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La Recensione Cinematografica Review – Movie review Come recensire un film? La recensione è un breve testo valutativo di un’opera letteraria, scientifica o artistica, di cui analizza gli aspetti contenutistici ed estetici. Una recensione è costituita da elementi informativi (trama senza svelare il finale), elementi interpretativi (analisi delle tematiche trattate) ed elementi valutativi (valutare l’opera recensita). Nel caso del film, l’obiettivo di ogni recensore è offrire gli strumenti per avvicinarsi al film in modo più consapevole, presentando possibili chiavi interpretative, mettendo in luce lo stile e contestualizzando il contenuto in maniera più ampia, ad esempio attraverso paragoni con altre opere dello stesso regista o film simili. Scrivere una recensione cinematografica è un passo importante per tutti gli appassionati di cinema che si vogliono avvicinare al giornalismo e alla carriera di critico cinematografico. Oggi, grazie ad internet, è infatti possibile proporre la propria recensione e vedersela pubblicata, a patto di sapere come recensire al meglio un film. Lo scopo della maggior parte delle recensioni di film è quello di aiutare ai lettori a scegliere se vedere un determinato film oppure no. La recensione dovrebbe fornire sufficienti dettagli in modo da aiutare a prendere una decisione ragionata, attraverso un’opinione chiara che non riveli tutta la trama. Familiarizzare in anticipo con il film. Una buona idea potrebbe essere quella di leggere le informazioni diffuse in fase di promozione e guardare innanzitutto il trailer. Per scrivere una buona recensione, prima ancora di guardare il film occorre informarsi sui seguenti aspetti: Titolo Regista Attori principali Genere Ambientazione Riassunto della trama Guardare il film Il primo passo per scrivere una recensione è naturalmente quello di guardare il film, possibilmente in un ambiente tranquillo privo di distrazioni. Un buon modo per reperire tutte le informazioni necessarie a scrivere una recensione è quello di prendere appunti mentre si guarda il film. Prima di iniziare la visione, munirsi di un bloc-notes o del proprio portatile. Spesso i film sono lunghi e si finisce col dimenticare molti dettagli importanti. Gli appunti dovrebbero riguardare ogni dettaglio che colpisce la nostra attenzione, sia esso in positivo o in negativo. Questo servirà a rendere la recensione efficace e originale. Se ci si vuole assicurare di aver compreso a fondo il film, è bene guardarlo una seconda volta. E’ quello che fanno molti critici, per essere sicuri di non trascurare alcun dettaglio.

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La Recensione Cinematografica

Review – Movie review

Come recensire un film? La recensione è un breve testo valutativo di un’opera letteraria, scientifica o artistica, di cui analizza gli aspetti contenutistici ed estetici.

Una recensione è costituita da elementi informativi (trama senza svelare il finale), elementi interpretativi (analisi delle tematiche trattate) ed elementi valutativi (valutare l’opera recensita). Nel caso del film, l’obiettivo di ogni recensore è offrire gli strumenti per avvicinarsi al film in modo più consapevole, presentando possibili chiavi interpretative, mettendo in luce lo stile e contestualizzando il contenuto in maniera più ampia, ad esempio attraverso paragoni con altre opere dello stesso regista o film simili. Scrivere una recensione cinematografica è un passo importante per tutti gli appassionati di cinema che si vogliono avvicinare al giornalismo e alla carriera di critico cinematografico. Oggi, grazie ad internet, è infatti possibile proporre la propria recensione e vedersela pubblicata, a patto di sapere come recensire al meglio un film. Lo scopo della maggior parte delle recensioni di film è quello di aiutare ai lettori a scegliere se vedere un determinato film oppure no. La recensione dovrebbe fornire sufficienti dettagli in modo da aiutare a prendere una decisione ragionata, attraverso un’opinione chiara che non riveli tutta la trama.

Familiarizzare in anticipo con il film. Una buona idea potrebbe essere quella di leggere le informazioni

diffuse in fase di promozione e guardare innanzitutto il trailer.

Per scrivere una buona recensione, prima ancora di guardare il film occorre informarsi sui seguenti aspetti:

Titolo Regista Attori principali Genere Ambientazione Riassunto della trama

Guardare il film Il primo passo per scrivere una recensione è naturalmente quello di guardare il film, possibilmente in un ambiente tranquillo privo di distrazioni. Un buon modo per reperire tutte le informazioni necessarie a scrivere una recensione è quello di prendere appunti mentre si guarda il film. Prima di iniziare la visione, munirsi di un bloc-notes o del proprio portatile. Spesso i film sono lunghi e si finisce col dimenticare molti dettagli importanti. Gli appunti dovrebbero riguardare ogni dettaglio che colpisce la nostra attenzione, sia esso in positivo o in negativo. Questo servirà a rendere la recensione efficace e originale. Se ci si vuole assicurare di aver compreso a fondo il film, è bene guardarlo una seconda volta. E’ quello che fanno molti critici, per essere sicuri di non trascurare alcun dettaglio.

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Aspetti da recensire Una buona recensione esaminerà tutti gli aspetti di un film, compresi i suoi punti di forza e di debolezza. Occorre concentrarsi sullo sviluppo della trama, l’interazione dei personaggi, i dialoghi, la colonna sonora e la capacità complessiva del film di mantenere alto il proprio interesse, creando una narrazione credibile. Ecco gli aspetti più importanti da valutare nella recensione:

Regia. Occorre valutare come il regista ha deciso di ritrarre gli avvenimenti della storia, il modo in cui i fatti vengono esposti, il ritmo della narrazione ecc. Nel caso si abbia visto altri film dello stesso regista, si possono fare dei confronti.

Sceneggiatura. Valutare la trama, i dialoghi e il modo in cui essi vengono interpretati dagli attori. Attori. Valutare la performances degli attori, sia i protagonisti che i non protagonisti. Montaggio. In questa sezione rientrano eventuali effetti speciali, luci, computer grafica ecc. Costumi. La domanda da porsi, in questo caso è: la scelta dei costumi è stata appropriata? In che misura? Colonna sonora. In alcuni casi la colonna sonora può decidere le sorti di un film, pertanto è un aspetto da

non tralasciare.

Come scrivere la recensione Iniziare con una frase che riassuma il film: la prima frase della recensione dovrebbe invogliare i lettori a

vedere (o non vedere) il film, in quanto ciò che essi vogliono è sapere se ne valga la pena oppure no. Proseguire citando il regista, il cast e il produttore, e valutando il loro contributo alla riuscita o meno del

film. Fornire un breve riassunto della trama, dando abbastanza informazioni al lettore per poter capire i

riferimenti che si faranno nel resto della recensione, ma senza svelarla completamente. Fornire la propria valutazione complessiva del film, che può essere un voto, un numero di stelline ecc.

La recensione trasmette un parere personale, per cui è fondamentale essere onesti circa gli aspetti positivi e negativi del film e basare la valutazione sulla efficacia complessiva.

Chiudere con una frase ad effetto, che sancisca definitivamente il proprio giudizio e il consiglio che ne scaturisce verso chi deve ancora vedere il film.

Rileggere la recensione Una volta terminata la recensione, occorre rileggerla più volte, assicurandosi che sia completa, comprensibile e interessante. Correggere eventuali errori grammaticali e controllare nuovamente l’accuratezza delle informazioni, un aspetto da non sottovalutare se non si vuole perdere credibilità.

Lo stile Utilizzare un linguaggio chiaro e di facile comprensione, evitando troppi tecnicismi. Contestualizzare sempre, dal momento che la persona che legge la recensione potrebbe non aver visto il

film. Se la recensione contiene delle parti in cui viene svelata la trama, occorre scrivere un avviso all’inizio, in

modo da non rovinare la sorpresa a coloro che non hanno ancora visto il film. Ogni valutazione su un certo aspetto dovrebbe essere sempre corredata dalla ragione per cui si è giunti a

tale conclusione, riportando degli esempi. Se non si ha gradito l’interpretazione di un certo attore, spiegare che cosa non è piaciuto: fornendo esempi pratici, si aiuterà il lettore a capire meglio il proprio punto di vista.

Suggerimenti e trucchi del mestiere

Prendere appunti durante la proiezione aiuta a non lasciarsi sfuggire dettagli e particolari che, durante la scrittura, potranno tornarvi utili per motivare una determinata osservazione critica. Fidatevi del vostro istinto e appuntate!

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Esporre la trama in maniera sintetica cercando di evidenziare subito gli elementi più importanti o singolari della storia, quelli che possono incuriosire maggiormente il lettore e spingerlo, non solo ad andare a vedere il film, ma anche a finire di leggere la vostra recensione!

Mai svelare il finale, consiglio che sembra ovvio ma non lo è! Può essere accennato solo se state recensendo un film di cui tutti conoscono il finale perché ha fatto la storia del cinema e, in questo caso, svelarlo può essere importante per sottolineare la grandezza del film

Non siate troppo teorici o generici, fate esempi pratici, all’occorrenza descrivete brevemente una scena particolarmente significativa o una battuta che sintetizza il senso del film: servirà al lettore per entrare nello spirito del film e a voi per supportare il ragionamento critico che state portando avanti

Non siate troppo tecnici e, in generale, scrivete solo cose pertinenti e utili per chi vi legge Siate liberi da condizionamenti, esprimete la vostra critica con coraggio e onestà intellettuale: solo in

questo modo il lettore si fiderà davvero di voi! Nel caso il film sia basato su un libro, una canzone o un album (cd), si consiglia di acquisire familiarità

anche con quello. Anche se non si è gradito un film, non significa che si tratti di un brutto film: questo è ciò che

contraddistingue un bravo critico, ossia la capacità di aiutare chi legge a capire se il film possa piacere o meno, indipendentemente dal proprio giudizio personale. In altre parole si tratta di dire alle persone se potrebbero trovare il film piacevole, anche se a noi non è piaciuto. Per arrivare a scrivere una recensione vincente occorre leggere il maggior numero di recensioni possibile, soffermandosi su quelle che si ritiene più utili e efficaci. Il valore di una recensione risiede soprattutto nella sua utilità. Leggi molte recensioni e pensa a quali trovi più utili. Il valore di una recensione si può trovare spesso nella sua utilità (cioè quanto lo scrittore sarà in grado di prevedere se il film piacerà al lettore), piuttosto che nella sua accuratezza (quanto il lettore si troverà d'accordo con lo scrittore).

Se non hai gradito il film, non esagerare con i commenti negativi. Evita di scrivere la recensione di film che sai che non ti piaceranno.

esempi di recensioni:

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Fortunata, che fortunata non è. O forse si.

Torpignattara, Roma. Estate, caldo torrido. L’estate che una bambina di 8 anni dovrebbe passare al mare, non nello

studio dello psicologo della Asl. Ma tant’è. Fortunata e sua figlia Barbara quella vita non se la sono scelta (“e chi lo dice

che una vita è meglio di un’altra?”), ma la vivono ogni giorno come meglio possono.

Sempre di fretta e, nonostante tutto, col sorriso di chi non vuole arrendersi.

Tra uno shatush e l’altro, Fortunata sogna di aprire un salone tutto suo, dove potrà fare la parrucchiera senza

attraversare in lungo e in largo il raccordo anulare trascinandosi dietro la valigia carica di speranze e ferri del

mestiere. Nel frattempo è alle prese con la separazione da un marito violento che – ad incarnazione del

perfetto stereotipo di marito violento – continua ad esercitarle un controllo ricattatorio che ha per oggetto

il suo bene più prezioso, la figlia.

Ma è proprio per il bene di Barbara che Fortunata accetta la decisione del giudice di portare la piccola a una

serie di incontri dal “dottore della asl”, quell’uomo apparentemente gentile che forse potrà aiutare entrambe

a stare meglio. Il problema di Barbara è la rabbia che la porta a sputare contro le ingiustizie, piccole o grandi,

che il suo cuore di bambina percepisce attorno a sé. Forse lei, più di qualunque adulto, sente il vuoto che la

circonda e cerca di compensarlo dormendo nel lettone con la mamma. Quella mamma sgangherata che fa

sempre casini ma che la riempie di baci e sente le stesse cose che sente lei.

Fortunata è una donna che ha deciso che non vuole più essere vittima, né delle violenze del marito, né dei

suoi personali demoni, né della borgata che la vorrebbe inghiottire. E prova a vivere, ci prova davvero. Per

farlo si appoggia a quelle poche certezze che ha, come per esempio il suo amico di sempre, quel fragile

ragazzo bipolare convinto che tutti in fondo siamo dei numeri ritardatari (“prima o poi usciamo”), o a un

nuovo amore che si affaccia all’orizzonte illudendola di meritarsi una vita diversa, o perlomeno una giocata

fortunata. Già..Fortunata, un nome che proprio non si addice a una come lei. Una che è troppo impegnata a

sopravvivere per concedersi il lusso anche solo di pensare che la vita possa essere sacra. “La vostra è sacra,

la nostra non se la incula nessuno!”

Quella di Fortunata, di Barbara, è infatti una vita che arranca e si trascina nel vuoto lasciato da uno Stato

assente che non difende né i loro diritti né i loro sogni. Emblema del degrado e dell’emarginazione è la Roma

di “I love Torpigna”. Una borgata un tempo vivida e popolare, oggi scempio di umanità mal integrate e mal

assortite, putrido contenitore di un disfacimento morale generalizzato in cui i cinesi scandiscono il ritmo

delle giornate con la loro danza ottusa e imperturbabile, mentre ti danno i soldi a strozzo e ti rubano il futuro

sotto il naso.

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Aldilà del film, da cui forse mi aspettavo un’emozione diversa, aldilà della scrittura della Mazzantini che

poteva scendere più in profondità. Aldilà di Accorsi che – mi spiace – ma qualunque cosa dica o faccia non è

credibile.

Aldilà di tutto, c’è Jasmine Trinca.

E non è un demerito se a tratti mi ricorda un’altra povera crista di Castellitto, la Penelope Cruz di Non ti

muovere, con lo stesso trucco pesante, la minigonna sbilenca e i capelli appiccicati dal sudore.

Lei, Jasmine Trinca, trasfigurata e bellissima nel suo modo di correre e inciampare.

Lei che “vuole fare l’imprenditrice” per rendersi indipendente e provare a essere felice, per emanciparsi e

fare quello che le dice il cuore, senza se e senza ma.

Le stesse cose che faticosamente tenta di insegnare alla figlia, nella disperazione di un distacco crudele e

dolce allo stesso tempo. Quando la vede allontanarsi non sapendo che presto tornerà. Perché hanno ancora

bisogno l’una dell’altra.

Perché poi alla fine ciò che conta è Vivere. E sorridere dei guai.

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CHOCOLAT di Lasse Hallström

Chocolat...un assaggio non basta!

Sono arrivate con il vento del nord. Un vento mescolato con gli odori di un paesino piccolo e calmo, dove

non c’è polizia perché non ci sono crimini, e dove si respira l’aria tiepida di una docile piattezza anche quando

è freddo e le folate di vento tagliano gli alberi e le strade deserte.

Mamma e figlia, incappucciate di rosso, si sono fermate qui, in questo piccolo paesino della Francia dove

non succede mai nulla, tutti si salutano educatamente e il sermone della domenica sopravvive da secoli

senza chiedersi il perchè.

Un posto che va bene come un altro, come uno dei tanti luoghi che hanno già visitato, per poi lasciarlo

inseguendo ancora il vento che cambia. Vianne Rocher (Juliette Binoche), bella, misteriosa ed originale, e la

sua vivace e sensibile figlioletta Anouk sono un elemento di forte disturbo per gli abitanti del villaggio di

Lansquenet, così pervase di “immoralità” come sono, e coraggiose nell’affrontare tutti con un caloroso

sorriso ed un cioccolatino pronto per i diversi bisogni di ognuno.

Ma una donna così è dura da accettare, soprattutto per il giovane curato del paese, Francys Reynaud,

abituato per contratto a salvaguardare l’ordine e le coscienze delle anime pure dalle potenze del male.

Potenze che vengono incarnate alla perfezione (e con divertito piacere) da Vianne e dalla sua posizione

socialmente scorretta di ragazza-madre e proprietaria di una cioccolateria dove ogni giorno regala scandalo,

tentazioni e irresistibili ricette per il palato e per i tanti piccoli problemi della vita quotidiana.

Ai timidi e cauti personaggi che di volta in volta si avvicinano incuriositi alle vetrine allegre e colorate di

Vianne, la donna sa donare un pizzico della sua stregoneria buona, della sua intuizione tutta femminile e di

quel sapor afrodisiaco di caramello, zenzero e vaniglia che si era perduto chissà dove.

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C’è la burbera e solitaria Armande che trova in Vianne un’amica che non la guarda solo come una vecchia

malata di diabete, ma che la trascina via dall’isolamento in cui si è chiusa pur di non condividere l’ipocrisia

della gente.

C’è la figlia di quest’ultima, Caroline, imprigionata nella sudditanza psicologica nei confronti di Reynaud e

frustrata dalla sua impellente necessità di regole e castrazioni.

C’è la dolce Josephine, dallo sguardo perso dietro alle violenze di suo marito, che ritroverà la stima di se

stessa e la normalità dei piaceri della vita. Tra cucina, dolci magistrali e raffinate decorazioni. Tra paradisiaci

cioccolatini e voluttuosi assaggi di una libertà recuperata.

E poi c’è lui, il musicista arrivato con la nave dei pirati, l’artigiano dai contorni ribelli e meticci, dai capelli

lunghi e leggeri, pronto a stabilirsi sulle rive del fiume di una terra senza radici e di un animo che viaggia con

le stagioni delle maree. L’incontro con Vianne avrà il tono di un sapore difficile da decifrare, proprio perchè

il selvaggio Roux (un Johnny Depp a dir poco perfetto per questo ruolo) ha l’aria di chi non vuole farsi

prendere e di chi non ama svelare il suo gusto preferito.

A dispetto di ciò, essi sono fatti l’uno per l’altra, come due ingredienti ad amalgamazione lenta si dividono

le emozioni e i dolori di essere considerati dei diversi, degli emarginati, delle minacce per la serenità e la

stabilità di una cittadina sorretta dal circolo vizioso valori cristiani-moralità-sopportazione.

I valori della famiglia, per cui la moglie non può abbandonare il marito nemmeno se viene picchiata ed

umiliata quotidianamente. I valori della solidarietà, per cui i diversi vanno allontanati dalla comunità per

mano dell’uomo (ma in nome di Dio, ci mancherebbe..). I valori del sacrificio, per cui bisogna rinunciare ai

piaceri ed immergersi in un digiuno asettico.

E Vianne è lì, nella sua pasticceria, che soffre le invidie, i ripensamenti, le debolezze di chi non riesce a

liberarsi della predica domenicale, gli attacchi diretti (più onesti) e quelli indiretti giocati sul filo delle

sensazioni, delle esclusioni di cui diviene vittima (più vigliacchi, perchè non le consentono di controbattere).

Ma il vento non è ancora cambiato, l’oracolo non ha ancora dischiuso il suo presagio, e il paese di Lansquenet

ha ancora bisogno di loro. Per diventare più felice, per scoprire il disordine. Sperando che questa volta il

vento non senta. Che questa volta....per piacere, solo questa....se ne vada senza di loro.

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Una favola farcita al gusto di peperoncino, cioccolato e zucchero a velo. Un film girato in punta di piedi con

la maestria di combinare gli ingredienti necessari a giocare, commuovere e divertire con velata ironia sulle

debolezze umane, sull’incomunicabilità, sulle barriere culturali e mentali di una comunità chiusa nel suo

entroterra fortemente religioso e intollerante verso le diversità. Tanti splendidi personaggi dipinti con un

voluto estremismo del bene e del male, vissuti come forze contrapposte di un unico bisogno, comune a tutti

e lo stesso sfuggevole ad ogni punto di vista, nel film come nella vita.

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LA STANZA DEL FIGLIO di Nanni Moretti

Vincitore nel 2001 della Palma d'oro al Festival di Cannes, La stanza del figlioaffronta il tema della perdita e

della morte senza eccessi di tragicità, ma affidando alle immagini e all’impronta autoriale del regista una

potenza emotiva difficile da dimenticare

Ascoltare il dolore degli altri è il suo lavoro, ma non sempre le risposte sono terapeutiche, per i suoi pazienti

come per se stesso. E quando il dolore poi decide di cambiare strada, colpendolo come un treno in corsa, il

destino è un colpo secco al cuore camuffato nella violenza devastante per la perdita di un figlio adolescente.

Giovanni/Nanni smarrisce anche le briciole della sua debole identità di psicoanalista e incolla i pezzi restanti

di un inutile dolore, il più grande di tutti, il più inimmaginabile.

Orfano di figlio, si aggira per i labirinti tortuosi della sua coscienza carico del fardello dell’impotenza, della

memoria di una felpa rossa di tante mattine a correre sul lungomare di Ancona, di una domenica insieme

che non ci sarà mai più, di quella canzone in macchina che faceva sorridere e stonare, di un cd in inglese che

non serve tradurre, tanto i brividi sono gli stessi lungo il corpo rigido e fermo di un rimorso che non accenna

a scemare.

Come un disco incantato, Giovanni rivive di continuo il corso di un destino beffardo, i tanti “se” che non

cambiano il presente. Quelle due o tre domande che di continuo risuonano nel silenzio tormentato della sua

famiglia mutilata e sfigurata da troppo dolore, e da risposte rimaste desolatamente incompiute. Ma tra il

dovere di correre da un paziente in crisi e la semplicità di essere un padre innamorato dei silenzi del proprio

figlio, di quella sua acerba incapacità di lottare che avrebbe superato diventando grande, c’è l’accanimento

della sfortuna, c’è l’incidente in mare, la morte con la sua quiete inaccettabile, c’è il rumore delle viti che

entrano nel legno della cassa e il saldatore che mette fine alla corporeità della persona più amata.

E per chi resta c’è la sopravvivenza, la ricerca vana di una ribellione all’ineluttabilità religiosa della storia, del

destino, del corso eterno ed infinito delle cose, così come della morte, della fine di un respiro attorno al quale

provare a non sommergere del tutto. Paradossale constatare quanto anche le questioni burocratiche, la

scelta della cassa, le risposte ai telegrammi di condoglianze, i sorrisi dovuti, le gentilezze di circostanza

possano aiutare a soffocare la presa di coscienza della perdita, a non sentire il vuoto opprimente di un tutto

che diventa niente. E poi c’è il tentativo di reagire al dolore ognuno a suo modo, con la rabbia o con la ricerca

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di un segnale che quel giovane figlio possa tornare a ridere, ad avere la fidanzatina, a mettere in disordine la

sua stanza, a sbagliare per poi rimediare.

Ma nulla più del dolore, quando giunge così improvviso e inaspettato, può rendere più chiara la precarietà

della felicità, l’apparente perfezione di una tazzina sbeccata, di un vaso scheggiato, di una teiera rincollata,

di tante inutili sedute trascinate con inerzia. Niente può tornare come prima, una volta spezzato. Persino i

tanti anni passati a trattare gli esseri umani con distacco professionale trovano finalmente la spaccatura che

ne fa comprendere l’inutilità, di fronte alla consapevolezza del fallimento, di fronte ad una vita che porta via

un figlio in una domenica qualunque.

Una fine ed un nuovo principio, racchiusi in un insolito viaggio nella notte, oltre il buio del tunnel, al di là del

valico da cui si apre un’alba straniera dove forse è più facile liberare un sorriso e ripartire da capo.

Di fronte ad un mare calmo e invernale.

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"Una notte al museo" di Shawn Levy

Le cavernose sale del Museo di Storia Naturale sono popolate dalle cose più strane: creature preistoriche

dagli occhi sbarrati, fieri ed antichi guerrieri, tribù ormai estinte, animali africani e leggendari eroi della

Storia. Tutti fermati nel tempo per l’eternità. O almeno, così sembra…

Larry Daley (Ben Stiller) ha sempre pensato in cuor suo di essere una persona speciale, una di quelle cui la

vita prima o poi concederà, in luogo del classico “posto fisso”, qualcosa di molto più grandioso, come ad

esempio la realizzazione dei suoi sogni, il meritato riconoscimento per una trovata geniale o per una

creatività sopra la media. Nonostante la tenacità nell’inseguire i bizzarri e ambiziosi sogni di gloria, la

realtà per Larry ha ben altri contorni: la sua ex moglie gli ha fatto intendere che, disoccupato e

sostanzialmente inaffidabile, non può degnamente occuparsi del loro figlio di 10 anni. Preso alle strette e

sconvolto soprattutto dalla possibilità di perdere l’adorazione di suo figlio, Larry accetta malvolentieri

l’ultima spiaggia per non essere sopraffatto dai sensi di colpa: il famigerato posto fisso.

Dopo La Pantera Rosa targata Steve Martin, Shawn Levy torna alla regia con una pellicola il cui intento

principale è quello di orchestrare una storia buona per tutti, grandi e piccini, purché sognatori incalliti,

disposti a spassoso divertimento e delicata riflessione, purché preparati a sgranare gli occhi e a correre a

perdifiato nei misteriosi labirinti della fantasia e della meraviglia.

Dopo l’iniziale cornice psicologico-sentimentale,

che peraltro si limita al suo compitino senza spingersi particolarmente a fondo, Una notte al museo entra

infatti nel vivo della sua essenza, scomodando la fantasia e trascinandola di peso in uno dei luoghi da sempre

più idonei a stuzzicare la curiosità dell’uomo. Tra statue di cera che mettono in scena personaggi storici e

primitivi antenati dell’uomo, eroi della letteratura e del mito, rari esemplari di animali preistorici e rigogliosa

fauna della foresta africana, il mitico “Museo di Storia Naturale” di New York diventa il teatro del noioso

lavoro di guardiano notturno appena conquistato da un disperato Larry a caccia di stabilità. Ma di notte,

quando tutti sono andati via, una misteriosa tavola egizia riporta magicamente in vita tutte le creature che

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popolano il museo, lasciando ad un incredulo Larry ben poco tempo per capire cosa succede e allo spettatore

altrettanto breve spazio per pensare alla noia.

Lanciare l’osso al dinosauro giocherellone, fuggire

dalla tirannia di Attila (oppure tentare di psicanalizzarlo), pararsi dai colpi insidiosi delle frecce dei pellerossa

miniaturizzati o tenere a bada i dispetti della scimmia cappuccina, saranno solo alcuni dei compiti cui dovrà

far fronte il nostro eroe per non rimetterci la pelle. Ciò che stimola lo spasso e la fantasia non è solo la visione

di così tante icone dell’immaginario, tutte insieme e mescolate tra loro dall’unico grande Tempo

dell’umanità, ma è anche vedere la strana dialettica che intercorre tra il Tempo e la Storia, la conoscenza e

la crescita. Non è un caso che nel rapporto tra un uomo di oggi, rappresentato dalle fattezze del solito

maldestro (e adorabile) Ben Stiller, e un grande uomo del passato, il XXVI Presidente degli Stati Uniti Teddy

Roosevelt (Robin Williams), passi il vero senso del film, quella ritrovata fiducia in se stesso che Larry riscopre

nella sua sensibilità di padre e uomo (non consisterà in questo il suo essere una “persona speciale”?), e

Roosevelt nel coraggio delle azioni apparentemente più semplici (come ad esempio dichiarare il proprio

amore alla leggendaria Sacajewa, altra statua vivente del museo), non certo paragonabili alla costruzione

del Canale di Panama, eppure incredibilmente più ostiche da realizzare.

Pur trattandosi di una commedia fresca e senza

particolari pretese, Una notte al museo coglie gli aspetti più sani della fantasia e li mescola ad una girandola

di sentimenti mai marcati in maniera inopportuna, ma piuttosto iscrivibili alla grande parabola del racconto

di iniziazione. Ognuno dei personaggi di questa avventura, reale o immaginario, di cera o in carne e ossa,

avrà guadagnato alla fine del film un valore mancante. Larry riconquista suo figlio, quest’ultimo a sua volta

ritrova l’amore per il suo papà/eroe, il pioniere della grande ferrovia e l’imperatore romano imparano a

mettere da parte le armi e ad aiutarsi a vicenda, e così via.

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Hot fuzz!

Dagli autori della demenziale dark comedy, diventato uno dei cult degli ultimi anni, L'alba dei morti dementi, ecco giungere una nuova, straripante commedia parodistica. Questa volta il genere trattato è il poliziesco d'azione, con diverse intermissioni anche nei campi del thriller psicologico e dei teen horror, affidando le redini a un cast bravo ed eterogeneo, per lo più sconosciuto dal grande pubblico, ma non disdegnando camei quasi invisibili (Cate Blanchett e Peter Jackson in vesti più che irriconoscibili) e un cattivo d'eccezione quale Timothy Dalton, già ex 007. Il tutto per una storia volutamente al limite del paradossale, in grado di contenere più citazioni possibili.

"Per il bene di tutti"

Nicholas Angel (Simon Pegg) è il poliziotto più efficiente di Londra. Tutta questa sua dedizione però mette in ombra il resto del suo reparto. Viene così promosso sergente e mandato, contro la sua volontà, a compiere il suo lavoro a Stanford, il paese più tranquillo della nazione, ogni anno vincitore del premio come luogo perfetto. Da anni non avvengono crimini, e i colleghi di lavoro di Nicholas si riveleranno degli sbandati un pò idioti, e si coalizzeranno contro di lui. Ma il nostro eroe non si darà per vinto, e quando strani omicidi cominciano ad avvenire dopo il suo arrivo, sarà l'unico in grado di cercare la verità, scoprendo segreti scomodi che lo metteranno faccia a faccia con la morte in più di un'occasione. Ma grazie all'aiuto del suo partner, un simpatico ciccione un pò scemo, troverà il modo di sistemare le cose. Non senza conseguenze estreme...

Vivi sparando, muori ridendo

Era da anni che non si vedeva una commedia così esaltante, forse perchè in grado di ibridare diversi generi, dall'action più puro al delirio ironico, senza mai cadere di tono. Il bravo Simon Pegg è perfetto nei panni del

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poliziotto integerrimo che, a contatto con un mondo del tutto estraneo al suo, adotta cambiamenti drastici, come quando nei primi minuti del film trova dei ragazzini a ubriacarsi in un bar, e li porta di forza dietro le sbarre. "Non sono mai capace di spegnere il melone", confida al suo collega, ma restando a Stanford diventerà anche più umano. E si appassionerà anche a certi "classici" d'azione degli ultimi anni...primo fra tutti Bad Boys II, il quale viene citato più e più volte. Negli scontri a fuoco verso la fine del film, vengono anche, volutamente, "plagiate" alcune scene del film di Michael Bay, senza invidiarne nulla, ma anzi con un senso dello spettacolo insolito per un film del genere. Addirittura esaltanti certe sparatorie, degne dei migliori esponenti action. Sempre il tutto in fase farsesca ovviamente, ma raramente capita di vedere una regia così abile, capace di giostrare nel migliore dei modi tra humour e sparatorie. Ma non è finita, perchè anche l'introspezione psicologica ha un suo perchè, e vedere l'agente Angel ricostruire nei minimi dettagli la sequela di omicidi per arrivare al colpevole è stupefacente, un perfetto puzzle che si ricompone nel migliore dei modi, merito del regista e dello stesso Simon Pegg, autori a quattro mani della sceneggiatura. Per un cinefilo di vecchia scuola non è difficile notare più di una citazione, qui però non abusata come in certe pellicole di Mel Brooks o in alcune poco pretenziose commedie recenti, ma ibridata con quell'humour tipicamente inglese capace di donare un sapore del tutto nuovo. Si, perchè da questo tipo di pellicole ci si aspetta di solito una banalità di fondo, invece qui le gag risultano sempre fresche e originali. Inoltre vi è una totale assenza di volgarità, e quest'impresa è riuscita senza scadere in facili buonismi. Personaggi fortemente caratterizzati, anche all'eccesso, vanno a creare delle macchiette irresistibili che pescano a piene mani dal cinema degli ultimi vent'anni. Hot fuzz si erge come nuovo caposaldo del genere, e si conferma senza ombra di dubbio come la miglior commedia dell'anno. Da vedere e rivedere, per cogliere al meglio ogni più piccolo omaggio alla Settima Arte contenuto in esso.

Una commedia esaltante, carica di azione e strapiena di citazioni. Ibrida al meglio il tipico humour inglese con una comicità fresca e moderna, senza mai essere volgare. Inoltre ha delle scene spettacolari che non hanno niente da invidiare ai migliori action movie. Regia e sceneggiatura da Oscar. Da non perdere.

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Recesione di Lazzaro felice – fonte: rolling stone

Lazzaro, il Lazzaro dei Vangeli, non è solo colui che risorge, ma è colui che Dio piange morto e per questo

risorge. È il pianto di Dio a renderlo santo. Ma nella vulgata comune, almeno in quella del ’900, Lazzaro è

anche il povero in terra. Se uniamo le due definizioni abbiamo sia il Lazzaro prova della compassione di Dio

sia il povero che appartiene alla terra e quindi risorto.

Difficile non pensare, di fronte a Lazzaro felice, il film di Alice Rohrwacher (migliore sceneggiatura a

Cannes), al Lazzaro della tradizione cattolica, ma anche ai tanti lazzari che hanno percorso il cinema

italiano. Quelli di Olmi o dei Taviani, per esempio, per non tornare a Rossellini. Quando si parla di

“rinnovamento italiano” si ricorre sempre a Rossellini e al Neorealismo, come ha fatto Libèration, che ha

lanciato forse troppo avanti il film della Rohrwacher.

Ma è indubbio che tra il canaro buono di Dogman e il Lazzaro di Lazzaro felice non si può non notare

questo realismo magico che periodicamente il cinema italiano ripropone per “risorgere”. L’idea vincente

del film, e quella più originale, è proprio nella costruzione di questo personaggio così buono da apparire

santo: Lazzaro di nome e felice perché riesce a essere felice malgrado tutto (l’inedito Adriano Tardiolo,

perfetto), che attraversa ogni vessazione sociale con lo stesso spirito candido.

Sfruttato in un passato indefinito dai padroni e dai contadini, la classe alla quale dovrebbe appartenere. Se

nella prima parte assistiamo alla sua vita miseranda e alla sua morte in un dirupo mentre cercava di

rispettare i valori dell’amicizia e della parola data, nella seconda lo troviamo risorto, identico al se stesso di

prima, alla ricerca di chi lo aveva massacrato.

Ritrova quindi i contadini, diventati piccoli ladri, come Sergi Lopez e Alba Rohrwacher, che vivono ai

margini della città, e trova i nobili, come il marchesino suo amico diventato uno squattrinato. Il candore di

Lazzaro non è cambiato, e non è cambiata la crudeltà del mondo nei suoi confronti, e di quanti non

riescono a vedere la sua santità. Rohrwacher dirige i suoi attori, professionisti e non, con attenzione e

amore, ottenendo grandi risultati e ha dalla sua la fotografia di Hélène Louvart, un po’ scura, un po’ sporca,

perfetta per il suo racconto. Qualcuno contesta l’uso del drone, poco rosselliniano in un film così rigido.

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Recensione di Lazzaro felice – fonte: il cinematografo

Lazzaro felice Il cinema fanciullo e libero di Alice Rohrwacher per ritrovare lo sguardo sugli ultimi,

come non accadeva da tempo. Un’epifania, premiato a Cannes.

L’Italia ha ritrovato il suo cinema fondativo. Quello dalla parte degli ultimi, quello fiabesco e popolare di

Citti e di Pasolini, di Scola e di Comencini. Quello della terra e della natura, arcaico e sospeso, che tanto era

caro al compianto maestro Ermanno Olmi.

È il cinema fanciullo, libero e “bislacco” per dirla con le sue stesse parole, di Alice Rohrwacher. Che alla sua

terza prova da regista riesce ad andare al di là dei già meritori Corpo celeste e Le meraviglie, compiendo un

balzo in avanti che assume le sembianze del volo.

È Lazzaro felice, un film capace di riportare lo sguardo lì dove la ragione, troppo spesso, ti impedisce di

arrivare. Di entrare in una chiesa perché richiamato dal suono di un organo con Bach in lontananza, per

accorgerti, una volta fuori, che quella musica ha iniziato a seguire te.

Non è facile, lo ammettiamo, di fronte ad opere di questo tipo, affrontare un’analisi che provi a tenere

separati l’oggetto filmico dalla sua dimensione più incorporea, spirituale. Ma allo stesso tempo è semplice

lasciarsi accogliere in questo racconto dove il realismo magico, il disincanto, riescono a tracciare percorsi di

senso altrimenti impossibili da cogliere.

Alice Rohrwacher ci riporta in un universo neanche troppo lontano, ma che può sembrare lontanissimo. Ci

presenta una numerosissima famiglia di contadini (tutti, o quasi, attori non professionisti), ancora sotto

padrone, alle prese con la fatica quotidiana. La fatica ripagata con nulla, eppure la gioia di vivere non

manca. Tra di loro c’è Lazzaro (Adriano Tardiolo), ragazzino nemmeno ventenne, il classico ultimo della

fila, mai una parola fuori posto, sempre disponibile a qualsiasi cosa.

Mezzadri quando la mezzadria era stata già bandita per legge, servi della marchesa Alfonsina De Luna

(Nicoletta Braschi), madre di Tancredi (Luca Chikovani), coetaneo annoiato e viziato di Lazzaro, che

sfrutterà l’ingenua bontà di quest’ultimo per fingere di essere stato rapito. Ma per Lazzaro, quella è

un’amicizia che nasce vera. E attraverserà intatta il tempo che passa e le conseguenze dirompenti della

fine di quel “Grande Inganno”, portando Lazzaro nella città, enorme e grigia, alla ricerca di Tancredi.

È qui che il salto nel vuoto della Rohrwacher (premiata a Cannes per la sceneggiatura in ex-aequo con

Three Faces di Panahi), rischioso e incantato, si compie pienamente: un balzo in cui il tempo segnerà il

passaggio che lei stessa – parafrasando Elsa Morante – definisce quello tra il primo e il secondo medioevo,

tra un medioevo storico e un medioevo umano. Quello in cui la democrazia trae in salvo gli schiavi per

gettarli poi, soli, in un sistema comunque chiuso, e classista.

Lo scenario cambia, il “caldo” della natura ha lasciato il posto al freddo incolore della metropoli: due

poveracci (uno è Sergi Lopez) fungono da traghettatori inconsapevoli dell’unica cosa, entità, a non essere

mutata.Lazzaro, che metaforicamente risorto, si ritrova immutabile come solo il Bene può esserlo, sul

cammino di quei contadini non più tali. E cambiati, cresciuti, invecchiati. Antonia (da giovane era Agnese

Graziani, ora è Alba Rohrwacher), che da ragazzina era stata l’unica a preoccuparsi della sua scomparsa,

ora è l’unica a riconoscerlo senza esitazioni. Ad accoglierlo.

Perché Lazzaro – al quale l’esordiente Tardiolo dona un’adesione talmente irreale da apparire meravigliosa

– è portatore di quella assurda “santità dello stare al mondo e di non pensare male di nessuno, ma

semplicemente credere negli altri esseri umani”.

Ed è ancora l’unico, pur in una storia dove il bene e il male sono così facilmente individuabili, a non

esprimere mai un giudizio.

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Scoprendo però, ad un tratto, di non essere più felice come un tempo, pur ritrovando lontano dalla

campagna un’altra luna da fissare. Scoprendo di saper soffrire, e sempre in nome di una bontà “folle”,

capace di compiere scelte sbagliate, ma comunque incapace di far soffrire gli altri. E questa, “povero

scemo”, sarà la sua colpa definitiva.

Un cinema che è epifania, un cinema di corpi celesti e meraviglie. E di Lazzaro. Un cinema felice.

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“Interstellar” di Christopher Nolan

Non andartene docile in quella buonanotte, I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del

giorno; Infuria, infuria, contro il morire della luce.

Con questi versi del poeta gallese Dylan Thomas seguiamo la partenza dell’astronave Endurance, e

cogliamo il manifesto programmatico di Interstellar: film sull’anelito alla vita dell’uomo, che pur all’apice

della tecnologia, si trova costretto a riconoscere i propri errori e limiti e a fare affidamento su quanto di più

naturale sia in lui; l’istinto di sopravvivenza. In un futuro prossimo, l’Apocalisse è alle porte nelle

sembianze di improvvisi cambiamenti climatici che hanno preso il controllo del pianeta terra,

rendendolo invivibile. Il cibo scarseggia e la popolazione eccede. Ed è rimasto solo il mais da coltivare: la

fine è davvero prossima. Con la sua immancabile birra e i retaggi texani, Matthew McConaughey è qui

Cooper, ex ingegnere e pilota della NASA, che per rispondere alle necessità della lotta alla sopravvivenza,

si è rinventato agricoltore e vive con il suocero e i due figli, Murph e Tom. Uno strano caso, fatto di

messaggi criptati nella camera di Murph, conduce nuovamente Cooper e l’adorata figlia, dalla NASA

stessa, rendendolo l’ultimo membro di una spedizione in partenza per salvare gli abitanti della Terra. Dopo

un disperato saluto tra Cooper e Murph, la squadra parte alla volta dell’universo sfruttando

un wormhole, che li condurrà in un’altra galassia in cerca di una nuova casa su cui far proliferare la razza

umana (o forse solo degli embrioni congelati).E fino alla galassia più remota e silenziosa, l’uomo porta il

suo caos per ritrovare il cosmos perduto.Sul film di Christopher Nolan si sono già scritti chili di

letteratura cinematografica e anche la Scimmia ha sentito allora l’urgenza di esprimere la propria opinione:

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perché Interstellar non è un film che possa lasciarti attonito o indifferente. Nel bene o nel male, bisogna

parlarne.Dopo film conturbanti e dagli incastri perfetti come Memento, Inception e i due episodi de Il

Cavaliere Oscuro, Christopher Nolan è riuscito infatti a consegnarci il film del secolo.

No, non il film più bello e riuscito mai prodotto, bensì quello che è ideologicamente il manifesto della

nostra epoca: la Natura è in rivolta, ma non è mai veramente crudele, a differenza della Natura

umana, scissa nell’eterno conflitto tra bene e male, che pure è sempre al centro. E sebbene questi temi

possano non sembrare nuovi agli spettatori di film osannati, come Avatar,Interstellar riesce nell’impresa di

conciliare qualcosa che sembrava impossibile congiungere: scienza e umanità. La perfezione

del calcolabile e l’infinita inesattezza dei sentimenti. Nolan è quel genere di regista che riesce a mettere

in bocca ai suoi personaggi una frase come “l’amore è l’unica cosa che trascende il tempo e lo spazio ” e a

non farti venire il diabete. Perché una frase in sé trita e ritrita si rivela qui la chiave di volta dell’intera

vicenda e per la prima volta questo sentimento viene presentato come qualcosa di fisico,

quantitativamente misurabile. Una forza reale, che si svincola dall’indefinibilità della sfera emotiva, per

manifestarsi come una energia perfetta, davvero in grado di superare ogni barriera. È l’uomo che rende

scienza l’uomo. In questo impensabile connubio tra la scienza più evoluta e l’impulso primordiale, tra

ragione e sentimento in definitiva, sta la grande impresa del regista, la sua attualità: la suprema perfezione

della scienza deve porre rimedio alla catastrofe, ma l’amore, l’umanità dimenticata, si rivela la vecchia ma

rinnovata soluzione.

Ma di quale amore ci parla Nolan? È quello certo, indissolubile, forse l’unico vero, tra genitori e figli: anche

se ci sono in secondo piano il professor Brand e sua figlia, è il binomio Cooper- Murph, ad

essere l’emblema dell’amore sacro e potente.

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E Nolan, in un film di fantascienza colossale, riesce pure a farci appassionare ad un dramma intimo e

comune, inducendoci a riflettere sulla relazione tra padri e figli: Una volta che si diventa genitori, non si è

altro che il fantasma del futuro dei propri figli

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Ancora una volta, il regista, con un dettaglio, ci rivela molto e anche l’ultimo abbraccio tra un padre

risoluto e una figlia disperata, sancito da una promessa trattenuta in un orologio, diviene di fondamentale

importanza per tutti. Per non parlare del dèjà vu della scena di Contact (Zemeckis, 1997), in cui Jodie

Foster, prima di partire per lo spazio, riceve una bussola dallo stesso McConaughey. Matthew e i suoi doni

essenziali. Un tempo per la meraviglia alzavamo al cielo lo sguardo sentendoci parte del firmamento, ora,

invece, lo abbassiamo preoccupati di far parte del mare di fango. Nel futuro immaginato da Nolan, troppo

vicino per non essere familiare, troppo lontano per essere preoccupante, l’era della tecnica si è chiusa in se

stessa in un probabile circolo di avidità e bramosia. Gli uomini sono stati degli insaziabili Gargantua,

come il buco nero affrontato dai protagonisti, e ora temono di perdere quanto hanno accumulato e si sono

resi guardiani che soffocano la loro indole di esploratori. E se anche è vero che “… troveremo una soluzione

… l’abbiamo sempre fatto” per quello che l’uomo è diventato e per la situazione disperata in cui si è venuto

a trovare, nulla è certo. Interstellar è il film ideale della nostra epoca perché antropocentrico: è l’indole

umana ad essere analizzata in ogni sua sfaccettaura, ad essere vivisezionata e fatta rivivere nei vari

personaggi, positivi e negativi: Cooper, Murphy, Amalia, il professor Brand, il dr. Mann, Tom, tutti sono un

dettaglio fondamentale del quadro. Questo catalogo umano è il protagonista delle vicende anche nell’altra

galassia: è l’uomo a ravvivare il silenzio dell’universo e a renderlo per certi aspetti un posto migliore,

ma è ancora l’uomo che reca con sé il male, che non è altrimenti nascosto in alcun angolo del cosmo.

Non sorprende dunque che i presunti burattinai del cosmo, “loro”, si risolvano inesorabilmente in un

“noi”: sembra che Dio sia morto anche per Nolan oltre che per Nietzsche. Il regista inglese delinea

quindi la piena centralità dell’uomo, ma anche l’eccentricità del marcio insito in lui, un male che se da un

lato è cresciuto con il progredire della tecnica, dall’altro gli è proprio, come l’istinto di sopravvivenza e

l’egoismo. L’elemento più apprezzabile e interessante di Interstellar è quello di essere, al contempo,

un insieme ponderato di blockbuster e istanze autoriali, di attenzione al guadagno ma anche ai

sentimenti più profondi, di bene e male insomma, proprio come l’uomo. È un film, dunque, ambizioso, che

sembra vincere i suoi difetti scientifici, che certamente ci sono.

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I riferimenti ai capolavori del genere non mancano, da Alien di Ridley Scott a Uomini Veri di Philip

Kaufman, ma come potrete immaginare, è soprattutto al kubrickiano 2001 Odissea nello Spazio che Nolan

deve scene clou come la caduta nel buco nero. Interstellar però attinge da un vasto arsenale di capolavori

spaziali mantenendo una sua dignità e originalità di intenti, dettati soprattutto dal desiderio di conciliare la

perfezione dell’universo con l’imperfezione dell’uomo. In tre scorrevoli ore di film (sì, scorrevoli)

assistiamo a scenografie colossali e immagini davvero spettacolari, grazie al nuovo direttore della

fotografia Hoyte Van Hoytema, ed essendo il film girato in pellicola a 35 mm e IMAX 70 mm, merita la

visione su gli schermi enormi del multisala. A rendere ancora più intensi gli scenari mozzafiato concorrono

le musiche apocalittiche di Hans Zimmer (La sottile linea rossa, Il Gladiatore) che, da sempre collaboratore

di Nolan per le colonne sonore, concede con la potenza dell’organo, un passo ancora più vicino nella

nuova, inesplorata galassia. A quanti ancora additano il film come impreciso e non del tutto spiegabile

logicamente, ricorderei che è un prodotto di Hollywood, non l’ultima scoperta di Stephen Hawking.

Soprattutto, le perfette spiegazioni inaridiscono un orizzonte di sentimenti che sarebbe qui stato negato

se nella sceneggiatura i fratelli Nolan avessero prestato troppa attenzione alle teorie del fisico Kip Thorne,

sulle quali si basano diverse spiegazioni scientifiche proposte.

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Le interpretazioni del cast reggono benissimo l’apparato scenico, a partire dalla giovanissima Mackenzie

Foy fino all’intenso cameo di Matt Damon, che ci saluta con un sussulto sulla poltrona.

Dalle paludi della Louisiana in True Detective, fino alla più remota galassia, Matthew McConaughey è

ancora una volta eccellente, e sembra quasi un inutile esercizio di piaggeria osannarlo: Cooper,

questo salvifico Prometeo dell’universo, non avrebbe potuto avere un volto più rassicurante.

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fac simile recensione (non scrivere parole in rosso):

“Non si vive due volte” di Arnold Mezini (2013) 121’’

titolo autore anno durata

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Mario Rossi – 15 Ottobre 2018 Nome cognome del recensore e Data di pubblicazione