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DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006 D omenica La di Repubblica WASHINGTON C’ è un’immagine nel film di Oliver Stone sull’11 settembre, World Trade Center, che racconta senza sangue, senza grida, senza fiamme, che cosa sia divenuto quel giorno, cinque anni più tardi. È l’ombra del jumbo jet che per un fo- togramma scivola silenziosa, come la sagoma di uno squalo in un mare trasparente, sulla facciata di un palazzo di Manhattan prima di rimaterializzarsi e divorare le sue vitti- me. Tutto quello che ci resta dell’11 settembre 2001 è questo. L’ombra di qualcosa che non c’è più ma che si allunga e si di- lata su un mondo che essa ha inghiottito nella propria fame insaziabile di morte. Molte metafore e similitudini sono state evocate per dare il senso di quella mattina cominciata alle ore 8 e 45 dell’Est ame- ricano, le 14 e 45 italiane, dagli scrittori e dai giornalisti, come le “grandi firme” insignite dall’Oscar del giornalismo, il Pulit- zer, che in questo nostro speciale riprendiamo. (segue nelle pagine successive) Con testi dei Premi Pulitzer CLARE ANSBERRY, CHRISTINA BINKLEY, AMY GOLDSTEIN, JUNE KRONHOLZ, BOB WOODWARD e lo STAFF DEL WALL STREET JOURNAL D a una recente inchiesta svolta tra le truppe america- ne in Iraq risulta che per l’85% dei soldati, lo «scopo principale della loro missione» consisterebbe in una «rappresaglia per il ruolo di Saddam» negli attentati del settembre 2001. È vero che due terzi dei civili americani sono vittime dello stesso abbaglio, ma c’è da rimanere sorpresi davanti alla scarsa curiosità di tanti soldati sul- le ragioni per cui vengono mandati a rischiare la vita al fronte. Quel- l’idea pressoché consensuale non può essere solo frutto di igno- ranza, ma nasce piuttosto dalla tendenza a credere a ciò che fa più comodo; la stessa per cui una maggioranza di musulmani pensa che dietro l’11 settembre ci sia la mano del Mossad. Negli Stati Uniti sono in pochi a condividere questi sospetti ver- so gli israeliani; ma in compenso quasi metà dei cittadini Usa (il 42%) pensano che i responsabili siano gli stessi americani. Quindi l’americano medio diffida di Washington più della media dei paki- stani (in Pakistan solo il 41% non crede che gli attacchi fossero ope- ra di terroristi arabi, contro il 59% dei turchi e degli egiziani e il 65% degli indonesiani). Negli Usa gli scettici pensano che il crollo delle torri gemelle sia stato provocato ad arte da esperti in demolizioni, e che a colpire il Pentagono sia stato non lo schianto di un 767, ma un missile Cruise. In altri termini, credono in un’azione autolesionista da parte di Washington. (segue nelle pagine successive) Sono passati cinque anni da quell’11 settembre Lo ricordiamo con le parole dei Premi Pulitzer e le matite di un gruppo di artisti Ma è anche tempo di bilanci cultura La grande mappa delle fortezze di Dio STEFANO MALATESTA spettacoli Il Superman di Bollywood vince la sfida IRENE BIGNARDI e CONCITA DE GREGORIO il racconto Savorgnan di Brazzà, esploratore scalzo PAOLO RUMIZ il fatto Vita da arbitro, Collina racconta EMANUELA AUDISIO e EMILIO MARRESE l’incontro Matt Dillon: così cammino sul fuoco ANTONIO MONDA la lettura Peter Pan e il primo giorno di scuola JAMES MATTHEW BARRIE e AMBRA SOMASCHINI VITTORIO ZUCCONI MARTIN AMIS L’ombra delle Torri © 2006 ALET EDIZIONI Repubblica Nazionale 29 10/09/2006

la Repubblica - News in tempo reale - Le notizie e i video di politica ... - D Laomenicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/10092006.pdf · 2006. 9. 10. · contare le centinaia

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DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

DomenicaLa

di Repubblica

WASHINGTON

C’è un’immagine nel film di Oliver Stonesull’11 settembre, World Trade Center, cheracconta senza sangue, senza grida, senzafiamme, che cosa sia divenuto quel giorno,

cinque anni più tardi. È l’ombra del jumbo jet che per un fo-togramma scivola silenziosa, come la sagoma di uno squaloin un mare trasparente, sulla facciata di un palazzo diManhattan prima di rimaterializzarsi e divorare le sue vitti-me. Tutto quello che ci resta dell’11 settembre 2001 è questo.L’ombra di qualcosa che non c’è più ma che si allunga e si di-lata su un mondo che essa ha inghiottito nella propria fameinsaziabile di morte.

Molte metafore e similitudini sono state evocate per dare ilsenso di quella mattina cominciata alle ore 8 e 45 dell’Est ame-ricano, le 14 e 45 italiane, dagli scrittori e dai giornalisti, comele “grandi firme” insignite dall’Oscar del giornalismo, il Pulit-zer, che in questo nostro speciale riprendiamo.

(segue nelle pagine successive)Con testi dei Premi Pulitzer

CLARE ANSBERRY, CHRISTINA BINKLEY, AMY GOLDSTEIN,JUNE KRONHOLZ, BOB WOODWARD

e lo STAFF DEL WALL STREET JOURNAL

Da una recente inchiesta svolta tra le truppe america-ne in Iraq risulta che per l’85% dei soldati, lo «scopoprincipale della loro missione» consisterebbe in una«rappresaglia per il ruolo di Saddam» negli attentatidel settembre 2001. È vero che due terzi dei civiliamericani sono vittime dello stesso abbaglio, ma c’è

da rimanere sorpresi davanti alla scarsa curiosità di tanti soldati sul-le ragioni per cui vengono mandati a rischiare la vita al fronte. Quel-l’idea pressoché consensuale non può essere solo frutto di igno-ranza, ma nasce piuttosto dalla tendenza a credere a ciò che fa piùcomodo; la stessa per cui una maggioranza di musulmani pensache dietro l’11 settembre ci sia la mano del Mossad.

Negli Stati Uniti sono in pochi a condividere questi sospetti ver-so gli israeliani; ma in compenso quasi metà dei cittadini Usa (il42%) pensano che i responsabili siano gli stessi americani. Quindil’americano medio diffida di Washington più della media dei paki-stani (in Pakistan solo il 41% non crede che gli attacchi fossero ope-ra di terroristi arabi, contro il 59% dei turchi e degli egiziani e il 65%degli indonesiani). Negli Usa gli scettici pensano che il crollo delletorri gemelle sia stato provocato ad arte da esperti in demolizioni, eche a colpire il Pentagono sia stato non lo schianto di un 767, ma unmissile Cruise. In altri termini, credono in un’azione autolesionistada parte di Washington.

(segue nelle pagine successive)

Sono passati cinque annida quell’11 settembreLo ricordiamo con le paroledei Premi Pulitzer e le matitedi un gruppo di artistiMa è anche tempo di bilanci

cultura

La grande mappa delle fortezze di DioSTEFANO MALATESTA

spettacoli

Il Superman di Bollywood vince la sfidaIRENE BIGNARDI e CONCITA DE GREGORIO

il racconto

Savorgnan di Brazzà, esploratore scalzoPAOLO RUMIZ

il fatto

Vita da arbitro, Collina raccontaEMANUELA AUDISIO e EMILIO MARRESE

l’incontro

Matt Dillon: così cammino sul fuocoANTONIO MONDA

la lettura

Peter Pan e il primo giorno di scuolaJAMES MATTHEW BARRIE e AMBRA SOMASCHINI

VITTORIO ZUCCONI MARTIN AMIS

L’ombra delle Torri

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30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

(segue dalla copertina)

Si è pensato alla pugnalatagiapponese a Pearl Harbor,si sono ricordare la Monaco1972, la rivoltella di GavriloPrinzip che a Sarajevo preci-pitò l’Europa nel suicidio

della Grande Guerra, Hiroshima, laspallata finale di Odoacre e dei suoiTurcilingi contro l’Impero di Roma: igrandi eventi che hanno accelerato dischianto il moto della storia. Ma se i re-sti inerti di corpi umani fusi da 182mi-la litri di kerosene nell’acciaio super-compresso continuano a estendere ilcono di morte e paura, cinque anni do-po, su tutto il pianeta forse ilnome da citare è un altro, è ilnome di un villaggio ucrainodivenuto celebre nel mondo:Chernobyl.

Come il reattore numeroquattro della centrale implo-sa continua a cuocere silen-zioso e micidiale dentro il se-polcro di cemento vent’anni

dopo l’esplosione, così il “nocciolo”del World Trade Center rimane ra-dioattivo. La sua ombra tossica consu-ma nuove vite ogni giorno, minaccian-do altre e ancora più estese catastrofi. Ilreattore attivato da chi pilotò gli aerei ei loro passeggeri contro i simboli del-l’impero americano nel quartiere fi-nanziario di Manhattan ha ucciso piùamericani dopo il 12 settembre diquanti ne morirono l’11, a New York, aWashington e nella collina della Penn-sylvania trasformata in camposantoistantaneo.

Alla metà di agosto il numero di cit-tadini americani, in abiti civili o inuniforme, maschi e femmine, uccisinelle due guerre che sono state la diret-ta conseguenza della nuova Chernobyl

ha superato il totale delle vittimedell’11 settembre, con 2.987 caduticontro i 2.973 di quel giorno, senzacontare le centinaia di inglesi, italiani,australiani, ucraini, spagnoli, bulgari,estoni, ungheresi e l’unico sfortunatomilitare delle isole Fiji coinvolto nella«coalizione dei volontari» in Iraq. An-che escludendo le decine di migliaia dimorti afgani e irakeni, la cui sopravvi-venza sarebbe stata comunque moltoprecaria anche sotto i Taleban e il regi-me del Baath iracheno, il tributo che gliStati Uniti hanno pagato nel tentativodi saldare il conto con gli aggressori del2001 è pari a quello che gli attentatori dicinque anni or sono pretesero.

Ma la tossicità dell’ombra radioatti-va emessa da quel giorno non si calco-

la soltanto in vite umane stroncate omutilate, come quei diciannovemilaferiti americani in Iraq, ormai gli effet-tivi di un’intera divisione. Come scris-se Amy Goldstein, una dei Pulitzer, sulWashington Post, l’effetto forse più le-tale a lungo termine e non ancora deltutto manifestato è stato quello di libe-rare una reazione a catena che ha —nelle parole di un egiziano residentenegli Stati Uniti ed espulso sotto la fal-sa accusa di essere un fiancheggiatoredi Al Qaeda — «infranto il sogno ameri-cano». Chi ha concepito, organizzato epoi fatto eseguire il bombardamento diManhattan e di Washington usandoaerei di linea e passeggeri ignari comemissili incendiari, aveva fatto bene ipropri conti. Se il loro obbiettivo era

quello di radicalizzare e di esasperare il«nemico infedele» e il «crociato», comedicono nei loro manifesti, il successo èandato anche al di là delle loro attese,proprio come il collasso delle Due Tor-ri dopo l’impatto e l’incendio andò «ol-tre anche i nostri calcoli», secondo unafrase pronunciata dall’“ingegnere”Osama bin Laden in un videotape.

Il normale flusso e riflusso della ma-rea politica ed elettorale è stato scon-volto dal fattore 9/11. Ha provocato vit-torie e sconfitte inaspettate, ha datovoce ai nostri “contro-jihadisti” delcambio di regime e della esportazionea mano armata della democrazia comeagli estremisti del pacifismo integrale,forze che ora si raccontano in terminidi disprezzo e di odio. Ha scatenato la

fantasia, ed eccitato i dirittid’autore, dei “complottisti”generando una colossale in-dustria di dvd, libri, talkshow, siti, blog internet tesa asfruttare l’incredulità, loscetticismo e il giacimento dianti-americanismo che que-

Erano le 8,45 di cinque anni fa quando l’America fu feritaa morte. Nei reportage che valsero il riconoscimentopiù prestigioso ai loro autori, pubblicati in Italia da minimum fax,si rivivono quei momenti: il dolore, l’eroismo, la solidarietàMa si scorgono anche i primi contraccolpi che dalle maceriedel World Trade Center incominciavano a cambiare il mondo11

la copertina

VITTORIO ZUCCONI

I Premi Pulitzer

L’intera nazione ieri èrimasta sotto shock assalita

dall’orrore dopo che treaerei di linea, a quanto paredirottati, in meno di un’ora

si sono lanciati comekamikaze contro il World

Trade Center e ilPentagono, uccidendo

centinaia, forse migliaia dipersone e lasciandone

innumerevoli altre mutilatee ustionate Sulle strade delcentro di Manhattan eranosparsi ovunque brandelli dicorpi, vestiti, scarpe e carni

dilaniate, tra cui una testamozzata con lunghi capellineri e un braccio strappatoche giaceva sull’autostrada

a circa 300 metri dal luogodell’impatto. La gente in

fuga dall’attacco correva inpreda al panico e confluiva

sul ponte di Brooklyn,voltandosi continuamenteindietro verso lo spettacolo

incredibile delle TorriGemelle che crollavano inuna pila di fumo e cenere

A CURA DELLO STAFF

The Wall Street Journal

La nazioneè sotto shock

12 settembre 2001

Poco prima delle nove dimattina il volo 11dell’American Airlines,partito da Boston edirottato da uomini armatidi coltello, si è schiantatocontro una delle TorriGemelle. Diciotto minutidopo, mentre milioni diamericani stavanovedendo bruciare in direttatelevisiva la prima torre, unsecondo jet dirottato si èabbattuto contro l’altra.A metà mattina la torre sudera esplosa e crollata,sommergendo la partemeridionale di Manhattancon una pioggia dicalcinacci, polvere e fumoNemmeno mezz’ora dopocrollava la seconda torrementre un terzo jet colpivail Pentagono. Il latodell’edificio ha ceduto, e neè seguita una serie diesplosioni. Si sonosollevate ondate di fumotanto grandi da essere vistedalla Casa Bianca

A CURA DELLO STAFF

The Wall Street Journal

Quell’attaccodal cielo

12 settembre 2001

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

sta amministrazione Bush ha saputoespandere nel mondo come non acca-deva più dagli anni del Vietnam e delletruci “marce della pace” manovratedagli agit prop della Lubjanka.

Ha fatto il successo mondiale dinetwork televisive in lingua araba, co-me al-Jazira e al-Arabya, accolte comela voce della verità alternativa non oc-cidentalista in un mercato di un miliar-do di musulmani, mentre ha decretatola fortuna della fino ad allora margina-le rete americana di estrema destra Foxdi Murdoch, che ormai ha soppiantatola troppo timida e politically correctCnn. Ha reso celebrità istantanee e mi-lionari gli autori di furiosi pamphlet ac-quistati golosamente da cittadini-con-sumatori spaventati e perciò avidi dicertezze semplicistiche. E,come disegna lo straordina-rio vignettista premiato colPulitzer, Clay Bennet del mi-te Christian Science Monitor,ha cominciato a rinchiudercidentro le sbarre delle nuoveleggi speciali, facendoci cre-

dere che così facendo avremmo chiusofuori il mondo e le sue minacce.

Molti ripeterono, quella mattina, ilmantra della «storia che cambia», co-me se qualcuno di noi avesse saputo al-lora in quale direzione si sarebbe mos-sa la storia e avesse posseduto la cartastradale del futuro. Sicuramente, l’11settembre cambiò il presidente GeorgeBush, salito al potere nove mesi primaavendo promesso un uso «umile e par-simonioso» della potenza militare Usae giurato la rinuncia alle ambizioni, ti-piche della sinistra democratica, di«edificare nazioni» a immagine e somi-glianza dell’America, il «nation buil-ding». Come ha cambiato lui, così hacambiato la gente, gli americani, primadiffondendo un’ondata di solidarietà e

di fraternità che portò quella mattinacentinaia di persone, di cinici e indiffe-renti newyorkesi, «a fare la fila, seden-do per terra e su sedie pieghevoli» perdonare il sangue, raccontò JuneKronholz per il Wall Street Journal, alpunto che la Croce Rossa invitò i dona-tori a restare a casa, perché non sapevapiù dove conservare il troppo sangueofferto.

Ma la radiazione lavora silenziosa-mente, intacca il patrimonio genetico,cambia nel tempo le persone colpite efa sentire solo a distanza i propri effet-ti. Cinque anni dopo, la stessa nazioneche si abbracciò fraternamente staspaccata come una mela, divisa dallafedeltà ringhiosa al partito del presi-dente e dalla voglia opposta di punirlo

per una guerra in Iraq che sempre me-no approva e capisce. L’opposizionecontinua a contorcersi nella incapa-cità di trovare una guida, una dottrina,una soluzione alternativa e credibile aldilemma bruciante e reale fra libertà esicurezza, e le elezioni parlamentaridel primo quinquennio, in novembre,promettono di generare un altro diquei mostri geneticamente modificatidall’11 settembre e instabili, come giàil Bundestag tedesco o il Senato italia-no.

L’ombra consuma la luce, avanza,ora si allunga sull’Iran, sul «nuovo Hi-tler» Ahmadinejad, sugli «islamo-fa-scisti», secondo l’ultimo spot a effettoriesumato per scatenare ancora piùrancori, per caratterizzare il nemico

nei termini demoniaci in cui il nemicocaratterizza noi, come il Male assoluto,come la notte da combattere. Questotipo di guerra anomala, fuori da ogniscenario e parametro ma dentro ogniprovocazione, lanciata alle 8 e 45dell’11 settembre, è per definizione in-finita, oltre ogni visuale umana possi-bile perché nessuno, mai, potrà garan-tire che non sopravviva un terrorista,un regime, un fanatico fondamentali-sta, disposto a immolarsi o a finanziareun suicida contro un altro edificio.

Più l’ombra si allunga, più la gabbiasi restringe. Non si possono più porta-re tubetti di dentifricio e acqua mine-rale in aereo, qualunque telefonatapuò essere ascoltata e registrata, qua-lunque comunicazione elettronica

sarà ispezionata, ogni scono-sciuto è un possibile nemico,perché «l’unico modo di vin-cere la guerra contro i terrori-sti è distruggerli tutti» disse ilvice presidente Richard Che-ney. Tra dieci anni, dove saràarrivata l’ombra?

TAVOLE D’ARTISTA

Le tavole di queste pagine sono state disegnate per “Repubblica” da cinque artisti di livello

internazionale grazie alla Coconino Press. Igort, al secolo Igor Tuveri, disegna da quasi

trent’anni. Il suo ultimo romanzo, “5 è il numero perfetto” (Rizzoli) è pubblicato in 13 paesi

e ha vinto numerosi premi. Leila Marzocchi ha pubblicato in Europa, America e Giappone.

Attualmente lavora a “Niger”, edita in Italia da Coconino Press. Il francese Baru, famoso in tutto

il mondo, è il cantore degli immigrati italiani in Francia. “L’arrabbiato” è il suo ultimo lavoro. José

Muñoz, argentino, è una leggenda vivente nel mondo del fumetto. Alack Sinner è il suo

personaggio più celebre, creato con Carlos Sampayo. “Il caso Usa”, ultimo romanzo della saga,

è di prossima pubblicazione in Italia. Il disegno di copertina invece è tratto da “9/11” (foto),

la prima graphic novel che racconta a fumetti il rapporto della Commissione sull’11 settembre.

Gli autori sono Sid Jacobson e Ernie Colón. È pubblicata in Italia da Alet.

raccontano l’orrore

I piani superiori dei palazzierano avvolti dal fumoe la gente cominciava

a gettarsi dalle finestre,uno per volta,

schiantandosi sulla strada,sulle aiuole e sulle tettoie.

Sul ponte di Brooklyni newyorkesi,

completamente copertidi polvere, tornavanoverso casa affollando

il passaggio pedonale.Un uomo in pantaloncini e

maglietta correva versoManhattan con una

radiolina premutaall’orecchio e gridava

«Il Pentagono è in fiamme!Il Pentagono è in fiamme!»Gli faceva eco urlando una

donna al cellulare: «Miamadre lavora lì. Non so

dov’è. Che succede?Che succede?»

[...] Un pompiere del corpodei vigili del fuoco di New

York era scosso da fortisinghiozzi: «La mia unità è

morta. Sono tutti morti».

A CURA DELLO STAFF

The Wall Street Journal

Corpi lanciatinel vuoto

12 settembre 2001

E il popolo americano,come ha fatto in altrimomenti di tragedianazionale condivisa, si è collettivamenterimboccato le manicheUn incredibile numerodi volontari si è presentatoalla banca del sanguedi Rockville Centre, nellostato di New York, al puntoche gli infermieri hannodovuto prima cominciarea distribuire i numeriprogressivi e poi addiritturarimandare a casa i donatoriche non avessero lo zeronegativo, compatibile conqualsiasi altro grupposanguigno Malgradoquesto, decine e decine diaspiranti donatori sonorimasti seduti fuori suseggiole pieghevoli in attesadel loro turno, disposti inuna lunga fila che sisnodava tutto intornoall’edificio

CLARE ANSBERRY,

CHRISTINA BINKLEY

E JUNE KRONHOLZ

The Wall Street Journal

La lunga filadei volontari

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

Le nuove vittime(segue dalla copertina)

Èquello che in psichiatria sichiama fabulazione. Solita-mente si parla invece di teo-ria del complotto, o di un gu-sto masochistico per le in-venzioni più sofisticate e

composite. Ma più semplicemente, la fa-bulazione potrebbe corrispondere aun’incapacità di assimilare. E dobbiamoammettere che l’11 settembre forse nonpotrà mai essere del tutto assimilato. Laprima cosa da chiedere al fabulatore è:cui bono? A chi giova? E la risposta sareb-be: «Al governo, che accresce il suo pote-re… per marciare su Bagdad. «Arriviamocosì all’assioma del pensiero alungo termine sul terrorismointernazionale: il pericolo rea-le non sta negli effetti imme-diati dell’atto terroristico, manelle conseguenze che provo-ca. E a tutt’oggi la conseguenzadi gran lunga più grave dell’11settembre è l’Iraq.

Tra non molto il tributo dimorti americani in questaguerra supererà quello dell’at-tacco d’origine; mentre le vitti-me irachene lo stanno supe-rando ripetutamente, ogni tresettimane. Oltre tutto, le perdi-te non sono solo attuariali, masi evidenziano anche nel no-

stro indebolimento sul terreno alto dellamoralità e della ragione. È come se l’11settembre avesse portato con sé un nettoaumento della suggestionabilità, a tutti ilivelli. Ai vertici, un presidente guidato a)da avventuristi sconsiderati, e b), dai se-gni dell’Onnipotente; mentre ai livelli dibase i cittadini sono ossessionati da so-spetti incontrollabili. Il fatto è che l’Ame-rica non si è ferita da sé nel settembre2001, come sostengono i fabulisti, ma dalmarzo 2003 in poi.

Il libro di Lawrence Wright The Loo-ming Tower: Al Qaeda and the Road to9/11inizia con i ritratti del triumvirato del-l’islamismo sviluppato: Sayyd Qutb, Ay-man al-Zawahiri e Osama bin Laden. E diprimo acchito fa sorgere una domanda:dobbiamo sentirci confortati, o più avvi-

liti che mai dalla povertà del materialeumano oggi così ferocemente schieratocontro di noi? In queste pagine incontria-mo anche qualche formidabile cospira-tore e killer, come Khaled SheikhMohammed, l’autore dell’“operazioneaerei” (che nel frattempo è stato cattura-to). Quanto agli altri attori in campo, si no-tano sfumature, gradazioni diverse di ne-ro; ma nell’insieme i loro profili sono ca-ratterizzati da vacuità intellettuale, da unfanatismo che esorbita i termini di ognicodice penale e, in senso più generale, daun atteggiamento caoticamente adole-scenziale — o fors’anche giovanile — diindifferenza davanti alla realtà. Fabulato-ri col delirio del sangue e della morte, peri quali la realtà è solo qualcosa da mano-vrare qua e là per poi distruggerla.

Sayyd Qutb (1906-1966), funzionario escrittore egiziano, è stato il primo artefi-ce dell’islamismo. C’è da stupirsi di comel’immaginazione musulmana si sia la-sciata catturare tanto facilmente da quel-la figura, comica al punto da fare quasi te-nerezza: tutto un groviglio di pulsioni efurori ammantati di devozione e di iat-tanza. Peraltro la sua sorte, nelle mani diNasser, è stata tutt’altro che comica, ilsuo martirio una bomba a orologeria sto-ricamente controllata. In ogni caso è a luiche l’islamismo deve il duplice sogno deldominio planetario e del genocidio teo-cratico. Zawahiri, conterraneo di Qutb,contribuisce a rafforzare la tesi di chi so-stiene che il terrorismo internazionalesia nato e cresciuto nelle carceri egiziane.Medico abbrutito, Zawahiri è stato il lea-

der e il teorico del suo gruppo, al-Jihad, alcui interno ha portato avanti la dottrina(o eresia) tanto sofisticata quanto rab-berciata dei takfir. I takfir sono arrivati aconvincersi che la salvezza dell’interaumanità sia da ricercare al di là di quel ter-ritorio morale che è da sempre la provin-cia certa dei dannati. E hanno voluto as-sumere per le loro anime eterne il rischiodi arrogarsi un’autorità divina: quella didecidere chi sia o meno un vero musul-mano, chi debba essere lasciato in vitaoppure ammazzato.

In tal modo la popolazione degli am-mazzabili si è enormemente estesa. Difatto, in tutto il corso della storia nessunadottrina, per quanto bellicista, si è maidata un bersaglio di una tale vastità: tut-to e tutti. Purtroppo però il quoziente di

intelligenza di Bin Laden, adetta di uno dei suoi compa-gni, «non era un granché». Ungiudizio finora non confutato.Il contributo di Bin Laden statutto nella sua immagine:nient’altro. Una nullità omni-cida in un sorridente alone dibeatitudine. La sua personaledeformazione rimane un mi-stero. Zawahiri ha conosciutoil carcere e la tortura; Qutb èstato incarcerato, torturato egiustiziato, mentre a Bin Ladennessuno ha inflitto traumi oviolenze. A differenza dei suoimentori, non è stato frantuma-to e rifatto al suo interno dall’a-

Una lunga ombra di morte si irradia da quel giornodi cinque anni fa a Manhattan: due guerre, migliaia di caduti,una incapacità di assimilare l’accadutoche non potrà maiessere completamente superata e che intanto produce sospetti,insicurezza, debolezze crescenti sui terreni della moralitàe della ragione. Un grande scrittore lo racconta

la copertina

MARTIN AMIS

11

I diciannove dirottatoricolpevoli del peggior atto

terroristico mai verificatosiin terra americana hanno

lavorato con pochi aiutiesterni, costituendosi in unpiccolo gruppo compatto,

composto da leaderfacilmente identificabilie pedine misteriose che

hanno programmato le loroultime ore in una tesa

coreografia di preparativilunga un anno e mezzo. Unesame di alcuni documenti

resi pubblici e di decine diinterviste fa crollare

l’immagine del complottoemersa subito dopo gli

attacchi. [...] Sette dirottatoriottennero la patente di

guida in due settimane,all’inizio dell’estate. Tredici

di loro hanno acquistato ibiglietti aerei per il loro

ultimo volo nel giro dicinque giorni, alla fine di

agosto. E questa estate unadozzina di loro affittò

appartamenti in Florida

AMY GOLDSTEIN

The Washington Post

Pochi uominiun solo piano

30 settembre 2001

Si trattava difondamentalisti islamici cheperò cedevano volentierialla cultura occidentale, daifast food ai superalcolici [...]Anche se cercavano diintegrarsi negli Stati Unitiquel tanto da portare atermine i propri compiti nonsempre mettevano inmostra perfette doticamaleontiche.A volterisultavano forzati. Il loroinglese zoppicante liostacolava. Ogni tanto sicomportavano in modoaggressivo, perfino villanoRick Garza, che all’epoca eracapo istruttore alla scuolaaeronautica “Sorbi’s” avevacostretto Almihdhar eAlhazmi a darsi una calmataCiò che più irritava Garzaera un certo eccesso di zeloAnche se «non avevano lapiù pallida idea di quelloche stavano facendo», hadetto, insistevano perimparare a pilotare aereia motore multiplo

AMY GOLDSTEIN

The Washington Post

Il nemicoin casa

30 settembre 2001

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

delle Twin Towerszione di fruste o di cavi elettrici. È stato ilsolo a rimanere integro e intatto in mez-zo all’avvicendarsi di mullah guerci, ze-loti segaligni, sceicchi ciechi e chierici pa-ralitici.

Intatto, lo è rimasto almeno fisicamen-te. Ma ai tempi della sua dichiarazione diguerra contro l’America (1996), ammuffi-va in una grotta a Tora Bora — apolide,senza un soldo e mezzo morto di fame. Lesue conquiste erano i miti o le fabulazio-ni di un ex jihadista fifone e incompeten-te (capace solo di azioni di disturbo perl’Armata Rossa) e in affari un soggetto da“serial flop”. In breve, un finanziere delterrorismo rimasto al verde, ormai inte-ramente in balia del potere islamista lo-cale, quello dei vigilantes-scemi del vil-laggio noti come Taleban. Poco dopo,Zawahiri finirà in un carcererusso e Bin Laden sarà ridotto asopravvivere a pane ammuffitoe acqua contaminata. A questopunto la sussistenza di Al Qae-da appare improbabile, e le suepossibilità di montare un’ope-razione delle dimensionidell’11 settembre sono infini-tesimali. Perciò la «dichiarazio-ne» del 1996 somiglia molto aun lamento da un letto di mor-te.

Com’è possibile allora che iltroglodita sconfitto diventassel’irradiante Mahdi del 2001? Lanotorietà di Bin Laden si è di-mostrata una buona fonte di lu-

cro. Nel 1998 il leader talibano MullahOmar ha incominciato a incassare tan-genti da Riyadh in cambio della sua estra-dizione e consegna agli americani. MaOmar e Osama erano anime gemelle, ol-tre che partner negli affari. Quella stessaestate ha visto esplodere bombe alle am-basciate del Kenya e della Tanzania. ANairobi Al Qaeda ha causato la morte di206 africani e il ferimento di 4.500 (di cui150 accecati da schegge di vetro), e uccisoin totale 12 americani. Quanto all’attaccoalquanto abborracciato di Dar es Salam,non ha fatto neppure una vittima ameri-cana. In tutto il mondo la reazione islami-ca è stata di unanime disgusto; ma è sen-za dubbio alla reazione americana che sideve l’accresciuto potere di Bin Laden.

Dei 66 missili Cruise lanciati dagli Usa

sui campi che circondano Khost, in Af-ghanistan, alcuni non sono esplosi. Se-condo Wright (la cui fonte è l’intelligencerussa) «Bin Laden ha venduto i missiliinesplosi alla Cina per 10 milioni di dolla-ri». Nel successivo attacco di Al Qaedacontro la Cole, nel 2000, l’aspetto simbo-lico era stato messo a punto con ben altrafinezza: una nave da guerra da fanta-scienza gravemente danneggiata da uncanotto. A questo punto Bin Laden, con-sacrato campione globale della causa an-tiamericana, poteva accogliere le nuovereclute in arrivo con le loro Samsoniteimbottite di petrodollari degli ammira-tori del Golfo, pieni di venerazione e ri-spetto.

L’evento dell’11 settembre in quantotale si configura come l’effetto di una se-

rie di nefaste coincidenze. Nella sua pri-ma fase, tutta l’“operazione aerei” si ri-duceva al girovagare per le strade di LosAngeles di due sauditi “muscolari” al-quanto smarriti e monoglotti, incapacianche solo di chiedere la strada per arri-vare alla più vicina scuola di volo. C’era-no tutte le condizioni per un altro dei ri-dicoli fallimenti di Al Qaeda — forse perfare il paio col piano del 1994 per assassi-nare il Papa (presto abbandonato dopol’acquisto della casacca da killer). L’at-tacco spettacolare, il “big one”, è rimastoin sospeso fino al fortuito arrivo a Kan-dahar del «contingente amburghese»(Atta e compagni). Erano uomini super-ficialmente occidentalizzati, nonché su-perficialmente razionali, posseduti pre-cisamente dal tipo di demenza funzio-

nante che ci voleva. Ma anche sul versan-te americano la vicenda è stata caratte-rizzata da varie coincidenze negative. Èdoloroso seguire la serie delle interazionitra i malfunzionamenti nei rapporti tra levarie agenzie, i risentimenti, i cavilli chehanno aperto le porte al disastro. L’uomoche era stato più vicino a prevenirlo, JohnO’Neill, si era dimesso dall’Fbi nell’ago-sto 2001, e il 23 dello stesso mese aveva as-sunto il suo nuovo incarico… di capo del-la sicurezza al World Trade Center. Gli re-stavano diciannove giorni di vita.

Secondo l’opinione di gran parte degliesperti occidentali, Al Qaeda è pratica-mente finita. La «base» è divenuta, aquanto si dice, «a state of mind», una con-dizione mentale. E qual è questa condi-zione? Il convincimento che sia possibi-

le essere simultaneamentebuoni musulmani e massacra-tori che affidano al caso la scel-ta delle proprie vittime. Unsanguinoso pantano di para-noia e credulità: questa la con-dizione mentale del fabulatorearmato; e il complotto che hadepistato è la campagna degliinfedeli per annientare la fede.Tutto è incominciato col ritirodelle armate arabe da Vienna,che confermava il declino isla-mico. Correva l’anno 1683; ilgiorno era l’11 settembre.

(Copyright Martin Amis/Wylie Agency. Traduzione

di Elisabetta Horvat)

IL LIBRO DEI PULITZER

Il libro da cui sono tratti i testi di queste pagine e delle due precedenti è “New York, ore 8.45.

La tragedia delle Torri Gemelle raccontate dai Premi Pulitzer” (minimum fax, 180 pagine, 14

euro) in uscita domani. È un’antologia dei migliori articoli sull’11 settembre che ottennero il più

prestigioso riconoscimento della stampa Usa per il reportage di inchiesta. Gli articoli sono tratti

da “New York Times”, “Washington Post” e “Wall Street Journal” oltre alle vignette che vinsero

il premio. Il libro fa parte della collana Indi-Pulitzer diretta da Simone Barillari e ieri è stato tema

di uno degli eventi del Festivaletteratura di Mantova che ha registrato il tutto esaurito con oltre

mille persone presenti. Dopo “Sette pezzi d’America” (gli scandali americani) e “Omicidi

americani” (la cronaca nera Usa), i prossimi titoli saranno “Catastrofi naturali” e “Guerre”

Secondo quanto affermanoalte fonti governative il

mese scorso il presidenteBush ha firmato una

disposizione di intelligenceindirizzata alla Cia

invitandola a intraprenderel’operazione segreta più

ampia e devastante daitempi della sua istituzione

nel 1947 e richiedendoesplicitamente l’uccisione

di Osama bin Laden e ladistruzione di Al Qaeda, la

rete mondiale di cui è acapo. Il presidente ha anche

incrementato di oltre unmiliardo di dollari i fondi a

disposizione della Cia per laguerra al terrorismo,

somma da impiegare ingran parte per la nuova

azione segretaL’operazione comprenderà

quella che i funzionarihanno descritto come una

sinergia «senza precedenti»tra l’agenzia, truppe di

commando e altri repartidell’esercito

BOB WOODWARD

The Washington Post

I nuovi poteridati alla Cia

21 ottobre 2001

Nell’aula di Miami, ilprocuratore di Stato non haavuto troppe difficoltà aconvincere il giudice atrattenere Mubeen(sospettato di terrorismondr) senza cauzionepresentando undocumento sconcertanteche permette di faremaggiore chiarezza suquesti arresti e sul nuovocavillo legale che autorizzaa trattenere in stato difermo chiunque, anche soloin presenza di un minimosospetto. Firmato da unimportante funzionario Fbidell’antiterrorismo, questodocumento di sette pagine,mai reso pubblico primad’ora, viene utilizzato daipubblici ministeri di tutto ilpaese nelle udienze per laconvalida dell’arresto [...] Il documento offre laprospettiva più chiara suuna campagna di arrestisenza precedenti dallaSeconda guerra mondiale

AMY GOLDSTEIN

The Washington Post

Presunticolpevoli

4 novembre 2001

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il raccontoVite leggendarie

Il 3 ottobre a Brazzaville, la città congolese che portail suo nome, un grande mausoleo accoglierà il corpodi Pietro Savorgnan di Brazzà, caso unico di esploratorebianco onorato dall’Africa Nera. La storia rocambolescadi questo friulano prestato alla Francia spiega il perché...

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

«Di Brazzà non è solo il romanzo di unavita, è anche il mistero di una morte», sor-ride Gino Pennacchi, che assieme a Nico-le Leghissa sta preparando un documen-tario sul tema per conto della Tico FilmCompany. Un film attento, per la primavolta, alle troppe verità sommerse della vi-cenda: ai crimini, ai dossier criptati, agliscandali, alle tombe manomesse. Come intutti i gialli, è dalla fine che bisogna comin-ciare: il 1898, quando il nostro protagoni-sta, quarantacinquenne, carico di gloria einvidie, con già quattro storici viaggi allespalle, prende una nave per la Francia escopre dai bollettini ufficiali di essere statodestituito dalla carica di governatore delCongo. Uno sgarbo, un’imboscata impo-sta dalle lobby. Lui, uno degli uomini piùpopolari del Paese, l’europeo che avevasvelato in quattro spedizioni il segreto diun continente, era diventato inutile. L’a-vevano tolto di mezzo per dare le nuoveterre in concessione agli avventurieri.

È qui che comincia la parteoscura della storia: daquando Brazzà,sdegna-

to, decide di chiudersi nella dolce Algeri,che elegge sua seconda patria. Si sposa, fatre figli, ma è minato dall’amarezza e dallemalattie equatoriali, gli restano da viverepochi anni. Esce dal silenzio solo nel 1901,quando Parigi pubblica un libro encomia-stico sulla politica della Francia in Africa.S’indigna, vuole raccontare la sua verità,mette a punto una contro-relazione. L’hasempre detto che «se si divide il Congo in

concessioni, si farà pre-

disci di pelle d’ippopotamo; rematori affo-gati; ostaggi ammassati in baracchesenz’aria né luce e lasciati morire tra i loroescrementi. Villaggi sterminati con la mi-tragliatrice, con la scusa della legittima di-fesa. Nel Congo belga gli uomini di Leo-poldo Secondo fanno anche di peggio.

Scoppia uno scandalo, i giornali spara-no titoli forti, la Francia illuminata chiedeverità, il governo traballa. E così, per cal-mare l’opinione pubblica, Parigi richiamain servizio l’“eroe”, col compito di svolge-re un’inchiesta sul terreno, ma lo circondadi funzionari pronti a depistarlo. Brazzà hamangiato la foglia, ma accetta egualmen-

stissimo a rovinare tutto; sarà come man-giare frumento quando è ancora erba». Mail suo esplosivo documento s’insabbia.

Intanto trapelano notizie di orrori. Nel1903 un indigeno viene fatto saltare in ariacon una carica di dinamite nell’ano, e —quel che è peggio — il governo copre i fun-zionari responsabili. «Avete fatto benissi-mo — scrivono da Parigi — ma ancora unavolta sarebbe meglio non far trapelare co-se del genere». Arrivano notizie tremende:nasi, mani e piedi tagliati col machete; fu-

stigazioni con micidialiscu-

Lawrence d’Italiail colonialista scalzo

PAOLO RUMIZ

«Oterra del sole / Con-go misterioso / Osplendida valle /del re Makoko /cantate la fama /del comandante /

monsieur de Brazzà / monsieur deBrazzà». Erano cent’anni che l’Africa nar-rava la sua leggenda, lo chiamava nelle te-nebre al suono del tam tam. Pietro, l’e-sploratore buono, il bianco che nel 1880, altermine di una lunga marcia di pochi uo-mini nella giungla, in una favolosa notte diluna aveva scoperto il fiume Congo vastocome l’oceano. Savorgnan di Brazzà, l’uf-ficiale-gentiluomo, l’idealista che marcia-va scalzo e disarmato, ma metteva l’altauniforme per incontrare i re color dell’e-bano. Il Lawrence italiano, che aveva datoalla Francia l’ultima fantastica terra inco-gnita, ma dalla Francia era stato ripudiatoper aver messo il dito sui crimini dellosfruttamento coloniale.

Ma ora l’attesa è finita, i tam tam saluta-no il Grande Spirito dell’eroe che torna sulsuo fiume, nel luogo che porta il suo nome— Brazzaville — capitale della Re-pubblica del Congo. Per acco-gliere le sue ossa, che agiorni saranno traslatedalla tomba di famiglia adAlgeri, è stato costruito unenorme mausoleo in mar-mo (italiano) e il 3 ottobre legenti d’Equatore verranno atributargli omaggio solenne.Dagli stati circostanti affluiran-no tribù, re, capi di Stato; dal-l’Europa volerà il presidente Chi-rac, che del mausoleo ha già postola prima pietra. Verranno alcunidei discendenti dell’esploratore,come Pietro di Serego Alighieri, ap-passionato cultore di Monsieur deBrazzà e degli immensi archivi dellafamiglia.

Ma è proprio qui che l’evento si tingedi giallo. A pochi mesi dalla celebrazione,qualcuno ha manomesso la tomba dell’e-roe. Segni di effrazione nella cripta di fa-miglia, ben documentati da fotografie.Dall’Italia, dove Brazzà ha uno stuolo diparenti illustri, pare che nessuno sia anco-ra venuto a verificare l’accaduto. Ma i rap-presentanti delle tribù Teké — una dellepopolazioni più forti dell’Equatore, cheSavorgnan incontrò nella sua secondaesplorazione — parlano di un aereo arri-vato da Brazzaville, alludono a un’incur-sione dei poteri forti congolesi. I Teké, ere-di del re Makoko incontrato cento-trent’anni fa dall’esploratore italiano, de-nunciano addirittura il furto di alcune os-sa, destinate ai riti magici di una cupola,ansiosa di accreditarsi tenendo in ostaggiol’ambitissima reliquia.

Intanto una parte del Congo imputa al-la presidenza del Paese di avere costruito ilfaraonico mausoleo solo per celebrare sestessa e coprire nuovi affari con le multi-nazionali. C’è chi farebbe un talismanodelle sue reliquie; chi, come i Teké, vorreb-be seppellirle nei propri territori e non aBrazzaville; e chi invece, come certa Fran-cia nazionalista, cancellerebbe il suo no-me dalla memoria. C’è chi lo vede comel’origine di tutti i mali per l’Africa Nera, echi lo santificherebbe come un eroe. Chi,come il presidente congolese Sassou N’-Guesso, cerca di farne il simbolo di unitàfra le tribù divise del Congo, e chi, oltre ilMediterraneo, preferisce tenere segrete lesue ultime, esplosive relazioni sulla con-quista francese attorno all’Equatore. Do-po un secolo è come se, attorno a quel fan-tasma, si fosse riacceso il “Grande Gioco”in terra d’Africa.

La mostra a RomaAlla figura di Pietro Savorgnan di Brazzà, Roma

ha dedicato una mostra. Si intitola “Pietro

Savorgnan di Brazzà: una vita per l’Africa”

e ripercorre con foto, incisioni, oggetti d’epoca

e documenti la biografia del colonialista italo-

francese. Insieme al rapporto tra Primo e Terzo

mondo, viene continuamente sottolineato

il messaggio di pace e di giustizia lasciato

da Savorgnan. Sullo stesso tema saranno

in esposizione anche opere d’arte

contemporanea. “Una vita per l’Africa”

apre oggi nelle sale dell’Auditorium Parco

della Musica di Roma.

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

sier non arrivasse mai. E difatti non arriva.Monsieur de Brazzà, già debilitato dall’a-meba, si ammala, viene sbarcato febbrici-tante a Dakkar, dove muore il 14 settembre1905. Qualcuno parla di veleno. E intantoil dossier viene sottratto da un funzionarioa lui ostile e poi insabbiato nei corridoi diQuai d’Orsay. La stessa mano che occulta,glorifica. Parigi proclama di voler seppelli-re Brazzà al Pantheon, ma la moglie rifiutal’onore ipocrita, utile solo ad alleggerire lacoscienza del potere. Così Pietro è sepoltoad Algeri, nella sua cara Africa, dietro unalapide con la scritta eloquente: «La sua me-moria è pura di sangue umano».

Ovviamente tutto continua come nien-te fosse. La Francia produce fiumi di reto-rica, si autoassolve, inaugura proprio con-tro gli indigeni congolesi la micidiale mi-tragliatrice “Maxime”. Anche l’Italia igno-ra l’insegnamento del suo grande figlio,s’imbarca nell’avventura africana che fi-nirà nel disastro di Adua. Ma è solo unaprova generale. La Grande Guerra bussaalla porta d’Europa. Le potenze industria-li affamate di colonie non esiteranno a di-vorarsi tra loro.

Anche dopo tutto continuerà come pri-ma. Il fascismo userà i gas contro l’Etiopia,spedirà in Africa proconsoli assassini co-me Graziani. Onorerà il razzista Italo Bal-bo, non il mite Savorgnan di Brazzà, chepure aveva surclassato in stile i più famosiStanley e Livingstone. Così, lo scopritoredel fiume Congo resterà ancora semisco-nosciuto nel Pantheon italiano. Quantoalla Francia, bisognerà aspettare la finedell’avventura algerina per vedere lucesulla vicenda: ma ancora oggi i nipotinidella lobby coloniale a Parigi coprono di si-lenzio la denuncia dell’esploratore rompi-scatole. Come cent’anni fa in tempi disfruttamento selvaggio del Pianeta, la me-moria di Brazzà resta scomoda. Indica unaresponsabilità collettiva con cui l’Occi-dente non ha fatto i conti.

Chirac volerà a Brazzaville, farà bei di-scorsi terzomondisti, ma intanto a Parigi ipronipoti del mitico re Makoko vivono da“sans papiers”. Clandestini, come il giova-ne Romaric N’Guaioulou, figlio di re Ga-ston, finito ucciso nelle guerre intestinedella Repubblica del Congo. Proprio lui,Gaston N’Guaioulou, aveva rilanciato la fi-gura di Savorgnan di Brazzà per ridare di-gnità ai Teké, popolo antagonista al pote-re assoluto di Sassou N’Guesso. E oggi,esattamente come il padre e gli antenati,anche Romaric — ritrovato in Francia daGino Pennacchi — ha nostalgia del Gran-de Spirito Bianco. Vorrebbe almeno chealla cerimonia del mausoleo fosse presen-te tutto il suo popolo, con i discendenti ve-ri di chi, oltre un secolo fa, incontrò l’e-sploratore nella foresta.

Il 3 ottobre, caso unico nella storia, l’A-frica Nera onorerà un bianco del tempocoloniale: e per l’esploratore scomodo —che la Francia ingrata destituì per averemano libera sul caucciù, il legno e il petro-lio — sarà una storica rivincita. Oggi pos-siamo dire che se il colonialismo avesse se-guito la sua strada — la strada di un italia-no, e non quella ferocemente sfruttatricedello scozzese Stanley — l’Africa non sa-rebbe diventata il continente dei genocidietnici e della fame, e l’Occidente non si tro-verebbe di fronte a un’onda di ritorno diterrorismo, conflitti di civiltà, invasioni diclandestini e banlieues in fiamme. Mentrea Parigi o a Marsiglia i rappers franco-con-golesi urlano la loro rabbia per il tradi-mento della «liberté, égalité, fraternité»,nel continente nero la leggenda dell’eroebianco ritorna e s’ingigantisce. Comecent’anni fa, i bardi africani celebrano leavventure straordinarie dell’esploratorescalzo, e con esse il sogno — mai accanto-nato — di una vera libertà, eguaglianza efraternità in un mondo alla deriva.

te. Si fa preparare da Luis Vuitton un lettoe una scrivania da viaggio — un modelloche farà epoca — e parte. Si muove felpa-to, capisce di avere ancora la fiducia dei ne-ri. E così, «in un ballo tribale organizzato insuo onore dai preoccupatissimi funziona-ri francesi — racconterà nel 2005 un suo di-scendente esploratore, il friulano Detal-mo Pirzio Biroli, poco prima di morire cen-tenario — lo stregone dei Teké gli fa capiredanzando, a gesti, che ci sono delle prigio-ni, dei reticolati, e che dentro quelle pri-gioni la gente muore». Solo tra gli astanti,Pietro Savorgnan capisce il messaggiocriptato, e può muoversi subito nella dire-zione giusta, verso le regioni del Nord, tea-tro dell’abominio.

Pochi mesi dopo, a missione compiuta,s’imbarca verso la Francia per raccontareciò che ha visto. È esausto, tutti gli hannoremato contro, l’atmosfera è ostile se nonminatoria. Scrive una relazione e la chiudein un cassetto della scrivania portatile. Iltesto conferma le atrocità, ma non accusapersone. Accusa, correttamente, un siste-ma di sfruttamento. Ha capito che il pro-blema è politico-economico, non crimi-nale. C’è un sistema — scrive HannahArendt — che si serve dei pionieri, degli«uccisori di draghi», e poi li sostituisce conburocrati assassini, la stessa pasta degliaguzzini di Auschwitz. Brazzà era davveroun uccisore di draghi. Un sognatore, cheaveva cercato il Congo solo per avere visto,un giorno, una macchia bianca sulla cartadell’Africa.

Molti, a Parigi, vorrebbero che quel dos-

INCISIONINelle pagine in alto,

tre incisioni tratte

dalla rivista francese

“Le tour du monde”

che raccoglieva

racconti di viaggi

e di esplorazioni

Le incisioni si ispirano

ai racconti di Pietro

e ai disegni

del fratello Giacomo

La foto grande

di Pietro Savorgnan

di Brazzà è di Nadar

Era un sognatore che aveva cercatoil Congo solo per aver vistouna macchia bianca sulle mappeRegalò a Parigi l’ultima favolosaterra incognita ma fu ripudiatoper aver denunciato i criminidello sfruttamento

FOTO D’AUTOREA sinistra una foto

fatta da Nadar

a Pietro

e sopra un’immagine

dell’esploratore

insieme al fratello

Giacomo

e al naturalista

Attilio Pecile

Accanto, Brazzà

tra gli schiavi liberati

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VIAREGGIO

Un armadio pieno di maglie,palloni, souvenir di una vita daarbitro. Il migliore del mondo,dicevano ed era vero. Anche il

più famoso. Tutto il calcio di Pierluigi Collinaè stipato, un po’ alla rinfusa, in una stanza alsecondo piano della sua villetta. Non ha an-cora voglia di fare il museo di se stesso. Glimanca il taxi, quello sì, quello che lo portavadall’albergo allo stadio: veder scorrere dietroal finestrino la gente con le bandiere che s’av-via, le farfalle nello stomaco, il profilo del gi-gante di cemento che ti esplode davanti agliocchi all’improvviso. La tensione del prima.E gli manca un po’ anche la tremarella del do-po: quando, finita la partita, l’adrenalinacrollava e gli lasciava addosso i brividi.

Ha smesso da un anno, dopo 28 di carrie-ra, una finale mondiale, 240 partite in 15 sta-gioni di serie A e oltre cento internazionali.Dissero, la scorsa estate, che uno dei suoisponsor era lo stesso del Milan e allora no,non si poteva proprio. Poi nel calcio italianoè successo quel che è successo. Anche e so-prattutto ai suoi accusatori e nemici, animebelle, paladini dell’etica. Ma è storia vecchia.Ieri è ripartito, con gli anticipi, il campionato.Quello dopo la tempesta, che era nata uraga-no ed è finita temporale. È piovuto tanto an-che sugli arbitri, mai così soli, mai così fragilie discussi. Un anno difficile, quello che verrà,fatto di una partita difficile dopo l’altra. Ancorpiù di prima, se possibile.

«Ci vuole coraggio, tanto», dice Collina,46enne bolognese, che iniziò ad arbitrare nel‘77: simpatizzava per la Lazio e per la Fortitu-do basket, giocava da libero, un paio di voltefu anche espulso poi un compagno di liceo,Fausto, lo convinse a fare il corso. Presero luie non l’amico, perché aveva le lenti a contat-to. Laurea in Economia e commercio con 110e lode, responsabile marketing di Resto delCarlino e Nazione, prima di lasciare tutto etrasferirsi in Versilia con la moglie Gianna, 15anni fa, quando l’alopecia l’aveva già colpitoda 5. Due figlie, Francesca Romana e Caroli-na, 15 e 11 anni, una biografia tradotta in 13lingue, ideali di destra, il titolo di commen-datore della Repubblica firmato da Ciampi inuna cornice accanto alla Laurea honoris cau-sa dell’Università inglese di Hull. Chissà co-me saranno queste domeniche dentro la te-sta di un arbitro, chissà come si sopravvive alcentro della bufera. Chissà com’è una di que-ste giornate bestiali prima, durante e dopoquei maledetti magnifici novanta minuti. Ilweek end dell’uomo in nero ce lo raccontaproprio lui, Pierluigi Collina.

Il venerdì arriva la designazione. Chi or-ganizza il viaggio?

«È l’arbitro che sceglie con quale mezzospostarsi e dove dormire. Per consuetudinesi alloggia nella stessa città della partita e sicerca di arrivare almeno ad ora di cena la se-ra prima. Alle prenotazioni pensa l’agenzia diviaggi del centro tecnico di Coverciano. Iopreferivo spostarmi in auto o in aereo, salvo aRoma dov’era più comodo andare da Firen-ze con l’Eurostar».

Cosa metteva nel borsone?«Sono stato uno di quelli che ha insistito

con lo sponsor tecnico perché ci facesse del-le borse più grandi. Io mi portavo un sacco dicose. Un paio di scarpe da jogging, due da cal-cio, sei divise (due per ciascuno dei tre colo-ri), il necessario per il riscaldamento in cam-po, due orologi, le bustine di integratori chepreparavo da me nello spogliatoio, vari fi-schietti anche se per vent’anni ho usato sem-pre lo stesso».

Portafortuna?«No, non sono superstizioso. Però ho sem-

pre usato la stessa monetina per il sorteggioiniziale: un mezzo dollaro, testa o aquila».

Mai dimenticato qualcosa?«Niente di importante. Mi preparavo io la

borsa, con scrupolo. Però una volta mi sonodimenticato i cartellini nello spogliatoio du-rante l’intervallo di un Brescia-Milan e andòil quarto uomo a recuperarli».

Che tipo di hotel preferiva?«L’albergo deve assolutamente essere di-

verso da quello dove alloggiano le squadre. Iosceglievo sempre gli stessi, non molto grandie possibilmente con un arredamento mini-malista. Niente velluti o broccati, perché so-no allergico alla polvere. Cercavo di evitare igrandi alberghi, magari pieni di turisti, peravere più riservatezza. Un autografo o una fo-to non mi ha mai disturbato, ma una volta pri-ma di Germania-Inghilterra a Charleroi inBelgio, Europei del 2000, capitai in un alber-gone pieno di tifosi inglesi. Quelli della ca-mera accanto facevano un baccano d’infer-no e ad una certa ora andai a bussare in mo-do piuttosto energico: “Domani — dissi aquei ragazzi — dovrei fare qualcosa di moltoimportante che riguarda anche voi”. Doponon volò più una mosca».

A cena con chi la sera della vigilia?«Con gli assistenti per chiacchierare so-

prattutto di calcio. Preferibilmente nel risto-rante dell’albergo, senza andare in giro per lacittà con la guida Michelin. Cene molto rapi-de: non mi è mai piaciuto restare a tavola perpiù di un’ora. Alle 22-22.30 ero in camera aleggere un libro, sono appassionato di bio-grafie storiche, guardare un po’ di tv o un dvdsul computer».

Sua moglie l’ha mai accompagnata?

EMILIO MARRESE

il fattoRitorno del calcio

È stato l’uomo nero più famoso del mondo, il più bravoPierluigi Collina ha smesso un anno fa e oggi racconta,minuto per minuto, le sue partite: l’adrenalina del prima,il tremito nervoso del dopo, il coraggio di decidereche ci vuole sempre. Specialmente ora, dopo la tempesta,con la categoria mai così isolata, fragile e discussa

«Mai. Ha visto solo una partita diretta dame venendo per i fatti suoi con amici. Non seiin vacanza, non è una domenica libera. An-che un famigliare potrebbe distoglierti o con-dizionare ritmi e abitudini».

Quanto sonno?«Almeno 7-8 ore e, nel caso di una gara not-

turna, anche la pennichella pomeridiana diun’oretta. Mai avuto problemi di insonnia ostati d’ansia, nemmeno prima della finale deiMondiali 2002».

La mattina della partita.«Dopo la colazione a base di frutta, crosta-

ta e caffè tornavo in camera a leggere i giorna-li per aggiornarmi anche sulle ultime novitàdella partita. Poi alle 11.30 il pranzo: pasta al-l’olio e al massimo una fetta di crostata. Aseguire la riunione tecnica con gli assi-stenti e per 40-45 minuti si parla del-la partita: quali problemi presenta,come affrontare determinate si-tuazioni possibili, caratteristi-che tecniche dei giocatori etattiche delle squadre».

Telefono spento?«No, anche perché chi

mi conosceva sapeva chela mattina era il caso di la-sciarmi tranquillo. E co-munque risponderenon è obbligatorio».

Il trasferimento allostadio, dunque.

«In taxi e con unascorta, chiesta allaQuestura o ai vigili ur-bani, solo in alcunecittà non per motivi disicurezza ma di traffi-co, per evitare di resta-re imbottigliati e faretardi. Quel tragitto è ilmomento di massimaadrenalina, quella sen-sazione che forse mimanca di più. Semprearrivato almeno un’ora emezza prima, anche duedi solito. Mi serviva per en-trare nel clima, svolgere ilmio rituale con calma e me-todo, trovare la concentra-zione. Alcuni allenatori invecepreferiscono arrivare all’ultimomomento, per evitare che i gioca-tori nella lunga attesa accumulinotroppa tensione o addirittura la perda-no del tutto».

Chi entrava nel suo spogliatoio?«Quelli autorizzati dal regolamento. I diri-

genti accompagnatori delle squadre, e i pre-sidenti o un loro delegato per un saluto, ma al

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

VitadaArbitro

TACCUINO MONDIALEQui accanto, Pierluigi Collina

dirige la finale dei Mondiali 2002

Sopra, il taccuino di quel match

Germania-Brasile conservato

da Collina. In alto, calcio

e arbitro d’epoca

gli arbitri effettivi

(1.296 le donne)

23.997le partite arbitrate

nella stagione 2005-2006

478.885i tesserati Aia, Associazione

italiana arbitri (1.371 donne)

31.640gli assistenti, cioè

i guardalinee (21 le donne)

668

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massimo fino a mezz’ora prima».L’ultima ora, la tensione sale.«L’incontro coi giocatori, nei corridoi. Gli

scambi di saluti, con quelli di vecchia cono-scenza un po’ più cordiali. Riscaldamento incampo per 20-25 minuti e poi l’ultimo quar-to d’ora in rigoroso silenzio nello spogliatoio.Niente scherzi, niente chiacchiere, gesti au-tomatici».

Finalmente in campo.«Davo appuntamento nel tunnel ad una

certa ora, a seconda dello stadio: a Napoli peruscire devi percorrere 150 metri, a Genovatre. Mai fischiato per chiamare fuori le squa-dre: mi pareva offensivo. Se qualcuno tarda-va andavo a bussare o mandavo un assisten-te. Poi dentro. L’emozione dello stadio, la fol-la, le coreografie: un momento molto forte.Un derby a San Siro o all’Olimpico è uno spet-tacolo di gente, ma il tempo per guardare erapoco: sentivo l’atmosfera».

Dopo il primo tempo, cosa succede nel-l’intervallo se la partita sta andando male?

«In 8-9 minuti si parla con gli assistenti, percapire cosa non sta funzionando, si cerca ditrovare il modo per ripartire al meglio. Se unodi loro aveva commesso un errore cercavo ditranquillizzarlo, minimizzando. Qualchevolta dovevo usare un tono più deciso perscuoterlo, se vedevo che non reagiva e stava arimuginarci su. È la tua squadra e il tuo risul-tato dipende anche dai tuoi assistenti. Nonha senso fare processi o scenate».

E se l’erroraccio l’aveva fatto lei?«Cercavo di trovare dentro di me la calma

e capire cosa era successo, per ripartire comese niente fosse. Non ho mai guardato unamoviola su un monitor di servizio durantel’intervallo. Sarebbe stata una dimostrazionedi insicurezza molto imbarazzante. Eppoinon sarebbe servito a nulla».

Ha mai fatto irruzione qualcuno per pro-testare?

«Sì, sono cose che capitano. Se l’atteggia-mento era corretto, davo spiegazioni. Altri-menti li invitavo ad uscire e ovviamenteavrebbero poi subìto sanzioni disciplinari».

Finisce la partita: cosa resta di un arbitro?«Io, una volta tornato nello spogliatoio, co-

minciavo a tremare. Specie di inverno. Unpo’ per il calo di tensione e un po’ per il fred-do, che ho sempre patito molto. Non ho maicapito da cosa dipendesse di più. Il momen-to del down, del crollo della tensione, com-porta buffe reazioni. A me succedeva così. Poila doccia, il referto, l’analisi della partita in-sieme all’osservatore della Can. Ho sempreavuto recuperi molto flemmatici».

Mai scappato dalle uscite secondarie?«Qualcuno fuori ad esprimere, per così di-

re, il proprio dissenso capitava. Assediato ofuggito mai, se non per colpe non mie: nel-

l’ultimo anno diressi i due spareggi retroces-sione e sia a Bologna che a Vicenza i tifosi as-sediarono gli spogliatoi imbestialiti con lasquadra di casa. A Vicenza ad un certo puntoconvinsi il Questore a farmi uscire e, con suaenorme sorpresa, passai tra quelle 3-400 per-sone imbufalite raccogliendo pacche sullespalle e in bocca al lupo. I giocatori del Vicen-za penso che uscirono solo alle due di notte».

La prima telefonata durante il ritorno?«A mia moglie, per farla partecipe delle mie

sensazioni anche se di calcio non capisceniente. Poi ai designatori per scambiare im-pressioni e con qualche amico arbitro».

Si arriva a casa e comincia il supplizio tv.«Volente o nolente, è una parte importan-

te per avere un primo riscontro. Qualche vol-ta mi dispiaceva sentire critiche campate inaria da qualche commentatore. La partita perun arbitro è frutto di impegno, sacrificio e la-voro, poi può sbagliare: mi dava fastidio sen-tirci definire come incapaci. Mi ha sempre ir-ritato la frase: abbiamo lavorato una settima-na e l’arbitro ha rovinato tutto. Come se noinon avessimo fatto nulla per tutta la settima-na».

La dannata moviola.«In un Chelsea-Barcellona di Champions

League la tv rivelò con un’inquadratura die-tro la porta che il gol decisivo degli inglesi eraviziato da una trattenuta che, dalla mia posi-zione in campo, non avrei mai potuto vede-re. Tant’è che i giocatori non protestarono enemmeno i tifosi del Barcellona, all’uscitadal campo. Nessuno se n’era accorto. Chesenso ha, allora, far vedere qualcosa da unpunto di vista che l’arbitro non poteva ave-re?».

Come sono le sue domeniche senza calcioadesso?

«Dopo 28 anni i primi tempi non sono sta-ti semplici. All’improvviso non fare più quel-lo che hai fatto per una vita, ti cambia parec-chio. Adesso, con Sky, la domenica è tornatamolto simile a prima: trasferta, stadio, parti-ta. Fortunatamente senza moviole alla fine».

Come fa un arbitro a salvarsi l’anima in unmondo così complesso?

«Con la coscienza di aver fatto il massimoper prepararsi all’impegno, con la concen-trazione che ti rende impermeabile a tutto esoprattutto con grande coraggio. Ce ne vuo-le tanto per prendere decisioni difficili in uncontesto complicato, quando sarebbe moltopiù facile non decidere. Ma devi farlo, sei lì perquello e devi avere tanto coraggio. La piùgrossa banalità che si sia mai detta è che l’ar-bitro bravo è quello che non si nota: no, quel-lo che non si vede è chi non decide. Deciderecosta, anche nella vita, e in campo non si puòevitarlo. Chi non ha il coraggio di deciderenon potrà mai essere un buon arbitro».

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

Da autorità a atleta tra gli atleti, il fascino di un giudice da strada

Si fischiava in doppiopetto

Sta lì, in mezzo. Separa, assiste, partecipa.Anche lui tira fuori il fiato. Orgoglio e pre-giudizio. L’uomo nero (ma ora è colorato)

fischia e giudica. Cento fischi in media a partita:40 falli, 40 laterali, 10 corner, un rigore e un’e-spulsione. Un uomo solo contro tutti, dice la re-torica del pallone. Un uomo solo al bersaglio,suggerisce la realtà che conta aggressioni, calci,pugni, inseguimenti, lanci di pietre, marmitte ecessi. Per molti: un dittatore mancato, per altri:un represso realizzato. Però c’è anche la poesia.Paolo Casarin: «A Fossalta di Piave, con la borsada arbitro e la divisa stirata da mia mamma,chiesi al guardiano dove fossero gli spogliatoi, ilcustode si rivolse all’amico che stava segnandoil campo: Nino, tira fora el cavalo che xe rivà l’ar-bitro».

L’arbitro, appunto. Mai presunto innocente.Quello delle favole sudamericane che dalla pau-ra si nasconde nello sgabuzzino per pregare (ilperuviano Labo), quello che resta zoppo perchégli scoppia una bomba sotto la porta dello spo-gliatoio durante la guerra (il croato Blaz), quelloche viene fatto prigioniero in uno sgabuzzinodello stadio di Reggio Calabria così impara (l’i-taliano Paparesta). Il calcio all’inizio ne ha fattomeno, poi nel 1878 ha dato loro il fischietto e nel1894 ne ha sancito l’autorità inappellabile, cor-nuto per sempre, insomma. Soprattutto in Ita-

lia, all’estero il nome dei fischietti spesso nonviene nemmeno riportato. Conta come i fili d’er-ba, come le linee bianche, come le bandierine.Fa parte del gioco, senza protagonismi. Anche sein Italia ogni suo gesto viene monitorato e cata-logato, anche dove va in vacanza. L’arbitro è par-tito al di sopra, con cappello e abito scuro, perpassare al colletto e al fazzoletto, poi è sceso inmezzo, via la giacca e il farfallino, basta con l’au-torità in doppiopetto, ora sta in maglia, aderen-te antisudore, perché è diventato più atleta coni suoi dieci chilometri di corsa a partita.

Quest’anno si riparte non con arbitri nuovi,ma con nuovi arbitri. Questo lo slogan dopo loscandalo, per esigenza di avere profumo di bu-cato. Meno divismi, più autonomia morale. Puòsporcarsi il gioco, non le regole. I fischietti tra A eB saranno 41, con l’immissione di 10 nuovi. Èuna novità perché il settore era asfittico, anchenel reclutamento. Si punta a rafforzare la cate-goria, non ad ingrandire gli ego. Arriverà in cam-pionato anche l’auricolare (non subito) e l’arbi-tro sarà inevitabilmente più robot, ma nonschiavo. Per un lavoro che dovrebbe elevare,non degradare, né asservire.

Oggi in campo comincia la rivoluzione. Nellasperanza che lì in mezzo ci sia un uomo libero didecidere. Da sé. E di sbagliare. Eticamente, a te-sta alta.

EMANUELA AUDISIO

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Gli invisibiliLa più grossa banalitàche si sia mai dettaè che l’arbitro bravoè quello che non si notaNon sono d’accordo:quello che non si vedeè chi non decide,perché decidere costa,nella vita e in campoChi non ha il coraggiodi deciderenon potrà mai essereun buon arbitro

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gli episodi di violenza subiti

dagli arbitri l’anno scorso

451il gettone (lordo) per una gara

di serie A. Per la B è la metà

5 mila euroi chilometri percorsi in media

da un arbitro in una partita

12-14è il calo delle “vocazioni”

Solo 4 mila nuovi arbitri

- 12,7%

ATTREZZI DEL MESTIEREIl cartellino rosso per espellere

e quello giallo per ammonire i calciatori

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

Quando la fedelascia il cieloe va alla guerra

STEFANO MALATESTA

L’illusione che al mondo esista almenoun luogo inespugnabile è stata ricorrenteper ogni religione. Ora un libro di Peter

Harrison fa il censimento degli edifici di culto che i sacerdoti -cristiani, buddisti o musulmani - più che al potere divinoaffidarono a mura, torrioni e difese naturali

DioFortezze

di D

urante la rivoluzione cultura-le in Cina e dopo la rivolta diLhasa, quasi tutti i monasterifortificati tibetani, i “dzong”,vennero rasi al suolo dai sol-dati cinesi. Si salvarono solo,

per ordine personale di Zhou Enlai, il mini-stro degli Esteri della Repubblica popolarecinese, alcuni tra i più vasti e famosi mona-steri che sorgevano nelle vicinanze della ca-pitale, insieme con il Potala, la residenza in-vernale del Dalai Lama, che innalza versol’infinito le immense mura piegate all’indie-tro, costruite con mattoni essiccati al sole,bastioni di terra e paglia e pietre rozzamentetagliate. Progettato in alto, a differenza deglialtri monasteri precedenti, per essere vistoda lontano e per dare un’immagine di pos-sanza, questo straordinario edificio sembra-va dominare la valle dello Chiciu e la vastamoltitudine di tutte le razze che sciamavalungo le strade di una città nata senza un pia-no prestabilito e sviluppatasi capricciosa-mente. In altri tempi doveva testimoniareun’immagine di eternità e di invincibilità, diluogo inaccessibile e inespugnabile del DalaiLama che a partire dal Seicento, con l’appog-gio dei mongoli, era diventato l’uomo o la di-vinità più temuta e riverita del Tibet.

Il buddismo nella sua forma tantrica, piùmagica e mistica del buddismo ortodosso,aveva fatto molto per trasformare i rozzi abi-tanti del paese in esseri compassionevoli esaggi. Ma le ferree leggi della politica e dellaguerra erano state applicate anche nel paeseche a molti europei sembrava essere il regnodella beatitudine e della eterna giovinezza, efortificare i monasteri, facendoli difendereda monaci-guerrieri, era una precauzioneobbligata per chi non volesse scomparire.«Sotto le genuflessioni e gli inchini, la perfi-dia degli abati era incommensurabile», dice-va Giuseppe Tucci: «Ma i pellegrini non si ac-corgono di queste ignobili lotte tra lama e re-spirano con commossa semplicità quell’ariaserena e raccolta che sembra scendere dal-l’empireo».

Il mito dell’inviolabilità del Potala, almenopresso i tibetani che erano lontani dall’im-maginare l’efficacia letale del ratta-tà dellemitragliatrici Maxime, durò fino a quellastramba incursione inglese del 1904 guidatadal colonnello Francis Younghusband, l’ul-tima e la più invereconda tra le imprese del-la Britannia rules the waves. Ossessionatidall’espansionismo russo, dagli intrighi ci-nesi e dalla teoria che il vuoto in politica nonesiste, alcuni personaggi dell’establishmentinglese, tra i quali c’era il viceré dell’India,Lord Curzon, avevano incoraggiato una spe-dizione a Lhasa, mentre il governo era con-trario ad una vera annessione ma disattentoe come annoiato di fronte all’ipotesi di dareuna soluzione ragionevole per un paese dicui non si conosceva quasi nulla.

Così un’accozzaglia inverosimile di truppeimperiali, che comprendeva soldati di primis-simo ordine come i gurkah e i sikh, mandatinaturalmente all’avanguardia, e poi patani,balti, parsi, dogra, irlandesi, inglesi, scozzesi,

tibetani, abitanti del Bhutan e del Sikkim, pre-se ad avanzare in direzione della capitale conla più grande incertezza, e molti temevano diessere caduti in una trappola dei malefici la-ma. Poi Younghusband diede l’ordine di at-taccare il complesso monastico di Gyantse e imonaci si difesero con patetici moschetti chescoppiavano tra le mani ed erano protetti dacorsetti contro le frecce avvelenate, e i giorna-li in Inghilterra faticarono a nascondere che siera trattato di un massacro di inermi. Quantofossero impegnativi questi scontri lo si puòdedurre da un diario tenuto da un ufficiale in-glese, datato agosto 1904: «18 agosto: visita almonastero, monaci furiosi, gimkana. 19: unodei lama impiccato, partita di pallone. 20: cor-se a cavallo. 22: pesca sportiva». Non ci fu nes-sun bisogno di attaccare anche il Potala, dovepochi giorni più tardi venne firmato un accor-do anglo-tibetano: nessuno voleva un nuovomassacro. Quelle mura gigantesche si eranorivelate inutili quando non c’era nessuno ca-pace di difenderle.

L’illusione che nel mondo esistesse alme-no un luogo imprendibile, dove andarsi a ri-fugiare in caso di estremo pericolo, dove laviolenza delle armate del nemico si sarebbeinfranta contro la maestosità della natura econtro la robustezza delle mura ciclopicheerette dall’uomo, è stata un sogno ricorrentedelle società religiose che probabilmente siattendevano un intervento dall’alto in lorofavore. Andando da Teheran verso il Caspioe salendo le montagne sopra Qazvin, si entrain quella che una volta veniva chiamata laValle degli Assassini, descritta in un bel librodi Freya Stark. Questa banda di tagliagolepersiani, musulmani di ramo sciita apparte-nenti alla setta ismailita, che facevano fintadi obbedire alla volontà di Dio, avevano ri-dotto la Grande Politica all’essenziale: l’as-sassinio diretto dei capi che concentravanonella loro persona tutto il potere politico. Unmetodo semplicistico di risolvere alcuniproblemi che aveva sempre affascinato glieuropei, sorpresi dai risultati ma che ancoranon osavano comportarsi disinvoltamentecome Hassan y-Sabbah, il Grande Vecchiodella montagna. Su ordine del Gran Maestrogli “assassini” partivano dai castelli fortifica-ti di Alamut e non si sarebbero fermati senzaprima aver compiuto la loro missione. Pochidi loro riuscivano a tornare, quasi tutti veni-vano massacrati sul posto ma il sistema con-tinuava a funzionare e il Grande Maestro ri-maneva intangibile nella rocca.

Poi commisero lo stupido errore di ucci-dere Jagatai, il secondo figlio di Gengis Khan,in un periodo in cui le armate mongole nonconoscevano rivali e dominavano il mondo.La fine degli “assassini” era segnata dal mo-mento in cui nella valle arrivò un distacca-mento dell’esercito mongolo di Hulagu, l’Ilkhan di Persia, che nei mesi precedenti ave-va preparato tutto l’occorrente per un asse-dio in grande stile in montagna. Noi conti-nuiamo a credere che l’“Orda mongola”, co-me sa dimostrare il senso della parola orda,fosse una massa feroce di guerrieri senza re-gole né leggi che vincevano in forza della lo-ro brutalità. In realtà l’“Orda mongola” era lapiù perfetta killing machine che mai sia ap-parsa nella storia, capace di mettere in attotecniche di guerra molto sofisticate. Come imongoli cominciarono a innalzare le torriper l’assedio, il Gran Maestro uscì dalla suafortezza facendo atto di sottomissione, ma ilgovernatore rifiutò di arrendersi e, quandoqualche tempo più tardi, il castello fu co-stretto a capitolare, tutti gli esseri viventi, uo-mini, cani, gatti, ebbero la gola tagliata. E tut-ti i libri eretici della grande libreria, famosacome quella di Medina, vennero bruciati.

In questi giorni sta uscendo un libro che èuna sorta di accurato, affascinante censi-mento di tutti gli edifici e i luoghi religiosi chesiano nati come fortezze o che siano stati for-tificati più tardi: Fortezze di Dio di Peter Har-rison. Una delle sorprese, fino ad un certopunto, di questo libro è che i più tenaci co-struttori di torri di guardia e di bunker, di fos-sati e di mura con merli e con feritoie dalla va-stissima tipologia sono stati i cristiani. Gliabitanti di Roma, abituati ad entrare ed usci-re da San Pietro e avendo vissuto lì per tuttala vita, difficilmente si rendono conto di co-me il Vaticano sia interamente fortificato,circondato da mura che risalgono al Cinque-cento, e che sotto il tetto della Cappella Sisti-na era stato costruito un cammino di rondamerlato. Questo sistema di fortificazioniaveva come piazzaforte Castel Sant’Angelo,altro luogo definito inespugnabile, forse perla presenza di una statua dell’Arcangelo Ga-briele: qualcuno credeva che al momento

MATTONI BENEDETTIDall’alto in questa pagina

Hunawihr, Alto Reno (Francia);

Cefalù (Italia); Torre nador del ribat,

Sousse (Tunisia); Dzong di Paro

(Buthan). Dall’alto nell’altra

pagina, Kwidzyn, Marienwerder

(Polonia); minareto della Grande

Moschea, Kairouan (Tunisia);

abbazia di Thornton, Lincolnshire

(Inghilterra); chiesa di Debra Berhan

Selassie, Gondar (Etiopia)

Nella foto grande, Yumbu Lagang, Tibet

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

Il Vaticano e CastelSant’Angelo,il Potala nel cuoredel Tibet, i castellifortificati di Alamutnella Valledegli Assassini:tre esempidi cittadelle sacrepuntualmente violate

opportuno il bell’Arcangelo avrebbe fattosentire come era affilata la sua spada. Quan-do Clemente Settimo Aldobrandini osò sfi-dare Carlo Quinto fidando, non completa-mente a torto, nelle assicurazioni tecnichefornitegli da Antonio da Sangallo il Vecchio, itercios spagnoli e i lanzichenecchi aprironoun varco nelle mura di Roma e il Papa riuscì amalapena a ripararsi nel castello. Un assedioche durò sette mesi e che ebbe termine conuna resa umiliante, ma con le fortificazioniancora intatte.

I cristiani sembrano anche essere stati iprimi a fortificare le loro residenze, non conintenti minacciosi ma a scopo puramente di-fensivo e come conseguenza di uno degli av-venimenti più enigmatici della storia del Cri-stianesimo. A pochi anni dalla vittoria di Co-stantino e dal trionfo dell’insegnamento diCristo, in Egitto un numero crescente di cri-stiani della prima ora e che aveva subito per-secuzioni, invece che rimanere nelle città or-mai sicure ed amiche aveva scelto la fuga ver-so la solitudine del deserto, facendo della ri-nuncia l’unica risposta possibile al messag-gio evangelico. Anche se è dubbio che Cristoabbia veramente insegnato un’etica che im-plicava l’ascesi, il numero degli eremiti siandò moltiplicando. I monasteri che venne-ro poi costruiti si trasformarono in fortinisahariani color ocra con alte mura e torri didifesa per respingere gli attacchi dei brigantie dei nomadi. Da allora i cristiani non hannofatto altro che circondarsi di mura merlate, ditorri di guardia, di fossati, di bastioni e di tor-rioni, ovunque fosse possibile costruirli, etrasformando le fortezze degli avversari inpiazzeforti che diventarono famose con iltempo per la loro importanza strategica, Co-me il Krack dei cavalieri (una volta conosciu-to come Hosn al-Akrad il castello dei Kurdi),con una tale profusione di materiali e di-spendio di danaro da far pensare che il loropresunto amore per la povertà e per la sem-plicità fosse solo un optional.

Alcune tra le più importanti fortificazionireligiose erano raggruppate in un sistemache andava al di là della semplice difesa e chetendeva a controllare l’intero paese, come imonasteri fortezza della Russia del XV e XVIIsecolo e i castelli eretti dai cavalieri teutoniciin Prussica (ora Polonia) come il complessodi Malbork (Marienburg), trasformato nellapiù grande, ricca, solida e spettacolare resi-denza del genere in Europa. L’edificio piùbello era quello dell’Hochmeister, cioè il pa-lazzo del Grande Maestro, il centro fastoso diuna città monastica che nelle giornate di so-le appariva e appare ancora, anche se invasodai turisti, in tutta la sua fiabesca leggiadria.Ma quando soffia il vento del Baltico e le nu-vole nere scivolano basse quasi a toccare imerli, il castello rivela un cuore di tenebra,come dicono i visitatori polacchi. Non moltolontano da qui Hitler aveva costruito i bunkerdella Wolfeshanze, la Tana del lupo, da doveaveva guidato l’attacco alla Russia. Le ultimefortificazioni cristiane di cui si ha notizia fu-rono quelle copte, ordinate nella metà del-l’Ottocento dal patriarca Cirillo Quarto delmonastero di Sant’Antonio, in Egitto.

Nel libro un vasto spazio è dato alle fortez-ze islamiche, tra le quali importanza straor-dinaria avevano i Ribat fortini di confine, do-ve i combattenti della Jihad vivevano se-guendo le rigorose, a volte fanatiche regolereligiose. Anche se nel Medio Oriente nessu-no più costruisce fortini nel deserto comequelli di una volta, i centri di resistenza, lepiazzeforti militari di tutti quelli che com-battono per la liberazione della Palestina, as-somigliano un po’ ai Ribat almeno nello spi-rito. Si ha così l’impressione che i maometta-ni non abbiano mai finito di erigere le fortez-ze di Dio, in funzione aggressiva, e siano so-spinti eternamente da una religione che nonriesce a quietarsi se non nella conquista enella guerra, e certamente se paragoniamotutto questo attivismo militaresco con la pie-tas così diffusa oggi nel mondo cristiano cisono pochi dubbi su chi sia l’aggredito e chisia l’aggressore.

Ma questa è una prospettiva sbagliata, per-ché in realtà se i nostri preti non vanno a com-battere in Medio Oriente dipende dal fattoche in Occidente è avvenuta la divisione di ciòche spetta a Cesare e di ciò che spetta a Dio edè lo stato laico che si è addossato il compito dirappresentare e difendere la nostra civiltà equindi anche la sua anima. Nell’Islam questadivisione non è mai avvenuta ed ogni prete ènello stesso tempo un soldato, e dunque te-nuto a combattere fino a quando non si ca-pirà che questi sono conflitti in cui non esi-stono vincitori ma solo perdenti.

IL LIBRO

Si intitola “Fortezze di Dio.

Castelli, monasteri, templi:

quando le religioni si

preparano alla guerra” il libro

scritto da Peter Harrison,

ricercatore dell’Università

di York (Oscar Mondadori,

300 pagine, 10,40 euro).

L’autore descrive e analizza

esempi di architettura

religiosa fortificata

nel cristianesimo, nell’islam

e nel buddismo tibetano

in varie parti del mondo:

Europa, Nordafrica,

Himalaya. Il libro è corredato

da una serie di immagini,

alcune delle quali riprodotte

in queste pagine.

In libreria dal 12 settembre

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la letturaPrimo giorno di scuola

Nel 1922 a Edimburgo il rettore dell’Universitàera l’uomo che aveva creato il bambino che non volevacrescere. E tuttavia nel discorso di apertura di quell’annoscolastico, pubblicato ora da Boringhieri, si lasciòalle spalle i sogni e parlò ai ragazzi di guerra, politica,responsabilità. Una lezione anche per gli studenti di oggi

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

sformato la sua vita. La lancio solo co-me idea e lascio che sia ad elaborarla ilmio successore. Non penso che questotema sia stato ancora trattato.

Il mio argomento è il coraggio, il mo-do in cui dovreste usarlo nella gran bat-taglia che sembra profilarsi tra la gio-ventù e i suoi antenati, intendendo conla prima parola voi e con la seconda noi.Voglio che sia chiara la mia posizione: igiovani hanno lasciato per troppo tem-po esclusivamente nelle nostre mani le

decisioni nelle questioni nazionali chesono più vitali per loro che per noi. Quelche riguarda il prossimo scontro, peresempio, e il motivo per cui l’ultimoconflitto è iniziato. Uso quella parola,perché, penso che la guerra comincicon una sfida; ma il mio scopo è tutto ilcontrario dell’antagonismo: è la soli-darietà. Voglio che sia chiaro per tuttivoi che per i giovani è giunto il momen-to di ottenerla, e ci vuole animo. Questoè il motivo per cui venite a Saint-An-

drews: per trovare il coraggio. I vostri antenati non hanno niente a

che vedere con la causa prima dellaguerra: sappiamo qual è la nazione cheha da lavare quella macchia; ma per cir-ca cinquant’anni non abbiamo badatoai rulli del tamburo lontano, non arrivodire per mancanza di preparazione mi-litare, e quando la guerra è arrivata, ab-biamo detto ai giovani che dovevanocavarci d’impiccio, abbiamo pronun-ciato un sacco di fandonie invece di ri-

velare la versione vera e i cimiteri a cuiessa conduce. Non volevamo inganna-re nessuno, molti di noi erano onorati eignoranti come gli stessi giovani; maquesto non ci assolve dall’esserci mac-chiati di colpe gravi come la stupidità ela gelosia, i due neri difetti della naturaumana i quali, più ancora dell’amoredel denaro, sono alla radice di ogni ma-le. Se preferite lasciare le cose come so-no, allora probabilmente vi deludere-mo un’altra volta. Non siate troppo si-curi che abbiamo imparato la lezione eche in questo stesso momento noncontinuiamo a esitare per sentieri checonducono all’Inferno.

Non voglio certo affermare che a unanazione non possa capitare niente dipeggio di una guerra. Ci sono circo-stanze in cui nient’altro può dare al-trettanto immediatamente coesione epenso che l’ultimo conflitto lo abbia di-mostrato, quando il conflitto esplose erimase solo una cosa da fare. C’è unaforma di anemia che è più marcia per-fino di una guerra ingiusta. Il nostro co-raggio è veramente alla fine quando ab-biamo paura nei momenti brutti di ri-correre all’arbitraggio finale delle armi.Penso proprio che tutti i più forti dellanostra stirpe, vivi o morti, su questo sidiano la mano.

Chi non combatte, è morto;e chi muore combattendo acquista. Ma se si deve proprio combattere, a

maggior ragione bisogna sapere per-ché, prima che inizi, e prendere la paro-la quando si tratta di decidere. I giovaniche andarono in guerra non sepperoniente, non ebbero nessuna voce in ca-pitolo; sono sicuro che i superstiti, quioggi dovete essere molti, vogliono chevoi siate più saggi di quanto sono statiloro e che essi stessi sono senz’altro de-cisi ad essere più accorti la prossimavolta. Se volete ottenere quella solida-rietà che, quando è guadagnata, resteràper comune beneficio, sarà formandoun insieme con questi uomini, non persfida, ma per passione, non per scopiegoistici, ma per il bene della patria. Al-lo stesso tempo essi hanno un baluardo:possono confrontarsi con un generaleche è cordiale con loro come penso cheprima mai fosse accaduto, dopo la finedi una guerra. Forse la cosa più saggiasarebbe che noi, gli anziani, scegliessi-mo come rettore uno di questi giovanisopravvissuti al massacro. Di sicuro saalcune cose sulla guerra che ci farebbebene sentire. Se il suo tema preferito

JAMES MATTHEW BARRIE

Coraggio, non fate i Peter Pan

Qui a Saint Andrews avretemolti rettori che continue-ranno a fiorire molto dopoche quelli più scialbi, comeme, saranno morti, marcitie dimenticati. Rose a di-

cembre: certo sapete che qualcuno haaffermato che Dio ci ha dotati di me-moria perché potessimo godere di queifiori fuori stagione. Ma io non invidio igrandi. Nella mia esperienza — e sonosicuro che potete dire anche nella vo-stra — le persone a cui ho voluto più be-ne e a cui mi sembrava più bello esserelegato — le mie rose decembrine — era-no gente comune. Eppure vorrei, per lospazio di quest’ora, prendere l’aspettodi qualcosa di importante, per venireincontro alle vostre esigenze. Credoche abbiate espresso un debole per meperché sono stato sbozzato dalla vostrastessa cava, ho camminato tra simili ce-spugli accademici e mi sono fatto spa-zio sulla strada che tra poco anche voiimboccherete. Vorrei potervi dotare diun bastone per quella marcia che è pe-ricolosa, perché c’è molto in me che na-scondo agli altri: per aiutarvi esporròogni segreto della mia mente.

Ma, ahimé, quando per il rettore vie-ne l’ora di rispondere alla sua chiama-ta, non riuscirà certo a diventare lo stu-dente che era e a quel punto la sola por-ta che conduce a voi si chiude. Noi, piùvecchi, siamo più interessati a voi chenon il contrario. Per voi infatti non sia-mo davvero importanti. Ho dimentica-to da un bel po’ il discorso del rettoredei miei tempi, perfino chi era, ma miricordo benissimo di essermi arrampi-cato su una statua per mettergli i suoicolori intorno al collo e di essere statopoi buttato giù tra insulti. Noi ricordia-mo le cose importanti. Non vi posso da-re un bastone per il viaggio, ma forse velo posso descrivere: come si fa a usarlo,perderlo e ritrovarlo, per appoggiarsipiù che mai. Ognuno di voi — così vuo-le la legge — lo intaglierà da solo: il suonome è Coraggio. Oggi parlerò molto diquesto tema. Non c’è nient’altro di cuivalga la pena di parlare a uomini o don-ne, che siano studenti, laureati o con icapelli bianchi. [...]

Un buon argomento per il discorsodel rettore è il disastro in cui egli ha tra-

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Seconda stella a destra e poidritti fino al mattino. Se-cond star to the right and

keep on flying. Chi non si è sen-tito vibrare ascoltando PeterPan? Chi non avrebbe volutovolare verso l’Isola che non c’è?Intorno a James Matthew Bar-rie, inventore del bambino chenon voleva crescere, ruota unbusiness editoriale, espositivo,spettacolare, da fiaba. Non soloombre, fate, pirati. Il 3 giugno2007, settantesimo anniversa-rio della morte, esce Peter Panin Scarlet di Geraldine McCau-ghrean, seconda parte del ro-manzo rivisitato. Il New York Ti-mesha rotto l’embargo sulla tra-ma e gli editori, adesso, fanno agara per accaparrarsi gli scrittiminori.

Scritti a penna, sulle pagine diquei taccuini inizi Novecentorilegati di nero, profumo d’in-chiostro, carta spessa, rigata.My lady nicotine, omaggio al ta-bacco in voga tra i fumatori ri-masti, pubblicato da Fredonia,editore olandese che stampa li-bri inglesi, e Courage — Corag-gio, ragazzi — inedito che ap-proda a fine ottobre nelle libre-rie (curato da Luca Scarlini, Bol-lati Boringhieri editore). Corag-gio da trovare dentro, in fondoall’anima. Per chi torna a scuo-la, per chi comincia l’università.Coraggio contro la retorica,contro la guerra. «Non vi possodare un bastone per il viaggio,ma forse ve lo posso descrivere(...) Ognuno di voi — così vuolela legge — lo intaglierà da solo: ilsuo nome è Coraggio. (....) Impa-rate prima di tutto come nasco-no le situazioni che scuotono ilmondo e come possono esserecontrollate».

St. Andrews, Edimburgo, au-la magna dell’università, au-tunno ‘22. Barrie spiegava cometrovare il coraggio per ricomin-ciare a studiare. «Quella matti-na in accademia, nel grande pa-lazzone cupo stile Windsor —racconta Scarlini — arrivaronodue genitori, gli occhi ingessatinel dolore. Avevano perso un fi-glio in guerra. Guardavano in-creduli il diploma d’onore... vo-levano indietro un figlio imper-fetto, con mille difetti, non un fi-glio perfetto riconosciuto dalloStato. Barrie è polemico. Invitaal coraggio di vivere, non a quel-lo di combattere. Invita al co-raggio nascosto nelle piccolecose». Essere coraggiosi, to bebrave. Barrie cita Stevenson,malato di tubercolosi, fuggito inPolinesia, per gli indigeni eraTusitala. Barrie invita al carpediem rivisitato. Coraggio, resi-stenza, resilienza, quella deimetalli che non si spezzanomai. Non si scappa più verso loscintillio delle stelle, si resta. Siva a scuola.

Intanto fioriscono le iniziati-ve per il settantesimo dalla mor-te. A Kirrimuir restaurano la ca-sa museo. A New York, The Bei-necke, biblioteca privata, lavo-ra a My heart in company, foto,biografie, libri, taccuini. In In-ghilterra e negli Stati Uniti Ne-verland, da The lost boys di An-drew Birkin, è il testo con film suBarrie più richiesto degli ultimianni. In Francia esce a giorni J.M. Barrie, l’enfant qui ne voulaitpas grandir di François Rivière(Calmann-Lévy). Ora la sindro-me di Pan combacia con il co-raggio di vivere. Con il coraggiodi studiare senza sapere cosasuccederà domani. Barrie citaW. E. Henley: «Sono padrone delmio fato, capitano della miaanima».

Addio all’Isolache non c’è

Invito a vivere la vita reale

AMBRA SOMASCHINI

fosse quello tipico dei miei colleghi:l’essere diligenti, allora dovrei temereche dicesse a molti di noi di metterci fer-mi seduti e non fare altri danni.

Ovviamente la metterebbe in modopiù cordiale, anche se non credo pro-prio che otterrete i vostri diritti con lagentilezza; noi siamo molto attaccati aquello che abbiamo e così sarete voi al-la vostra età. Ma non ci prendete a ma-le parole, forse siamo ostinati e confu-sionari, ma vi amiamo più di chiunquealtro e una volta che avremo ottenuto lavostra solidarietà, allora vi daremo persempre il benvenuto. Per favore nonprendete nessuno a male parole. Inguerra non erano quelli in trincea a esa-gerare, come ben qualcuno ha detto:“l’Inferno non conosce furia pari a unnon combattente”. Forse oggi ci sonostudenti che in questa sessione hannodeciso di cercare l’immortalità e vor-rebbero sapere un modo facile di arri-varci. Questo è uno, ma non facile co-me pensate. Non attribuite mai a un ne-mico moventi più meschini dei vostri.Niente deprime altrettanto il valoremorale; rinunciate e sarete grandi.

Un altro modo sicuro di raggiungerela fama è essere sicuri di quello che vo-lete fare. Un pensiero solenne recitache nessuno — se davvero è importan-te — ne sia certo. Pensate ai grandi del-la terra: i politici. Non mettiamo in di-scussione quello che dicono, ma inter-veniamo nella dimensione del passatosu quello che hanno dichiarato. Nel1922 ci chiediamo tutti, e anche loro,quello che volevano dire nel 1914 e do-po. Pubblicano libri nel tentativo discoprirlo; sia gli uomini di azione chequelli di pensiero. Ci sono eccezioni.Non possiamo pensare sempre che inostri statisti siano delle “bocche mie-late con dietro delle menti”; molti di lo-ro sono i migliori tra noi, seri e attenti inquel che fanno, niente è più facile chemaltrattarli a parole. La spiegazionesembra essere solo questa: è così diffi-cile sapere cosa vuoi dire, specialmen-te quando diventi un pezzo grosso. Aquanto sembra non puoi più permet-terti dei “sì rosso ruggine e dei franchino di lana” (Pene d’amor perdute, AttoV, scena II), è finita per sempre la sem-plicità, che è bella come il volto divina-mente comune della Miss Kelly diCharles Lamb. I dubbi alimentano l’in-certezza: inducono un’aura di perico-lo. Senza sospetti non ci sarebbe statala guerra. Se veniste chiamati a Dow-

ning Street a discutere quello che vole-te fare dei vostri genitori con il Primoministro, quello non sarebbe sospetto-so, almeno non in apparenza; ma ricor-datevi il modo di pensare della vostragenerazione, e quando vi passa il por-tatoast vi direte, se vi piace pensare inquel modo: “Chissà che voleva dire conquel gesto”. [...]

Se questo vostro atteggiamento è so-lo passivo, imbronciato, negativo, co-me mi sembra in buona parte, senza fi-

ducia nelle nostre capacità e nella cer-tezza di un futuro deprimente, alloranon c’è niente da fare né per un uomo,né per una donna. Proprio l’opposto diquello che chiedo io. Non state in di-sparte, a disprezzare e rifiutare di cre-dere, ma venite a dare una mano e suquesto sono categorico. Dopo tutto,abbiamo dimostrato un bel coraggioe la vostra parte è aggiungerne an-cora di più. Avete davanti anni glo-riosi se decidete di considerarli ta-li. Dio è ancora in cielo. E alloraavanti, cuori coraggiosi. Verso qua-li avventure non lo so proprio, ma

so che Dio attende di vedere se sietedotati di spirito di avventura. Lo soche la solidarietà è solo un primo pas-so, ma non conosco quelli che la se-guono. Essa è uno strumento: cosaci farete? Pochissimo, se pensatesolo a voi; molto se quello che è nelcuore dei vostri pensieri è un futu-ro che voi stessi non avete moltasperanza di riuscire a vedere.

Imparate, prima di tutto, comenascono le situazioni che scuoto-no il mondo e come possono es-

sere controllate. Dubitate di tut-ti gli anziani che vorrebbero

negarvi il diritto apartecipare. Co-minciate a dubita-re di tutti quelli chericoprono ruoli im-

portanti, con l’eccezione,ovviamente, dei vostri pro-

fessori. Ma invece sì per tutti gli altri cheinsegnano, ma non nascondendo il lo-ro ruolo, come fanno alcuni, in una fin-ta; evitate questi rischi. Se è necessarioche spingiate qualcuno di noi via dainostri posti, spingete senza problemi;scoprirete che ci vuole qualche sforzo.Eppure il coraggio fa miracoli! Perfinol’incompetenza può produrre risultatiincredibili, se opera con determinazio-ne. La guerra ha prodotto almeno ungran risultato: ha eliminato la primave-ra. E, ottenuto questo, i nostri capi sisono stupefatti vedendo che le altrestagioni non si comportano come alsolito. La bella stagione è sepolta neicampi di Francia e altrove. Forse almomento della prossima eruzione iresponsabili sarete voi e i vostri figlisi troveranno intrappolati dalla la-va E questo, forse perché quest’an-no avete lasciato scivolare via le

cose. [...](Traduzione di Luca Scarlini)

‘‘Dritto fino al mattinoAvete davanti anni gloriosise decidete di considerarlitali. E allora avanti, cuoricoraggiosi. Verso qualiavventure non lo so,ma so che Dio attendedi vedere se siete dotatidi spirito di avventura

‘‘

IL LIBROIl testo di questa pagina è tratto

da “Coraggio, ragazzi!...” di James

Matthew Barrie (Bollati Boringhieri,

64 pagine, 7 euro). In uscita

a fine ottobre, raccoglie

due scritti sul crescere

Nella foto Barrie (nel cerchio)

insieme al corpo docente

della Saint Andrews

il giorno del discorso

il 23 maggio 1922

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

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LA PRODUZIONEDal 1983 a oggi, i film prodotti

a Holywood sono 45mila

Quelli usciti nell’ultimo anno

sono invece 550 circa

GLI INCASSIIl cinema made in Usa vende

ogni anno 2.6 miliardi di biglietti

Il tasso di crescita del volume

d’affari è però negativo: -7.8%

IL PRIMATOLa palma del film più visto

nella storia del cinema

statunitense spetta a Titanic

Incasso: 1.800 milioni di dollari

HOLLYWOOD

È apparso nelle sale un paio di mesi fa, insiemeal gemello- rivale americano, e lo ha surclassatoper numero di spettatori, nonostante sia ancora

escluso dalle grandi platee occidentali. Il campione made in India“vola” tra i grattacieli, innamorato di una giornalistacome il collega yankee. Ora debutta sullo schermo anche in Italia

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

ROMA

Ai ragazzini di Singapore edi Bombay di Supermannon gliene importa asso-lutamente niente. Non

hanno gli zaini e i diari con la “S”, nonchiedono in regalo la maschera rossa eblu col mantello, non fanno colazionenella sua tazza. Lo ignorano, come fareb-be una diva che volesse sedurlo, per unaragione altrettanto elementare: non san-no chi sia. I ragazzini di Singapore gioca-no con le figurine, imparano a memoriale mosse e si buttano dai balconi per vo-lare come Krrish: uno di undici anni l’al-tro giorno è finito in ospedale con tutte edue le gambe rotte, gli è andata bene. Unragazzo di venti, molti per sentirsi anco-ra bambino ma succede sovente, è salitosul tetto del cinema dove aveva appenavisto il film e si è gettato atterrando, natu-ralmente, non sul tetto di fronte ma sullafolla per strada. Krrish il supereroe ha do-vuto fare un appello in tv: per favore, nonbuttatevi. Le mie acrobazie sono finte,sono frutto di effetti speciali. Non so vo-lare, nessuno sa volare. Non fatelo. Quel-la sera milioni di persone hanno seguitoil programma. Subito dopo talk show erecord di contatti.

Il fatto che esista in India un supereroeidentico a Superman di cui noi ignoria-mo il nome, l’aspetto e le gesta, il fatto cheabbia molti più spettatori del SupermanReturns americano e che tuttavia unabuona metà del mondo, forse i tre quarti,non abbia neppure idea della sua esi-stenza è una di quelle notizie minori chevalgono più di un trattato di sociologiasul relativismo culturale, sulla conviven-za autistica tra abitanti dello stesso pia-neta, sull’egocentrismo sprezzante di chicomanda o pensa di farlo. C’è un altromondo dall’altra parte del mondo, soloche noi gli diamo le spalle. C’è una festaintergalattica in corso, ci sono miss mon-do che sbattono gli occhi, mister musco-lo che cantano e ballano, folle che im-pazziscono solo che noi non li vediamo:sono dietro, altrove. Sono fuori dall’oc-chio di bue che illumina i nostri confini

perciò non esistono.La notizia, scarna, è questa. Nelle stes-

se settimane di giugno in cui in Americae poi in Occidente usciva nelle sale Su-perman returns, numero cinque della sa-ga Usa, in India e poi in tutto l’Oriente de-buttava Krrish, dieci milioni di dollari perprodurlo: l’altro Superman, il Supermand’Oriente. Nei primi due mesi nelle salesono stati venduti più biglietti per Krrishche per Superman. Il prezzo del biglietto

è molto più alto ad Ovest che ad Est dun-que al maggior successo di pubblico noncorrisponde un uguale incasso. Tuttaviasiccome le persone contano almenoquanto i soldi — c’è chi resiste a pensareche contino di più — il dato sulla popola-rità è questo: l’attore indiano è più cele-bre di quello americano, ha più fan club esiti internet dedicati: pochi in inglese,certo, la maggior parte in lingua hindi, inurdu. Parecchi fan club sono nati in Afri-

ca, molti in Oriente Estremo. Lui si chiama Hrithik Roshan, 32 anni:

è un divo stellare. Veste solo IsseyMiyake, si profuma con essenze CalvinKlein. Ha un gatto persiano, si apprendedalle copertine, piange a vedere Titanic.Ha una moglie e da sei mesi un adorato fi-glio maschio, rilascia interviste dopo me-si di attesa e solo in lussuose suite inso-norizzate, sempre circondato da dodicipersone. Primo film a sei anni, decine nelcurriculum attuale, molti dei quali diret-ti dal padre, attore a sua volta e poi regi-sta. Siccome tutto il mondo è paese an-che in India funziona così: per diventareun divo del cinema è consigliabile esserefigli e nipoti di divi del cinema. Il padre diHrithik (il regista) si chiama Rakesh Ro-shan, gira sul set in camicia bianca di li-no, coppola bianca e scarpe da tennistecno, pure bianche. Suo zio è Rajesh Ro-shan, musicista e fratello di Rakesh: suala colonna sonora del film. Suo nonno erapure un compositore per il cinema, cele-berrimo in quella parte del mondo: ilMorricone d’Oriente. Parliamo dunquedi una terza generazione: capita spessoche si riposino, che vivano di diritti d’au-tore e dividendi. Hrithik al contrario è at-tivissimo nonché dotato di un’avvenen-za alla quale ha contribuito il gene dellamadre, lei pure ex attrice.

Una bellezza selvaggia e coltivata in-sieme: occhi verdi, lunghi capelli liscisempre perfettamente in piega, pettora-li e tricipiti da atleta del peso. Naso im-portante, mento volitivo: trenta centi-metri di faccia, qui nel film per la metàmascherati di nero, la mascella s’imponecomunque. Un po’ John Travolta un po’Ridge di Beautiful,Hrithik si ispira al pro-tagonista di Matrix e canta come Dome-nico Modugno. I suoi film, come tuttiquelli della Hollywood di Bombay, sonomusical: perciò questo Superman sedu-ce nel film la sua giornalista (Miss Mon-do 2000: Priyanka Chopra, una specie diMonica Bellucci però più bella) cantan-do e ballando per lei. Sulle colline, sotto laneve. Fred Astaire mascherato da supe-reroe: una cosa che a vederla in questametà del mondo fa sorridere, nell’altra leragazzine si tagliano le vene in senso fi-gurato e non: tentati suicidi per amore

Krrish, l’eroe indiano che haCONCITA DE GREGORIO Hrithik Roshan, l’attore che gli presta

il volto, ha più fan club e siti dedicatidei suoi concorrenti hollywoodianie si avvia a diventare un divo stellare

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LA PRODUZIONEDall’anno della sua fondazione

a oggi Bollywood ha prodotto

oltre 67mila film. La produzione

del 2005-2006 è di 1.041 film

GLI INCASSIOgni anno Bollywood vende

nel mondo 3.8 miliardi di biglietti

Il tasso di crescita del business

è in decisa espansione: +16%

IL PRIMATOIl film più visto nella storia

del cinema indiano s’intitola

Sholay. Il suo incasso totale

arriva a 50 milioni di dollari

BOLLYWOOD

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

virtuale a centinaia. L’anteprima italiana di Krrishsi terrà a

Roma nel corso della rassegna “Cinemanel Mondo” organizzata dall’associazio-ne culturale Apollo 11, la stessa che ha fat-to da incubatrice all’Orchestra multicul-turale di Piazza Vittorio di cui in questigiorni esce il documentario acclamato aLocarno. Dal 13 al 18 settembre nel corti-le dell’Itis Galilei, quartiere Esquilino, aun passo dalla piazza dove vivono, ap-punto, concentrati oltre l’immaginazio-ne gli immigrati delle comunità d’Orien-te. Proiezioni gratuite, prevista un’af-fluenza imponente. Presente in sala She-rif Arafa, regista di Halim e produttore diKrrish. La trama del film, che si presentacome il seguito del primo fantascientifi-co indiano (Koi mil gala, “Ho trovatoqualcuno”) è la seguente: un giovane ri-tardato e la sua amica si prendono cura diun alieno che per ringraziarli dona a luipoteri eccezionali. Dai due nasce un fi-glio, Krishna, che eredita i superpoteri. Ilgiovane è fidanzato con una giornalista(Priyanka Chopra, 24 anni, in predicatoper il ruolo di wonder woman a Hol-lywood) che è però minacciata da unoscienziato pazzo desideroso di distrug-gere l’umanità. Per amore di Pryanka Kri-shna assume l’identità di Krrish, eroe incappottone di pelle nera stile Prada vin-tage. Sulle locandine è in cima a un grat-tacielo, le falde del cappotto sbattono alvento, un elicottero lo minaccia. Il film ègirato a Singapore con effetti speciali av-veniristici. «È un uccello? È un aeropla-no? È Krrish?», dice la stringa d’inizio.

Questo Superman è «più veloce di unapallottola, più potente di una locomoti-va». Salta dai tetti in maschera e intantocorteggia l’amata con bucolici motivi,ballando mossette per lei. Anche Hol-lywood Bombay detta Bollywood è così:

più veloce di una pallottola più potentedi una locomotiva ma romantica, an-che, melodiosa e tanto, tanto rispettosadelle antiche tradizioni che il resto delmondo ignora, o dileggia, o denigra.Mille titoli all’anno: l’industria cinema-tografica più grande del mondo. Miliar-di di dollari, in Occidente una nicchia dicultori. Bernardo Bertolucci è uno di lo-ro. Poi c’è il business: Barrie Osborne ilproduttore del Signore degli anelli hadeciso di investire lì, vuole fare un film difantascienza ambientato in una città ri-masta senz’acqua. Dice che basterebbepochissimo per creare un ibrido di suc-cesso, un innesto fortunato tra cinemad’Oriente e Occidente: bisogna studiar-ci un po’, dosare diversamente gli ingre-dienti. «Con la loro energia potremmofare cose fantastiche». La loro energia, lenostre idee: chissà se funziona e a chiconviene. Forse si può fare di meglio, coltempo. Intanto è qualcosa dare un’oc-chiata in giro: accendere la luce su Krri-sh, affacciarsi, sapere che c’è.

I ragazzini di Singapore imparano a memoriale sue acrobazie e per imitarlo si buttanodal balcone di casa. Lui ha lanciato in tvun appello: è tutto finto, evitiamo disgrazie

Sono passati centodieci anni dal gior-no in cui i fratelli Lumière aprironol’India al mondo del cinema presen-

tando il 7 luglio 1896 sei loro film al Wat-son Hotel di Bombay. Ora Bombay sichiama Mumbai; il suo cinema, memoredell’antico appellativo coloniale, si chia-ma Bollywood, con un’etichetta ingrata amolti ma popolare nel mondo; e il cinemaè una delle grande consolazioni, una del-le grandi forme d’arte (in certe regioni) euna poderosa industria.

Poco importa che Bollywood, come ta-le, non esista. In altre parole, che non esi-sta qualcosa di simile a Cinecittà. Esiste,accanto al cosiddetto “cinema parallelo”— quello più colto, audace, sperimentale,“arty” del Bengala, del Kerala, del TamilNadu — l’idea-tipo di un cinema indianopopolare e unico, con regole e struttureprecise. Un incrocio tra melò, musical,film d’avventure, scandito con precisio-ne da intervalli musicali (spesso moltolunghi e almeno sei), sfarzoso e romanti-co, recitato quasi sempre in hindi, con-trappuntato a volte da intervalli poetici inurdu, imperniato quasi obbligatoria-mente su un triangolo amoroso, e inter-pretato da grandi star: da Om Puri a Sha-bana Asmi, da Nandita Das a Aamir Khan.Mimando un celebre slogan si potrebbedire “no star, no film”. Bollywood sa comesi coltivano le leggende e le sa creare. Saanche come tenerne vivo il mito.

Quando tre anni fa si elesse via Internetla star più popolare del mondo e della sto-ria del cinema, a sorpresa (ma non tanto)fu eletto Amitabh Bachchan, un bel si-gnore dalla barba bianca e dai capelli ne-ri che è anche uomo politico (moderata-mente di sinistra). Un miliardo di indianinon esiste per niente, così come non esi-stono per niente i mille e mille InternetCafé disseminati nel subcontinente. Ilpovero Olivier deve essersi agitato nellatomba.

È anche vero che in questi ultimi tempiil cinema americano, quello che ha con-quistato tutto il mondo e che finora non èriuscito a sfondare in India, sta aprendo-si un pertugio nella programmazione in-diana. Ma Bollywood continua a resiste-re nelle cifre. Quest’anno in India si sonoprodotti oltre mille film (per la precisione1041, in trentaquattro lingue e dialetti):un record mondiale, il doppio di Hol-lywood. Bollywood (nel senso della galas-sia dell’industria cinematografica india-na) dà lavoro a tre milioni di persone,conta su più di settanta milioni di fedelis-simi spettatori, occupa undicimila salesparse per il subcontinente, vende 3,8 mi-liardi di biglietti e incassa circa cinquemiliardi di euro all’anno (anche se spes-so, ci dicono le cronache, i finanziamentiprivati non sono proprio limpidi).

E intanto Hollywood,quest’anno, è riuscita apiazzare in India “solo” 182film e a conquistare un mi-sero cinque per cento delmercato. Neanche KingKong ce l’ha fatta a inserirsitra i venti blockbusters ma-de in India in testa alle pre-ferenze del pubblico. Men-tre il cinema indiano, nelleforme globalizzate e occi-dentalizzate dei film di MiraNair (Monsoon Wedding), diDeepa Metha (Fire), di Gu-rinder Chadra (SognandoBeckham) seduce l’Occi-dente, quello autentico, ori-ginale, autoctono di film co-me Lagaan, come Devdas,

come il recente The Rising, un grande“epic”, firmato da Ketan Mehta sulla ri-volta dei soldati indiani del 1857, come laproduzione anche più corriva e facile diBollywood conquista le platee indiane ditutto il mondo, dal Canada al Regno Uni-to, all’Oriente arabo e pakistano, dove ar-riva spesso in forma di Dvd più o meno pi-ratato: l’unico modo per sottrarre i castima scollati melò indiani alla censura isla-mica.

E se si parla di cinema indiano più diquanto effettivamente non lo si veda enon lo si conosca, almeno da noi, baste-rebbero le sole cifre della produzione delsubcontinente dalle origini ad oggi (67mila film, più i corti, più i documentari) aspiegare le dimensioni e il radicamento ela resistenza alle influenze esterne dellacinematografia più “locale” del mondo.

Adesso bisognerebbe cominciare a fre-quentarla davvero.

Tutti i recorddella Cinecittà

fantasmaIRENE BIGNARDI

più fan di Clark Kent

LA VISIONE DI “KRRISH”

Krrish, il film sul Superman indiano sbarca

anche in Italia. Sarà proiettato

a Roma, insieme ad altre produzioni

di Bollywood, nell’ambito della rassegna

il “Cinema del mondo”. L’appuntamento,

che è occasione d’incontro fra culture

diverse, si terrà dal 13 al 18 settembre

Informazioni su www.apolloundici.it

IDENTITÀ SEGRETANelle foto Hrithik

Roshan nei panni

di Krrish in azione

e con la fidanzata

giornalista, proprio

come il suo

omologo

americano

Lei è Priyanka

Chopra, 24 anni,

candidata al ruolo

di Wonder Woman

a Hollywood

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46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

Buttermilk Rolls (Usa)I ventagli del New England

sono realizzati col latticello:

così, un tempo, si usavano

gli scarti della lavorazione

del burro fatto in casa

Per dare la forma tipica,

le strisce di pasta - imburrate,

sovrapposte

e tagliate a blocchetti -

si premono alla base

i saporiCucinaglobale

Soda Bread (Irlanda)A caratterizzare il pane,

due ingredienti originali:

bicarbonato (al posto

del lievito) e latticello, il siero

del burro, aggiunti a farine

miste. Una volta imburrate,

le fette si gustano

sia in versione dolce,

con marmellata,

che con salmone o carne salata

Dimmi che pane mangi e ti dirò chi sei. Razza, religione, cultura, tradizione, riti: è come se scrittosopra ogni singola pagnotta ci fosse un pezzo di storia del mondo. Se fino a pochi anni fa, distri-carsi tra le centinaia di forme sfornate con orgoglio in ogni angolo d’Italia era piacevolmente dif-ficile, oggi il compito è diventato arduo, se non impossibile. Perché la globalizzazione ci ha pre-cipitato in casa una meravigliosa valanga di pani così diversi tra loro, da rendere necessario uncontinuo aggiornamento da parte di fornai e clienti.

Pensavamo di essere i veri grandi esperti di lieviti&farine, per poi stupirci di fantasia e bravura del panettie-re sotto casa, dai tratti e dall’accento inequivocabilmente straniero. Credevamo che il pane fosse una questionetutta mediterranea (o quasi): e invece, mentre afferriamo un boccone di sashimi con bacchette tremebonde,scopriamo che il cliente giapponese del tavolo a fianco ha appena ordinato un certo pan-kyoshitsu totalmen-te sconosciuto ma dall’aria decisamente golosa.

È il misterioso fascino dei pani del mondo, che negli ultimi anni hanno cominciato ad abitare le vetrine deifornai in maniera democratica: li si trova nella più povera delle botteghe di migranti come nella boutique delpane più insopportabilmente chic. Un festival di farine, semi oleosi, spezie, lievitazioni e cotture per pani pron-ti a sposare i piatti della medesima tradizione culinaria ma anche capaci di rendere curiose e speciali ricettedalle radici lontanissime.

Molto dipende dagli assemblaggi degli ingredienti “speciali”. L’elenco è sterminato, dai grassi — strutto, bur-ro, oli, latte, yogurt — agli alcoli — vino, birra, acquaviti —giù giù fino a zucchero, frutta fresca, secca, passa, ortaggi,olive. Sono loro a determinare l’incrocio di gusti e a inco-raggiare abbinamenti insoliti in nome di quella fusion vir-tuosa capace di affascinare gli chef più giovani e creativi.

Altro atout, quello del formato. In molte cucine, la fun-zione del pane è assimilata a quella di una posata: succe-de con i pani-sfoglia e i pani-tasca (che in Italia sono esem-plificati dalla carta musica sarda e dalla piadina roma-gnola). Una modalità svincolata da spazio e tempo. Tantoantica, che le sfoglie sottili, cotte su carbone a legna e con-servate in rotoli, come fossero manoscritti, nella cucina

dell’antica Grecia sono state ritrovate dipinte su urne risalenti al VI secolo. Tanto diffusa, che dall’indiano cha-pati (galletta di frumento integrale) al pane arabo, è tutto un rincorrersi da una parte all’altra del mondo di pa-ni più o meno lievitati, morbidi, croccanti, conditi, messi al servizio diretto di salse, fagioli, ragù.

I pani degli altri ci hanno conquistati. Il rituale del pomeriggio trascorso bighellonando tra gli scaffali del-l’Ikea non può prescindere dai rolls con salmone che fanno bella mostra di sé nel bar del grande magazzinosvedese. Esattamente come nei locali di ispirazione latino-americana è impossibile star lontani dalle ciotolecolme di tacos da intingere nel piccante e appetitoso pico de gallo. Ad attirare i consumatori salutisti, anche l’u-so di cereali diversi, rustici, legati alle tradizioni più antiche e abbandonati malamente a vantaggio delle raffi-natissime farine bianche, oggi tra le grandi imputate (anche grazie all’aggiunta di additivi, dagli anti-muffa agliacceleratori di lievitazione) della crescita esponenziale delle intolleranze.

Se non vi sentite abbastanza ferrati in materia, andate nel prossimo fine settimana a Senigallia, dove, a par-tire da giovedì si celebra “Pane Nostrum”, la kermesse dedicata al pane, dove si esibiranno alcuni tra i miglio-ri fornai del mondo. Con poche lezioni imparerete che infinite sono le forme e i gusti del pane. Non preoccu-patevi per la scarsa conoscenza di arabo o di finlandese: il linguaggio delle mani infarinate vi guiderà al para-diso delle michette etniche.

Forno e farinenell’era-fusion

Arrivano dal Giappone,dal Messico, dai paesi arabi

Hanno lievitazioni, farciture,ingredienti esotici ma si sposano

con i piatti della nostra tradizioneI pani degli altri ci conquistano,

come dimostrerà la kermesse“Pane Nostrum”, da giovedì a Senigallia

PaneMondodal

LICIA GRANELLO

Matzà (Israele)Il pane azzimo (dal termine

greco ázymos, senza lievito)

è antichissimo e legato

alla storia delle cucine povere

del mondo. Il cibo degli ebrei

fuggitivi, di lunga

conservazione, legato ai riti

della Pasqua ebraica, è fatto

di sola acqua, farina

e semplice sale

Baguette (Francia)Una sola parola definisce

la bacchetta del direttore

d’orchestra, quella magica

è il pane-culto francese. Cotta

a temperatura molto alta (240°)

senza grassi,

ha crosta croccante

e mollica morbida. Spesso

si trova la versione precotta,

di qualità mediocre

Pretzel(Germania)Due varianti per l’anello di pane

a otto” della tradizione tedesco-

austriaca. Croccante e scuro quello

lievitato una volta, dorato e morbido

se lasciato riposare in due riprese

Glassatura con uovo

e latte, prima del sale grossoRep

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

itinerariCuoco curiosoe appassionatoantropologoalimentare,il torinese VittorioCastellani - aliasChef Kumalè

(com’è in piemontese) -si è formato nelle cucinemeltin’pot di tutto il mondoReportage e documentaritestimonianoi suoi tanti viaggi“gastronomadi”

L’ondata migratoria

- soprattutto

magrebina -

ha trasformato

la zona intorno

al grande mercato

di Porta Palazzo.

Molti locali e negozi

hanno cominciato

a proporre pani etnici originali, oppure contaminati

con la tradizione fornaia piemontese

DOVE DORMIREBORGODORA B&B

Via Andreis 3

Tel. 011-3040530

Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREKIRKUK KAFFÉ (cucina mediorientale)

Via Carlo Alberto 16bis

Tel. 011-530657

Chiuso domenica, menù da 20 euro

DOVE COMPRAREPANETTERIA FRANCOIS SOLLAMI

Piazza della Repubblica 30

Tel. 011- 4365161

TorinoPer soddisfare

esigenze e desideri

dei turisti

in arrivo da tutto

il mondo, anche

i forni si sono

attrezzati

per produrre pani

con farine e semi,

differenti. Grande attenzione ai pani kosher,

quelli della cucina tradizionale ebraica

DOVE DORMIRESAN MICHELE A PORTA PIA

Via Messina 15

Tel. 06-442505

Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREMAHARAJAH (cucina indiana)

Via dei Serpenti 124

Tel. 06-47885393

Chiuso sabato a pranzo, domenica. Menù 25 euro

DOVE COMPRAREPANELLA L’ARTE DEL PANE

Via Merulana 54-55

Tel. 06-4872651

RomaTramontata da anni

la cultura

della michetta,

gli alimentari offrono

una scelta sempre

più ampia

che comprende pani

di molte zone

del mondo, realizzati

con ingredienti originali. È il caso

del pane brasiliano, fatto con l’amido di manioca

DOVE DORMIREHOTEL PIEMONTE

Via Ruggiero Settimo 1

Tel. 02-463173

Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREFEIJAO COM ARROZ (cucina brasiliana)

Via Corrado il Salico 10

Tel. 02-89512722

Chiuso lunedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREPLAZALATINA

Via Volta 12

Tel. 02-29007123

Milano

Un cibo che dividereligioni e classi

Immagine oleografica e realtà storica

MASSIMO MONTANARI

Il pane unisce o divide? Un’immagine oleografi-ca fortemente consolidata nella nostra culturanon avrebbe dubbi nel riconoscergli — al pane

— un ruolo amorevole, dolce, gentile. Il pane caldoe profumato che esce dal forno. Il pane che si spez-za e si condivide. Il pane attorno a cui si stringe la fa-miglia per celebrare il rito della sopravvivenza, gra-ta di poterlo ogni giorno rinnovare: «Dacci oggi ilnostro pane quotidiano».

Ma il pane è stato anche, nella nostra storia, unostrumento di separazione e di contrasto. I greci an-tichi si rappresentavano come “uomini civili” — di-versi e distanti dai “barbari” — proprio in quantomangiatori di pane: coltivare la terra e saperne ri-cavare, artificialmente, la materia prima per realiz-zare un cibo esso stesso artificiale (il pane non esi-ste in natura) era percepito come il primo segno didifferenza dagli altri, i popoli che preferivano rica-vare cibo dalla foresta, vivendo di caccia e di pasto-rizia.

A questa ideologia etnocentrica, incapace dicomprendere le diversità culturali, si sovrapposerocol tempo altre immagini, di natura sociale, basateanch’esse sul principio di separazione. Già in epo-ca romana il pane di frumento si opponeva alla po-lenta di farro: questa era il cibo tradizionale dei con-tadini; quello era il cibo “di lusso” che si acquistavanei forni di città ed era elargito dai consoli, e poi da-gli imperatori, alle plebi urbane per ingraziarsele efarle sentire diverse dal popolo delle campagne.

Anche nel Medioevo il pane fu un simbolo im-portante della differenza so-ciale: la dieta dei ceti rurali sibasava soprattutto su mine-stre, zuppe, polente di cerealiinferiori (orzo, avena, miglio,panìco, spelta). Il pane, quan-do c’era, era di colore scuro,solitamente di segale, cottosotto la cenere piuttosto chenel forno — anche perché inquesto modo si scampava allatassa d’uso del forno signorile,a cui le comunità erano obbli-gate a rivolgersi per cuocere ilpane. Il pane bianco di fru-mento appariva solo sullemense dei signori e dei cittadi-ni, e in quelle dei monaci. Untesto del XII secolo mette inscena un contadino che vuolefarsi monaco, e come di con-sueto gli viene chiesto il per-ché della sua vocazione. Ri-sponde senza esitare: «Permangiare pane bianco». Simi-li contrapposizioni valgonoancora in età moderna: in

tempi di carestia, nelle città si fa divieto di vendereai contadini il pane bianco di frumento. Il pane èanche servito a dividere le religioni. Quando il cri-stianesimo sceglie il pane come alimento sacro, po-nendolo al centro della liturgia eucaristica, operaun taglio netto con la tradizione ebraica, che esclu-deva i cibi fermentati dalla sfera del sacro. Quandonell’XI secolo la chiesa greca si separa da quella la-tina, uno dei motivi di contestazione è l’accusa, fat-ta dagli “ortodossi” ai “cattolici”, di avere introdot-to nel rito eucaristico un pane che non è veramen-te pane: un’ostia azzima, non fermentata, che ri-chiama piuttosto la tradizione ebraica. Più o menonello stesso periodo, paradossalmente, i cristianid’Occidente impegnati nelle crociate anti-islami-che rappresentano sé stessi come fedeli custodidella cultura del pane, disprezzando il “pane ara-bo” che — scrive un autore del XII secolo — asso-miglia piuttosto a una focaccia mal cotta.

E allora viva il rimescolamento delle culture edelle abitudini alimentari, che sta svolgendosi sot-to i nostri occhi. Viva la varietà di pani che non sol-tanto nel Mediterraneo, ma in tutta l’Europa e fuo-ri di essa ha via via arricchito il nostro patrimoniogastronomico. Viva la presenza del pane biancosulle tavole di tutti, e viva la presenza del pane nerosulle tavole di chi lo preferisce, senza esservi co-stretto. Viva chi, ogni tanto, ha voglia di cambiare lasolita michetta con un “pane arabo”, e viva il for-naio sotto casa che glielo prepara.

‘‘Il pellegrino e il monacoNon ho percorso tanto mondo

da saperne abbastanza sul pane,diceva il pellegrino. Il paneè il mondo. Non tagliatelo,

rompetelo in pezzi. Sbriciolateil pane sul palmo della mano,ci scongiurava il monaco...

Da PANE ED ESILIO

di Predrag Matvejevic

Rugbrod (Danimarca)A base di farina di segale

integrale – dal gusto

inconfondibile, ma nemica

della lievitazione – ha forma

“a cassetta” ed è arricchito

con semi oleosi (lino, zucca,

sesamo). Si serve affettato

con burro, insieme

ad anguilla, aringhe,

o marmellata

Pao de Queijo (Brasile)I panini al formaggio

della cucina mineira -

il Minas Gerais , a nord

di San Paolo, è famoso

per la coltivazione di caffè -

hanno come base il polvilho,

amido di manioca,

che regala un sapore dolce-

acido. Si servono

a colazione e a merenda

Pita (Grecia)Il pane arabo, versione

lievitata del pane azzimo,

attraversa la cucina

dal Medioriente

all’Afghanistan. La cottura

a temperatura molto alta

provoca uno scollamento

dell’impasto: la tasca

che si forma viene farcita

Ottimo con salsa tsatsikiRep

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48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

SPIRITO ECLETTICOLampada Led, contenitore, base

con cinque prese. È Multipot

(Rotaliana) di Donegani & Lauda

IN TAVOLAPorta la firma

di Antonio Citterio

la grattugia Cono,

di Legnoart,

con manico

removibile

e ciotola

In bamboo

naturale

ADESSO SVEGLIASi chiama DP100

(Oregon Scientific)

la nuova sveglia

che proietta

l'ora in piena luce

Rivoluzione

le tendenzeDesign quotidiano

Laforza d’inerzia è la vera dominatrice del mondo.Continuiamo a fare gli stessi gesti con pavlovianacostanza. Esibiamo un attaccamento alle coseche potrebbe apparire sconcertante se non fosseconsolatorio. Le abitudini sono la rete protettivacon cui ci difendiamo dalla novità, che ci tenta ma

sempre ci spaventa. Anche per questo i grandi cambiamentisono così difficili da affrontare: cambiare casa, ristrutturarla,rinnovare l’arredamento, provocano ansia e stress.

Ma, così, guardandosi dai macro-cambiamenti, si finisceper sottovalutare le piccole novità. Che qualche volta pos-sono essere più profonde di quanto appare. I mini-oggettiche popolano la quotidianità, per esempio, restano quasisempre sotto la soglia della nostra attenzione: il tostapane,il portamatite, il pouf, l’alzata con la frutta, il guanto da giar-dinaggio, sono le comparse cui fatichiamo a riconoscere ildiritto di farsi compagni, status cui sono invece ammessi lapoltrona preferita per le nostre letture, la credenza in cui ri-poniamo le memorie più care, l’armadio custode della no-stra seconda identità, gli abiti, il letto muto testimone di tan-ti momenti di riposo e di desiderio.

Eppure spesso i piccoli oggetti, quelli per esempio pre-sentati al Macef, salone interna-zionale del mondo della casa inprogramma a Milano fino a do-mani, proprio per la quotidianacostanza con cui li frequentia-mo, quando cambiano compor-tano una sotterranea rivoluzio-ne. Un cambiamento di cui nonci rendiamo conto, ma che puòinfluenzare la qualità della no-stra vita. Il design e l’efficienza diun tostapane, per esempio, pos-sono contribuire a un buon ri-sveglio; l’armadietto-farmacia

può dirottare l’ansia onnipresente verso una distaccata iro-nia; il tappeto versatile, che sa trasformarsi in letto d’emer-genza con discrezione e rapidità, può incoraggiare improv-visati inviti.

Ogni dettaglio e accessorio che cambiamo è come unbattito d’ali dalle conseguenze sottovalutate e impre-vedibili. Che ha i suoi lati positivi. Il ritorno a casa si le-ga spesso a un investimento emotivo che alimenta ildesiderio di rinnovamento e di miglioramento: e tuttoquesto può realizzarsi proprio attraverso molte piccolemutazioni. Andare a caccia di piccoli oggetti utili, diuso quotidiano, di buon design, ergonomici, funzio-nali, può tradursi in una rivoluzione di vita som-mersa ma proprio per questo più significativa e, infondo, più vera. Ciò che conta è, preventivamen-te, focalizzare l’attenzione su quello che si desi-dera cambiare e migliorare davvero nella no-stra vita quotidiana.

Partire da questo interrogativo può riser-vare delle sorprese. Prima di tutto, la rivela-zione concreta di quanto contino, giornoper giorno i bicchieri, il telefono, lo sga-bello poggiapiedi, la lampada portaog-getti, il tavolino a forma di labbra, la sve-glia amica. E poi, la verifica che consen-te di distinguere finalmente con mag-gior cognizione tra quello che ci servedavvero e quello che, comprato d’istintoo per distrazione, si dimostra orpello, de-coro, narcisistico ghirigoro. Se si vuolericonoscere un tratto distintivo ai pic-coli oggetti di utilità quotidiana che i de-signer propongono è certamente laconcretezza. Una concretezza espres-sa, in particolare, da una interessante ri-cerca di cose polivalenti, in grado di sod-disfare più di un bisogno, di assumersipiù di una funzione.

Un dettaglio in salotto, accessori colorati per la cucina,la mensola per la stanza dei bambini: basta pocoper cambiare aspetto al “nostro solito appartamento”e affrontare l’autunno con una sferzata d’energiaIl Salone dei piccoli oggetti, in corso a Milano,offre un panorama completo delle novità del settore

INNO ALL’ORDINEUn portamatite

con la vocazione

all’ordine. È Twist,

prodotto da B&B,

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per la scrivania

dei ragazzi

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Disegnato da Stefano

Giovannoni per Alessi

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Casa...

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Il neo-capodannodel popolo low cost

Così abbiamo riformato il calendario

MARINO NIOLA

Primo non ingrassare, secondo iscriversi inpalestra, terzo mangiare sano, quarto nonfarsi travolgere dal lavoro, quinto impara-

re a dire no, sesto imparare l’inglese, settimo li-berare l’armadio da tutti quei vestiti che tantonon mettiamo più. È solo l’inizio del decalogorituale del dopo vacanza. L’edificante elenco dibuoni proponimenti che ogni anno recitiamocome una giaculatoria durante il controesodo.Quando sulle nostre autostrade si consumanogli ultimi atti di quella migrazione stagionaledella società del tempo libero che ha assuntoormai i ritmi e la regolarità di una transuman-za estiva. E le lancette del tempo stanno per ini-ziare un nuovo giro dopo il fatidico rintocco delFerragosto.

La data simbolo delle vacanze sta diventan-do in realtà il vero giro di boa del nostro calen-dario, il nuovo Capodanno di una civiltà ormaiemancipata dalla natura e dai suoi ritmi. I tem-pi che scandiscono la nostra vita non dipendo-no più dal calendario astronomico e dalle con-dizioni meteorologiche, dalla successione sta-gionale, dal cammino del sole e dalle fasi della

luna, ma sono ca-denzati dall’orga-nizzazione dei cicliproduttivi. Oggi ilbello e il cattivotempo li fa la tecno-logia, che ha finitoper produrre unariforma sotterra-nea del calendario.Una semplificazio-ne che ha tagliato itempi intermedi eha diviso in duel’anno. Tempo dellavoro e tempo delriposo. Due solestagioni per unmondo a cristalli li-quidi.

Ecco perché ilnostro Ferragosto è

a tutti gli effetti un Capodanno, il rito di pas-saggio che segna la fine di un ciclo e l’inizio diquello nuovo. Le fabbriche chiudono i batten-ti, si spengono i computer, la circolazione del-le merci si arresta. Si determina una sospensio-ne prolungata del tempo, una pausa che non èestiva, ma semplicemente non lavorativa. Ètempo libero. Vacanza nel senso letterale deltermine, che si riferisce a una mancanza da col-mare.Come un cardine simbolico che fa ruota-re gli ingranaggi della nostra esistenza, questovuoto ci rinnova dentro e fuori.

Riviviamo così l’esperienza sorgiva di tutti gliinizi, abbiamo l’impressione di poter progetta-re il nostro futuro, disporre del nostro tempo. Eperfino del poco denaro sopravvissuto al dis-sanguamento vacanziero, che in questi giornispendiamo per regalarci piccole e grandi grati-ficazioni. Oggetti transizionali, come la coper-ta di Linus, che forniscono una preziosa riser-va di serotonina, un budget di positività che cidà la carica per resistere fino alla prossima va-canza. Oggetti talismano che tingono di rosa ilnostro orizzonte. La giacca che cancella d’in-canto il sovrappeso, gli occhiali che rendono dinuovo irresistibili i nostri occhi, la cyclette cheriscatta i peccati di gola salvando insieme ani-ma e corpo. Se poi aggiungiamo il portatile ul-tima generazione, riparte alla grande anche lamente. E magari cambiamo parrucchiere per-ché niente rinnova come dare un taglio al pas-sato.

Cose, gesti e parole nuovi per continuare aessere quelli di sempre. Sono gli esercizi spiri-tuali della generazione low cost.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

L’ORA DEL TÈIl tè in ogni luogo

e ad ogni ora,

anche in ufficio

Perfetto il bollitore

Break di Ariete:

si spegne da solo

al raggiungimento

della temperatura

di ebollizione

ALLA GIUSTA ALTEZZAPer servire dolci o frutta, Ikea

propone la classica alzata con tre

piani regolabili all’altezza desiderata

FARMACIA DOMESTICAL’armadietto dei medicinali viene

“riletto” da Capellini come

piccolo complemento di design

MENTITE SPOGLIESotto le mentite

spoglie

di un arredo si cela

l’aspirapolvere

di Damiani

per Campeggi

Si stacca il tubo

e si utilizza

come pouf

L’ORA DEL TOASTIl design entra

in cucina

col tostapane

ideato da Gae

Aulenti e Giannino

Castiglioni

per Trabo

In acciaio

inox con scritta

PESO FORMACoi piedi sul campo

da golf, ma solo

per controllare

il proprio peso

Una simpatica

variante della classica

bilancia, di Maiuguali

ANIMA D’ACCIAIOAnima di acciaio,

rivestimento in silicone:

sono gli attrezzi da cucina

della linea

Ice Color di Pedrini

Rep

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50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 SETTEMBRE 2006

Attori muscolaril’incontro

ANTONIO MONDAricorda l’esperienza di The Outsiderscon un misto di tenerezza e gratitudi-ne: «A volte mi chiedo cosa sarebbesuccesso se Francis non avesse avuto ilcoraggio di puntare su di me. Avevo giàinterpretato altri film, ma è quello ilmomento in cui sono diventato davve-ro un attore. Pochi registi al mondosanno dirigere come Coppola, lui com-prende le esigenze di ogni interprete esa esaltarne i talenti. Quando ripensoal film, resto ancora sbalordito per lastraordinaria intuizione che ha avutonella scelta degli interpreti e affascina-to da come sia riuscito a cogliere per-fettamente la psicologia dei giovani e aricreare un mondo che gli era distante.È uno dei pochi, veri geni del cinema, eio ammiro enormemente la sua capa-cità di pensare in grande e di rischiareanche di perdere tutto. Senza fare pa-ragoni irrispettosi, è un insegnamentoche ho cercato di mettere in praticaquando ho deciso di debuttare a miavolta nella regia».

Coppola riuscì a parlare il linguaggiodei giovani anche nel film successivo,sempre tratto da S. E. Hinton e intitola-to Rumble Fish, per il quale lo scritturònuovamente come protagonista. E nelruolo di Rusty James, che il titolo italia-no definisce arbitrariamente “il Sel-vaggio”, Dillon confermò un talentoassolutamente originale, basato suuna fisicità insieme robusta e fragile. Sel’exploit di The Outsiders (anche inquesto caso la traduzione italiana deltitolo è assolutamente arbitraria, I ra-gazzi della cinquantaseiesima strada,riferito a un gruppo di giovani di unacittadina con pochissime avenue) ave-va fatto parlare di un nuovo JamesDean, grazie soprattutto all’affinitàdella vicenda con quella di Gioventùbruciata, l’interpretazione di RumbleFishrivelò una personalità prepotente,al punto da non risultare più la riuscitarappresentazione cinematografica diun personaggio letterario preesisten-te, ma un vero e proprio modello idea-le di indipendenza, sensualità e ribel-lione.

Ad appena vent’anni Dillon era di-ventato una star e un sex symbol, masolo i più attenti si erano accorti dellaqualità e della novità della sua recita-zione. «A ripensarci adesso», ricordacon una buona dose di ironia, «colpiscela sconsideratezza con cui ho affronta-to due prove del genere con un registadel calibro di Coppola. Quando miconvocò aveva già diretto i due primiepisodi del Padrino, Apocalypse now eLa conversazione, e aveva vinto treOscar e due Palme d’oro. Avevo certa-mente un po’ di timore reverenziale,ma anche l’inconsapevole arroganzadi chi pensa che tutto possa essere allasua portata. Ritengo che la grande in-tuizione di Francis sia stata quello diutilizzare questo mio atteggiamentoper creare i personaggi dei due filmsenza farmene mai accorgere».

Nelle interviste recenti Dillon parla

va di immettersi nella strada pericolo-sa delle ripetizioni dei ruoli e dei filmdestinati direttamente al mercato delvideo. Ma la lezione del regista italo-americano gli fece capire le potenzia-lità creative del mestiere dell’attore, e ilsuo imponente carisma lo indusse a unatteggiamento umile del quale ancorasi dichiara grato. «È il periodo in cui hocominciato a studiare e ad appassio-narmi al cinema: ancora adesso so didover imparare molto, e rimango se-dotto da cosa riescono a comunicare alpubblico attori “fisici” e insieme raffi-nati quali Robert Duvall, Gene Hack-man o il povero John Cazale».

Nel giro di pochi anni ebbe l’oppor-tunità di lavorare proprio con Hack-man in Target, e fu entusiasta di sapereche la regia era stata affidata ad ArthurPenn. Il film è tra i meno riusciti di quel-li diretti dal regista del Piccolo grandeuomo, ma l’alchimia tra i due protago-nisti svela la voglia di Dillon di impara-re in ogni sequenza i segreti dell’inter-pretazione di Hackman. Dopo una se-rie di partecipazioni a film modesti, lagiovane star confermò di avere un ta-lento che prescindeva dalla fisicità conil personaggio del tossico in Drugstorecowboy di Gus Van Sant, che lo chiamòdi nuovo in To die for. Con la eccezionedi Singles di Cameron Crowe, tra i duefilm c’è una nuova serie di pellicole tra-scurabili, e si deve a Van Sant una nuo-va intuizione che segnò un ennesimocambiamento nella carriera di Dillon.Nel momento in cui lo scritturò per in-terpretare il marito (e soprattutto la vit-tima) di Nicole Kidman, Van Sant gli of-frì l’opportunità di rivoluzionare l’im-magine del cosiddetto “heartrob”, ilrubacuori. Superata la trentina, Dilloncominciò a non impostare più i perso-naggi sulla prestanza fisica, ma anzi agiocarci, accettando intelligentemen-te di interpretare ruoli di belli terribil-mente ottusi, che finiscono per diven-tare vittime di donne fatali e spietate.

Una volta scelta la strada dell’autoi-ronia, è risultata inevitabile la sceltadella commedia, che lo ha visto trion-fare in Tutti pazzi per Mary al fianco diCameron Diaz e quindi in In & out.«Amo molto la commedia», racconta,«e ritengo che sia uno dei generi piùsottovalutati. A mio avviso ogni risataha un effetto catartico, e la comicità,quando è autentica, è sempre univer-sale. Da questo punto di vista un mo-dello per me è stato Giancarlo Gianni-ni, che riesce a comunicare una forteverità ed emotività anche quando ilpersonaggio che interpreta si trova insituazioni assurde».

Ma i cambiamenti nella sua carrieranon sono terminati con la svolta comi-ca: dopo aver diretto in Cambogia Cityof ghosts, un film scritto a quattro manicon Barry Gifford e ispirato alle atmo-sfere di Graham Greene, ha preso par-te a Crash, che ha vinto l’ultimo Oscarcome miglior film dell’anno, ottenen-do personalmente una candidatura

con passione di cinema e di recitazio-ne, ma la sua non è stata affatto una vo-cazione, e l’ingresso nel mondo dellospettacolo è stato del tutto casuale.Mentre frequentava il penultimo annodi liceo, venne adocchiato da un talentscout che rimase colpito dalla sua pre-stanza fisica e lo convinse a incontrareun direttore di casting. Dillon si pre-sentò all’appuntamento per puro di-vertimento e si trovò scritturato per unruolo minore in un film intitolato Overthe edge. Il film, diretto da Jonathan Ka-plan, era un modesto esemplare del ge-nere “giovani problematici e ribelli”,ma aveva il pregio di lasciare spazio auna serie di interpretazioni caratteriz-zate da una acerba spontaneità. Dillonriuscì a emergere e fu subito richiama-to per ruoli simili in una serie di film tra-scurabili quali My bodyguard, LittleDarling e Liar’s Moon.

L’incontro con Coppola avvenne nelmomento in cui Dillon aveva final-mente deciso di dedicare la propria vi-ta alla recitazione, e la carriera rischia-

per l’interpretazione memorabile diun poliziotto volgare e razzista che rie-sce però a trovare la via del riscatto. Si èquindi tuffato anima e corpo in quelloche descrive come il suo ruolo più im-pegnativo: l’Henry Chinasky di Facto-tum, dal romanzo di Charles Bukow-ski. Come ai tempi di Drugstore cow-boy, Dillon deve mettere alla prova lapropria immagine robusta, energeticaed eternamente giovane in un ruolo dipersonaggio dannato, segnato dall’u-so dell’alcool e delle droghe, e che tut-tavia testimonia la libertà e la volontàdi un artista di rischiare tutto per faredella sua vita un autentico momento dipoesia. Dillon racconta di aver accetta-to il film spinto dalla suggestione di al-cune battute di Bukowski: «Ciò checonta davvero è come te la cavi a cam-minare sul fuoco»; o ancora «alcunepersone non impazziscono mai: chevita davvero orribile gli tocca vivere».«Mi sono trovato a mia volta», raccon-ta, «ad avanzare sul sentiero stretto dichi rischia tutto, anche se il film ha an-che alcuni elementi di commedia, spe-cie quando costringe a confrontarsicon aforismi quali: “È possibile amareun essere umano, se non lo conosci fi-no in fondo”».

Ripensando ai ruoli degli esordi sipotrebbe pensare che al ribellismodell’adolescenza ha fatto seguito la lu-cidità disordinata e amara della matu-rità. Dillon è il primo a dire che si trattasoltanto di ruoli interpretati, e che il fa-scino del suo mestiere è proprio nelladiversità tra il personaggio e l’attoreche lo interpreta. Sarà a causa del ruo-lo che ha da poco interpretato, ma perspiegare il suo atteggiamento attualenei confronti del cinema vuole conclu-dere la conversazione con un’altra ci-tazione da Bukowski: «Un intellettualeè un uomo che dice una cosa semplicein modo difficile. Un artista è uno chedice una cosa difficile in maniera sem-plice».

Mi chiamò Coppolae io avevo un po’di timorereverenzialema anchel’arroganzainconsapevoledi chi pensa che tuttopossa esserealla sua portata

‘‘

‘‘Ha cominciato per caso e allegria,sfondando nei ruoli di ragazzinobello e ribelle. È diventato adultopassando di film in film nella partedel rubacuori bello e ottuso. E adesso

ha saputo modellareil suo fisico belloma appesantitoper infilarlo dentronuovi personaggitragici. E, con ironia,riassume il tuttoprendendo a prestito

una frase di Bukowski:“Ciò che conta davvero è comete la cavi a camminare sul fuoco”

Matt DillonF

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NEW YORK

Èstato Francis Ford Coppola ilprimo ad intuirne il talentointerpretativo e la grandepresenza scenica: al termine

del provino per il ruolo del protagoni-sta di The Outsiders spiegò ai propri as-sistenti che quel ragazzo di origine ir-landese, ancora fiero del suo nomecompleto Matthew Raymond Dillon,non solo era nato per fare l’attore cine-matografico ma aveva tutte le carte inregola per diventare una star. La deci-sione di dirigere per il grande schermoun best seller dell’adolescenza comeThe Outsiders aveva scatenato infinitediscussioni tra i milioni di appassiona-ti del romanzo di S. E. Hinton, che ave-vano minacciato di boicottare l’adat-tamento cinematografico nel caso l’at-tore scelto per il ruolo di Dallas Win-ston non avesse corrisposto a un’im-magine mitica senza confronti tra ipersonaggi della letteratura giovanile.Agli occhi dei fan il giovane protagoni-sta doveva apparire leale, sensuale, im-pavido, atletico ed estremamente cari-smatico, ma anche insospettabilmen-te tenero ed imprescindibilmente libe-ro. Coppola, che arrivava al film dopo ildisastro commerciale di Un sogno lun-go un giorno, sapeva che non avrebbepotuto permettersi un nuovo fiasco,ma decise di fidarsi del proprio intuito.Scommise per i ruoli di contorno suuna serie di giovani sconosciuti che sa-rebbero diventati celebri di lì a poco: daEmilio Estevez a Diane Lane, da RobLowe a Patrick Swayze, per non parlaredi Tom Cruise. Ma soprattutto scom-mise tutto sul giovane Dillon, che lo ri-cambiò con quella che in gergo vienedefinita una “star-making performan-ce”.

A più di vent’anni di distanza, Dillon

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