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La rassegna stampa di dal primo al 31 ottobre 2009 O blique «La mia aspirazione finale è contemplare un film che scorre lungo le pagine dei miei libri» Jean Echenoz Maria Sole Abate, «Harold Bloom: “La grande letteratura? Distrutta dall’ideologia”» il Giornale, primo ottobre 2009 3 Maurizio Bono, «Vetrine in vendita per i bestseller» la Repubblica, primo ottobre 2009 5 Massimiliano Parente, «La letteratura sta affogando nel sociale» il Giornale, 2 ottobre 2009 7 Sandra Petrignani, «Un romanzo ci interroga sul diritto a una “buona morte”» l’Unità, 7 ottobre 2009 9 Paola Peroni, «I ritmi di Amy Hempel» il manifesto, 8 ottobre 2009 11 Fabrizio Rondolino, «Herta Müller, Nobel ai margini» La Stampa, 9 ottobre 2009 14 Francesco Comina, «L’editore del Nobel che gira in furgone e brinda a chinotto» il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2009 16 Stefano Salis, «Il bestseller a portata di clic» Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2009 18 Paolo Mauri, «Arbasino, ritratto feroce di una piccola Italia» la Repubblica, 13 ottobre 2009 20 Silvia Sperandio, «Parte dai sentimenti la nuova identità veneta» Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2009 22 Paolo Bianchi, «Libri roventi. Mauri Spagnol prende Fazi e lancia la sfida alla Rizzoli» il Giornale, 14 ottobre 2009 24 rs_ottobre09.qxp 05/11/2009 11.35 Pagina 1

La rassegna stampa diOblique · diare al danno. E in ogni caso non vedo la possibilità di alcuna rinascita culturale. L’unica cosa che si può fare è scendere in campo, traccia-re

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La rassegnastampa di

dal primo al 31 ottobre 2009Oblique

«La mia aspirazione finale è contemplare un film che scorre lungo le pagine dei miei libri»

Jean Echenoz

– Maria Sole Abate, «Harold Bloom: “La grande letteratura? Distrutta dall’ideologia”»il Giornale, primo ottobre 2009 3

– Maurizio Bono, «Vetrine in vendita per i bestseller»la Repubblica, primo ottobre 2009 5

– Massimiliano Parente, «La letteratura sta affogando nel sociale»il Giornale, 2 ottobre 2009 7

– Sandra Petrignani, «Un romanzo ci interroga sul diritto a una “buona morte”»l’Unità, 7 ottobre 2009 9

– Paola Peroni, «I ritmi di Amy Hempel»il manifesto, 8 ottobre 2009 11

– Fabrizio Rondolino, «Herta Müller, Nobel ai margini»La Stampa, 9 ottobre 2009 14

– Francesco Comina, «L’editore del Nobel che gira in furgone e brinda a chinotto»il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2009 16

– Stefano Salis, «Il bestseller a portata di clic»Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2009 18

– Paolo Mauri, «Arbasino, ritratto feroce di una piccola Italia»la Repubblica, 13 ottobre 2009 20

– Silvia Sperandio, «Parte dai sentimenti la nuova identità veneta»Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2009 22

– Paolo Bianchi, «Libri roventi. Mauri Spagnol prende Fazi e lancia la sfida alla Rizzoli»il Giornale, 14 ottobre 2009 24

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– Paolo Di Stefano, «Re Sergio e il pianeta libro nella costellazione Giunti»Corriere della Sera, 14 ottobre 2009 26

– Ranieri Polese, «Duello Mondadori-Garzanti sull’autrice sconosciuta»Corriere della Sera, 18 ottobre 2009 28

– Stefano Mauri, «Spagnol, un re artigiano»Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2009 29

– Riccardo De Palo, «Biblioteca in mano. La rivoluzione del libro elettronico»Il Messaggero, 19 ottobre 2009 30

– Leonetta Bentivoglio, «Jean Echenoz»la Repubblica, 24 ottobre 2009 31

– Gilda Policastro, «Babelico Blog»il manifesto, 25 ottobre 2009 33

– Irene Bignardi, «Quando finisce il sogno americano. Fuga on the road per Cormac McCarthy»la Repubblica, 26 ottobre 2009 36

– Cinzia Romani, «Roberto Calasso: “I lettori italiani? Ci vedono più lungo di tanti intellettuali”»il Giornale, 27 ottobre 2009 38

– Antonio Monda, «Jonathan Lethem: “Così ho riscritto il mito di Manhattan”»la Repubblica, 27 ottobre 2009 40

– Massimilano Parente, «Come scalare la classifica. Teoria e pratica (furbetta) del bestseller»il Giornale, 27 ottobre 2009 42

– Cristina Taglietti, «Ammaniti: “Racconto il comico dell’editoria in un’Apocalisse all’italiana”»la Repubblica, 30 ottobre 2009 44

– Raffaele La Capria, «Zio Valentino, per l’Italia con il catalogo sotto braccio»Tuttolibri della Stampa, 31 ottobre 2009 46

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Harold Bloom (New York, 1939), auto-re del celebre Canone occidentale (dapoco riportato in libreria da Rizzoli,pagg. 560, euro 14,50, prefazione diAndrea Cortellessa), è considerato ilpiù grande critico letterario vivente.

In questo saggio fondamentale e controverso,uscito per la prima volta nel 1994, Bloom eleggeventisei autori della letteratura occidentale ini-ziando da Dante per arrivare fino a Beckett pas-sando da Shakespeare, come autore supremo, ilcentro del canone. Gli altri autori canonizzati daBloom sono Chaucer, Cervantes, Montaigne,Moliere, Milton, Samuel Johnson, Goethe,Wordsworth, Jane Austen, Walt Whitman, EmilyDickinson, Dickens, George Eliot, Tolstoj, Ibsen,Freud, Proust, Joyce, Virginia Woolf, Kafka,Borges, Neruda e Pessoa.

Secondo Bloom, gli scrittori da lui prescelticostituiscono il cuore della nostra civiltà, lehanno donato un’anima: sono imprescindibili.

Il critico cerca di ristabilire una gerarchia divalori nell’arte, andata perduta a causa di una cri-tica ideologica che, in nome del politicamente cor-retto, ha ormai abbandonato ogni criterio esteticoe intellettuale nella valorizzazione della letteratura.

Harold Bloom ha fatto della sua vita una bat-taglia contro ogni forma di appiattimento cultu-rale non esitando a entrare nel vivo del dibattitocontemporaneo, pronunciandosi anche sui premiNobel (fra gli altri si è opposto ai premi assegna-ti a Dario Fo, Doris Lessing, Toni Morrison e LeClézio) e sulla mediocrità della critica, inclusaquella giornalistica.

Vorrei partire proprio dal concetto di una gerar-chia in letteratura, un tema fondamentale de IlCanone occidentale. Oggi la critica nega qualun-que forma di eccellenza estetica in nome di valo-ri morali e politici. La vera rivoluzione nonsarebbe quella di sostenere un’idea gerarchica diletteratura?«Certo, assolutamente. Ma è una sfida persa.Non c’è speranza. Questa tendenza è stataimposta al mondo intero dalla rivoluzione del’68, un movimento più che legittimo sul pianopolitico per opporsi all’orribile guerra inVietnam, ma causa della distruzione di ogniqualità accademica nel mondo occidentale. Ènato un senso di colpa legato all’idea di elitari-smo culturale. Ma è ridicolo, un’ipocrisia. Ilpunto è questo: o si ha una mente in grado di

HAROLD BLOOM: «La grande letteratura? Distrutta dall’ideologia»

Maria Sole Abate, il Giornale, primo ottobre 2009

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apprendere la lettura di Dante, Shakespeare eCervantes o non la si ha. E se non la si ha nonc’è nessuno che possa rimediare».

La causa di questo arretramento culturale staanche nell’alleanza fra editori, critici e narrativadi consumo?«Certo, il potere economico è un alleato dellacultura di massa ma non c’è nulla che si possafare al riguardo, per il semplice motivo che èimpossibile anteporre qualunque battaglia innome dell’eccellenza alla mentalità del profitto.Oggi il mondo è in crisi proprio per questo, sulpiano finanziario voglio dire, mi riferisco al disa-stroso sistema bancario. E anche se oggi abbia-mo Obama, un presidente abile, sarà dura rime-diare al danno. E in ogni caso non vedo lapossibilità di alcuna rinascita culturale. L’unicacosa che si può fare è scendere in campo, traccia-re una linea intorno a uno spazio, costruirciintorno un recinto, tenerlo protetto dal resto,mettere degli argini, invitare le persone chehanno una mente a entrare, a correre il rischio, atagliarsi fuori dal resto del mondo, dalla culturadominante, e preservare quel poco che può esse-re preservato».

Non crede più in questa battaglia? Vive nelladisillusione totale?«Oggi l’eccesso di stimoli visivi che ci arrivanodai media, dalla televisione, da Internet, hadistrutto o quanto meno gravemente danneggia-to qualunque forma di studio e di lettura. La let-tura è un’attività individuale, solitaria, e vorreidavvero sapere in quanti cercano più l’isolamen-to della lettura. Quanti sono oggi quelli che si rin-tanano a leggere Dante per esempio?».

E istruzione?«La qualità dell’istruzione è in uno stato di declinototale. I programmi universitari corrono gravirischi, perfino in un’università di eccellenza comeYale. I bambini oggi leggono J.K. Rowling, comesappiamo, ed è una piaga universale. I genitoridovrebbero saperlo. Fra un po’ inseriranno la sagadi Harry Potter nei corsi universitari e i responsa-bili potranno celebrare un’altra vittoria dell’impo-verimento culturale. I critici del New York Timessaranno contenti. Forse è semplicemente troppotardi. Ora, però, sono molto stanco. Tutto quelloche ho da dire è nei miei libri, e l’edizione italianade Il Canone occidentale è una delle migliori.Presto uscirà il mio nuovo saggio Living Labyrinth,in cui cerco di salvare quello che si può salvare».

Non lascia alcuna speranza? «Io credo sempre in questa battaglia, ma non neirisultati. Non posso che sostenere e spronarechiunque la voglia portare avanti. Ma per quantomi riguarda, dopo gli anni passati sul campo, ogginon mi resta che stare qui a leccarmi le ferite».

Di Harold Bloom sono in uscita nel 2010 LivingLabyrinth: Literature and Influence, un ulterioresaggio sui grandi autori della letteratura mondialein un ultimo riconoscimento del loro valore, e TillI end My Song: A Gathering of Last Poems,un’antologia di cento poesie di cento poeti scritteverso la fine della loro vita. Nel frattempo, mi dice,nonostante le sue condizioni flsiche dovute a unagrave caduta in cui si ruppe tutte le vertebre pocopiù di un anno fa («mi davano tutti per morto, einvece eccomi qui»), continua a insegnare a Yale,dove «si cerca di resistere al declino. Ma è dura, micreda, perfino qui».

Oblique Studio

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Il critico americano: ogni gerarchia estetica e intellettuale è saltata. Colpa della devastazione figlia del Sessantotto

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N aturalmente Brown, dal 23 ottobre. Manegli stessi giorni anche Stephen King(Under the dome). E Che la festa cominci

di Ammaniti. Poi, dal 4 novembre, Baricco conEmmaus. E il giovedì dopo La mano di Fatimadi Idelfonso Falcones, tiratura 250mila copie.Senza contare il migliaio di altri titoli che tra oggie Natale, nei tre mesi che valgono il 40 per centodelle vendite annuali (dicembre, da solo, fa il 20),saranno in libreria. E qui qualcuno conquisterà levetrine, perché molto atteso, o perché l’editorecompra lo spazio – si può fare e si fa – permostrarlo meglio, altri, con ambizioni di classifi-ca, diventeranno mucchi e pile nei posti in vista,mentre i meno fortunati andranno dritti negliscaffali.

Ma allora bestseller seller si nasce o si diven-ta? Il successo scritto nel dna è solo per gli happyfew che se lo sono conquistato prima (e fino aprova contraria): il nuovo romanzo dell’autoredel Codice da Vinci, il trentacinquesimo del redell’horror come il settimo Harry Potter. Nonc’è comunque titolo abbastanza sicuro di sé danon farsi precedere dal battage: la cripticasequenza di codici su Twitter per Dan Brown, ilconto a rovescio dei giorni dall’uscita e la mappainterattiva dei luoghi del romanzo per King, anti-cipazioni centellinate, misteri creati, lanci all’orazero. Per gli altri il marketing al tempo della crisi(-9 per cento di libri venduti nei primi nove mesi)Paolo Zaninoni, direttore editoriale della Rcslibri, lo riassume così: «Quello che un po’ tutti

stiamo facendo è tagliare i costi. Non sulla pro-mozione: lì la strategia è spendere meglio, con-centrando su pochi titoli importanti la scommes-sa». Che è quella di costruire in pochi giorni osettimane la visibilità di un libro, spesso partendoda zero.

Impossibile non è. Quest’estate c’è riuscitaAdelphi con Zia Mame, una bella sfida: autorepseudonimo dimenticato da mezzo secolo, storia“inattuale”. Decisivi la copertina rosa, rigorosa-mente adelphiana ma in tinta frivola, e la capaci-tà dell’editore di convincere i librai a trattarlacome una novità: che vuol dire buona esposizio-ne. In più, l’idea: diecimila copie di poche pagined’assaggio fatte distribuire non solo nelle librerie(già visto) ma in bar e ristoranti delle grandi città.Sarà stato quello? «L’unico dato certo che ho»dice l’editor Matteo Codignola «è che, a duegiorni dall’uscita, al ristorante ho sentito che nestavano parlando. Il sogno di tutti: era partito ilpassaparola». Zia Mame è stata prima in classifi-ca fino ai primi di settembre.

Con strumenti agli antipodi in questi giorniSperling & Kupfer lancia il digi-thriller Level 26scritto dall’inventore del telefilm Csi AnthonyZuiker: ogni venti pagine c’è un codice che daaccesso in internet a un filmato che porta avantila trama, poi torni a leggere, e così via. Il primoesperimento di promozione web per un libro nédi genere né per young reader lo farà inveceBompiani affidando il 3 novembre il lancio incontemporanea mondiale del nuovo manifesto

VETRINE IN VENDITA PER I BESTSELLERLibrerie, web o tv: la fabbrica di un successoMaurizio Bono, la Repubblica, primo ottobre 2009

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ecologico Our Choice di Al Gore alla web tvambientalista dell’autore, Current tv: «Sceltalogica perché quel mezzo» secondo Zaninoni«parla lo stesso linguaggio di Gore».

Ma la campagna più esemplare della stagionela prepara Fazi intorno a Buio-Myland, titolo diuna saga “urban fantasy” dell’esordiente italianaElena P. Melodia. Mai sentita? Ok, non sarà cosìper molto se il lancio funziona: sito myland-buio.it con le prime dieci pagine, blog, gioco apremi rilanciato da spot alla radio, test “a qualepersonaggio assomigli” in Facebook, affissioni inmetro (slogan: IMMERGETEVI NEL BUIO), assaggioin libreria, nei locali (come Zia Mame) e allegatoa mensile per ragazzine. In aggiunta una diavole-ria techno che finora in campo pubblicitariohanno usato solo la moda e l’informatica: foto-grafi con il telefonino un logo (nel caso di Buioquello della collana “Lain”) sui manifesti inmetro o nelle vetrine delle librerie e un codicecriptato nella grafica (qr code) ti spara dritto nelsito.

Basterà? No, alla base c’è l’investimento piùconcreto, spiega Elido Fazi: «Trentamila copie ditiratura ed esposizione preferenziale prenotataper due settimane nelle vetrine delle Feltrinelli».Perché se si vuole sparare nel mucchio bisognamirare dove si vendono sette volumi su dieci: lelibrerie. E nelle catene, che oggi sono principal-mente due, i 98 punti vendita Feltrinelli e i 180negozi Giunti, Melbookstore e Ubik (uniti dopoun accordo a giugno tra Giunti e Messaggerie) adecidere gli spazi, fatto salvo un occhio di riguar-do per l’editore proprietario, sono accordi com-merciali centralizzati.

Dario Giambelli, amministratore delegatodelle librerie Feltrinelli, assicura: «È tutto moltosemplice e parte dalle proposte degli editori.Quelle alla Dan Brown, irresistibile perché è unapuntata che stanno facendo tutti, e quelle che lecase editrici ti dicono che saranno bestseller. Masi sa che poi il 5 per cento dei titoli vende il 30-40 per cento delle copie. Perciò entrano incampo le valutazioni dei buyer centrali e deilibrai: se ne discute e si pianifica». Il responsabi-le commerciale delle Giunti Iacopo Gori dà piùdettagli: «Abbiamo un format che tende a spin-gere i titoli di punta con la formula “Le nostreproposte”. O con spazi privilegiati in vetrina, inentrata, scaffali evidenziati, comunicazione inter-na con vetrofanie e percorsi di adesivi. Siamo per

un ruolo attivo e creativo del libraio nella promo-zione del titolo, selezionato comunque a monteda noi».

L’editore come paga? «Nessun listino, accordicaso per caso, da poche migliaia di euro se il tito-lo è molto in sintonia col nostro pubblico a deci-ne di migliaia per una vetrina particolare, conta-bilizzati come rimborso marketing». Giambellidistingue: «Nelle Feltrinelli abbiamo gli scaffali“Scelto per voi”, decisi in autonomia dai librai, ele tendenze di mercato con le classifiche dei piùvenduti nella catena. Pile ed esposizione all’inter-no nel 95 per cento dei casi sono scelte nostre:non sono gli extrasconti a fare la quantità dicopie, è la quantità a portarsi dietro l’extrascon-to». Comprare lo spazio, però, si può: «Se un edi-tore vuole investire può acquistare uno spaziovetrina». Quante sono le vetrine vendute? «Nonpiù di quattro su dieci, in ogni negozio almenouna su due resta a disposizione del libraio».

Sembra un secolo ma erano solo quattro annifa quando in America un’inchiesta del New YorkTimes su una politica commerciale simile dellacatena Barnes&Nobles sollevò un breve vespaio.Là lo scandalo è passato e la vendita delle vetri-ne è diventata regola. E da noi? «Va chiarito»argomenta Gori «che i negozi guadagnano ven-dendo libri, non spazi. Perciò vendere spazi alibri in cui non si crede sarebbe folle. Quandoquest’estate Oriana Fallaci vendeva meno delprevisto abbiamo rimandato indietro molta partedel rifornimento». Conferma Giambelli: «Laprova che ci stiamo attenti è che alle Feltrinelli lerese sono metà della media italiana, che è del 30per cento».

Quanto conta “lavorarsi” i librai, del resto, loracconta bene l’operazione di marketing “mira-ta” nell’anno scorso. Il thriller Il suggeritore diDonato Carrisi inizia con una lettera del diretto-re di un carcere per segnalare al giudice lo stranocomportamento di un misterioso detenuto. «Hoavuto l’idea di stampare un migliaio di copie diquella prima pagina, infilate in buste verdi con lascritta “notifica atti giudiziari” e spedirla ailibrai» ricorda il presidente del gruppo GemsStefano Mauri, che ha tenuto a battesimo ilbestseller per Longanesi. «Tutti l’hanno lettasubito». Carrisi ha venduto 150mila copie in cin-que mesi e vinto il premio Bancarella assegnatoproprio dai librai: avranno imparato a fare affarima non hanno perso sense of humour.

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I nsomma, signore e signori, come mai da noi èimpossibile fare qualsiasi distinzione artistica inletteratura? Come mai non c’è più alto né basso

ma solo il numero delle copie vendute? Comemai non ci sono più riferimenti culturali impre-scindibili, e questo solo in letteratura, perchéperfino in gastronomia il Mc Donald’s nonavrebbe mezza stella sul Gambero Rosso?Perché, se un capocultura di un noto settimanalescrive che Musil e Proust non hanno più nienteda dirci e Faletti è il più grande scrittore italianonon parte neppure una pernacchietta, una scor-reggina? «Senza aiuti critici da nessuna parte, ènaturale che invece in casa nostra la situazione sisia fatta gradatamente più spiacevole, mentre ivecchi praticoni inferociti agonizzano sempremeno rispettati e muoiono addirittura tra i dileg-gi» scriveva Alberto Arbasino già nel 1964 a pro-posito della situazione culturale italiana, quando«era già possibile toccare con mano la mediocri-tà letteraria e umana del buttar via ogni tipo didignità pur di far rendere la cultura in soldi».

Ora che i vecchi praticoni sono morti e sepol-tissimi, ora che si è rimasti soli a denunciare lamediocrità letteraria e gli Strega e i Campielli egli Scarpa e gli Scurati e i D’Orrichi, ora che atentare una benché minima distinzione estetica,artistica, si passa per “puristi”, come dichiaranoorgogliosi i De Cataldi che butterebbero alle orti-che la Recherche (e paradossalmente questi“puristi” diventano i rivoluzionari nella dittaturadella cultura di massa), tanto vale espatriare conla mente e cercare conforto oltreoceano, peresempio in un caro vecchio saggio rompiballecome Harold Bloom.

Il più grande critico vivente, politicamentescorrettissimo, ieri intervistato dal Giornale, adifferenza dei critici nostrani, capaci solo di con-validare le classifiche di vendita e il mainstreamdel vendibile e premiabile, o di scrivere inutililibercoli su sé stessi, ha lasciato opere importan-ti e combatte per la letteratura, non contro la let-teratura. Non si capacita, infatti, di come abbia-no potuto dare il Nobel a Dario Fo. Nei suoilibri scopriamo che, forse, tutto il mondo èpaese, e troviamo le risposte a tante piccinerieitaliane, per difendersi dai saggisti che si sostitui-scono agli scrittori, per trovare antidoti al refrainfunebri sulla morte dell’autore, sul romanzomorto, sui classici resi morti perché canonizzatiper essere mortificati, museificati, resi inerti, ste-rilizzati o comprati a sporte per fare una bellafila di Meridiani Mondadori da dodici eurol’uno, per averli senza leggerli e, soprattutto,senza tenerne conto.

Invece per Bloom il “canone occidentale” èqualcosa di vivissimo, e implica un’idea di“eccellenza” letteraria che qui (ma anche lì) sicerca di cancellare. La tendenza, ormai decenna-le, è una “fuga dall’estetico”. La letteratura è unraccontare storie, possibilmente edificanti. È lagrande Scuola del Risentimento, così la chiamaBloom, che combatte ogni idea di gerarchia arti-stica, e include varie tipologie di risentiti, tutticomplici nel rendere tutto indistinguibile datutto. Ci sono per esempio i marxisti, postmarxi-sti, seguaci di Michel Foucault, come per esem-pio, da noi, Carla Benedetti e l’andazzo “antige-rarchico” del gruppo della rivista Il PrimoAmore, dove non si può parlare di alto e basso,

LA LETTERATURA STA AFFOGANDO NEL SOCIALE

Secondo i critici militanti, non c’è differenza fra un’opera d’arte e una puntata di Report o un film di Michael Moore. È la scuola del Risentimento e vorrebbe uccidere la creatività

Massimiliano Parente, il Giornale, 2 ottobre 2009

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arte e non arte, letteratura e non letteratura,genere e non genere, perché si viola il politica-mente corretto e inoltre si chiamerebbero incausa, secondo loro, categorie “borghesi” (comese l’arte fosse democratica, infatti vogliono abo-lire l’arte).

Ma, si sa, la Scuola del Risentimento sta con ilpopolo. Tempo fa chiesi alla Benedetti: «Alloradi che cazzo bisogna parlare?». E lei mi rispose:«Non so, istituire categorie nuove, per esem-pio… mmm… la forza» e pensai che doveva esse-re appena uscita da Guerre Stellari, e come se laforza non fosse altrettanto gerarchica e ancheintollerabile, per una critica femminista come lei.Lei, Carla Obi-Wan Kenobi, seguace di Foucaulte Pasolini, detesta le gerarchie, ma giustamenteBloom osserva che «se non c’è canone, alloraJohn Webster, che sempre scrisse all’ombra diShakespeare, potrebbe benissimo essere letto alposto di Shakespeare, sostituzione che avrebbesbalordito Webster stesso». Forse per “forza” siintende l’“energia sociale”, e infatti i tanti esalta-tori dei libri neoimpegnati (d’immigrazione, diprecariato, di mafia e denunce sociali di variogenere) sono anti-canonici, non gli interessal’opera d’arte e la sua grandezza, bensì il suoaspetto sociale, la vecchia minestrina riscaldatadell’impegno. Se leggete quello che dicono gliapologetici Gomorra di Roberto Saviano faticatea distinguere la differenza tra un’opera d’arte euna puntata di Report o un film di MichaelMoore, semplicemente perché, per i risentiti, nonc’è, non deve esserci. Non esiste genio, nell’indi-viduo, esiste “la società”. Dovrebbe essere pacifi-co: se sei il Mahatma Gandhi o il sindaco diNapoli va bene, se sei uno scrittore è male.

«Un critico può avere responsabilità politiche,ma il suo primo obbligo è di riproporre l’antico,triplice e assai tetro interrogativo dell’agonista:più che non, meno che non, uguale a». Inoltre,osserva Bloom, il canone, al contrario del contestosociale, è perfino quantificabile, «il che equivale adire che William Shakespeare scrisse trentottolavori teatrali, ventiquattro dei quali sono capola-vori, laddove l’energia sociale non ha mai scrittouna sola scena». I critici dovrebbero occuparsidella mortalità o dell’immortalità delle opere let-terarie, invece o sono zerbini dell’industria edito-riale e delle classifiche di vendita, oppure (nuovatendenza italiana) tendono a sostituirsi agli scrit-tori. Trite e tristi discussioni che ho avuto con

Berardinelli e il suo seguace La Porta (e con evo-cati annessi e connessi come Onofri, Manica,Cortellessa, e chi più ne ha più ne uccida) dove sicitano l’uno con l’altro e leggono le opere attra-verso i critici amici o da loro eletti a maestri, rite-nendoli più importanti delle opere stesse.

È un’altra tipologia della Scuola del Risen-timento, quella dell’invidia, per dirla esattamentecon Bloom «invidia creativa». La stessa che avevaTolstoj nel confronti di Shakespeare, solo chealmeno lui, nell’idiozia critica, era Tolstoj, questisono senza arte né parte, benché con tanta ideo-logia di condimento, e lì c’è un bel gruppetto dicritici invasati d’impegno, basta leggere la produ-zione critico-meridionalista di Goffredo Fofi oquello che scrive sul Corriere della Sera l’altrocritico Luperini di Saviano, contro chiunque loattacchi in nome dell’arte, subito definito dal cri-tico marxista «un berlusconiano», e confondendol’eccellenza artistica con la morale. È solo perchéun minimo di pudore resiste che non accusanoDostoevskij di antisemitismo e di schiavismo(dovrebbero, come hanno fatto con Céline), men-tre oggi si fa a gara affinché ciascuno sia buono esi preoccupi della società. E non ho mai capitoperché questi autori, così preoccupati dell’utilitàa scapito dell’arte, non facciano gli assistentisociali, i magistrati, i sindacalisti, gli agitprop, ipolitici. Lo fanno solo Veltroni e Franceschini,dei quali tuttavia non ho mai capito perché scri-vano, sebbene la risposta sia proprio il tema cen-trale della Scuola del Risentimento e dei medio-cristi letterari. Scrivono perché credono che laletteratura non debba essere artisticamente eccel-lente ma moralmente buona, vendibile e buona.Leopardi sarebbe stato tranchant: «Costante giu-dizio della moltitudine è che chiunque possa eleg-gere, elegga di esser buono; gli sciocchi sienobuoni, poiché altro non possono». Valéry avreb-be obiettato: «Ho in sospetto la facilità dei mezziricavati dai sentimenti. Fornire i propri sentimen-ti non spetta all’autore, spetta all’altro». Proust sichiedeva: «Perché l’operaio non può leggereBaudelaire?». Bloom non è stato da meno, e nelCanone Occidentale osservò appunto che «l’in-giustizia suprema dell’ingiustizia storica è cheessa non dota necessariamente le proprie vittimedi alcunché che non sia un sentimento della lorovittimizzazione. Qualsiasi cosa sia il CanoneOccidentale, esso non è un programma di reden-zione sociale».

Oblique Studio

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A nestésico sedante hipnatico por use veteri-nario . Lo verso nel bicchiere, rimetto il fla-cone nella scatola e la scatola nello zainetto.

Verso il Cointreau nell’altro bicchiere, mentre dilà sento solo un bisbigliare composto e ogni tantola voce di lei che dice, appena più percettibile:“Su tesoro, non fare così”».

Tenetevi forte. La citazione è tratta da unlibro (Vi perdono) che uscirà a giorni. Vi inchio-derà alla poltrona, vi strazierà, vi irriterà, e nem-meno per un momento per le due tre ore neces-sarie ad arrivare in fondo penserete: è unromanzo, è solo invenzione. No, per tutto iltempo la storia vi sembrerà così verosimile danon lasciare dubbi: è tutto vero, e terribile, maallora succede così e io non ne sapevo niente…Ci sono creature che possono fare un mestierecome quello di Miele, la protagonista, che pren-dono un aereo, vanno in Messico a procurarsimedicinali veterinari per uccidere senza sofferen-za i nostri animali, solo che tornano, bussano allaporta di chi le ha chiamate, supplicate, fannosuonare una musica d’addio (scelta dal malato),lasciano il bicchiere sul comodino, intascano5mila euro e chiudono dolcemente la porta…?

Poi, finita la lettura la riflessione. Speriamo dino, speriamo che questa storia avvincente nondiventi soltanto la scusa per continuare a divider-si, a scannarsi su un diritto o un non-diritto, unalegge che c’è e non c’è, non ci sarà, sarà unpastrocchio e via dicendo. Speriamo che possiateleggerla per quello che è, una magnifica storia,che affonda i denti dentro la carne ferita di unaquestione attualissima, il diritto o meno a una“buona morte”, l’interrogativo delicato su «fino ache punto possa arrivare la libertà umana».

Io ho le mie idee su questo, molto nette.Credo, come un personaggio del libro, che biso-gnerebbe potersi persino suicidare nel modo piùdolce possibile, senza rischiare di fallire o sof-frendo come dannati, morire – se è la nostra deci-sione – con l’aiuto delle istituzioni e dei mediciinsomma. Ma queste sono le mie idee e capiscoche a molti possano suonare blasfeme.

Un romanzo, invece, se è un bel romanzo,non è mai blasfemo. Angela Del Fabbro, nomde plume di un’autrice trentaduenne, romana,che vuol conservare l’incognito forse solo per unben orchestrato lancio di scandalo e misterointorno al libro, o forse perché davvero corre il

Un romanzo ci interroga sul diritto a una «buona morte»

L’eutanasia è il tema di un romanzo crudo e affascinante nel quale è la narratrice a praticarla. Che vi piaccia o no è la narrativa,oggi, che riesce a raccontarci le questionidella nostra vita

Sandra Petrignani, l’Unità, 7 ottobre 2009

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rischio della lapidazione nel clima arroventatodel nostro scenario politico sui problemi bioeti-ci, ha inventato qualcosa di veramente nuovo:un’eroina, una serial killer a fin di bene, senzanessun orpello romantico, ma fortemente radi-cata nella realtà contemporanea della sua gene-razione. Un rapporto spezzato con la madre,morta fra gli spasimi di una sofferenza fisicasenza rimedio, relazioni sentimental-erotichecon palestrati sciapi o uomini sposati, tanto disinistra quanto incapaci di prendersi responsa-bilità e trattare una donna senza relegarla in fan-tasie da cinema porno. Colpisce e innamoraquesto personaggio femminile così autentico,sprofondato in una solitudine che per raccon-tarsi ha bisogno dei fondali marino-amniotici diun rapporto pericoloso e ossessivo col mare.Quando poi ha l’impressione di poter averefinalmente una relazione profonda con unuomo-padre a cui lei si trova in qualche modo afare da madre, verrà respinta ancora una volta. Itempi non sono maturi per relazioni adulte fra imaschi e le femmine.

«“Senta, io sono nelle sue mani. Mi dica comeprocediamo. Non ho molta pratica. È la primavolta che muoio”. “Si comincia con le domande”dico, senza reagire alla battuta. La prima volta lebattute si sprecano. Si gioca per non essere gioca-ti. “Lei mi faccia delle domande e io cercherò dirisponderle”». Il ping-pong dei colloqui fraMiele e le sue vittime-pazienti sono uno degli ele-menti forti del romanzo. Secchi, controllati comela protagonista che deve stare attenta alle paroleche usa per non ferire e per mantenersi neutra.Lei è un’accabadora, un angelo sterminatore, e

una samaritana, è una specie di infermiera finale,è una persona che deve farsi invisibile e aspettarefino all’ultimo che la persona “nelle sue mani”possa tirarsene fuori. È un gatto che gioca coltopo, ma con la speranza che vinca il suo avversa-rio. C’è sempre una sensazione di bilico in tuttala storia: la serial killer è lì a compiere il suo lavo-ro, che è stato commissionato dalle sue stesse vit-time, ma può essere fermata in ogni momento.Forse lo spera perfino. Però non deve sbagliare leparole, come le dosi che somministra, per nonsuggestionare minimamente “l’avversario” inquesto terribile gioco di vita e di morte che lasnerva e la consuma.

È un personaggio piuttosto sconvolgente,questa Miele, che si misura col dolore e l’orroredelle esistenze più provate. L’autrice ridisegnacon lei il personaggio-donna nella letteratura ita-liana: dura, caparbia, sicura di sé e fragilissima, faun lavoro che non le piace, ma che le serve asopravvivere e le dà l’illusione di placare i suoipersonali fantasmi e di essere persino utile social-mente. Per ritrovarsi, alla fine, in un deserto diconsapevolezza che la isola e la sconsola, tagliatafuori persino dalla vita pettegola e affettuosadella sua migliore amica. È un personaggio pienodi pietas, che sa perdonare, lo dichiara il titolo.Un perdono che, una volta di più, è ambiguo e diconfine, come tutto il libro. Lei perdona i mer-canti di anima che hanno ingannato sua madremorente, ma insieme (forse) chiede perdono perquello che fa, o semplicemente di essere viva inmezzo alla morte che semina. Chiunque sinasconda dietro il nome Angela Del Fabbro:complimenti.

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«...è tutto vero, e terribile, ma allora succede così e io non ne sapevo niente…»

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Q uando la prima raccolta di racconti dellascrittrice americana Amy Hempel vennepubblicata, nel 1985 da Knopf, la critica la

accolse come il promettente debutto di una voceparticolarmente originale. La precisione del lin-guaggio, il ritmo della sintassi che rimandava aquello della poesia, la cesellata perfezione di ognifrase e l’introduzione di una forma narrativa fram-mentaria, capace di rompere con la linearità delracconto tradizionale, suscitarono l’ammirazionedi numerosi scrittori, e tra questi Alice Munro eRaymond Carver. La cerchia dei fan di AmyHempel si allargò ancora con la publicazione di treulteriori raccolte e, tuttavia, la esclusività della suaconcentrazione sulla forma breve la rendeva unaautrice per pochi. Con l’uscita nel 2006 della rac-colta completa di tutti i racconti, presso Scribner,appena tradotta in modo eccellente da SilviaPareschi per Mondadori con il titolo Ragioni pervivere, Amy Hempel venne finalmente scopertadal grande pubblico, complici, forse, i numerosipremi e riconoscimenti che, finalmente, la suascrittura le meritava. Tra i temi ricorrenti, condivi-si dalle donne cui dà voce nei racconti, c’è la per-dita della fede compensata dalla fiducia nelladevozione degli animali, mentre i disastri naturali

– terremoti e alluvioni – sono all’ordine del giornoe hanno perso i connotati della straordinarietà.

Lei ha dichiarato di non essere interessata a scri-vere un romanzo e ha espresso rammarico pernon essere stata in grado di scrivere poesie. Inche modo la sua passione per la poesia hainfluenzato l’acustica della sua prosa?Leggo molti poeti contemporanei quando scrivoi miei racconti e trovo la loro influenza sul miolavoro assai positiva. Considero ogni frase chescrivo come se fosse il verso di una poesia, larileggo per ascoltarne il suono, il ritmo, cosìcome per saggiarne la formulazione e il contenu-to, insomma cerco di applicare gli strumenti dellapoesia alla prosa, provando a raggiungere quellasintesi, nella composizione del racconto, che mirimanda al distillato dei versi, alla precisione delloro linguaggio: sono queste le qualità che inse-guo in tutti i miei racconti.

Come sintetizzerebbe le attrattive del raccontocome forma narrativa?Il racconto impiega spesso una quantità gestibiledi esperienza. Non si è costretti a coprire unvasto arco temporale ed esistenziale come accade

I RITMI DI AMY HEMPEL

Incontro a New York con la scrittrice americana Amy Hempel, autrice di culto in America e assente dalle nostre librerie da quasi vent’anni. Ora la Mondadori traduce l’intera raccolta dei suoi racconti con il titolo Ragioni per vivere. «L’osservazione e l’omissione vanno di pari passo», dice, a proposito della sua predilezione per la forma breve, che le consente di stringere frammenti limitati di esperienza in frasi precise e cesellate

Paola Peroni, il manifesto, 8 ottobre 2009

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nella maggior parte dei romanzi, perché il rac-conto si occupa dell’attimo, coglie quella chepotremmo chiamare una illuminazione, ilmomento in cui avviene un cambiamento osser-vabile nella vita di chiunque. Mi interessano lesituazioni in cui succede qualcosa capace di por-tare a un mutamento, soprattutto se quel cheaccade ha il potere di produrre un ribaltamentodella posizione di potere interna a un rapporto,che sia un matrimonio, una storia d’amore o unaamicizia. Improvvisamente la persona che avevain pugno la situazione perde il controllo, ed ecco,sono questi cambiamenti ad affascinarmi, a costi-tuire una fonte di materiale su cui lavorare.Invece, mi riesce difficile mantenere alto l’inte-resse per ciò che accade durante un lungo lasso ditempo e per tante pagine quante sono necessariea raggiungere la forma di un romanzo.

Nel racconto intitolato La pietra Tom fra leanguille, c’è una nonna che chiede alla narratricedi aiutarla a ricordare i bei tempi quando eraviva sua madre. E così la narratrice mette insie-me una lista di momenti felici, colti tra quelli chericorda di avere osservato nei rapporti tra le sueamiche e le loro madri: lei, infatti, non è in gradodi ricordare nemmeno un attimo di felicità tra sée sua madre. Questo racconto è esemplificativodi due processi ricorrenti nella sua prosa, quelloche passa per l’osservazione e quello che portaall’omissione. Possiamo considerarli elementifondamentali nella rappresentazione del temadei suoi racconti?Assolutamente sì. L’apprezzamento che ho piùgradito tra quelli che ho ricevuto viene dalloscrittore William Kennedy, ed è stato: «Tu omet-ti tutte le cose giuste». La selettività è sempre alcentro della mia attenzione, sia quando sono neipanni della scrittrice sia quando sono in quellidella insegnante di scrittura creativa. Di tutto ciòche si può dire di una persona, mi chiedo, qual èla singola cosa che può dire tutto di quella perso-na? Se uno scrittore è in grado di individuarla,può omettere tutte le altre osservazioni, le quali-tà meno sigificative, gli altri tratti e le altre infor-mazioni. Per questo osservazione e omissionevanno di pari passo.

I racconti di Grace Paley hanno avuto una gran-de influenza sulla sua opera. Ce n’è uno, intito-lato Una conversazione con mio padre, in cui la

scrittrice americana inserisce una storia secon-daria dentro quella principale, fornendoci unesempio sorprendente del tentativo di esamina-re la propria tecnica narrativa. Ad un certopunto il padre nel racconto della Paley si lamen-ta: «Hai omesso tutto». Lei ha fatto qualcosa disimile nel Raccolto, uno dei suoi racconti miglio-ri, in cui la narratrice si rivolge al lettore dicen-do: «Ometto molte cose quando dico la verità.Lo stesso vale per quando scrivo un racconto».Il suo è stato un tentativo cosciente di rendereomaggio all’opera di Grace Paley?Non è stato assolutamente un tentativo coscientee tanto più le sono grata per averlo individuato,perché mi dimostra quanto profondamente abbiaassorbito l’opera di Grace Paley. Ho letto e rilet-to i suoi racconti molto prima di cominciare ascrivere, ed è fantastico e sorprendente scoprireche esiste in un mio racconto un cenno così diret-to al suo lavoro. Nel racconto di Paley il perso-naggio solleva una questione giusta, perché è evi-dente che persone diverse, pur osservando lostesso evento, ne daranno inevitabilmente reso-conti differenti. Questo fenomeno non cessa diinteressarmi. Grace Paley è stata molto abile nelmettere in bocca al personaggio del padre unacritica rivolta al suo modo di raccontare: è comese si fosse autoinflitta una condanna, è come seavesse sfidato la sua scrittura dall’interno del suolavoro, e per questo la ammiro.

Lei ha eliminato dai suoi racconti alcuni passag-gi esplicativi, optando per una tecnica narrativaframmentaria anziché lineare, che ricorda ilvagare della mente umana. Eppure, la strutturalogica dei suoi racconti ha uno svolgimento per-fettamente compiuto, ben lontano dalla casualitàdei nostri pensieri. A lei sembra che la logicarichiesta dalla narrativa agisca come un limitenella rappresentazione della realtà?La narrativa non coincide con la realtà e necessitadi bellezza formale. Un termine che mi piaceusare è “destrezza creativa”, con il quale intendola capacità di dare forma al reale secondo i requi-siti della narrativa, che implicano la necessità diomettere alcuni elementi, alterarne altri e immagi-narne altri ancora. Per quel che riguarda la memo-ria, essa funziona in maniera frammentaria e nonsegue un andamento lineare; perciò, diversamen-te da quanto accade a molti altri scrittori, che tro-vano logico organizzare i ricordi, il pensiero, il

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comportamento e le azioni in una forma lineare, ame interessa riportarli a una scrittura frammenta-ria. Inoltre sono attratta da quegli scrittori che rie-scono a lavorare a un racconto, o anche a unromanzo, componendolo di frammenti numerati,o con diversi titoli o che, più semplicemente,montano spezzoni di testo separati tra loro, maga-ri centinaia di frammenti: è un processo di com-posizione che si fa ancora più affascinante quandoi ricordi o le idee arrivano mentre si sta scrivendoe non si sa ancora perché ci siano venuti in mente:ma proprio scrivendone se ne troverà la ragione esi imparerà qualcosa di nuovo.

In Offertorio, il suo racconto più sessualmenteesplicito, la narratrice, una contemporaneaSheradaze, racconta le sue avventure amoroseper intrattenere il suo amante. Tra queste pagi-ne lei torna ad affrontare temi che aveva giàesplorato: la natura e il potere della narrativa, ilvalore nonché la possibilità di conoscere la veri-tà; ma giunge a conclusioni diverse da quelle cheaveva raggiunto in passato...Uno degli obiettivi entusiasmanti che ho potutorealizzare scrivendo Offertorio, è stato quello dimettere in mostra un impulso molto comune,ossia il desiderare più di ogni altra cosa ciò chealla fin fine ci distruggerà. L’amante della narra-trice di Offertorio è un consumato voyeur, chevuole sapere i particolari di tutte le passateavventure amorose della donna: chiede di ascol-tarle e riascoltarle, e vuole conoscerne i dettaglipiù intimi; ma quando la narratrice cede e glieliracconta, viene fuori che il suo migliore amante èstato un altro, non l’uomo che ora la interroga, eche finirà dunque per ritrovarsi annientato da ciòche desiderava tanto sapere.

In un racconto pubblicato di recente ha scritto:«Basta con le metafore. Nessuna cosa è uguale aun’altra»: cos’è che le metafore tolgono alla scrit-tura e alla costruzione narrativa di un racconto?Le metafore a volte abbelliscono ciò che dovreb-be essere detto in modo diretto. È buffo, quasicomico, ma spesso quando si comincia a scrivere,una delle cose a cui si aspira è trovare una buonametafora. Non intendo, con ciò, criticare gli altriscrittori, ma per quel che mi riguarda sono arriva-ta a rendermi conto di quanto questa tecnica allafin fine serva per tenere a distanza l’esperienza:l’uso delle metafore, o anche solo il paragonare

una cosa a altro, mi allontana da ciò che cerco didire e non aiuta il lettore a metterlo a fuoco conpiù chiarezza. Per me la sfida è stata quella di scri-vere in modo strettamente letterale, e la sua con-seguenza si è risolta in una sorpresa: ho scopertoche più ci si tiene attaccati alle cose più il lettorepensa che la scrittura sia densa di metafore. Ècurioso, ma è così. In ballo ci sono le aspettativedi chi legge, che spesso si accosta alla paginaaspettandosi che le cose raccontate rappresentinoaltro. Per esempio, per me un orologio è un oro-logio, ma per altri rappresenta il passare deltempo. Forse l’esempio è sciocco, ma illustra ladifficoltà di dire cosa sia esattamente una cosa.Ricordo che lo scrittore Terrence Des Pres, auto-re di un brillante libro intitolato Il sopravvissuto,sulla sua esperienza nei campi di concentramento,mi disse che uno dei problemi e delle difficoltàche si incontrano scrivendo, appunto, un libro suicampi di concentramento è che non esiste alcunaesperienza paragonabile. Il campo di concentra-mento è la metofara di sé stesso.

I luoghi sono molto importanti nei suoi raccon-ti, non è vero?Sì, la mia prima raccolta di racconti è nata dalmio rapporto con la California, che per me è solouno stato geografico, non una condizione menta-le. Ci ho vissuto, sia al sud che al nord, e ne sonorimasta molto impressionata: è stato il posto piùbello e il più misterioso in cui abbia abitato. Perme che sono nata nel Midwest la California è unluogo magico: era naturale che le storie della miaprima raccolta fossero ambientate lì. C’è chi è piùbravo a conoscere le persone, io sono più interes-sata ai luoghi, e fra l’altro ero molto attratta daiterremoti, che in California abbondano.

Mondadori ha usato il titolo della sua prima rac-colta, Ragioni per vivere per l’edizione italianache raccoglie tutti i suoi racconti. È un titolostrano data la dominante della morte nella suaopera. C’è forse dietro una intenzione ironica?All’inizio è sembrato un titolo ironico anche ame, poi sempre di meno. Me lo aveva suggerito ilmio editore e mi piacque. L’attaccamento allavita delle donne che popolano i racconti è cosìlabile, che non sembrano avere sufficienti ragioniper vivere; ma poi mi sono resa conto che qual-siasi ragione, anche la più piccola, è una buonaragione se riesce a tenere qualcuno in vita.

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C erco sempre di immaginarmi ai margini del-l’avvenimento che sto osservando. Vedo chegli uomini agiscono in modo apparentemen-

te libero e non si accorgono di essere sottoposti avincoli ben precisi, di essere prigionieri di unmeccanismo, di agire con la libertà di una mario-netta. E io cerco di rappresentare questo mecca-nismo». Così Herta Müller spiegava nel 1984 ilsuo lavoro di scrittrice romeno-tedesca. Due anniprima era uscito in Romania il suo primo libro diracconti, Bassure, in un’edizione fortementesforbiciata dai censori di Ceausescu; tre annidopo la Müller, col marito, lascerà per sempre laRomania per stabilirsi a Berlino Ovest e darepieno avvio alla carriera letteraria oggi coronatadal Nobel.

Ma sbaglieremmo a pensare a Herta Müllercome a una “dissidente”, almeno nel senso abi-tuale del termine. La scelta di collocarsi “ai mar-gini”, e la convinzione che il comportamentoumano sia desolatamente condizionabile, e dun-que condizionato, ne fanno piuttosto una vera epropria outsider, anche rispetto alla comunità diprovenienza. Ai tedeschi del Banato – raffiguratiin tutta la miseria morale, lo squallore e la

meschinità provinciale che soltanto ThomasBernhard, parlando degli austriaci, aveva saputodescrivere con tanta disturbante efficacia – HertaMüller non piaceva più di quanto piacesse al regi-me. Se il realismo socialista vietava di raccontareuna società contadina alienata e gretta, la mino-ranza tedesca si aspettava dai suoi rappresentantiletterari una narrazione epica, e in ogni caso posi-tiva (era stato Carlo VI d’Absburgo, all’inizio delSettecento, a chiamare nel Banato, appena sot-tratto ai Turchi, un nucleo di coloni tedeschi, conl’intenzione di modernizzare quella nuova eremota provincia dell’impero).

Herta Müller invece racconta una vita ridottaalla mera sopravvivenza, al ripetersi indifferen-ziato di gesti e azioni che quasi cancellano ognispecificità umana, uniformandola al pigro e indif-ferente divenire della natura. La quale natura, néromantica né “socialista”, non nasconde mai lameschinità e la crudeltà gratuita che ne contrad-distinguono il modo d’essere: odori e sapori sgra-devoli, il caldo soffocante o il gelo pungente, lamalattia e la morte sono altrettanti rimandi a unagitarsi incessante che non perviene mai a unapprodo. «Credo di essere nata con un senso di

Herta Müller, Nobel ai marginiIl premio alla scrittrice romeno-tedesca che racconta la nostra libertà da marionetteFabrizio Rondolino, La Stampa, 9 ottobre 2009

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disgusto per la vita», proseguiva la scrittrice inquella lontana intervista. «Non sono cresciuta,sono stata cresciuta. Non si poteva fare nulla, sidoveva fare tutto». E non è chiaro se sta parlan-do del socialismo reale, della piccola e asfitticacomunità tedesca, o di entrambi.

Tutta l’opera successiva di Herta Müller ruotaintorno a questo buco nero sentimentale, psicolo-gico, sociale: che racconti l’adolescenza surrealesotto Ceausescu, la disumanità della dittatura o losmarrimento della nuova vita in Occidente, c’è inlei ogni volta la sensazione sgradevole quantoappiccicosa che i conti non tornano mai, che iconti non possono tornare. Siamo appuntomarionette, e il massimo di libertà cui possiamoaspirare è renderci conto di esserlo.

In questo quadro fosco – non mancano, qua elà, tratti ironici: ma è un’ironia che diventa subi-to sarcasmo, e amarezza – la scrittura gioca unruolo centrale. Ridotto a mero osservatore “aimargini”, e prigioniero anch’egli di un meccani-smo implacabile, lo scrittore scende idealmentedal piedistallo della retorica per accucciarsi aterra, nella sporcizia e tra i rifiuti. La scritturadunque diviene scabra, essenziale, quasi dapoema in prosa, e urticante; l’osservazione minu-ziosa dei dettagli, tanto più profonda quanto più

fastidiosa, si traduce in una struttura linguisticadove ogni frase si muove da sé, segnando ognivolta un possibile inizio e una possibile fine delracconto. Nei libri di Herta Müller le parole simuovono senza mèta, in un disinteresse glacialeche demolisce il principio stesso della narrazione,e nell’ostinazione per i dettagli rivelano, quasinaturalmente e senza alcun intervento esterno, latotale e inguaribile insensatezza del mondo.

Herta Müller ricorre spesso all’io narrante diuna bambina per costruire i suoi incubi; gli adul-ti, quasi sempre, sono automi destinati a ripetereall’infinito quegli stessi atti che fin dal principio lidefiniscono. L’infanzia è dunque il solo àmbitosottratto alla sfera maleodorante della necessità:come in Agota Kristof, anche nella Müller losguardo del bambino arriva là dove gli altri nonriescono neppure ad affacciarsi. La qualità prin-cipale della bambina di Herta Müller è non sapernulla, non avere esperienza di nulla, non averletto né scritto nulla: è uno specchio senza corni-ce, e soltanto in questo modo – cioè senza lesovrastrutture del pensiero razionale e del lin-guaggio – può rappresentare davvero il mondo. Ecosì il socialismo reale non è più un’abiezione, néuna fosca profezia, ma la metafora perfetta dellacondizione umana.

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C’ è l’odore del legno e della poesia nellamansarda di Roberto Keller, l’editore(minuscolo, più che piccolo) di Rovereto

che ha pubblicato Herta Müller, premio Nobelper la Letteratura. La sede è tutta lì, pochi metriquadrati dentro l’appartamento in via dellaRoggia. Libri ovunque, due computer, una libre-ria rossa, una stampante, una fotocopiatrice e ilcatalogo con una quindicina di titoli. Roberto haocchiali rettangolari in metallo, pizzetto e baffisopra il sorriso. Gesticola mentre pensa ai sentie-ri di montagna, allo zaino carico di libri.Parcheggiato sotto casa il furgone con gli scatolo-ni già pronti da portare a qualche fiera o a qual-che mercatino. Ne ha fatti un sacco di chilometriquel furgone: Spagna, Austria, Germania,Svizzera Francia, Portogallo. Ci sono saliti gliautori che ha lanciato, ci sono saliti librai, edito-ri, lettori, pellegrini della cultura e dell’editoria,collaboratori, volontari, protagonisti di un sognocondiviso: portare i racconti del mondo, passan-do per il Trentino Alto Adige, terra di transito fra“due Europe”, quella mediterranea e quella nor-dica. Durante le camminate in montagna sononate idee, intuizioni, collegamenti personali con

voci importanti della letteratura europea da noisconosciuti. Nessuno in Italia s’era azzardato apubblicare un’opera della scrittrice rumena cheaveva osato sfidare la dittatura di Ceaucescu,prima di riparare a Berlino. I grandi editori laconsideravano un’autrice di periferia, poco appe-tibile, con una prosa ostica, pressoché impossibi-le da tradurre. Keller si è inabissato con passionenella storia, ci ha camminato dentro, ha perlu-strato i fondali dello stile, la musica sottopelle eha capito che doveva trattare in fretta con l’edito-re tedesco per strappare al più basso costo possi-bile i diritti d’autore del capolavoro che ha stre-gato l’Accademia di Svezia: Il paese delle prugneverdi. E ci è riuscito. Ha pagato poco meno dimille euro e ha deciso di fare una tiratura di millecopie. Poi come al solito ha caricato gli scatolonisul furgone e ha iniziato a girare l’Italia. A pro-porre il libro della Müller e a venderlo diretta-mente, in luoghi dove c’era sempre lui. Anche alfestival della Letteratura di Mantova c’era il ban-chetto di Keller. Quando non ce la fa a prenotar-si un tavolo da solo lo condivide con altri editoridi periferia. Il bello è comunicare, scambiarsititoli, cataloghi, suggestioni. L’ultimo viaggio col

L’EDITORE DEL NOBEL CHE GIRA IN FURGONE E BRINDA A CHINOTTOFrancesco Comina, il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2009

Roberto Keller

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furgone è stato un mese fa a Lana in Alto Adigedove la Müller ha tenuto una conferenza in tede-sco ai Kulturtage (i giorni della cultura). Al festi-val dell’editoria indipendente, in questi giorni aPisa, Keller non ci è mai arrivato: «Ero sul furgo-ne con i miei dieci cartoni di libri quando unamico mi ha chiamato e mi ha detto di rientraresubito a Rovereto perché il mondo mi stava cer-cando: Herta aveva appena ricevuto il premioNobel. Non riuscivo a crederci, ero emozionatis-simo. Mi sono fermato, mi sono girato e sono tor-nato il più in fretta possibile a casa. Ho fatto unpianto liberatorio e poi ho riunito i miei amici evolontari per capire come gestire questa incredi-bile situazione. Abbiamo brindato con il chinot-to». Roberto ha una passione per le memorie sot-terranee. Succede, a volte, che i nomi prefigurinoun destino. Keller in tedesco significa cantina. Lasua cantina sta nel sottotetto della casa. Li si dàappuntamento un cenacolo di appassionati letto-ri che scelgono testi, traduzioni, progetti il piùpossibilmente inediti, a prescindere dal calcolocommerciale o dalle frenesia di mercato. Robertoci va cauto con le copie: «Ne stampiamo unmigliaio, facciamo una distribuzione mirata nellelibrerie, il grosso è vendita diretta. Cerchiamo diesserci in tutte le occasioni possibili dove si fannomostre, fiere o mercatini dell’editoria».

Il telefono di casa continua a squillare. Lamansarda è un via vai di gente. Da un giornoall’altro il silenzio si è trasformato in caos. Sicorre ma i ritmi non si addicono alla filosofia diKeller: «La scorsa notte mi sono messo a cammi-nare con calma per le strade di Rovereto. CapiscoHerta che in questi giorni ha staccato il telefono.Se non sei abituato al clamore della cronaca,all’incessante pressione del mercato fai fatica areggere. Comunque sono consapevole che stiamovivendo un momento di grazia e cercheremo dirispondere a questo evento rilanciando il librocon la pubblicazione di ventimila copie che ver-ranno distribuite nei prossimi giorni e se possibi-le usciremo con altri titoli di Herta. Senza l’aiuto

di collaboratori preziosi come MarzenaBorejczuk che ha condiviso con me la scelta dellaMüller e la traduttrice Alessandra Henke nonavrei fatto nulla».

«Mi considero un editore nomade» prosegueKeller «proprio come la letteratura di Herta. C’èin questo movimento un fascino incredibile per lenarrative che raccontano la contaminazione, ildialogo fra le culture, l’esigenza di porsi come let-terature oblique sulle strade del mondo.Vogliamo il meglio dalle traduzioni, ci affidiamoa professionisti che scavano nelle parole, insom-ma, tentiamo di portare a casa opere che difficil-mente troverebbero facile mercato in Italia. E lofacciamo con poche risorse e pochi mezzi ma contanta passione». I libri più belli nascono dallastrada. Keller ricorda il viaggio in furgone conSantiago Roncagliolo: «Mi aiutava a vendere ilibri, poi abbiamo deciso di lanciarlo con unbestseller che gli ha fatto vincere il premioAlfaguara. Adesso pubblica con Garzanti».

Uno degli autori più importanti in catalogo loha scoperto tre anni fa in una vecchia libreria sulcammino di Santiago de Compostela: «Da buonalpinista» racconta Keller «mi sono messo a cam-minare. Arrivato a Burgos ho curiosato nellelibrerie. Santiago Roncagliolo aveva vintol’Alfaguara da qualche mese e approfittando delfatto che ero ancora l’unico editore italiano attac-cavo bottone con i librai e riempivo sempre piùpericolosamente il mio zaino. A un certo puntoho incontrato il vecchio proprietario della libre-ria Luz y Vida, un vecchio libraio d’altri tempigrazie al quale ho scoperto Esquivias. L’ho lettod’un fiato e l’ho lanciato con il titoloInquietudine in paradiso. Voglio rimanere unpiccolo editore che assapora il profumo dei librie che cerca le novità sulle strade dove si incrocia-no vecchi librai, infaticabili lettori di letteraturelontane. Forse per la prima volta, grazie al pre-mio dato alla Müller, riusciremo a coprire lespese di produzione. Ma l’incasso non è tutto. Ilnostro è un laboratorio. Non un’impresa».

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«Voglio rimanere un piccolo editore che assapora il profumo dei libri e che cerca le novità sulle strade dove si incrociano vecchi librai,

infaticabili lettori di letterature lontane»

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D as verlorene Symbol sarà il protagonista delgiorno d’apertura della Buchmesse 2009. Echissà se mercoledì a battezzare in diretta

allo stand della Lübbe, che pubblicherà il mega-seller di Dan Brown, ci sarà lo stesso autore. Latiratura sarà da record anche per i tedeschi: sipartiva da 800mila copie; se ne sono aggiunte 400mila di rinforzo sulla base dell’attesa. La corsaalla traduzione (in Germania curata da un teamdi sei persone) testimonia lo status speciale delquale godono questi bestseller globali (in Italia,Mondadori pubblicherà il simbolo perduto il 23ottobre) e se anche la presenza di Mr Brownpotrebbe essere il colpo mediatico del quale laFiera ha bisogno – e, a quanto pare, i tentativi perportare l’autore in Germania si stanno svolgendoda tempo – non è detto che da soli, libro e auto-re bastino a ridare slancio alla Buchmesse e al set-tore editoriale nel suo complesso.

Stando alle ultime notizie, infatti, sembra chela presenza degli editori di area anglosassone(americani e inglesi) stia calando. Non solo quellafisica degli stand, che comunque alla fine dovreb-bero raggiungere più o meno i numeri giganteschidi sempre (quasi 7000 espositori) ma è proprio lacomposizione della “squadra” che andrà aFrancoforte a cambiare. Più che mai allaBuchmesse sono indispensabili ora gli agguerritiimpiegati degli uffici diritti delle case editrici perconfrontarsi con la controparte, gli agenti lettera-ri, e sempre meno gli editor, coloro che dovrebbe-ro avere il “fiuto” per scovare talenti o seleziona-re il grano dal loglio nella pletora di proposte chearrivano durante i febbrili giorni di fiera. Il segna-le è chiaro: se da una parte sono effetti della crisieconomica che nel settore editoriale ha dato unbel morso, soprattutto negli Stati Uniti, per cui sidevono contenere i costi, d’altro canto la Fieradiventa sempre più un moment o di discussione

di cifre e clausole e non di scouting letterario osaggistico. Aspetto che, per carità, rimane: delresto, è impossibile non imbattersi in qualcosa dinuovo o interessante nella marea di libri in espo-sizione. Ma, di nuovo, attenzione! L’editoria con-tinua a mantenere gli occhi vigili sulla parte carta-cea ma nessuno ormai fa finta che quella digitalenon stia per entrare dalla porta principale, e abreve. I contratti di edizione, per esempio, tengo-no sempre più spesso conto dei diritti di riprodu-zione virtuale e agenti, editori e distributori stu-diano nuove formule per tutelare questa fetta delbusiness. Non è un caso se Sergey Brin, il fonda-tore di Google, in un articolo apparso in settima-na sul New York Times per difendere ancora unavolta le prospettive della biblioteca digitale dellasua azienda, abbia usato una sola volta la parola“copyright”. E non è un caso se la vecchia Europada questo orecchio non ci vuole proprio sentire econtinua (ostinatamente, e a ragione) a difendereil concetto: sarà vecchio, ma in mancanza di unonuovo e migliore…

L’annuncio di Amazon, poi, qualche giorno fa,di proporre in cento paesi l’e-book reader Kindle,rimescola ancora di più le carte in tavola e gli edi-tori non di lingua inglese avranno molti appunta-menti in fiera con gli uomini di Jeff Bezos. Traquesti, gli italiani più attivi sono quelli del Mulino,freschi del progetto Darwinbooks. In pratica ilMulino ha pronte 300 monografie pubblicate astampa tra il 2000 e il 2009 già immediatamentedisponibili nel formato e-book. Ma la vera novitàè che il Mulino è pronto con tutti i libri pubblica-ti dal 2006 a sbarcare da subito su tutti i formatidigitali, Kindle incluso. Per farlo il Mulino ha daqualche anno modificato la filiera produttiva,addirittura sviluppando in proprio un software diimpaginazione che tiene conto di tutte le esigenze,dal cartaceo ai vari formati internazionali digitali.

IL BESTSELLER A PORTATA DI CLICForse arriverà Dan Brown, di sicuro mancherà qualche editor. Molti affari si fanno prima della Fiera e l’attenzione si sposta ora verso il libro digitaleStefano Salis, Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2009

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Un asso nella manica che a Bologna potrebberogiocare per rivendere il know how ai concorrentipiù indietro. E qualche richiesta c’è già.

Ovviamente gli affari non mancheranno anchesul versante cartaceo: anzi saranno la parte di granlunga più importante. Molti accordi si sono con-clusi preventivamente (secondo una tendenzaconsolidata), ma, forse, rispetto all’anno scorsoapparirà in fiera qualche romanzo in più da tene-re d’occhio. Nei mesi scorsi, infatti, e sempre acausa della crisi economica, molti agenti hannotenuto in mano i testi più ghiotti perché gli edito-ri li avrebbero pagati di meno. Un libro dal titoloaccattivante The Financial Lives of the Poets, diJess Walter (storia di un uomo che perde il lavoroin questi tempi difficili), è stato appena compratoda Viking in Inghilterra e sicuramente sarà tra i

romanzi che arriveranno anche in Italia, comearrivera da noi (affare già concluso) un possibilebestseller: il crossover generazionale di RebeccaJames, Beautiful Malice, che in un’asta americanaha toccato i 600mila dollari e in Germania hastrappato 250mila euro. Come si vede il buon vec-chio libro muove ancora dei bei soldini e tra cen-tinaia di ospiti (incluso il neo Nobel Herta Müllerche gioca in casa) o l’arrivo dei cinesi la Fiera saràinteressante come sempre. Tra gli autori italianidue big: Umberto Eco e Claudio Magris. Per loscrittore triestino la prestigiosa onorificenza deilibrai tedeschi. Duecentocinquantamila euro dipremio, laudatio di Karl Schlogel, un discorso datenere domenica 18 in chiusura di Buchmesse. Ela soddisfazione di essere il primo italiano a vince-re. Complimenti.

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E scono i Meridiani di Alberto Arbasino: unvolume adesso con Le piccole vacanze, unpo’ di racconti, L’Anonimo lombardo, il

primo Fratelli d’Italia, quello del ’63, e Certiromanzi. Il secondo volume, di cui non ho anco-ra l’indice completo, uscirà a gennaio per gliottant’anni dello scrittore (a proposito, auguriAlberto). Raffaele Manica firma una bella esostanziosa introduzione intitolata Se il roman-ziere non racconta storie e poi, con Arbasinostesso, una Cronologia di cui si dà in questa pagi-na un frammento. È, la Cronologia, un libro nellibro e insieme un libro dei libri, un riepilogo bentemperato di quanto accade ad Arbasino daquando viene al mondo (dunque con notizie sullafamiglia e sui luoghi e sui tempi) a quando inco-mincia a studiare e poi a scrivere e, intanto, avivere. Molto sapevamo, ma molto invece no:specie certi dettagli, voglio dire. E i dettagli, inArbasino, sono importanti, talvolta sono tutto.

Immaginiamo un lettore nuovo, magari unragazzo, che affronti per la prima volta Arbasino

partendo da questo Meridiano. Intanto nonabbia fretta. Cominci la navigazione dalle Piccolevacanze, dal primo racconto che si intitolaDistesa estate. Se ha qualche lettura alle spalleavrà un lieve sussulto di memoria: quel titolodove l’ho già visto? Ma certo, Cardarelli:«Distesa estate… stagione dei densi climi». Lepiccole vacanze uscirono nel 1955 da Einaudi,con la presentazione editoriale di Calvino. Nientepaura: il lettore troverà tutto negli apparati, tra laCronologia, l’introduzione di Manica e le note aitesti. In più c’è un Dossier con le copertine e irisvolti: una storia fattuale dei libri, non di secon-do piano per un autore che corregge e ripubblicadi continuo.

Primo e attentissimo lettore di sé stesso,Arbasino ha infatti sempre amato fornire concre-te pezze d’appoggio, fino a concepire un libro,Certi romanzi, che facesse da viatico e contralta-re a un altro, e già di suo cospicuo: Fratellid’Italia. Consigliamo al giovane lettore di andar-ci piano, o meglio di lasciarsi proprio andare.

ARBASINORITRATTO FEROCE DI UNA PICCOLA ITALIADa Le piccole vacanze a Certi romanzi. Raccolte in un Meridiano leopere in cui lo scrittore narra dei giovani che negli anni Cinquanta guardavano al mondo con ironica intelligenza

Paolo Mauri, la Repubblica, 13 ottobre 2009

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Entri prima in confidenza con i testi: farà cono-scenza di giovani, ormai di mezzo secolo fa, diuna certa levatura sociale, che leggono, talvoltagià scrivono, vanno a teatro e al cinema, molto albar e al ristorante e ascoltano dischi, corteggianoe vengono corteggiati. Guardano il mondo conintelligenza ironica. E non stanno mai fermi.Siamo nel dopoguerra, ma niente memorie tragi-che e miserie, niente lacrime e sangue: semmaipoche allusioni discrete. Al giovane Arbasino(quando uscì Le piccole vacanze l’autore avevaventisette anni e si era appena trasferito a Roma)interessa la dimensione culturale intesa come pia-cere di vivere con stile: e da noi, nel dopoguerra,c’è molto da fare. C’è, in sintesi, da svecchiare unpaese provinciale, molto poco europeo che sibalocca con il neorealismo. Sarà anche il tema delviaggio proposto dal romanzo, Fratelli d’Italia,ma già esplicito nell’Anonimo lombardo di qual-che anno prima e ripetuto in forma didascalicanel celebre articolo del Giorno (1963) intitolatoLa gita a Chiasso.

«Non si deploreranno mai abbastanza l’isola-mento e il provincialismo e l’ignoranza e l’incivil-tà dei vent’anni fascisti, l’arresto e lo smarrimen-to della patria cultura». Ma perché dobbiamoandarci di mezzo noi che non c’entriamo niente?si chiedeva l’autore. Magari i nostri letterati anniTrenta avessero fatto una gita a Chiasso chieden-do ad un contrabbandiere gentile di comprareMarx, Wittgenstein, Husserl, Edmund Wilson,Bachelard…

In un numero speciale della rivista Riga(2001) interamente dedicato ad Arbasino, MarioFortunato rievoca l’effetto che gli fece la letturadell’Anonimo lombardo quand’era ragazzo.«Vivevo a Crotone e non era facile trovare i libriche si cercavano. In pratica le librerie non esiste-vano. Non parliamo delle biblioteche.L’Anonimo lombardo mi capita letteralmente inmano. Edizioni Einaudi. Nuovi Coralli. A posse-derlo era il mio amico Emilio (come il personag-gio del racconto). Cominciai a leggerlo in casasua. Proseguii per tutta la sera, finché non lo ter-minai. Che c’entravo io con tutte quelle primealla Scala, con i pullover di cachemire, con laCallas e la melomania, con gli appartamentini inviale Proust, con i teatri e le conversazioni ele-ganti? Oh, io non c’entravo proprio niente.Vivevo in un posto sperduto del Sud, neanche unteatro, figurarsi l’opera».

Navigando tra i libri di Arbasino (uso il termi-ne a bella posta) il nostro ipotetico nuovo lettorescoprirà presto che ogni libro sfocia nel successi-vo come un affluente che si getti nel fiume piùgrande: non si deve avere fretta di arrivare allafine, perché poi una fine intesa in senso classiconon c’è. Meglio godersi un po’ di pagine, andareavanti, tornare indietro. Angelo Guglielmi scrisseuna volta che Arbasino ci prepara ogni volta unastupenda torta che «si erge in piani sempre piùsoffici, morbidi e spumosi». (Lo stesso Arbasinoparlò di una torta millefoglie). Ma, pasticceria aparte, credo si possa dire che Arbasino costituiscaun caso unico nella nostra letteratura: un autoreche immagina un’opera-monstre come infinitotrattenimento e dunque all’infinito correggibile,attraverso inserzioni, anche cospicue, rifacimenti,mutamenti di percorsi e di nomi, nuove citazionie allusioni. C’è insieme qualcosa di molto anticoin tutto questo e penso alla commedia dell’artedella tradizione, dove il testo si adatta al nuovocontesto, e qualcosa di molto nuovo, legato alleriflessioni e discussioni della neoavanguardia, maanche ad un uso della scrittura e della lingua per-sonalissimi. La prosa delle Piccole vacanze èancora una prosa ferma, asciutta, controllata. Magià il primo Fratelli d’Italia sarà scritto, l’espres-sione è dell’autore, «à la diable» e poi, di volta involta, la penna si confonderà con la bacchetta deldirettore d’orchestra: Arbasino sa far suonare leparole e si diverte a strimpellare picchiando sullostesso tasto (gli elenchi pieni di assonanze o disso-nanze a seconda dei casi) o a cercare effetti pieni,sinfonici, in cui la lingua viene saggiata in tutte lesue valenze sonore. Gli effetti sono molteplici:Arbasino non disdegna affatto il cabaret(Ossigenarsi a Taranto è stato il primo errore) etra Godere e Dovere, sa bene dove far pendere labilancia. Ma con mano leggera, e naturalmentecon tutte le citazioni a posto, sa condurre il letto-re nel meglio che c’è, tra concerti, mostre, libri eamori. Prova che la lingua italiana non è poi cosìarcaica e inutilizzabile. In un soprassalto di affet-ti, non solo ironici, per il Bel Paese, richiamato daititoli e dalle rubriche (Fratelli d’Italia, Amatesponde, Le Mura e gli Archi) che introduconoall’Arbasino illuminista lombardo e anche al futu-ro autore dei Fantasmi italiani e di un Paesesenza. Ma qui ce ne sarebbe da dire e da scrive-re… o da riscrivere. Buona fortuna, nuovo lettoredi Arbasino, buon Meridiano.

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R iscoprire i sentimenti può, aiutarci a trovareuna nuova identità collettiva, culturale e socia-le. Postmoderna e globalizzata, certo, ma più

che mai “veneta”. Ne è convinto Cesare DeMichelis, 66 anni, intellettuale veneziano e patrondi una Marsilio in strepitosa crescita. In due anniha raddoppiato il fatturato (oggi a quota 20 milio-ni). Tra le scelte azzeccate, oltre alla trilogia di StiegLarsson, bestseller dell’anno, anche la scoperta diuna generazione, autoctona, di giovani scrittori.

Neovisceralisti. Amano chiamarsi così i nuovinarratori veneti dei sentimenti: da Franzoso aBugaro, passando per Covacich, Mozzi, Villalta,Tiziano Scarpa e tanti altri. In che modo posso-no aiutarci a leggere il cambiamento?«Tutto è nato dal tentativo fatto da RomoloBugaro e Marco Franzoso, di disegnare un identi-tà forte del territorio, partendo dall’idea che latrasformazione di questi anni non può non avereinciso anche sui sentimenti. Infatti, i valori propridi una civiltà contadina hanno dovuto confrontar-si con un’esperienza di tipo metropolitano, omeglio: con una realtà che De Rita ha definitocome “policentrismo” e un geografo comeEugenio Turri ha chiamato “megalopoli padana”:questa realtà, fatta di una città che non è più cittàe di una campagna che non e più campagna, haprodotto un disgregarsi dei valori tradizionali».

E questo ha contribuito a un ricambio genera-zionale nella letteratura veneta?«Diciamo che ha contribuito all’impoverimento diuna delle tradizioni più ricche della recente narrati-va italiana: parlo di scrittori e poeti come Parise eZanzotto, Rigoni Stern e Meneghello, fino aCibotto, ossia la generazione degli ottantenni. Ogginon trovano più audience perché sono rimasti gliapologeti di un mondo che non c’è più e “nondovrebbe” cambiare. Dimenticando, tra l’altro, chequella società rimpianta era durissimamente povera.Accanto ai “vecchi”, oggi vediamo autori giovaniche compiono sforzi per cercare di leggere la realtà.E noi dobbiamo riuscire a capire e interpretare que-sta realtà. Altrimenti non riusciremo a governarla».

E il ruolo della narrativa? «Credo che la letteratura consenta di ricomporreuna visione più armonica dell’esperienza e dellesue contraddizioni. È una rilettura del mondoche lo rende, in qualche modo, più accettabile».

Si può parlare di una riscoperta della letteratura?«Non c’è dubbio, oggi esiste una deriva che, dallasaggistica, va verso una scrittura letteraria: si ècapito che le scienze sociali, dalla sociologia allapsicologia, non hanno in realtà quella funzionepalingenetica e risolutiva che negli anno Settantaera stata loro attribuita».

PARTE DAI SENTIMENTI LA NUOVA IDENTITÀ VENETASilvia Sperandio intervista Cesare De Michelis, Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2009

Nella pagina a fianco, da sinistra a destra: Mauro Covacich, Romolo Bugaro, Gian Mario Villalta e Marco Franzoso

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Però questa volta si parla di sentimenti.«Nei sentimenti si cela la straordinaria trasforma-zione delle relazioni sociali, affettive e familiari, ilcambiamento del rapporto tra i sessi, la famigliache si disfa, un modo totalmente diverso diapprocciarsi con la realtà. Questi giovani scritto-ri si sono avventurati in questo territorio.Covacich, lo stesso Villalta, Bugaro, Franzoso, sicalano all’interno della crisi delle relazioni inter-personali, dei rapporti affettivi, padre-figli omoglie-marito, rivendicando la realtà di unapproccio disincantato alla vita».

Cosa c’è di nuovo?«La certezza che quel vecchio ordine, di cui restaqualche traccia nella memoria, non c’è. E chequindi noi viviamo nel disordine, anche se in unacondizione meno caotica di quanto abbiamoimmaginato. È questo il punto nevralgico: abbia-mo l’esigenza di immaginare che quel mondo,così disordinato, non sia privo di valori.Riconoscere i valori “giusti” è tutt’altro che faci-le, ma la scommessa è che dobbiamo riuscirci,perché attraverso questo passa il ritrovamento diun’identità. Non l’identità patetica e localisticadel campanile, ma il sentirsi cittadini di questomondo postmoderno e globalizzato, senza perquesto perdere un equilibrio che è tutt’altro chefacile da trovare».

Perché tutto ciò accade in Veneto?«Da noi questa ricerca è più urgente che altro-ve. Rispetto al triangolo industriale, ad esempio,il Veneto ha vissuto la trasformazione in tempi emodi diversi: loro hanno avuto il fenomeno del-l’urbanesimo e la metropoli, perfino l’immigra-zione negli anni Settanta. Il Veneto appartienealla “terza Italia”, è più simile a regioni come ilFriuli-Venezia Giulia, l’Emilia-Romagna, leMarche, dove l’urbanesimo non è mai partito,perché è arrivato tardi. A causa di questa com-plessità, la nostra identità è molto meno conso-lidata di quello che vorremmo e la letteraturariscopre questa sua funzione cognitiva, omeglio: ricognitiva. Questo ridà un senso allascrittura».

L’identità è necessaria alla progettualità,dunque.«In questo Veneto contradditorio e confuso tantecose si sono messe in moto. Il Passante, ad esem-pio, ha cambiato la stessa percezione del territo-rio. Il processo di metropolizzazione è ormaiavviato. Oggi l’intero territorio dev’essere ridise-gnato. Questo vuol dire nuove infrastrutture,riflessione su centro e periferia, sulla qualità deiservizi, sul numero di scuole e asili infantili, diteatri e di mense. È una cosa certa: il territorio varipensato in chiave metropolitana.

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P esce grosso mangia pesce piccolo. Il mondodell’editoria non fa eccezione alla legge delledinamiche economiche. E il prossimo

“pasto” che il Gruppo editoriale Mauri Spagnol(Gems) sta apparecchiando lo “ingrasserà” alpunto da battagliare ad armi pressoché pari, nelmondo dei libri, con Rcs. Gems sta infatti peracquisire (si attende il nulla osta dell’antitrust), il35 per cento della Fazi Editore. Passando così dauna quota di mercato del 10,1 per cento, a circail 12 (copia più, copia meno), incalzando da pres-so il 12,4 del gruppo oggi secondo soltanto aMondadori (beninteso, al netto di Einaudi,Sperling & Kupfer, Piemme eccetera) il leaderche detiene il 14,3 per cento.

Dopo aver acquisito l’estate scorsa lo storicomarchio torinese Bollati Boringhieri, la nuovamossa annunciata agiterà quindi ulteriormente leacque, causando, c’è da scommetterci, una rea-zione a catena. «Con questo accordo» diceStefano Mauri «Gems si propone di accrescere ledimensioni di un gruppo che ha sempre saputoconiugare libertà e indipendenza necessari a unacorretta interpretazione del lavoro editoriale conla capacità di potenziare gli aspetti economici,finanziari e commerciali. Grazie a questo accordoFazi Editore potrà contare sull’esperienza, suglistrumenti e sui servizi amministrativi e commer-ciali di Gems nell’accompagnare la crescita e losviluppo della casa editrice. Le funzioni editoria-

li resteranno di esclusiva pertinenza di ElidoFazi, presidente e amministratore delegato dellacasa editrice (che nel frattempo ha prodottomolti successi sia nella narrativa sia nella saggisti-ca, ndr). Il polo che si viene a formare avrà cosìuna quota di mercato superiore al 12 per cento,rafforzando un’avventura editoriale nata tren-t’anni fa e qualificatasi come terzo polo dell’edi-toria libraria».

A conferma del fatto che il matrimonio d’inte-resse è stato già “digerito” da entrambe le parti,ecco le parole di Elido Fazi, fondatore a Romanel 1994 dell’omonima casa editrice: «Spero dipoter arricchire il contributo di quello che difatto è il terzo gruppo editoriale italiano».Insomma, tutto vero. E tutto bene, secondo iprotagonisti.

Lunedì scorso, a Milano, alla presentazionedel Quaderno del premio Nobel portoghese JoséSaramago (Bollati Boringhieri), Mauri era appar-so tranquillo e soddisfatto. Sul palco del teatroParenti, in una serata motto antiberlusconiana,era presente anche Marco Travaglio, cofondatoredel quotidiano il Fatto, che vede tra gli azionistil’editrice Chiarelettere, anch’essa facente capoper il 49 per cento alla Gems. Saramago, che finqui aveva sempre pubblicato con Einaudi (cioècon il gruppo Mondadori), ha scelto di cambiareeditore per motivi politici. Ma non è certo uncaso se ad aggiudicarsi il suo ultimo lavoro è stata

LIBRI ROVENTI

Nuova acquisizione del gruppo Gems: il 35 per cento dell’editore romano di Twilight. È l’inizio di uno scontro fra giganti di carta

Paolo Bianchi, il Giornale, 14 ottobre 2009MAURI SPAGNOL PRENDE FAZI E LANCIA LA SFIDA A RIZZOLI

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proprio la casa editrice Bollati Boringhieri, neo-entrata nel gruppo Gems, bisognosa di rinfresca-re il catalogo con titoli di forte visibilità.

La filosofia del sistema Mauri Spagnol, alquale fanno capo ormai una quindicina di marchitra loro molto differenziati, da Longanesi a Salani,da Guanda all’editrice Nord, passando attraversoil ricco territorio dei libri per ragazzi e per bambi-ni, che finora pareva essere orientata ai piccolipassi, sta dunque per compiere il passo decisivo,dando corpo a un gigante agguerritissimo chevanta peraltro una vastissima rete di punti vendi-ta. Va infatti sottolineato che Gems è controllatoper il 73 per cento dal gruppo MessaggerieItaliane, una delle principali società di distribu-zione nazionali. E che tale società ha concluso nelgiugno di quest’anno un accordo con il gruppoGiunti per un’alleanza strategica sul mercato delladistribuzione all’ingrosso e al dettaglio. Presi-dente della nuova società è Alberto Ottieri, ammi-nistratore delegato Martino Montanarini. In que-sto “scatolone” sono stati inseriti tutti i puntivendita di Giunti, le librerie della catena Ubik e dimetà della catena Melbookstore e la libreria online Internet Bookshop, per un totale di 170 libre-rie, circa 1.500 dipendenti e con un fatturato chea fine anno dovrebbe superare i 470 milioni dieuro a prezzo di copertina.

È vero che sul colpaccio di Gems pendeancora la spada di Damocle del giudizio della

commissione antitrust. Ma il via libera definiti-vo è comunque previsto per il primo febbraioprossimo. Nel frattempo Ottieri ha commenta-to: «È un’alleanza tra due gruppi indipendentiche operano nel mercato del libro, che guardalontano e che consolida un progetto industrialedi grande peso e rilevanza. Una nuova realtàcapace di coprire tutti i canali di vendita dellibro, realizzando quindi la seconda catena dilibrerie gestite in proprio sul mercato editorialeitaliano, con un fatturato di almeno 150 milionidi euro».

Compare, qui, il fatidico aggettivo “secondo”che, forse per scaramanzia, gli altri protagonistidi queste vicende non pronunciano. E che inquesto caso riguarda solo la gestione in propriodelle librerie, essendo la Feltrinelli al primoposto. Raggiunto al telefono, Paolo Mieli, presi-dente della Rcs, ha preferito non commentarel’episodio di acquisizione della Fazi. «Non entronel contesto di argomenti e decisioni altrui», èstata la sua unica risposta alla nostra domanda senon sentisse il suo gruppo minacciato da unaconcorrenza così pressante. Abbiamo rivolto lastessa domanda a Giulio Lattanzi, amministrato-re delegato di Rcs libri: «Non so ancora nulla diquesto accordo» dice Lattanzi «e comunque mipare un’acquisizione di minoranza. Mi riservoaltre considerazioni a quando avrò letto conattenzione i termini del contratto».

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P er capire l’universo Giunti, bisogna usciredalla logica delle altre case editrici. Non soloperché si tratta di uno dei pochissimi grandi

editori che non hanno sede né a Milano né a Roma.Per capire l’universo Giunti, bisogna venire fin qui,sulla collina che guarda Firenze, nella Villa laLoggia che, dicono, fu la casa di Brunetto Latini epoi il luogo in cui in pieno Quattrocento fu orditala congiura dei Pazzi contro i Medici. Qui, in que-sta elegante quiete fuori dal mondo, regna SergioGiunti, che prese in mano le sorti dell’aziendanell’83, anno della morte di suo padre Renato. Maper capire l’universo Giunti è necessario, anzitutto,un breve excursus a ritroso, perché l’attualeGruppo Editoriale è il risultato di varie acquisizio-ni e fusioni che ne fanno oggi la terza potenza libra-ria italiana. Non solo: la Giunti vanta anche, con isuoi 180 punti vendita e con la recente alleanza conMessaggerie, il maggior numero di librerie sul ter-ritorio nazionale. Della gloriosa tradizione librario-editoriale fiorentina, la Giunti potrebbe ancheessere la capostipite, se è vero che si tratta dellastessa famiglia dl tipografi che nel Cinquecentofondò filiali in mezza Europa in concorrenza con lefamose Aldine veneziane di Manuzio.

Fu Renato, nel 1955, a riprendere quella anti-ca sigla, creando le Edizioni universitarie

Giuntine (niente a che vedere con le attuali) e aintraprendere una fitta opera di acquisizioni:innanzitutto la gloriosa Bemporad-Marzocco(erede della Paggi, l’editore di Pinocchio) e laBarbèra, l’editore carducciano risorgimentale. Siaggiungeranno poi via via, tra l’altro, la narrativadelle raffinatissime edizioni milanesi di AldoMartello («un pazzo scatenato» ricorda Giunti«ma era il più bravo di tutti»), i libri per ragazziLisciani e Dami, la manualistica di Demetra, leguide del Touring. Nel 1989 nasce il colossoGiunti s.p.a., che comprende una costellazione divarie realtà editoriali, cui vengono affiancati unfabbricone grafico a Prato e la rete libraria di cuisi diceva. Senza dire del settore multimediale, deiperiodici (da Art e Dossier a Archeologia viva) edelle prestigiose edizioni in facsimile (tra cui il“Progetto Leonardo”).

Con i suoi quasi trent’anni di potere assoluto,il presidente Sergio Giunti («chiuso, timido,strafottente»: parole sue) si gode il panoramaverde dall’alto di Villa la Loggia, ripensando aglianni dell’adolescenza, quando recalcitrava aseguire le orme del padre: «Appena finito loscientifico da pessimo studente, cominciai aentrare nell’azienda, corrotto da mio padre chemi dava uno stipendio da impiegato. Ero un

RE SERGIO E IL PIANETA LIBRO NELLA COSTELLAZIONE GIUNTI

La casa editrice fiorentina vanta il maggior numero di librerie sul territorio nazionale e una storia che affonda le radici nel Cinquecento

Paolo Di Stefano, Corriere della Sera, 14 ottobre 2009

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appassionato giocatore, puntavo sui cavalli evolevo fare il bookmaker, perché si guadagnava-no tanti soldi e io mi sentivo un giocatore nato.Quando lo venne a sapere, mio padre mi disseche se mi piaceva il rischio non c’era niente dimeglio che fare libri». Il giovane Sergio noncede, ma segue il lavoro di suo padre, lo sta asentire, impara, partecipa alle riunioni: «Noncapivo niente. Non studiavo, non leggevo, e oggida questo punto di vista non è cambiato niente:mi occupo delle finanze, degli stabilimenti e del-l’organizzazione. Ma a un certo punto improvvi-samente mi sembrò di capire tutto e cominciai aoccuparmi dei rappresentanti con idee comple-tamente nuove. Così, diventai direttore commer-ciale». Non passò molto tempo e la casa editricevenne azzerata o quasi, dall’alluvione del 4novembre ’66: «La Giunti, in via Gioberti, ful’azienda più colpita della città. Perdemmo tutto:archivi, magazzini, lo stabilimento grafico.Scomparvero 4 milioni e mezzo di volumi.Tuttissimo! Tranne gli impianti, che stavano alprimo piano. Buttammo via 855 camion di libri,carte e mobili». In 25 giorni vennero ristampatiun milione di volumi e il primo dicembre ilmagazzino fu di nuovo pieno. «Furono settima-ne esaltanti».

Firenze rimane così, grazie alla tenacia dellafamiglia Giunti, un centro del libro: «C’era unperiodo in cui Silvano Pizzighella, dellaDemetra, metteva su una libreria alla settimana.Io dicevo: qui si va in fallimento. In realtàPizzighella veniva dall’esperienza di bancarella-io, non aveva nessuna base culturale, ma capivache cosa vuole la gente. Le nostre librerie, con ilnostro tipo di catalogo, producono un beneficioalla casa editrice che le librerie Feltrinelli nonpotrebbero garantire». L’orgoglio per il mosaicoche Sergio Giunti è riuscito a mettere insieme inquesti decenni è però macchiato da un rimpian-to: «Una freccia nel mio cuore che vibra da tantianni: questa casa editrice è come se fosse il miocorpo e quel che mi manca è il bestseller. LaBemporad era la casa di Pirandello, Verga,Deledda, molti autori della Martello (Cronin,Golding, Hesse…), compresi diversi Nobel,sono stati poi rubati da altri, perché Martello nonpagava gli autori. È come se ogni volta avessiperso un dito. Però prima o poi, in un modo onell’altro rimedierò, lo sento. Oggi si vendonopiù libri che in passato, ma non dimentico l’inse-gnamento di mio padre: non perdere mai di vistail mercato, pubblica quello che vuoi, non i libriche ti piacciono».

Rassegna stampa, ottobre 2009

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R umori e malumori di fine Buchmesse. In unpanorama generalmente positivo per glieditori italiani (la tendenza, già rilevata dal

rapporto Aie, dell’aumento nelle vendite di dirittiall’estero è stata ampiamente confermata) sisegnalano alcuni casi controversi, su cui si sonointrecciate voci e controvoci, non tutte particolar-mente benevole. A cominciare dal doppio colpodella Feltrinelli che si è aggiudicata il premioNobel 2009, la tedesca di origine romena HertaMüller (cinque libri) e l’altro Nobel (1998), il por-toghese José Saramago, di cui ha acquistato ilnuovo romanzo, Caim, appena uscito inPortogallo da Caminho, più una decina di titolidella backlist, tutti Einaudi. L’asta per la Müller siè conclusa sopra quota 200mila. Il compenso perSaramago, si dice, sia di un milione di euro per labacklist, più una cifra non specificata per Caim.

Se due Nobel vi sembran pochi Premesso che per Saramago è una sorta di ritornoa casa (fu Feltrinelli nel 1984 a pubblicareMemoriale del convento, più tardi lo scrittoresarebbe passato a Einaudi), colpisce il fatto cheSaramago non abbia scelto Bollati Boringhieri,l’unico editore italiano che ha pubblicato il suoQuaderno – quello con i pesanti giudizi suBerlusconi – dopo il rifiuto di Einaudi. Rifiuto percui il Nobel portoghese dichiarò di voler cambiareeditore. È stata, dicono, una contesa serrata, eFeltrinelli l’ha spuntata. Ma intanto si apprendeche Einaudi a febbraio pubblicherà Il quaderno diLanzarote («Sono appunti sulle sorti del mondonon presi dal blog, come l’altro» dice ErnestoFranco «ma pagine di un personale diario-scarta-faccio») e che Boringhieri si aspetta di pubblicarenuove opere di saggistica sul genere di quella dapoco in libreria. «Credo che Saramago vorrà ono-rare la sua promessa» dice Stefano Mauri, presi-dente e amministratore delegato di Gems, cherecentemente ha acquistato la Boringhieri. «Dovràtener conto del coraggio che abbiamo avuto men-tre gli altri editori italiani si tiravano indietro».Sulla cifra del contratto, Mauri esprime le sue per-plessità: «Tra Saramago e la Müller sono moltisoldi, quelli che forse mancheranno agli in-

vestimenti in nuovi autori. L’effetto Nobel a voltepuò giocare strani effetti: Garzanti aveva fattoun’offerta per la Müller prima del Nobel. Si potevachiudere a 10-15mila euro, poi il premio ha molti-plicato la somma per venti». Esperti di marketingfanno osservare che, con il suo sistema di librerie,la Feltrinelli era l’unica in grado di osare tanto perSaramago dato che, per rientrare nell’anticipo, ivari libri dovranno vendere ognuno molte decinedi migliaia di copie. Un investimento a distanza,comunque, di catalogo. O, come suggerisce unabattuta tagliente colta al volo, Feltrinelli con i dueNobel vuole chiudere la stagione Moccia?

Berlusconi? No, Thank you È ancora lui, il Cavaliere, quello che influenza lescelte editoriali. Dopo il divorzio di Saramago daEinaudi, ecco un caso fresco di Fiera. Un’autriceinglese, Louisa Young, collaboratrice del Guardiane apprezzata scrittrice di libri per bambini (iromanzi di Lion Boy, firmati insieme alla figlia,sono tradotti in trentaquattro lingue) ha rifiutatol’offerta Mondadori per il suo primo romanzo peradulti. Perché, ha detto, non vuole pubblicare conla casa editrice di proprietà di Berlusconi. «Le cosesono andate così» conferma Massimo Turchetta,direttore generale delle Edizioni Mondadori. «Mail catalogo Mondadori, con la presenza di autori digrande valore letterario e di ogni opinione politica,è da solo una risposta alla signora Young». Che ècome dire che la casa di Segrate non è la voce delpadrone. Prontamente si è fatta avanti Garzanti (diproprietà Gems) che ha acquistato My Dear, IWant To Tell You (la storia di due donne inglesiche aspettano il ritorno a casa dei mariti dalla guer-ra del 1914-’18: solo che uno dei due è rimasto sfi-gurato…) e lo farà uscire in libreria nel prossimoautunno. Insomma, il duello a distanza tra Mauri eBerlusconi prosegue. Se si tiene conto poi del fattoche Stefano Mauri detiene una percentuale diChiarelettere (il recentissimo Papi di Gomez-Lillo-Travaglio è stato venduto già in Olanda, Albania eSpagna, mentre sono molto avanti le trattative conun editore tedesco), e che Chiarelettere è uno deisoci de il Fatto, si vede quanto si vada estendendo– direbbe Houellebecq – il dominio della lotta.

Duello Mondadori-Garzanti sull’autrice sconosciutaRanieri Polese, Corriere della Sera, 18 ottobre 2009

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M ario Spagnol è stato il primo editoremoderno. Il suo talento ancora oggi river-bera tacito in molta parte dell’editoria ita-

liana. Le case editrici dalle quali è passato(Bompiani, Feltrinelli, Mondadori, Rizzoli,Longanesi) dominano ancora la scena.

Dallo scouting pretendeva l’efficienza di unsottomarino. Sempre allerta. Ancora oggi gli edi-tori italiani sono tra i più veloci. Aveva una me-moria bibliografica straordinaria, che riversavanel tascabile, ancora simile a lui nella sua ampiaarticolazione nostrana. Sapeva promuovere i li-bri con energia. Severo ma rispettoso verso il dif-ficile mestiere di agenti e librai. Uffici spartani,abitavamo l’essenziale, il lusso era semmai ri-servato agli autori. Umiltà e grandeur dovevanoconvivere. Creava miti senza mai subirli. Non sifa l’editore, lo si è. «Sempre meglio che la-vorare» era il suo mantra. Leggeva il lavoro edi-toriale con la lente dell’artigiano. Il dettaglio diuna copertina era più importante di un cda. Untitolo azzeccato contava più di qualsiasi pianomarketing. Non si lasciava ammaliare dal succes-so, errore fatale a molti editori. Da lui ho appre-so la forma del lavoro. Un metodo preciso. Ilrigore dei conti. La libertà di rimettere in giocotutto: copertine, collane, procedure, spese, titoli,formati, legature, ruoli. Creava regole per poitrasgredirle.

Il nuovo quando prorompe le scassa. Tenersipronti. Ognuno poteva proporre le sue idee madoveva battersi duramente. Le discussioni pote-

vano diventare furiose. Così si imparava. Perché isuoi “no” non erano mai soli. Dava sempre unaspiegazione. Le volte in cui si lasciava convincereera il primo a voler cambiare. A chi gli rimprove-rava la svolta rispondeva: «Mi riservo un solodiritto, quello di cambiare idea!». Bisognavaessere critici verso le novità ma pronti adabbracciarle. Fu il primo a dirmi di internet,quando era ancora un network universitario. Difronte a un libro di Terzani proposi un titolobreve, irrituale, perché avesse grande risalto incopertina: Asia. L’idea gli piacque ma lo trasfor-mò nel ben più elegante In Asia. Sempre fuggiredalla routine e dalla burocrazia, giudicare casoper caso, capire il talento. Aveva fama di avaro eduro. Era in realtà rigoroso e diretto. Veloce eleale. Alla fine una malattia rara e crudele l’hagradualmente sepolto vivo nel suo corpo.Immobile sceglieva con uno sguardo deciso eautorevole le copertine. Si rifugiava sempre piùnel fare libri. Erano la parte del corpo che glirispondeva ancora. Ci ha diretti fino all’ultimobattito come un re, senza abdicare. Dopo lascomparsa la sua scrivania è diventata il tavoloriunioni. Nessuno si è seduto al suo posto, perchél’assenza divenisse presenza. Non ci siamo maisentiti soli. Con i nostri diversi talenti da lui col-tivati e incoraggiati, parlavamo il linguaggio delmaestro. Liberi, anche, di metterlo in di-scussione. Altrimenti l’avremmo tradito.L’impresa deve evolvere di continuo, come unorganismo vivente. Grazie di tutto.

SPAGNOL, UN RE ARTIGIANOStefani Mauri, Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2009

«Da lui ho appreso la forma del lavoro. Un metodo preciso. Il rigore dei conti. La libertà di rimettere in gioco tutto: copertine, collane, procedure, spese, titoli, formati, legature, ruoli. Creava regole per poi trasgredirle»

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I n principio era il verbo. In futuro sarà il compu-ter? Il mondo dell’ editoria è in gran fermento.Prima ancora che nasca un mercato, le grandi

imprese cercano con ogni mezzo di accaparrarsiuno spazio nel grande business del libro elettroni-co. Da oggi l’americana Amazon, una delle piùgrandi librerie online, renderà disponibile in uncentinaio di Paesi, tra i quali l’Italia, il suo dispo-sitivo elettronico, denominato Kindle, per ripro-durre libri e giornali in formato digitale. Da setti-mane si rincorrono voci di un nuovo lettore dellaApple, simile all’iPhone ma più grande. Un pro-totipo della Microsoft, il Courier, è già trapelatosu alcuni siti specializzati. Aziende del calibro diMB, Barnes&Nobles, Google rilanciano con leproprie iniziative. Chi sarà vincitore? A chi si affi-deranno i consumatori?

Soltanto l’avvento della fotografia digitate puòricordare un fenomeno del genere. Dieci anni fa,grandi marchi come Canon, Nikon e Kodak,cominciarono a investire a più non posso in qual-cosa che ancora non esisteva. Hanno speso percreare prodotti che, ancora, non avevano abbastan-za appeal per i consumatori. Ma, alla lunga, hannoavuto ragione. La pellicola per macchine fotografi-che old style, ormai, non esiste. È rimasta appan-naggio di un piccolo mercato di nicchia, riservato apochi appassionati. Oggi, rispetto ad allora, lasituazione si è ribaltata. Succederà la stessa cosaanche alle biblioteche e alle edicole? Andremo afare la spesa di nuovi titoli su internet o collegando-ci ai grandi server delle biblioteche internazionali?

Amazon ci ha creduto: il suo lettore, dalloschermo in bianco e nero, è ora disponibile. Ilprezzo è di 279 dollari, pari a circa 230 euro. Chil’ha provato, ha certamente gradito la possibilitàdi collegarsi a un negozio virtuale per scaricare,in modalità wireless e 3G, pari a un cellulare diultima generazione, 350mila libri (al momentotutti in lingua inglese) e 85 tra riviste e quotidia-ni internazionali. Ma il sistema è “proprietario”,anche se è possibile visionare file in formato pdf.E questo potrebbe non piacere a tutti.

Amazon avrebbe accelerato la diffusione delsuo lettore per evitare la controffensiva dellaApple, che sarebbe imminente, e che ha giàavviato contatti con editori per rendere disponi-bili “contenuti” – e quindi titoli – attraverso ilsuo collaudato network di vendita online. Levoci, attraverso il web, si moltiplicano. Ma mancaancora la conferma ufficiale di un lancio chepotrebbe bissare il successo dell’iPod edell’iPhone. Anche Barnes&Nobles tenta la cartadel libro elettronico: attraverso il suo sito, lagrande libreria online mette a disposizione unsoftware che permette di scaricare, e leggere, isuoi prodotti. Si può scegliere la versione perl’iPhone, per Pc, per Mac.

Chi ha cercato di eliminare le barriere è certa-mente la Sony, che commercializza da tempo ilettori che montano un sistema operativoWindows e che “scaricano” in formati piùuniversalmente diffusi, come il pdf. In questadirezione sembra andare anche il prototipo dellaMicrosoft, il Courier, che riproduce, nel suo dop-pio schermo, anche il classico libro aperto tra duepagine. Anche Google, che già da tempo si batteper digitalizzare l’immenso contenuto dellebiblioteche mondiali, si prepara al lancio di unnegozio virtuale, denominato Google Edition, eche dovrebbe consentire agli editori di guadagna-re una percentuale. Facile immaginare che lapiattaforma sia simile a quella di Google Books, eche si troveranno titoli in pdf, quindi facilmenteconsultabili sui pc casalinghi.

Vincerà, alla fine, un sistema “proprietario”, equindi inutilizzabile in altre librerie online, o“aperto”, e quindi condivisibile? Difficile, perora, dirlo. Di certo la diffusione di nuovi sistemielettronici di lettura, che consentiranno di portar-si in treno fino a 1.500 volumi da scegliere duran-te il viaggio, scateneranno anche gli appetiti deglihacker. Già ora i libri online sono oggetto di con-tese giudiziarie a non finire. E il fenomeno deldownload clandestino di musica e film comincia acoinvolgere anche il mondo dei libri.

Biblioteca in manoLa rivoluzione del libro elettronico

Da oggi Amazon lancia anche in Italia Kindle per riprodurre libri e giornali in formato digitale

Riccardo De Palo, Il Messaggero, 19 ottobre 2009

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L o scrittore francese Jean Echenoz raccontavite come se fossero romanzi: le sue storie diindividui celebri sono narrate in modo da

sembrare fiction, e ottiene quest’illusione impri-mendo un’ariosità speciale all’invasiva con-cretezza del vissuto. Registra un’esistenza nei det-tagli per poi lanciarla in una sfera immaginaria,dove distilla il peso della cronaca in una strana epeculiare leggerezza. Ma nella cronaca gli piaceimmergersi come in una premessa irrinunciabile,e dopo averla esplorata con estrema cura filtra ilmare di notizie accumulato per ricomporlo nellalievità minimalista dei suoi ritratti letterari.

Lo fa anche in Correre, il suo ultimo ro-manzo, dedicato all’atleta Emil Zátopek, nato aKoprivnice, in Cecoslovacchia, nel 1922, emorto a Praga nel 2000. Mito dello sport e fon-dista spettacolare, Zátopek è stato un genuinofuoriclasse, consacrato nell’olimpo dei campionida una raffica di imprese formidabili, dalle tremedaglie d’oro vinte nel ’52 a Helsinki (neicinquemila metri, nei diecimila e nella marato-na) fino all’approdo a innumerevoli traguardi(negli anni dei suoi massimi successi arrivò a

battere ogni record sulle distanze superiori acinquemila: sei, dieci e quindici miglia; dieci,venti, venticinque e trenta chilometri). Correreè appena uscito per Adelphi, già editore italianodel Ravel scritto da Echenoz: non una “vera”biografia, ma un’indagine del compositore diBolero che coglieva soprattutto l’algida squisi-tezza dei suoi rituali esteriori. Nessun tentativodi scavo psicologico o emotivo intacca i meda-glioni adamantini di Echenoz: di volta in volta ilsuo eroe è una minuziosa silhouette che emergecon rigoroso fulgore dall’instabile magma delmondo attorno.

«Non m’interessa un progetto rigidamentebiografico: è il percorso romanzesco ad attrar-mi», ammette Echenoz, cresciuto all’ombra del-l’ospedale psichiatrico di Aix-en-Provencediretto da suo padre e formatosi a studi di socio-logia e psicologia («cose di moda in queglianni»). Spiega che il suo obiettivo principale è«trovare un equilibrio tra il rispetto della veritàe la libertà di giocare. Punto a romanzi visibili esonori e lavoro su comportamenti e movimenti.Cerco di riversare nel testo una grammatica

JEAN ECHENOZ

Leonetta Bentivoglio, la Repubblica, 24 ottobre 2009

che pagò la sua opposizione al regime

Uno scrittore innamorato della musicasi lascia catturare da una leggenda dello sport,

Emil Zápotek.Il racconto delle imprese di un atleta

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cinematografica. La mia aspirazione finale ècontemplare un film che scorre lungo le paginedei miei libri».

Perché ha scelto Emil Zátopek?«Perché io non so nulla di sport e avevo vogliad’imparare. Zátopek era una leggenda della miainfanzia. E poi il suo nome mi piace tanto, allemie orecchie ha il suono di un motore. Facendoricerche su di lui, ho scoperto una personalitàstraordinaria immessa in un contesto storico epolitico molto particolare in quanto dominato daregimi autoritari, nazismo e stalinismo. Zátopekha avuto un destino eccezionale, sospinto da dotiincredibili dal punto di vista atletico, ma anchedalla capacità di correre come una “locomotivaumana” – era il suo soprannome – attraverso laStoria durante un periodo drammatico perl’Europa. All’apice della carriera divenne dissi-dente e sostenitore di Dubcek, e ne pagò le con-seguenze sopravvivendo confinato in montagna elavorando nelle miniere di uranio. Pur nel suoluminoso candore aveva l’orgoglio delle proprieconvinzioni».

Cosa l’ha più colpita di Zátopek, lavorando alsuo ritratto?«Lo sguardo stupefatto e naïf. Il sorriso aperto. Ilterribile coraggio. L’umiltà dell’atleta. Era un anti-divo, l’opposto delle star di oggi dominanti nellosport come in politica e in cultura. La nostra èun’epoca malata di divismo e narcisismo».

Nel libro descrive uno sportivo selvaggio, lonta-no dall’armonia del bel gesto atletico, che corre-

va in modo ansimante e caotico scombussolandoogni estetica.«L’andatura era sempre irregolare, e le variazionidi ritmo avevano l’effetto di disorientare e spos-sare gli avversari. Con brutalità sistematica, con-traendo il volto in smorfie spesso diaboliche, egesticolando come se stesse facendo violenza alproprio corpo, li sbaragliava uno dopo l’altro».

Curioso che uno scrittore come lei, ossessionatodalla forma, prediliga un eroe apparentementesenza stile come Zátopek.«Proprio perché nel mio lavoro mi preoccupomolto dello stile desideravo concentrarmi suqualcuno che inventò il suo stile opponendosialle norme classiche, contraddicendo convenzio-ni formali e diventando il massimo nel suocampo».

Nel romanzo Al pianoforte lei affrontava la sto-ria degli ultimi giorni di vita di un pianista. Sipuò paragonare questo genere d’interprete auno sportivo?«Certo. In entrambi i casi ciò che mi ha affascina-to di più è la storia di un corpo che si espone allosguardo del pubblico, il che, ovviamente, è esa-sperato in uno sportivo, per di più al servizio diun’arte bizzarra come la corsa».

La musica è importante per la sua scrittura?«Fondamentale. Ogni volta trasferisco nelromanzo elementi di natura musicale: ritmi, sin-copi, accelerazioni. Il suono avvolge e completa ilsignificato della frase, le dà respiro e slancio.Musica e letteratura condividono un’essenza».

Oblique Studio

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F rancesco Orlando qualche lustro fa scriveva unlibro, diventato un capo d’opera negli studi dicritica tematica, dedicato agli “oggetti desueti”

in letteratura. Non sfuggirebbe oggi a Orlando chela figura del critico in sé andrebbe riannessa a quel-lo stesso repertorio di oggetti vetusti, o di scarto,accostato com’è ormai sempre, il critico, all’esem-plare di una razza destinata a scomparire, tantoquanto i luoghi che ne costituiscono l’habitat pri-mordiale: a partire da quelle biblioteche che unloro incolpevole impiegato ebbe a definire, sotto gliocchi esterrefatti dell’utente che ha tramandatol’aneddoto, non luoghi di consultazione ma di con-servazione. È tempo dunque di abbandonare que-ste chiese sconsacrate del culto librario e pensio-narne gli spettri cigolanti del Canone, dellaTradizione, della Letteratura, per immergersi nelfluttuante universo dei libri che si scrivono semprepiù numerosi e che si pubblicano con allarmantegratuità, col favore di internet. Il critico, dunque,schiacciato o almeno miniaturizzato dalla suprema-zia della rete. E chi lo dice? Soprattutto loro, quel-li dei blog.

Li chiamano “leoni da tastiera”, anche se somi-gliano più a dei tori imbizzarriti: fanno parte di unacomunità, in Italia ma anche altrove, non tanto spa-ruta e decisamente agguerrita, che gestisce, o frui-sce, o visita periodicamente o consulta quotidiana-mente i cosiddetti blog: le «gazzette», avrebbedetto Leopardi, dell’era di internet. Tra questi,negli ultimi dieci anni, svettano sorprendentemen-te i blog letterari: in Italia nessuno legge, ma tuttiparlano di letteratura (anche se spesso le discussio-ni in rete sul tal libro si aprono con la sintomaticadichiarazione di programma: «io il libro non l’holetto, però volevo dirne che...»). I blog sono i luo-ghi più aperti e democratici (perlomeno in poten-za) di discussione che si diano al momento: se neglianni Sessanta per parlare di un romanzo bisognavaandare a Palermo e farsi ospitare da un convegno

di musicisti (accadde ai prodromi della neoavan-guardia), oggi basta un clic e si può discutere inrete di un romanzo, andando cursoriamente, congli scrittori Wu Ming e Giuseppe Genna, col criti-co Andrea Cortellessa (che non ha un suo blog, mane frequenta alcuni) o con Romano Luperini, pro-fessore universitario che ha aperto da un paio d’an-ni un forum nel sito del suo editore.

Già, perché esistono diverse tipologie, molto dif-ferenti in realtà, sotto l’onnicomprensiva etichettadi blog: vi è il sito letterario tradizionale, che è unavera e propria rivista con una redazione organizza-ta, ma con l’ovvio vantaggio, rispetto a una rivistacartacea, di poter operare in un’area molto allarga-ta, raggiungendo un pubblico pressoché indifferen-ziato in tempi infinitamente più rapidi, che non pas-sino per l’editing, la stampa, la distribuzione. Tantoche le riviste tradizionali si dotano sempre più spes-so di un sito, o di link (cioè di richiami ad esempiodel sommario o degli articoli pubblicati) in siti giàesistenti. Riviste online sono ad esempio Carmilla(www.carmillaonline.com) di Giuseppe Genna o Ilprimo amore (www.ilprimoamore.com) di CarlaBenedetti e Tiziano Scarpa: nata, quest’ultima, dauna secessione consumatasi all’interno di Nazioneindiana (www.nazioneindiana.com) rivista pionieradel genere, e che però di quel primo esperimentointerattivo muta decisamente lo spirito, avendoScarpa e Benedetti deciso di sbarrare lo spazio aicommenti. Il secondo tipo è quello che più propria-mente si definisce blog: ossia uno spazio gestito daun unico responsabile, che pubblica (il termine nelgergo è postare) un articolo, una recensione, dandola stura ai commenti. Esempi di questo tipo sonovibrisse (vibrisse.wordpress.com) di Giulio Mozzi –dal cui diario è scaturito il divertente spaccato dibêtise tutta italiana Sono l’ultimo a scendere e altrestorie credibili, appena edito da Mondadori – eLipperatura (loredanalipperini.blog.kataweb.it) diLoredana Lipperini.

BABELICO BLOGSotto l’etichetta di blog letterario coesistono varie tipologie, dalla rivista online agli individuali quaderni di bordo. Quasi sempre, però, a caratterizzare il dibattito che scaturisce dagli interventi sono polemiche feroci quanto effimere. Ma come dimostrano anche i casi stranieri, si tratta di un medium capace di riattivare una funzione critica che non si esaurisca in accademiche controversie o in vetrine promozionali

Gilda Policastro, il manifesto, 25 ottobre 2009

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Nazione indiana 2.0, nata dalle ceneri dellaversione precedente, è invece un ibrido tra i duetipi, una sorta di blog collettivo, in cui ciascunredattore è responsabile di ciò che si pubblica, puressendo per l’appunto la redazione un’entità mul-tipla, costituita da una serie di redattori, più omeno giovani, alcuni dei quali molto seri e motiva-ti a farne uno spazio di confronto reale sui temi diloro competenza, come Franco Buffoni (che pro-segue nel blog la sua nota battaglia per i diritti civi-li) o Andrea Inglese (poeta e critico di poesia).

Polemiche civili e tori scatenatiDunque, il primo discrimine tra le diverse tipolo-gie è la discussione, aperta o meno. La discussio-ne, ecco. Tutti abbiamo letto sull’argomento trat-tati e libelli, dai classici ai moderni, apprendendo– a partire dalla Civil conversazione di Guazzo –come, attraverso l’educazione, si possa entrare afar parte di una comunità unita da un interesseparticolare, acquisendo tecniche e modi dellaparola proferita in pubblico. Tali modi variano aseconda del genere: in un convegno o una tavolarotonda si dibatte con argomenti organizzati inun discorso (con maggior rigore formale nelprimo caso, con le marche inevitabili dell’oralitànel secondo); l’arguzia e la boutade sono consen-tite, a patto però che siano il sale, non la pietan-za. Le più proficue discussioni nascono, ad ognimodo, a distanza, dalla meditazione di un tema, edalla replica ex post: «Io non dubito, caroPasolini», scriveva Sanguineti su Officina, nel’56: all’apertura conversevole seguiva la polemicaferma, agguerrita eppure civile, a sostegno delleragioni dell’avanguardia e contro la taccia pasoli-niana di “epigonismo”.

La discussione in rete ha tutt’altre modalità, apartire dalla compressione temporale in un arcoristretto (Francesca Matteoni di Nazione indianaspiega che ogni redattore ha la possibilità dipostare un nuovo pezzo rispettando la distanzaminima temporale di due ore e la distanza quan-titativa massima di cinque pezzi al giorno: chepaiono comunque tanti, se il pezzo postato non èdi puro servizio). Il dibattito online si fa subitoacceso, ma dura pochi giorni al massimo. Se sipubblica, poniamo, un post alle 11.30, alle 11.32è già partito il flusso dei commenti: se il post è diuna firma esterna al circuito (ci tornerò fra unmomento) lo spazio di discussione si trasformaimmediatamente in un’arena, in cui i tori sono

sugli spalti, e a volto scoperto, solitario e inutil-mente bardato, magari, dell’incongrua armaturadella Formazione Scolastica e Universitaria, c’è ilGran Nemico, che di solito è il critico tout court.

A stretto contatto con la tastieraI tori sono non solo deliberatamente aggressivima sempre pronti, incollati allo schermo (come ipersonaggi dei romanzi, che non hanno i passag-gi obbligati della vita materiale: il giorno, la notte,la veglia, il sonno), sono tori, appunto, e dunqueper lo più incornano, solitamente garantiti dal-l’anonimato (loro): si chiamano «A», «F», «SB»,sono non più di venti, rimbalzanti da un blogall’altro, ma danno l’impressione dell’assedio,dell’accerchiamento, alcuni sono incontenibil-mente imbizzarriti, e, come pare siano soliti fare itori più selvaggi, sollevano qualunque cosa capitiloro a tiro, anche ben oltre la loro stazza, per sca-raventarla via, lontano, fuori. Ma prima di volerprovare ad ammansirli, converrebbe acquisirequalche altro dato preliminare.

I siti letterari si diffondono in Italia ormai quasivent’anni fa, e proliferano in modo incontrollatonell’ultimo quinquennio, con contatti che si aggi-rano attorno ai trecentomila al mese, come siapprende dai rilevamenti di BlogBabel, il sitodeputato a questo genere di conteggi. E chi sono ecosa fanno, fuori dalla rete, i blogger? Accanto (ointorno, o sotto, o da lato, come direbbe Zanzotto)ai siti vi sono i frequentatori abituali, ovvero iredattori del sito stesso, oppure i responsabili dialtri blog, per lo più scrittori o aspiranti tali, tra-duttori, professionisti di vari settori che vivono perle più diverse ragioni a stretto contatto con latastiera e dunque, tra un’occupazione e l’altra,commentano un post (o viceversa, magari). A chivoglia frequentare tali spazi in assoluta inconsape-volezza vanno quindi offerti questi due dati preli-minari (che ricavo da una conversazione conGiuseppe Genna, antesignano, in Italia, insieme aGiulio Mozzi, del medium): il tempo di permanen-za stimato per una pagina è pari, in media, a 19secondi: la lettura forzatamente distratta riservataal web si presta dunque meglio alla scorsa di com-menti estemporanei che al post di partenza.Donde la lapidaria gratuità di molti commenti,genere peraltro in dismissione, a giudizio deidetrattori (tra cui Genna stesso), a fronte di altrepossibilità di interazione meno dirette e megliomoderate. Viceversa, l’aspetto rassicurante, ed è il

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secondo elemento da considerare, è che quei venticommentatori assidui (ossessivi, feroci, ostili) nonrappresentano, evidentemente, la totalità dei letto-ri, se è vero che questa si aggira attorno ai duecen-tomila contatti, mediamente. È altrettanto veroche quei venti su duecentomila agiscono da distur-batori programmatici: la discussione spesso siincarta su sé stessa, i venti si parlano tra di loro,soffocando qualunque intervento serio e qualifica-to sull’argomento del dibattito in corso.

Cito a mo’ di esempio una discussione prodot-tasi su Nazione indiana, tra i siti più visitati (nellaclassifica di Blogbabel è sesto-settimo, dove ilsecondo posto, per dire, va al blog di BeppeGrillo). Il tale DR pubblica un pezzo che riguar-da, tra l’altro, proprio il blog, e i commenti vi siconfigurano subito come una discussione trasver-sale tra due nick.

Ecco un passaggio esplicativo, sostituendo inick originali con «A» e «B»:

A: «Ma io non tiro acqua a nessun mulino! Misto solo chiedendo cosa cerchi qui, dato che nonsono né sarò mai un critico».

B: «Per trappolina intendevo il fatto che leggiquello che vuoi leggere tu nei commenti altrui(non ho mai scritto che potevo fare qualcosa dimeglio) tanto per fare polemica, trucco che usispesso».

A: «Ma è quello che ho detto: tu non puoi,assolutamente, fare nulla di meglio».

Potenzialità inespresseE via così, con una serie di commenti del tuttointerni alla discussione e ai proponenti (tanto cheuno di loro a un certo punto denuncia di nonaver mai visto prima, da quelle parti, il tal «B»).Infine il cosiddetto moderatore si dice costretto achiudere quella discussione, dopo «l’aspro inter-vento di DR, che ha causato violenti attacchi adpersonam». Se il lettore avesse ancora la pazien-za di andarsi a cercare l’intervento di DR, permisurarne l’entità polemica, non lo troverebbe.Ma chi è DR? Guardando nella rete si apprendeche DR è noto nel web con il nome di «A». Siripercorra allora, sia pur entro i famosi 19 secon-di necessari e sufficienti, la discussione: è «A»stesso a commentare DR, così che la polemica nelblog sul blog è avviata da un blogger, che poi sicommenta da solo. Nessuno si è mai spinto cosìavanti nell’avvitamento serpentesco, nemmenoMalerba.

La situazione migliora varcando i confininazionali, dove i blog annessi ai principali quo-tidiani inglesi o americani, ad esempio, assolvo-no a una funzione informativa, con minor spa-zio alle polemiche sterili o autoeferenziali o diparrocchia e di consorteria (ne ha scritto direcente il blogger che si firma SulRomanzo, sul-romanzo.blogspot.com). Ma l’impressione èche sia ancora inesplorata la possibilità delmedium, relativamente nuovo, e dunque inevi-tabilmente perfettibile. Se alcuni vi intravedonol’unica o la miglior via per riattivare una funzio-ne critica che non si esaurisca nella vetrina pro-mozionale offerta al singolo libro dai quotidia-ni o, peggio, nel lavoro in solitaria dicostruzione del canone di domani dalle catte-dre universitarie, permane nella maggior partedei lettori di blog una legittima diffidenzarispetto alla capacità di tenere i tori buoni nel-l’arena lasciando spazio a un agonismo sano,più cerebrale e meno muscolare.

Un frastuono da disciplinareSia lecito derogare al divieto autobiografico,deroga che, come nel Convivio dantesco, puòdarsi in condizioni di particolare urgenza, o incondizioni avvertite come tali. Da qualche tempopubblico in rete, nei blog letterari, e l’impressio-ne che ne ricavo, malgrado gli incidenti di per-corso, è che la circolazione delle idee, quandoriescano a emergere dal chiasso dei disturbatori,sia incomparabilmente maggiore a quella di qua-lunque altro mezzo. Solo, occorrerebbe discipli-nare diversamente quel chiasso, attenuarne ildisturbo, isolandone alcune frequenze, azzeran-done altre.

Ricordo MV, che sbraitava senza risparmio digentilezze durante una discussione sulla narrativaaperta da un mio post. La incontro a un festivalletterario, mi viene incontro melliflua: «piacere diconoscerti». Non mi sento di ricambiare e lei sischermisce con un «beh, ma sai com’è, lì neiblog». Viene da pensare che forse è questo il pro-blema: ripartire da capo, chiedendo ai bloggeruna costante assunzione di responsabilità, com’èovvio e persino banale per tutti coloro che scrivo-no e si esprimono pubblicamente, in un regime diciviltà del dialogo, specie del più libero e demo-cratico, come il blog rivendica a sé stesso: «no»,le rispondo allora, rovesciando la logica del-l’estraneità: «dimmelo tu: com’è?».

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U na fuga senza fine nel profondo Tennessee.Quella di Cornelius Suttree, detto ancheBuddy, ma per tutti Suttree, come si intitola

il romanzo di Cormac McCarthy che, a trent’annidalla sua pubblicazione negli Stati Uniti, dove fuaccolto come un capolavoro, arriva adesso da noi(Suttree, Einaudi, traduzione di Maurizia Balmelli,pagg. 560, euro 23, da domani in libreria).

La fuga senza fine di un misterioso personag-gio di cui indoviniamo, e poi ci vengono a confer-mate, le origini privilegiate, la cultura di fondo,l’educazione perfetta, la caduta. Perché anche inmezzo alla desolazione e alla povertà in cui con-duce la sua vita, Suttree si distingue. Spicca per ilsuo distacco, la sua ironia, il suo humour nero, lasua gentilezza profonda sul resto del variopinto edisperato mondo di (elenca McCarthy) «ladri,derelitti, miscredenti, paria, poltroni, furfanti,spilorci, balordi, assassini, giocatori, ruffiani,troie, sgualdrine, briganti, bevitori, ubriaconi,trincatori e quadrincatori, zotici, donnaioli,vagabondi, libertini e debosciati vari», di cui èentrato a far parte. Diverso tra i diversi, Suttreevive o sopravvive, in un autoesilio dalla sua vitache si è imposto dopo la caduta (lo incontriamoche esce dalla prigione), in una baracca galleg-giante sulle rive del Tennessee, alla remota peri-feria di Knoxville, vivendo dei prodotti dellapesca, cercando il prezioso pesce gatto, in-

trattenendo poche e balorde relazioni all’insegnadella provvisorietà e dell’alcool.

C’è un segreto, uno snodo doloroso, una feri-ta da qualche parte nel suo passato, che nonsapremo mai del tutto, che indoviniamo da unepisodio straziante a un terzo del libro – l’unico,fallimentare ritorno di Suttree al suo mondo diun tempo – e punta in direzione di un alcoolismoche è stato e resta una via di fuga dalla normalitàborghese. Ma c’è, e si sente anche se solo sugge-rita, una continua ricerca morale, una ricercadelle possibili ragioni dell’esistenza, in questoviaggio nella desolazione, nell’a dir poco bizzarromodo di vivere di Suttree, nel suo annullamentoin una condizione umana che non gli appartienee a cui aderisce con spontaneità assoluta.

Suttree tiene in piedi con perizia e dedizione lasua houseboat, beve con chiunque passi a tiro –intrugli infernali, whisky che uccide – protegge emedia, ogni tanto si fa arrestare per ubriachezza,ogni tanto incontra una ragazza o una generosaprostituta pronta a darglisi – senza futuro e senzatante storie, in un lungo percorso attraverso inver-ni gelidi ed estati bollenti, incontri e fame e sete,odori, odoracci e secrezioni evocati da McCarthycon pungente efficacia, risse da romanzo picaresco.Arriva anche vicino alla morte – in una descrizionedi agonia di grandioso terrore. Ma la sua fuga senzafine continua – senza cedimenti, senza remissione.

QUANDO FINISCE IL SOGNO AMERICANOFuga on the road per Cormac McCarthy

Domani esce Suttree. Scritto nel 1979 è la storia di un uomo che vive in una sorta di autoesilio su una houseboat lungo le rive del Tennessee

Irene Bignardi, la Repubblica, 26 ottobre 2009

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Suttree, che, come si diceva, viene tradotto perla prima volta in Italia dalla sua uscita in Americanel 1979, venne visto a suo tempo, ed è tuttora, ungrande romanzo americano, tessuto però del para-dosso di essere un romanzo sul contrario del sognoamericano: la pura disperazione, la sopravvivenza,la nobiltà d’animo dell’essere fuori dalla società eavere dei princìpi. Se Il guardiano del frutteto, ilprima romanzo di McCarthy, del 1965 (anch’essotradotto solo nel 2002), aveva vinto quell’anno ilFaulkner Award, Suttree è certo, per la scrittura,molto vicino al Faulkner “modernista” e moltolontano dallo stile narrativo a cui McCarthy ci haabituato con i suoi romanzi western, così asciutto,scandito, ritmato, spoglio. Qui il fiume letterariodel modello faulkneriano scorre con generosità.

McCarthy si abbandona a lunghe descrizioni,a dialoghi in libertà, a ritratti umani costruiti inabbondanza, a informazioni dettagliate e sapien-ti che precisano e dettagliano il mondo del fiume,la sua flora (la povera traduttrice deve avereavuto dei seri problemi con tutte quelle piante equelle erbe), la sua strana fauna umana e no.

E la fauna umana, con tutta la sua povertà,con tutta la sua miseria culturale, con le difficol-tà della sopravvivenza che rende difficile la con-vivenza, è molto più onesta e gentile di quantonon ci aspetteremmo normalmente dalla visionedi solito così misantropa di McCarthy. Che gioca

anche, scartando improvvisamente verso il regi-stro picaresco, con profili umani e situazioni cari-chi di ironia e di humour.

Basti pensare alle avventure dell’amico e pro-tetto di Suttree, Harrogate («un paramecio ade-noideo… sornione, un muso da ratto, un crimina-le pervertito con inclinazioni botaniche»), che, conimbarazzo degli stessi poliziotti difronte a un cri-mine così inusuale, finisce infatti in prigione peravere fatto sesso con un bel numero di cocomeribelli lì, tiepidi, in un campo. In perfetto contralta-re alla malinconia del suo protettore BuddySuttree. E se non sapete, al pari di me, che cos’è unparamecio, beh, è un protozoo della classe ciliati,dal corpo gelatinoso e oblungo, ricoperto di ciglia,etc… Un dizionario accanto, mentre si leggeSuttree, non fa danni. Come si intuisce, McCarthynon vuole essere capito fino in fondo. Vuolelasciare spazio al lettore di questo poema delladesolazione. Vuole creare una musica della fuga,dell’autopunizione. Che non finisce però in trage-dia, ma nella prosecuzione di questa fuga, in uncontinuo “on the road” verso un tentativo di sco-perta di cosa sia, al limite estremo, l’essere uomini.L’impresa è ambiziosa, la lettura non facile.

Suttree è un libro bello e arduo, una letturasempre ripetitiva e sempre nuova come unavariazione sul tema, una sfida alla pazienza – cheviene compensata generosamente.

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E la barbarie avanza. E questa tivù commercialeha rimbecillito Paese. E ormai nessuno legge.E invece di comprare libri, vanno al ristorante.

Risuona così, sostanzialmente, la geremiade,costante e irritante come il gocciolamento d’unrubinetto sfilettato, che si distilla sul pavimentodel suolo culturale italiano ogni due per tre.Eppure Roberto Calasso, l’editore Principe, conl’Adelphi, di questo strano Paese – e autore, tral’altro, de Le nozze di Cadmo e Armonia (1988)e del recente La Folie Baudelaire – ribalta com-pletamente tale falsa credenza, una delle svariatein circolo, mentre lo Stivale tenta di dare un cal-cio alla fuffa, in specie quella addensata sulKulturmarket. Partendo da un “caso caldo”,ovvero dallo straordinario successo, di critica e dipubblico, del romanzo Vita e destino – ripub-blicato l’anno scorso da Adelphi e ancora moltovenduto in libreria –, il capolavoro di VasilijGrossman, collocabile, per lo scrittore e saggistaGeorge Steiner, tra i libri «che eclissano quasitutti i romanzi che oggi, in Occidente, vengonopresi sul serio». Se poi leghiamo la vicenda perso-nale di Grossman, uno dei numerosi intellettualisovietici che rischiò la morte negli anni di Stalin,al fatto che le lenti dell’Ideologia tuttora sfocanol’immagine culturale dell’Italia, c’è di che riflette-re. «Era tempo, per ciascuno di noi, di sbarazzar-

si dello schiavo che è in noi», questa la frase-guida di Grossman, al quale due agenti del Kgb,nel 1961, confiscarono non solo il manoscritto diVita e destino, ma anche le carte carbone, leminute, i nastri della macchina per scrivere.

Lei condivide l’opinione diffusa per cui gli italia-ni sarebbero cattivi lettori, anzi non-lettori diret-tamente, rispetto ad altri popoli europei?«Non mi pare che sia così. I lettori italiani sonodefiniti ciechi da chi è più cieco di loro. Gli agen-ti letterari stranieri, per esempio, lo sanno eanche al Salone del Libro di Francoforte cercanosubito gli editori italiani. I quali saranno anchetalvolta incoscienti, però sono curiosi e reagisco-no immediatamente alle novità. Quelli che af-fermano “gli italiani non leggono più” spesso sitroverebbero in imbarazzo se dovessero parlaredi un libro che hanno appena letto».

Come mai, allora, persiste questa vulgata sullapretesa cecità del lettori italiani?«Di fatto, i veri numeri e i veri meccanismi dellavita editoriale non sono così noti. In Italia, comein tutto il resto del mondo, si vendono anche ilibri delle collane rosa del genere Harmony, manon solamente quelli. Anzi, l’Italia è un Paese digrande editoria, uno dei Paesi più importanti

«I lettori italiani? Ci vedono più lungo di tanti intellettuali»

La “mente” di Adelphi sfata il luogo comune che vuole il nostro Paese affetto da analfabetismo di ritorno

Cinzia Romani intervista Roberto Calasso, il Giornale, 27 ottobre 2009

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anche sotto il profilo del mercato. Per esempio, laSpagna ha un potenziale di lettori molto piùvasto, dato che lo spagnolo è lingua ben più dif-fusa dell’italiano. Però, fino ad oggi, era piuttostol’editoria spagnola che seguiva l’editoria italiana.Gli italiani sono autolesionisti e poca gente cono-sce le reali cifre del mondo librario».

I lettori italiani figurano, così, tra i più avvertitial mondo: può fare qualche esempio?«Pensando alla mia esperienza diretta, posso direche in questi ultimi anni abbiamo pubblicato varilibri che hanno avuto, in Italia, un successo moltomaggiore che negli Stati Uniti o in Inghilterra, lo-ro Paesi d’origine: per esempio La versione diBarney di Mordecai Richler, che è diventato unlibro immensamente popolare. O anche Follia diPatrick McGrath o Questa sera dorata di PeterCameron. E Zia Mame è solo l’esempio più re-cente. Allora di che lamentarsi? L’unico lamentogiusto è quello di certi librai indipendenti e corag-giosi, che hanno vita difficile, rispetto ad altri.Però il lamento sulla quantità di copie vendute,quanto ai libri, è sbagliato. Ci sono casi clamorosia smentirlo. Come quello, appunto, di Vita e desti-no di Vasilij Grossman: un libro arduo, giunto allaquinta ristampa in pochi mesi che sta toccando le40mila copie e continua a vendersi regolarmente,

pur essendo un romanzo di grossa mole, dove nonè semplice orientarsi».

Che cosa hanno apprezzato, secondo lei, i letto-ri del romanzo grossmaniano, avversato dal-l’ideologo di Stalin, Michall Suslov, che equipa-rava il libro, ambientato a Stalingrado durantel’assedio nazista, «alle bombe atomiche che inemici dell’Urss si apprestano a lanciare controdi noi»?«Il soffio epico, innanzitutto. Qualità molto raranella letteratura del Novecento. Non c’è un altroromanzo che sia riuscito a raccontare ciò cheavveniva intorno allo scontro decisivo di Sta-lingrado con altrettanta lucidità e con sguardoequanime sia rispetto alla Russia sovietica siarispetto alla Germania nazista. Grossman è capa-ce di mostrare l’orrore sovietico dall’interno,dopo aver dedicato alcuni scritti a celebrare leglorie del bolscevismo. E tanto più convincentesuona così la sua voce».

I tempi sono maturi perché si comprendano gliorrori di ogni totalitarismo?«Per quanto riguarda la Russia, è stato Grossmanstesso, in due pagine memorabili di Vita e desti-no, a indicare quale era il più efficace contravve-leno per il sovietismo: leggere e capire Cechov».

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L o scrittore americano che più di ogni altroha celebrato Brooklyn, che ne ha fatto ilsoggetto e l’anima di gran parte dei suoi

romanzi, al punto da intitolare MotherlessBrooklyn il suo libro più bello e dolente, haappena scritto un nuovo romanzo ambientatointeramente nella zona più ricca ed esclusiva diManhattan: l’Upper East Side. Si intitolaChronic City e Jonathan Lethem lo definisce ilsuo libro più ambizioso e preferito. Può sembra-re un salto sorprendente per un autore che nonpiù tardi di un anno fa è stato l’ideatore diun’antologia intitolata Brooklyn was mine, rea-lizzata per celebrare e preservare il quartiere chegli abitanti continuano a considerare ostinata-mente una città. Ma basta leggere le prime pagi-ne del nuovo romanzo per comprendere che losguardo di Lethem sul mondo non è affattocambiato, che la storia è sinceramente e doloro-samente personale, e che anche questa nuovaambientazione è vissuta con gli occhi di unuomo che vive orgogliosamente al di là delponte. Il romanzo ha per protagonista ChaseInsteadman (instead significa “invece”), unuomo che da bambino è stato una star di una sit-com che sta vivendo un dramma di cui parlanotutti i giornali: la fidanzata Janice, ammalata di

cancro, è rimasta bloccata in una stazione spa-ziale in orbita intorno alla terra, e gli invia dellestruggenti lettere d’amore. Il tutto avviene men-tre lui continua a frequentare le feste più esclu-sive dell’Upper East Side e diventa amico diPerkus Tooth, un critico musicale alternativoche consuma grandi quantitativi di marijuana edè perennemente alla ricerca di ideali nei qualicredere o almeno da distruggere. Intorno a loroaltri personaggi emblematici: Jules Arnheim, unsindaco miliardario, nel quale è facile riconosce-re Michael Bloomberg; Oona Laszlo, una gho-stwriter molto sexy, e Richard Abneg, un prota-gonista delle proteste sociali degli anni Ottantache lavora ora, senza molti scrupoli, per il sinda-co. I personaggi si aggirano tra luoghi noti so-prattutto a chi vive a New York, come ad esem-pio l’ex sede della Criterion Collection, la casadi produzione di dvd che pubblica solo film ca-polavori, con la quale Lethem collabora fre-quentemente. Il libro, che è tra i più attesi dellastagione letteraria, sembra risentire in alcunipassaggi delle ambientazioni del Doppio Sognodi Schnitzler nella rielaborazione di Kubrick nelsuo Eyes Wide Shut, con personaggi fragili edisorientati che vagano alla ricerca di qualcosache possa dare un senso all’esistenza.

Jonathan Lethem: «Così ho riscritto il mito di Manhattan»Aveva sempre raccontato Brooklyn ma nell’ultimo libro sceglie un altro quartiere di New York: da Marlon Brando alle Torri GemelleAntonio Monda, la Repubblica, 27 ottobre 2009

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«È quello che provo ogni giorno e ho cercato ditrasferire nei miei protagonisti», spiega Lethem nelsuo appartamento di Brooklyn. Accanto a sé èseduta la moglie Amy, e hanno appena saputo cheaspetta un nuovo bambino. «Ma parlerei anchedella ricerca della ostinata e disordinata verità in unmondo che offre inganno e falsi obiettivi».

Come mai ha deciso di ambientare il romanzo aManhattan?«In passato ho scritto anche un libro ambientatoin California, ma evidentemente ciò non è appar-so troppo strano. Si tratta comunque di unaManhattan vista da un brooklynita: un mito, unsogno al di là del ponte. Per alcuni versi è ancorala città della Febbre del sabato sera: l’approdo acui si aspira».

Ritiene che New York sia una città decadente?«È una metropoli che è stata ferita dall’undicisettembre e dalla crisi economica, ma la forza concui ha reagito testimonia che è tutt’altro chedecadente».

Il titolo sembra un giudizio su New York.«Le rivelo un segreto: è un titolo che mi ha sug-gerito Michael Chabon. Doveva intitolarsi“Manhattan”, ma dopo il film di Woody Allen èsembrato a tutti un titolo impossibile. Ho sposa-to subito l’idea di Chronic City perché evocamolte cose: una diagnosi, qualcosa che rimane enon va via, e la relazione con il tempo. Un ele-mento centrale della mia costante riflessione sullavita contemporanea».

Nella sua Manhattan è presente una nebbia, inrealtà inesistente, che copre la parte meridionaledell’isola.«Una delle ambizioni del libro è stata quella discrivere anche dell’undici settembre, del globalwarning e dell’atteggiamento di diniego che ab-biamo di fronte ad alcuni problemi. La nebbia èun’invenzione metaforica con la quale cerco diproporre un’evocazione psicologica sull’ambien-te e sui personaggi».

In alcuni passaggi il libro sembra una commediadell’assurdo: c’è anche una tigre che vaga nel-l’Upper East Side.«Io ritengo che l’intera esistenza sia una comme-dia dell’assurdo. Ho pensato ad autori che amo

come Thomas Berger, Calvino e Kafka. A volte lavita sembra ridursi a un fumetto, ma non c’è mo-mento, anche il più assurdo, che non la rendadegna di esser vissuta».

Nella Manhattan che descrive è possibile acqui-stare una copia “war free edition” del New YorkTimes.«Spesso sopravviviamo alla realtà cancellandoe non vedendo. Siamo gli editor della nostrastessa vita. Già adesso ognuno può farsi la pro-pria versione del New York Times, così comeognuno è in grado di manipolare e aggiustarela propria vita. A questo aggiungo che l’avven-to di Internet, utilissima per molti aspetti, hanei confronti del fruitore un potenziale dimanipolazione molto superiore di quanto sipossa credere».

Lei è stato l’editor di Philip K. Dick per l’edizio-ne della Library of America. Quale influenza haavuto sul suo lavoro?«Dick è morto nel 1982 e purtroppo non hoavuto l’opportunità di conoscerlo personalmen-te, ma ha un ruolo fondamentale nella mia scrit-tura e nella mia vita. E si tratta di un’influenzatalmente grande che non saprei neanche ricono-scerla nel dettaglio».

Lei è tra gli scrittori che fanno uso abbondantedi riferimenti alla cultura popolare: ritiene che cisia una reale differenza qualitativa tra quello chegli americani chiamano highbrow e lowbrow, tracultura alta e cultura bassa?«Per me non esiste alcuna differenza. E non riescoad apprezzare la definizione pop, abusata ed equi-vocata. Preferisco cultura, o arte vernacolare».

Uno dei personaggi evocati nel libro con mag-gior passione è Marlon Brando.«Un mio personaggio lo definisce l’ultimo degliuomini liberi, ma la sua vita ha dimostrato comesia impossibile in realtà vivere fuori dal mondo.Nel suo itinerario c’è anche la distruzione di que-sta possibilità».

Nel finale Perkus Tooth sostiene che “oltre l’il-lusione non c’è nulla”…«Può sembrare un’affermazione terribilmente pes-simista, ma io la considero qualcosa di cui essereconsapevoli, e da cui è necessario partire».

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N on è bello ciò è bello ma è bello ciò che piace,e piacendo vende, o viceversa: non è bello ciòche piace ma è sempre bello ciò che vende.

Per esempio: i bestseller. In materia di librifare le pulci alle classifiche di vendita ormai èimpossibile, a nessuno frega qualcosa, dopodecenni di discussioni ci siamo stancati, e ormaisbadigliano anche le pulci. Tanto ciò che è inclassifica oggi finirà su una bancarella domani, eciò che resterà domani sono i capolavori degni diessere letti e riletti e studiati, che vendano o no, ilresto è la storia dell’uovo oggi e della gallinadomani. Il resto è la Storia, spietata, e quindilasciamo credere a De Cataldo che la Rechercheo L’uomo senza qualità siano libri per “puristi”,vale a dire noiosi, tra vent’anni nessuno saprà piùchi l’ha detto.

D’altra parte come il livello qualitativo delvendibile si sia abbassato a quanto neppure tredecenni fa era al massimo un Harmony o “para-letteratura” è evidente, e basta confrontare lacomplessità psicologica di feuilleton come Ilconte di Montecristo, i sublimi romanzi di Dic-kens o di Balzac, con quanto passa il conventodella fabbrica del bestseller, e tra non molto un

Nobel non lo si negherà neppure alla Mazzantini.Di questa battaglia persa, piuttosto, ne fa un’ana-lisi ironica Luca Ricci in un piccolo romanzopubblicato da Laterza e intitolato furbescamenteCome scrivere un bestseller in 57 giorni, doveun gruppetto di scarafaggi parigini con i nomi delBeatles cerca di aiutare l’inquilino che li ospita ascrivere un bestseller, altrimenti sfratto per tutti.

Le istruzioni, disseminate in una trama zam-pettante, si attagliano perfettamente ai cliché delvendibile, uno come Antonio D’Orrico le sotto-scriverebbe una a una, c’è cascato ancheCarofiglio, che firma la fascetta promozionale,deve aver preso i Beatles sul serio, in positivo.

Cos’è un bestseller? «Un libro che riescono aleggere quelli che di solito non leggono».Oppure: «Un libro idiota che risulta intelligen-te». Oppure: «Un libro scritto così male dasembrare un film». Meglio ancora: «Un libro cheè stato scritto per vendere molto, che vendemolto e poi lo ristampano e vende ancora di piùe tutti ne parlano perché ha venduto e dopovende ancora un poco».

Lo stile deve essere sempre lo stesso, non devecreare disturbo al lettore, perché il lettore che

COME SCALARE LA CLASSIFICA

Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che vende. Lo spiega un agile libretto di Luca Ricci che mette in fila tutte le regole che fanno un successo editoriale: «L’assenza di stile è un bene»

Massimiliano Parente, il Giornale, 27 ottobre 2009

TEORIA E PRATICA (FURBETTA) DEL BESTSELLER

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legge bestseller, in quanto cliente, ha sempreragione. L’offerta è sottoposta alla domanda, unavolta si chiamava “orizzonte d’attesa”, il lettoreconta più dell’autore. Infatti di un bestseller, seletto, si ricorda la trama, raramente l’autore.D’altra parte se confezioni un Big Mac devi met-terci dentro un Big Mac, e lo si mangia e lo sidigerisce senza commentarlo. Michael Connelly,JefferyDeaver, Clive Cussler o Tom Clancy,«fatta eccezione per qualche impalpabile diffe-renza, sembravano scritti dalla stessa persona», e“l’assenza di stile” è fondamentale. Pertanto ipersonaggi saranno tanto più immortali quantostereotipati (di Madame Bovary non importa ilbovarismo ma solo la nozione codificata di “adul-tera”), deve esserci molta emozione da scartare dipagina in pagina come una merendina o un BacioPerugina (nei quali, giustamente, hanno arruola-to Moccia), e molta finta riflessione («l’importan-te è far credere alla gente che stia riflettendo»).

Ciò che conta è far girare le pagine, e che«sotto la superficie non ci sia nient’altro cheun’altra superficie». A riprova gli scarafaggi diRicci mettono in fila gli incipit di Dan Brown,Stephen King, Patricia Cornwell, e in effetti sem-bra di leggere lo stesso libro, la stessa lingua stan-dard, le stesse metafore prese nella cassetta degliattrezzi del mestiere di narratore di storie. D’altraparte, essendo caduta da tempo, sulle terze pagi-ne italiane, la differenza tra letteratura e non let-teratura, vigendo anzi una revanche del bassoverso l’alto, e l’abolizione di ogni gerarchia este-tica, si mandano i figli a scuola ma va di modabuttare giù i capolavori, fa chic: il post-modernismo inventato dalla critica, la criticausurpata dal giornalismo, il giornalismo sostitui-to dalla notiziabilità del libro, legittimano qual-siasi delegittimazione.

Leopardi è noioso e pessimista. Marcel Proustmanca di sintesi. Hermann Bloch e Musil robacervellotica da adolescenti invasati di metafisica,non sono paradossi, lo ha dichiarato quest’estatea Repubblica anche Alessandro Piperno, ilProust italiano di D’Orrico, il quale D’Orrico damaestro che supera l’allievo bolla come grafoma-

nia da foruncolosi adolescenziali perfino Joyce eProust, e fa il nome di Faletti. Sandra Petrignani,sulla mia pagina di Facebook, liquida Le benevo-le di Jonathan Littell come «una patacca», e cosìfecero da noi Orengo e D’Orrico, tanto chi hapiù voglia di discutere, e su quali basi? In defini-tiva, cosa voleva dagli scarafaggi scrittori di LucaRicci il pubblico dei non lettori? Farsi distrarreper qualche ora, «non pensare più alle rispettiveesistenze, debolezze, smanie, fissazioni, rancori…Chiedevano un dirottamento a buon mercato».Le prescrizioni dei Beatles si adattano bene quasia tutto ciò che funziona in libreria, non solo ilgenere esplicito ma anche il genere implicito,incluso il sentimentalismo edificante di Veltroni eCoelho, perché «i libri per adulti non dovrebbe-ro essere molto diversi da quelli per bambini».

Certo, nel librino di Ricci non si prende inconsiderazione la moda della “realtà”, che in Ita-lia ha sempre maggior pubblico rispetto ai librid’evasione, dove le categorie sono più palpabili ese non sono veriste sono realiste o al massimoneorealiste o postneorealiste, basta che l’old sem-bri sempre new. Altrimenti Gomorra, i romanzi“impegnati”, i romanzi criminali che strizzanol’occhio all’attualità, i “New Italian Epic” insom-ma, non sapremmo dove metterli: non così pro-fondi da essere opere d’arte, non così complessida non essere superati dalla cronaca. Su quelfronte lo sapeva invece il sempre lungimiranteArbasino decenni fa, gira e rigira è sempre unaquestione di supposto verismo; dalla letteraturaal giornalismo, da Fofi a Saviano, dai romanzi sulministro della malavita alla romanzeria com-plottista di Wu Ming, dalla television ai “realitybook”, la minestrina ideologica della “realtà” èsempre la stessa: «Telefona continuamente ilverismo. Muore dalla voglia di venire a ficcare ilbecco nel frigorifero e negli armadi e nei cassettie soprattutto nel cesso: attratto dall’orribilesostanza, e non già dai libri negli scaffali. Ma peril verismo “il dottore non c’è”». Così come per ilrealismo «è tuttora in riunione». E quando c’erail neorealismo, si faceva rispondere: «Quello stasempre a scopà».

«...se confezioni un Big Mac devi metterci dentro un Big Mac, e lo si mangia e lo si digerisce senza commentarlo»

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S crittori di successo e satanisti di periferia, edi-tori cinici e cantanti pop redenti, palazzinari,miss Italie e calciatori, chirurghi estetici e chef

d’alto bordo. Tutti a villa Ada, tutti protagonisti diun’Apocalisse per soli vip che li travolgerà come undiluvio universale. Con il suo nuovo romanzo, Chela festa cominci (Einaudi Stile libero), NiccolòAmmaniti consegna al lettore una commedia grot-tesca ed esilarante, una fotografia deformatadell’Italia di oggi che diverte lasciando quel retro-gusto amaro che è diventato un po’ il suo marchiodi fabbrica.

Jeans e maglione grigio, nell’ufficio romano dellasua casa editrice, Ammaniti racconta la genesi di unromanzo che porta in un’atmosfera completamentediversa rispetto alla cupa marginalità raccontata daCome Dio comanda con cui nel 2007 ha vinto ilpremio Strega. «Mi interessava scrivere un librocomico, un’avventura. Mi volevo divertire» spiega.«Quando ho scritto Come Dio comanda sentivoche il tema era il riconoscimento tra padre e figlio,il rapporto tra educazione e natura. Qui non c’eraun nucleo narrativo forte, c’era soltanto la voglia digiocare con questi personaggi». Che la festa comin-ci sembra recuperare la freschezza scanzonata deiracconti di Fango: «Come Dio comanda ha richie-sto cinque anni di lavoro durante i quali sono cadu-to in un pozzo scuro perché il mood del libro poi telo ritrovi addosso. Ero molto provato da questi sen-timenti estremi, dalla solitudine del bambino prota-gonista, dalla violenza, anche psicologica, di quel-l’ambiente. Ho cominciato questo libro perché mifacevano ridere certe situazioni, certe scene.Inizialmente era divertimento puro, poi le cose sisono complicate: ho capito che per farne un roman-zo dovevo dare spessore a personaggi che inizial-mente vedevo come un’unica massa comica».

La scena di Che la festa cominci si apre al tavo-lo della pizzeria Jerry 2 dove quattro satanisti diOriolo Romano, le Belve di Abbadon, studiano lestrategie di rilancio della setta decimata da troppe

defezioni: chi ha raggiunto i Figli dell’Apocalisse diPavia, che fanno i raid nei weekend, chi gli Hell’sAngels di Subiaco, chi si è sposato e ha aperto unnegozio di termoidraulica all’Abetone. SaverioMoneta detto Mantos, il capo della setta, un’idea cel’ha, qualcosa di molto più forte delle mine sul via-dotto di Anguillara Sabazia o dell’orgia con una vit-tima consenziente che, oltretutto, non era nemme-no vergine: imbucarsi a villa Ada dove il re delleacque minerali Sasà Chiatti ha organizzato per lameglio società un safari esclusivo con tigri ed ele-fanti. Qui le Belve di Abbadon dovranno catturaree sacrificare la star della serata, la cantante Larita,ex musa di un gruppo death metal di Chieti Scalache inneggiava al Maligno, ora convertita e autricedi hit come King Karol e Unplugged in Lourdes.Ai satanisti Ammaniti è arrivato quasi per caso:«Mi interessava raccontare un gruppo di personenormali, che fanno dei lavori qualsiasi, che vivonosituazioni claustrofobiche dove non si possonoesprimere e che condividono, quasi sempre dinascosto, delle passioni. Fortissime» racconta. «Lamia fonte di ispirazione non è stata tanto la crona-ca, le vicende reali delle sette sataniche, ma ilmondo dei giochi di ruolo, dei videogiochi, che iostesso ho frequentato a lungo. Mondi dove incon-tri persone che magari nella vita subiscono e cheinvece lì tirano fuori un carisma pazzesco, per cuiun parcheggiatore può diventare leader di un grup-po di 150 persone. Era questo aspetto che mi sem-brava funzionasse dal punto di vista della comme-dia. Così come il fatto di vedere un gruppo disbandati dentro un mondo che non gli appartiene,la festa di villa Ada. Poi, andando avanti, ho senti-to il bisogno di dare loro anche uno spessore emo-tivo, di andare oltre le battute e le situazioni farse-sche, di mostrare squarci di umanità, di dolore peruna vita non riuscita e per le speranze frustrate».

A villa Ada i destini delle Belve si incontrerannocon quelli di Fabrizio Ciba, l’altro protagonista delracconto, belloccio e vanesio scrittore in giacca di

AMMANITI

Nel nuovo romanzo Che la festa cominci lo scrittore si diverte a prendere in giro tutti. Anche il mondo dei libri, tra autori superficiali, amministratori delegati cinici, astri nascenti. Dove contano più le vendite e il successo della creatività

Cristina Taglietti, Corriere della Sera, 30 ottobre 2009

«Racconto il comico dell’editoria in un’Apocalisse all’italiana»

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tweed lisa sul gomiti che appare esattamente comevuole apparire: «giovane, tormentato, con la testafra le nuvole». In lui si può riconoscere (natural-mente attraverso la visione deformata del generegrottesco) una generazione di scrittori italiani qua-ranta-cinquantenni, a cominciare dallo stessoAmmaniti. Facile andare a cercare corrispondenzecon la realtà anche nella descrizione del grandegruppo editoriale, la Martinelli (Mondadori?), chepubblica Ciba ma anche il nuovo talento, MatteoSaporelli (Paolo Giordano?), un «ventiduenne usci-to dal nulla che in un solo anno ha vinto StregaCampiello e Viareggio». «Con Ciba mi sono diver-tito a prendermi in giro, a giocare con gli stereotipi»dice Ammaniti. «Rappresenta un po’ il mister Hydeche c’è in me, con quei pensieri che ogni tanto unoha e che poi trova repellenti, si vergogna di ammet-tere. Ciba si sente al centro del mondo pur essendoassolutamente insicuro di quello che dice, il contra-rio di quello che dovrebbe essere uno scrittore. Nonè cattivo, è un poveraccio, un disperato. Dall’ester-no si può essere portati a pensare che uno scrittoredi grande successo faccia una vita fantastica, invecespesso è ansioso, infelice, insoddisfatto. Se mettoqualcosa di autobiografico non può che essere ilpeggio. Il fatto è che non devi essere una brava per-sona per scrivere un buon libro. Ci sono personeinette, meschine che però quando scrivono hannola capacità di tirare fuori qualcosa di unico, di gran-de, una visione del mondo potente».

Ammaniti si diverte a raccontare il peggio del-l’editoria, un mondo fatto di editor obesi in notaspese, di scrittori che si portano a letto traduttrici,lettrici, studentesse (e anche, nel caso, agenti lette-rarie), amministratori delegati pronti a buttare amare l’autore che li ha arricchiti per accaparrarsi ilnuovo astro. «È un ritratto comico di un mondo dicui tutti conoscono i limiti. Certo, io ho calcato suquelli, ma penso che tutti ne rideranno, non ci sonoattacchi diretti per cui qualcuno possa risentirsi. Inrealtà poi il mondo dell’editoria normalmente è piùtriste, meno sfavillante di quello che racconto io. Èun mondo fatto di vendite, di pubblicità, di con-tratti, insomma di tutto tranne che di romanzi e dicreatività. E questa è una cosa che ho scoperto sullamia pelle. Spesso gli scrittori si perdono dentroquesto aspetto, pensano solo a quante traduzionihanno avuto, a quanto ha venduto quell’altro. Poiarriva sempre qualcuno più giovane di te, che hapiù successo di te e tu dall’essere invidiato da tuttidiventi quello che invidia. Comunque la verità è

che nessuno nel libro è veramente cattivo, neppurei mostri che vivono nelle catacombe di villa Ada».Il parco romano è un altro grande protagonista dellibro, con il suo fascino selvaggio e pericoloso. «Èun posto che frequento fin da quando ero piccolo,dove puoi trovare di tutto. Una volta un terzo divilla Ada era chiuso al pubblico, ma chiuso permodo di dire perché dentro questa foresta fatta dispine, rovi, immondizia dove ti potevi anche perde-re c’era gente di tutti i tipi. Anche adesso, in unadomenica di sole se prendi certi sentieri ti puoi infi-lare in zone dove non trovi nessuno».

Nessuno è cattivo nel libro di Ammaniti, maallo stesso tempo nessuno è buono. Tutti galleggia-no in una bolla fatta di indifferenza e apparenza,senza ideali e senza sentimenti, al punto che sonoproprio i satanisti a incarnare i valori più forti (ami-cizia, lealtà, affetto). «La satira della nostra societànon era il mio primo intento, anche se naturalmen-te traspare. La situazione italiana è di per sé abba-stanza comica, nel libro ci sono suoni, echi di coseche abbiamo vissuto anche recentemente. Diciamoche racconto un baraccone plausibile. Però la mianon era un’intenzione morale, non volevo fare ilbacchettone». Per questo, forse, nel romanzo diAmmaniti c’è la società italiana con i suoi vizi, manon la politica. «Racconto un clima da declino del-l’impero romano in cui tutto è possibile, anche chetuo figlio ti riprenda con l’amante e poi ti ricatti. Misembrava una cosa assurda, appunto da comica,poi viene fuori la storia di Marrazzo ricattato daicarabinieri. Certo, su Marrazzo scriverei un rac-conto divertentissimo…».

Al di là del caso Marrazzo, sulla sinistra Amma-niti non nutre molte speranze: «Mi sembra che fac-cia soltanto una guerra di opposizione: ogni voltache sussulta la casa ci mette una pezza senza che cisia il racconto di un mondo diverso. Persone moltosimili hanno scelto di stare a destra o a sinistra inuna contrapposizione dove non ci sono vie dimezzo. C’è uno scontro continuo, non si può parla-re perché uno deve sempre sotterrare l’altro. Poi,per dire, c’è la votazione sullo scudo fiscale e la sini-stra non va a votare. E allora dici: ma di che cosastiamo parlando? Sai che c’è? Forse è meglio che mifaccia i fatti miei, anche se so che non bisogna».Ammaniti non vede una luce alla fine del tunnel,nemmeno con la vittoria di Bersani alle primarie delPd. «Mi sembra solo un altro giro di carte. Certo c’èchi è più capace, chi meno, ma nessuno riesce a fartivedere qualcosa di diverso, a farti sperare».

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O ra che i tempi sono cambiati e al posto del-l’editore c’è la casa editrice, ora cheBompiani, il mio editore di una volta, non

c’è più, a chi parlerò con lo stesso calore dellibro che sto scrivendo? È un buon libro? È unlibro che richiede qualche ritocco? E in chepunto? Si mantiene al livello degli altri libri cheho scritto? E ancora: il mio lavoro, le ore in cui idubbi e le insicurezze assalgono lo scrittore men-tre il suo romanzo si avvia alla pubblicazione,non meritano un po’ di entusiasmo, un incorag-giamento e insomma una vera partecipazione?Lo scrittore in questo rapporto con l’editore nonè una persona fragile e vulnerabile che ha biso-gno di sentimento, di intelligenza, di compren-sione, più che di un’accoglienza e di un parerefavorevole?

Tutte queste cose mi fanno sentire la mancan-za di Valentino Bompiani. Ricordo le parole chemi scrisse quando nella primavera del ’61 gliinviai la prima parte del libro che stavo scriven-do, quello che poi intitolai Ferito a morte: «CaroLa Capria, la prima parte del suo libro mi haincantato, se la seconda parte sarà della stessaqualità lei avrà scritto un libro importante chepotremo sostenere con convinzione. Lo stessogiorno in cui arriverà il dattiloscritto lo passere-mo in composizione», eccetera.

Non ripeto queste parole di Bompiani pervantarmi, ma per far capire quale era il suo stile.E si può immaginare l’effetto che facevano que-ste parole a un giovane scrittore ancora scono-sciuto? Uno dei più grandi editori italiani scriveal giovane scrittore sconosciuto che è incantato.Si può capire allora come il giovane scrittore sisenta carico di energia e sicuro che porterà bal-danzosamente a conclusione la seconda parte delsuo libro. Questo è capitato a me quando c’eral’editore Valentino Bompiani.

Sì, lo so anch’io che “zio Valentino” aveva ilsuo caratterino e a volte aveva scatti d’ira memo-rabili, che però scomparivano con la stessa velo-cità con cui arrivavano. La sua era stata un’edu-cazione militare, suo padre e la sua tradizionefamiliare erano improntati al senso del dovere,alla disciplina, all’onore e così via. In questo eraun po’ ottocentesco. Ma questo suo carattere loportava a dare generosamente e a pretenderedagli altri la stessa dedizione. Lui poteva esseretenero e rigido, a volte appunto militaresco; piùverso sé stesso però.

Se non fosse stato così come avrebbe potutoportare a termine, in momenti difficili, inun’Italia ancora sotto i bombardamenti, ilDizionario delle Opere e dei Personaggi?Un’impresa alla quale aveva dato il meglio di sé,

ZIO VALENTINO

Si festeggiano gli ottant’anni della casa editrice Bompiani: un’occasione per rievocare lo stile di chi la fondò, artefice, in un’Italia sotto i bombardamenti, di un’impresa quale il Dizionario delle opere e dei personaggi

Raffaele La Capria, Tuttolibri della Stampa, 31 ottobre 2009PER L’ITALIA CON IL CATALOGO SOTTO BRACCIO

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impegnandosi a suo rischio e pericolo con le ban-che, e da lui perseguita con tenacia e coraggio.

Lui per primo si sobbarcava fatiche non lievi,come quando andava in giro per l’Italia per farconoscere ai librai l’importanza di quest’operache avrebbe dovuto entrare, come effettivamenteavvenne, in tutte le famiglie. Mi è difficile imma-ginare un altro grande editore, Mondadori oEinaudi per esempio, a spasso per l’Italia con ilproprio catalogo sotto il braccio.

Ma Bompiani era un editore particolare, uneditore artigianale, e anche un editore-scrittoreche, come disse una volta, scriveva coi libri deglialtri il suo libro. E da scrittore capiva i problemidei suoi scrittori, aveva la capacità di entrarenella loro testa e sapeva perciò come trattare conloro con finezza di sentimento perché «i suoiscrittori erano la sua famiglia».

Sapeva anche come sceglierli: quella doppialinea della letteratura italiana, quella degli “scrit-tori”, che va da Savinio a Flaiano da una parte, equella dei “romanzieri”, da Moravia a Brancati aPiovene dall’altra, è ben rappresentata nel suocatalogo. Così come fu tempestiva la sua sceltadegli stranieri, da Proust (Un amore di Swanntradotto da Giacomo Debenedetti) a Camus (Lostraniero), che formarono la nostra educazioneletteraria e sentimentale.

E come era costante Valentino Bompiani efedele alle amicizie e alle scelte che il suo intuitogli aveva dettato!

Ricordo un periodo molto, molto lungo, dianni, in cui gli avevo detto di non aspettarsi piùniente da me perché io per primo non credevopiù in me, e io a scrivergli che non avevo piùtalento e lui a replicare ostinatamente che no, chemi sbagliavo, che attraversavo una crisi che moltiscrittori avevano attraversato, che lui credeva nelmio talento e niente e nessuno avrebbero potutoconvincerlo del contrario, nemmeno io. Di tuttoquesto sono grato a Bompiani, e qui non vogliosolo tesserne l’elogio, ma solo riconoscergli quelche gli devo e quel che gli è dovuto.

Negli ultimi suoi anni ogni volta che veniva aRoma mi invitava a raggiungerlo in uno dei suoiristoranti preferiti. Gli piaceva parlare di libri,delle nuove tendenze, degli scrittori più giovani epromettenti, ma sapeva che non avrebbe potutopiù pubblicare i loro libri. Aveva liquidato la suacasa editrice e si era ormai voltato da un’altraparte. Aveva più di novant’anni, e mi guardava

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con l’occhio malinconico di chi ama la vita e sache presto dovrà lasciarla.

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