglesi e americani, sui quali esercita un fascinoquasi mistico anche quando sono spinti – come losono in molti – a rifiutarla. Senza Eliot la filoso-fia del conservatorismo avrebbe perso qualunqueforma di solidità durante il secolo scorso.Sebbene non fosse suo preciso intento, egli haelevato questa filosofia – sul piano intellettuale,spirituale e stilistico – a un livello superiore, mairaggiunto prima dall’idea socialista.

Nato nel 1888 a St Louis, nel Missouri, Eliotstudia a Harvard, alla Sorbona e al Merton Collegedi Oxford [...]. Nel 1914 conosce Ezra Pound, chelo incoraggia a trasferirsi in Inghilterra. L’annodopo si sposa, ed esce il suo primo componimen-to poetico di successo, “Il canto d’amore di J.Alfred Prufrock”, che, con altri poemetti pubbli-cati insieme nel 1917 con il titolo “Il canto d’amo-re di J. Alfred Prufrock e altre osservazioni”, haprofondamente cambiato il corso della letteraturadi lingua inglese. [...]

Poco dopo, Eliot pubblica un libro di saggi –“Il bosco sacro”, che avrebbe avuto la stessainfluenza delle sue prime poesie – nei quali soste-neva la sua nuova e impegnativa teoria sul ruolodella critica, anzi della necessità della critica sevogliamo che la nostra cultura letteraria sopravvi-va. Secondo Eliot non è un caso fortuito che criti-ca e poesia spesso si accompagnino nello stessointelletto, come nel suo caso o in quello diColeridge, che egli ha eletto a migliore dei critici

inglesi. Come il poeta, il critico si preoccupa di svi-luppare il “buonsenso” (sensibility) del suo lettore,un termine con il quale Eliot intendeva una sortadi intelligente osservazione del mondo umano. Icritici non procedono per astrazione o generaliz-zazione: osservano e registrano ciò che vedono e,così facendo, comunicano anche un senso di ciòche conta nell’esperienza umana, distinguendol’emozione falsa da quella genuina. Anche se aEliot sarebbero occorsi molti anni per spiegarecon precisione – gradatamente e, a tratti, in modooscuro – cosa intendesse esattamente per “buon-senso”, il suo alto concetto del ruolo del criticoaveva comunque fatto presa su molti dei suoi let-tori. Per di più, “Il bosco sacro” conteneva saggiche avrebbero rivoluzionato il gusto letterario: inalcuni di essi, il tono autorevole e il rifiuto delromanticismo sentimentale proprio di numerosisuoi contemporanei fecero nascere l’impressioneche il mondo moderno stesse finalmente facendosentire la sua voce nella letteratura e che tale vocefosse quella di T.S. Eliot.

“Il bosco sacro” ha distolto l’attenzione delmondo letterario dalla letteratura romantica e l’hafocalizzata sui “poeti metafisici” del XVI e XVIIsecolo e sui drammaturghi dell’epoca elisabettiana– predecessori minori o eredi di Shakespeare – ilcui lessico crudo, che ben comunicava la sensazio-ne della cosa descritta, forniva un contrasto effica-ce con il sentimentalismo melenso che Eliot con-dannava nei suoi immediati contemporanei. C’èanche un saggio su Dante che tratta di una que-stione che avrebbe spesso angustiato lo scrittore:la relazione fra poesia e credenza religiosa. Fino ache punto si può apprezzare la poesia della“Divina Commedia”, se si rifiuta la dottrina chel’ha ispirata? Questo interrogativo era profonda-mente sentito da Eliot, e per diverse ragioni.Anzitutto (come i suoi contemporanei modernisti

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 3

Oblique Studio

4

Pound e Joyce), era profondamente influenzato daDante, la cui limpida forma in versi, lo stile collo-quiale e la filosofia sublime avevano creato unavisione dell’ideale poetico. Al contempo, tuttavia,Eliot rifiutava l’ottica teologica della “DivinaCommedia”, un rifiuto permeato da un profondosenso di perdita. Eppure, nella poesia di Eliot, lavoce di Dante sarebbe costantemente risuonata,offrendogli giri di frase, fulminei lampi di pensie-ro e una visione del mondo moderno da un puntodi vista al di fuori di esso, un punto di vista scatu-rito da un’esperienza di santità – che, per altro, eraun’esperienza che Eliot allora non condivideva. Equando, infine, giunse a condividerla – o, almenoa riconoscere la propria conversione al cri-stianesimo – nell’ultimo dei “Quattro quartetti”scrisse la più elegante delle imitazioni di Dante inlingua inglese, anzi qualcosa di infinitamente piùbello di una imitazione, in cui la visione religiosadantesca è trasferita e tradotta nel mondo dellamoderna Inghilterra. Un altro dei saggi in “Ilbosco sacro” merita di essere citato: “Tradizione etalento individuale”, nel quale Eliot introduce iltermine che meglio sintetizza il suo contributo allacoscienza politica del nostro secolo: “tradizione”.Nel saggio, si sostiene che la vera originalità è pos-sibile solo all’interno di una tradizione e che ognitradizione deve essere ricostruita dall’artista men-tre crea qualcosa di nuovo. La tradizione è qual-cosa che vive e, proprio come ogni scrittore vienevalutato paragonandolo a chi lo ha preceduto, cosìil significato della tradizione cambia man manoche vi vengono aggiunte nuove opere. In pocheparole, sarebbe stata questa idea letteraria di unatradizione viva che avrebbe gradualmente permea-to il pensiero di Eliot e costituito il fulcro della suafilosofia sociale e politica.

“Prufrock” e “Il bosco sacro” già ci aiutano acapire il paradosso di T.S. Eliot: i nostri maggiorimodernisti dovrebbero essere i nostri maggioriconservatori moderni. L’uomo che ha rivoluziona-to una letteratura che era ancora d’impronta otto-centesca e ha dato vita all’epoca del verso libero,dell’alienazione e dell’esperimento è stato anchel’uomo che, nel 1928, si sarebbe definito “un clas-sico in letteratura, un monarchico in politica e unanglocattolico in religione”. Questo apparenteparadosso contiene l’indizio che indica la statura diEliot come pensatore sociale e politico: egli si èreso conto che è proprio nelle condizioni moder-ne – di frammentazione, eresia e scetticismo – che

il progetto conservatore acquista il suo senso. Ilconservatorismo è esso stesso un modernismo, equi sta il segreto del suo successo. Ciò che distin-gue Burke dai rivoluzionari francesi non è il suoattaccamento alle cose del passato, ma il suo desi-derio di vivere pienamente il presente, capendoloin tutte le sue imperfezioni e accettandolo comel’unica realtà che ci viene offerta. Come Burke,Eliot ha colto la distinzione tra una nostalgia voltaal passato – che non è altro che un’altra forma disentimentalità moderna – e una tradizione genuinache ci dà il coraggio e l’ottica giusta con i quali vi-vere nel mondo moderno.

Nel 1922 Eliot fonda una rivista letteraria tri-mestrale, The Criterion, che doveva continuare acurare fino al 1939, quando dovette chiuderlasotto la pressione di “anime depresse” a causadello “stato attuale degli affari pubblici”. Come faintuire il titolo [Il Criterio], il progetto era anima-to dal suo senso dell’importanza della critica edella futilità degli esperimenti modernisti quandonon siano confortati da giudizio letterario, daserietà morale e dal senso dell’importanza dellaparola scritta. La filosofia proposta dalla rivistaera di orientamento conservatore, anche se perdefinirlo Eliot preferiva il termine “classicismo”.The Criterion è stato il forum dove venne pubbli-cata per la prima volta molta della nostra lettera-tura modernista, inclusa la poesia di Pound,Empson, Auden e Spender. Il primo numero pro-pose il lavoro che ha eletto Eliot stesso a maggiorpoeta della sua generazione: “La terra desolata”. Ilpoemetto, ai suoi primi lettori, apparve subitocogliere appieno il disinganno e il vuoto seguitialla vacua vittoria della Prima guerra mondiale, unconflitto nel corso del quale la civiltà europea siera suicidata, esattamente come era accaduto aquella greca nella guerra del Peloponneso. [...]Dopo “La terra desolata” Eliot continuò a scrive-re ispirandosi a quella che vedeva come la disso-ciazione dolorosa tra il buonsenso della nostracultura e l’esperienza che si ha del mondo mo-derno. Questa fase del suo percorso doveva cul-minare in una profonda dichiarazione cristiana:“Il mercoledì delle Ceneri”. Qui il poeta lascia laconnotazione antropologica e annuncia la suaconversione alla fede anglo-cattolica. Eliot eraormai pronto a portare la sua croce tanto perso-nale quanto particolare: quella del senso di appar-tenenza. Finito il tempo dell’esilio spirituale epolitico, decise di condividere la sorte di quella

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 4

Rassegna stampa 15 maggio-16 giugno 2007

5

tradizione alla quale appartenevano i suoi autoripreferiti. Divenne cittadino britannico, membrodella chiesa anglicana e scrisse il suo straordinariodramma in versi, “Assassinio nella cattedrale”, sulsignificato del martirio cristiano e sul lunghissimoconflitto tra chiesa e stato, a cui doveva porre finela nascita della chiesa d’Inghilterra. […] “Quattroquartetti” esplora in profondità le nostre possibi-lità spirituali e qui il poeta cerca e trova la visioneal di fuori del tempo in cui tempo e storia sonoriscattati. È un’opera religiosa e, al contempo, distraordinario potere lirico, come il “Cimiteromarino” di Valéry, ma infinitamente più maturanel suo spessore filosofico. […]

Ciò che Eliot rimproverava alla letteratura neo-romantica non si limitava al campo letterario. Eraconvinto che l’uso di uno stile poetico trito e diritmi cadenzati fosse spia di grave debolezzamorale: non riuscire a osservare la vita come èdavvero e a sentire quello che deve essere sentitonei confronti di un’esperienza che è inevitabilmen-te nostra. Credeva che questo fallimento non ri-guardasse solo la letteratura, ma pervadesse anchel’intera vita moderna. La ricerca di un nuovo idio-ma fa pertanto parte di una indagine più ampia,volta a capire la realtà dell’esperienza moderna.Allora, e solo allora, possiamo affrontare la nostrasituazione e chiederci cosa dovremmo fare in pro-posito. […] Per Eliot, le parole avevano comin-ciato a perdere la loro precisione, non malgrado lascienza, ma a causa sua; non malgrado la perdita divere credenze religiose, ma a causa sua; non mal-grado la proliferazione di termini tecnici, ma acausa sua. Il nostro moderno modo di esprimercinon ci consente più di “prendere una parola e daessa estrarne il mondo”; al contrario, le parole locelano, visto che non comunicano a esso unarisposta vissuta. Sono semplici fiches di un giocodi cliché, preposte a riempire il silenzio, a occulta-re il vuoto che è sopravvenuto dopo che gli antichidei se ne sono andati dai luoghi dove abitavanocon noi. Ecco perché, di norma, i moderni modidi pensare non sono ortodossie ma eresie, dovecon “eresia” si intende quella verità che è stata esa-sperata in menzogna; una verità nella quale, percosì dire, ci siamo rifugiati; nella quale abbiamoinvestito tutte le ansie che non abbiamo analizza-to, attendendoci da essa delle risposte a quegliinterrogativi che non ci siamo preoccupati di capi-re. Nelle filosofie che predominano nella vitamoderna – utilitarismo, pragmatismo, comporta-

mentismo – troviamo “parole che hanno l’abitudi-ne di cambiare il loro significato […] o altrimentivengono brutalmente condannate”. Eliot sottin-tende che lo stesso sia vero ogni volta che suben-tri l’eresia umanista, ogni volta che trattiamo l’uo-mo come un dio e crediamo che i nostri pensieri ele nostre parole non debbano essere misurati conun altro standard al di fuori di se stessi.

Eliot è cresciuto in una democrazia e ha eredi-tato quel grande bene dello spirito pubblico che èil dono della democrazia americana al mondomoderno. Ma non era democratico nei sentimenti,poiché credeva che la cultura non potesse essereaffidata al processo democratico, proprio per que-sta incuranza nei confronti delle parole, questa abi-tudine ai cliché ottusi, che sempre si presentanoquando si reputa che chiunque abbia uguale dirittodi esprimersi. In “L’uso della poesia e l’uso dellacritica” scrive: “Quando il poeta si trova in un’etànella quale non c’è aristocrazia intellettuale, quan-do il potere è nelle mani di una classe così de-mocratizzata che, mentre rimane tale, si pone comerappresentante dell’intera nazione; quando le uni-che alternative sembrano essere il parlare a un ce-nacolo o fare un soliloquio, le difficoltà del poeta ela necessità della critica diventano maggiori”.

Per Eliot nasce da qui l’accresciuto valore deicritici nel mondo moderno: sono loro che devonoagire per recuperare ciò che l’aristocratico idealedel gusto generava altrimenti in modo spontaneo:un linguaggio in cui le parole siano usate in tutto illoro pieno significato, per mostrare il mondocom’è, senza appannarlo in una foschia disentimento oppresso da cliché. Chi è stato cre-sciuto con sentimenti vuoti non ha armi per afron-tare la realtà di un mondo abbandonato da Dio:cade immediatamente dalla sentimentalità nel cini-smo, e così perde il potere sia di fare esperienzadella vita sia di viverla con le sue imperfezioni.

Eliot aveva pertanto percepito un enorme peri-colo nell’umanesimo liberale e “scientifico” propo-sto dai profeti della sua epoca. Gli sembrava chequesta forma di liberalismo fosse l’incarnazione delcaos morale, poiché permette a qualunque senti-mento di fiorire e uccide qualunque forma di giu-dizio critico con l’idea di un diritto democraticoalla parola, che diventa inconsapevolmente undiritto democratico al sentimento. Sebbene “l’uma-nità non possa sopportare troppa realtà” – comedice prima in “Assassinio nella cattedrale” e poi in“Quattro quartetti” – il proposito della cultura è di

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 5

Oblique Studio

6

conservare l’osservazione intelligente del mondoumano, quella cosa sfuggevole che è detta“buonsenso”: l’abitudine al giusto sentimento. Ilbarbarismo non scaturisce dalla perdita delle abili-tà o della conoscenza scientifica della gente, né losi evita mantenendole: nasce da una perdita dicultura, visto che è solo attraverso essa che le real-tà importanti possono essere veramente percepite.

Qui è difficile definire con precisione il pensie-ro di Eliot e vale la pena di tracciare un parallelocon un pensatore che egli non amava: Nietzsche.Secondo il filosofo, la crisi della modernità erasopravvenuta a causa della perdita della fede cri-stiana, inevitabile risultato dello sviluppo scientifi-co e della crescita della conoscenza. Allo stessotempo, però, per gli esseri umani è impossibilevivere davvero senza fede e, per noi che abbiamoereditato le consuetudini e i concetti della culturacristiana, quella fede deve essere il cristianesimo.Se si toglie la fede, non si toglie soltanto il nucleodella dottrina, né si lascia un paesaggio disboscatoe scevro da ingombri, in cui la gente può esserefinalmente vista per quella che è. Si toglie il pote-re di percepire altre e più importanti verità – veri-tà sulla nostra condizione che, senza il beneficiodella fede, non possono essere affrontate nelmodo giusto. (Per esempio, la verità della nostramortalità, che non è un semplice “fatto” scientifi-co da immagazzinare nella nostra conoscenza, mauna esperienza penetrante, che scorre e pervadetutte le cose e cambia l’aspetto del mondo.)

La soluzione che Nietzsche ha appassionata-mente proposto per questo dilemma è stata lanegazione della sovranità della verità nel suo insie-me; è stato proclamare che “non ci sono verità”; èstato costruire una filosofia di vita sulle rovine discienza e religione, in nome di un ideale puramen-te estetico. Eliot ha colto l’assurdità di quella rispo-sta e il deliberato autoisolamento dell’uomo chel’ha fornita. Eppure, il paradosso rimane. Le veritàche contavano per Eliot erano verità di intuizione,verità sul peso della vita umana e la realtà del senti-mento umano. La scienza non rende queste veritàpiù facilmente percettibili, al contrario: scatenanella psiche umana una pioggia di fantasie – libera-lismo, umanesimo, utilitarismo, e tutto il resto –che la distraggono con la futile speranza di unamoralità scientifica. Il risultato è la corruzione dellinguaggio vero e proprio della sensibilità interiore,una caduta dal buonsenso nella sentimentalità el’offuscamento del mondo umano. Ecco quindi il

paradosso: le menzogne della fede religiosa ci con-sentono di percepire le verità che contano; le veri-tà della scienza, investite di autorità assoluta,nascondono quelle che contano e rendono imper-cettibile la realtà umana. La soluzione di Eliot alparadosso era “obbligata” dal sentiero che avevaimboccato per giungere alla sua scoperta – il sen-tiero della poesia, con i suoi tormentosi esempi dipoeti la cui incisività, percezione e sincerità eranodovute alle credenze cristiane. La soluzione eraabbracciare la fede cristiana, non come Tertullianoa ragione del paradosso, ma, piuttosto, malgradoesso. Questo spiega la crescente convinzione diEliot che cultura e religione siano, in ultima analisi,indissolubili. Era persuaso che la malattia della sen-timentalità potesse essere superata solo con unagrande cultura, in cui l’opera di purificazione fosseincessante. Questo è il compito del critico e dell’ar-tista, ed è un compito difficile:

E così ogni impresa/ È un cominciar di nuovo,un’incursione nel vago/ Con logori strumenti chepeggiorano sempre/ Nella gran confusione di sen-timenti imprecisi,/ Squadre indisciplinate di emo-zioni e quello che c’è da/ conquistare/ Con laforza e la sottomissione è già stato scoperto/ Unavolta o due, o parecchie volte, da uomini che nonsi/ può sperare/ Di emulare – ma non c’è com-petizione –/ C’è solo la lotta per ricuperare ciò chesi è perduto/ E trovato e riperduto senza fine: eadesso le circostanze/ Non sembrano favorevoli…

Questo lavoro di purificazione è un dialogo,attraverso le generazioni, con chi appartiene alla tra-dizione: solo pochi possono parteciparvi, mentre lamassa dell’umanità si smarrisce nelle retrovie, assa-lita da “quelle indisciplinate squadre di emozioni”.La grande cultura dei pochi è, tuttavia, una necessi-tà morale per i molti, poiché consente alla realtàumana di mostrarsi e quindi guidare la nostra con-dotta. Ma perché mai la massa dell’umanità, persacom’è nella sua goffa discesa dal sublime al ridicolo– “distratta dalla distrazione dalla distrazione” –,dovrebbe essere guidata da “color che sanno”,come dice Dante? La risposta deve trovarsi nellareligione e, in particolare, nel linguaggio comuneche una religione tradizionale dona sia alla grandecultura dell’arte sia alla cultura di base della gente.La religione è la linfa di una cultura. Permette di cu-stodire i simboli, le storie e le dottrine che ci con-sentono di confrontarci sul nostro destino; attraver-so i sacri testi e le liturgie, costituisce il punto fermoal quale il poeta e il critico possono tornare – con

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 6

Rassegna stampa 15 maggio-16 giugno 2007

7

uno stesso linguaggio, quello dei semplici credenti edei poeti, che devono affrontare le sempre nuove

condizioni di vita che seguono la conoscenza: unavita in un mondo senza più valori.

dal “Manifesto dei conservatori”

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 7

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 8

In Italia un vero potere editorial-letterario, cioèfigure-chiave, salotti o consorterie così autore-voli e influenti da poter cambiare le sorti di un

autore o imporre un titolo, non esiste. Poiché illibro non è un bene particolarmente richiesto diquesti tempi, e visto che il mercato culturale ormaisi governa malissimo da solo, alla fine coloro chehanno a che fare con editoria, giornali e letteratu-ra, si trovano in mano lo stesso potere di un vec-chio bibliotecario a riposo o di un professore dellemedie in pensione. Cioè nulla. Le casematte del-l’intellighenzia si sono sgretolate: tramontatal’epoca dell’Einaudi faro intellettuale del Paese. Ibaroni della critica si sono estinti: finiti i tempi incui bastava un elzeviro di Borgese per lanciare ungiovane Moravia. Passata l’età dell’oro della Terza:quando i direttori corteggiavano scrittori e poetipur di avere una Grande Firma in pagina.

I centri di potere oggi sono gli ufficietti pette-goli di case editrici alla disperata ricerca del “casodell’anno”, i mammasantissima delle lettere sonogiornalisti-poetastri che in cambio di una collabo-razione sulle loro pagine ti chiedono una recensio-ne della loro ultima plaquette, i sacerdoti della cri-tica sono marchettari che scrivono bene del librodel direttore del festival che poi li invita a parlaredell’amico scrittore il quale poi la settimana dopoelogerà il loro saggio. Il Potere con la “P” maiu-scola, quello bello, quello vero, quello autoritario,quello che non ammette No, che può decidere ciòche la gente deve leggere non esiste più, purtrop-po. E al posto di Gramsci ci siano trovati Faletti.

Invece il potere con la “p” minuscola, quellobrutto, quello falso, quello untuoso, quello che vaavanti a “forse sì, mandami il libro, magari riesco afare qualcosa, poi vediamo”, quel potere inveceesiste, eccome. Anzi, esistono, perché i poteri sonotanti, diversificati, incrociati, ramificati, cornificati.Sono così tanti, che se ne può quasi tracciare un

mappa. La “mappa dei micro-poteri”, dove microsta per micragnoso. Anzi, la “mappa delle macro-amicizie”, dove macro sta per macrò.

Mica siamo un gruppo di poterePartendo dal fondo, si può citare il giro del

“carrierino del piccolo” del mai abbastanza com-pianto Enzo Siciliano, signore-padrone di NuoviArgomenti, attorno alla quale ancora ruotano lestelle più belle del firmamento letterario. I nomi –che poi per dirla tutta, presi singolarmente, ci piac-ciono anche: sui prossimi numeri usciranno estrat-ti dei futuri romanzi di Michelangelo Zizzi e diPippo Russo – sono quelli conosciutissimi, mira-colati dal Gran Cerimoniere Antonio D’Orrico:Alessandro Piperno, Roberto Saviano, LeonardoColombati, Mario Desiati. Sono i “romani” ospi-tati di recente nell’Officina milanese di AlessandroBertante e Antonio Scurati, uno che senza chenessuno glielo chiedesse, ha detto: «Non siamo ungruppo di potere». E magari uno poi pensa chevolesse pararsi il culo, tanto per dirla alla francese.Sono bravissimi scrittori, ma così ipnotizzati dallaribalta mediatica da farci diventare simpatici iCannibali di una volta, al confronto. Comunquesono molto amici, si leggono, si scrivono, si parla-no, dominano le classifiche, si dividono le paginedei giornali, vanno tutti insieme in pizzeria e nondanno interviste a un quotidiano che li ha criticati.E be’, che c’è di male?

Sempre a Roma. Mentre c’è gente che frequen-ta pizzerie, ci sono persone che invece continuanoa preferire i salotti, ormai con i divani un po’ lisi.Uno ancora molto ospitale è quello dei “furbettidell’adelphino”, frequentato da Paolo Mauri, navi-gatissimo editor-in-chief delle pagine culturali diRepubblica, il fido Antonio Gnoli, braccio gnosticodel quotidiano in Adelphi (una casa editrice chegrazie alla forza del marchio, proprio come il suo

Chi conta molto e chi nulla nell’editoria

Luigi Mascheroni, Il Domenicale, 19 maggio 2007

Tra editor e uffici stampa, tra scrittori, scrittorucoli e megadirettori ecco chi fa dell’edito-ria una camera delle meraviglie. E dei pettegolezzi. Ovvero: chi conta molto e chi nonconta un’acca, chi è in grado di tramutare in oro un mediocre libello e in almanacco difilosofia un concetto smilzo. Soprattutto, il catalogo di quelli a cui non si può mai e poimai rifiutare un favore, figurarsi una recensione

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 9

Oblique Studio

10

ufficio stampa, può permettersi di non chiederenulla a nessuno), il lunatico, economista pentito emai pentito antiamericanista, Elido Fazi (che qual-che libro buono però lo azzecca) e quel fenomenodi Paolo Repetti, l’uomo che riesce a vendere incontemporanea più anteprime ai giornali di chiun-que altro, la mente che insieme a Severino Cesarida dieci anni si scervella sui titoli della collana“Stile Libero” di Einaudi, la sigla di frontiera piùdiscussa e discutibile della casa editrice torinese.

Si trovano tutti a bere qualcosa al mercoledìsera: al giovedì esce su Repubblica un’articolessa diCitati sul saggio Adelphi curato da un professoreche è consulente di Einaudi, il giorno dopo esceVenerdì con un servizio su un libro Fazi firmato daun giornalista che pubblica per “Stile Libero”, alsabato il paginone centrale di Repubblica con l’ante-prima del libro di Calasso e alla domenica unadoppia pagina sull’ultimo libro dei Wu Ming conl’intervista a Repetti. Al lunedì LoredanaLipperini, l’ufficio stampa online dell’Einaudi,mette ogni cosa su Lipperatura e al martedì vannotutti a giocare a pinnacola a casa di Fanucci, chepubblicando solo fantascienza lo prendono sem-pre per il culo (Castelvecchi, invece, non lo fannoneppure entrare).

Giovani, giovani, giovani!Poi però, a Torino, c’è l’altra Einaudi, quella

vera, che considera “Stile Libero” l’album dellefigurine di famiglia, quella che non ti manda mai ilibri sempre convinta che il marchio tanto si impo-ne da solo, l’Einaudi dei giovani torinesi ancoraconnessi alla vecchia guardia degli allievi diBobbio, l’Einaudi di Andrea Romano, storicodell’Europa contemporanea, già direttore scientifi-co della fondazione “Italianieuropei” di MassimoD’Alema e Giuliano Amato e ora potentissimoeditor della saggistica (pardon, non-fiction editor)nonché autore Mondadori e editorialista di puntadella Stampa. Ormai si dice che conti più dellostesso Ernesto Franco, che di Einaudi è direttoreeditoriale. Insieme al sociologo Luca Ricolfi, altroinsigne notista della Stampa, autore di Longanesi edel Mulino e direttore dell’Osservatorio del NordOvest, l’intellettuale che conta di più oggi aTorino&dintorni.

Per il resto, Ernesto Ferrero al massimo ti puòinvitare al Salone del Libro a parlare nello stand afianco di Enrico Brizzi e Giuliano Soria, se ti vabene, a un viaggio-stampa in Sudamerica per il

“Grinzane Cavour”, in cambio di un paio di pezziin cultura. Nient’altro.

Giovani, giovani, ci vogliono i giovani! Cisono anche quelli: Andrea Cortellessa, meno di40 anni e più di dieci pagine di curriculum. Ilruolo di ricercatore in Italianistica alla “Sapienza”di Roma è solo la prima delle sue poliedriche atti-vità che lo rendono uno tra i più influenti sacer-doti delle Lettere Moderne. Già cavalier serventedi Sua Maestà Franco Cordelli, Cortellessa ècuratore e antologizzatore per Bruno Mondadori,autore per Einaudi, curatore per Adelphi, colla-boratore per Fazi, critico letterario su Alias,L’Indice, l’Unità e Tuttolibri, presenzia convegni, ègiurato in un paio di premi, ha un programma dipoesia in radio su Rai3, è amico di GabrielePedullà (figlio di tanto padre, anche lui italianista,anche lui collaboratore di Einaudi, anche luifirma di Alias), ma anche di Emanuele Trevi, diRaffaele Manica, di Massimo Onofri, di ArnaldoColasanti e di Rosaria Carpinelli, ex editor-vesta-le della Rizzoli e ora – con molta meno fortuna –della baricchiana Fandango. Rispetto alla tagliaextra-large dell’onnivoro Cortellessa, i fratellini diminimux fax, altro centro nevralgico dell’intelli-ghenzia romana, Marco Cassini&soci, fanno lafigura degli anoressici.

Cattolici&CompagniLa figura dei bulimici la fanno invece i cattolici,

di cui è nota la capacità tentacolare dentro ilmondo editorial-letterario. E la parte piovra, daquesto punto di vista, la fa C.L., un “mostro” chedal Meeting di Rimini muove migliaia di libri ven-duti, s’infiltra nelle case editrici, nei giornali, neicentri-studi. E un bel polipone, in questo senso, èDavide Rondoni, poeta appena over-quaranta,uno che fa moltissimo per gli altri (e parecchio persé): già direttore di Tracce e fondatore della rivistaclanDestino, è editorialista di Avvenire, autore perGuanda (e non solo), curatore di collana per IlSaggiatore e Marietti, direttore del centro di poesiaContemporanea di Bologna, responsabile dellacollana “I libri dello spirito cristiano” della Bur.Quel poco che rimane sulla mensa, se lo dividonoevangelicamente gli altri fratelli.

Tra gli “ortodossi”, un posto di primo pianoper autorevolezza e aplomb spetta a CesareCavalleri, direttore di Studi cattolici e della casa edi-trice Ares, gran firma di Avvenire e temutissimostroncatore; tra gli “eretici”, il priore della

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 10

Rassegna stampa 15 maggio-16 giugno 2007

11

Comunità di Bose Enzo Bianchi, notista dellaStampa, collaboratore di Mondadori, fine apologe-ta su Tuttolibri, ascoltatissimo ospite nel salotto-tivù di Gad Lerner. Sopra a tutti, però, l’ubiquomons. Gianfranco Ravasi, la cui produzione gior-nalistico-editoriale ha del miracoloso. Per il resto,sul fronte squisitamente letterario, appannatosi il“potere” di due grandi vecchi catto-intellettualicome Raffaele Crovi e Ferruccio Parazzoli, il veroreferente oggi è Fulvio Panzeri, cinquantenne cri-tico di Avvenire e Famiglia cristiana e “testoriano” diferro. Anche se, va detto, per far “muovere unlibro”, in questo settore, basta una citazione indiretta di padre Livio Fanzaga, storica voce di“Radio Maria”.

A proposito di radio e tivù. Una volta, ancorafino a qualche anno fa, il modo più semplice enaturale per far parlare di un libro era scrivernenelle pagine culturali dei giornali. Oggi è il modomigliore per ucciderlo. Gli uffici stampa lo sannobene, e infatti cercano di far passare i loro titoli inqualsiasi altra pagina, dalla cronaca agli spettacoli,dal costume agli esteri. “Ma scusa, perché non faifare una recensione in cultura? No, grazie, non lalegge nessuno: non è che lo puoi intervistare perle pagine del week-end?”. Oltre, c’è solo la televi-sione. Ieri era il Maurizio Costanzo Show che conun’inquadratura di cinque secondi della copertinafaceva vendere 1.500 copie di qualsiasi libro. Oggiè Fabio Fazio che in questo senso fa il bello e cat-tivo tempo. Caso a sé, come in tutte le altre cose,Giuliano Ferrara il quale sia a Otto e mezzo che sulsuo Foglio è capace di trasformare in oro tutto ciòche legge, come insegnano i casi di MordecaiRichler, Cormac McCarthy e dello stessoButtafuoco. Con dei limiti: Maurizio Milani, nono-stante gli sforzi di Mariarosa Mancuso e fogliantivari, rimane quello che è.

Poi ci sono gli editor, gli agenti e gli uffici stam-pa. Tra i primi, saltando a piè pari gli ex ragazziniprodigio Benedetta Centovalli (la cui paraboladiscendente è speculare al livello delle case editricinelle quali è passata: prima Rizzoli, poi Alet e oraCairo) e Sergio Claudio Perroni (editor straordina-rio, inappuntabile traduttore e splendido critico dipoesia che da quando i romanzi invece che correg-gerli si è messo a scriverli non conta più nulla), lapiù potente, una donna alla quale non si può diredi no, un po’ per il nome che porta, un po’ per ilsuo carattere, un po’ perché magari dopo non tiinvita alla Milanesiana, è Elisabetta Sgarbi, signora

della narrativa Bompiani folgorata sulla via dellaregia, ormai abbondantemente più potente del fra-tello, elegante, stakanovista e onnipresente. Se leialza il telefono, tu abbassi la testa.

Suor Germana batte SavianoTra gli agenti letterari, invece, l’unico davvero

degno di nota è Marco Vigevani, altro figlio dicotanto padre, già talent scout della Mondadori eora professionista in proprio con un cospicuoportafoglio clienti (tra i quali, cosa che male nonfa, diversi giornalisti). Tra gli uffici stampa, infi-ne, preferiamo scegliere qualcuno della vecchiaguardia, quando non ti vendevano di tutto soloper la foga di venderti qualcosa, ma selezionava-no la merce a seconda di chi avevano di fronte.Nomi professionalmente strutturati, corretti,autorevoli, al confronto dei quali la maggiorparte dei giovani – peraltro gambizzati nellegrandi case editrici da un turn over vorticoso –sono diligenti compilatori di comunicati stampa.Esempi? La storica capa di Rizzoli AnnaDrugman, figura che sfiora la leggenda (già «ilvolto umano della Garzanti», come dicevaArpino), front-woman dei più bei nomi dellanostra narrativa e oggi consulente per alcunigrandi nomi della maison Rizzoli, una donna chequando si annuncia al telefono incute lo stessopanico timore del “direttore Totale, l’Ing. GranMascalzon. di Gran Croc. Visconte Cobram” conl’eco che rimbalzava per la redazione.

Poi la supervisor del gruppo Longanesi,Valentina Fortichiari: un’intellettuale prestata allepubbliche relazioni che forse memore delle vicen-de dell’amato e studiato Guido Morselli ci pensadue volte prima di dire di no a qualcuno, moltoelegante nei rapporti e che personalmente simuove pochissimo, ma quando lo fa, pesa. Infine,Piera Cusani, cugina di tanto cugino, oggi massi-mo responsabile delle relazioni esterne dellaMondadori, molta classe e simpatia; e IdaMeneghello, padrona di casa del Mulino, ineccepi-bile, preparatissima, autorevole quanto la sigla cherappresenta. Caso a sé Mara Vitali, dell’omonimostudio di comunicazione, forse più potente ieririspetto a oggi, ottima stratega pur con qualcheinfortunio (il lancio dell’ultima Tamaro non èandato troppo bene, però sarà lei a curare il pros-simo libro di Scurati) che gestisce un portafogliopiuttosto gonfio di autori, eventi e case editrici.Parla solo coi giornalisti che abbiano come grado

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 11

Oblique Studio

12

quello dal vicedirettore in su, lasciando le altreincombenze alla sua numerosa truppa.

Alla fine, comunque, i best-seller ormai sifanno da soli. Non ci sono salotti, santuari di cartao potentati che tengano. Vorremmo averlo, ecco-me, un dominus del panorama letterario.Purtroppo i (pochi) lettori, che non si fidano piùdei consigli dei critici, i libri oggi se li scelgono dasoli al supermercato dove la varietà dei titoli èinversamente proporzionale a quella dei gusti delloyogurt e neppure Gian Arturo Ferrari può farglicambiare idea. La televisione parla solo di libri digiornalisti, e quindi fa soldi ma non fa testo, leclassifiche di vendita pubblicate dai grandi giorna-li, lo sanno tutti, sono pesantemente taroccate(altrimenti ai primi posti ci sarebbero solo librireligiosi o per bambini: è noto che un solo titolo

della Famiglia Orsetti batte Ammaniti sette a zero eun qualsiasi ricettario di Suor Germana a unocome Saviano non dà solo la pappa, ma primo,secondo, frutta, dolce e caffè); i festival, i Salonidel libro e i grandi reading sono importanti per gliautori e le case editrici, ma non servono a far ven-dere copie (al confronto paga molto di più unapresentazione nella biblioteca rionale con parenti,amici e colleghi d’ufficio), qualcosa in più, semmai,possono farlo una dotta articolessa di Pietro Citatisu Repubblica (una scrittrice come MartaMorazzoni, sostanzialmente, l’ha creata lui) o unlectio magistralis di Claudio Magris sul Corrieredella sera (un paio di anni fa ha portato per manoPino Roveredo al Campiello). E comunque sonocasi rarissimi, come i romanzi buoni dellaMondadori.

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 12

Che cosa c’e dietro un libro? Quali fili simuovono dietro la parola scritta e organiz-zata in progetto editoriale? C’è un autore,

certo, ed un editore, ovviamente. Ma se l’editorenon è quello “super”, inserito nella grande catenadi montaggio di una grande realtà imprenditorialeo commerciale, tra l’autore e l’editore c’è un sog-getto di mezzo che lavora per la visibilità di caseeditrici indipendenti, minori, bisognose di strut-ture di distribuzione più flessibili e adatta alle sin-gole esigenze del prodotto libro. È il caso dellafactory che stiamo per raccontarvi, che si posizio-na proprio in questo territorio di mezzo. E propo-ne modelli strategici innovativi operando in libre-ria, on-line, attraverso forme di vendita diretta ne-gli spazi raggiunti dalla grande distribuzione in unafitta rete di relazioni.

Cos’hanno in comune titoli come “Tutt’al piùmuoio” di Filippo Timi o “Cento colpi di spazzo-la” di Melissa P? Poco sembrerebbe, visto chesono editi da editori differenti; eppure dietro aquesti titoli e a tanti altri, c’era sempre Vivalibri.Siamo in via Isonzo 34, quartier generale di questafactory romana dedicata all’editoria, che conta 60dipendenti e molti collaboratori. Nel palazzotto al34 di questa strada alle spalle di via Salaria, trepiani sono occupati da Vivalibri o da sue dirama-zioni. Incontriamo Pietro D’Amore, ex rappresen-tante Einaudi, ex direttore commerciale allaDonzelli, oggi amministratore unico della VivalibriSpa. Le parole chiave delle attività che svolgonoqui si evidenziano subito: «distribuzione, flessibili-tà e case editrici indipendenti». Così era quandol’attività iniziò, dieci anni fa, accanto e insieme apiccole (allora) case editrici romane come Fazi,Carocci e Donzelli e così è oggi, in una società cheper esigenze commerciali è diventata Spa e checonta quasi trenta editori tra i suoi clienti, tra cuitanto per citarne alcuni ci sono Meltemi, Carocci,

Fandango, Cooper, Gremese ma anche marchid’arte come Allemandi, de Luca, e nuove sigle diprogetto come Ferro di Cavallo, Playground,Pequod, la Gallucci per la letteratura per ragazzi ola neonata romana Elliot. «Ci occupiamo di pro-mozione e distribuzione di prodotti editoriali dicase editrici minori che non entrano nella grandedistribuzione – spiega D’Amore – insieme all’edi-tore pensiamo e valutiamo tutti gli aspetti di ven-dita del libro dalla distribuzione al marketing pas-sando per la pubblicità e i lanci, cerchiamo di tro-vare con creatività delle strade alternative chesiano giuste per il tipo di prodotto che andiamo apromuovere, importante infatti è che tutti i passag-gi siano adeguati alle potenzialità di mercato diquel singolo libro».

Una rete di agenti, promotori librari, che lavo-ra su tutto il territorio nazionale assieme alcostante potenziamento dei servizi offerti conno-tano il lavoro della promozione di Vivalibri che in10 anni ha moltiplicato il numero di editori clien-ti. «Ora stiamo aprendo nuove librerie – continuaD’Amore – ne abbiamo in progetto 10 in tuttaItalia, a Roma ne abbiamo aperta una a Testaccioin piazza Santa Maria Liberatrice, un’altra do-vrebbe aprire a piazza Navona in via di TorMillina ed entro la fine di maggio aprirà anche ilnuovo bookshop della Casa delle Letteraturegestito da noi». Ma vista la crescita, Vivalibri hapartecipato anche al rilancio di Castelvecchi, diArcana, editrice di musica, e di Elliot, neonatomarchio di narrativa.

Negli uffici di Vivalibri c’è il cuore della socie-tà composto da una ventina di persone. Tra loro,accanto a Pietro D’Amore, c’è Maria Grazia Zulli,direttore commerciale, responsabile forza venditee nuove librerie; come assistente Federico Pan-caldi, all’ufficio stampa Livia Senni, al CentroStudi Alessandra Gambetti e come responsabili

Come ti vendo il piccolo editore.Un segreto di nome “Vivalibri”

Geraldine Schwarz, la Repubblica, 25 maggio 2007

Nella factory dei tecnici del marketing editoriale

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 13

Oblique Studio

14

nuove librerie, Adele e Luigi Toni per la libreria diTestaccio. L’attività di Vivalibri prevede anche uncorso di alta formazione in editoria libraria in col-laborazione con il centro europeo per l’editoriadell’Università di Urbino perché, spiega D’Amore,c’è l’esigenza di creare nuove figure professionali

per l’editoria. Per il futuro, una sfida: «Mi piacereb-be – conclude D’Amore – che libri e altri prodot-ti fossero meno divisi fra loro, che ci sia fusioneanche strutturale. Penso per esempio allaFandango di Domenico Procacci che fra l’altro ènostra cliente».

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 14

Con quella a Maurizio Donati, editor dellasaggistica per la casa editrice Chiarelettere,concludo il ciclo di interviste sull’editing e

il sistema editoriale. Per chi fosse interessato alleinterviste precedenti, qui la premessa, segue ilpunto di vista di Paola Gallo, di Giulio Mozzi, diNicola Lagioia, di Michele Rossi.

Ringrazio tutti gli editor per le loro risposte etutti coloro che hanno voluto commentare. gv.

Proviamo a partire da una definizione secca: che cosa siintende per editing?

S’intende per editing il lavoro di lettura e revi-sione di un testo prima che questo arrivi in libre-ria. Anzitutto credo vada subito fatta una precisa-zione, ossia va detto che l’editor non si occupasolo di editare un testo. Il suo ruolo e le sue fun-zioni sono diverse – e solitamente cambiano dacasa editrice a casa editrice e da linea editoriale alinea editoriale. L’editor nello specifico segue illibro in tutto il suo sviluppo, e non solo nella suamaturazione letteraria: dalla valutazione inizialealla grafica di copertina alla comunicazione conchi poi dovrà occuparsi di promuovere il libro, siadal punto di vista commerciale che per ciò checoncerne la copertura stampa, con recensioni anti-cipazioni e altro. Ovviamente sono ruoli copertida altre persone, c’è un ufficio commerciale, unufficio stampa eccetera, ma va detto che l’editor èla persona che per prima e in maniera più profon-da conosce il testo.

Mi chiedi una “definizione secca” ma credoche ogni definizione in quanto tale si lasci sfuggi-re qualcosa. Qualcosa d’importante. Credo, senzascadere in inutili sentimentalismi, che il lavoro diediting abbia qualche analogia con la Compagnia,con l’Accompagnare nel senso migliore del termi-ne, non perché l’autore sia una specie d’infermoma perché nell’incontro con l’editor e con l’edi-

ting l’autore trova un primo confronto, un con-fronto necessario, un confronto solitamente cer-cato dall’autore stesso, e un confronto volta avolta diverso. Ci sono autori così importanti enavigati da far diventare questo Accompa-gnamento una semplice attività di servizio. Altritrasformano questo Accompagnare in un’amiciziatutta particolare, un’amicizia editoriale che puòessere anche molto intima, una specie di condivi-sione molto sottile, un’esperienza reciprocamentemolto appassionante.

Come si imposta il lavoro con gli autori?Il lavoro con gli autori si sviluppa, cresce,

diventa via via più complesso mano a mano checresce la conoscenza e la padronanza del testo. Èun investimento reciproco, fatto sia dall’autore,che crede nelle potenzialità della casa editrice, siadall’editor, che crede nell’idea, nello stile, nella ric-chezza di quel particolare testo. L’editor in questocaso offre sostegno e professionalità. L’autoreinvece offre creatività e conoscenza (ricordo chemi occupo di saggistica). Questa divisione è sem-pre molto chiara ed esplicita.

Come si comportano gli autori rispetto all’editing? C’èdisponibilità? Resistenza?

Il rapporto con gli autori è molto singolare,volta a volta diverso. Richiede una plasticità anchecaratteriale perché poi è sempre l’editor – chequando si dispone all’editing ha praticamente giàcreduto e investito nell’idea del libro in oggetto –a dover trovare una sintonia tutta particolare conl’autore. Disponibilità? Resistenza? Credo che que-sto lavoro e questo incontro debba essere sempreinteso in maniera non agonistica, ossia come unasorta di confronto-scontro. Anche se è innegabileche un editing vero, profondo, reciprocamentepartecipato raggiunga pure un’intensità emotiva

Il letto di Procuste e la Cura Ludovico #6

Giorgio Vasta, www.nazioneindiana.com, 25 maggio 2007

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 15

Oblique Studio

16

molto forte, a volte su certi aspetti anche di scon-tro, sebbene sia piuttosto raro. Più spesso s’instau-ra un rapporto di complicità tra editor e autore.

Il luogo comune, con particolare solerzia ribadito negliultimi tempi, vuole l’editing come una forma di manipola-zione capziosa del testo – ad opera di uno sgherro dellacasa editrice, appunto l’editor – finalizzata all’adegua-mento del testo stesso alle condizioni delle mode e del mer-cato. Cosa produce, secondo te, un’idea di questo genere?Perché, cioè, in Italia l’editing subisce questo destino didemonizzazione?

Su questo lascerei parlare le persone-autori chenell’editing hanno avuto un’esperienza fortementenegativa e manipolatoria. Il resto risulta abbastan-za gratuito e sa di polemica facile.

Un’altra idea – per molti una convinzione indiscutibile –è quella che pensa al sistema editoriale come a un qualcosadi omogeneamente cinico e opportunista, un luogo nel quale– attraverso la già descritta mortificazione dell’autorialità– si procede compattamente alla fabbricazione di prodotticommerciali. Sembra quasi che la condizione d’accesso allavoro editoriale sia il pelo sullo stomaco, una cinica igno-ranza, un appetito da squali e un disincanto assoluto che sitraduce in strategia commerciale. È tutto davvero così sem-plice o ha senso pensare invece a uno scenario più contrasta-to e contraddittorio?

Io credo, in un senso che forse è inutile qui spie-gare, nell’“intelligenza” del mercato e credo che i let-tori non siano degli imbecilli, tutti clonati a misura dibest-seller. C’è, è indubbio, una caccia sempre piùsfrenata al best-seller ma oltre a questo – e soprat-tutto per chi non può permettersi investimentimilionari, o forse più semplicemente non vuol gio-care a chi offre di più (e per fortuna non son pochi)– c’è uno spazio gigantesco fatto d’idee, di libri pos-sibili che nessuno fa, di libri a loro modo necessari.Mi sembra una banalizzazione questa dell’intendereil lavoro dell’editor nei termini di una semplice stra-tegia commerciale, anche se poi i libri vanno fattivedere, le idee che stanno dietro il progetto devonoessere visibili, e lo spazio in cui possono essere visi-bili è uno spazio commerciale, ossia la libreria.

Qual è, nel rapporto tra editor e autore così come in quellotra i diversi comparti di una casa editrice, il valore dellanegoziazione?

Io non parlerei tanto di negoziazione, nonridurrei tutto nei termini di una trattativa. Quelloche s’instaura tra editor e autore è un confrontotutto particolare, va detto, e qui mi ripeto, che giàprecedentemente alla fase in cui ci si dispone allavoro di editing, tra editor e autore si è instaura-to un rapporto molto stretto legato al fatto chel’editor ha deciso d’investire in quel libro. Giàquesta fase, di più stretta valutazione del proget-to editoriale, contribuisce non poco a instaurareun rapporto molto ravvicinato con l’autore. Vadetto, e anche qui mi ripeto, che la situazionecambia da autore ad autore, ossia se ti trovi alavorare con uno scrittore o un giornalista che hagià una storia editoriale, e, come dire, un’abitudi-ne al lavoro editoriale, be’ questo confronto conl’editor assume una fisionomia molto differente.Ci tengo a sottolineare però che in molti casi ilruolo dell’editor non è semplicemente quello dichi, seduto quotidianamente alla sua scrivania,riceve testi da leggere e ne valuta la pubblicabili-tà. Sarebbe francamente un po’ triste. Il ruolodell’editor è un ruolo attivo, di ricerca di idee dasviluppare, di libri potenziali a partire dai qualipoi prendere contatti con persone del mondodella cultura o dell’informazione capaci di realiz-zarli. Non parlo di libri commissionati dall’editor.L’editor è perfettamente consapevole del suomestiere, dei suoi limiti. Deve tenere occhi eorecchie bene aperti per capire che aria tira làfuori nel mondo, quali sono gli interessi, di cosaè urgente parlare. Raccogliere suggestioni che poisolo l’autore giusto potrà far diventare concreta-mente dei libri, assolutamente non come sempli-ce esecutore, ma come soggetto capace di racco-gliere quella suggestione, magari ribaltarla, tra-sformarla, filtrarla attraverso la propria esperien-za, il proprio lavoro, la propria intelligenza, leproprie competenze. Be’ questo, oltre che moltoistruttivo, è anche parecchio divertente. Anche inquesto consiste il lavoro dell’editor.

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 16

Ha scritto il poeta inglese William H.Auden in “The Dyer’s Hand” (Il jolly nelmazzo, Garzanti, 1972): «Ci sono dei libri

ingiustamente dimenticati, non ce ne sono diingiustamente ricordati». Se sulla seconda asser-zione possono esserci legittimi dubbi, chi potreb-be smentire l’assunto prima? Il mondo è pieno dilibri dimenticati, sommersi e ormai sconosciuti,che spariscono dagli scaffali delle librerie per fini-re – quando va bene – sui banchi dei mercatinidell’usato e tra i remainders, a meno che qualchepiccolo editore volenteroso non li salvi dall’oblio,spesso però con ristampe limitate nella tiratura,infelicemente esposte o mal distribuite. Sono librisottratti al lettore: non solo testi minori di grandiartisti o di scrittori poco noti, ma opere ormaistoricizzate che non vengono ristampate dadecenni e capolavori stranieri che non vengonotradotti (o ritradotti).

Di recente l’Adelphi ha rispolverato Santuario diFaulkner, un classico moderno, che era irreperibi-le in libreria dall’ edizione Garzanti dell’86. LaSellerio sta riconsegnando al pubblico i romanzi diWilliam R. Burnett – inventore della cosiddettacaper novel (ovvero romanzo della grande rapina)con Giungla d’asfalto, la cui ultima edizione perve-nuta era del 1974 nei Gialli Mondadori; le opere diAnnie Vivanti, vivace scrittrice, nota soprattuttoper la scabrosa relazione con Giosuè Carducci e, apiù di vent’anni dalla morte, l’opera omnia delgiornalista e narratore russo Sergej Dovlatov.

Per Neri Pozza è stato tradotto dopo oltre untrentennio il magnifico e scandaloso Ginger mandell’irlandese James P. Donleavy; mentre perEinaudi proprio negli ultimi anni sono uscite leprime edizioni dei romanzi di Magda Szabo, scrit-trice ungherese di fama mondiale, conosciuta inItalia per una sola opera (irreperibile, ça va sansdire), L’altra Ester, pubblicata da Feltrinelli nel 1964

e successivamente distribuita dal “Club degli edi-tori”, ma da poco Einaudi ha pubblicato La portae La ballata di Iza.

E ancora recuperando: Marcos y Marcos si stadedicando al revival di Ring Lardner; Adelphi pro-pone per la prima volta in Italia gli scritti dell’in-tensa e sfortunata autrice ucraina IreneNemirovsky; e Fazi scopre Dawn Powell, definitada Gore Vidal come «la nostra migliore scrittricedella seconda metà del secolo».

Per giocare in casa, oltre allo sdoganamento delmanualetto futurista di Filippo TommasoMarinetti, Come si seducono le donne e si tradiscono gliuomini, ripubblicato da Vallecchi nel 2003 a novan-t’anni dall’esordio, ci pensano soprattutto i“Meridiani” Mondadori (insieme a corposi“Antimeridiani”) a riscoprire autori nostrani tra-scurati, da Luciano Bianciardi a Luigi Meneghelloa Domenico Rea.

Questo elenco dimostra come a subire l’o-stracismo del circolo editoriale siano anche grandiautori e opere ammirevoli; e come intere genera-zioni vengano private di letture che per i genitori ei nonni sono state dei “classici”. Gli esempi citatisono così dei veri e propri «recuperi letterari», cheperò non esauriscono il panorama dei «sommersie sconosciuti». Erskine Caldwell, scrittore america-no esponente della cosiddetta «letteratura sociale»,ha venduto ottanta milioni di copie dei suoi librinel mondo ed è stato tradotto in 43 lingue, eppu-re in Italia al momento sono reperibili solo tre deisuoi innumerevoli romanzi, mentre di decine diracconti, diverse opere di non fiction e di poesienon si hanno tracce qui da noi. Sfortunata anchePearl S. Buck, le cui opere – a parte qualche titolosparso – non risultano pervenute dalle lontane edi-zioni Mondadori degli “Oscar” anni ’70 e ’80; maancor peggio è andata a Sinclair Lewis, del quale èstato pubblicato negli ultimi quarant’anni solo

Cresce un nuovo genere di libri,quelli scomparsi e dimenticati

Seia Montanelli, Stilos, 26 maggio 2007

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 17

Oblique Studio

18

Babbitt (Tea, 1997). Riflettori spenti dal ’74 perLascia che accada di Paul Bowles, nell’olimpo degliscrittori americani assieme ai grandi della suagenerazione, da William Burroughs ad AllenGinsberg, da Truman Capote a TennesseeWilliams, più conosciuto forse per la paternità delTè nel deserto sebbene meno maturo e solido delromanzo sommerso.

Quanti hanno letto Sherwood Anderson negliultimi vent’anni? E Jules e Jim di Henri-PierreRoche? E Jorge De Sena (vivamente consigliato ilsuo racconto La finestra d’angolo pubblicato oltredieci anni fa da Sellerio, ma originariamente conte-nuto nella famosa raccolta Scorribande del demonio)?E La nobile arte di farsi dei nemici del pittore JamesMcNeill Whistler, classico della letteratura ingleseoltre che acuta riflessione sull’arte e sul suo rap-porto con la critica, pubblicato solo nel 1988 dallacasa editrice Lubrica?

E quanti sanno che C’era una volta in America,capolavoro di Sergio Leone, è l’adattamento cine-matografico di un libro, Mano armata, di HarryGrey, perdipiù largamente autobiografico? Moltopochi sicuramente, visto che l’ultima edizione ita-liana del libro è del 1983, per Longanesi.Misconosciuto ai più è O’Henry (pseudonimo diWilliam Sydney Porter), considerato il padre dellamoderna short story americana (ogni anno il migliorracconto statunitense viene addirittura premiatocon il prestigioso riconoscimento che porta il suonome), eppure pochissimi dei suoi racconti sonostati tradotti in italiano, tutti introvabili ormai adeccezione di quelli raccolti in Marionette pubblicatoda Tranchida Editore nel 1998, che a scavar benenei mercatini dell’usato può saltar fuori all’improv-viso. Stessa sorte per l’omologo inglese diO’Henry: V.S. Pritchett, un genio della novellad’oltremanica che in Italia è presente con due soliracconti tradotti da Adelphi, già da tempo ormai.Ed è inutile chiedersi poi quanti conoscano LaFormula di Origine di Johannes Mario Simmel, curio-so romanzo ambientato subito dopo il bombarda-mento di Vienna del 1945, scritto nel 1949, pubbli-cato in Italia dalla Sonzogno alla fine degli anni ’60e mai più ristampato. E La camera cinese di VivianConnell? Una vera chicca da bibliofagi che merite-rebbe un destino migliore: è stato pubblicato inItalia per l’ultima nel lontano 1967 da Garzanti.

Veniamo alle patrie lettere. Molto più che at-traverso i suoi romanzi, dalla Controfigura a Esterinaa Il congresso, è leggendo Le stanze di Libero

Bigiaretti – un non-romanzo di matrice autobio-grafica in cui l’autore attraverso la finzione narra-tiva ripercorre aneddoti e incontri della sua vita –che non si può fare a meno di chiedersi come siastato possibile dimenticare quest’acuto scrittoremarchigiano. È infatti con Le stanze che apparesubito chiaro come Bigiaretti sia stato una figuracentrale del nostro panorama culturale. E che fineha fatto Carlo Bernari? Se ormai non è piùcomplicato reperire Tre operai (ristampato peròsolo di recente per gli Oscar Mondadori) la suaopera più importante, è invece del 1976 l’ultimaedizione di Domani e poi domani, crudele storia di unamore impossibile sullo sfondo dei disordini cau-sati dal fallimento della politica agraria nel Sudd’Italia; ed è quasi improbabile da scovare, persinotra i remainders, L’ombra del suicidio, pubblicatopostumo da Newton&Compton, straordinarioromanzo breve dalle atmosfere vagamente kafkia-ne. Completamente dimenticato è anche La duraspina di Renzo Rosso, autore fortemente in debitocon Italo Svevo, intenso romanzo incentrato sullafigura capricciosa e dolente di un artista, scritto inuna prosa raffinata e lussuosa, che non meritereb-be l’oblio in cui è caduto. Si pensi infine a GiorgioSaviane, Guido Piovene, Ottiero Ottieri, GiovanniArpino, Carlo Castellaneta, Ernesto Ragazzoni,Mario Tobino, Giuseppe Antonio Borghese,Alberto Savinio, Giacomo Debenedetti, BrunoTacconi, Lucio Mastronardi: quanti dei loro libri sitrovano ancora nelle librerie italiane?

E non sempre è necessario andare troppo lon-tano nel tempo per individuare libri (già) di-menticati. Due esempi per tutti. Il primo è Aimargini del caos di Franco Ricciardiello: romanzointelligente e sofisticato, premio Urania nel 1998e poi scomparso dalle librerie a dispetto del buonsuccesso di pubblico (13.500 copie vendute) edella pubblicazione in Francia per la casa editriceFlammarion. E poi Tuta blu di Tommaso diCiaula, un commovente ritratto della condizioneoperaia, pubblicato da Feltrinelli nel 1978, accol-to calorosamente da critica e pubblico, tradottoin tutt’Europa, riadattato per il teatro e per ilcinema, e inspiegabilmente sparito per oltre tren-t’anni, fino alla recente ristampa con l’editoreveneto Zambon: forse però questo libro meritaqualcosa di più.

Quanto alle cause che hanno costruito il«cimitero dei libri dimenticati» (al centro delfortunatissimo romanzo di Carlos Ruiz Zafen

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 18

Rassegna stampa 15 maggio-16 giugno 2007

19

L’ombra del vento, Mondadori, 2004), se è pur veroche il mercato e la questione delle vendite incidain parte nelle scelte editoriali, e sebbene possanointervenire anche questioni inerenti i diritti d’au-tore ed eventuali problemi di traduzione, quelloche influisce maggiormente sulla «scomparsa deilibri» è soprattutto la memoria corta degli opera-tori editoriali, coniugata ad una cultura del libroda fast-food: oggi in Italia vengono pubblicaticirca 170 libri al giorno (fonte: Maria Novella DeLuca, “la Repubblica”, 15 marzo 2007) – chenella maggioranza dei casi rimangono sugli scaf-fali per un tempo sempre più ridotto – e negliultimi dieci anni sono stati ritirati dalla circolazio-ne 377 mila titoli.

Con questi standard magari può sembrarecomplicato dedicarsi ad operazioni di recuperonon in sintonia con le mode del momento, ma cosìfacendo non si tiene conto del fatto che gli autori«sommersi e sconosciuti» sono nella stragrandemaggioranza dei casi dei campioni, dei cavalli dirazza su cui varrebbe la pena scommettere.

Per mere ragioni di pragmatismo poi sarebbebene cavalcare la tendenza alla riscoperta che s’in-travede nel comportamento del lettore negli ultimianni – forse sollecitato dall’uso di internet chefavorisce lo scambio d’informazioni tra gli utenti(le vendite di libri on line sono salite di oltre il qua-ranta per cento nell’arco di cinque anni) che affol-la le fiere e i negozietti dell’usato alla ricerca della

«perla rara». In questo senso si sono mossi piccolieditori come il già citato Tranchida, che per primoha scoperto Ring Lardner; la Robin edizioni che hauna collana intitolata proprio «Libri ritrovati»; laGalaad edizioni che ha scoperto la statunitenseKate O’Flaherty Chopin (1850-1904), inedita inItalia ma molto famosa in patria; o minimum faxche ha creato la collana «Miminum classics» in cuipropone soprattutto autori inediti che però vengo-no considerati ormai dei classici contemporanei: daRichard Yates a John O’Hara (autore del bellissimoAppuntamento a Samarra). Addirittura la Bibliotecacomunale Renato Fucini di Empoli ha creato unasezione del sito internet dedicata alle segnalazionidegli utenti, chiamata “Libri belli e dannati”(comu-ne.empoli.firenze.it/biblioteca/iniziative/varie/belliedannatielenco.htm), dedicata “alla scoperta dilibri dimenticati e sconosciuti, ma imperdibili”.

Sono decine le piccole case editrici che s’im-pegnano a liberare dalla polvere volumi da re-stituire al loro pubblico (ma il problema rimanesempre la distribuzione e la visibilità in libreria)forse perché convinte che perdersi per stradapezzi di storia della letteratura sia un delitto chenessuna strategia di marketing può giustificare. Oforse, più realisticamente, perché non hannomolto da perdere rischiando.

Diceva Gesualdo Bufalino: «Che ci vuole a scri-vere un libro? Leggerlo è fatica». Ma pure trovar-lo, a volte, dà il suo bel daffare.

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 19

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 20

Dalle finestre del suo ufficio, al tredicesimopiano di Park Avenue South, Maria vedeManhattan, ma se chiude gli occhi, forse,

ascolta il rumore del mare. Il mare azzurro, viola eturchese del Golfo di Napoli. Il mare della suainfanzia. Se chiude gli occhi, forse, sente ancora ilprofumo del caffè espresso che la nonna maternale offriva in bianche tazzine di porcellana, nell’in-nocente complicità segreta con la nipotina di quat-tro anni. Oggi, Maria B. Campbell, nata MariaBarra, fondatrice e Presidente della Maria B.Campbell Associates, è tra le più affermate – eascoltate – Lady dell’editoria mondiale. Più cheuna semplice scout, una talent-scout alla quale siaffidano i principali gruppi editoriali per scovarescrittori, autori di romanzi e saggi, spesso destina-ti a diventare titoli da classifica. Una vita, quella diMaria, trascorsa tra le pagine di alcuni dei più stra-ordinari successi editoriali degli ultimi vent’anni, ilrisultato di una vocazione tenacemente coltivatagrazie alla passione, alla curiosità, e alla capacità didivorare dattiloscritti, riuscendo a viverne in primapersona le emozioni e carpirne i misteriosi segnidel successo. O della bellezza tout-court.

«Io leggo sempre» ammette, con il candoredella neofita. «Come un’alcolista nasconde le bot-tiglie per non farsi beccare, io tengo libri nascostiin ogni angolo».

Dall’appartamento della famiglia Barra che affacciava suPosillipo a questo ufficio inondato di luce nel cuore diManhattan: come è andata?

«La storia di famiglia è “da romanzo”. Ilnonno era guantaio, papà Armando venne inviatoda Napoli a New York per la fiera mondiale del1939; inaugurò un negozio su Madison Avenue,lavorò a Washington nel settore commerciale del-l’ambasciata italiana, ma scoppiò la guerra e fucostretto dagli eventi a rimanere qui, chiamato per

arruolarsi nell’esercito americano, un fatto abba-stanza complicato per un ragazzo italiano! A sal-varlo da un caso diplomatico imbarazzante fu unostravagante “sequestro”: venne nascosto con altriitaliani nella zona nell’estremo nord di New Yorkinsieme all’equipaggio della nave italiana ConteBiancamano, normalmente destinata a una clien-tele di lusso. Immagini la gioia e lo stupore di tro-varsi in un rifugio corredato di prelibatezze e lus-suose suppellettili. Proseguì la sua attività negliStati Uniti anche dopo la guerra, facendo la spolacon l’Italia, ma non dimenticherò mai i suoiracconti da scapolo napoletano a Manhattan enemmeno quella nave. Ogni volta che mi capita dirivedere E la nave va di Fellini, penso a lui. Ungiorno, passeggiando sul lungomare di Napoli,incontrò mia madre, Ione, la sposò e la portò consé a New York, dove sono nata io. Tornammo inItalia e ci rimanemmo cinque anni. Dalla scuolamedia, sono diventata newyorchese a tutti glieffetti, anche se i miei genitori non hanno maipreso la cittadinanza americana».

Cosa ricorda della Napoli della sua infanzia?«I giochi a nascondino in via Petrarca, la nonna

collezionista di antiquariato, il gracchiare del car-retto che ci portava ogni mattina il fiordilatte fre-sco, la squadra di calcio nella quale giocavo, inmaglietta bianca e blu».

In che ruolo? «Rigorosamente centravanti».

E i libri? Quando sono entrati i libri nella sua vita?«A dodici anni leggevo voracemente, i libri

erano il mio mondo privato, un rifugio sicuro. Infondo ho sempre desiderato vivere nei libri, masolo più tardi sono diventati un lavoro, dopo ilperiodo della comune».

Il codice Campbell

Paola Calvetti, D – la Repubblica delle donne, 26 maggio 2007

Da Napoli a New York per fare la segretaria. E intanto leggere, leggere, leggere. Finoad aggiudicarsi per 500 dollari i diritti di un romanzo semisconosciuto: GuerreStellari. Oggi Maria B. Campbell è la mente dietro il Da Vinci Code. Scoperto comesempre: scorrendo le pagine al buio, con una lampada da minatore

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 21

Oblique Studio

22

Non proprio il posto ideale per una ragazza di buonafamiglia…

«Erano gli anni Settanta, vivevo in una comunedi artisti scrittori, poeti, pittori, nel cuore di unaBrooklyn in pieno fermento creativo. Io ero l’uni-ca a condurre una vita, diciamo, normale».

Normale?«Avevo trovato un impiego come segretaria alla

Mondadori di New York, mi alzavo alle sette, nonc’entravo molto con gli amici artisti. Così decisi ditrasferirmi in un piccolo appartamento conun’amica, erano gli anni delle battaglie femministee invece… al cocktail di inaugurazione del miopiccolo appartamento incontrai Woody e tuttocambiò di nuovo».

Woody è l’avvocato civilista Woodrow WilsonCampbell, jr, marito di Maria: «Un ragazzo altissi-mo, bellissimo, che somigliava a Mark Twain e delquale mi sono innamorata subito. Altro che fem-minista! Sono stata la prima tra le mie amiche asposarmi, dopo soli nove mesi da quel cocktail,salvo poi partire per l’Europa, due giorni dopo ilmatrimonio».

Una fuga?«No, una straordinaria opportunità. Ero una

segretaria, ma contemporaneamente leggevo testiamericani e segnalavo al mio editore quelli che amio avviso meritavano di essere tradotti in italiano.Uno dei primi romanzi che suggerii allaMondadori fu Ragtime di E.L. Doctorow. Volleroconoscermi di persona e mi invitarono alla Fieradel libro di Francoforte che… si inaugurava duegiorni dopo le mie nozze. Mi sono sposata il saba-to e il lunedì sono partita per la Germania. Nienteluna di miele».

E Woody come l’ha presa?«Gli è venuta l’influenza, si è trasferito a casa

dei miei genitori e mi ha aspettata. Stavo tutto ilgiorno in Fiera e la sera mi chiudevo nella miastanza d’albergo a leggere».

Una secchiona?«No, un malinteso: gli italiani pensavano che

io trascorressi le serate impegnata con gli ameri-cani, gli americani mi credevano con gli italiani eio, che ero timidissima, non trovai di meglio chetrascorrere le mie serate da sola. Fu il mio debut-to ufficiale come scout. Rimasi legata alla

Mondadori, ma altri editori europei si interessa-rono al mio lavoro e poco alla volta iniziai a leg-gere libri da proporre al mercato svedese, olande-se, finlandese, espandendo il mio piccolo regnonel mondo. Non sono nata imprenditrice, losono diventata mio malgrado, ho assunto laprima collaboratrice e dopo un passaggio allaRizzoli, ho fondato la mia società, che adesso hacontratti esclusivi con dodici Paesi».

Le cinque scoperte letterarie delle quali va fiera?«Difficile scegliere, ma se proprio devo selezio-

narne cinque, penso a Presunto innocente di ScottTurow, a Star Wars, che sono riuscita ad acquistareper soli 500 dollari, prima che la saga cinematogra-fica diventasse un successo mondiale; La scelta diSophie di William Styron; i romanzi di PatriciaCornwell e fra i casi più recenti, Il cane ucciso a mez-zanotte di Mark Haddon».

Come si scopre un best-seller?«Un vero best-seller non si cerca, capita. È il

lettore che “fa” il best-seller, non c’è strategia dimarketing più incisiva del passaparola fra i lettori.Non esistono “scout di best-seller”. I libri nonsono panini o biscotti, dei quali puoi preventivareun successo di mercato a tavolino».

Anche il Codice da Vinci, il caso letterario più imponentedell’ultimo decennio, è passato tra le sue mani…

«Avevo già letto Angeli e demoni di Dan Brown,quando ho letto Il Codice da Vinci la mia scheda dilettura fu positiva per gli editori in tutto il mondo,ma con gli italiani fui prudente, ci aggiunsi unpunto interrogativo. Temevo che nella patria diLeonardo avrebbero potuto considerarlo un pocoingenuo. Invece…».

La Maria B. Campbell Associates lavora anche per ilcinema e ha un’esclusiva per la Warner Bros: il secondoamore, dopo i libri?

«È successo che… ho incontrato Spielbergdopo il successo di E.T. quando fondò la AmblinEntertainment con Kathleen Kennedy. Mi chiese-ro di consigliare dei libri che fossero adatti per ilgrande schermo, ma non mi sentivo preparata a unmondo che non conoscevo. Suggerii tuttavia aSteven Jurassic Park di Crichton e da quel momentohanno pensato che fossi un’esperta di cinema! Lapiscina della nostra casa di campagna, inConnecticut, si chiama Jurassic Park».

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 22

Rassegna stampa 15 maggio-16 giugno 2007

23

È a forma di uovo di dinosauro?«No, è una piscina rettangolare, ma ho utilizza-

to il bonus dei diritti per costruirla».

“Il libro è la storia di due persone che si amano” scriveMarguerite Duras. Si riconosce in questa frase?

«Posso dire che ho conosciuto meglio mio mari-to grazie a tre libri. Gli chiesi un parere sul dattilo-scritto di Dispatches di Michael Herr, A Rumor of Wardi Philip Caputo e un terzo, A Bright Shining Lie, diNeil Sheehan, tutti dedicati alla Guerra in Vietnam,alla quale Woody aveva partecipato come ufficialedei marines. Non me ne aveva mai parlato in modoapprofondito, leggere quei romanzi lo aiutò ad aprir-si, a raccontarmi anche episodi drammatici. Tutta lasua squadra era morta in un attacco e lui era vivo permiracolo grazie a un compagno che gli aveva salva-to la vita. Me ne parlò con grande pudore».

Che cosa è rimasto, in Maria B. Campbell dell’entusiasmodella ragazzina?

«Il senso della scoperta, l’idea di iniziare a leg-gere un libro con la speranza di trovarci qualcosa

che mi prenda e… mi porti via. Non sono snob,posso amare allo stesso modo un thriller, un ro-manzo al femminile o un testo raffinato».

Non scarta nulla?«Certo. Capita che dopo poche pagine, chiuda

un libro per non riaprirlo più».

I giovani Campbell (Francesca, 23 anni, studentessa discienze politiche e Alessandro, 28, assistente legale) legge-vano tanto da bambini?

«Certo, ma senza forzature. Dopo cena, nientetelevisione. Solo libri. Per le notizie e i giornali c’èInternet».

Suppongo che anche i fine settimana siano dedicati allalettura…

«In campagna si nuota, si passeggia, si va alcinema. Ho una grande passione, però: leggo inautomobile. Due ore all’andata e due al ritorno,mentre Woody ascolta opera lirica. Per Natale miha regalato una bellissima lampada da minatore,per poter leggere in auto anche di notte».

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 23

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 24

Milano, piazza Duomo: in vetrina, su untappeto di prato sintetico, tre elegantimanichini vestiti Etro armeggiano con

un telefonino di Prada sfogliando libri di turismo.Nella vetrina accanto, si preparano caffè e si sfor-nano brioche e focacce. I passanti, distratti e unpo’ incerti, cercano di capire se l’ultimo multicen-ter Mondadori, grande 4 mila metri quadrati, sipossa ancora definire in qualche modo una libre-ria. Ma ormai, i romanzi e i saggi, per grande chesia l’autore, si vendono così, tra gadget, cibi, vesti-ti. È inutile fare i puristi: mentre i Meridiani fini-scono in edicola e i best-seller al supermercato, lelibrerie devono inventarsi formule nuove persopravvivere, strategie di diffusione dei prodottiaggiornate al mercato.

«I nostri punti vendita», spiega con sprintmanageriale Riccardo Cattaneo, direttore generaledi Mondadori Retail, «sono stati progettati comelocation plurifunzionali, dove chi entra può conce-dersi un momento di relax a tutto tondo. Le libre-rie che nascono col nostro brand – 213 in tutto,comprese quelle date in gestione a terzi in franchi-sing – danno la possibilità agli utenti di acquistareun libro, un oggetto per casa, un telefonino o uniPod, ma anche di partecipare a un evento. Il libro,sia chiaro, continua ad avere uno spazio rilevante,noi teniamo dentro dai 70 agli 80mila titoli, manon necessariamente centrale». Insomma libreriecome ibridi, centri commerciali governati dal tron-fio linguaggio del marketing, la filosofia del brande della location.

La rivoluzione nei rapporti tra librerie e lettoripartì nel 1957 a Pisa, alla Feltrinelli, ma fu di tut-t’altro genere. Per la prima volta si esposero i librisui banconi. «Quella scelta segnò un cambiamentoradicale nella grande distribuzione del libro», spie-ga Dario Giambelli, amministratore delegato diFeltrinelli librerie, «perché rese l’accesso alla lettu-

ra più facile e più democratico, consentendo aimeno culturalmente attrezzati di passare eventualiimbarazzi nel chiedere consigli ai librai, troppospesso percepiti come distanti e troppo “colti”».

Il ragionamento è convincente e l’intento nobi-le. Oggi quel rapporto è sicuramente mutato,come è cambiato, e molto, l’identikit del lettoretipo: il suo profilo oggi è quello di un naivigatoredi Internet che è anche consumatore di media egadget tout court: videogame, mp3, dvd, “perfi-no” libri. È un cliente che compra vestiti, oggettiper la casa, ama l’happy hour ma stenta ad avvici-narsi al mondo della cultura. Molto probabilmen-te, è a questa difficile tipologia di acquirenti che sirivolgono le nuove catene di librerie.

I dati Istat sulla lettura in Italia non sono moltoconfortanti. Gli italiani che hanno letto almeno unlibro negli ultimi 12 mesi sono il 65 per cento. Diquesti, l’11,8 per cento l’ha acquistato in un centrocommerciale, il 17,4 per cento in grandi catenetipo Messaggerie, Fnac ecc. Ma la stragrande mag-gioranza, cioè oltre il 70 per cento, si accosta allaparola scritta solo se lo riceve in dono, un best-sel-ler, e il 12 per cento degli intervistati rivela di nontenere a casa neanche un libro.

«Con cifre di questo tipo», dice Claudia Tarolo,cofondatrice della casa editrice Marcos y Marcos,«lo spazio per studiare nuove formule di vendita edi proposta è immenso. Perché i lettori, in Italia,possono solamente aumentare».

E le librerie indipendenti? «Nella maggior partedei casi stanno morendo. Solo poche sopravvivo-no», prosegue Tarolo. «E questo nonostante fac-ciano spesso un buon lavoro. Penso all’impegno diGerardo Pellegrino, un libraio di Maglie, in Puglia.Da solo è riuscito a calamitare l’attenzione e lacuriosità dell’intero paese, organizzando nella suaLibreria Europa presentazioni di libri e momentidi lettura corale».

Libri, vestiti e brioche

Chiara Dino, D – la Repubblica delle donne, 2 giugno 2007

La libreria per raggiungere i suoi difficili clienti diventa un centro commerciale.Funzionerà? Ne discutono alcuni addetti ai lavori

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 25

Oblique Studio

26

Una voce competente “dall’esterno” è quella diAlberto Notarbartolo, che non ha librerie ma èpatron di Internazionale e di Fusi Orari, la casa edi-trice nata dalla costola della rivista, che offre ognisettimana il meglio dei giornali stranieri: «Cerchia-mo di pubblicare autori di nicchia, abbastanzaricercati, che scrivono per il nostro giornale. E cifacciamo distribuire da Messaggerie, la più grandein questo settore, per poter avere un po’ di visibi-lità nelle librerie».

Arrivare al mercato è un problema che affliggechi i libri li produce quanto chi li vende. In genereottiene maggior visibilità la casa editrice che escecon un numero minimo di titoli l’anno. «È unalogica fuorviante quella della quantità», aggiungeNotarbartolo, «davanti alla quale io non intendoarrendermi. Ragion per cui, vivendo a Roma e nona Pavia, dove la libreria Il delfino è una delle piùbelle d’Italia, ho scelto da anni di comprare i mieilibri su Internet».

Usato garantito

C’è una frase di Chamfort che ho trascritto nelmio quaderno di citazioni: “La plupart des livresd’à prèsent ont fair d’avoir ète faits en un jour,avec des livres lus de la ville” (la maggior parte deilibri di adesso sembra fatta in un giorno, con i libriletti un giorno prima). Se è vero che vengono pub-blicati 170 libri al giorno, è inevitabile che le libre-rie siano diventate magazzini di una merce a bre-vissima scadenza, per non dire scadente o scaden-tissima. Ormai bisogna andare in biblioteca pertrovare un libro uscito due o tre anni fa. L’annoscorso ho cercato Aprire Venere di Georges Didi-Huberman (Einaudi. 2001) per prepararmi allalezione che avrebbe tenuto agli studenti di Brera.Non l’ho trovato. La settimana scorsa ho cercato ilCanzoniere di Petrarca della Bur con la prefazionedi Zanzotto (ultima ristampa 2004) per un incon-tro di “pugilato letterario”. Non ho trovato nean-che quello, e sono finita ko. La responsabilità diquesta vergogna bisogna dividerla equamente tra ilibrai e gli editori, o bisogna imputarla tutta quan-ta agli editori? Non lo so: so solo che mi gira latesta, che mi viene da vomitare davanti a quei ban-coni di “novità” tutte lustre, tutte rilucenti, tuttestraelogiate, tutte strapubblicizzate. Domani mimetto alla ricerca di Fitzcarraldo di Herzog(Guanda 1982 e 1997), ma siccome “non ci hoscritto gioconda” – espressione sentita da Antonio

Di Pietro e che mi ha fatto tenerezza – non andròné alle Mondadori né alle Feltrinelli. So benissimodove posso trovarlo: prima tappa L’Atlante di viaTadino, poi il Libraccio di via Vittorio Veneto, poiil Trovalibri di viale Montenero a Milano… Per mele vere librerie, i luoghi dove si può comprare ilvero nutrimento della mente, sono le librerie dilibri vecchi e usati.

Patrizia Valduga (autrice di Lezione d’amore,Einaudi)

Dico no ai librai co.co.co

Io vado in una libreria grande a due vetrine, aTorino. È vicino casa e dentro c’è un libraio chese gli chiedo un libro, di norma sa che libro è. Losa anche se non è uscito nelle ultime due settima-ne, anche se non è pubblicato da un grande edi-tore. Di solito sa anche se è uscito da anni dalcatalogo. Poi ha un altro pregio: per lui la lettera-tura non si divide per generi, ma va tutta scaffa-lata insieme. Ecco, la mia libreria ideale ha a chefare con tutte queste cose. Vorrei una libreriagestita da chi ama i libri e li conosce. Vorrei nonveder sudare una commessa mentre cerca Guidagalattica per autostoppisti nello scaffale del turismo,o trovarmi a scrivere il nome di Malcolm Lowryperche il commesso non ne ha mai sentito parla-re. Per questo bisognerebbe investire anche sulpersonale. Non vorrei più vedere librai improvvi-sati e precari, librai a progetto, gente messa die-tro a un bancone di libri dopo essere passata peril bancone di un supermercato, per lo scooter diuna ditta che consegna pizze a domicilio o la cuf-fietta di un call center. Così facendo le libreriesaranno sempre più simili agli autogrill e sempremeno a quelle piccole botteghe di quartiere, dicui dovrebbero essere il potenziamento. Infinedalla mia libreria vorrei vedere scomparire lemille etichette, i mille generi sotto cui vienerubricata la letteratura. Vorrei poter trovarePhilip Dick dopo l’autore che lo precede in ordi-ne alfabetico, e non nella riserva della fantascien-za. Vorrei non vedere etichette con su scritto“romanzi rosa”, “thriller”, “polizieschi”, o“Torino scrive”, “romanzi gastronomici”. Vorreiche ai lettori fosse lasciato intatto il mistero dellaletteratura, e che non venissero programmati perprovare l’emozione scritta sulla scatola.

Andrea Bajani (autore di Mi spezzo ma non m’im-piego, Einaudi)

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 26

Rassegna stampa 15 maggio-16 giugno 2007

27

Una collana consolatoria

Il giorno in cui decido di andare in libreria è moltoprobabile che mi sia alzata con la luna di traverso.La libreria è uno di quei luoghi in cui spero di pla-care la tristezza, un altro luogo di spaccio pergente che cerca consolazioni durature ma a buonmercato, un luogo che non esiste, dunque.Raramente chiedo aiuto, solo quando quello checerco sono proprio sicura di non trovarlo. E sicco-me sono già di cattivo umore, per non aggiungereuna delusione generalmente mi avvicino al boxinformazioni chiedendo di prenotare il libro.

L’ultima volta che ero sicura di trovare il volu-me che cercavo è stata una vera disfatta. Ho chie-sto Romanzi e Racconti di Truman Capote, collana IMeridiani di Mondadori. Già decidere di compra-re un libro così costoso, con dentro opere cheavevo già letto, era sintomo di un grave disagio dacurare all’istante. In ogni caso non pensavo che unclassicone del genere potesse mancare in una libre-ria come la Feltrinelli di Bari, insomma ero certa dicavarmela e uscire dalla libreria con un sorriso.

Invece la perfida commessa, prima mi ha dettodi sì, poi, non trovandolo sullo scaffale, che sareb-be andata in magazzino a prenderlo. Ma io giàavevo capito come andava a finire: «L’abbiamo ven-duto», mi ha comunicato al ritorno. Venduto? Ma senon posso contare neppure sui Meridiani, cosa miresta, che certezze ho? Chi mi aiuta oggi? Comefaccio ad arrivare alla fine della giornata? Nella mialibreria ideale ci sono almeno i classici, tutti, le com-messe ti sorridono e, soprattutto, non ti illudono,perché quando non sorridono penso che ancheloro hanno una vita complicata e allora mi passapure la voglia di comprare, ma poi una volta fuorimi ricordo di essere triste e torno sui miei passi.Scusi, signorina, ma almeno Anna Karenina, cel’ha?». «Certo, glielo prendo?». «No grazie, era soloper sapere, ora sono più tranquilla».

Susi Brescia (autrice di Tu mi dai il male,Nutrimenti)

Bella vita in piccolo

Entro spesso in libreria ma non sempre con l’in-tenzione di comprare. Sono un modesto consu-matore di libri. Ne conservo pochi: a casa ne homeno di 200. Le immense collezioni degli scritto-ri mi lasciano indifferente. Entro nelle grandilibrerie perché sono luoghi accoglienti. In questestrutture posso permettermi di dare un’occhiatain giro. Non solo al libro. Si incontrano personeinteressanti nelle librerie. Il fatto è che conservoancora questa abitudine provinciale allo struscio,così preferisco fare le vasche nelle grandi librerie.La mia preferenza va alla Mel book di Roma.Puoi passarci l’intera giornata. Non ho pregiudi-zi verso le grandi librerie, voglio dire non pensoche le piccole siano, per forza, migliori. Anzi,quando entro nelle librerie non penso proprio aniente. Mi abbandono alla distrazione. Tuttaquella conoscenza contenuta nei libri forse nonmi apparterrà mai, non ho tempo per approfon-dire, però è bello che il mio sguardo sfiori i libriche mai potrò leggere. È bello, sensato che inqualche angolo della mia mente si dispongano,più o meno disordinatamente, titoli che ho intra-visto su uno scaffale. Spesso torna utile. Magarivedo una persona che dice al commesso di nonricordarsi il titolo di un libro che parlava di unargomento strano, che so, i fiori selvatici, o l’ar-redo urbano. E io ricordo che l’ho intravisto, quellibro, nello scaffale più avanti, appena in ombra.Così mi intrometto e gli suggerisco il titolo.Capita che poi, a titolo indovinato, ci mettiamo aparlare e facciamo conoscenza. Frequentarelibrerie è una pratica che mi concilia con la vita.A volte è bellissima, la vita. Ecco, questa frase miviene spesso in mente quando sono in libreria.

Antonio Pascale (autore di S’è fatta ora, mini-mum fax)

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 27

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 28

Parola d’ordine: «Aggredire tutto il mercato».Questa «filosofia» semplice ma tutt’altroche facile, Vittorio Avanzini, prima, suo

figlio Raffaello, adesso (direttore generale), la met-tono in pratica da quasi 40 anni con la NewtonCompton i cui attuali 30 mila titoli in catalogo (5-6 mila in produzione) dilagano dalle Alpi allaSicilia, dalla grande distribuzione agli uffici di«scouting» che l’impresa libraria con l’anima piùpopolare del nostro Paese (per questo, tappa inte-ressante nel nostro viaggio tra gli editori italiani «dipeso») ha aperto a Londra e a N.Y., diffondendo lesue oltre 20 collane. Dai manuali (accurati) ai clas-sici latini e greci con testo a fronte, ai «Libri chehanno cambiato il mondo» (l’iter, nel tempo, delCapitale e del Corano, dell’Origine della specie diDarwin, ecc); dalle opere complete dei grandidell’800-900, Dostoevskij e Kafka, Maupassant ePoe, ma anche Dante, Ariosto, Shakespeare, allastoria, ai grandi tascabili economici (ultimo, note-vole, le Foglie d’erba di Whitman), all’Italia tascabile,alle Guide insolite (a ruba i volumoni del«Gambero rozzo», ricette, osterie, agriturismi ecc).

E due assi nella manica1°: la distribuzione (spina nel fianco di quasi

tutti gli editori) che, spiega Avanzini jr., «facciamonoi stessi presso le grandi catene e nelle varieRegioni». 2°: i prezzi «stracciati». Parte integrantedella filosofia Avanzini. Cifre di copertina tra lepiù basse dell’editoria italiana. Qualche esempio,tra migliaia: a 5 euro Le relazioni pericolose così comeL’amante di Lady Chatterley o Madame Bovary nellatraduzione di Lunetta-Muscatiello; per 30 euro i 5tomi di Tutto Plauto a cura di Paratore; per 25,98euro l’integrale di Leopardi a cura di uno dei suoimassimi studiosi, Lucio Felici, e di EmanueleTrevi; per 12,90 Tutto Wilde, traduzione, curatela einediti di un grande anglista come Masolino

d’Amico e, tra pochi giorni, un Don Chisciotte tra-dotto da Alessandra Riccio dell’Orientale diNapoli. Con questi e molti altri titoli la Newton halavato anche una sua non piccola macchia, propriolegata alle traduzioni: da dimenticare quella (moltianni fa) di Fiesta di Hemingway.

Anagramma, VertigoForti di 22 milioni di euro di fatturato, 18

dipendenti stabili, tre editor, Cristiano Armati,Chiara Ferrari, Martina Rinaldi, gli Avanzini pun-tano adesso parecchio sul romanzo contempora-neo. Si è consolidata la «Nuova narrativaNewton» da cui è uscito ora Il profumo della neve diMatteucci, tra i candidati allo Strega e dove arri-veranno in autunno La compagnia P.38 – Unromanzo delle B.R. di Dario Morgante e la newentry americana Scarlett Thomas con Che fine hafatto Mr.Y, una Alice postmoderna. Nata due annifa, «Anagramma» ha qualche tendenza chick lit.Autrici di punta: la giovane Federica Bosco alterzo libro L’amore non fa per me, 40 mila copie inun mese (secondo l’editore 100 mila con i dueprecedenti) e l’esordiente Raffaella Bedini, traMoccia e il primo Brizzi, con Sei parte di me, men-tre a ottobre uscirà Mi vendo, dal blog di unaragazza che dà il proprio corpo per avere un lavo-ro, a firma di Saradisperata, nom de plume sintroppo esplicativo. E, alle porte, la collana piùnuova, «Vertigo». Aggressiva sui temi di oggi. Tretitoli iniziali: Amore senza amore della giornalista-poetessa Usa Michelle T, un «on the road» al fem-minile; Mi chiamo Billie Morgan e sono un’assassina,giallo esistenziale dell’inglese Joolz Denby; masoprattutto Islampunk di Michael MuhammadKnight, storia di un gruppo di ragazzi americani,ribelli, progressisti, sognatori tra rigide regole etrasgressione, romanzo in presa diretta, control’Islam più ortodosso. Collana dedicata in parti-

Grandi Libri per pochi euro

Mirella Appiotti, Tuttolibri – La Stampa, 2 giugno 2007

Newton Compton, dai classici greci e latini ai capolavori del nostro tempo in edizioniaccurate ed economiche, alle porte la collana «Vertigo», aggressiva sui temi di oggi,dedicata in particolare ai giovani

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 29

Oblique Studio

30

colare ai giovani. Come un po’ tutto il lavoro,politica dei prezzi in primo luogo, degli Avanzini.

Il massimo merito di quel grande, simpatico,bazar che è la Newton Compton.

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 30

“Non sono venuto al mondo per ren-derle la vita facile”, ha dichiaratoPhilip Roth poco prima dell’uscita

di Everyman a un giornalista che gli faceva notarecome la conversazione appena conclusa non fossestata un’esperienza rilassante. “È un grande scrit-tore, ma forse era meglio non incontrarlo…”, que-sto invece è il coro sollevatosi lo scorso aprile allaColumbia University in occasione del conferimen-to a Roth del Grinzane Master Award, dopo chel’autore di Pastorale americana aveva trattato la mag-gior parte dei presenti alla stregua di fastidiosisoprammobili parlanti limitando il discorso com-memorativo per Primo Levi a qualche stralcio diuna sua conversazione con lo scrittore torinesepubblicata da anni. “Ma mi state lasciando andare!Me la sono goduta nel mio modo rivoltante anco-ra una volta! E mi state lasciando andare!”, questoinfine, qualcuno lo avrà riconosciuto, è MickeySabbath, forse il più scatenato tra i personaggi diRoth: inveisce contro un poliziotto che lo ha gra-ziato dopo averlo sorpreso a pisciare sulla tombadi sua madre (la madre del poliziotto…) nonchéamante adulterina di Sabbath.

Philip Roth è arrivato a 74 anni complicando lavita a chiunque abbia avuto a che fare con lui oltrele pagine stampate. E se il carattere difficile deisuoi personaggi gli ha assicurato un posto d’onorenella letteratura americana del secondoNovecento, il suo carattere difficile, la scontrosa,intransigente accoglienza che riserva a chi cerca diintervistarlo o di blandirlo con l’immancabile stru-mento adulatorio del travisamento poetico, lo haaiutato a invecchiare conservando egoismo e per-sonalità, tutto ciò che insomma contribuisce afecondare una categoria umana sempre più arischio: l’individuo. Non è annegato nell’alcolcome Fitzgerald. Non ha lasciato che la propriariserva aurea si trasformasse in uno strumento di

rovina come Capote con la high society. Non èstato sfiorato dalla tentazione messianica dell’invi-sibilità come Salinger e Pynchon. Solo la sua fedenei limiti umani, una fede senza sbocchi escatolo-gici fuori da un feroce amore per la mortalità intutte le sue forme, soltanto questo probabilmentegli ha consentito di non restare vittima del rise andfall in salsa cristica che l’occidente utilizza datempo come trono e patibolo per la fama.

Il primo libro di Roth è del ’59. Soltanto treanni dopo esordirà su vinile un altro personag-gio destinato a diventare un’icona a stelle e stri-sce, di ceppo ebraico come Roth, e come luidotato di un carattere autarchico e per nienteconciliante. Si tratta di Bob Dylan, appena torna-to a suonare in Italia e riportato in libreria daFeltrinelli con Tarantula, suo primo e unicoromanzo, ritradotto e commentato in una nuovaedizione. E d’accordo, si tratta di un libro pres-soché illeggibile, uno spericolato tentativo diconvertire alla propria cifra William Blake, cut-up burroughsiano e Friedrich Nietzsche, un’im-presa superiore alle forze del menestrello diDuluth. Ma come dire… certi fallimenti (purchémolto fragorosi e altrettanto personali) meritanomolta più attenzione dei piccoli trionfi di chi hal’epigonismo come bussola.

“Il successo è l’altra faccia della persecuzio-ne…”, diceva sconsolato Pasolini in una trasmis-sione televisiva di tanti anni fa. Sia Roth cheDylan sono stati però talmente fedeli all’ideolo-gia della propria individualità artistica da intuireche sputare sulla fama rischiava di essere a suavolta l’altra faccia del narcisismo da celebrityskin: un’assicurazione sulla futura prevedibilità.Riuscire nell’impresa di essere se stessi conser-vandosi vivi vuol dire tutelare, senza ammae-strarlo, il patrimonio di contraddittorietà propriodi ogni essere umano. E per questo un cattivo

Roth e Dylan e l’elogio del cattivo carattere

Nicola Lagioia, www.nazioneindiana.it, 3 giugno 2007

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 31

Oblique Studio

32

carattere è fondamentale. Il risultato è una salvi-fica inafferrabilità. Ecco Dylan che canta “Weare the World” dietro l’innocuo carrozzone diUsa for Africa. Ma eccolo offendere i folk-addic-ted con la provvidenziale “svolta elettrica” diNewport ed eccolo, anni dopo, spiazzare i fansabotando le proprie canzoni, smembrate daarrangiamenti vocali in bilico tra ridicolo e subli-me. Ed ecco Philip Roth: riceve tutto impettito ilpremio Pulitzer… Ma eccolo brutalizzare ungiornalista che gli ha dato del “jewish writer” edeccolo dichiarare, lui che ha insegnato aPrinceton: “sarebbe meraviglioso stabilire unamoratoria sulle discussioni letterarie, e se si chiu-dessero i dipartimenti di letteratura, se i criticifossero banditi”.

Il cattivo carattere salva se stessi, ma non èdetto che rispetto al mondo non risenta del tra-scorrere del tempo. Dylan e Roth, oltre a quella diun enorme talento, hanno avuto la fortuna di vive-re in un paese e in un periodo storico capaci di farfiorire grandi individualità sul territorio del mid-dlebrow. Anche l’arte ci ha guadagnato. Difficileimmaginare Alex Portnoy o lo Svedese o ColemanSilk al di là della cortina di ferro, come è difficileche fuori dal narcisistico eppure miracolosamentedisordinato fervore delle sottoculture giovanilipotesse nascere un capolavoro come Blonde onBlonde. E però, se l’arte è una buona cartina di tor-nasole per capire dove va il mondo, stiamo forseparlando di un’epoca in declino.

Prendiamo Everyman, l’ultimo romanzo diRoth. Non la sua prova migliore, ma non è que-sto il punto. Nel libro come al solito trionfa l’in-dividualismo del suo protagonista – imperfetto,rancoroso, ansioso di dare e ricevere amore enefandezze, in viaggio come tutti verso la mortema capace di fare della propria identità duramen-te guadagnata sul campo una grande lezione dietica. Si è detto che questo romanzo, nella sua

icastica secchezza, è un compendio del Roth-pensiero. Tuttavia, a differenza dei libri prece-denti, qui non è la sfrenata potenza vitalisticadella scrittura a comporre “fisicamente” un’ideadi mondo ma il contrario: una precedente idea dimondo sottomette la scrittura al suo statuto.Trattasi, per la prima volta nel caso di Roth, diromanzo a tesi, così come per la prima volta ilprotagonista principale di un suo libro non ha unnome. Quanto basta a far pensare che Everyman(consapevole o meno Roth) non sia tanto la cartacostituzionale dell’universo del suo autore ma undignitosissimo, toccante congedo, attuato pro-prio in virtù del fattto che questa poetica ricevein qualche modo una codificazione.Analogamente, Modern Times, l’ultimo album diDylan, è un pregevole esercizio di inattualità. Ilsuo ascolto rigenera, ma non si fa tutt’uno con lozeitgeist come a suo tempo Highway 61. E anchele canzoni storpiate, e il ventennale neverendingtour… più che sistemi per sconvolgere il propriotempo sono eroici tentativi di ipnotizzarlo, sal-vando il loro fautore da un’epoca in cui tenersiun’identità comincia a diventare un eserciziodisperato. Dylan e Roth insomma ce l’hannofatta. Ma chi nell’89 non aveva ancora vent’anni?Ecco, questo il problema, questo un motivo ulte-riore per scavare nel loro enorme patrimonio. Aldi qua e al di là delle pagine stampate e dei cd,qual è lo spazio per l’individuo in una societàche, più che cercare un interprete a cui fare pontid’oro o un eretico da perseguitare per più di cin-que minuti, è soprattutto interessata a racconta-re in automatico se stessa attraverso i media, lospettacolo, il teatro della politica e della religione– non un’intelligenza collettiva come volevano leanime belle all’alba del XXI secolo, ma un’infal-libile maccina acefala per la gestione del potere?Un Mickey Sabbath è ancora possibile, ad esem-pio? E il cattivo carattere, da solo, può bastare?

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 32

Quando volevo scuotere le donne che siatteggiavano a svenevoli le descrivevocome esseri antiquati, fuori moda, alla Scott

Fitzgerald, anche se non ne avevo mai letto unariga”, confessa Sheila Graham al momento del suoincontro con lo scrittore ormai quarantenne. Se sipensa che la futura amante di Scott non aveva mol-ti meno anni di lui, si può capire come lo conside-rasse Budd Schulberg, che ne aveva venticinque.

“È successo a Hollywood, nel 1939. Il produt-tore non era soddisfatto di una mia sceneggiaturae mi aveva fatto chiamare per avvertirmi cheavevano messo un altro a lavorare su quello cheavevo scritto. Avremmo dovuto rivederla insieme.Quando ho chiesto chi era, mi ha risposto che eraFrancis Scott Fitzgerald. Io ho pensato che scher-zasse, perché credevo che Fitzgerald fosse morto,ma il produttore mi disse che non soltanto eravivo, ma si trovava nella stanza accanto, intento aleggere il mio lavoro”.

In realtà Scott era peggio che morto, era passa-to di moda come il suo mondo, il jazz e lemaschiette, spazzato via dalla crisi del 1929. “Mifaceva pena vederlo ignorato dai suoi contempora-nei. Dovunque andassi non trovavo nessuno deisuoi libri, nessun editore li ripubblicava”.

Per questo Fitzgerald era stato chiamato da unproduttore di Hollywood, Walter Wanger, a lavo-rare con quello sceneggiatore di primo pelo suun’insulsa sceneggiatura, “Carnevale sul ghiaccio”,imperniato sulla festa annuale di un college delNew Hampshire. Per l’autore del “GrandeGatsby” era già un duro colpo dover collaborarecon un principiante. Inoltre, spiega la Graham,Schulberg non era riuscito a nascondere la sua sor-presa di trovarsi davanti ancora in vita uno dei suoiidoli letterari. Però Scott amava la giovinezza eaveva sempre aiutato generosamente i debuttanti,quindi era stato gentile con Budd.

“Il nostro rapporto era cominciato subito con imigliori auspici. Ero molto giovane. Mi ero laurea-to due anni prima e conoscevo a memoria tutte leopere di Scott Fitzgerald. Ho cominciato a parlaredicendogli quanto mi avevano colpito i suoi libri.Lui era rimasto impressionato e lusingato vedendofino a che punto conoscevo tutto quello che avevascritto. Da quel momento avevamo iniziato a sco-prire quante cose avevamo in comune. Entrambiamavamo lo sport ed eravamo preoccupati perl’avanzata del fascismo in Europa. Tutti e due era-vamo affascinati dalla nostra generazione e, discu-tendo sulla differenza tra le due generazioni, era-vamo andati a mangiare insieme”.

Per capire la distanza che li separava, basta con-frontare le loro foto di quel periodo. Fitzgerald eraancora bello, aveva ancora i capelli divisi da unaperfetta scriminatura, la cravatta squisitamenteannodata e la vecchia giacca di Brooks ben stirata,ma era il fantasma di se stesso. “Sembrava moltoanziano, depresso e vagamente decrepito… porta-va una giacca di tweed spigato”.

Schulberg, senza cravatta, con i capelli ricciuti,la barba lunga e un’aria decisa era l’emblema diuna generazione impegnata a rigenerare il mondoche era crollato sotto i loro piedi quando eranobambini. Un mondo che adesso sembrava lorosoltanto una frivola, sterile illusione. Ma a Scottnon era crollata addosso soltanto la Borsa ameri-cana, ma anche la salute mentale della moglie,ormai definitivamente compromessa, e, ancorapeggio, ogni certezza sul suo talento.

“Parlava spesso del “Grande Gatsby”; secondolui era il suo libro migliore e confessava che l’annoprima aveva ricevuto tredici dollari di diritti. Nonera giusto… Una volta, avendo sentito che aHollywood recitavano una sua commedia, Scott siera eccitato, aveva affittato una limousine ed eraandato a vederla vestito da sera, insieme alla sua

Il tramonto del giovane Gatsby

Giuseppe Scaraffia, Il Foglio, 4 giugno 2007

Uscirà nei prossimi giorni “I disincantati” di Budd Schulberg (Sellerio, p. 612, euro15), il romanzo biografico sulla vita di Francis Scott Fitzgerald. Pubblichiamo la pre-fazione.

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 33

Oblique Studio

34

compagna di allora, Sheilah Graham. Solo che,arrivato al teatro, si era accorto che a metterla inscena era stata un gruppo di studenti. Questi poierano caduti dalle nuvole vedendo che Scott, cheloro credevano morto, era lì davanti a loro. Fitzge-rald però era stato gentilissimo e aveva tenuto acomplimentarsi con tutti”.

Per anni era stato un autore, anzi l’autore disuccesso. Lui e la moglie, belli ed eleganti comedue divi di Hollywood, rappresentavano sulle co-pertine delle riviste la nuova, spensierata genera-zione. Molti anni dopo, benché Zelda fosseormai confinata in una clinica, Scott non volevasepararsi da lei per non indebolirla ulteriormen-te e per non deludere la figlia, Scottie. Non eracambiato. “Fitzgerald era l’ultima incarnazionedel romantico. Tendeva sempre a idealizzarle e aidolatrarle. Per questo le faceva diventare cosìbelle nei suoi romanzi”.

Schulberg non sapeva che il suo compagno eraalcolizzato. “Non me ne rendevo conto”. Buddaveva involontariamente causato la ricaduta,offrendogli una magnum di champagne duranteun viaggio in aereo per fare una ricognizione suiluoghi del “Carnevale sul ghiaccio”. Sheila lo avevaaccompagnato per vegliare su di lui, come avevacercato di fare per tutta la durata del loro rappor-to, ma si era addormentata mentre i due discuteva-no allegramente sul copione. All’alba era traseco-lata vedendo il terribile pallore dell’amato. QuandoScott si ubriacava la sua testa diventava simile a unteschio. In un primo momento l’aveva attribuitoall’insonnia o a un ritorno della febbre che l’avevatormentato negli ultimi tempi. Poi aveva capito.Come a ogni alcolizzato, a Fitzgerald bastava unbicchiere per ricadere sotto la dipendenza. Quellainfatti era stata la prima di una serie di bevute cheerano culminate in una spettacolare sbornia alWinter Carnival. “Quando siamo arrivati a NewYork, Scott ha cominciato a bere. Il produttore,vedendolo bere, si è arrabbiato moltissimo.Contava su di me per tenerlo lontano dall’alcool,ma io non ne sapevo nulla perché nessuno mi ave-va avvertito e ci sono rimasto malissimo”. Ilmagnate, irritato, lo aveva licenziato e lo scrittore,già provato dal diabete, era stato costretto adisintossicarsi in un ospedale di New York.

Quando un amico, deluso, gli aveva scritto chenon gli avrebbe più prestato del denaro, Scott gliaveva replicato duramente. Era vero, aveva “vissu-to pericolosamente” e lo doveva pagare, “ma c’è

un’infinità di altra gente che può dirmelo e non misembra che questo compito spetti a te”.

Schulberg aveva sviluppato un vivo senso dicolpa per quell’episodio. Il lavoro era finito, manon avrebbe più dimenticato quell’incontro.“Scott Fitzgerald aveva una personalità moltoaffascinante. Era estremamente generoso con igiovani scrittori, era molto divertente. La sua con-versazione era vivace e piena di battute di spirito.Era incantevole, era impossibile non essernesedotti. Spesso, in questi anni, quando faccio delleconferenze su di lui, penso quanto sia ingiusto cheScott non abbia potuto godere del suo successo,mentre allora era in uno stato esecrabile, senza unsoldo, ignorato da tutti”.

Da quel confronto con la precoce rovina di uncreatore geniale, era nato “I disincantati”.“Quando l’ho scritto, negli Stati Uniti circolava unproverbio: ‘Niente è più difficile da digerire delsuccesso’. In effetti la vita di Scott Fitzgerald è ladimostrazione vivente del proverbio. Il mioprotagonista, che è un Fitzgerald appena ca-muffato, sperimenta una serie di rovesci, dopoessere stato il prediletto della letteratura americanadegli anni Venti. Negli Usa le cadute dopo un suc-cesso improvviso possono essere ancora piùdistruttive che in qualsiasi altro paese del mondo.Da noi chi pubblica un libro di successo deveaffrontare l’inevitabile domanda: ‘Cosa sta prepa-rando per la prossima volta?’. E via di seguito: ‘Epoi? E poi?’ È come se la febbre hollywoodiana sifosse diffusa ovunque”.

La trama è apparentemente semplice. Shep,uno sceneggiatore ventenne, ansioso di guadagna-re abbastanza per sposarsi, ha lucidamente scrittouna sceneggiatura banale, lontana da quelli checonsidera i suoi maestri, da Malraux a ManleyHallyday, specchio affettuoso e impietoso diFitzgerald. Quando scopre che l’onnipotenteVictor Milgrim gli ha assegnato come compagnodi lavoro il grande Hallyday, idolo dimenticatodegli anni folli, è imbarazzato e felice. La loro col-laborazione diventa in breve una vera amicizia esoprattutto un dialogo tra generazioni.

Tra bar e anticamere hollywoodiane, treni dilusso e notti senza sonno, Shep impara a conosce-re quel mito vivente. Logorato dalle feste ininter-rotte dell’età del jazz e dalle sue sciagure persona-li, Manley, che ha scritto i libri più belli della suaepoca, non riesce a lavorare sui mediocri copioniche gli vengono proposti. Turbato e partecipe, il

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 34

Rassegna stampa 15 maggio-16 giugno 2007

35

giovanotto cerca di aiutarlo. Non a caso, con untipico lapsus, Schulberg assegna ad Ann, la sosia diSheilah Graham, le sue origini famigliari.

Essere figlio di un affermato produttoreaveva aiutato Budd a vedere lucidamente le insi-die della capitale del cinema. “Hollywood potevaessere una dura esperienza per gli scrittori chefacevano gli sceneggiatori. Era umiliante perchépersino un bravo scrittore come Dorothy Parker,con cui ho lavorato, poteva essere assunto lune-dì e licenziato giovedì. La maggior parte degliautori, per lo meno i più intelligenti, passava iltempo a ridere alle spalle dei produttori. Ma eraun vero lavoro: esigevano che tu entrassi allenove e uscissi alle cinque come in un qualsiasiufficio. Malgrado il sistema fosse opprimente eumiliante, sono molte le grandi firme dell’epocache ci hanno lavorato. Era pieno di sceneggiato-ri che si lamentavano ogni momento, ma riusci-vano a fare delle ottime sceneggiature”.

Un successo non esente da rischi. Infatti “pergli autori Hollywood era soprattutto l’occasioneper guadagnare. Il loro piano era sempre quello diandarci per guadagnare abbastanza soldi e tornareal loro vero lavoro: i romanzi o le commedie. Ineffetti riuscivano a metterne insieme molto più chein qualsiasi altro posto. Anche Fitzgerald la pensa-va così. Era venuto per salvarsi da una situazioneeconomica disastrosa e, una volta ottenuto loscopo, tornare al suo romanzo, “Gli ultimi fuochi”.

Il racconto si snoda su due tempi: la malinconi-ca decadenza di Halliday e la rievocazione del suodissipato, a volte tragico passato. Manley infattinon riesce a dimenticare la stupenda, eccentricamoglie Jere, riflesso appannato di Zelda Fitzgerald,i momenti perfetti e le terribili crisi di follia.

Epica l’evocazione della festa in onore dellacontrofigura di Rintintin: una folla elegante di invi-tati che balla e si ubriaca intorno a un mansueto ca-nelupo. Alla luce della luna, una stellina si tuffanuda nell’acqua. “Quando sarebbe stata vecchia sisarebbe ricordata che la sua giovinezza aveva illu-

minato una piscina più vivacemente di tutte le lucicolorate”. Solo la scomparsa di Jere con un giova-notto turba il padrone di casa. Poi l’equilibrio siincrina improvvisamente. La moglie gli annunciache sta per andarsene con un affascinante invitato.“Non mi pareva carino lasciarti senza dirtelo”. Ilcane, stuzzicato da una biondina, la morde e abba-ia istericamente. Gli ospiti se ne vanno e Manley,straziato, affonda in un’orgia di liquori.

Shep rimane perplesso sullo scrittore decaduto“che non è più niente, quasi una piuma, un pac-chetto d’ossa e di ricordi”. Lo disapprova e loammira. Sarà la lettura del libro che Manley statentando di strappare all’alcolismo, al diabete eall’autocommiserazione a colpirlo intimamente.“Com’era possibile che un individualista irre-sponsabile, immerso nella confusione, scrivesseuna sorta di apocalissi impressionante, profondadi una situazione sociale in decomposizione?”.

Il libro uscì nel 1950, dieci anni dopo la mortedi Scott, a quarantaquattro anni. Il risultato è unastoria d’amore e morte trascinante, insieme fitz-geraldiano e schulberghiano, un originale e unafotocopia d’autore. Da sempre invidioso diFitzgerald, cui tanto doveva, Ernest Hemingwaynon gradì il romanzo-verità di Schulberg. Primalo definì un porco da appendere a testa in giù,poi un tombarolo.

Temeva in realtà che “I disincantati” contri-buisse al rilancio di Scott. Preferiva denigrare per-sonalmente l’amico, “un ubriacone e un bugiardo,disonesto sui soldi e col talento innato di un ange-lo pauroso”. D’altronde non era un caso isolato.Nel tragico riflesso della vita di Scott persino gliamici come Dorothy Parker temevano inconscia-mente di scorgere quello che li attendeva. AncheShep, nel romanzo, pensa davanti a Manley in ago-nia che è meglio che muoia. “Che venga calatonella tomba, in modo che i suoi discepoli possanocominciare ad adorarlo, e che i suoi lettori possa-no gustare il piacere della riscoperta. Seppelliamoi resti: incominci la resurrezione di Halliday”.

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 35

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 36

“Ipersecutori”: questo il titolo scelto daTranseuropa per la sua antologia di scrit-tori italiani. Tutti suppergiù tra i 35 e i 45

anni, molti legati al blog “Nazione Indiana”, alcu-ni famosi e altri no, sono tra il meglio della nuovagenerazione di autori.

Christian Raimo apre la raccolta in modo stra-niante con l’amicizia in lotta contro l’amore di“L’anno prima dell’anno del Dragone”. Sullo sfon-do di un rapporto a tre, i rabbiosi funerali diGiovanni Falcone a Palermo. In “Sono io il colpevo-le”, Gianni Biondillo è alle prese con le violenze aldisabile nella scuola torinese finite su youtube.com,di cui si è molto parlato qualche mese fa. Lo scritto-re milanese conferma l’impressione di avere al suoarco frecce più taglienti di quelle che mette abitual-mente a disposizione dell’ispettore Ferraro a cuideve la fama. Tommaso Ottonieri propone“Clinamen” una scheggia antinarrativa, ricca di unnichilismo percussivo che richiama l’ultimoManganelli della “Palude definitiva”. ValerioEvangelisti lascia da parte l’inquisitore Eymerich emette in pagina la vicenda di Rachid, un terroristapalestinese imprigionato nel carcere di Guantanamo.Con “Profezie per il XXI secolo” Davide Bregola sidedica a uno strano rito messianico a metà tra l’os-sessione e il teatro, in cui viene fuori una visione delmondo più che inquietante. In “Gabbiani a LasVegas” Carlo D’Amicis approfondisce il sentimentodella perdita attraverso il party commemorativo diun soldato americano ucciso in Iraq.

Molto interessanti anche i due racconti piùpalesemente autobiografici: “Ipotesi su Anna” diHelena Janeczek, l’unica donna presente nellaraccolta, e “Appunti e amputazioni” di GiorgioVasta. Il primo è un resoconto freddo eppurepartecipato dei fatti immediatamente successiviall’omicidio di Anna Politkovskaja, la giornalistache aveva denunciato le atrocità commesse dal-l’esercito russo in Cecenia. Il racconto di Vastanarra un viaggio nei Paesi dell’ex Jugoslavia, lacui geografia etica sembra stare tra gli estremidei ragazzi con braccia e gambe amputate duran-te la recente guerra e le nuove strutture turistichededicate ai visitatori internazionali. Sempre divacanza parla Francesco Longo in “Le ombredel promontorio”. Centro del racconto le rela-zioni esistenti tra ragazzi che vivono la spiaggiaquasi come proiezione di un desiderio sessualeinappagato.

A una serie di amori omosessuali assai acciden-tati riserva invece le attenzioni Giulio Milani in“Le guerre di Babilonia”, insieme a Marco Rovelli,anch’egli presente con il racconto “L’oroscopo diVlad”, mente della raccolta e firmatario dell’intro-duzione a “I persecutori”.

Un’ottima antologia che ruota intorno al temadella quotidianità del male e che ha forse comeunica nota stonata l’ammiccante titolo-marchio.Perfetto comunque per giornalisti pigri e criticiamanti delle etichette, tanto apprezzati dai diretto-ri marketing delle case editrici.

I persecutori AA. VV.

Silvio Bernelli, www.ilprimoamore.com, 4 giugno 2007

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 37

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 38

Non è la realtà che Céline dipinge, ma l’al-lucinazione che la realtà provoca», scriveAndré Gide con una delle sue formule

illuminanti: e questo è anche – o più che mai –Rigodon, l’ultimo romanzo del narratore francese,scritto tra il 1960 e il 1961 e pubblicato postumoda Gallimard solo nel 1969, dopo che la moglie,Lucette Destouches, detta Lili (Destouches era, losi sa, il vero nome di Céline) riesce a fatica a deci-frare il tormentatissimo manoscritto (come tuttiquelli dell’autore) e darlo finalmente alle stampe.Céline muore infatti il giorno dopo averlo termi-nato, il 1° luglio 1961, lasciando molti problemitestuali aperti – considerato che per lui la revisio-ne finale avveniva in sede di copiatura in bella.

Esce in Italia la prima traduzione di Rigodon inuna lingua straniera: nel 1970, da Bompiani, a curadi Ginevra Bompiani, quindi non più da allora finoal 1994, anno in cui Einaudi pubblica la cosiddet-ta «trilogia tedesca», di cui Rigodon è l’ultimo atto,nella Pléiade italiana, di Henri Godard gli apparaticritici e di Giuseppe Guglielmi la versione. È que-sta appunto ripresa ora dalla stessa casa editriceper la nuova collana di classici del Novecento, le«Letture Einaudi», dove Rigodon compare in volu-me singolo e con introduzione di MassimoRaffaeli (pagg. 271, euro 17,00).

Il suo autore lo chiama una «divagazioneattraverso un paesaggio», indicazione da cui rica-viamo il significato profondo del libro, quello divagabondaggio più o meno insensato: del restosia dal titolo pensato in origine, Colin-maillard(Mosca cieca), sia da quello definitivo («rigodon»è una danza che avviene sul posto, ma si diceanche per un colpo messo a segno), emerge lospaesamento che domina nella materia narrata,viaggio – tra «quante giravolte, fermate, zig-zag!...» – della coppia e del loro gatto Bébertdalla Parigi del giugno 1944 (divenuta terreno

minato per un personaggio come Céline, accusa-to di collaborazionismo) alla Danimarca, attra-verso una Germania devastata dai bombarda-menti degli Alleati, Germania, appunto, bersa-glio evidentemente sempre centrato.

Lo scopo del viaggio è dichiarato quasi in con-clusione di libro, nel racconto dell’arrivo alla fron-tiera danese su un treno della Croce Rossa – unodei tanti che cambiano negli otto o nove mesi dipercorso – : «\ tutti i diritti delle mie opere cosìbelle, all’incirca sei milioni di franchi, erano su alnord... mica alla ventura: in cassaforte e in banca...adesso lo posso dire Landsman Bank... Peter BangWej...». (In realtà questi diritti erano stati converti-ti in oro, affidato ad un’amica, e da lei in partespeso, quindi finito nelle mani dell’avvocato che liospiterà durante il loro soggiorno danese, duratofino al 1951: insomma di esso ai coniugiDestouches toccherà poco o nulla.)

Assolutamente disinteressato alla fedeltà aifatti o alla cronologia – tant’è che alcune vicendedi Nord, il secondo libro della trilogia, dopo Daun castello all’altro, ne precedono altre narrate inRigodon – Céline sceglie il sapiente gioco narrati-vo tra invenzione e autobiografia, tenendosicostantemente su un crinale che avvince il lettoredalla prima all’ultima pagina, sull’onda della peti-te musique dello stile (l’intera opera di Céline è«un’impresa di linguaggio», come scrive Godard;e di «pagina-spartito» parla qui Raffaeli): studia-tissimo anch’esso sotto le apparenze di immedia-tezza e spontaneità, un francese sfruttato nellesue più segrete risorse, così come appare dall’ana-lisi degli autografi, dalle molte versioni successi-ve (anche se non forse le 80.000 pagine che dice-va fossero quelle scritte per ciascun romanzo). Etutto ciò per evitare al massimo grado ciò chechiamava «lo stile Bourget»: ordinato, piano, con-sequenziale, «accademico».

Céline, viaggio alla fine dell’Europa

Idolina Landolfi, il Giornale, 5 giugno 2007

Il narratore francese lo terminò il giorno prima di morire: esce una nuova edizione deltormentato «Rigodon»

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 39

Oblique Studio

40

In Rigodon, certo, il pericolo non c’è: la scrit-tura, quest’opera di «seduzione» della pagina(«Quando si scrive, il foglio di carta, la pagina sene fotte... Bisogna sedurla»), scorre senza lascia-re un attimo di respiro, tra digressioni e imperio-si richiami all’ordine, nella consapevolezza diquanto sia importante, per la riuscita del suolavoro, la complicità del lettore: «Io mi perdoancora! al fatto! Al fatto!...»; «Io divago, sto perperdervi...».

Tra scene da bolgia dantesca, il trio – «io, Lili eBébert nel tascapane» è la dizione cento volte ripe-tuta – passa di apocalisse in apocalisse, in cittàappena incendiate dalle bombe al fosforo dellaRaf, tra assalti ai treni zeppi all’inverosimile («noi lìdentro, nella mucchia di ’ste donne baltiche \ nelloro mesci mesci di culoni, meloni, braccia e capel-li... incastrati, ingrovigliati di modo che non possa-no mica tanto buttarci fuori... a me almeno trecosce e un piede attorno al collo... sopra latesta...»), le attese interminabili nelle stazioni, isonni da desti («ci sono mica solo che le sirene deitetti, ci sono quelle del didentro, che non fannoalcun rumore, che ti tengono ben sveglio»), scam-pando miracolosamente alle raffiche, unendosi divolta in volta ad occasionali compagni di viaggio:e siano il vecchio italiano svanito, il pompiere, unaquindicina di bambini anormali, che essi portano

con sé, e salvano facendoli passare per svedesi emettendoli su un convoglio speciale.

Indimenticabili, e stravoltamente pietose, le suepotenti descrizioni delle città in rovina, l’odoredella carne bruciata, della decomposizione; i solda-ti morti di Hannover, ritti contro i muri delle case,inchiodati dallo spostamento d’aria delle mine; oAmburgo, la città del catrame fuso che imprigionacorpi e pezzi di corpi, novella Pompei i cui abitan-ti sono sorpresi dalla morte nell’atto di una fugaimpossibile: «un uomo, una donna e un bambino...il bambino nel mezzo... si tengono ancora per lamano... e un cagnetto accanto...».

E tuttavia la bellezza di simili visioni da piane-ta morente, che Céline, da scrittore, non puòrinunciare a «vedere»: i colori delle fiamme causa-te dal fosforo, «fiamme a vortici, come più su... piùalte... più danzanti... verdi... rosa... tra i muri... \come dei fantasmi rosa violacei... sopra a ognicasa... migliaia di case!...»; o la bellezza dellebombe, persino: «ciò che è bello soprattutto sonole esplosioni, le bombe che vengono a schiantarvi-si in giganteschi fiori verdi.. rossi e azzurri... \ deifiori di dieci metri di larghezza... almeno... bisognaavere visto...».

Come non può rinunciare alla sua amara, tragi-ca comicità, estrema tule di un mondo destinato afinire, esito estremo della volontà di sopravvivere.

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 40

Non sono un manzoniano di stretta osser-vanza, ma il dibattito che si sta trascinan-do da qualche settimana tra scrittori e su

scrittori italiani delle ultime generazioni mi ricordairresistibilmente l’incontro tra Renzo Tramaglino eAzzeccagarbugli, l’equivoco avvocato, con parti-colare riferimento ai pennuti portati da Renzo inomaggio e che non smettono mai di beccarsi.

Bisogna dire che i dibattiti teorici e sui princìpiletterari sono una consuetudine italiana più chesecolare, e in buona sostanza rimangono al livellodell’astrazione, senza alcun rapporto concreto conil nodo cruciale della creatività. Ma ciò che emer-ge vigorosamente in queste astiose – qualche volta– e banali – sempre – discussioni investe l’imperio-sa preponderanza del luogo comune.

Cominciamo dal rapporto tra realtà, storie estorie, fantasia, invenzione. Credevo, tra l’altro, chegli interrogativi tra verità e finzione, tra realtà einvenzione fantastica, avessero trovato una sanzio-ne basilare in Pirandello, che mi sembra nessunodei contendenti sia incline a citare. Parallelamente,il dibattito sull’engagement (in questi casi si ricorresempre alle fonti francesi, in primo luogo Sartre)tenne banco negli anni del secondo dopoguerra –uno dei protagonisti espliciti fu Elio Vittorini –per esaurirsi o, se preferite, introiettarsi nelle moti-vazioni della letteratura.

Poi, come sappiamo, è arrivato Samuel Becketta rimettere tutto in gioco, non meno di HaroldPinter. Mi colpisce, però, la presa di posizione, direcente su «La Stampa» di Paola Mastrocola, laquale è tra coloro che, rifiutando «di tuffare lemani» – riferisce Maria Giulia Minetti – «nella“realtà bruta”», scommettono sulle finzioni, sot-tolineando – oh, mirabile scoperta – che la lette-ratura è finzione. Insomma, viva Ariosto, viva l’ip-pogrifo. Non manca un riferimento al termineinglese per designare la narrativa, fiction. Ora, biso-

gna dire che come al solito gli inglesi sono arriva-ti per primi, addirittura nel Settecento. Fu allorache nacque il termine fiction, in contrapposizionecon romance, a indicare una narrativa incardinatanella realtà fattuale, e non affidata semplicementea una fantasia sostanzialmente evasiva «piena difantasmi», come ebbe a scrivere ironicamente ilgrande Fielding. Dunque: siamo alla riscopertadell’acqua calda, e mi stupisce che un critico pene-trante come Emanuele Trevi ci informi che nel-l’intenso romanzo di DeLillo, Libra, l’autore «nonci rivela qualcosa di vero sull’assassinio diKennedy». Vorrei ben vedere.

È persino tornato in scena – si fa per dire – ildibattito tra contenuto e forma, che, come denun-cia opportunamente Mario Fortunato, si immagi-nava sepolto con le ceneri di Benedetto Croce, eormai archiviato persino sui banchi delle scuolemedie. Naturalmente, ai lettori non importa asso-lutamente nulla di queste disquisizioni fondamen-talmente di bottega. Ma in qualche misura sussi-stono due terreni di coltura. Uno è la stampa ingenerale; l’altro quello che possiamo lecitamentechiamare industria culturale, ovvero gli editori.Vorrei includere nel mazzo i premi letterari, quasinoiosi quanto il campionato di calcio di serie Adopo la retrocessione della Juventus. (Strega delloscorso anno, sfida tra Rutelli e Veltroni, con rela-tive compagini operative). Qui il discorso si fadavvero serio, e investe le scelte editoriali.Lasciamo stare, visto che se ne è parlato ampia-mente, il caso singolare della quasi cancellazionedi uno scrittore come Giovanni Arpino. Ma eccodue esempi quasi speculari. Uno riguarda un pic-colo classico della nostra narrativa, FederigoTozzi. I suoi libri sono introvabili, e nessuno siricorda più di lui. L’altro è un caso per eccellenza,legato al nome di Guido Morselli. Suicida nel1973 con motivazioni che mi accadde di definire

Pirandello quanto ci manchi

Claudio Gorlier, La Stampa, 6 giugno 2007

Claudio Gorlier interviene nel dibattito su scrittura e scrittori

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 41

Oblique Studio

42

dannunziane, aggravate dal fatto che i suoiromanzi erano stati rifiutati virtualmente da tuttigli editori, l’autore del Comunista venne riscoperto,lanciato in grande stile, diventando un’autenticaicona. Bene, ora nessuno lo ricorda più, e i suoilibri restano tristemente invenduti.

Il fenomeno è ormai internazionale. Negli StatiUniti comandano il mercato sostanzialmente quat-tro editori, che lo manovrano estensivamente congli autori e con i librai. Non intendo fare nomi inItalia, ma senza le strategie editoriali non esistereb-bero né «cannibali» né ippogrifi. Quanto dura lavita editoriale delle giovani – o meno – generazio-ni? Rimango alquanto scettico. Nel frattempo,discutono. Ha perfettamente ragione Culicchia adavvertire, come ha fatto persuasivamente su «La

Stampa», che dopo tutto spetta ai lettori scegliere,apprezzare o no, eventualmente, aggiungo, diver-tirsi, indipendentemente dai dibattiti. Ma il proble-ma esige che esistano i libri appetibili, e natural-mente i librai intelligenti e preparati. Ne conoscobene uno, «L’angolo Manzoni» di Torino, chedopo un puntuale intervento sul «Sole-24 Ore» haricevuto lettere da tutta Italia. Non possiamo chedargli ragione, ma lui tiene a precisare che i libri invendita, al di là della loro validità, sono quelli chegli mandano gli editori; la scelta gli sembra mode-sta, contraddittoria, spesso gonfiata. La libreria sitrasforma in un supermercato. A questo punto, gliscontri o le divergenze, o i plausi, tra gli addetti ailavori, si riducono a puri e semplici, oziosi segnalidi fumo. Pirandello, quanto ci manchi.

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 42

Martedì 5 gennaio 2007 Oprah Winfrey,conduttrice di uno dei più famosi eambiti talk show d’America, è finalmen-

te riuscita a intervistare lo scrittore CormacMcCarthy. Pubblichiamo la trascrizione quasi inte-grale del dialogo tra i due.

Oprah Winfrey – Bene, ecco un’intervista chetutti avrebbero ritenuto impossibile. L’intervistato èuna persona notoriamente riservata, che si rifiuta diparlare pubblicamente di sé o del suo lavoro. Inquarant’anni di carriera ha concesso soltanto dueinterviste a giornali, e non si è mai lasciato intervi-stare alla televisione. Ma dopo avere letto “TheRoad” del leggendario Cormac McCarthy, mi sonodetta: ora gli telefono. Ma tutti mi dicevano che nonavrebbe mai accettato. Così l’ho chiamato e gli hodetto: “Signor McCarthy, sono Oprah Winfrey”.Lui ha risposto: “Oh, salve Oprah”. Io gli ho dettoche avevo letto il suo libro e che volevo intervistar-lo. Lui ha risposto che non l’avrebbe mai fatto. Gliho parlato ancora per qualche minuto e poi gli horinnovato l’invito. Lui mi ha detto: “Va bene, ci pen-serò”. E io ho aggiunto: “Okay, ti do quarantottoore e poi ti richiamo”. E quando l’ho richiamato miha detto che accettava. Dunque, prima che incon-triate Cormac McCarthy, voglio raccontarvi qualco-sa del suo capolavoro “The Road”. Chi lo ha letto,sa già che si tratta di un capolavoro. È una storia disopravvivenza che si svolge in un’America postapocalittica. Provate a immaginarla. Beh, io non ciriuscivo, e proprio per questo ho deciso di leggereil libro. La lettura di questo libro farà cambiare pro-fondamente il modo in cui guardate la vostra vita,ciò che è per voi più importante e la vostra idea delmondo in cui viviamo. Che cosa succede quando ilpeggiore incubo di un uomo diventa realtà?

LETTORE: Gli orologi si sono fermati alla1:17, una lunga scia di luce e poi una serie di pic-cole scosse.

Oprah Winfrey – “The Road” si svolge in unmomento in cui la vita sulla terra è stata quasicompletamente distrutta. Il sole è velato da uncielo perpetuamente grigio. Uno strato di fuligginee di cenere copre ogni cosa. Nel mezzo di tuttociò, un padre e il suo giovane figlio camminanolungo una strada. A ogni angolo si nasconde unincerto futuro. La sola missione del padre: fare inmodo che suo figlio rimanga vivo.

LETTORE: Sapeva solo che il bambino era lasua garanzia. E disse: se lui non è la parola di Dio,allora Dio non ha mai parlato.

Oprah Winfrey – Un ammonimento, una favo-la, una storia d’amore; “The Road” è un romanzoche vi terrà legati alla sedia dalla prima all’ultimapagina. Sì, proprio così. Quando CormacMcCarthy ha accettato di concedere questa inter-vista, gli ho detto che non sarebbe durata più diun’ora. Poi, prima che cambiasse idea, sono anda-ta subito in New Messico e l’ho incontrato nellasua casa lontana da casa, la biblioteca dell’Istitutodi Santa Fe, un think-tank di persone intelligenti,dove McCarthy passa con piacere molto tempo.

***

Oprah Winfrey – Beh, devo dire che lei è proprio comenella foto pubblicata sul retro della copertina.

Cormac McCarthy – Sì; non so se sia un beneo un male.

Oprah Winfrey – è un bene.Cormac McCarthy – Sì.

Oprah Winfrey – Grazie per avere accettato questa inter-vista.

Cormac McCarthy – è la prima volta per me.

Oprah Winfrey – Perché non l’ha fatto fino a ora?

Oprah Winfrey & l’Apocalisse

Traduzione di Aldo Piccato, Il Foglio, 7 giugno 2007

L’intervista quasi impossibile tra la conduttrice e Cormac McCarthy

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 43

Oblique Studio

44

Cormac McCarthy – Beh, non penso sia unacosa buona per la propria testa. Voglio dire, se sipassa molto tempo a pensare come scrivere unlibro, probabilmente non si dovrebbe parlarne.Bisogna limitarsi a scriverlo.

Oprah Winfrey – Oh, davvero?Cormac McCarthy – Sì, questa è la mia sensazione.

Oprah Winfrey – Non si tratta invece di una certa avver-sione nei confronti dei media e di altre cose del genere?

Cormac McCarthy – No, no, no.

Oprah Winfrey – Sicuro che sia proprio così?Cormac McCarthy – Certo. Tu cammini sul tuo

lato della strada e io sul mio.

Oprah Winfrey – Cormac McCarthy è considerato unodei più grandi scrittori americani viventi. Nel corso degliultimi quarant’anni McCarthy ha scritto dieci roman-zi. Il suo best seller, “All the Pretty Horses” ha vintoil National Book Award e ne è stata fatta una ridu-zione cinematografica. Ha sempre saputo di essere unoscrittore?

Cormac McCarthy – È difficile rispondere.Quando ero bambino avevo l’abitudine di scrivere.Quando poi sono diventato ragazzo, in realtà nonfacevo più nulla.

Oprah Winfrey – Ha la passione della scrittura? Quandoparlo agli studenti, dico di seguire la propria passione per-ché, indipendentemente da quello che ti porta, significa com-piere la propria missione nella vita…

Cormac McCarthy – Certo.

Oprah Winfrey – Sta lì il premio, la ricompensa. Dunqueavete passione?

Cormac McCarthy – Non so. La parola “pas-sione” ha un suono da favola.

Oprah Winfrey – Mmm…Cormac McCarthy – Mi piace quello che faccio.

Oprah Winfrey – Mmm…Cormac McCarthy – Alcuni scrittori hanno detto

che odiano scrivere. Era soltanto una fastidiosa scoc-ciatura. Io non la penso certamente così. Talvolta èdifficile. Hai in testa un’immagine perfetta, che nonriesci mai a concretizzare ma continui sempre a pro-varci. Comunque, io penso che alla radice ci sia que-sta immagine interiore di qualcosa di assolutamente

perfetto. E quest’immagine è il tuo faro, la tua guida.Ma non arriverai mai a destinazione.

Oprah Winfrey – Mmm…Cormac McCarthy – Eppure senza di essa, non

si va da nessuna parte.

Oprah Winfrey – Quando inizia a scrivere un libro, parteda questa immagine?

Cormac McCarthy – Non è una cosa così con-sapevole.

Oprah Winfrey – Mmm…Cormac McCarthy – Insomma, si ha sempre la

speranza che oggi farai qualcosa di meglio di tuttoquanto hai fatto finora.

Oprah Winfrey – Ecco la speranza.Cormac McCarthy – È il segno di una hubris

sfrenata?

Oprah Winfrey – No, è una cosa buona. Quindi scrive inmodo metodico? Segue un preciso programma di lavoro?

Cormac McCarthy – No.

Oprah Winfrey – Allora scrive soltanto quando si senteispirato?

Cormac McCarthy – Una volta, quando glichiesero se scriveva tutti i giorni o solo quando eraispirato, Faulkner disse che scriveva soltanto quan-do era ispirato, ma si sentiva ispirato tutti i giorni.

Oprah Winfrey – Mmm…Cormac McCarthy – Alcune persone mi chie-

dono se costruisco a tavolino tutta la trama. Lamia risposta è no. Significherebbe la morte. Vogliodire, non si può programmare tutto a tavolino.

Oprah Winfrey – “The Road” ha recentemente ricevuto ilriconoscimento più prestigioso: il Premio Pulitzer per laLetteratura. Quando lo ha iniziato, sapeva già come sareb-be finito?

Cormac McCarthy – No, non ne avevo la mini-ma idea.

Oprah Winfrey – Da dove nasce questo sogno apocalittico?Cormac McCarthy – Beh, è interessante per-

ché di solito non si sa da dove nasce un libro. C’èuna sorta di prurito che non si riesce a togliere.Circa quattro anni fa sono andato a El Paso conmio figlio John.

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 44

Rassegna stampa 15 maggio-16 giugno 2007

45

Oprah Winfrey – Ora lui ha otto anni?Cormac McCarthy – Sì. Abbiamo preso una

stanza nel vecchio albergo della città. Una notte,saranno state le due o le tre del mattino, mentremio figlio dormiva, mi sono messo a guardarefuori dalla finestra e a osservare questa città: nonsi muoveva nulla e si sentiva in lontananza il soli-tario suono dei treni che arrivavano e ripartivano.Improvvisamente si è formata l’immagine di comepotrebbe apparire questa città fra 50 o 100 anni.

Oprah Winfrey – Mmm…Cormac McCarthy – Mi è venuta quest’imma-

gine di fuochi sulle colline e di una distruzioneassoluta, e ho iniziato a pensare al mio piccolobambino. Così mi sono messo a scrivere qualchepagina e tutto è finito lì. Poi, circa quattro annidopo, in Irlanda, una mattina mi sono svegliato emi sono accorto che non erano semplicementealcune pagine di appunti. Erano un libro. E questolibro parlava di quell’uomo e quel bambino.

Oprah Winfrey – Il libro è dedicato a John, il figlio diCormac McCarthy. Si tratta di una storia d’amore pervostro figlio?

Cormac McCarthy – Sì. In un certo senso, sì. Ma,ciononostante, è in qualche modo imbarazzante.

Oprah Winfrey – Vedo che è arrossito. Quando l’hochiamata la prima volta e le ho detto che la gente volevasapere come era nato questo libro, lei mi ha detto: “Èovvio. Perché questo libro è stato scritto praticamente aquattro mani con mio figlio”.

Cormac McCarthy – Proprio così.

Oprah Winfrey – Se non avesse avuto suo figlio, questolibro non sarebbe stato scritto?

Cormac McCarthy – Esattamente. Non misarebbe mai venuto in mente di scrivere un librosu un padre e un figlio.

Oprah Winfrey – Che cosa significa essere padre in questoparticolare momento della sua vita?

Cormac McCarthy – Penso che lo si apprezzi inmodo più profondo. Quando si è più giovani èdiverso; se si ha un figlio quando si è più anziani,invece, si viene risvegliati dal proprio sonno e siguardano le cose con un nuovo sguardo. Ticostringe a pensare al mondo.

Oprah Winfrey – Mmm…

Cormac McCarthy – Sì. E io penso che sia unabuona cosa.

Oprah Winfrey – A proposito, penso che “The Road” siaun perfetto regalo per la festa del papà. Racconta la storia diun padre e di un figlio alla fine del tempo, e del loro recipro-co amore. Come vi ho già detto, McCarthy è uno scrittore alquale non piace stare sotto i riflettori. Ma ha accettato dirilasciarmi la sua prima intervista televisiva. L’ho incontra-to nell’Istituto di Santa Fe, un luogo affascinante dove scien-ziati e scrittori riflettono sui misteri dell’universo. Mi parlidi questo posto perché le piace così tanto venire qui?

Cormac McCarthy – Beh, è pieno di personeintelligenti che hanno cose molto interessanti dadire. E ci si diverte un mondo.

Oprah Winfrey – E lei preferisce trascorrere il tempo congli scienziati. Preferisce gli scienziati agli scrittori?

Cormac McCarthy – Non conosco alcunoscrittore.

Oprah Winfrey – Cormac McCarthy ha oggi 73 anni. Èda sempre una persona estremamente riservata. È chiaroche si trova più a suo agio davanti a una vecchia macchinada scrivere Olivetti che davanti alle telecamere. In tutti ivostri libri che ho letto, da “Blood Meridian” a “NoCountry for Man”, le donne non hanno quasi nessunaparte di rilievo. E infatti molti l’hanno definito uno scritto-re per uomini. Come mai le donne non hanno un ruolo atti-vo nelle trame dei vostri libri?

Cormac McCarthy – Le donne sono difficili.

Oprah Winfrey – Mmm…Cormac McCarthy – Non pretendo di capire le

donne. Penso che gli uomini non sanno moltodelle donne. Le trovano misteriose.

Oprah Winfrey – È ancora così anche per lei?Cormac McCarthy – Sì. Anche se…

Oprah Winfrey – Dopo tre mogli, le donne sono ancora unmistero?

Cormac McCarthy – Sì, sono ancora unmistero.

Oprah Winfrey – Ho letto che una delle sue ex mogli hadetto che in certi periodi lei era molto povero, assolutamen-te senza un soldo; e i giornalisti le telefonavano dicendo chele avrebbero pagato 2.000 dollari e anche più per un’inter-vista, ma lei si rifiutava rispondendo che tutto ciò che cono-sceva lo aveva già messo per iscritto.

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 45

Oblique Studio

46

Cormac McCarthy – Beh, ero molto occupato.Avevo altre cose da fare.

Oprah Winfrey – Occupato? Non le interessano le cosemateriali?

Cormac McCarthy – No. Voglio dire, non èche non mi piacciono le cose materiali. Alcunesono molto belle. Ma vengono certamente dopol’esigenza di vivere la tua vita facendo quello chevuoi fare.

Oprah Winfrey – Mmm…Cormac McCarthy – E ho sempre saputo che

non volevo lavorare.

Oprah Winfrey – E come ci riesce? Piacerebbe a tuttisaperlo.

Cormac McCarthy – Beh, bisogna impegnarsi.

Oprah Winfrey – Naturalmente.Cormac McCarthy – Ma era la mia priorità

numero uno…

Oprah Winfrey – Il fatto che non voleva avere un lavoro chel’avrebbe costretta a stare in ufficio dalle nove alle cinque?

Cormac McCarthy – Precisamente. Ho semprepensato che si è qui una volta sola, che la vita èbreve e che passare ogni giorno a fare quello chealtri ti dicono di fare non è il modo giusto di vive-re. E non ho nessun consiglio da dare su comefarlo, tranne che se ci si impegna a fondo è proba-bile che ci si riesca.

Oprah Winfrey – Perciò ha lavorato per non lavorare?Cormac McCarthy – Proprio così. Questa è la

priorità numero uno.

Oprah Winfrey – E non avere denaro è stato un problema?Cormac McCarthy – Beh, ero molto…

Oprah Winfrey – Perché è vero che era così povero che le ècapitato di non poter pagare nemmeno un hotel da quaran-ta dollari al mese?

Cormac McCarthy – Sì.

Oprah Winfrey – Beh, questo significa essere davvero povero.Cormac McCarthy – Quell’episodio è avvenuto a

New Orleans… era una piccola stanza d’albergo…

Oprah Winfrey – Da soli quaranta dollari al mese e leinon aveva nemmeno quelli.

Cormac McCarthy – Sì, e mi hanno buttatofuori. Allora ero molto ingenuo. Ero convinto chein un modo o nell’altro tutto sarebbe andato bene.Ed è stato proprio così. Sono sempre stato moltofortunato. Quando la situazione era particolar-mente dura, succedeva sempre qualcosa di assolu-tamente imprevisto.

Oprah Winfrey – Wow. È stupefacente. Ed è vero che unavolta era talmente al verde da non potersi comprare nemme-no un dentifricio?

Cormac McCarthy – Sì. Vivevo in una baraccanel Tennessee e avevo finito il dentifricio. E unmattino sono andato all’ufficio postale per vederese era arrivato qualcosa. E nella mia cassetta dellelettere c’era un dentifricio.

Oprah Winfrey – Un campione omaggio?Cormac McCarthy – Già, un campione omag-

gio. Ma la mia vita è piena di episodi come questo.È sempre stato così: quando la situazione si face-va critica, succedeva sempre qualcosa.

Oprah Winfrey – Ho anche letto una sua frase in cui diceche la cosa più importante per lei è avere cibo e scarpe.

Cormac McCarthy – Sì.

Oprah Winfrey – E penso che quando la si legge si pensaimmediatamente a quello di cui si ha veramente bisognonella vita. E lei sembra un uomo molto felice, che si accon-tenta di poche cose.

Cormac McCarthy – Sì. Ma non si può fare ameno di cibo e scarpe.

***

Oprah Winfrey – McCarthy dice che “The Road” è unastoria semplice, che parla di un uomo e un bambino su unastrada. Ma per me, ciò che rende straordinario questo libroè l’enorme potenza della sua semplicità. Sapremo mai quel-lo che è realmente accaduto? I critici, e anche i suoi ammi-ratori, vi leggono ogni genere di cosa. Alcuni dicono cheparla del viaggio spirituale dell’uomo sulla terra. È propriocosì, oppure si tratta semplicemente di un uomo e un bam-bino che camminano lungo una strada?

Cormac McCarthy – A me piace pensare chesi tratta soltanto dell’uomo e del bambino sullastrada. Ma ovviamente si possono trarre conclu-sioni di ogni genere dalla lettura del libro, aseconda dei propri gusti. Io penso che sia unastoria semplice e diretta.

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 46

Rassegna stampa 15 maggio-16 giugno 2007

47

Oprah Winfrey – È davvero interessante. Penso che se aves-simo letto questo libro venti o venticinque anni fa, ci sareb-be sembrata una storia futuristica. Ma c’è qualcosa di reale.

Cormac McCarthy – Beh, penso che dopo l’11settembre la gente sia più preoccupata dai temiapocalittici.

Oprah Winfrey – Mmm…Cormac McCarthy – Non siamo abituati a

questo…

Oprah Winfrey – Cioè, non siamo abituati a vivere nellapaura…

Cormac McCarthy – No.

Oprah Winfrey – Allora, non siamo abituati a essere pre-occupati e ansiosi per quello che succederà domani.

Cormac McCarthy – Appunto.

Oprah Winfrey – Che cosa vorrebbe che i lettori traesseroda questo libro?

Cormac McCarthy – Ecco, mi basterebbe cheprendessero a cuore le cose e le persone e cheapprezzassero maggiormente ciò che hanno. Lavita è bella anche quando sembra brutta. Edovremmo apprezzarla di più. Dovremmo esserericonoscenti. Non so a chi, ma dobbiamo esserericonoscenti per ciò che abbiamo.

Oprah Winfrey – Non si tratta per caso di Dio?

Cormac McCarthy – Beh, dipende in qualegiorno mi viene fatta questa domanda. Ma, certevolte, è bene pregare. Non credo che sia necessa-rio avere un’idea precisa di cosa o chi sia Dio perpoter pregare.

Oprah Winfrey – Le importa che ora ha milioni di lettorimentre all’inizio ne aveva soltanto poche migliaia?

Cormac McCarthy – In tutta onestà, devorispondere di no. Voglio dire, fa piacere che lagente apprezzi il tuo libro. Ma quanto al numero,che importa?

Oprah Winfrey – Beh, devo dire che lei è uno scrittore pro-prio speciale.

Cormac McCarthy – Beh…

Oprah Winfrey – È stato un piacere incontrarla, e unonore intervistarla.

Cormac McCarthy – Grazie mille. È statamolto gentile.

Oprah Winfrey – Un vero onore. Lei è uno scrittore dav-vero speciale: leggete il libro se volete. Se non lo fate, bene lostesso. Eccezionale!

Cormac McCarthy – Sì.

Oprah Winfrey – Mai sentito una cosa del genere primad’ora. Ancora un grazie a Cormac McCarthy, a GorgeWest e a tutti gli altri membri dell’Istituto di Santa Fe.

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 47

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 48

Capita spesso (purtroppo, per fortuna?) didover fare i conti, noi indomiti del verbopoetico in versione tedesca, con traduzio-

ni in italiano di opere che si potrebbe dire conten-gano in nuce l’essenza di quell’intero universo lin-guistico. Così almeno sembrerebbe di alcune diloro a giudicare dall’“accanimento terapeutico”cui vengono sottoposte. A dinoccolare le versionidelle Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke, per esem-pio, ci si trova di fronte a tali e tanti autorevoli tra-duttori che a forza ci si chiede: perché questo pro-liferare? È davvero così grande il margine di liber-tà interpretativa concesso dalla lingua tedescaall’interlocutore italiano?

A guardar bene c’è un altro problema, piutto-sto serio, che riguarda la germanistica italiana, inparticolare quella accademica, quella che dall’ulti-mo dopoguerra cioè ha occupato le università,fondata sull’autorità, tutt’oggi indiscutibile, delmarxiano Ladislao Mittner. L’ideologia non hamai sopportato la curiosità che la vita è in gradodi suscitare, e suggerirei di provare a proporre,tanto per chiudere il cerchio dell’establishment, aquei pochi editori che in Italia non disdegninotitoli “oltremontani”, opere e autori che nonsiano già tra i “canonizzati”. Insomma, c’è ilsospetto che ci si incaponisca sul Rilke delle Elegieperché troppo faticoso (per il lettore fidato alsoldo della casa editrice) e diseconomico (perl’editore stesso) cercare altro (che pure c’è).

Un atto di presunzioneL’esperimento ultimo, quello a quattro mani di

Michele Ranchetti e Jutta Leskien (coppia già for-giata sui testi di Paul Celan) si fonda su un atto dipresunzione che pure lo stesso Ranchetti, che èanche poeta, avrebbe potuto evitare almeno disbandierare. Ed è bandiera piccola piccolal’Avvertenza che precede questa versione (R.M.

Rilke, Elegie duinesi, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 80,€ 8,00), con la quale i traduttori presumono dipoter dire una cosa grande, troppo grande:«Questa traduzione intende offrire un testo italia-no che ‘corrisponde’ al testo tedesco di Rilke».Facile immaginare l’attesa che tale presuppostopuò far sorgere nel lettore: «Qual è allora il veroRilke che possiamo leggere, quello mediato o quel-lo integrale che ci viene ora proposto?», questo sichiedeva infatti il lettore Fulvio Panzeri, recensen-do. Come? Si può forse ignorare che la traduzioneè sempre, di necessità, mediazione, o meglio, creatu-ra “altra” rispetto all’originale e, ancor più, che ilproblema non è limitare «la mediazione del tradut-tore ai minimi termini» (Panzeri)? Per la traduzio-ne di testi poetici, in particolare, non c’è alternati-va: l’opera tradotta ha tanto più valore quanto piùil traduttore si sia lasciato possedere da lei, perché,così facendo, ne ha di certo acquisito autorità suf-ficiente per “ricrearla” in altra lingua.

S’intende bene che, se ciò è vero, conta poco,molto poco, la preoccupazione ranchetti-leskienia-na di «tradurre tutto il testo, ogni parola, ogni par-ticolare». Nessun processo alle intenzioni.Nell’impossibilità di un confronto esteso con altreversioni, si pone qui piuttosto la necessità di veri-ficare la presenza di soluzioni conformi e coeren-ti all’interno della traduzione. Si saranno chiesti,Ranchetti e Laskien, quale idea si possa fare il let-tore italiano di un termine d’alto contenuto specu-lativo come Dasein (c’è testo originale a fronteanche in questa edizione, per fortuna) se, ricorren-te più volte nelle Elegie, scopriamo tradotto neiseguenti, diversi modi: presenza, stare, esistenza evita? Lo stesso dicasi per Anschein (in un’accezioned’uso significa apparenza, aspetto), che è reso unavolta con ombra e l’altra con luce. Altri dubbi sorgo-no per alcune parole composte riferite a contestispaziali, fondamentali nella lirica rilkiana. Così

“Scorpacciata (indigesta) di Rilke”

Vito Punzi, il Domenicale, 9 giugno 2007

Iddio non ci fulmini, amiamo il sommo Rainer sopra tutti i poeti del mondo e deltempo, però c’è un però. Ovvero: come “italianizzando” il grande si rischi il fallimento.Ad esempio Michele Ranchetti…

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 49

Oblique Studio

50

Weltraum viene tradotto alternatamene con spazioceleste, cosmo, spazio aperto, mentre Zwischenraum,indicante quell’altrettanto decisivo spazio intermedio,a Ranchetti-Laskien suggerisce, purtroppo, sem-plicemente spazio.

Quest’ultimo esempio poi, alla luce di que-st’operazione feltrinelliana, è tutt’altro che secon-dario: sembra ci sia stato da parte dei traduttori iltimore che testo italiano e testo tedesco corrispon-dessero troppo, dunque in palese contraddizionecon gli intenti dichiarati. Non si spiegano altrimen-ti altre scelte: mutazione per Verwandlung (e perchénon metamorfosi, carica di ben altro significato lette-rario?), parabola per Gleichnis (e perché non la piùattinente metafora?).

Indifeso, dentro la notteSi è detto dei pochi editori italiani impegnati sul

fronte della germanistica. Una particolare nota dimerito va al fiorentino Passigli che, specie nell’ul-timo anno e proprio in riferimento all’opera rilkia-na, non s’è certo risparmiato. Suoi gli Appunti sullamelodia delle cose e i Sonetti a Orfeo con ottima tradu-zione e cura, in entrambi i casi, di Sabrina MoriCarmignani, come pure la Vita di Maria nella pre-gevole versione di Mario Specchio, poeta-tradutto-re anch’esso e insieme uno dei nostri germanistipiù seri. Necessario e inevitabilmente denso il sag-gio col quale Specchio introduce la storia di questaraccolta poetica, identificata come «ultima stazio-

ne del Cristianesimo rilkiano»: belle le pagine conle quali individua le più intime connessioni conl’arte figurativa italiana (Tiziano, Tintoretto,Bellini) ma anche quelle dedicate alla conflittualitàdello stesso Rilke con questa sua opera, al conti-nuum rappresentato dalle prime due Elegie duinesi eall’accostamento di Maria, in quanto destinataanch’essa a ricomporre l’infranto, con Orfeo.

Chi recentemente non si è lasciata intimoriredalla complessità d’intreccio, tra elaborazione poe-tico-linguistica e riflessione filosofica, è stata PaolaCapriolo. Il suo Rilke. Biografia di uno sguardo(Ananke, Torino 2006, pp. 110, € 13,00) è operascritta tutta d’un fiato e d’un fiato è utile sia anchela lettura. È magma che corre rapido verso il cen-tro incandescente, il luogo dove l’io rilkiano, inpresuntuosissima preghiera, non si offre, non rico-nosce, piuttosto crea il proprio dio, il luogo dovel’io rilkiano, in presuntuosissima preghiera, non sioffre, non riconosce, piuttosto crea il proprio dio,il Weltinnenraum, lo “spazio interiore del mondo”.

Tutto arde e non c’è traccia di materia chepossa sopravvivere (non c’è uso di note, che puresarebbero state utili per individuare richiami e rife-rimenti). La Capriolo filosofa usa al meglio le pro-prie facoltà, che sono anche di narratrice, e mira-bilmente accompagna il lettore attraverso la for-mazione (vera e propria Bildung) dello sguardo ril-kiano, il suo nascere e consolidarsi, fino a ricono-scersi “indifeso dinanzi alla vastità della notte”.

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 50

Il celebre «teorema Calasso» secondo il qualeuna casa editrice è «un opus, un unico testo,qualcosa che si può considerare un’opera lette-

raria in sé…», funziona tuttora nell’Adelphi del2007? Quella «forma» che lega i 1800 titoli dellasigla più esclusiva dell’editoria italiana, può resisterein un mondo dell’approssimazione, dell’incertezza,di un’autostima generalmente sempre più esile?

Roberto Calasso, che conosce certo questi pro-blemi meglio di noi e la cui autostima, come pertutti i veri leader, è il motore più potente per unlavoro di totale impegno come il suo, incertezzenon ne ha: «Un buon lettore (e non è vero che inItalia siano così pochi), dotato di un certo occhio,entrando nel nostro catalogo si accorge che questa“forma” resta, e continua a svilupparsi. In questosenso non è cambiato niente, anche se molte cosenegli assetti dell’editoria si trasformano».

Tempo fa il patron dell’Adelphi aveva dichiara-to invece che l’editoria non aveva subito grandimutamenti negli ultimi decenni. Molto, al contra-rio, è successo con l’invasione del web.

«Dal punto di vista tecnico, certamente. Ancheper chi, come noi, continua a pubblicare su carta. Untempo, su un nuovo libro, si avevano opzioni di 2-3mesi. Oggi si deve decidere talvolta in poche ore, lapressione degli agenti è maggiore. Tuttavia Adelphisceglie e pubblica i libri come ha sempre fatto».

Il grande intellettuale che ha aperto più di ognialtro agli italiani l’universo mitteleuropeo, daJoseph Roth a Canetti a Kraus a Bernhard («Rothè stato il primo “caso”, oltre un milione e mezzodi copie in totale») e che nelle sue collane ha por-tato i capolavori del ’900 europeo e non solo, ita-liani in prima fila, da Sciascia a Landolfi, daFlaiano alla Ortese, a Manganelli a Ceronetti, intesta Arbasino, non è stato immune da attacchi.Anche violenti, benché non sempre di alto livello.Bersagli soprattutto le sue scelte «filosofiche».

Insomma: da «grande snob della cultura» a «gran-de gnostico».

«Le più svariate motivazioni», si difende l’accu-sato. E a proposito dell’«anatema dell’irrazionali-smo» (che aveva già colpito Luciano Foà, il suoindimenticato amico, fondatore nei primi ’60 dellaAdelphi), Calasso non fa che ripetere l’annosamotivazione: «In 40 anni c’è stato uno spostamen-to nell’asse della cultura. Da Gramsci-Lukács aNietzsche a noi più congeniale».

E l’editoria italiana in generale? Calasso la ritie-ne in «discreta salute, un’editoria di notevole inte-resse, una delle più importanti nel mondo».

Ma con chi si misura l’Adelphi di oggi?«“Misurarmi” è un termine che non mi appar-

tiene, voglio solo dichiarare stima per i colleghi ita-liani. Con certi editori stranieri abbiamo avutostretti rapporti sin dall’inizio: per esempioGallimard è stato nostro partner per l’edizioneColli-Montinari di Nietzsche. La forza editorialedegli americani non sarò io a scoprirla (sono piut-tosto gli americani ad aver scoperto lui, parecchianni fa, ndr), in Europa posso confermare che è laSpagna il Paese in enorme crescita. E lì molto siseguono le linee italiane».

«Paesaggio mentale», è la sintesi migliore che Calasso pote-va formulare per la sua «cattedrale in progress». Dove perògli scrittori italiani «nuovi» sembrano mancare del legametipico adelphiano.

«Non è così. Non ne abbiamo un grandenumero, ma sono scelti con gli stessi criteri deglialtri, dal lontano Maurensig alla Matteucci (checontinueremo a pubblicare) a Niffoi che aprirà il2008 con il suo nuovo romanzo».

In questi giorni la Adelphi è stata particolarmente di scena:il «Diario russo» di Anna Politkovskaja e il «Robinson

L’Adelphi un’altra recherche

Mirella Appiotti, Tuttolibri – La Stampa, 9 giugno 2007

Duemila titoli della casa editrice italiana più esclusiva. Roberto Calasso: «L’accusa diirrazionalismo? In 40 anni c’è stato uno spostamento della cultura: dall’asse Gramsci-Lukács a un asse Nietzsche a noi più congeniale»

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 51

Oblique Studio

52

Crusoe» di Pericoli, «Gli emigrati» di Sebald. Quali i futu-ri titoli più importanti?

«Il miglior giornalista investigativo Usa,William Langewiwsche, già nostro autore, ci darà aluglio Il bazar atomico, drammatica indagine sullevie segrete del contrabbando nucleare. In autunno,All’ombra delle Torri, Lawrence Wright, Pulitzer2007, ricostruirà passo per passo la storia di AlQaeda. A fine anno la prima parte del “romanzodella vita” di Roberto Bolano, 2666 e un irresisti-

bile Alan Bennett: La regina lettrice, ovveroElisabetta II che, da sempre dedita ai cavalli,all’improvviso scopre i libri…».

Roberto Calasso invece che cosa sta scrivendo?«Scrivo da 25 anni, un’opera in più parti. Sono

apparsi finora 5 volumi, l’ultimo è Il rosa Tiepolo.Ma sto continuando».

Una «nuova» Recherche? Ride e, naturalmente,nega. Ma quanto?

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 52

Librerie sempre più omologate al modellounico del megastore: non-libri, cioè i best-seller di scarsa qualità letteraria, che oscu-

rano invece le opere che sarebbero meritevoli diattenzione; lettori forti abbandonati a se stessisenza più punti di riferimento. Questa, in sintesi,la severa diagnosi consegnata da Stefano DeMatteis, editore dell’«ancora del Mediterraneo» al«Mattino» il 30 maggio, su cui domenica 3 giugnoè intervenuto Mario Guida, presidente dell’omo-nimo gruppo. Un quadro nero, che lascia pocospazio all’ottimismo. Non tutti, però, sono d’ac-cordo con questa analisi. C’è chi, come GiulianoVigini, il maggiore studioso nazionale delle que-stioni dell’editoria, direttore dell’EditriceBibliografica, tiene a distinguere.

Innanzitutto Vigini non concorda sulla defini-zione di non-libri per i volumi di maggior succes-so. «Non li chiamerei in questo modo», afferma:«Piuttosto li indicherei come libri di consumo oletture di massa, per dire che si tratta, in ognicaso, di volumi che fanno parte a pieno titolo del-l’universo librario e che non vanno affattodisprezzati, perché con i fatturati che produconocontribuiscono a tenere in piedi il sistema e,magari, consentono anche agli editori di pubbli-care opere che in partenza si sa non raggiunge-ranno grandi volumi di vendite».

Per Vigini i problemi giustamente sollevati daDe Matteis vanno affrontati da tre lati: dalla partedegli editori, da quella dei librai e, infine, dalpunto di vista dei lettori. «Gli editori – dice Vigini– fanno il loro mestiere: stampano libri per ven-derli. E non è detto che i best-seller siano tuttiimmondizia: accanto all’ultimo libro del comicodi turno o al romanzo di mestiere di WilburSmith, capita di trovare un’opera di qualità comeIl cacciatore di aquiloni dell’afghano KhaledHosseini, che pure è in classifica da mesi».

E i librai?«Per parte sua, chi ha una libreria non può igno-

rare i best-seller, perché, come per gli editori, sonoloro che tengono in piedi la baracca, cioè sono ibest-seller a consentire di tenere aperto il negozio.Il problema è quando la loro presenza massicciafinisce per oscurare tutto il resto. Il grosso guaiodelle librerie italiane è che sono piccole librerie. Sucirca 4000 punti vendita sparsi sul territorio italiano,circa la metà ha uno spazio inferiore ai 100 metriquadrati. Il che significa uno spazio decisamenteinsufficiente ad accogliere anche solo una parte dei187 volumi pubblicati ogni giorno nel nostro Paesedai circa 8000 editori oggi in attività».

La soluzione potrebbe essere, allora, proprio la grandelibreria, ma sempre più queste somigliano a supermarketdel divertimento in cui c’è di tutto (dai cd ai dvd, dai gior-nali ai videogiochi) e magari pure qualche libro.

«A Milano circa un mese fa ha aperto in PiazzaDuomo “Mondadori Multicenter”, una libreria, manon solo, aperta fino a tarda notte, con al suo inter-no un caffé e un ristorante. Si tratta di una tipologiadi negozio adatta ad attrarre un pubblico giovane,che altrimenti rimarrebbe comunque estraneo almondo del libro. È la risposta a una precisa doman-da. Però ciò accade solo nelle grandi città, perché inquelle medie e piccole, cioè in provincia, rimango-no forti le librerie di tipo tradizionale. I lettori forticontinuano a preferirle, e non è vero che esse stia-no venendo meno: il 69,8% dei lettori ricorrono apunti vendita per così dire tradizionali; solo l’11,7%dice di preferire quelle più grandi. In altri Paesieuropei, come quelli dell’area settentrionale, questepercentuali appaiono quasi invertite».

Rimane il terzo e ultimo aspetto della questione: i lettori. Èvero che chi ama la lettura rischia di non riuscire più adistinguere ciò che ha valore dalla semplice spazzatura?

Un best-seller ci salverà

Roberto Carnero, Il Mattino, 9 giugno 2007

Il vero problema non sono i megastore ma come orientare chi va in libreria

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 53

Oblique Studio

54

«Un problema c’è: l’assenza di strumenti diorientamento. Le classifiche dei libri si basanotutte sui dati di vendita, ma questo non è un crite-rio sensato per uno che voglia scegliere cosa legge-re: si rischia di innescare un meccanismo per cuiciò che ha venduto venderà sempre di più, indi-pendentemente dal merito».

Che fare, dunque?

«Io avrei una proposta: offrire, sulle pagine cul-turali dei giornali, delle classifiche stilate da criticiautorevoli, i quali possano motivare in poche righele loro indicazioni. A servizio e beneficio dei letto-ri. Altrimenti continueranno ad avere successosolo i libri scritti dai comici, dai calciatori, dai gior-nalisti, cioè quei volumi che hanno già la stradaspianata dalla popolarità mediatica dei loro autori».

Insomma, quelli che qualcuno, a torto o aragione, chiamerebbe non-libri.

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 54

Abraham Belo abitava a San Pietroburgo,dove si guadagnava da vivere importandofichi dalla Turchia e cipolle dall’Egitto. Nel

1913 sbarcò in Canada assieme alla moglie e si sta-bilì a Lachine. Due anni dopo nacque Solomon:l’uomo che si cambierà il nome in Saul Bellow, chevorrà scrivere in inglese e che va a insegnare aPrinceton, dove le mogli dei professori fanno laspesa in tenuta da tennis o da equitazione – ilregno del conformismo Wasp, pieno di umanistidalle scarpe di camoscio che si divertono a farebattute antisemite.

Nei dipartimenti di anglistica, il giovane Saulviene guardato dall’alto in basso in virtù di unaconsolidata pratica discriminatoria che allignaanche tra gli scrittori modernisti: T.S. Eliot erigeun monumento di ostilità nei confronti degli ebreinel suo After strange Gods; Henry James disprezzagli immigrati del Lower East Side e Ezra Pound,nei Cantos, fa lunghe tirate contro gli ebrei usurai.Ma la tenacia, l’ambizione e il talento di Bellowsono indistruttibili e nel 1953 l’incipit del suoromanzo Le avventure di Augie March chiude persempre in un sarcofago il libro dell’Esodo a stellee strisce. Augie March, infatti, esordisce così:«Sono americano, nato a Chicago», rivendicandol’emancipazione dalla propria matrice ebraica. Èinaudito che un ebreo accantoni l’yiddish e si per-metta di scrivere in inglese, facendo mangiare ilcappello ai tanti Rockerduck di Princeton e dellaNorthwestern, zeppo com’è di allusioni a Omeroe a Shakespeare, di echi di Dickens, Balzac, Tolstoje soprattutto di Joyce.

Proprio alla Dublino di quest’ultimo Bellowtenta di rifarsi quando vuole far rivivere sulla pagi-na la sua Chicago: «Applicava al rognone di maia-le, alle latrine e ai funerali di Dublino una linguadella potenza miltoniana che mescola eleganza evoci della strada, canzonette popolari, oscenità,

slogan pubblicitari e risonanze omeriche, poesia estupidaggini, alto e basso», dice dell’irlandese. Maè come se stesse parlando di se stesso.

Con Le avventure di Augie March, Bellow dàcorpo all’idea che la narrativa sia una forma piùelevata di autobiografia. E lo fa dicendo due bugiein cinque parole. Avrebbe dovuto scrivere, infatti:«Sono canadese, nato a Montreal». Però nonsarebbe stato «vero»: il fatto è che Bellow non scri-ve di sé ma delle sue versioni idealizzate. Basti undato: era basso di statura – poco più di un metro esessanta –, eppure non è difficile rintracciarlosotto le maschere di alcuni suoi personaggi gigan-teschi (nel senso longitudinale), quali ArturSammler, Eugene Henderson e il professor Corde.Il piccolo ebreo che vuole scappare dal ghettodiventa alto e americano. Ma il Paradiso è perduto.In tutti i romanzi di Bellow, solo i padri e le madrilasciati alle spalle hanno un cuore: i figli devonofarsi largo in un mondo che non è il loro. La città(Chicago o New York) è descritta con tratti iper-realistici: vertiginosa, magnetica, affascinante mafredda, come se fosse un altro pianeta. L’interoopus bellowiano è dedicato alla lotta titanica del-l’ebreo che cerca di assimilarsi a un universomisterioso e ostile, governato da regole oscure.

In Bellow non c’è mai azione drammatica:tutti i suoi libri sono (ri)costruzioni dei processimentali dei loro protagonisti. Non è questione distream of consciousness joyciano. L’ebreo che vapellegrino nel mondo crede che la salvezza puòarrivare soltanto dal «pensare bene», ovvero dal-l’arrivare alla radice delle cose. Il pensiero èl’unica forma di virtù. I romanzi maggiori diBellow – Herzog, Il dono di Humboldt, Il pianeta diArtur Sammler, Ravelstein – sono cunicoli costrui-ti per accedere al luogo dove si formano le ideedi Moses Herzog, Charlie Citrine, ArturSammler, Abe Ravelstein, tutta gente il cui unico

BellowIl dono di Saul è narrare le idee

Leonardo Colombati, Il Giornale, 09 giugno 2007

Lo «scandaloso» abbandono dell’yiddish, il filo rosso autobiografico e la convinzione cheil pensiero sia l’unica forma di virtù

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 55

Oblique Studio

56

scopo è evolversi intellettualmente per raggiun-gere la capacità di esprimere le «giuste opinioni»sulle cose del mondo. Il resto è contorno. Gliintellettuali, nei libri di Bellow, sono quelli chehanno sempre idee sbagliate; mentre le donne ei personaggi della strada (come il gangsterCantabile ne Il dono di Humboldt) sono degliinconsapevoli «maestri di realtà» da cui prenderespunto: cavie da studiare, di cui servirsi.L’amore, però, è un’altra cosa...

La trama di Herzog, ad esempio, può essere rias-sunta così: è la storia di una cornificazione. Manon è che un pretesto: ciò che conta è MosesHerzog, sull’orlo di un esaurimento nervoso, chesopraffatto dal bisogno di sfogarsi, giustificare,sistemare in prospettiva, fare ammenda, decide discrivere lettere polemiche a giornali, politici, amici,parenti, e pure ai morti.

Bellow è il campione della digressione. I suoiromanzi sono slabbrati, fanno acqua da tutte leparti. Il suo ultimo grande libro, Ravelstein, iniziaaddirittura con una specie di lunga nota a piè dipagina. L’autobiografismo è nelle idee. Per questoBellow – l’effervescente Bellow, il comico e legge-ro Bellow – è il più politico degli scrittori america-ni. Dapprima è stato un radicale di sinistra che fre-quentava la Partisan Review; poi un reazionario chenel ’68 a San Francisco venne così apostrofato dauno studente: «Sei un conformista del cazzo. Unostronzo. Sei vecchio, Bellow. Non hai le palle». Sistava discutendo sulla distinzione operata daldrammaturgo afroamericano LeRoi James tra artedei neri e arte dei bianchi. Una cosa che mandòBellow fuori di testa. La risposta fu: «Va bene, sce-gliamo una signorina tra il pubblico per una sedu-ta di prova e poi ne riparliamo». Non proprio adat-ta in tempi di femminismo. E poi: «Non si fonda-no le università per distruggere la cultura. Perquello si chiamano i nazisti».

In quegli anni, Bellow divenne un facile bersa-glio per quella che definì una «generazione narcotiz-zata e infiorata». E lui non faceva niente per schiva-re le pallottole: «Il fior fiore del mondo artistico siliscia le penne – scriveva –, perfino i malati e i pros-simi a morire bevono gin al sole e chiacchierano diriformismo o rivoluzione, di anarchia, di guerrigliaurbana, di attivismo... innalzando palazzi imponen-ti su fondamenti di infelicità personale». Una voltaesplose con una sua studente femminista: «Macchéliberazione delle donne! Voglio vedervi da qui adieci anni: l’unica conquista del vostro movimentosaranno i seni cascanti!». L’ebreo che un tempopartì «come Colombo alla scoperta dell’America»ne stava diventando il suo polemico censore, cosìcome apparve chiaro quando uscì Il pianeta di ArturSammler, libro volto deliberatamente, come osservòil critico Joseph Epstein, «a offendere intere catego-rie del pubblico dei lettori oltre che la maggior partedi coloro che scrivono di libri».

Incredibilmente – vista l’ottusità che regna aStoccolma – nel ’76 a Bellow diedero il Nobel. Nelsuo discorso di ringraziamento, polemizzò conRobe-Grillet secondo il quale nelle grandi operecontemporanee non ci sono più personaggi.«Eppure – disse Bellow – io non mi stanco mai dileggere i grandi romanzieri. È possibile che i perso-naggi tanto vividi dei loro libri siano morti? È pos-sibile che gli esseri umani siano finiti? L’individualitàdipende veramente così tanto dalle condizioni stori-che e culturali? Dobbiamo proprio accettare la spie-gazione che di quelle condizioni danno tanto auto-revolmente scrittori e psicologi?». La risposta è no:«Non dobbiamo permettere che gli intellettualidiventino i nostri boss!... Un romanzo ci prometteun significato, l’armonia, persino la giustizia. Quantodiceva Conrad era vero: l’arte cerca di trovare l’uni-verso, nella materia nonché nei fatti della vita; ciòche vi è di fondamentale, durevole ed essenziale».

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 56

La forma peggiore di condanna per unromanzo? Non la stroncatura impietosa,ma il silenzio. Che «va riservato ai testi che

ci abbiano lasciato indifferenti, senza suscitarenessuna reazione né di piacere né di dispiacerema solo di noia». Il nuovo libro di VittorioSpinazzola, Il gusto di criticare (Aragno, pagg. 213,euro 16), raccoglie una trentina di saggi-recensio-ne scritti negli ultimi quarant’anni, preceduti dauna prefazione teorica sulla critica militante. Lequestioni messe in campo sono diverse. Primo:«Un critico che non critica, cioè disapprova, cen-sura, polemizza, che critico è?». Risposta: nonparlare mai male di nessuno dà magari qualchevantaggio nel rapporto con gli uffici stampa dellecase editrici, ma risulta nefasto nel rapporto coni lettori. Toglie autorevolezza e credibilità.Secondo: che cos’è una recensione? È innanzitut-to un servizio al lettore. A un lettore, per di più,non necessariamente dotato di grande competen-za letteraria: dunque è necessario adottare un lin-guaggio alla portata di tutti. Ma ne discendeun’altra questione. La terza: di quali libri parlare?Risposta: il recensore non deve esitare a sporcar-si le mani anche con i libri che non piacciono deltutto o che non rientrano nel gusto del critico.Quarto: che tono adottare? È necessario«mostrarsi più esigenti con gli autori di prestigio»e più comprensivo con gli altri. Evitando però,nei due casi, gli atteggiamenti di supponenza eintimidazione. E qui si torna all’inizio: meglio ilsilenzio che la stroncatura.

Dato tutto ciò, eccoci dunque all’auto-antolo-gia di Spinazzola. Che riserva molte sorprese, per-ché, come da premessa, va a fare i conti senza par-ticolari riverenze anche con diversi mostri sacri:dal Calvino «quasi asettico» delle Cosmicomiche alCitati di Storia prima felice… collocato nella lettera-tura rosa, dal «semplicismo enfatico» di Insciallah

al «blasfemo accostamento» Calasso-DeCrescenzo. Ma c’è una costante, nelle letture diSpinazzola: il desiderio di stanare gli arroccamen-ti della nostra letteratura, geneticamente recalci-trante nei confronti di una modernità mal digeri-ta e di una società di massa aristocraticamentenegletta. Del resto, Spinazzola conduce da decen-ni una battaglia di democratizzazione delle patrielettere eternamente tentate di escludere come vol-gari i gusti della collettività. Si legga, per esempio,il commento a Nero su nero di Leonardo Sciascia,dove individua «un pessimismo oltranzistico che,nei suoi connotati antistorici, declina verso formedi autocompiacimento consolatorio». E aggiungeche «a furia di dichiararsi certi che il destinodell’Italia è di non cambiare mai, si finisce colconcentrare i colpi sulle forze che, con tutti i lorolimiti ed errori, sono orientate più volonterosa-mente verso il progresso». Concludendo che «lo“sciascismo” viene così a proporre un modello dicomportamento nello stesso tempo intransigente-mente battagliero e nobilmente esclusivo».Difetto che Spinazzola intravede, sia pure conaltre coloriture, nella neoavanguardia, mai dispo-sta a «preoccuparsi delle condizioni di leggibilitàeffettiva dei testi». Difetto cui non sfugge nean-che la «comicità demenziale» di Stefano Benni chediventa «comicità apocalittica» quando «inscenauna lunga abominazione della civiltà moderna, nelsuo utilitarismo tecnologico» e alimenta la propriaindignazione civile «solo del suo furore pessimi-stico». Atteggiamento ideologicamente ambiguose non pericoloso, che Spinazzola intravede sem-pre più nell’intellettualità di sinistra.

A volte però, quando lo sforzo è quello di «assi-curare piena leggibilità all’opera», come sembrafare Paolo Volponi ne Il lanciatore di giavellotto, sirischia di cedere populisticamente al carattere di«memoria nostalgica». E se in Fruttero e Lucentini

Snob o populisti, autori sconfittidalla modernità

Paolo Di Stefano, Corriere della Sera, 11 giugno 2007

I limiti della narrativa contemporanea nel nuovo saggio del critico

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 57

Oblique Studio

58

il colloquio con il pubblico appare una preoccupa-zione costante, ne Il Palio delle Contrade Morte vienemeno, secondo Spinazzola, il piacere illuministicoanche se un po’ spregiudicato dei romanzi prece-denti a vantaggio di una «mera esecrazione mora-listica» del mondo moderno cui si possono con-trapporre solo gli strumenti occulti dello spirito.

Diverse e più politico-civili le osservazioni cheriguardano La fantarca di Giuseppe Berto, dove iterroni vengono esaltati come «buoni selvaggi»:«alla larga – postilla Spinazzola – da certi elogipopulistici, davvero peggiori degli insulti». Maanche per gli ultimi vent’anni, non mancanointerventi di tenore più politico, se Macno diAndrea De Carlo è sì rappresentante di un«intrattenimento letterario piacevole, estroso»che comincia a farsi apprezzare dal pubblico,non è però privo di «un buon margine di futilità»,testimoniando «la diffusione di atteggiamentiantipolitici, o almeno prepolitici, di facile presa(…)». Gli argomenti di Spinazzola sono sempremotivatissimi sul piano del contenuto come sulpiano formale: come quando affianca la fisiono-mia di Arbasino («più elegantemente mondana»)e quella di Busi («più corposa e sanguigna»),ambedue tese a «restituire l’immagine di unaPadania che si proietta entusiasticamente su unorizzonte cosmopolita ma nello stesso tempoappare in preda a una nevrosi psicosociale con-turbante». O come quando affronta il romanzo

più celebre di Susanna Tamaro chiedendosi doveva la scrittrice con questo suo libro. Risposta: va«da una tonalità prevalentemente melodrammati-ca ad una patetico-elegiaca, ma soprattutto hachiarito a se stessa la sua vocazione per le formedi scrittura più semplificate e agevoli». E dove vaErri De Luca con Tu, mio?. Risposta: verso «ardi-tezze immaginose», verso «una sonorità artificio-samente iperletteraria», verso una prosa «lirica-mente ispirata: con risultati ostici da mandar giù»,nonostante le «ottime intenzioni civili e morali».Infine dove va Alessandro Piperno? Ci sonobest-seller che si fondano sull’apprezzamentodelle élites colte e altri che nascono dal passapa-rola. Con le peggiori intenzioni «coniuga la leggibili-tà con la monotonia» e sta con i primi: «Sembrafatto apposta per incontrare un desiderio diffusodi modernità moderata, attraverso la ripresa dielementi tipici della grande tradizione novecente-sca, aggiornati in chiave manieristica».

A questo punto aspettiamo da Spinazzola unanuova puntata. Quella sui giovani narratori che«si sono lasciati alle spalle l’alternativa secca traavanguardismo e tradizionalismo: e quindi speri-mentano strutture d’intreccio, mescolano lin-guaggi alti e bassi, sbizzarriscono l’estro creativo,provocano magari il lettore medio». Sono gliautori con i quali il critico confessa di essere piùin sintonia. Dunque si spera che non siano con-dannati dal suo silenzio.

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 58

Come romanziere devo necessariamente col-locarmi al di fuori del sistema di competen-ze che struttura la vita intellettuale della

nostra società. Il romanziere non è uno specialista,non ha una particolare competenza in qualchedisciplina ed è perciò capace di viaggiare libera-mente avanti e indietro attraverso le frontiere chedemarcano le varie discipline. Io posso usare i con-cetti della scienza e la poetica della teologia.

Posso parlare come un antropologo, un filoso-fo, un pornografo. Posso usare i materiali dellastoria, posso fare la cronaca come un giornalista,posso ricorrere alla confessione, all’autobiografia,ai miti, alle leggende ai sogni, alle allucinazioni e aiborbottii dei matti e dei barboni che incontro perla strada. Per quanto mi riguarda, tutte queste cosehanno lo stesso peso. Userò tutte le parole deri-vanti da ogni modo di pensare con la certezza chesi potranno fondere in una composizione sensata.Così completa è la mia fede nella narrativa che lavedo come una mega-disciplina, una disciplina cheincorpora tutte le altre, confonde i generi, mesco-la realtà e immaginazione, e nel migliore dei casiriafferma il diritto dello spirito individuale e indi-pendente di rappresentare il mondo. Proprio comefaceva nell’antichità, quando la storia era un mododi conoscere, anzi lo strumento principale perorganizzare e conservare il sapere; quando la real-tà era una funzione della fede visionaria e la gentecreava le storie che leggiamo e che ci hanno guida-to fino a oggi. Le scritture, le storie di Dio.

I letterati sono dei conservatori che tengono ingran conto le strutture basilari dello spirito umano,che coltivano l’universale disposizione a pensare informa di storie, il primissimo strumento di cono-scenza, il discorso totale che precede gli specialivocabolari dell’intelligenza moderna.

Ma con tutti i suoi poteri la letteratura non faproseliti. È invariabilmente bipolare, il dubbio

sempre implicito nell’asserzione, dentro il sì c’èsempre un no e dentro il no un sì. È fornitrice dicomplessità morale, paradosso, ironia, pathos,insuccesso umano, e del fallimento, comico o tra-gico, delle istituzioni umane. È uno specchio del-l’irresolutezza dell’anima dell’uomo. Dice: «Eccocome ci si sente, ecco la verità della vita come lasentiamo». Così facendo essa confonde la fedesemplicistica, resiste alla pressione della libertàconnessa alle fantasie complessive della societàche, con la loro inerzia, instillano un intorpidimen-to del pensiero. Ma la letteratura non fa proseliti.

Alludo naturalmente alla letteratura dopo l’etàdel bronzo e del ferro. Perché le letterature ance-strali di quei tempi, i testi sacri delle nostre religio-ni, quelle sì fanno proseliti, a motivo della paterni-tà loro attribuita. Le scritture del giudaismo, delcristianesimo e dell’Islam sono state prodotte orivelate in epoche nel corso delle quali le storieerano tutto ciò che aveva la gente; e quando la loroinvenzione era la parola di Dio. Quei testi colletti-vi residui che hanno fatto di noi quelli che siamoerano sudate istruzioni per sopravvivere e scoper-te dell’intelletto configurate illustrativamente,certe volte in versi, per poter essere trasmessedalla memoria da persona a persona, molto primadel tempo in cui arrivarono a essere scritte.Davano consigli.

Collegavano il presente col passato. Legavano ilvisibile all’invisibile. Distribuivano le sofferenze inmodo che potessero essere sopportate. Come lestorie di oggi, non facevano distinzione tra realtà efinzione, tra ordinaria comunicazione e lingua ele-vata. Ma non erano atti letterari autocoscienti.

Tutte le forme di linguaggio che oggi distin-guiamo secondo la situazione in cui ci troviamonon erano state ancora ideate. La lingua era incan-tata. E l’atto stesso di narrare una storia contene-va una presunzione di verità.

Il potere della scrittura

Edgar L. Doctorow, la Repubblica, 11 giugno 2007

Anticipazione/L’intervento dell’autore americano al Festival delle Letterature

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 59

Oblique Studio

60

Anche se attribuita in parte a Mosè dalle perso-ne molto religiose, la Bibbia ebraica è chiaramenteuna creazione collettiva e adattata. AncheMaometto viene considerato un autore, benché lesue parole fossero state annotate da altri; e le paro-le, le azioni e la sorte di Gesù sono state riferite daiVangeli con la stessa varietà di descrizioni e la stes-sa sospetta obiettività che troviamo in alcuni deigiornalisti odierni. Ma nell’antichità solo Dio o isuoi profeti potevano vantare l’apprezzato titolodi autore. I testi sacri di tutte le religioni basatisulle scritture ebraiche sono stati corretti, riscritti,commentati collettivamente, interpretati da rabbi-ni, preti, imam, allo scopo di trasformare l’appren-dimento religioso in chiese, il timore reverenzialein dogma, il sentimento incipiente in sacramento,l’espressione bruta in comandamento etico. Ma lapaternità di Dio, attraverso i suoi intermediari,rimane incontestata. E se una parte di un testosacro è illogica, oscura, contraddittoria, bipolare,enigmatica, Dio nella sua perfezione di autore nondev’essere messo in discussione, ma solo noi, isuoi lettori, per le nostre carenze.

Nelle storie delle civiltà il diritto alla paterni-tà è calato dal cielo alla terra come una pioggiapurificatrice. Affinché questo accadesse si sonocombattute guerre, ci si è disfatti di ortodossie,la coscienza umana ha attraversato rivoluzioni egli esseri umani sono stati riconcepiti nella liber-tà. In un mondo moderno privato dal razionali-smo e dalla scienza della grande magia di un uni-verso divinamente concepito, tutti gli autorisono riconosciuti come mortali. E ogni storiadeve farcela da sola.

Quando Bacone e Galileo insistevano per met-tere alla prova le pretese della scienza con osserva-zioni ed esperimenti, il narrare storie come princi-

pale strumento di comprensione del mondo avevagià perduto una parte così grande della propriaautorità che oggi solo i bambini continuano a cre-dere che le storie, per il fatto di essere narrate,siano vere. I bambini e i fondamentalisti.

Dall’11 settembre 2001 ho riflettuto sulle anti-che scritture. Certo, al sorgere del terrorismo glo-bale si possono applicare valide considerazioni direalpolitik. Ma prendendo lo spunto da Emersonpotremmo descrivere il terrore inflitto dai nichili-sti di Al Qaeda che hanno subito un religiosolavaggio del cervello come nascente da quellaparte del mondo dove, per molte persone, l’uni-verso non può essere narrato perché è già statospiegato, e attribuito nella sua interezza oggi e persempre a un Autore Supremo.

È inconcepibile in una teocrazia assolutista, in unpaese governato da precetti religiosi – è inconcepi-bile in ogni società dove le risposte sono già statedate e le norme della vita sono inflessibili e la moda-lità dominante è l’autorità su ogni pensiero – che lalibera espressione e la molteplicità delle testimonian-ze non possano essere altro che un abominio, unpericolo per lo Stato o un affronto a Dio, perchéDio, o lo Stato, hanno già scritto tutto quello chec’era da scrivere, per chiunque e per sempre.

E così il futuro conflitto sottostante potrebbeessere inteso come tra le vecchie storie e le nuove,o tra i fanatici lettori dell’antichità e gli impertinen-ti scrittori di oggi, tra le antiche scritture rivelatecome divine e gli scritti delle nostre civiltà piùrecenti i cui autori sono mortali, molteplici e, purmancando di sante credenziali o anzi della neces-saria esenzione da un male tutto loro, sono inten-ti a raccontare l’universo.

Copyright Edgar L. Doctorow(Traduzione di Vincenzo Mantovani)

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 60

Confessore e inquisitore al tempo stesso,per mezzo secolo Tennessee Williamsconsegnò al diario i pensieri più privati,

annotando paure, ossessioni e contraddizioni,passioni e tormenti che tenterà di ricomporrenelle sue opere. «Tenere un diario è consuetudinedell’uomo solitario – scriveva –, esso tradisce ivizi dell’introspezione e dell’isolamento sociale,anche un certo narcisismo». Ma per lo scrittorecostituiva una conferma della «continuità dellapropria persona, del legame fra l’io passato e l’iopresente, e la confortante certezza che la dispera-zione, le sconfitte, le delusioni siano soverchiateda pagine e pagine di nuove esperienze finoall’estinzione del proprio essere». Fra il 1936 e il1981, con una sfortunata interruzione di vent’an-ni, egli trasferì la sua voce più autentica in unaquantità di taccuini riempiti ossessivamente, unpo’ ovunque, in America e in Europa.

Inediti fino a oggi, sono ora pubblicati a cura diMargaret Bradham Thornton in Notebooks –Tennessee Williams (Yale University Press, pagg.828), un volume ampiamente annotato che rimar-rà il più spontaneo e icastico autoritratto delloscrittore. Sono pagine in cui parla «di sé a se stes-so», in cui assieme alle virtù – «sono buono, affa-bile, modesto, comprensivo, tollerante e sensibile»– riconosce i difetti – «sono egocentrico, di un’in-trospezione morbosa, sensuale, miscredente, indo-lente, pavido, vigliacco». Buttati giù a matita, inuno stile incurante e diretto, «così, semplicementecome i cattolici parlano al prete attraverso la gratadel confessionale», i pensieri registrano i sentimen-ti di inadeguatezza, la solitudine, l’ansia, il panico el’inquietudine che non gli dà tregua, «mai, mai intutta la vita conoscerò il significato della pace».

Ogni sensazione, ogni tensione è annotata conprecisione quasi maniacale. All’inizio sono le emi-cranie, i giramenti di testa, le ginocchia tremule, le

strane fitte al collo, per non parlare di tutti i sinto-mi della tubercolosi, che anticipano una vita diipocondria. Il bollettino medico continua neglianni, fino a quando, tormentato dai «demoni blu»,come chiama la sua nevrosi, ingoia ogni sorta dibarbiturici e anfetamine, mentre l’alcol lo soccorregià di primo mattino.

Una cosa soprattutto cerca di annientare in sestesso: il malessere che gli crea la sua omosessua-lità, il rimorso per la carenza di «mascolinità».«Devo essere un uomo e non una lagnosa femmi-nuccia», si esorta. Riflettendo sull’opera diShakespeare, scrive: «Scommetto che era unuomo con le palle, e non una dannata sissy».Obbediente all’educazione puritana della madre,represse i suoi istinti gay fino ai trent’anni, quan-do si abbandonò a ogni sorta di eccessi nell’ano-nimato di Manhattan, Brooklyn e New Orleans.E appunto di una vita di eccessi, nel privato e nellavoro, i diari sono la testimonianza più schietta,fin dalle prime pagine in cui emerge il giovaneidealista che bombarda di poesie, racconti e com-medie i concorsi letterari, che vede nella scritturala sola possibilità di sopravvivere all’oppressionedi un ambiente familiare angusto, afflitto dai ran-cori fra padre e madre e dalla crescente instabili-tà mentale dell’adorata sorella Rose, musa dellesue opere più toccanti.

«La mia situazione è così disperata che oggivedo solo due vie d’uscita: la morte o il suicidio»,scrive nel 1936. Poi si consola commentando gliscrittori che ammira: «la prosa eccellente» diCecov, «l’infallibile scintilla» di Strindberg, «lesfrontate esagerazioni più reali della realtà» diFaulkner, e infine Joyce: «un raro caso di talentolirico dominato dall’intelletto».

Era nato nel 1911 nel Mississippi col nome diThomas Lenier Williams, ma nel 1938 lo cambiòin Tennessee Williams, duraturo omaggio al suo

Tennessee WilliamsUn diario che si chiama desiderio

Aridea Fezzi Price, il Giornale, 14 giugno 2007

Pubblicati i taccuini personali in cui lo scrittore annotò dal 1936 al 1981 ossessioni,rimorsi e progetti letterari

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 61

Oblique Studio

62

legame con il Sud degli Stati Uniti. E, deciso asfondare come scrittore, annota nel diario: «lamia prossima pièce sarà semplice, diretta e terribi-le – un’immagine del mio cuore – senza artifici,solo la verità come io la vedo, distorta come iointendo la distorsione, tenera come lo sono io,sarà tutto me stesso senza occultamenti o evasio-ni». Sarà insomma, conclude, «un assalto fronta-le alla vita, senza paura e senza vergogna». I per-sonaggi più travolgenti delle sue pièces sonotutte proiezioni di sé o della sua famiglia, e nona caso gli anni più affascinanti, in questi diariavvincenti, sono quelli che precedono e accom-pagnano i suoi due primi trionfi teatrali, Zoo divetro (1945) e Un tram che si chiama desiderio (1947).

Se i diari non dicono molto sul suo lavoro, neilluminano con luce diretta l’elaborazione: «unacommedia è una fenice», scriveva nel 1941. Siinterrompono nel 1958, quando depressione, alcole droga hanno la meglio su di lui, sovvertendoanche la sua vena creativa più lirica. Li riprende nel1979. Sono diari più di riflessione che fattuali:sotto il titolo Mes Cahiers Noirs lo scrittore cheaveva fatto «una religione positiva del sempliceatto di sopportare e resistere» è stanco e scoraggia-to. Poco prima della morte che lo sorprende nel1983 si interroga sul caos della propria vita: «Checosa sono gli artisti? Disperati cercatori di fram-menti di verità e di bellezza, anche se spesso essesono ai poli opposti».

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 62

Quando pubblicò Castelli di rabbia, nel 1991,l’editor Grazia Cerchi gli permise di arri-vare in libreria con un romanzo che fosse

quanto più simile possibile al dattiloscritto origina-le. Sedici anni dopo, Alessandro Baricco restituisceil favore, dirottandolo su quindici scrittori esor-dienti. “Quindicilibri”, infatti, è il nome dellanuova collana della casa editrice Fandango chel’autore di Novecento dirige con lo scrittore DarioVoltolini. Una serie a numero chiuso, disciplinatada un decalogo di regole rigide e insindacabili.Prima fra tutte, la pubblicazione di opere prime e«occasionalmente» seconde i cui testi sarannostampati così come sono. Solo in caso necessario,si procederà a un leggerissimo editing che nonprevede interventi strutturali, né modifiche pro-fonde. Il primo titolo, Les Adieux di AriannaGiorgia Bonazzi (pagg. 104, euro 10) – flusso dicoscienza di una ragazzina friulana alle prese conil mestiere di crescere tra gli anni Ottanta eNovanta – è già nelle librerie.

«Continuo a pensare che in Italia esordire nonsia difficile – precisa Alessandro Baricco – maquello che mi interessava da anni era dare la possi-bilità al lettore di leggere un’opera prima cosìcom’è. Leggere opere imperfette è un piacere pre-zioso. E gli inizi di uno scrittore rappresentanoproprio il regno dell’imperfezione. In chi si affac-cia alla letteratura, c’è una forza ineducata che poisi perde per strada. Invece si tratta di qualcosa cheva salvato, sia per gli autori che per i lettori. Hovisto libri dimezzati, col finale cambiato, mi sem-bra che così si rischi di perdere elementi importan-ti, soprattutto per quanto riguarda quelli che sonoi talenti veri, animali».

Baricco, però, si tira fuori da ogni polemicacontro gli editori e il sistema dell’editing: «Le case

editrici italiane fanno un buon lavoro sulle opereprime e seconde. In caso contrario, negli ultimidecenni non avremmo potuto leggere romanzi discrittori come Erri De Luca, Sandro Veronesi,Niccolò Ammaniti, autori che hanno vissutoesordi letterari “normali”. Quella dell’editingrimane una trafila fondamentale e necessaria. Segli altri pubblicano libri belli, a noi ora interessa-no libri imperfetti».

Gli autori di “Quindicilibri” rimarranno pro-prietari di tutti i diritti secondari dell’opera,vedranno stampati i loro romanzi entro sei mesidalla decisione di pubblicarli e avranno a dispo-sizione tre righe per sintetizzare le loro note bio-grafiche, non corredate da fotografie. «Ho pro-vato su di me quanto la vicenda biografica fini-sca per essere un elemento forte nella carriera diuno scrittore – continua Baricco – ma c’è unmomento in cui questo non esiste ed è propriol’inizio. Quando c’è solo il libro. Si tratta di unperiodo brevissimo. La nostra idea è coltivarequesta chance che poi non si ha più. Dopo, tuttocambia».

Gli altri titoli – fino al quindicesimo – checomporranno la collana saranno selezionatiattraverso il passaparola, «risalendo a quegliautori che si sono sentiti rispondere dalle caseeditrici: “bellissimo, ma non ci sentiamo di pub-blicarlo”», dicono Baricco e Voltolini, che invita-no gli aspiranti scrittori a non farsi illusioni e giàtemono di essere sommersi da pile di dattilo-scritti. Se la giovinezza editoriale è condizionenecessaria per la pubblicazione dei nuovi autori,non per questo lo è anche quella anagrafica.«Sarebbe curioso scoprire un novantenne digenio, magari un nuovo Bufalino», fantasticaVoltolini. La caccia è aperta.

“Pubblicherò libri imperfetti”

Dario Pappalardo, la Repubblica, 15 giugno 2007

Alessandro Baricco: la mia collana per esordienti

Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 63