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24 LA RICERCA DELL’IDENTITÀ ITALIANA Ragioni e origini delle nostre fragilità Anno X - n. 2 - giugno 2014 Poste Italiane SpA Spediz. in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Bergamo Quaderni della Fondazione A.J. Zaninoni Centro culturale NuovoProgetto

LA RICERCA DELL’IDENTITÀ ITALIANA - … e “familismo” Centralità della famiglia nella società italiana » 53 FILIPPO FOCARDI, Università di Padova ... i sociologi e gli antropologi

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LA RICERCADELL’IDENTITÀITALIANARagioni e originidelle nostre fragilità

Anno X - n. 2 - giugno 2014Poste Italiane SpASpediz. in A.P. D.L. 353/2003(conv. in L. 27/2/2004 n. 46)art. 1, comma 2, DCB Bergamo

Quadernidella

Fondazione A.J. Zaninoni

Centro culturale NuovoProgetto

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Centro culturale NuovoProgetto

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LA RICERCADELL’IDENTITÀITALIANARagioni e originidelle nostre fragilità

Vittorio VidottoAldo SchiavoneChiara SaracenoFilippo FocardiSabino CasseseSilvana PatriarcaRoberto CartocciArnaldo Bagnasco

settembre 2013 - febbraio 2014

Quadernidella

Fondazione A.J. Zaninoni

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Quaderni della Fondazione A.J. ZaninoniEditore: Associazione Amici della Fondazione Zaninoni

via Zambonate 33 - 24122 BergamoDirettore responsabile: Augusto BenvenutoRegistrazione: Tribunale di Bergamo n. 32 del 27 giugno 2002Stampa: Sestanteinc - Bergamo

Anno X - n. 2 - giugno 2014Poste Italiane SpA - Spedizione in Abbonamento Postale D.L. 353/2003(conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Bergamo

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L’unità delle diversità, il ciclo di incontri che la Fondazione A.J. Zaninoni(presidente Pia Locatelli) e il Centro culturale NuovoProgetto (presidenteRoberto Spagnolo) hanno realizzato nel 2010-11 in occasione dei “150 annidi patria”, non poteva non far emergere interrogativi, problemi e riflessioniancor più pressanti oggi, quando la crisi economica, che sta investendo tut-ti i Paesi europei, in Italia sembra minacciare la tenuta stessa della coesionenazionale, con una evidente crisi del sistema politico.

Ci si chiede quali siano le ragioni profonde e le origini di queste fragi-lità. Di fronte a un sentimento diffuso di declino ci si domanda se e comepotremo uscirne.

Le risposte tentate sono molteplici e controverse anche perché i puntidi vista disciplinari, da quello storico a quello antropologico e sociologi-co, non sono facilmente integrabili. Finiscono così con il prevalere le opi-nioni settoriali, personali, consolatorie o autodenigratorie, non semprefondate su un apparato di conoscenze adeguato.

L’uscita dalla confusione è tuttavia necessaria per la stessa sopravvi-venza della comunità nazionale. Capire i tratti distintivi della nostraidentità, le carenze, le risorse e individuarne le radici nella storia, acqui-sta una rilevanza civica perché, mai come ora, tale comprensione puòorientare scelte storicamente importanti.

Nonostante le divaricazioni ideologiche, i pregiudizi e le conflittualitàsuscitate dal tema della identità, abbiamo ritenuto utile cercare punti diconvergenza proponendo un percorso che, avvalendosi delle migliori com-petenze nei campi della storia, della scienza politica, della sociologia e deldiritto, individuasse i processi storici che hanno lasciato un segno più mar-cato sulla nostra società e ne discutesse gli aspetti più critici e persistenti.

Pur consapevoli delle difficoltà, ci siamo proposti di offrire occasionidi conoscenza e discussione sul nostro essere italiani oggi.

La redazione

NB: Un ringraziamento al gruppo di lavoro che ha curato il progetto: Antonio Censi, Maria LauraCornelli, Giuliano Mazzoleni, Daniela Rosa, Francesco Trombetta.

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Presentazione

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organizzato da

hanno collaborato

patrocinio

contributi da

Comune di Bergamo

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Presentazione pag. 3

VITTORIO VIDOTTO, Università La Sapienza, Roma

Italiane e italianiComportamenti sociali ed etiche separate » 7

ALDO SCHIAVONE, Istituto Italiano di Scienze Umane, Firenze

La formazione di un carattereEredità della Riforma e della Controriforma in Italia » 31

CHIARA SARACENO, Università di Torino

Famiglia e “familismo”Centralità della famiglia nella società italiana » 53

FILIPPO FOCARDI, Università di Padova

“Italiani brava gente”Origini e persistenza di un mito identitario » 73

SABINO CASSESE, Università La Sapienza, Roma

Una società senza Stato?Modernità e arretratezza delle istituzioni italiane » 103

SILVANA PATRIARCA, Fordham University, New York

Il “carattere nazionale”Storia e politica di un'idea » 125

Indice

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ROBERTO CARTOCCI, Università di Bologna

La geografia del capitale sociale in ItaliaNon solo eredità del passato » 147

ARNALDO BAGNASCO, Università di Torino

L'imprenditività italianaSuccessi e limiti » 171

Convergenze, problemi aperti » 189

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VITTORIO VIDOTTOUniversità La Sapienza, Roma

ITALIANE E ITALIANIComportamenti sociali ed etiche separate

Giuliano Mazzoleni

Il professor Vittorio Vidotto è la persona ideale per iniziare il nostrociclo sulla ricerca dell’identità italiana e per fornire un’apertura a tuttocampo sugli italiani e sulle italiane. Il suo libro Italiani/e. Dal miracolo eco-nomico a oggi è nel contempo una visione panoramica dei nostri modi diessere e di comportarci e insieme l’aggressione di alcuni problemi crucia-li di questi comportamenti. La difficoltà è mantenere un equilibrio traqueste due tendenze, equilibrio che nel libro è raggiunto, secondo me,tanto più se consideriamo la sua appendice, comparsa sul Mulino, dedi-cata alle italiane, che completa l’opera con un aggiornamento importan-te. Il tema è affrontato con una capacità di sintesi invidiabile, a mio pare-

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re, di cui lo storico aveva già dato numerose prove con i manuali per iLicei composti con Sabbatucci e Giardina. Un ricordo: il nostro amicoprofessor Mario Tassoni, che abbiamo commemorato qualche anno fadopo la sua scomparsa, docente di Storia e Filosofia nei Licei cittadiniper molti anni e che forse alcuni di voi avranno conosciuto, mi confidavache con il libro di Giardina, Sabbatucci e Vidotto i suoi studenti “andava-no avanti”, cioè non si limitavano a leggere la lezione che il docente ave-va loro proposto ma volevano sapere “come andava a finire”, volevanoavere delle descrizioni, conoscere le narrazioni, tanto il testo era bello ecoinvolgente. Credo che questo riconoscimento vada fatto al professorVidotto, e anche ai suoi colleghi naturalmente, perché è la testimonianzadi quanto apprezziamo il suo lavoro.

Vittorio Vidotto

Ringrazio innanzitutto per l’invito e ringrazio per queste gentili paro-le sul nostro lavoro. Aggiungo come corollario che il nostro manuale haavuto sempre grande successo in Lombardia e in particolare nella pro-vincia di Bergamo. Questa è la seconda volta che vengo a Bergamo, laprima venni quando il manuale uscì e tenni una lezione di fronte a ungrande pubblico di studenti e di insegnanti per presentarlo appena usci-to. Le ragioni per cui un manuale ha successo sono varie, una probabil-mente consiste nella chiarezza dell’impianto che abbiamo cercato dimantenere.

Le altre considerazioni di Mazzoleni sulla mia ricerca meritano forsedi approfondire un momento le ragioni per cui quella ricerca era nata.Alla messa in crisi della prima Repubblica l’editore Laterza convocòGiovanni Sabbatucci e me perché riteneva necessario, per un input squi-sitamente editoriale, organizzare una nuova storia d’Italia. Si trattavadell’Italia contemporanea dal Risorgimento ad oggi, e noi, con l’aiuto dimolti autori anche di parti fino a poco tempo prima ideologicamentecontrapposte, abbiamo realizzato questo prodotto in sei volumi che siintitola Storia d’Italia. Nell’ultimo volume, il sesto, era previsto un miosaggio dal titolo La nuova società, pubblicato nel 1999. Successivamente,un po’ per la sollecitazione dell’editore un po‘ perché le cose stavanocambiando ulteriormente, ne ho prodotto una versione ampliata e ag-giornata soprattutto nella parte statistica e in alcune considerazioni chevedevano emergere con forza la componente femminile del Paese. Nellaprefazione si nota appunto come le ragazze siano nel tempo divenute

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maggioranza nelle università, pure in alcune facoltà tradizionalmentemaschili come quella di medicina. Si trattava di uno spunto per allarga-re il quadro e segnalare la modernità di un processo. Un processo chemi pare purtroppo interrotto in questa fase, ma questo non inficia credola ragione della riflessione che allora ci aveva motivato, una riflessioneche nasceva dal fatto che i temi di una analisi della storia d’Italia dallafine del Settecento all’oggi – l’oggi di allora – era sollecitata dall’emer-gere di nuove forze politiche, alcune delle quali decisamente anti-nazio-nali come le Leghe e poi la Lega Nord, e da quella che appariva come lafine della prima Repubblica, della Repubblica dei partiti. Fino al 1990 ditemi come quelli dell’identità si parlava assai poco. Se ne parlava in am-bito giornalistico o più remotamente ne parlavano alcuni antropologi,soprattutto non italiani, che avevano analizzato prevalentemente le so-cietà arretrate del Meridione facendo emergere quella categoria, poimolto discussa in ambito italiano, del familismo amorale, relativa all’as-senza di senso civico nell’Italia meridionale. In particolare l’esempio eraquello di un paese della Basilicata, Chiaromonte, che nel libro era ca-muffato sotto il nome di Montegrano. Le ragioni di queste riflessionistavano nella crisi della prima Repubblica, nell’emergere appunto dinuove formazioni politiche e nella sempre più frequente rivendicazionedi identità separate, con una loro storia, immaginata in molti casi o mi-tica, con una aggressività insolita nei confronti dello Stato nazionale edella classe politica che andava, a mio parere, al di là dei demeriti diquesta.

Ovviamente analizzare e considerare in profondità i comportamentisociali è una prassi non facile, metodologicamente difficile, non solo perl’intreccio delle varie competenze che lavorano su piani anche temporal-mente diversi: i sociologi e gli antropologi quasi sempre su un presentesenza profondità nel passato. La cosa sorprendente, la novità di questaripresa di interesse è l’entrata in campo, a un certo punto, degli storici.Ma gli storici hanno una loro, diciamo così, particolarità, della quale nonsi spogliano quando cominciano a lavorare anche nel campo dell’imme-diata contemporaneità o dell’analisi del presente, ed è quella di accop-piare all’osservazione più o meno partecipata tipica degli antropologiuna certa profondità temporale e l’obbligo che si danno di datare il cam-biamento, perché il senso del lavoro dello storico è individuare che cosacambia e possibilmente capire perché. Quando cambia, come cambia eperché cambia. Quindi lo storico periodizza, cerca di datare i fenomeni.In questo campo specifico dei comportamenti sociali è particolarmentecomplesso orientarsi perché non ci sono statistiche mirate su questi pun-

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Italiane e italiani

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ti. Le statistiche sono prevalentemente quantitative, riguardano misuredi quantità non misure di comportamenti, anche se l’Istituto di Statisticaha nel tempo adattato le sue indagini ai comportamenti sociali. Una cosache banalmente si può dire è che in questo campo entra molto l’osserva-zione, che si produce direttamente, spesso anche superficiale o banale.

La prima osservazione che ho fatto oggi arrivando a Bergamo è chetutti camminano molto più in fretta che a Roma. Come mai? Tutti cam-minavano molto più svelti che a Roma, tutti, sembrava che tutti avesseroun appuntamento e che fossero in ritardo. Fretta? abitudine? o un com-portamento, diciamo così, spiccio, sbrigativo a fronte dell’indolenza me-ridionale? Già si potrebbe fare chissà quale racconto, ma non mi vogliospingere su questo terreno molto scivoloso. Solo un esempio per dire chequalche volta l’osservazione è stimolo di riflessione.

Il problema poi in questo campo è che cosa far prevalere: la diversifi-cazione dei comportamenti distinti per gruppi sociali oppure la sostan-ziale uniformità, che è stato uno dei caratteri della trasformazione socialea partire dai tardi anni Cinquanta ad oggi. Noi ci siamo largamente uni-formati; i comportamenti sociali, un tempo molto suddivisi fra ceti, stilidi vita e così via, si sono molto avvicinati. Basterebbe notare quanto siacambiato e si sia uniformato ad esempio l’abbigliamento, quanto si sianoavvicinati i gusti musicali, quanto le forme di partecipazione pubblica sisiano così intrecciate quando erano separate un tempo per ragioni politi-che e sociali. Quindi una società prevalentemente consumistica che inquanto tale tende all’uniformità. Cosa appunto conviene sottolinearenell’analisi dei comportamenti: l’uniformità con le diversità che tuttaviasi mantengono? Questo è un tema metodologicamente complesso.

In genere va ricordato che il comportamento degli italiani era rimastoper lungo tempo una sorta di genere letterario-giornalistico di cui abbia-mo avuto alcuni grandi campioni, penso a Giorgio Bocca in uno dei suoiprimi libri Miracolo all’italiana, nei suoi servizi per Il Giorno, molte delleanalisi regionali fatte da Montanelli, il Viaggio in Italia di Guido Piovene.C’era una letteratura che analizzava mediamente il comportamento dif-ferenziale degli italiani. E infatti c’era una stratificazione basata sull’ana-lisi delle differenze in cui tuttavia si cercava di rintracciare alcuni ele-menti comuni.

Ovviamente nel campo di questi aspetti relativi al comportamento del-la nostra identità diventa centrale come ci vedono gli altri, perché sonogli altri, i diversi da noi che spesso contribuiscono a fornirci un’identità ea darci una individualità che talora non crediamo di avere. Questa atten-zione alle diversità e ai caratteri dei popoli non nasce oggi, è un elemento

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significativo che si ritrova anche in passato. Mi è capitato, e lo cito nel li-bro Italiani/e, di acquistare a Parigi, a metà degli anni Settanta, un pam-phlet, un foglio volante anzi, intitolato Vita e costumi dei popoli europei con,divisi per caselle, aspetti nei confronti della religione, della vita civile, ec-cetera eccetera; venivano indicate per i francesi, gli spagnoli, gli italiani, itedeschi diverse forme di comportamento, diversi modelli, diversi stereo-tipi. In questo foglio volante l’italiano veniva descritto come “astuto, ceri-monioso nel comportamento religioso, sottile nel consigliare, cortese neimodi, disprezza quel che fa, osserva negligentemente le leggi, ha il corag-gio di una volpe”, dove il coraggio si mescola con la furbizia. Siamo forseancora così? Ancora così ci descriviamo e ci auto-rappresentiamo?

Un altro aspetto decisivo nel comprendere la riflessione sui comporta-menti sociali è il nostro modo di auto-rappresentarci, che è spesso unamessa in scena, una recita, un qualcosa che si fa ad uso di noi stessi e aduso degli altri. Quanto poi questa sia forzata e ripetuta spetta a noi inqualche caso decidere e comprendere.

Vengo ora a un punto che mi pare nodale sul quale io ho delle convin-zioni, non vorrei dire delle certezze anche se nel volumetto le ho espres-se come tali, sulla differenza, che a mio parere è importante sottolineare,fra il concetto o la categoria di identità italiana e il concetto o la categoriadi identità nazionale. Qui mi soccorre una citazione di un grande socio-logo italiano, uno dei più intelligenti a mio parere, Alessandro Cavalli, incui enumera i fatti permanenti del carattere nazionale: “l’individuali-smo, il mammismo, il familismo, il particolarismo, il localismo, il cliente-lismo, il fatalismo, la sfiducia negli altri e nelle istituzioni, la mancanzadi senso dello Stato e dell’interesse collettivo, la fragilità dell’etica pub-blica”. Come vedete i caratteri permanenti non sono pochi e in questocaso sono qui, a mio parere, mescolati quelli che direi caratteri diun’identità italiana insieme con i caratteri di un’identità nazionale. Adesempio il familismo, il mammismo, il localismo, il clientelismo mi paio-no più vicini a quella che definirò fra poco identità italiana piuttosto cheall’identità nazionale.

Per identità italiana io intendo le connotazioni a sfondo prevalente-mente antropologico e sociale; per identità nazionale invece mi riferiscoa ciò che attiene al rapporto fra i cittadini e lo Stato, fra i cittadini e la na-zione. L’identità italiana tende a configurare e a rappresentare dei carat-teri permanenti, mentre l’identità nazionale è un elemento risultato diuna costruzione. Una costruzione deliberata, che si fa consapevolmente,a partire dalle origini del nostro Risorgimento e che si è rivelata nel tem-po tutt’altro che costante, anzi caratterizzata da elementi marcati di fra-

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Italiane e italiani

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gilità. Perché l’identità nazionale è legata a quelle che chiamerei le inter-ruzioni di legittimità che si sono avute ripetutamente nella nostra storiapost-unitaria. In primo luogo il crollo dello Stato liberale dopo la Primaguerra mondiale, senza dimenticare che è allo Stato liberale e alle sue or-ganizzazioni più estese sul territorio, la scuola e il servizio militare obbli-gatorio, che si deve quella operazione, peraltro incompiuta perché ini-ziata tardivamente rispetto ad altri Paesi europei, della nazionalizzazio-ne delle masse. Questo è un concetto messo in campo da un grande stu-dioso ebreo tedesco e poi americano, George Mosse, in un libro del 1975,La nazionalizzazione delle masse, ed è diventato un concetto fondamentaledella ricerca storica sul secondo Ottocento e sul Novecento. La naziona-lizzazione delle masse è quel processo, spesso costruito su basi irrazio-nali, di identificazione con gli Stati nazionali nascenti, o già nati, una sor-ta di identificazione con gli aspetti costitutivi di questi Stati, sia nella po-litica interna sia nella politica estera. E quindi spesso la nazionalizzazio-ne si è accoppiata a forme estese di nazionalismo e lo ha sostenuto, poi èstata addirittura l’elemento forte di integrazione nei regimi totalitari co-me il nazismo e il fascismo. Dicevo che nel caso italiano questa identitànazionale è fragile perché appunto più volte interrotta con crisi di legitti-mità o di legittimazione, con la crisi dello Stato liberale e la nascita delfascismo, con la caduta del fascismo e la sconfitta in guerra, con la diffi-cile ripresa affidata a partiti le cui tradizioni erano profondamente diver-se da quella dell’Italia liberale, partiti di matrice socialista, come quellicomunista e socialista, e il partito cattolico, la Dc, cioè quelle che erano leforze anti-liberali del Risorgimento. Per poi giungere al tracollo di que-sta Repubblica dei partiti con tangentopoli, che è all’origine anche diquesta nostra riflessione.

Molti osservatori tendono a sottovalutare, anzi non considerano pro-prio, questa distinzione che io ho provato a fare tra identità italiana eidentità nazionale, non colgono questa differenza. Parlo prevalentemen-te di storici e filosofi che si sono occupati in tempi recenti della questione– il primo che potrei citare è Schiavone che credo mi segua in questa se-quenza di un, devo dire, bellissimo progetto di lavoro –, e tendono a ri-cercare degli elementi permanenti. E dove li trovano questi elementi per-manenti? Li trovano in una spiegazione che per me ha ormai la forza diuno stereotipo, quella cioè che l’Italia è un Paese che non ha avuto la Ri-forma protestante, è stata succube della Controriforma cattolica che haprevalso e ha imposto una serie di comportamenti legati – come è statoscritto da Galli della Loggia, un altro degli storici che si sono più occupa-ti di questo tema – dal prevalere dell’obbedienza sulla coscienza e della

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doppiezza insieme alla dissimulazione. Questi sono i tratti specifici deicaratteri permanenti italiani indotti dal dominio della Chiesa cattolicacontroriformista. Credo che Adriano Prosperi si sia spinto a sostenereche per secoli l’unico elemento unificante, diciamo così di disciplina-mento della società italiana è stato il Tribunale dell’Inquisizione. Quantoci sia riuscito io ho dei dubbi. Il paradosso di questo tipo di analisi è tut-tavia, a mio parere, il fatto che il raffronto fra Italia e altri Paesi è condot-to non fra Italia e altri Paesi cattolici ma fra Italia e Paesi protestanti. Mala diversità è così radicale che è ovvio che ci siano molte differenze. Pa-radossalmente si ragiona per confronti con la Germania luterana, con iPaesi dove c’è anche una componente calvinista, come i protestanti amatrice luterana o a matrice calvinista della Gran Bretagna, ma non si famai un raffronto con la Francia, ad esempio. Eppure la Francia ha unastoria molto diversa, in quanto ha avuto un assolutismo unificatore dallafine del Cinquecento fino alla Rivoluzione francese, quindi per quasidue secoli, ha avuto la Rivoluzione del 1789, ha avuto innumerevoli altrerivoluzioni, ha avuto una tradizione laica molto forte nella seconda metàdell’Ottocento. Quindi che confronto stabiliamo? Quasi impossibile, an-che se sappiamo quanto forte è la componente cattolico/reazionaria delmondo francese, soprattutto del mondo rurale: l’unica vera scissione nelcattolicesimo moderno viene dalla Francia. Lo stesso Napoleone IIIquando sale al potere, pur facendo leva sulle tradizioni del primo Napo-leone, lo zio, vince nelle prime elezioni a suffragio universale in virtù diun appoggio cattolico. Ma forse i raffronti andrebbero fatti con Paesi del-l’Europa mediterranea, Paesi a lunga dominazione straniera, perché no,come la Grecia. Certo i dominatori erano musulmani, però i greci hannoconservato come identità nazionale l’ortodossia, quindi un elemento dicontinuità paradossalmente più forte di quello della Chiesa cattolica ita-liana. O con la Spagna. Quindi c’è un po’ un paradosso in questo tipo diraffronti che tendono a stabilire una linea di continuità, anche perché laconclusione a cui si può giungere è semplicemente una: gli italiani sonodiversi perché è diversa la loro storia. Che problema c’è? È proprio que-sta diversità che merita di essere analizzata.

E allora non tanto gli storici attuali quanto gli storici degli anni Ventie Trenta, e i pubblicisti in tempi più recenti, hanno messo in campo alcu-ni aspetti specifici del carattere italiano che sono utilizzati come una sor-ta di giustificazione (direi di più: di salvacondotto) della positività del-l’italiano medio, decisamente impiegati appunto in chiave positiva. Sitratta degli aspetti di vitalità e di creatività del popolo italiano. Sullacreatività come sapete sono state sprecate parole infinite, soprattutto da-

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to il successo di alcuni settori particolari della nostra produzione nelcampo della moda, del design e così via. Quello della vitalità è un pocopiù intrigante perché ad esempio lo storico nazionalista e poi fascistaGioacchino Volpe – per altro notissimo nella prima metà del secolo e chea parere di molti, nonostante il pregiudizio negativo coltivato nei primianni del Secondo dopoguerra, ormai è considerato il maggiore storicoitaliano della prima metà del secolo – scrive un libro in polemica con laStoria d’Italia di Croce, L’Italia in cammino, dove sottolinea con grandeforza gli aspetti di un vitalismo radicato profondamente nel popolo ita-liano, negli strati popolari, starei per dire in quelli che vediamo rappre-sentati qui alle mie spalle1, che danno vita a quel grande fenomeno, asuo parere positivo, di espansione della nazione italiana che è la grandeemigrazione italiana, vista non in chiave negativa ma come uno sposta-mento di vitalità e di risorse umane verso l’altrove. Di fatto questo temadella vitalità è stato, diciamo così, riciclato più volte, non in forme diconcettualizzazione storica né nei grandi scenari che Gioacchino Volpeera solito tracciare, ma in un particolare settore della creatività artisticaitaliana: il cinema della commedia italiana, soprattutto quella degli anni

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VITTORIO VIDOTTO

1 Sulla parete alle spalle del relatore è appesa una riproduzione del quadro Il Quarto Statodi Pellizza da Volpedo.

Giuliano Mazzoleni, Vittorio Vidotto, Roberto Spagnolo. (Foto Maffi)

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Sessanta e starei per dire soprattutto quella di un regista come Dino Risi.Esempio per tutti direi è il suo film, che credo molti di noi abbiano vistoe rivisto, Il sorpasso del 1962, dove c’è proprio una contrapposizione fradue versioni di italiano: l’italiano dinamico e cialtrone di Vittorio Gas-sman, l’italiano in crisi, incerto sul futuro di Jean-Louis Trintignant, etutti credo abbiamo nell’orecchio il clacson strombazzante della LanciaAurelia che percorre la strada verso nord, verso Castiglioncello, fino al-l’incidente che uccide Trintignant.

Ora vorrei riprendere l’analisi dall’inizio e dai primi anni Novanta. Neldiscorso pubblico di allora si fa strada una contrapposizione molto marca-ta e molto ripetuta fra società civile e politica, con l’idea radicata e propa-gandata di una superiorità della società civile sulla politica. La crisi dellaprima Repubblica, che ha sicuramente degli agenti esterni come la cadutadel muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica ma secondo me ha ra-gioni interne altrettanto profonde, si richiama a questa supposta più altamoralità, sulla superiorità della società civile sulla società politica. Pensia-mo ai referendum per abolire le preferenze, alle nuove leggi elettorali acollegio unico uninominale e così via. La mia idea è invece un’altra e stareiper dire opposta. Pure in un ambito di frequente conflittualità, la politicaaveva svolto con i vecchi partiti, tutti grandi partiti di massa, un’azione di-sciplinatrice della società civile e, nei casi migliori seppure pochi, di trainodelle sue esigenze. Pensiamo alla grande battaglia per il divorzio, una pertutte, oppure ad altre battaglie per il welfare, alcune fallimentari comequella della legge per l’equo canone, altre di maggiore successo come l’in-troduzione del servizio sanitario nazionale negli anni Settanta. Paradossal-mente fenomeni maturati all’interno di un periodo, quello degli anni Set-tanta, segnato da una drammatica conflittualità – non mi riferisco solo alterrorismo e agli anni di piombo ma a una endemica conflittualità sinda-cale, a un esplodere di esigenze, a una frammentazione starei per direquasi eccessiva di esigenze e di aspirazioni.

E qui vorrei riprendere un passo tratto dal mio libro. La fine della sta-gione conflittuale negli anni Settanta – che possiamo datare con la famo-sa marcia dei quarantamila, gli impiegati della Fiat che posero fine al-l’occupazione e alle lotte più drammatiche all’interno della Fiat – con-sentì il riemergere delle vecchie modalità, mai interamente scomparse,ma messe in ombra dalla diffusa mobilitazione collettiva. L’esercizio del-la politica tornò ad essere avvertito come esercizio del potere interamen-te di parte, così come segnato da logiche largamente di parte era anche ilrapporto fra lo Stato e il cittadino. Dal momento che in Italia non si eracompiuta, innanzitutto nella coscienza degli italiani, la separazione fra

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Italiane e italiani

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politica e Stato, il potere continuava – e continua – ad essere avvertitocome arbitrio da una larga parte di noi italiani, non da tutti evidente-mente. La diffidenza, non l’adesione consensuale, rimane la norma nellerelazioni con il potere. E con il potere individui e gruppi cercavano divolta in volta un aggiustamento discrezionale: la politica e i politici sonoi veicoli di questa mediazione. Anche per questo la società italiana appa-re – ed è – così fortemente politicizzata. Tutto, è un fatto noto, deve pas-sare per la mediazione del politico di turno. Quando lo Stato si manife-sta nell’amministrazione e nella burocrazia, una parte variabile, ma nonpiccola, di cittadini cercherà di instaurare un rapporto di scambio, unacerta reciprocità di favori. È un processo assecondato dal labirinto buro-cratico in cui siamo costretti a muoverci dall’assenza di trasparenza, dal-la complessità delle procedure volta in teoria a garantire l’imparzialità,di fatto a concedere poteri di interdizione a ogni settore di competenza.Tutto questo per di più complicato dal fatto che l’amministrazione italia-na, per la sua struttura, ha un carattere eminentemente prescrittivo, nonè dato spazio alla discrezionalità, a differenza di altre forme di organiz-zazione amministrativa. Ad esempio in Gran Bretagna i funzionari han-no un alto margine di discrezionalità e quindi di decidere caso per caso,tenendo alla base una norma comune ma giudicando in fondo in base aprecedenti. Invece da noi tutto questo è irrigidito, e allora i comporta-menti sono definiti sì dalle regole ma insieme a tutti i mezzi per attivarele complicità necessarie per trasgredirle.

Questo meccanismo, che credo tutti conosciamo e dentro il quale tuttipiù o meno siamo passati, non comporta necessariamente fattori di con-cussione o di corruzione ma si basa molto spesso su conoscenze, su ami-cizie, su rapporti di deferenza, su una reciproca esibizione di potere dafar valere al momento o da far valere in seguito come compensazione delbeneficio ricevuto. È chiaro che in questo modo il modello dei rapportitra cittadino e Stato è regolato dalla ricerca costante dell’acquisizione diun privilegio, non dell’acquisizione di un diritto. O meglio: ove ciò cheviene identificato come un diritto in qualche misura è ostacolato o daitempi, o dalle norme, si aggira. Ovviamente tutto questo è il frutto diquell’individualismo esasperato che è stato descritto tante volte e di cuianche io ho trattato più o meno diffusamente. Uno dei casi esemplari èquello dell’abusivismo edilizio, su cui non mi voglio dilungare, ma sem-bra che tutti abbiamo diritto alla mansarda in più, all’allargamento dellospazio, alla piccola superfetazione, al rialzo del tetto, al lucernario, eccete-ra eccetera. Perché no? è il nostro ambito ristretto ma deve passare attra-verso dei vincoli e quindi questi vincoli vanno in qualche misura aggirati.

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Tuttavia questo apparente anarchismo appare a mio parere disciplinatoda quelle che ho chiamato le etiche separate. Ne parlo nel libro e vorrei da-re qualche esempio. In questo specifico ambito il termine etica sta a indica-re un sistema di regole condivise caratterizzato da aspetti normativi e co-ercitivi, ma regole condivise per gruppi separati, per gruppi o corporazio-ni che si danno e si organizzano secondo certe regole. Uno degli esempipiù lampanti che conosco direttamente è quello relativo alle pratiche acca-demiche, quello dei concorsi universitari. Ora non è più così perché le pro-cedure sono cambiate, la riforma Gelmini ha reintrodotto il sorteggio cheera già stato introdotto negli anni Ottanta e quindi tutto quel meccanismocomplesso di centinaia di lettere, poi centinaia di telefonate, poi centinaiadi mail che regolava la complessa procedura per scegliere i vincitori fra ibaroni prominenti del settore, ora sembra essere saltato. Come sappiamonel mondo dei concorsi tutto è regolato da norme rigidissime, si può farericorso al concorso solo per difetti procedurali oppure se ogni tanto si esi-bisce una lettera in cui era stato scritto in anticipo il nome dei vincitori, maquesto non è necessariamente un elemento di corruzione: spesso si sa chideve vincere perché qualche volta si sa anche chi è il più bravo. Si tratta diuna cooptazione discrezionale mascherata da questo rigido rispetto dellanorma, in realtà patteggiata in base a una serie di convenzioni da rispetta-re. Tuttavia questa cooptazione clientelare non esclude che possano essererispettati i criteri di qualità, ma questo dipende esclusivamente dall’eticavigente in ogni singolo gruppo disciplinare, per quanto riguarda l’ambitouniversitario, o professionale per quanto riguarda altri ambiti. E si potreb-be fare l’esempio, per altro molto noto e molto discusso sui giornali, moltopiù di quello accademico che è peraltro in declino in questo periodo, rela-tivo alle nomine dei primari ospedalieri. L‘eventuale conflittualità che puòderivare da questi comportamenti viene equilibrata, o riequilibrata, da al-cuni meccanismi di ricomposizione dando spazio alle minoranze (adesempio nei concorsi d’antan quando i vincitori erano tre, nell’ambito so-prattutto umanistico dove prevalevano i cattolici, questi erano due e unlaico, dove prevalevano i laici, erano due laici e un cattolico); o comunquesi arrivava sempre a una composizione che non era sempre una composi-zione di merito, intendiamoci, ma era un riequilibrio; o addirittura un ri-conoscimento di crediti esigibili dagli esclusi (questo non te lo possiamopromuovere questa volta, ma al prossimo concorso vince). E questi eranodei patti d’onore, ossia delle etiche separate e in genere rispettate. Ovvia-mente tutto questo modello funziona soltanto se viene rispettato e vengo-no così salvaguardate la coesione interna e la sopravvivenza stessa dellacorporazione entro la quale si svolgono queste procedure.

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Ma l’ambito delle etiche separate di fatto si estende a quelle molte zo-ne d’Italia dove operano criteri diversi di legalità con cui è inevitabileconvivere. Mi riferisco alle zone molte estese di questo Paese dove ilcontrollo del territorio non è esercitato dallo Stato, o lo è solo in parte,esercitato a macchia di leopardo, ma controllato largamente, più in Cam-pania e in alcune zone della Sicilia, dalla criminalità organizzata di ma-fia, camorra o della ‘ndrangheta calabrese. Una realtà dove operano con-fini rispettati, taciti complicità e compromessi in una pervasiva illegalitàtotale e in un totale sopruso che raramente viene interamente alla luce.Soltanto da analisi accurate o da studi particolari sul territorio è possibi-le capire quanto questi diversi livelli di illegalità siano operanti.

Nella primavera di due anni fa – scusate, porto un esempio personalema forse aiuta a comprendere – sono stato invitato, in occasione dei cento-cinquant’anni dell’Unità, a tenere una lezione in un grande Liceo di ViboValentia in Calabria. Sono cose che noi docenti universitari autori di ma-nuali facciamo spesso perché gli insegnanti ci vogliono vedere in faccia, ipropagandisti vogliono esibire gli autori, insomma si fa questo servizio allaCasa editrice, e forse qualche volta alle nostre tasche, cercando di dare ilmeglio della nostra riflessione. Ma non è di questo che volevo parlarequanto del fatto che in quella circostanza ero accompagnato da un giovaneche lavorava per l’Editrice Laterza e percorrendo quella infinita e mai con-clusa autostrada Salerno - Reggio Calabria in un tratto gli chiedo: “Ma que-sta è autostrada?”, poiché sembrava una strada provinciale non larga piùdi 12 metri. Mi ha risposto “Sì. Qui sappiamo come va” e mi ha raccontatoche in alcune zone altamente urbanizzate della Calabria, tra cui Reggio, ilpizzo non lo pagano solo i commercianti ma lo pagano gli impiegati posta-li, per poter svolgere il loro mestiere, un pizzo minimo che incide di poco,ma lo pagano perché rischiano di vedersi bruciata l’auto parcheggiata fuoridall’ufficio o di trovarla con le quattro ruote bucate, e capiscono che difronte ai 400 euro di gomme nuove forse conviene pagare 30, 40, 50 euro.

Esiste una realtà così frammentata che è difficile coglierla: noi vediamosolo il vertice della grande criminalità; quindi diventa sempre difficile ge-stire questi diversi aspetti e queste etiche separate. Ma a quale delle cate-gorie appartiene questa realtà, alla dimensione dell’identità italiana o èparte strutturale della nostra identità nazionale? Io sono propenso piutto-sto a porla nella dimensione dell’identità italiana dove appunto operanoprevalentemente aspetti antropologici e di natura sociale e sono, ripeto,sempre molto convinto dell’opportunità, per ragioni di chiarezza e perragioni di comprensione della nostra complessità nazionale, di tenere se-parate, di distinguere l’identità nazionale dall’identità italiana.

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Non so quanti di voi, penso molti, abbiano avuto per le mani quei libret-ti, spesso di grande qualità, che appartengono ad una serie pubblicatadall’editore Il Mulino diretta da Ernesto Galli della Loggia. Ernesto Gallidella Loggia, commentatore del “Corriere della Sera”, molto contestato an-che per aspetti che sulla pagina appaiono di una certa arroganza (se possodirlo, per altro mitissimo sul piano dei rapporti personali) ha scritto un li-bro intitolato L’identità italiana, un’identità italiana descritta geograficamen-te – al modo ottocentesco: cos’è l’Italia, cosa è il paesaggio italiano, alcunecomponenti costanti – più che sul piano culturale. Questo però ha dato vitaa una collana dove c’è dentro di tutto e l’identità italiana la vedete esempli-ficata (prendendo a caso quattro o cinque titoli): da Loreto, il santuario diLoreto, a Il Piave, la Canzone del Piave, da Mirafiori, la fabbrica delle fabbrichea La pasta e la pizza (che del resto è ciò con cui siamo identificati all’estero),da Don Bosco a Garibaldi, da Pinocchio a Giovanni Gentile. Questa identità ita-liana è talmente frammentata che potremmo dire che è inafferrabile, dovesta? Eppure, come avete visto, Cavalli ha provato a distinguerla.

L’identità nazionale è invece una costruzione. Per di più è relativamenterecente e quindi soggetta a quella fragilità che dicevo all’inizio, non ha unradicamento plurisecolare, come in Paesi come la Gran Bretagna, la Spa-gna, la Francia; non l’ha certamente la Germania. Molti ritengono che le ra-dici in Germania siano più profonde di quelle dell’Italia, in quanto risalgo-no al modello di subordinazione all’autorità patrocinato dal luteranesimo,quindi con un radicamento dei rapporti con l’autorità e lo Stato che risaleal Cinquecento e al legame di ferro fra Lutero e i Principi protestanti. Lì sipuò individuare forse una linea di continuità che addirittura è stata inter-pretata fino a portarla alle origini del nazionalsocialismo, nazionalsociali-smo come figlio di Lutero: gli storici ne dicono di sciocchezze, anche se so-no facili da ritenere e anche facili da divulgare. Ma questo appartiene almondo degli stereotipi e dei pregiudizi, per cui a Roma normalmente i te-deschi continuano a chiamarli crucchi (anche da alcuni miei amici) o addi-rittura a chiamarli nazisti anche se non lo sono più da settant’anni almeno.

In ogni caso l’identità nazionale italiana è una costruzione recente edè oggi caratterizzata dall’assenza di un patriottismo costituzionale, nonc’è una identificazione comune, è caratterizzata da un permanente diffu-so particolarismo, dal mancato riconoscimento della dimensione supe-riore dello Stato. È dunque una debole identità. A questa debolezza siaggiunge un rapporto non pacificato degli italiani con la propria storia.E questo è un elemento su cui è bene riflettere. Non siamo l’unico Paesein Europa a non avere un rapporto pacificato con la propria storia, nonlo ha sicuramente una parte rilevante dei tedeschi; grosso modo i france-

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si si sono mossi con abilità nei confronti di un passato quando era op-portuno tenerlo nascosto: le complicità del regime collaborazionista diPétain, la guerra d’Algeria e altre violenze, solo ora sta emergendo a fati-ca, nel Paese più razionale d’Europa, una memoria nascosta e che con-viene riportare a galla, anche perché il 2012 era il cinquantesimo anni-versario della guerra d’Algeria. Dunque un rapporto non pacificato conla propria storia con il riemergere di storie alternative – sono state già ci-tate: le varianti leghiste o borboniche – e questa è una ragione non ulti-ma del nostro difficile stare insieme come cittadini, della nostra perma-nente conflittualità, della nostra attuale e drammatica crisi.

Il professor Vidotto risponde alle domande del pubblico

Se si toglie la costruzione politica dal contesto dell’identità nazionale, quanto resta?La domanda è molto interessante e l’osservazione è pertinente. Certo

se leviamo l’aspetto politico dall’identità nazionale ci rimane poco, suquesto ha ragione. L’identità nazionale come io la definisco è appuntoun rapporto fra i cittadini e lo Stato, fra i cittadini e la nazione. Quandoc‘è un’interruzione di questo rapporto l’identità nazionale è debole, èfragile e in qualche caso tende a scomparire.

Una provocazione: se qualcuno non si riconosce nell’identità italiana deve con-siderarsi uno straniero?

Certo molti si sentono stranieri in Italia e questo è, come lei sa, unodegli atteggiamenti più diffusi che ha avuto l’intellettualità italiana, so-prattutto orientata a sinistra, nel ritenersi o anti-italiani o arci-italiani,che è poi dire la stessa cosa. Molti dei critici della realtà italiana sono an-ti-italiani, Giorgio Bocca aveva una rubrica su l’Espresso intitolata pro-prio L’antitaliano. La sensazione cioè di essere stranieri in patria è unasensazione che coniuga intelligenza e comprensione della realtà con uncerto tasso di arroganza intellettuale.

Io credo che si debba ragionare su quello che siamo non dico per ac-cettarci ma per lavorare nel tentativo di cambiare. E purtroppo molti dinoi credo che abbiano la percezione di non avere più gli strumenti concui cambiare. Un tempo c’era qualcosa, che forse era già allora una fin-zione, però molti pensavano che il programma di un partito politicofosse lo strumento per intervenire nel cambiamento. Tutti i meccanismiche la politica si è data negli ultimi anni, con le leggi elettorali, con ladrammatica personalizzazione della politica – che badate bene a mio

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parere non nasce con Berlusconi ma circa dodici anni prima, il primoche vedo emergere è un Presidente della Repubblica come Pertini, chepersonalizza molto, svolge un ruolo da protagonista, è un riferimentoche va al di là del parlamento e della politica – e con la nascita del per-sonalismo politico, pongono gli embrioni dell’antipolitica, sostanzial-mente. Il nostro Paese ha ricercato spasmodicamente un leader carisma-tico e ne ha avuto uno, purtroppo è il caso di dirlo, come Mussolini finoalle sconfitte della guerra – c’è chi dice fino alle leggi razziali ma gliebrei erano concentrati in alcune città dove forse il sentimento in lorodifesa valeva come sentimento antifascista ma era molto ristretto, le co-munità sono sempre state piccole in Italia –, bisogna aspettare le sconfit-te, il ‘41 in Grecia, la sconfitta di El Alamein che cade nell‘ottobre del‘42, nel ventennale del regime che non è in grado di celebrarlo, si ritrae,si nasconde. Oggi nessun partito ha la possibilità di presentarsi all’elet-torato senza una faccia e un nome solo. E questa è un’evoluzione chenon credo possiamo considerare positiva. Il crollo dei partiti tradiziona-li ha dato luogo a un fenomeno su cui ancora una volta l’Italia detieneun primato, un primato così marcato della personalizzazione della poli-tica in assenza di un regime istituzionale che lo consenta, perché il no-stro è un regime strettamente parlamentare, non c’è una repubblica pre-sidenziale, non c’è il presidenzialismo. Ebbene, questo meccanismo si è

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avviato lentamente e un grande uomo di pubblicità ha saputo cogliernei risultati maggiori dopo che alcuni politici l’avevano in qualche modotentato, chi positivamente come Pertini, chi a suo modo negativamentecome Craxi. Se pensate: Craxi è stato per lungo tempo osteggiato nonsolo per ciò che diceva ma per il suo modo di porsi, per la sua immagi-ne, per il suo modo di parlare, per il suo ipotetico cesarismo. Eravamogià entrati, senza saperlo, in una trasformazione della politica e, in virtùdel trionfo della società consumista, eravamo pronti ad accogliere imessaggi interamente pubblicitari e populisti di una nuova forza politi-ca come quella promossa da Berlusconi nel ‘94 e giunta immediatamen-te alla vittoria.

Parlando di identità non si rischia di stimolare l’espressione di stereotipi? Io da storico, se vogliamo da intellettuale, cerco di stare attaccato alla

difesa e alla tutela di una identità nazionale. Gli aspetti di identità italia-na spessissimo scivolano, come dice lei, nello stereotipo, ma attenzione:lo stereotipo non è sempre una componente negativa nel nostro modo diragionare. Intanto è una componente ineliminabile, noi in qualche misu-ra ragioniamo quasi sempre per stereotipi, soprattutto quando ragionia-mo in termini comparativi. È inevitabile, non ci si può sottrarre e direiche è uno degli aspetti più stimolanti dell’attività intellettuale ed è unodegli aspetti su cui è più facile trovarsi d’accordo, trovare degli elementidi convergenza fra diverse idee, così come sono formulate a livello dicultura comune, di cultura diffusa. Lo stereotipo è un aspetto unificantedel tessuto culturale perché allinea i diversi soggetti e può toccare i livel-li alti come i livelli medi come i livelli bassi della comunicazione fra i cit-tadini, fra persone non necessariamente colte.

Quando ho cominciato ad occuparmi di queste cose, avevo un centi-naio di studenti universitari in aula, prevalentemente donne, era la facol-tà di Lettere, mi è capitato di scrivere alla lavagna “tedesco, inglese,francese” e chiedere quali sono i loro caratteri: ovviamente fu un trionfodello stereotipo. Ma non lo si cancella, è un elemento fondamentale dellacomunicazione e conserva in realtà degli elementi di verità. Scusate, citoancora due aneddoti personali. Molti anni fa, nel ‘68 per la precisione, hofatto un viaggio in Egitto, eravamo una coppia con una guida personalee siamo arrivati, portati da una macchina egiziana, alla piramide di Saq-qara, la piramide a gradoni che sta lontano dalle piramidi del Cairo. Co-me scendiamo dalla macchina, uno di quei ragazzini che chiedono l’ele-mosina ci si rivolge in italiano. Non avevamo fatto niente, lui come ciguarda ci vede italiani. Qualche tempo prima, erano gli anni Cinquanta,

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facevo l’autostop su un’autostrada della Germania ed ero posto ultimodella fila degli autostoppisti, che venivano presi secondo l’ordine d’arri-vo appunto: il primo doveva salire per primo, il secondo per secondo ecosì via, io ero l’ultimo, alla fine si ferma una macchina con targa tede-sca, scende uno e mi dice “Salga”, io gli chiedo “Scusi, ma lei come si èaccorto che sono italiano?”, “Da come stava in piedi”. Questo episodionon mi si è mai cancellato dalla memoria. Ci sono degli atteggiamenti fi-sici, dei modi di muoversi, non dico il gesticolare che ci rendono ricono-scibili (io poi in realtà nei blog universitari romani vengo chiamato “Vi-dotto l’altoatesino” per questo mio aspetto e anche per un po’ di accentonordico che mi è rimasto).

Quindi lo stereotipo c’è, si mantiene e ha secondo me una sua vitalità,però bisogna dominarlo, cercare di capirlo, cercare come si costruisce esapersene difendere.

La globalizzazione, con le frontiere aperte, la libera circolazione di capitali e per-sone, iniziata ben prima ma che si percepisce alla fine degli anni Novanta, faemergere il bisogno di ancorarsi alle proprie radici. Questi processi possono averfavorito la ricerca dell’identità?

Lei ha ragione, io nella mia esposizione ho trascurato una componen-te di questo tema perché ho sottolineato come il riemergere della necessi-tà di ritrovare un’identità, spesso ritrovandola in una dimensione locali-stica, nasce in Italia intorno a quegli anni anche con l’affermarsi semprepiù forte delle istituzioni europee. A me pare che l’allargamento alla glo-balizzazione sia un ragionamento condivisibile.

Il misurarsi con gli altri è sempre stata un’operazione complessa, enon è un’operazione solo di oggi, pensiamo alla scoperta dell’altro fattacon l’incontro con gli indios d’America da parte degli spagnoli o deigrandi navigatori o degli esploratori. La misura dell’altro diventa untratto dominante della cultura illuministica settecentesca quando sorgo-no in primo piano le riflessioni sui Paesi lontani, in qualche caso addirit-tura sottolineati come una sorta di Paesi superiori nell’organizzazionesociale a quella europea, come la Cina ad esempio. La Cina non è da og-gi emergente, c’è una Cina che leggono i gesuiti prima e gli illuministidopo, che è una grande civiltà unitaria e fortemente sviluppata. Questascoperta dell’altro porta inevitabilmente ad una reazione. Come deve es-sere questa reazione non è sempre facile dire, o non è sempre auspicabi-le. Per quanto riguarda il Sette/Ottocento la reazione dell’Europa all‘al-tro è stata straordinaria, lo dico anche con una tonalità negativa: aggres-sività delle potenze europee prima nei confronti di se stesse, poi nei con-

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fronti dell’altro mondo. La Cina si chiude, il Giappone si chiude, rimanel’Africa e un intero continente viene conquistato con la forza dagli euro-pei. Dopo che si sono combattuti fino alla fine del Settecento, fino ad ar-rivare alla supremazia inglese nel 1763, quando i britannici conquistano imari e sconfiggono i francesi, l’altro è misurato dall’aggressività euro-pea, dalla superiorità europea, addirittura dall’idea di una missione po-sitiva colonizzatrice dell’Europa. E questo forse dovrebbe farci echeggia-re nella testa la missione, cosiddetta, di portare la democrazia nei Paesiarabi del secondo Bush e della guerra in Iraq, con gli strascichi che anco-ra non sono finiti.

Per quanto riguarda noi e la nostra identità, ci si chiede: questa ritro-vata identità deve rinchiudersi in una difesa del localismo o di un im-probabile elemento unificatore, che non mi pare emerga con forza, o de-ve tradursi in una difesa in positivo delle istituzioni e della nazione co-me si esprime in una organizzazione politica, in uno Stato e nelle sueistituzioni? Ho citato, seppure rapidamente, il concetto di patriottismocostituzionale, questa formula di un filosofo tedesco, Jürgen Habermas,che l’ha trovato come soluzione in positivo ad un Paese diviso. Dice:guardate, il passato è passato, è cominciata un’era nuova, che non puòassolvere l’intera nostra storia, che rimane una storia divisa, una storiaper molte pagine negativa anzi molto negativa, ma noi dobbiamo trova-re l’unità attraverso un nuovo patriottismo di tipo costituzionale in cuil’identificazione con le istituzioni democratiche è il nostro collante, il no-stro elemento di forza nei confronti dell’opinione interna e nel nostroproporci verso l’esterno.

Questa è a mio parere una delle formule migliori che si possono pro-porre. Invece da noi in Italia la conflittualità permanente e le anomaliepermanenti del sistema, del sistema di fatto come si sta praticando, ren-dono anche questa identità inevitabilmente debole e frammentata. Cer-to la globalizzazione accentua questo aspetto ma la globalizzazione poinoi sostanzialmente l’accettiamo, in ogni nostra tasca c’è un oggettoglobalizzato, tutti i nostri cellulari sono fabbricati in Cina o la chip è fab-bricata in Malesia, o i nostri computer, gli elementi con cui lavoriamo,gli oggetti di plastica, la mia penna è fatta in Cina mi pare, scrive benis-simo, noi siamo già dentro questo mondo. Paradossalmente l’Italia hariscoperto le innumerevoli varietà e positività della sua cucina, dei suoivini, delle sue tradizioni locali – tutti elementi che esistevano già nellefeste tradizionali, alimentati tra l’altro dai regimi totalitari come il fasci-smo –, ma non credo che sia questo il terreno su cui dobbiamo trovareun punto di incontro che renda più vivibile e concorde questo Paese. Io

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penso che dobbiamo fare un salto di qualità e cominciare a ripensareper criteri politici piuttosto che per criteri identitari, se mi permettetequesto bisticcio.

Il ruolo della Chiesa nella costruzione della nostra identità.La Chiesa italiana è sempre stata al tempo stesso nazionale ed ecume-

nica, internazionale. Non parlo dei papi stranieri recenti, ma in generaledella Chiesa cattolica quindi universale. Inoltre non credo che si possaparlare anche per la Chiesa di una Chiesa unitaria nel nostro Paese, iopenso che la Chiesa abbia avuto diverse declinazioni, diversi modi di es-sere, anche se io non sono un esperto di questo mondo. La Chiesa catto-lica in Lombardia, a partire da San Carlo Borromeo, il cattolicesimo ve-neto, forme di cattolicesimo politico come quelle interpretate da Giobertio da filosofi come Rosmini è una Chiesa diversa da quella del resto delPaese. Ha svolto un ruolo unificatore, ma soltanto parzialmente, perchéla Chiesa ha avuto sempre un suo Stato, una sua organizzazione ammi-nistrativa, forme alte di nepotismo e di corruzione. Paradossalmente, sevogliamo spingere l’esempio fino in fondo, il grande momento dei mec-canismi corruttivi del nostro Paese, inteso come unità geografica, lo tro-viamo puntualmente nella Chiesa cattolica, nei papi nepotisti, nei nipotisaliti al soglio pontificio, nella distribuzione delle ricchezze, nell’arro-ganza dei pontefici, nei pontefici combattenti e così via. Poi c’è un’altraChiesa, e ci sono gli ordini religiosi. Insomma: è una realtà molto fram-mentata.

La Chiesa ha svolto un ruolo decisivo nella formazione della classedirigente democristiana, questo va riconosciuto all’Università cattolica,al mondo di De Gasperi, di Fanfani, di Dossetti, ha fornito al Paese unaclasse dirigente. Una classe dirigente che poi si è frammentata, con asprerivalità interne, con aperture sociali molto significative che hanno contri-buito alla dissoluzione di quel partito, nel senso che voi sapete: oggil’eredità di quel partito è suddivisa in tante forze diverse, quindi la Chie-sa è uscita dalla scena politica italiana, o almeno sembra esserne uscita,in maniera drastica.

Il contributo, se vogliamo semplificare al massimo, è questo: durantel’Ottocento, salvo il breve periodo 1846-47 in cui Pio IX apparve il pri-mo riformatore d’Italia, la Chiesa è all’opposizione, tutta la Chiesa, inprimis la “Civiltà cattolica”, i parroci. La Chiesa si oppone alla Primaguerra mondiale, i cattolici si oppongono in gran parte, anche se sono inmolta parte cattolici i giovani volontari che vanno a combattere. LaChiesa riprende un ruolo politico nella sua parziale opposizione al fa-

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scismo, c’è poi il Concordato, poi ci sono i dissidi fra Azione cattolica efascismo, poi contribuisce alla rinascita del Paese creando una nuovaclasse dirigente. Oggi il suo ruolo mi pare secondario. Quindi credo chenon si possa parlare di un ruolo unitario della Chiesa ai fini di unaidentità nazionale, il suo ruolo è stato prevalentemente di opposizionequando quell’identità nazionale veniva costruita attraverso il mito diuna permanenza lunga nel tempo di una cultura di una realtà nazionaleitaliana, un mito costruito dagli intellettuali. Pensiamo al pensiero diGioberti, molto caduco, l’idea cioè che l’Italia avesse un primato e chequesto primato lo derivasse dalla continuità della Chiesa cattolica allaquale doveva essere attribuito un ruolo di unificazione del Paese: la suaera evidentemente una proposta irrealizzabile. Gran parte della estesa,possiamo dire diffusa, élite nazionale italiana la considerava decisamen-te all’opposizione e aveva avvertito che la Chiesa era uno degli ostacoliprincipali all’unità italiana. Lo sarebbe stata poi di fatto: l’ultima con-quista che porta all’unità è la conquista di Roma, 1870. Pensate che Ro-ma viene proclamata capitale d’Italia, o meglio acclamata capitale d’Ita-lia, il 27 marzo 1861 e devono passare più di dieci anni prima che diven-ti capitale effettiva. I conti si devono fare con la Chiesa ma soprattuttocon chi allora la proteggeva, e cioè Napoleone III. La conquista di Romanon fu una grande impresa militare, i francesi non poterono rientrare aRoma a difendere la città del papa perché intanto Bismarck aveva prov-veduto a sconfiggerli, quindi noi dobbiamo la conquista di Roma a Bi-smarck. È così.

La nostra Costituzione, pur essendo riformabile, resta largamente condivisibile,ma il problema è che nella società italiana non si sono mai affermati quei valoriche avrebbero consentito alla Costituzione di realizzarsi.

Il fatto è che la nostra Costituzione è in realtà troppo prescrittiva, in-dica dei valori difficili da raggiungere, per cui sistematicamente alcunidei principi generali della Costituzione sono disattesi. Questo nasce dalfatto che la maggioranza dei costituenti era socialmente molto motivata,sia i cattolici sia i comunisti. Ne è risultato dunque un testo costituziona-le che ha indicato troppi obiettivi da raggiungere e invece è mancato neimeccanismi che garantiscono un buon funzionamento del sistema politi-co parlamentare.

Questo è accaduto perché dopo vent’anni di regime fascista si è cerca-to di indebolire al massimo il potere esecutivo, introducendo in più il bi-cameralismo, che inizialmente non era perfetto perché si votava in tempidiversi per il Senato e per la Camera ma poi di fatto i momenti elettorali

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sono stati unificati, la situazione non ha fatto altro che peggiorare. Gliistituti che dovevano essere attivati immediatamente, dalla Corte costi-tuzionale alle Regioni, lo sono stati in tempi molto lunghi e posteriori al-l’enunciazione della Costituzione. Soprattutto è accaduto che anche do-ve la ragione vorrebbe un aggiustamento della Costituzione, ci sono iocredo eccessivi arroccamenti in sua difesa. Alcuni la vogliono piegare afini troppo personali, altri pensano che non si debba toccare perché rap-presenta l’ultimo caposaldo del sistema democratico italiano, e forse nonhanno torto. Però se pensate a quello che sta accadendo o è accaduto ne-gli ultimi due anni e alla figura e al ruolo che ha assunto l’attuale Presi-dente della Repubblica, io credo che non si debba essere poi dei grandicostituzionalisti per capire che nella Costituzione il comportamento diNapolitano non è previsto, Napolitano è andato e sta andando molto ol-tre il dettato costituzionale. È un bene, è un male? Non lo so, sospendo ilmio giudizio, ma se stiamo alla forma della Costituzione, il Presidentecome notaio, non mi pare che ci siamo proprio.

Quindi si vede, come di fatto c’è, da un lato la Costituzione scritta edall’altro la Costituzione materiale. Questi due momenti non si incrocia-no perché non si arriva a una riforma costituzionale che tenga conto del-le varianti materiali di fatto della Costituzione, perché queste variantimateriali sono sposate di volta in volta diversamente e conflittualmenteda forze politiche diverse. Quindi la Costituzione rimane lì, e forse è unbene che rimanga come elemento, diciamo così, regolatore, nonostanteda molte parti la si stiracchi a beneficio degli uni o degli altri.

Il background identitario italiano ci mantiene lontani dalla costruzione di unaidentità nazionale, la cui fragilità deriva proprio da questa lontananza.

Ho trascurato questo punto però l’avevo colto. La Costituzione è untesto scritto da politici, da giuristi, da Mortati, grande costituzionalista,c’era addirittura ancora Vittorio Emanuele Orlando, cioè i grandi giuristidi inizio secolo, non potevano tener conto dei caratteri identitari, perchéi caratteri identitari nella loro grande somma erano negativi, o appariva-no tali, e quindi questa contraddizione inevitabilmente rimane, non c’èniente da fare.

Cosa si può fare? Io non ho ricette, a dir la verità. La politica come di-spensatrice di risorse, di benessere, di prospettive per il Paese, mi pareormai sia totalmente afona, senza capacità di dire parole nuove in questosenso. Neppure nella sua funzione di mediatrice mi pare sia in grado dimettere in salvo una situazione a mio avviso in drammatica crisi. Certonoi teniamo alla nostra identità italiana, nelle sue innumerevoli versioni,

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Italiane e italiani

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ci riconosciamo in questa, ce ne compiaciamo qualche volta, ma non sia-mo in grado di tradurla in un discorso politico unitario che consenta disuperare le divisioni attraverso dei meccanismi consensuali.

Queste stagioni capitano raramente nella storia di un Paese. Una sor-ta di soprassalto dai contenuti purtroppo eccessivamente moraleggiantisi ebbe nel ‘92-’94, ma fu gestito male e paradossalmente partiti che ave-vano un radicamento profondo nel Paese, una tradizione, un backgroundideologico di cui forse non avrebbero dovuto poi così vergognarsi, han-no cercato quasi tutti altre strade e alcuni di loro si sono misteriosamentedissolti, con il salvataggio che il sistema elettorale consentiva loro: spo-starsi come individui e non come rappresentanti di una ideologia e diuna tradizione, per cui li troviamo disseminati negli altri partiti. La clas-se politica numericamente è rimasta, sarei per dire che una parte consi-stente di quella classe politica è la stessa, salvo i pochi dei vertici che so-no stati emarginati e che ritroviamo in rendez-vous celebrativi. Ce n’è sta-to uno a Roma per Craxi, sono ricomparsi tutti, da Formica a Signorile,ovviamente c’era anche Napolitano. L’altro giorno ce n’era uno per DeGasperi, ci sarà andato Forlani. Né gli assolti né i condannati che hannoscontato le loro pene sono in grado di riproporre qualcosa, e non sareb-bero in grado di riproporsi agli italiani.

La cosiddetta repubblica dei partiti è finita, e credo che sia finita persempre. I partiti di oggi non sono più quelli di una volta, le frammenta-zioni eccessive che li separano, le arroganze non lasciano a mio parereben sperare. La guida non è una guida ferma che consenta di individua-re obiettivi comuni e del resto attualmente la separazione e soprattuttol’antipolitica stanno uccidendo, se non l’hanno già uccisa, la politica. Percui la Costituzione con i suoi valori appare come il residuo di un passatoin cui si avevano certezze comuni, certezze comuni che ormai mi parenessuno sia in grado di condividere. È un messaggio pessimistico peròmi pare che oggi la situazione sia questa.

Il tema dell’immigrazione è importantissimo nel rapporto di circolarità-integra-zione, tra chi siamo noi e chi sono gli altri. Abbiamo davanti una grande sfida.

Certamente questo è un tema cruciale, però i numeri non sono ancoratali da porcelo di fronte in tempi immediati. Gli sbarchi, la Chiesa conl’accoglienza, siamo ancora a quel livello iniziale, eppure la realtà stacambiando. Ma quanto tempo ci vuole?

Lei lo vede come un dato positivo questo aspetto oppure pensa che leresistenze così diffuse si tradurranno in un ennesimo dato di conflittuali-tà all’interno del Paese? Al momento siamo a questo stadio, io non vedo

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VITTORIO VIDOTTO

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una soluzione positiva. Certo almeno a livello di scuole elementari sap-piamo quanta presenza ci sia, anche per il tasso demografico più elevatoportato dagli extracomunitari, ma vedere in questo una rinascita delPaese mi sembra difficile.

D’altro canto abbiamo un parlamento diviso in tre spicchi nessunodei quale è in grado di proporre un discorso unitario al Paese e questetre parti non sono in grado di trovare degli obiettivi condivisi. Come cimuoviamo? Usciamo dal sistema democratico? O auspichiamo un colpodi Stato? Torniamo alle elezioni: c’è una maggioranza per governare ilPaese? A maggior ragione se si cambia la legge elettorale: se si va con unsistema proporzionale – può accadere perché non c’è nessun accordo –non c’è una maggioranza, lo sappiamo tutti. L’unica cosa che forse riu-sciranno a fare è indicare una soglia al di là della quale scatta il premiodi maggioranza tenendola molto alta, per cui nessuno arriva al 40 percento e quindi nessuno ci guadagna. E poi? Poi ci saranno sempre, rebussic stantibus, tre forze opposte l’una contro l’altra e non ci sarà maggio-ranza. Quindi il sistema democratico è in grave crisi, come se ne escenon lo so. Bisogna accettare le regole della democrazia, ma le regole del-la democrazia qualche volta sono punitive per il Paese.

Vittorio Vidotto è laureato in Storia moderna presso la facoltà di Let-tere dell’Università La Sapienza di Roma, ha svolto attività didatticaprima come assistente poi come associato di Storia moderna; dal 1996-97 è passato a Storia contemporanea prima come associato poi comeprofessore ordinario presso la medesima facoltà. Dal 1976 al 1983 èstato professore incaricato di Storia moderna e contemporanea pressola facoltà di Lingue dell’Università “Gabriele D’Annunzio” di Pescara.Redattore di storia medioevale e moderna presso l’Istituto dell’Enci-clopedia italiana nel 1966-67, dal 1980 responsabile del settore di Sto-ria e Politica contemporanea per le opere enciclopediche generali delmedesimo Istituto. Attualmente si occupa di violenza politica in Italianegli anni Settanta.

Autore di manuali di storia contemporanea con Giovanni Sabbatuccie di storia moderna con Renata Ago, nel 2004 presso Laterza ha pubbli-cato una Guida allo studio della storia contemporanea. Sempre per Laterzaha pubblicato molti testi di storia adottati nelle scuole superiori (conGiovanni Sabbatucci e Andrea Giardina). Inoltre segnaliamo: Italiani/e.Dal miracolo economico a oggi (Laterza, 2005) e Italiane/i (rivista “il Muli-no”, aprile 2011).

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Italiane e italiani

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Suggerimenti per l’approfondimentoVITTORIO VIDOTTO, Italiani/e. Dal miracolo economico ad oggi, Bari-Roma,

Laterza, 2005.VITTORIO VIDOTTO, Italiane e italiani, in: “il Mulino” n°2/2011.GUIDO CRAINZ, Autobiografia di una repubblica. Le radici dell’Italia attuale,

Milano, Feltrinelli, 2009.ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, L’identità italiana, Bologna, il Mulino, 1998.DAVID MOSS, Valori e identità, in: a cura di S. Woolf, L’Italia repubblicana vista

da fuori (1945-2000), Bologna, il Mulino, 2007.TOMMASO PADOA-SCHIOPPA e STEPHEN GRAUBARD (curatori), Il caso italiano 2,

Milano, Garzanti, 2001.CARLO TULLIO-ALTAN, Gli italiani e l’Europa. Profilo storico comparato delle

identità nazionali europee, Bologna, il Mulino, 1999.

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VITTORIO VIDOTTO

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ALDO SCHIAVONEIstituto Italiano di Scienze Umane, Firenze

LA FORMAZIONE DI UN CARATTEREEredità della Riforma e della Controriforma in Italia

Francesco Trombetta

Il motivo per il quale abbiamo invitato il professor Schiavone e siamocontenti di sentirlo questa sera è che ha prestato il suo guardo di storico,quindi uno sguardo preparato e attento alla lunga durata, alle vicende del-la difficile identità italiana e della debole identità nazionale, per riprenderei termini di Vittorio Vidotto, che hanno attualmente gli italiani. Ha guar-dato nel passato, ha trovato una serie di punti deboli nella storia italiana eha trovato nel periodo della Controriforma un momento particolarmentesignificativo per quanto riguarda la formazione del moderno carattere de-gli italiani. Abbiamo ristudiato questo percorso attraverso il suo ultimo in-tervento/dialogo con Ernesto Galli della Loggia, Pensare l’Italia, uscito nel

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2011 presso Einaudi, ma già prima il professor Schiavone aveva affrontatoquesta tema in Italiani senza Italia. Storia e identità, che purtroppo non è piùin commercio, ma si trova nelle biblioteche. Ricordo poi L’Italia contesa. Sfi-de politiche ed egemonia culturale, nel quale il professor Schiavone affrontaanche un periodo più vicino a noi. Non posso però dimenticare che il suoultimo è Non ti delego. Democrazia. Perché abbiamo smesso di credere nella loropolitica, sulla crisi della rappresentanza politica, così come il volume Ius.L’invenzione del diritto in Occidente, un testo fondamentale. Comunque ilmotivo fondamentale per cui abbiamo chiesto al professor Schiavone diessere qui è di ragionare con noi sul perché noi italiani abbiamo questo ca-rattere così umbratile, così più attento ai sotterfugi, al confessare e poi acomportarsi in un modo diverso da come ci si è confessati, che fa partedella storia degli italiani, di quella parte della nostra identità che è l’identi-tà italiana e non l’identità nazionale. In questo io ho trovato – poi forse ilprofessore smentirà – una convergenza con la conclusione del professorVidotto: c’è un’identità nazionale da costruire, ma un’identità italiana pre-ponderante con punti deboli. A questa stessa cosa il professor Schiavonesostanzialmente ci rimanda quando parla della Costituzione come ele-mento indispensabile per costruire una identità più forte.

Aldo Schiavone*

Innanzitutto grazie, mi fa molto piacere essere con voi e avere la pos-sibilità di fare questa chiacchierata. Ho visto dal programma che il filoche le associazioni organizzatrici stanno seguendo, in questi incontri eanche in altri che si sono svolti in anni diversi di cui ci sono le traccescritte, è un po’ questo tentativo di ricostruzione della identità italiana.Un grande tema che si collega subito, io credo, ad una nostra particolari-tà e cioè la nostra fragilità identitaria, i dubbi e la leggerezza in qualchemodo di questa nostra identità nazionale. Questo tema, che noi così sen-tiamo, appartiene soltanto all’Italia in Europa, difficile, se vi spostate inFrancia o in Germania o in Inghilterra o anche in Spagna, trovare discus-sioni così accanite sull’identità francese o l’identità spagnola o l’identitàinglese: vengono date per scontate, non sono più un problema, sono undato di fatto. Da noi invece sono un problema. Questo già ci rimanda aduna fragilità, ad una debolezza, ad un punto critico. Ci si interroga su sestessi quando si è incerti di sé, altrimenti troppi dubbi non vengono.

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ALDO SCHIAVONE

* Trascrizione a cura della redazione, non rivista dal relatore.

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E vorrei aggiungere un altro elemento di riflessione prima di venire almerito della nostra chiacchierata di questa sera. Vi è sempre un rapportofortissimo tra la storia e il presente, tra la domanda di storia, il bisognodi interrogarci sul passato e quello che sta accadendo nel presente. Que-sto capita nelle nostre vite individuali e capita per le memorie collettive,per le storie delle grandi formazioni sociali, dei Paesi, delle nazioni. E iocredo che il bisogno di storia nasca oggi da una percezione che noi ab-biamo molto forte, che si sta purtroppo accentuando sempre di più inquesti anni: quella che l’Italia stia entrando in una stagione di declino.Quindi questo bisogno di tornare sul nostro passato io credo è dettatooggi soprattutto dall’esigenza di capire che cosa sta accadendo, che cosaci sta accadendo, che cosa sta accadendo all’Italia e quali sono le progno-si che noi riusciamo a fare sulla crisi che ci sta attraversando, che sta di-ventando qualcosa in più di una crisi congiunturale, qualcosa in più diun momento difficile come può capitare nelle grandi congiunture inter-nazionali, sta diventando qualche cosa di più: l’avvio di un declino ita-liano. Ecco, la domanda che io vorrei pormi con voi è: è giusta questapercezione che noi stiamo avendo? Badate, fino a qualche anno fa questapercezione del nostro declino era oscurata dal carattere generale, mon-diale della crisi – diciamo dal 2008 in poi. La crisi economica, produttiva,finanziaria riguardava il mondo, l’Occidente quantomeno, ma si può di-re l’intero mondo, nel quale c’eravamo anche noi. Ma nel momento incui gli altri grandi Paesi del mondo, le altre grandi economie stannouscendo dalla crisi, almeno per i suoi aspetti congiunturali, emerge dipiù che in Italia non si trattava soltanto di una crisi economica importatadall’esterno ma che la crisi economica importata dall’esterno nasconde-va degli elementi più profondi e soltanto italiani, che ci parlano dellapossibilità realistica, forte, di un declino dell’Italia. Fino ad ora questodeclino era in qualche modo nascosto dal carattere internazionale, mon-diale della crisi. Ora che questo carattere mondiale sta venendo meno,ora che si sente molto meno questa aria di crisi in Germania, in Francia,in Inghilterra, in America – in America e in Giappone ci sono addiritturasegni fortissimi di ripresa, in qualche modo anche in Germania, in Fran-cia la situazione è un po’ più complicata ma insomma anche lì non èquella d’Italia – allora questa fuoriuscita dalla crisi per il resto dell’Euro-pa e non per noi sta rendendo evidente che qui non si trattava soltantodi una crisi importata dall’esterno, dal disastro finanziario americano,dalla bolla speculativa americana e quant’altro, ma che quella crisi na-scondeva qualche cosa di più profondo che riguardava soltanto noi. Lasensazione è che non si tratti, dicevo, di un declino congiunturale, di an-

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ni difficili, ma di un declino strutturale, che cioè apra la via ad un lungoperiodo, ad una lunga fase di difficoltà dell’Italia.

Allora la prima domanda che dobbiamo rivolgere alla storia quandoci interroghiamo partendo da questi problemi è: è già accaduto in altrimomenti per l’Italia qualcosa del genere? E la risposta – forse dovrei direpurtroppo, ma quando si studia la storia il purtroppo ha poco senso – èsì, è già accaduto all’Italia di precipitare, nel giro di un paio di genera-zioni, da una situazione di assoluta eccellenza, di assoluto predominio,di assoluta egemonia, ad una situazione invece di marginalità estrema,di caduta verticale. E allora cerchiamo di fissare le coordinate storiche diquesto percorso. L’Italia, come sapete benissimo, ha una storia lunghissi-ma, è tra i Paesi europei, insieme alla Grecia, quello che ha la storia piùlunga, una storia plurimillenaria, ma, a differenza della Grecia e unici almondo, in questa storia millenaria noi abbiamo avuto due momenti diprimato assoluto in cui siamo stati il Paese trainante nella storia di tuttol’Occidente, ma per certi versi potrei dire nella storia dell’intero pianeta.Per due volte l’Italia si è trovata in questa posizione di primato assoluto.La prima volta evidentemente appartiene alla storia antica, con Roma,quando l’Italia conquistata dai Romani è diventata un sistema centratosu Roma, un sistema romano-italico, che ha dominato il mondo e che hairradiato non solo potenza militare, ma cultura, civiltà e ha dominato ilmondo per secoli. Tra il primo secolo avanti Cristo e il terzo-quarto seco-lo dopo Cristo, quindi per quattro-cinque secoli, il sistema romano-itali-co è stato al centro del mondo allora conosciuto, sicuramente al centrodell’Occidente. La seconda volta, e ci riguarda un po’ di più per le coseche dobbiamo dire e su cui dobbiamo riflettere questa sera, si è verificatacirca mille anni dopo questo primo primato ed è stata l’Italia tra i Comu-ni e il Rinascimento, l’Italia che tra il Duecento e la fine del Quattrocen-to, la metà del Cinquecento, la periodizzazione può più o meno oscillare,ma diciamo l’Italia tra il Duecento e il Cinquecento per periodizzare unpo’ alla buona, quindi l’Italia dei Comuni e poi l’Italia del Rinascimento,è stata il motore che ha costruito la modernità dell’Occidente. Senza ilprimato italiano tra Duecento e Cinquecento non vi sarebbe stata quellache noi chiamiamo la modernità dell’Occidente. L’Italia fra Duecento eCinquecento, le città italiane, perché questa rinascita è stata soprattuttouna rinascita urbana, erano come le grandi città americane di oggi. Fi-renze, Venezia, Roma, Napoli, Milano erano come New York, Los Ange-les, Londra, Parigi, Tokyo di oggi, le città motori del mondo. Non c’eranel mondo innovazione culturale, artistica, economica, sociale, di vitaurbana, di sociabilità civile che non venisse dall’Italia, che non nascesse

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dall’Italia. Tutto quello che era nuovo, tutto quello che era bello, tuttoquello che era importante, tutto quello che sapeva di novità era italiano.Però questo primato ha degli elementi molto peculiari su cui vorrei con-centrare la mia attenzione. Il primo è che – guardate che cosa curiosa peralcuni aspetti – la storia dell’Occidente si è rimessa in moto in Italia pro-prio là dove c’era stata la rottura, la catastrofe più forte, quella che cono-sciamo come la fine del mondo antico. L’Italia romana, quel sistema chedicevo prima romano-italico era crollato – per una serie di ragioni cheora non mette conto qui approfondire – fra Terzo e Quinto secolo dopoCristo e l’Italia era diventata il punto più drammatico della crisi dell’in-tera Europa e dell’intero Occidente, il punto più drammatico. Pensateche la Roma imperiale era una città di più di un milione di abitanti, laRoma dell’Ottavo e del Nono secolo si era ridotta a una città di 20 milaabitanti, sperduti in questo oceano di rovine. Il motto che segnava il ve-rificarsi di questo disastro era Roma quanta fuit ipsa ruina docet, è la gran-dezza della rovina che diceva a questi sparuti abitanti che cosa fosse sta-ta la grandezza di Roma. È un vescovo alto-medievale del decimo secoloche lo afferma: è la grandezza della rovina che ci dice che cosa deve esse-re stata nei secoli passati Roma. Ebbene, esattamente laddove si era veri-ficata la catastrofe più drammatica e più forte, lì a partire dal 1100 si ri-mette in movimento il motore della storia d’Europa. Ci potremmo inter-rogare e daremmo risposte molto importanti e molto significative – chenon tocchiamo questa sera – sul perché si verifica questa simmetria, per-ché là proprio dove si determina la fase più acuta della crisi secoli doposi avvia la ripresa, ma diciamo che la ripresa del secondo Medioevo svi-luppa alcuni caratteri, che erano già stati caratteri dell’Italia romana,quello che ho chiamato il sistema romano-italico, il primo dei quali, e quiveniamo ad un punto cruciale per il racconto che dobbiamo continuare afare, è un irriducibile, fortissimo, insopprimibile pluralismo: l’Italia èun’Italia plurale. Era stata già l’Italia romana un’Italia plurale. L’Italiaantica, l’Italia mediterranea, l’Italia romana era un’accozzaglia di etnie edi culture profondamente diverse: i greci nel Sud, i sanniti, gli etruschi,gli umbri, i liguri. Etnie e culture profondamente diverse sulle quali eracalata l’egemonia romana, e Roma stessa era diversa rispetto a tutte que-ste etnie e queste civiltà. Ricordate il mito troiano di Roma raccontato daVirgilio nell’Eneide. Cosa significava quel mito? La percezione di una ra-dicale diversità di Roma rispetto al resto dell’Italia: noi siamo romani e iromani vengono dai troiani. Figuriamoci, da un popolo che venivadall’Asia. È dovuto arrivare Enea dall’Asia minore, da Troia per creare lepremesse che poi avrebbero portato a Roma. Quindi questa sensazione

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fortissima di alterità: Roma è un’altra cosa, non è l’Italia. Poi Roma con-quisterà l’Italia, creerà un complesso sistema di egemonia per padroneg-giare questa pluralità. E la trasformerà in una pluralità non solo di cultu-re e di etnie ma in una pluralità di città. Ecco, fermiamoci su questo pun-to: di città. Il modello, l’iconografia antica dell’Italia è l’Italia turrita,l’Italia dalle cento città. Nessun altro Paese del Mediterraneo antico,nemmeno la Grecia, era così ricco di città diverse come l’Italia. Il plurali-smo, questo carattere di irriducibile diversità e pluralità, si riproduce nelMedioevo: l’Italia comunale nasce come irriducibilmente plurale. L’Italiadei Comuni è un’Italia plurale: culture diverse, città diverse, sistemi e or-ganizzazioni politiche diversi, grandissima frammentazione. Frammen-tazione che in quel contesto esprimeva anche una straordinaria capacitàdi produrre energie e di produrre novità, quindi questo incontenibilepluralismo come fattore di crescita, come fattore di sviluppo, come fatto-re di modernizzazione. Questa è l’Italia prima comunale e poi del Rina-scimento. E però, insieme, la percezione – certo percezione soltanto colta,solo dei ceti colti – che questo incontenibile pluralismo si sviluppava al-l’interno di una medesima cornice e che questa cornice era data appuntodal comune riferimento all’Italia. In Italia si parla di Italia, se mi consen-tite questo bisticcio, secoli e secoli prima che in Francia si parlasse diFrancia o in Spagna si parlasse di Spagna o in Germania di Germania oin Austria di Austria. L’idea che questa combinazione, diciamo così, dia-lettica fra poli opposti del pluralismo, della moltiplicazione dei centri,dei luoghi, delle culture, e la sensazione che nonostante questo plurali-smo si fosse dentro uno stesso quadro, si fosse comunque dentro unastessa cornice e che questa fosse la cornice culturale e storica della peni-sola, dell’Italia, ha accompagnato tutta la cultura prima comunale e poidel Rinascimento. Qui siamo a due passi da Milano: l’ambasciatore deiComuni che combattono contro Barbarossa a metà del dodicesimo seco-lo, alle trattative di pace con Barbarossa dirà che hanno fatto quella bat-taglia che ha portato a Legnano per la dignità e per l’onore dell’Italia.Non dei singoli Comuni, pensate, nel 1100: pro dignitate et honore Italiae.

E però questo incontenibile pluralismo provoca ad un certo momentouna trasformazione nel corso del Quattrocento – e ci avviciniamo al temadel nostro discorso – e cioè la formazione di quelli che la storiografiachiama gli Stati regionali italici: Napoli, Roma, Firenze, Milano, Venezia.Nel Quattrocento la nascita di questi Stati regionali in Italia porta ele-menti di novità istituzionale, giuridica, politica senza eguali in Europa.Solo che di queste innovazioni, anche giuridiche, anche istituzionali, an-che politiche, noi in Italia non sappiamo, diciamo così, tirare le conse-

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guenze e questi Stati regionali italici sono la incubatrice dei grandi Statinazionali fuori d’Italia: della Francia, della Spagna, dell’Inghilterra. Ilmodello è quello degli Stati regionali italiani, e però noi oltre questo nonriusciamo ad andare. È il punto in cui si decide la storia d’Italia, comeMachiavelli e Guicciardini avevano subito capito. Devo dire per la veritàGuicciardini forse ancora più di Machiavelli, venendo anche qualche de-cennio dopo ha visto anche più cose. Nella seconda metà del Quattro-cento, questi cinque grandi Stati regionali costruiscono, intorno a Firen-ze, una specie di sistema che è alle soglie di qualche cosa di più comples-so, e cioè di una specie di Stato federale italico, italiano.

Ma questo passo non viene compiuto, perché il pluralismo locale ècosì forte, se volete la capacità di crescita delle singole realtà locali è cosìforte, che la forza centrifuga prevale. Prevale la spinta alla fuga e non al-la unione. Tra metà e fine Quattrocento questo passo decisivo che avreb-be dovuto portare a qualche cosa di inedito nella storia d’Europa, allanascita di una unità fondata non sulla centralizzazione ma su un sistemache io dico, approssimativamente per capirci, federale, o comunque cheavrebbe dovuto portare ad un’unità fondata su questa pluralità, non sirealizza. Non si realizza perché il pluralismo, che era la nostra ricchezza,diventa anche il nostro impedimento, come spesso accade nella storiache il volano a un certo momento smette di essere tale e diventa un osta-colo. Questo è un meccanismo che i processi storici ripetono molto spes-so. Quello che fino a un certo punto è stato il motore, è stato la forza, di-venta la fragilità, si rovescia su se stesso, cambia di segno, diciamo così,e diventa l’elemento di debolezza.

Questo passo avanti non viene compiuto nel momento in cui gli altrigrandi Paesi europei invece lo compiono, proprio perché loro avevanoun pluralismo molto minore da fronteggiare e quindi le spinte centraliz-zatrici sono molto più potenti e, come dire, cadono nel vuoto. Questo ac-cade in Francia, questo accade in Spagna, questo accade in Inghilterra.Accade, soprattutto per quello che riguarda la storia d’Italia, in Spagna ein Francia, i grandi Paesi a noi più vicini. Si determina una frattura. Danoi c’è ricchezza, c’è civiltà, c’è cultura, non c’è potenza politico-militare.Si apre questa frattura che dominerà tutta la seconda parte del Rinasci-mento in Italia tra civiltà e potenza, straordinaria civiltà che non è riusci-ta a darsi una forma politico-istituzionale adeguata. C’è un libro bellissi-mo, difficile ma bellissimo, scritto da un filosofo italiano, Roberto Espo-sito, Pensiero vivente. Origini e attualità della filosofia italiana, uscito da Ei-naudi nel 2010, in cui Esposito mette in campo un dispositivo concettua-le che funziona così: questo pluralismo italiano ha al sul fondo un rap-

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La formazione di un carattere

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porto tra le forme e la vita sbilanciato fortissimamente dal lato della vitae non delle forme e quindi tutte le volte in cui il pensiero deve allonta-narsi dalla vita per chiudersi dentro un quadro, una cornice formale, loevita, lo abbandona. Questa, lui dice, è l’originalità del pensiero italianorispetto al pensiero filosofico francese, tedesco soprattutto, e anche ingle-se – ma a suo parere soprattutto francese e tedesco – questo primato del-la vita sulle forme. E c’è un collegamento tra questo che lui dice e il datoche io sto cercando di far emergere, cioè questa nostra incapacità di chiu-dere in modo solido questo incontenibile pluralismo italiano dentro unaforte forma unitaria. Anche se – e qui il discorso diventa più complesso,io mi provo a farlo con voi – non è affatto detto che in Italia alla fine delQuattrocento avremmo dovuto costruire uno Stato accentrato comequello francese o quello spagnolo. Potevamo inventare una forma diver-sa. In fondo l’equilibrio tardo quattrocentesco fra i cinque Stati regionalialludeva già in qualche modo a qualcosa di diverso. L’equilibrio centratosu Firenze alludeva a qualche cosa di diverso, a qualche cosa – io dicoper capirci – di federale, di confederato. E però non abbiamo avuto laforza politica, ma anche culturale, di compiere questo passo, di inventa-re una forma unitaria adeguata al nostro pluralismo, e quindi quel plu-ralismo che ci aveva fatto diventare grandi ci dannò.

La storia si rovescia su se stessa. I grandi Paesi, che hanno ormai spa-zi e numeri incommensurabilmente più grandi di quelli dei singoli Statiregionali italici, ma sono attiratissimi dall’Italia perché vi vedono ancorail centro di tutta la civiltà europea, ci mangiano, si avventano sull’Italia e

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ALDO SCHIAVONE

Roberto Spagnolo, Aldo Schiavone, Francesco Trombetta.

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ci mangiano. I francesi, gli spagnoli, poi gli austriaci, i tedeschi, si avven-tano su di noi e ci mangiano. Quell’equilibrio fragilissimo, elegante, co-struito intorno a Firenze si spezza. Gli Stati italiani si rivelano per quelloche sono: degli Stati culturalmente, socialmente, economicamente avan-zatissimi ma politicamente e militarmente praticamente inesistenti, diuna fragilità inesistente. Naturalmente, come sempre accade nella storia,le cause si moltiplicano: l’economia italiana subisce un contraccolpo do-vuto al fatto che l’asse economico dell’Europa si sta spostando sempre dipiù dal Mediterraneo all’Atlantico. Questo marginalizza Venezia, margi-nalizza Genova, marginalizza anche per certi versi l’economia fiorentina,tutto il sistema mercantile costruito intorno a Venezia, il sistema produt-tivo lombardo. Quindi noi perdiamo insieme anche il primato dell’inno-vazione tecnologica. Le nostre manifatture cominciano a regredire dalpunto di vista della innovazione tecnologica in cui fino al Cinquecentoeravamo stati molto avanti.

Ed è su questa Italia in difficoltà e ormai invasa, su questa Italia che per-de colpi e retrocede, che cala il gelo della Controriforma – che è il punto te-matizzato nel titolo della mia lezione di oggi – cioè dell’unica potenza ingrado di parlare a tutta l’Italia e di unificarla, ma non politicamente: laChiesa. Ma quando noi diciamo che tutta l’Italia moderna è figlia dellaControriforma ed è dipendente dalla Chiesa, diciamo una cosa inesatta senon ci riferiamo a quello che ho detto fino ad ora, e cioè all’assenza di unitàe all’assenza di uno Stato in qualche modo unitario. Perché? Il cattolicesi-mo e la Controriforma non hanno agito soltanto in Italia. C’è stata una pre-senza fortissima del cattolicesimo e della Controriforma in Spagna, peresempio. Tutta la storia spagnola sarebbe incomprensibile senza il peso del-la Controriforma. E la stessa storia francese sarebbe incomprensibile se nontenessimo conto del peso che ha avuto in Francia la Controriforma, il disci-plinamento cattolico, l’irrigidirsi e, come dire, il solidificarsi, il cristallizzar-si, l’irrobustirsi, del disciplinamento cattolico. Ma in quelle realtà, la Spa-gna, la Francia, il peso della Chiesa era compensato dalla forza degli Statiche erano nati, e quindi nasce subito una dialettica forte tra Stato nazionalee Chiesa. Naturalmente la Chiesa cerca di guadagnare posizioni ma lo Sta-to, anche lo Stato cattolicissimo, il più cattolico di tutti, lo Stato spagnolo,tutta la storia spagnola del Cinquecento e del Seicento è una storia di oppo-sizione, di argine che lo Stato, i re, fanno rispetto al tentativo di prevalere,di prevaricazione della Chiesa. In Italia è la stessa Controriforma, è la stessaChiesa, che però di fronte non ha lo Stato, non ha niente, non ha niente.Noi, secondo una formula bella, efficace di uno storico italiano, GiovanniLevi, dalla fine del Cinquecento abbiamo messo la parrocchia al posto dello

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Stato. Dove gli altri, la Francia, la Spagna, l’Inghilterra, mettevano lo Stato,noi abbiamo messo la parrocchia. Non c’era altro, non c’era altro. E questodoppio elemento, la forza della Chiesa non arginata da una presenza altret-tanto forte dello Stato, anzi, questa assenza dello Stato, e questo processounitario abortito quando stava per compiersi, l’effetto combinato di questidue processi – il processo abortito e il disciplinamento che calava – ha de-terminato quello che io chiamo il fissarsi di una antropologia italiana equindi il fissarsi di un carattere italiano. Lì si fissa, in questo doppio proces-so dell’invadenza e del fallimento. Questo doppio processo fissa quello chenoi possiamo dire l’antropologia italiana, il nostro particolarismo – quelloche Guicciardini diceva: tutti gli Italiani che badano solo al loro particolare– quindi questo rinserrarsi privato delle nostre vite e la mancanza simme-trica di spirito pubblico, di senso pubblico, non di senso della piccola co-munità ma di senso di appartenenza ad una comunità più vasta, statale,nazionale, appunto, l’idea che c’è un elemento pubblico, comunitario insenso ampio che deve prevalere sull’interesse del singolo e anzi che l’inte-resse del singolo tanto più si valorizza quanto più è valorizzato il quadrocomunitario e pubblico, e che solo in un quadro comunitario e pubblicoforte i singoli riescono a valorizzare completamente e compiutamente sestessi. Manca l’elemento dominante, per esempio, dell’educazione liberaleinglese. E questa etica dell’intenzione, questa nostra formazione etica percui fra l’intenzione e la responsabilità è sempre l’intenzione che prevale sul-la responsabilità, bisogna sempre guardare l’intenzione e mai il risultato,rovescia l’etica pubblica dei Paesi in cui si costruisce una statualità forte, incui proprio la statualità forte determina il prevalere dell’etica del risultato,della responsabilità, si guarda a che cosa producono le tue azioni, a qual è ilrisultato oggettivo delle tue azioni, rispetto alle quali tu rispondi, e non aquali sono le intenzioni che ti hanno mosso. Quindi questo è proprio inve-ce il disciplinamento della Controriforma, questo continuo prevalere delleintenzioni sulla responsabilità dell’azione compiuta.

Concludo su come siamo usciti da tutto questo. L’Italia ne è uscita –siamo alla fine del Cinquecento, inizio del Seicento con il mio racconto –due secoli e mezzo dopo, quando è riuscita a raggiungere la sua unità.Ma quando c’è riuscita? C’è riuscita in un momento in cui l’Italia attra-versava, dal punto di vista economico, culturale, sociale, il periodo piùbuio della sua storia. Nonostante tutta la retorica risorgimentale, l’Otto-cento è stato, dal punto di vista della nostra cultura e della nostra storiaintellettuale, culturale, morale, il nostro secolo peggiore. Leopardi ne sa-peva qualcosa. Se leggete lo Zibaldone o il Discorso sopra lo stato presente deicostumi degl’Italiani di Leopardi avete l’idea di che cos’era l’Italia nel terzo

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e nel quarto decennio dell’Ottocento: un deserto culturale, civile, morale,un deserto. La prima parte dell’Ottocento è stato l’unico periodo in cuil’Italia ha perso il contatto con la grande storia culturale e intellettuale eu-ropea. In questo deserto, il pluralismo, che era stato la nostra rovina, siera molto spento, c’era appunto il vuoto, e la macchina politico-militarepiemontese ha avuto buon gioco, ma ha avuto buon gioco in un deserto.Quindi paradossalmente le condizioni del Quattro-Cinquecento si eranocompletamente rovesciate. Ora c’era una potenza militare, piccola ma ef-ficiente, la macchina diplomatico-militare sabauda, che si era costruitalentamente a partire dal Seicento ed era una macchina efficiente, intornoalla quale c’era il vuoto culturale e civile e quindi è stato facile realizzarequell’unità che nel Cinquecento il pluralismo aveva impedito, proprio lanostra ricchezza, la nostra crescita, il nostro essere all’avanguardia d’Eu-ropa aveva impedito. Ora, nel momento più basso della nostra storia, sipoteva raggiungere quell’unità che allora non si era potuta raggiungere.

C’è un confronto da fare, velocissimo, che ci spiega un po’. Anche laGermania ha raggiunto molto tardi l’unità, insieme con noi, ma lì civiltàe potenza coincidevano. L’Ottocento tedesco è stato un secolo straordi-nario. Pensate cosa è stato: il secolo di Goethe, il secolo della grande fisi-ca tedesca, il secolo di lingua tedesca, anche se non tutti erano tedeschi.Tutta la grande cultura europea dell’Ottocento è stata pensata in tedesco.Pensate i grandi paradigmi interpretativi: Freud scriveva in tedesco, Ein-stein scriveva in tedesco. La relatività è stata pensata e scritta in tedesco.La psicoanalisi è stata pensata e scritta in tedesco. La grande poesia ro-mantica, il grande romanzo romantico sono stati pensati e scritti in tede-sco. La grande ingegneria, la grande industria chimica e meccanica sononate in Germania, sono state pensate secondo modelli organizzativi te-deschi. Marx Il capitale l’ha scritto in tedesco. Io cito sempre questi tre li-bri: il primo volume de Il capitale, gli Studi sull’isteria di Freud e L’elettro-dinamica dei corpi in movimento di Einstein. Non ci sarebbe il mondo senzaquesti tre lavori, tutti e tre scritti in tedesco. È in questo secolo che laGermania si è unita. Alle spalle c’era una cultura in grado di sostenerequello sforzo. Noi abbiamo costruito la nostra unità nel secolo peggiore,quando non c’era nulla intorno a noi.

Questo spiega le grandi fragilità italiane che si sono rivelate poi nel corsodel Novecento e spiega anche perché, quando noi abbiamo cercato di met-terci all’inseguimento degli altri e di modernizzare il Paese come abbiamocercato di fare nel corso della prima parte del Novecento, questo processodi modernizzazione ha portato ad una grandissima lacerazione del Paese. IlPaese si è lacerato. Nella prima parte del Novecento noi abbiamo pensato

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insieme il fascismo e la forma europea del comunismo: sono nati insieme,in Italia, a poche centinaia di chilometri l’uno dall’altra, e i due protagonistidi questo pensiero hanno pagato con la vita questa lacerazione. Gramsci eGentile hanno pagato insieme con la vita, l’uno in un carcere fascista, l’altroucciso dal piombo dei partigiani. Hanno pagato a distanza di pochi anni.Questa lacerazione drammatica era figlia dell’inadeguatezza dell’Italia a co-struirsi secondo un Paese moderno. La Repubblica ha ereditato queste lace-razioni che hanno spaccato l’Italia, che erano figlie della debolezza italiana,dell’incapacità italiana a modernizzarsi mantenendo un quadro statale fortee democratico. E dopo abbiamo avuto, ancora, una Repubblica che è statainnanzitutto una Repubblica dei partiti e non una Repubblica dello Stato.Di nuovo lo Stato è stato sempre il grande assente. Abbiamo avuto una Re-pubblica dei partiti, dei grandi partiti di massa che hanno radicato in Italiala democrazia, certamente, perché sempre il bicchiere è un po’ pieno e unpo’ vuoto in storia, ma di nuovo non hanno costruito lo Stato.

Per concludere. Il nostro passato, lontano e recente, crea tutti gli elemen-ti di quella che si potrebbe definire una tempesta perfetta che si sa che ab-biamo costruito intorno a noi, che abbiamo contribuito a mettere in scenaintorno a noi, una tempesta perfetta i cui ultimi elementi sono state poi legrandi trasformazioni tecnologiche della fine del Novecento, la grande tra-sformazione produttiva dell’Occidente rispetto alla quale noi non siamostati in grado di reggere. Non siamo stati in grado di reggere socialmente,di reggere del tutto economicamente, di reggere politicamente rispetto aglialtri grandi Paesi dell’Occidente. E quindi di nuovo questa modernizzazio-ne che avevamo inseguito per tutto il Novecento, nella prima parte del No-vecento lacerandoci fino, possiamo dirlo, al sangue, nella seconda parte delNovecento, in un modo per fortuna diverso e con alcuni risultati positivi eimportanti negli anni Sessanta, negli anni Settanta e negli anni Ottanta, ec-co che ritorna e ci si ripropone. Questo è il punto: noi italiani siamo figli diuna storia complicatissima e drammatica, che non ha eguali in Europa. Esiamo chiamati oggi a prove rispetto alle quali non abbiamo le spalle ade-guate, o almeno rispetto alle quali la nostra storia non ci ha fornito spalleadeguate. Saremo capaci di venirne fuori, saremo capaci di uscire in avanti,di venir fuori non con le ossa spezzate da questa tempesta perfetta o, conaltre parole e per ritornare al punto da dove eravamo partiti, saremo anco-ra capaci di invertire quello che ho chiamato all’inizio il declino italiano?Questa è una domanda cui lo storico non sa rispondere. Lo storico è sem-pre un pessimo profeta. Gli storici fanno profezie sul passato, non fannoprofezie sul futuro. Il lavoro dello storico è una specie di profezia sul passa-to, l’interpretazione del passato, ma non del futuro, quindi io sono l’ultimo

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che può dare una risposta a questa domanda. Certo quello che noi dobbia-mo sapere è che il passato da cui veniamo è un passato che ha creato deipunti di difficoltà estremi nel nostro cammino, e quindi soltanto uno slan-cio fortissimo in avanti, una fortissima capacità di proiettarsi in avanti sa-rebbe in grado di farci uscire da quella che ho chiamato una tempesta per-fetta che abbiamo costruito intorno a noi. Credo che in questo momentonessuno di noi può dire se ne saremo capaci.

Il professor Schiavone risponde alle domande del pubblico

Le chiederei di ritornare sull’atteggiamento italiano nei confronti del potere, suquella che lei chiama, credo giustamente, l’ambivalenza nei confronti del potere,per cui da un lato conviene adeguarsi perché non si sa mai e dall’altro però ci siritaglia sempre un ambito personale e nascosto di discrezionalità per cui si riescea fare quello che si vuole, sostanzialmente conciliando l’esteriorità con l’interio-rità opposta. Ciò che qui Vittorio Vidotto ha chiamato le etiche separate.

Sì, certamente io ho parlato di questa forma di radicata ambivalenzache noi abbiamo ereditato verso il potere, dovuta al fatto che per secoliper noi il potere era nella sostanza un potere straniero, quindi un poterelontano e su cui gli italiani non avevano possibilità di intervenire diretta-mente. Potere lontano e incontrollabile, diciamo così. Potere francese, po-tere spagnolo, potere austriaco, tedesco, e poi potere di uno Stato nazio-nale sentito come molto lontano, come qualcosa di non condiviso. Quindiil potere comunque lontano: o lontano perché straniero o lontano perchénon condiviso dal punto di vista sociale e culturale. E questo ha determi-nato quella che io chiamo nel mio libro questa ambivalenza, ciò che lei midice Vidotto chiama etiche separate, una formulazione che io trovo certa-mente accettabile. Quello che ho cercato di fare questa sera, e la ringrazioche mi permette di chiarirlo, piuttosto che fermarmi su una analitica diquesta antropologia italiana e diciamo anche della forte presenza del di-sciplinamento cattolico controriformista in questa antropologia italiana, ècercare di delineare con voi l’interezza di un processo e capire perché inItalia questo è stato così determinante. Perché, ripeto, ci sono tradizionicattoliche fortissime in Francia, in Austria, in Spagna, in una parte stessadella Germania, ma non ci sono stati affatto esiti dal punto di vista dellacostituzione dei caratteri nemmeno lontanamente paragonabili a quelliitaliani. Quindi il punto non è secondo me la Controriforma, e di conse-guenza la derivazione cattolica in senso controriformista di alcuni ele-menti di fondo del nostro carattere nazionale, ma è il fatto che questo

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processo di disciplinamento da noi si è verificato in assenza di un contro-potere altrettanto forte che lo arginasse, come è stato, ripeto, anche neiPaesi attraversati fino in fondo, permeati completamente da questo disci-plinamento cattolico. Come dicevo il caso più clamoroso è quello dellaSpagna dove abbiamo avuto esiti diversi, non migliori o peggiori, diversi,perché lì c’era uno Stato, caspita se c’era uno Stato, e il re cattolicissimonon si peritava di scrivere al papa: no, tu questo non lo fai. Non solo inSpagna ma addirittura in Italia, nei possedimenti italiani della coronaspagnola il re interveniva a dire: no, tu papa, pure se tu sei a Roma a duepassi e io sto a Madrid lontanissimo, tu queste cose non le puoi fare. Que-sto argine poi si traduce in termini culturali e di formazione dei caratteri.Questo è il punto. E quindi io insisterei storicamente più su questo ele-mento, perché quello che rende specifica la situazione e la condizione ita-liana è la mancanza dello Stato, non la presenza del disciplinamento cat-tolico, che è un fenomeno di portata europea. E il radicarsi della Chiesa inItalia con una forza che non c’è in Francia e non c’è in Austria, non c’ènemmeno in Spagna, è dovuto, ripeto, sempre al fatto che qui non c’eraniente contro, non c’era niente che facesse argine, è questa la peculiaritàitaliana. Ho giocato la chiacchierata di oggi più per far emergere questoelemento, che io considero sempre più importante e decisivo nella rico-struzione storica, che non l’analitica dell’etica controriformista.

In un seminario del 1974 Jacques Le Goff affrontava, insieme a storici italiani,tra cui Giuliano Procacci, e sociologi italiani, fra cui Alessandro Pizzorno, ilproblema del peso del passato sugli italiani di oggi, notava una grande carenzadi studi di lunga durata e sottolineava le difficoltà della storiografia italiana autilizzare l’etnografia e la psicologia comparata, la psicanalisi, insomma a prati-care quella strada di interdisciplinarità che gli Annalisti francesi avevano sotto-lineato come importante. Questa mancanza è vera ancora oggi?

Io non direi che in Italia il peso del passato sia maggiore che non in al-tre società nazionali, questo non mi sentirei di dirlo. È vero l’aspetto piùspecificamente storiografico che lei ricordava e credo che lei stia riassu-mendo bene il pensiero di Le Goff, perché ne abbiamo tante volte parlatoanche insieme, è vero che in Italia non abbiamo avuto mai una storiogra-fia della lunga durata. Nel mio piccolo ho cercato di farla in questi decen-ni, anche in polemica con quei colleghi che invece sono portatori di que-sta istanza che è stata definita della microstoria. Io credo che bisogna co-struire, che bisogna fare storia della lunga durata, però, se vogliamo par-lare di storiografia un po’ accademica, è curioso che poi questa microsto-ria ha trovato più cultori e appassionati difensori in Francia che non in

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Italia, in Francia in cui c’era una tradizione che avrebbe dovuto più essereabituata appunto alla storia delle lunghe durate, quindi al contrario dellamicrostoria. È curioso questo, però è vero che è in parte legato al fatto chenon abbiamo avuto in Italia una scuola nemmeno lontanamente parago-nabile a quelle che sono state le Annales tra gli anni Venti e gli anni Ses-santa, le Annales di Marc Bloch, di Lucien Febvre, la prima generazionedei fondatori, e poi di Fernand Braudel fino allo stesso Jacques Le Goff,che in un certo senso è l’ultimo esponente di questa tradizione.

Lei ha detto che nel periodo della Controriforma non c’era uno Stato, ci sono sta-te le parrocchie. Mi pare che ci sono anche oggi. Qual è il suo parere?

Ancora oggi le parrocchie, certo. Voi direte che è il mio chiodo fisso, elo è, ma perché? Di nuovo perché il ruolo della Chiesa nella storia d’Italiaemerge come dominante quando il ruolo dello Stato si affievolisce o scom-pare, anche nella storia contemporanea. Pensate a che cosa è stato il collas-so, quello che Salvatore Satta ha chiamato la morte della patria, pensateche cosa è stata l’Italia del ‘43 quando tutto è crollato nel giro di pochi me-si: è crollato il fascismo e insieme è crollato lo Stato. Pensate questo: è crol-lato il fascismo ma insieme con il fascismo si è dissolto nel giro di pochesettimane lo Stato. La caduta del fascismo ha trascinato con sé in modo di-retto e meccanico il crollo dello Stato, si è dissolto lo Stato, nel giro di po-che settimane. E tra il ‘43 e il ‘45 la Chiesa è emersa come l’unico punto diriferimento, di nuovo le parrocchie, come l’unico punto di riferimento leparrocchie, le canoniche, il lavoro dei preti, la presenza dei preti, l’unicopunto di riferimento in quel disastro, in quel collasso inaudito che si è ve-rificato nel giro di poche settimane, caduta del fascismo e crollo dello Statoinsieme, senza nessuna capacità di distaccare, di distinguere il crollo delregime dal crollo dello Stato. Pensate questo che cosa vuol dire dal puntodi vista della storia delle istituzioni, che cosa ci dice su quali erano gli in-trecci. Quando lo Stato viene meno, quando lo Stato rivela ciclicamentequeste sue fragilità è chiaro che in Italia emerge la struttura di fondo, dilunga durata, che per secoli ha svolto questo lavoro di presenza, di sup-plenza e di disciplinamento. Però il punto non è l’ostinazione della Chiesache si accanisce diciamo sull’Italia che considera il terreno privilegiato diesercizio della propria influenza e del proprio dominio, non è questo chespiega, spiega il fatto che in Italia la Chiesa ha avuto sempre di fronte unpotere statale o inesistente o debole o sempre vicino al collasso. E questo siripete ciclicamente e fa emergere l’altra come unica struttura portante dilunga durata che invece traccia una via secolare rispetto alla quale le oscil-lazioni sono molto ridotte e molto relative.

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Detto questo naturalmente non dobbiamo però dimenticare che cosa èstata nell’ultimo cinquantennio, dagli anni Settanta in poi, la laicizzazio-ne del Paese. Questo ci porta a vedere in termini diversi, non a vedere co-me inesistente sia chiaro, ma a vedere in termini diversi il rapporto traChiesa e società italiana; la società italiana ha vissuto dal ‘68, se vogliamousare questa data, diciamo dalla fine degli anni Sessanta in poi, un pro-cesso di laicizzazione imponente, in ritardo rispetto agli altri Paesi euro-pei ma imponente. Questo ci obbliga a riscrivere i termini di questa pola-rità, di questo dualismo per quanto riguarda gli ultimi cinquant’anni.

Dualismo tra forma e vita: nella storia d’Italia, benché lo Stato ovviamente dopole macerie fasciste fosse drammaticamente debole, però c’è un momento lumino-so nel ‘48, che ancora oggi è additato come un faro nella civiltà della legislazionecostituzionale: la nostra Costituzione. In quel momento c’era una fase di accesopluralismo e nella stesura della Costituzione convergevano tre aree di pensieroben distinte, quindi ci troviamo di fronte a una fase di pluralismo e di sensibilitàistituzionale non deboli, segnati da una tragedia e quindi capaci di una riscossa.Ma allora, visto che la Controriforma ha avuto successo proprio perché la Chiesaè dilagata in uno spazio vuoto, come mai lo Stato in quella fase, almeno nelle in-tenzioni e nella ispirazione di valori di riferimento così forti, ha accettato il Con-cordato con la Chiesa?

Io sono, per carità, un ammiratore, è poco dirlo, insomma credo di es-sere in grado di capire e di valorizzare in pieno la novità e che cosa è statala forza propulsiva della nostra Costituzione repubblicana. Devo dire, mipermetterete questa piccola confidenza, che però non sopporto moltoquesta retorica della Costituzione più bella del mondo. Proprio perchépenso di averla studiata e penso di averla usata politicamente nella miavita, diffido sempre di questa retorica che congela un testo e lo mette unpo’ al di fuori della storia e vorrei invece con voi fare un’osservazione.Per le peculiarità del testo costituzionale e per il suo carattere molto avan-zato, la Costituzione in Italia ha giocato un ruolo che non ha giocato nes-suna carta costituzionale negli altri grandi Paesi che si sono dati delle car-te costituzionali. Pensiamo all’America: la Costituzione è un elemento diunificazione del Paese. Tutti si ritrovano in quel testo, con i suoi emenda-menti, con la sua storia, perché la Costituzione americana ha una storia dicambiamenti, di emendamenti continui, oramai sono molti di più gliemendamenti che il testo originario. In Italia la Costituzione non ha maisvolto questo ruolo di unificazione del Paese ma è stata un’arma di lottapolitica, impugnata da una parte, la mia parte sia chiaro, che la usava co-me un’arma pretendendone l’attuazione contro un’altra parte del Paese

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che tendeva a svalutarla, a ridurla a una carta di belle intenzioni e di belleparole senza nessuna efficacia normativa reale, senza nessuna effettività,come dicono i giuristi. Questa battaglia è durata fino ad ora, per certi ver-si dura ancora. Quando parliamo della nostra Costituzione questo ele-mento dobbiamo farlo emergere: la Costituzione italiana non è stata maiun punto unificatore del Paese, e Dio sa se non ne avevamo bisogno, èstata un elemento divisivo. Io la impugno e dico: voi non l’applicate, voine fate carta straccia, voi la cancellate. A ragione, sia chiaro, non vorrei cifossero dubbi. Io sto dalla parte di chi l’ha impugnata, però questo ele-mento dobbiamo pur dirlo, che la Costituzione in Italia non è mai stataun elemento di unificazione reale del Paese, è stata un elemento di divi-sione e di lotta politica. Per quali ragioni questo è accaduto? Grandissimadomanda che io pongo, a cui non rispondo. Però è una domanda che nonpossiamo non farci. E io preferisco che ci si facciano queste domandepiuttosto che si dica la retorica della Costituzione più bella del mondo.Cominciamo a farci queste domande e vediamo. Detto questo, è verissi-mo che la Costituzione definiva un piano di scorrimento dell’Italia, unpiano di scorrimento che andava verso una repubblica italiana che intro-duceva dentro di sé sempre più elementi, diciamo pure la parola, di so-cialismo. Diciamo le cose come stanno: questo era la nostra Costituzione,definiva un piano di scorrimento democratico dentro il quale dovevanoprogressivamente aumentare quelli che negli anni Settanta Berlinguerchiamava gli elementi di socialismo. Quindi l’articolo 3 capoverso, il la-voro, i lavori industriali, il lavoro di fabbrica al centro come chiave intor-no a cui ruotava tutto. L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro: qualelavoro? Innanzitutto il lavoro operaio, il lavoro di fabbrica. Quindi prefi-gurava un modello di società forte. E gli elementi di eguaglianza andava-no tutti in quella direzione. Faccio fatica a dire che tutto quello riflettel’Italia di oggi. Con questo io credo che quella Costituzione non abbia dadire più niente al Paese? Non lo penso affatto, dico che nel nostro rappor-to con la Costituzione, noi che l’abbiamo impugnata come un’arma con-tro i nostri avversari, ed a ragione, oggi dobbiamo saper inserire deglielementi di criticità.

Il Concordato. L’idea di costituzionalizzare il Concordato con l’arti-colo 7, di recepire nel dettato costituzionale i Patti lateranensi, è statauno dei punti del grande compromesso storico, quello realizzato, cheha portato appunto alla stesura della Costituzione. Finora ho fatto undiscorso critico, ora faccio un discorso invece di difesa della Costituzio-ne. Quello era un elemento che veniva interpretato da chi l’ha voluto,nel ’47, come un elemento di pacificazione nazionale e io francamente

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trovo difficile dar torto a chi l’ha voluto, cioè il gruppo dirigente delPartito comunista, con l’accettazione, come dire, non proprio entusia-sta dei socialisti, che però alla fine hanno seguito, e naturalmente volu-to dalla Democrazia cristiana, da tutte e tre le forze che lei giustamentericordava come autrici del disegno costituente. Nel ‘46 venivamo da unPaese che usciva dalla guerra civile e che aveva avuto, ripeto, comuni-smo e fascismo. Avevamo avuto lacerazioni che nessun Paese europeoaveva mai sopportato, nemmeno la Spagna con la guerra civile. Noi ab-biamo inventato il fascismo, il fascismo è stata un’invenzione italiana eil nazismo si è ispirato a questa invenzione italiana. Noi abbiamo in-ventato il fascismo come forma autoritaria di Stato totalitario di destra.Abbiamo inventato il totalitarismo di destra per il mondo – bella in-venzione. E insieme, negli stessi anni, da quelle stesse teste, da queglistessi ambienti, abbiamo inventato la forma europea del comunismo:Gramsci. Quindi pensate che lacerazione quando il laboratorio politicodi un Paese produce insieme questi opposti e questi opposti diventanocarne e sangue, non diventano libri, diventano carne e sangue e partiti,scontro armato. Pensate che lacerazione è emersa, altro che berlusco-niani e antiberlusconiani, questa qui è la farsa, per certi versi. Che lace-razioni abbiamo prodotto, sono venute fuori dal cuore della storiad’Italia, da questo cuore frantumato, lacerato della storia d’Italia, daquesto nucleo fratturato della storia d’Italia. Perché non eravamo ingrado di reggere la modernizzazione, l’industrializzazione veloce delprimo Novecento, di reggerla dentro un quadro democratico, dentroun quadro di consolidata democrazia formale. E quindi quell’idea infondo che bisognava strappare il cuore moderato del Paese all’abbrac-cio con la destra fascista, all’abbraccio con i reazionari e portarlo di piùverso sinistra – questa era l’idea del gruppo dirigente comunista, di To-gliatti e Terracini, la loro intuizione fondamentale – è uno strumento diquesto tentativo che poi in qualche modo ha avuto successo, perché cisi è riusciti, visto sessant’anni dopo, a trasportare la parte moderata delPaese lontano dall’abbraccio con la destra reazionaria. Questo è acca-duto nella storia repubblicana, non si è più verificato quell’abbracciomortale e distruttivo per l’Italia. Quello era un prezzo da pagare, pro-babilmente.

Una battuta sulle parrocchie: come dimostra anche il libro Quel che resta deicattolici, pubblicato recentemente dal sociologo Marco Marzano, purtroppo nonci sono più neanche le parrocchie. La domanda. Da molti anni si trascina unapolemica sull’idea che l’unificazione italiana è stata fatta secondo principi rigidi

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di imitazione dello Stato centralizzato francese e non seguendo le idee, peraltrogenerose, abbozzate ma mai formulate in termini più specifici, di Carlo Catta-neo, cioè l’idea di uno Stato federale. Secondo lei perché questo è avvenuto? Se-condo me perché gli stessi deputati meridionali che sedevano nel Parlamento ita-liano post 1861 questa cosa non la volevano e la proposta di riforma degli entilocali dell’allora Ministro dell’Interno era quella di dare una certa autonomia al-le realtà locali, che poi non passò. Secondo lei quali sono le vere ragioni per cuiquesta ipotesi di Stato delle autonomie che qualcuno voleva realizzare non passòmai e lasciò quindi sullo Stato unitario che nasceva quell’ombra alla quale laCostituzione in parte ha ovviato con la realizzazione delle Regioni a statuto spe-ciale ma che comunque appare ancora oggi uno dei problemi non risolti delloStato italiano?

Dove sono le parrocchie adesso? È chiaro, quella è una formula, peròio credo che oggi il volontariato cattolico è l’unico volontariato ormaiche resiste con forza in questo Paese. E in questi anni di crisi è emersofortissimo. Nelle grandi città, Milano, Roma, la presenza del volontariatocattolico anche in questi anni di crisi, dal 2008 in poi, come assistenza,come sostegno alla parte più esposta della società, è fortissima, è impo-nente. Quindi forse le parrocchie come punto di riferimento non esistonopiù – avrei dei dubbi anche su questo, per la verità – forse la parrocchiain quanto tale come forma istituzionale sarà in crisi e si sarà sbiadita, pe-rò la presenza dell’associazionismo cattolico nel Paese è imponente, al-troché. Forse possiamo anche dire per fortuna.

L’unificazione italiana, Cattaneo. Certo quando noi pensiamo all’altraipotesi pensiamo al nostro grande e straordinario Cattaneo, profeta inascol-tato. Però quando si è fatta l’Italia – voi sapete bene come ormai la storio-grafia da Romeo in poi l’ha dimostrato – non c’era nemmeno in Cavour etanto meno in Vittorio Emanuele e tanto meno in Garibaldi l’idea di co-struire l’Italia che poi è nata nel 1861. L’idea cavouriana era qualche cosa divagamente confederale e comunque di molto graduale, perché Cavourpensava che il Piemonte non avesse il peso per reggere il Paese intero intor-no a sé, perché sapeva che se si fosse fatta l’unificazione tutto il peso buro-cratico, militare, amministrativo sarebbe stato piemontese e riteneva che ilPiemonte non aveva le spalle per reggere tutta l’Italia. Quindi pensava aqualche cosa di molto più graduale. Poi, come spesso capita nella storia, gliavvenimenti hanno preso la mano. È accaduto un po’ quello che è accadutoin Germania nell’89: Kohl non pensava di unificare la Germania dell’Estnel giro di pochi settimane, pensava a un processo graduale. Poi le cosehanno preso una piega assolutamente inaspettata, è caduto il Muro, i berli-nesi in massa si sono spostati da Berlino est a Berlino ovest, non è successo

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niente, è caduto tutto e lui è stato bravo immediatamente a cogliere l’occa-sione. Qualcosa del genere è accaduto tra il 1860 e il ‘61 con l’Unità d’Italia:quando si sono trovati, loro malgrado, l’intero Paese, la soluzione centrali-stica era l’unica che era affiorata perché non c’era altro nelle loro teste, per-ché probabilmente non si poteva fare altro, perché il Paese era un deserto. Ilregno di Napoli era in uno stato di disfacimento totale – altro da quel chedice la storiografia revisionista dell’economia del Mezzogiorno. Napoli eraun disastro inimmaginabile, la Toscana non esisteva più, l’Italia era quello,era un deserto. Una volta che si era verificata l’Unità in un modo imprevi-sto e non voluto dagli stessi protagonisti, l’unica strada era quella che veni-va dalla cultura francese centralistica, l’unica ipotesi culturale plausibile erealistica, tenuto conto del disastro che era l’Italia, era quella. Solo che quel-la strada ha in qualche modo garantito l’unità formale ma portava con sédelle conseguenze catastrofiche.

Detto questo, noi oggi possiamo fare anche un bilancio del regionali-smo italiano ma non è un bilancio confortante, al di là degli scandali –per carità i reati vanno repressi naturalmente, vanno puniti, ma non èquesto il punto. Cosa hanno fatto le Regioni italiane se non moltiplicarele burocrazie? Tra poco saremo a cinquant’anni di regionalismo italiano,le prime elezioni regionali si sono tenute nel ‘70, cosa sono stati questicinquant’anni? È difficile fare un bilancio positivo di questi primi cin-quant’anni di regionalismo, ripeto al netto degli scandali, ma non al net-to degli appesantimenti burocratici, delle duplicazioni, delle farragini le-gislative, della poca autonomia che si è effettivamente messa in movi-mento. Questo non per ridurre la grandezza di Cattaneo, naturalmente,ma per dire che evidentemente, persa quella occasione cinquecentesca dicui parlavamo prima, in cui forse veramente un’ipotesi di tipo federalesarebbe stata possibile, poi quella strada è stata persa e non se ne è im-boccata un’altra. Vedete bene che anche al Nord questo federalismo lom-bardo della Lega non aveva nessuna cultura dietro, non ha portato a nul-la, non c’era niente dietro, c’era del movimentismo e del rivendicazioni-smo un po’ rude. Che cosa c’era di elaborazione culturale alle spalle?Niente, niente, niente. Questo forse la dice lunga su quali sono i destinidel regionalismo in Italia una volta perduta quella occasione.

Ho letto la tesi del professor Paolo Prodi secondo il quale in sostanza la laicità,anzi il fondamento stesso dell’autonomia dello Stato, nasce proprio con la Con-troriforma e con il Concilio di Trento, perché hanno fatto l’operazione di definireun ambito della sacralità: i sacramenti. La grazia passa solo attraverso quellesette strade, il resto è autonomia dalla politica. È un’esercitazione astratta que-

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sto modo di ragionare? Perché urta con la cultura che abbiamo imparato. Peròstupisce per l’originalità.

Paolo Prodi ripete un punto che è tipico del pensiero cattolico,un’idea, che possiamo dire teologica, di storia della teologia prima an-cora che di storia della politica, cattolica, che dice che l’autonomia del-lo Stato, la laicità dello Stato l’ha inventata il cristianesimo, ma moltoprima del Concilio di Trento, l’ha inventata Gesù con “date a Cesarequel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio”, e l’ha messa in attoquando Gesù ha incontrato Pilato. Gesù, il figlio di Dio, ha incontratoCesare, Pilato era Cesare in quanto rappresentante del potere romano,erano lì di fronte Cesare e Gesù, ma Dio attraverso di lui, e quando Pi-lato gli chiedeva “Ma tu sei il re dei Giudei?” ha risposto “Tu lo dici” epoi ha ribattuto un attimo dopo “Il mio regno non è di questa terra”.Su quello si fondava la teologia politica dell’Occidente. Il Vecchio Te-stamento non era su questa strada. L’Islam, per parlare delle grandi re-ligioni monoteiste, non è su questa strada. Quindi nel dire che il cristia-nesimo ha fin dall’inizio impostato in termini molto moderni, diciamocosì, e molto nuovi il rapporto fra sacralità e potere politico c’è un ele-mento forte di verità, a mio avviso. La teologia politica cristiana è unateologia duale, come non sono né la teologia ebraica né la teologia isla-mica – mi fermo a questi due esempi di grandi religioni monoteiste –pertanto c’è un elemento vero quando si dice che il cristianesimo, quin-di la Chiesa che gestisce nella temporalità l’eredità cristiana, è statol’unico ad aver stabilito dei confini, questo è vero. Bisogna poi vedere,una volta stabiliti questi confini, come vengono oltrepassati nelle rela-zioni di potere che si costruiscono intorno a questi confini. Per conti-nuare ad usare questa metafora: stabiliti dei confini poi li si varca e so-no le relazioni di potere del momento che decidono se si varcano in unsenso o in un altro. E da questo punto di vista in Italia sono sempre sta-ti varcati a senso unico dalla Chiesa verso uno Stato o inesistente o fra-gile e mai viceversa dallo Stato che alzava la voce nei confronti dellaChiesa. Quindi il discorso si può rovesciare nella prassi storica, dicia-mo nella verifica della storia d’Italia. Però nel difendere questo elemen-to di originalità del pensiero cristiano, del pensiero delle origini, pro-prio del cristianesimo tra i Vangeli e Paolo, quindi il cristianesimo delleorigini, c’è un elemento di indiscutibile verità. La posizione di questistorici cattolici italiani, Paolo Prodi ma anche Claudio Leonardi, chehanno rivendicato questo elemento di laicità interno al pensiero cristia-no rispetto alle altre grandi tradizioni religiose monoteiste, ebraica eislamica, non è una posizione sbagliata.

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Aldo Schiavone, già professore nelle Università di Napoli, Bari, Pisa eFirenze, è attualmente professore ordinario di Diritto romano pressol’Istituto Italiano di Scienze Umane (SUM), di cui è stato fondatore e ret-tore. È stato direttore della Fondazione Istituto Gramsci di Roma, presi-dente della Scuola superiore di Studi storici dell’Università di San Mari-no e più volte directeur de recherche invité presso l’École des Hautes Étu-des en Sciences Sociales di Parigi e professeur invité al Collège de France.Nel 2005 ha ricevuto la medaglia d’oro del Presidente della RepubblicaCarlo Azeglio Ciampi conferita ai benemeriti della scuola, della cultura,della scienza e dell’arte. É membro dell’Institute for Advanced Study diPrinceton e dell’American Academy of Arts and Science. È stato per mol-ti anni editorialista del quotidiano “la Repubblica”.

Tra le sue pubblicazioni più recenti: Ai confini della storia (Einaudi,1995), con Jean Pierre Vernant; La storia spezzata. Roma antica e occidentemoderno (Laterza, 1996); Italiani senza Italia (Einaudi, 1998); I conti del co-munismo (Einaudi, 1999); Ius. L’invenzione del diritto in Occidente (Einaudi,2005); Storia e destino (Einaudi, 2007); L’Italia contesa. Sfide politiche ed ege-monia culturale (Laterza, 2009); Pensare l’Italia (Einaudi, 2011), con ErnestoGalli della Loggia; Spartaco. Le armi e l’uomo (Einaudi, 2011), Non ti delego.Perché abbiamo smesso di credere nella loro politica (Rizzoli, 2013). Ha inoltrecurato diverse pubblicazioni di diritto romano e (con Arnaldo Momiglia-no, fino alla sua morte) Storia di Roma (Einaudi, 1988-1993).

Suggerimenti per l’approfondimentoERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, ALDO SCHIAVONE, Pensare l’Italia, Torino,

Einaudi, 2011.ALDO SCHIAVONE, Italiani senza Italia. Storia e identità, Torino, Einaudi, 1998.ALDO SCHIAVONE, L’Italia contesa. Sfide politiche ed egemonia culturale, Roma-

Bari, Laterza, 2009.ADRIANO PROSPERI, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari,

Torino, Einaudi, 1996.GIACOMO LEOPARDI, FRANCO CORDERO, Discorso sopra lo stato presente dei

costumi degl’italiani. Seguito dai pensieri d’un italiano d’oggi, Torino, BollatiBoringhieri, 2011.

FERNAND BRAUDEL, Storia e scienze sociali. La «lunga durata», in Scritti sullastoria, Oscar Studio, Milano, Mondadori, 1973.

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CHIARA SARACENOUniversità di Torino

FAMIGLIA E “FAMILISMO”Centralità della famiglia nella società italiana

Maria Laura Cornelli

Oggi parliamo di famiglia e vorrei dire due parole su come si inseriscequesto tema in un ciclo che abbiamo volontariamente costruito con tema-tiche diverse, viste da ottiche diverse e con retroazioni temporali diverse,il tutto per cercare di arrivare a capire se esiste, come si configura questacontroversa identità italiana. L’importanza della famiglia non ha chiara-mente bisogno di essere spiegata, anche se forse sarebbe meglio dire dellefamiglie; vogliamo però capire quali sono le specificità italiane e quali ri-cadute hanno sui nostri modi di pensare, di essere e di comportarci.

Quale migliore esperta su questo tema della professoressa Saracenoche ringrazio per avere accettato il nostro invito: nonostante avesse un

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impegno questa mattina, ha accettato di sobbarcarsi una giornata piutto-sto pesante. È molto facile presentare la professoressa Saraceno, ma an-che difficile: è facile perché è molto nota, non c’è bisogno di dire molto, èdifficile perché si rischia di essere banali e ripetitivi. I suoi studi di socio-logia della famiglia hanno sempre avuto un’attenzione specifica alla po-sizione delle donne, ai rapporti tra i generi, ai rapporti tra generazioni, aimutamenti demografici e sociali, agli intrecci con le politiche sociali, e larendono in questo campo un’autorità riconosciuta. È nota anche a unacerchia più ampia per i suoi interventi sul quotidiano “la Repubblica”.Sono state soprattutto la sua ottica comparativa tra realtà diverse e la suaattenzione ai mutamenti e alle loro conseguenze che ci hanno indotto achiedere proprio a lei di partecipare al nostro ciclo.

Vorrei fare solo qualche cenno a uno dei suoi ultimi lavori, Coppie e fa-miglie, il cui sottotitolo Non è questione di natura dice parecchio sul tema; èun percorso denso e molto interessante sulla artificialità della famiglia –Sono le norme a costruire la famiglia recita il titolo di un capitolo –, un per-corso attraverso i mutamenti demografici e le loro conseguenze su modidi vita e mentalità, che tiene conto anche del drenaggio del lavoro di curache facciamo noi, come Paese, da altri Paesi e della interazione inevitabileche avviene tra le nostre famiglie e le famiglie transnazionali.

Chiara Saraceno*

Buonasera, grazie di avermi invitato in questa impegnativa serie sul-l’identità italiana: già porsi il problema se esiste una identità italiana èuna scelta coraggiosa e averci messo la famiglia è una cosa insieme ovviama non tanto, perché corre il rischio – di cui immagino siate consapevoli– della caduta nello stereotipo. Io ho vissuto cinque anni in Germania evedere lo stereotipo della famiglia italiana, nelle serie televisive peresempio, era quasi altrettanto imbarazzante che recarmi nel mio ufficiodopo una delle tante uscite dell’allora presidente Berlusconi. La famigliaitaliana fatta tutta di canterini, mamme che fanno delle grandi salse, uo-mini affascinanti ma poco affidabili, con un sospetto di mafiosità trasver-sale, è uno degli stereotipi nell’immaginario pubblico, cui se ne affianca-no però degli altri.

Uno molto più classico, tradizionale e che fa parte anche della lettera-tura più colta è quello a cui fa riferimento il titolo della mia comunica-

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CHIARA SARACENO

* Trascrizione a cura della redazione, non rivista dalla relatrice.

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zione: il familismo. Forse sapete che nella letteratura internazionalespesso si spiega il caso italiano con la cifra del familismo, cioè tutto quel-lo che è successo e succede in Italia in parte è spiegabile attraverso il fa-milismo. Siamo dubbi debitori di questo tipo di interpretazione da un fa-moso libro di un antropologo americano, basato su una ricerca empiricain un paesino lucano, l’antropologo era Banfield e il libro si intitolava Lebasi morali di una società arretrata, il paese veniva chiamato Montegrano,ma non era il nome vero. Banfield spiegava la mancanza di sviluppo nelMezzogiorno sulla base del fatto che in quel paesino, da lui assunto aesemplare di tutto il Mezzogiorno, tutti erano più interessati a difenderegli interessi dei loro familiari più stretti che non a lavorare per il benecollettivo, e questo andava contro ogni possibilità di sviluppo in quantonon si riuscivano mai ad accumulare a sufficienza risorse, solidarietà esguardo lungo, proprio perché ciascuno era preoccupato di far valeresoltanto gli interessi propri e dei suoi familiari più stretti, producendoanche una grande litigiosità. Questo libro in realtà fu subito oggetto dimoltissimi dibattiti critici sia in Italia sia in altri Paesi, sul piano metodo-logico – si può prendere un paesino come esemplare di un’intera regio-ne? – e anche sul piano interpretativo dei nessi causa/effetto; eppure ilfamilismo amorale è rimasto come cifra: come tutti gli stereotipi, che so-no sbagliati come tali, ma hanno sempre un fondo di verità e hanno unagrande efficacia proprio perché in qualche modo danno forma a un te-ma, a un problema, raccontano una storia. Tra le diverse critiche chevennero fatte a questa interpretazione, nessuno ha mai davvero messo indiscussione che questo avvenisse a Montegrano, cioè che tutti fosseropiù interessati a difendere gli interessi corti e vicini che non gli interessidella collettività, ma il problema era il perché, il nesso causa/effetto: erada qui che derivava la mancanza di spirito civico e la mancanza di capa-cità di sviluppo oppure il problema era un altro? Tra le diverse critichequella che mi interessa segnalare come importante per il tema che ci ri-guarda qui – e che è una questione tuttora viva, ahimè, nel nostro Paese– fu quella di Alessandro Pizzorno, il quale disse che non era il famili-smo amorale la causa della incapacità di avere non solo una cultura civi-ca ma una cultura dello Stato, ma all’opposto era l’assenza di Stato aMontegrano, l’incapacità dello Stato di porsi come un interlocutore cre-dibile ed efficace, a lasciare alle persone esclusivamente il ricorso alle so-lidarietà corte, al ciascuno per sé: se tutto è discrezionale, se lo Stato nonesiste, allora tanto vale che ciascuno cerchi di arraffare o comunque diproteggere i propri interessi perché non esiste garanzia di norme, di cri-teri che oggi potremmo dire universalistici o comunque trasparenti.

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Famiglia e “familismo”

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Questo il problema che ci troviamo davanti: non solo e tanto l’assenzadello sviluppo ma appunto il nesso tra la privatizzazione anche del pub-blico e il funzionamento dello Stato, intrecciato alla questione della diffi-cile cultura civica nel nostro Paese.

Tuttavia, mentre di familismo in letteratura si parla quasi esclusiva-mente in termini di familismo amorale, cioè del familismo come causa oeffetto di una mancanza di statualità, di presenza forte dello Stato, po-tremmo vedere una variante del familismo anche nel modello di svilup-po di alcune parti del nostro Paese; ricordiamo che in Italia gran partedell’economia è retta dalla piccolissima impresa, che spessissimo ha unabase familiare. Tra l’altro la storica Gribaudi ha mostrato come quando sitratta del Mezzogiorno si parla di familismo amorale, quando si parladello sviluppo in quella che si chiamava un tempo la “Terza Italia” o an-che in Toscana, cioè nel Centro-nord-est, la famiglia diventa virtuosa, ela piccola impresa che nasce su base familiare è un modello di sviluppoche è visto addirittura come esemplare. Tutti gli studi, fatti da Bagnascoe da altri, sulla “Terza Italia” mostrano proprio una quasi pre-moderna,ma in realtà totalmente aggiornata, capacità di utilizzare le risorse fami-liari per fare impresa: con il capofamiglia che magari continua a lavorarein fabbrica però fa anche un po’ di contratti in house, i figli e la moglieche fanno il lavoro nella fabbrichetta fino a quando hanno guadagnatoabbastanza o si sono consolidati abbastanza per cui lui può lasciare, op-pure non lascia mai perché ciò gli consente di fare il trait d’union tral’uno e l’altro... Questa è un’altra variante del familismo, se vogliamousare questa parola per riferirci a una solidarietà familiare corta, per in-dicare una realtà che è stata non un handicap allo sviluppo ma un motoredi sviluppo nel nostro Paese, non so quanto rispetto alla cultura civica epolitica, ma certamente dal punto di vista economico.

C’è poi un’altra forma di familismo che mi verrebbe da definire topdown, ovvero il nostro sistema di welfare anche nei momenti di massimosviluppo, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, è stato un welfare che hasempre dato per scontato che la famiglia – con le sue obbligazioni interge-nerazionali, lunghe e larghe, e la sua divisione del lavoro in base al gene-re – dovesse far fronte a molti compiti. Non riusciremmo a spiegare il no-stro sistema di welfare se non capissimo che dietro c’era questo assuntoimplicito. Ciò non è vero solo per il welfare italiano: Esping-Andersen haelaborato una fortunatissima tipologia di welfare State basata sull’equili-brio tra Stato, mercato e famiglia nella produzione di benessere e soddi-sfacimento dei bisogni. Questa tipologia, e in particolare il modo in cui idiversi Paesi sono allocati a uno o a un altro tipo, è stata ed è oggetto di

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diverse critiche. Ma a questa proposta analitica va riconosciuto il meritodi aver sottolineato che in tutti i Paesi il benessere e il soddisfacimentodei bisogni non sono affidati a un unico ambito e che anche nei Paesi awelfare più sviluppato la famiglia gioca un ruolo. Questo ruolo è tuttaviamaggiore in alcuni, quelli che Esping-Andersen definisce “continentali”: iPaesi mediterranei ma anche Germania, Francia, Belgio e in parte Olan-da. Molti studiosi, Ferrera, io e altri, diciamo che l’Italia e la Spagna nonsono proprio uguali alla Germania e alla Francia, perché da noi ciò cheviene lasciato alla famiglia è di più non solo in termini quantitativi, maanche in termini di settori. Lasciando per ora in sospeso la questione del-la cura, nel nostro Paese non è solo da adesso che i giovani non hannoquasi diritti sociali, non hanno accesso a una indennità di disoccupazionedegna di questo nome e così via. Anni fa, ad esempio, l’Italia ha subito unprocesso per infrazione dall’Unione Europea perché quando c’erano icontratti di formazione-lavoro aveva una soglia massima di età che era didieci anni più alta di quella degli altri Paesi: la definizione di figlio a cari-co arrivava fino ai 34 anni, laddove negli altri Paesi al massimo arrivava a28, ed era già un’eccezione perché la norma era 24.

Quindi c’è proprio l’idea che è la famiglia a dover far fronte. Per que-sto poi le politiche eventualmente devono sostenere il capofamiglia. An-che se dal 1975 legalmente non esiste più la figura del capofamiglia, lenostre politiche continuano a pensare all’idea del maschio capofamiglianelle età centrali, su cui vanno concentrate le protezioni, in termini di so-stegno al reddito, perché possa poi ridistribuirle agli altri membri dellafamiglia, considerati come dipendenti anche quando adulti. Contempo-raneamente, c’è l’aspettativa che pressoché tutto il lavoro di cura vengasvolto e internalizzato dentro la famiglia. Siamo uno dei Paesi che nonha ancora sviluppato davvero – nonostante da noi l’invecchiamento del-la popolazione sia avvenuto in modo più veloce e siamo quindi una del-le popolazioni più anziane – un sistema di cura per la non autosufficien-za degno di questo nome. Il massimo a cui siamo arrivati è l’indennità diaccompagnamento, che non è una politica della cura. E anche nel campodei servizi per l’infanzia, soprattutto per la primissima infanzia, gliobiettivi fissati dagli accordi di Barcellona sono ancora molto lontani.

Questo significa che l’occupazione femminile è sempre stata vista co-me problematica. Problematica innanzitutto perché portava via il lavoroagli uomini. Tuttora in molta cultura popolare c’è questa convinzione as-solutamente non verificata. Tutte le ricerche mostrano infatti che l’occu-pazione femminile crea domanda di lavoro. Perché una donna occupata,dato che fa di solito anche lavoro familiare non pagato, un po’ lo deve

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cedere ad altri, cosa che non succede con l’occupazione maschile. Nonvoglio dire che bisogna togliere l’occupazione agli uomini, sto solo di-cendo che l’idea che le donne tolgano il lavoro agli uomini – a parte ilfatto che gli uomini non hanno un diritto divino al lavoro mentre le don-ne lo avrebbero solo in forma secondaria – comunque è sbagliata. Quindiil primo problema è che in un Paese a elevata disoccupazione, anche ma-schile, e soprattutto nel Mezzogiorno, l’occupazione femminile viene vi-sta come concorrenziale a quella maschile. L’altro problema è che l’occu-pazione femminile indebolisce l’ovvietà della disponibilità infinita diuna risorsa gratuita familiare di cura. È come se il lavoro femminile fosseun lusso, un costo per la collettività. Questo ha consentito che tuttora – elo vediamo negli ultimi anni nelle decisioni prese rispetto al fondo socia-le, eccetera – le spese per servizi siano molto meno legittimate, infinita-mente meno legittimate, delle spese per pensioni o per cassa integrazio-ne. Quante ore di sciopero sono state fatte per la riforma dell’articolo 18?E non un’ora di sciopero per il taglio del fondo sociale, che ha impostouna riduzione dell’offerta di servizi, perché riguardava l’occupazionefemminile. Io lo dico anche ai sindacati, l’ho detto anche direttamente aSusanna Camusso.

C’è un familismo top down, che è un familismo costretto. Alcune inda-gini comparative hanno mostrato che l’Italia è il Paese dell’Unione Euro-pea in cui la disponibilità di una nonna, o di un nonno, è più cruciale perla possibilità delle mamme di bambini piccoli di stare nel mercato del la-voro. In tutti i Paesi, anche nella mitica Scandinavia, i nonni sono una ri-sorsa importante nelle emergenze e per sollevare un po’ i genitori giova-ni. Ma l’Italia è il Paese in cui l’emergenza è quotidiana, in cui la loro di-sponibilità fa più la differenza tra chi può e chi non può stare nel merca-to del lavoro.

A proposito di familismo top down, il ricorso pressoché obbligato allasolidarietà intergenerazionale è stato addirittura teorizzato, non nel1933, non nel 1945, ma nel 2008 e 2009, in due documenti governativi:nel Libro verde sul futuro del welfare del Ministro Sacconi, e poi soprattuttonel Libro bianco per l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro, firmatodalla ministra delle Pari Opportunità Carfagna e dal ministro Sacconi,all’interno della programmazione per “Europa 2020”. Che cosa si dice inquesto secondo documento? Cito quasi parola per parola: «le giovanicoppie, le mamme, vadano a vivere vicino ai propri genitori, in modoche le nonne possano aiutarle, così che quando poi le nonne e i nonniavranno bisogno a loro volta perché saranno diventati fragili, le ex gio-vani mamme potranno restituire l’aiuto». Quando lo lessi commentai: è

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proprio ciò che succede, non mi sembra un programma di politica socia-le. Nel finale c’era anche l’aggiunta della carità: tanta famiglia e un po’di carità. Le politiche sociali erano sparite e soprattutto si dava e si dàper scontato che ci siano sempre nonni in buona salute, che non invec-chino da un nipote all’altro, o che abbiano un nipote solo, e restino inbuona salute fino a quando la mamma ex giovane non avrà più da cura-re il figlio piccolo e quindi potrà dedicarsi a loro. È una fantasia in cuitutto si tiene (le persone diventano fragili al momento giusto e non unmomento prima), ma è anche in totale contraddizione con l’idea chesempre in quegli anni veniva sostenuta: che i giovani dovevano seguireil lavoro dove c’era, quindi non dovevano andare a vivere, come fannoancora adesso, a meno di un chilometro di distanza dalla famiglia di al-meno uno dei due, ma magari a cento, duecento, trecento chilometri, chele donne dovevano lavorare per il mercato senza però trascurare il lavo-ro familiare e di cura, e che donne e uomini dovevano lavorare più alungo. Allo stesso tempo, alle donne veniva detto che, pur rimanendonel mercato del lavoro, dovevano anche lavorare per la famiglia molto alungo, pressoché per sempre: passando da mamme a nonne accudenti afiglie di genitori anziani.

Per ora il modello della solidarietà intergenerazionale nel lavoro dicura tiene ancora abbastanza. Io stessa appartengo alla generazione dellenonne, seppure tardive. Nella mia generazione, di più di 70 anni, lamaggioranza delle donne non era occupata, è arrivata alla nonnità inbuona salute e non occupata. Quando andavo a prendere il mio primonipotino, sette o otto anni fa, ero l’unica nonna lavoratrice. Dato chespesso arrivavo da lezione, ero definita “la nonna con la cartella”. Mapian piano non è più così, perché più donne nelle coorti successive sonoentrate e sono rimaste nel mercato del lavoro e, se non perdono il lavoroprima, gli viene detto che ci devono stare – giustamente – più a lungo.Perciò, se e quando diventano nonne spesso sono ancora nel mercato dellavoro. Allora di quel bel modellino, che ne facciamo? Ho anche sentitoqualche proposta (il primo a farla è stato Giovanardi) di trasferire ai non-ni il congedo genitoriale, visto che i genitori spesso hanno contratti pre-cari e non possono averlo. Ma come, gli vogliamo anche togliere que-st’ultimo diritto? Facciamo invece in modo che i giovani genitori possa-no avere tempo per occuparsi dei figli senza temere di perdere il lavoro.

Il familismo top down mi sembra altrettanto pericoloso del “famili-smo amorale”, anche dal punto di vista della democrazia. Perché unodegli effetti di questo affidamento così forte sulla solidarietà familiare –che, non vorrei essere fraintesa, è in sé una cosa bellissima quando non

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diventa arbitrio e prevaricazione – è una delle cause della trasmissioneintergenerazionale della disuguaglianza. Non è un caso che l’Italia sia,tra i Paesi dell’Ocse, uno di quelli in cui la trasmissione intergenerazio-nale della disuguaglianza è più forte. Lo dice l’Ocse, non qualche agen-zia di sinistra: in un documento, Growing Unequal, del 2011, ha mostratoche tra i Paesi sviluppati democratici – non stiamo parlando di quellinon democratici fondati sulla riproduzione pura e semplice delle élite inbase al privilegio – l’Italia è quello in cui il destino sociale delle personeè più determinato dalla loro origine familiare. È colpa delle famiglie?Chiaramente no. È l’effetto del fatto che l’accesso alle opportunità è la-sciato troppo alle risorse familiari, sia in termini finanziari sia in terminidi capitale relazionale e sociale. Questo è il problema: siamo un Paesegià con forti disuguaglianze, per cui la distanza tra i salari più bassi e iredditi più alti è molto più ampia che in altri Paesi; correggiamo poco ledisuguaglianze del mercato, ma non correggiamo neanche le disugua-glianze di partenza. Non riusciamo, tramite il sistema scolastico, il siste-ma di accesso al mercato del lavoro, il sistema di riconoscimento dellecompetenze, a correggere in modo consistente l’origine di nascita. Mau-rizio Franzini, un economista di Roma che ha scritto un libro intitolatoRicchi e poveri, ha mostrato che il 40% del reddito di un adulto può esse-re ricondotto al reddito di suo padre quando era un adolescente. È tantoil 40%. E quando sento Elkann, il nipote di Agnelli, dare lezioni di eticao dichiarare che i suoi coetanei sono disoccupati perché non hanno vo-glia di lavorare, mi vengono i brividi: sei nato fortunato, va bene così,

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Roberto Spagnolo, Chiara Saraceno, Maria Laura Cornelli.

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ma che tu dia lezioni su come bisogna stare al mondo mi sembra vera-mente esagerato. Sapete che in Italia nel 2011 le chance del figlio di unoperaio di andare all’università e laurearsi erano otto volte più basse –non la metà, otto volte – del figlio di un laureato? C’è qualcosa che nonva: sono distanze da Paese non democratico, da Paese, verrebbe da dire,feudale.

Quindi il familismo top down è nelle sue conseguenze sociali, secondome, quasi più grave del familismo amorale di cui parlava Banfield e si-curamente lo incentiva, o se non altro lo legittima. Anni fa, credo fosserogli anni Ottanta, avevo detto in un’intervista, e ho avuto un attimo di ce-lebrità per questo, che la famiglia era la gamba nascosta del welfare Statein Italia; oggi non direi più che è la gamba nascosta, è il dato per sconta-to, l’ovvio, teorizzato come tale, del welfare State italiano. E lo vediamosempre di più nel clima attuale, dove la responsabilizzazione della fami-glia è così spinta che nel nostro Paese non riesce a diventare un proble-ma caldo nell’agenda politica neppure la povertà dei bambini. Non dicola povertà in generale, dico la povertà dei bambini. Qualcuno potrebbedire che la povertà dei grandi è colpa loro, perché non si sono dati da fa-re. Ma i bambini? Sapete che in Italia è in povertà relativa il 25% dei mi-nori? Molto di più che i vecchietti, che sono quelli invece di cui si parla:la povertà dei vecchietti è percepita come una “povertà meritevole” (diattenzione e sostegno), quella dei bambini no. Perché i bambini sono fi-gli, sono una responsabilità dei genitori, che potrebbero non farli, nonuna responsabilità pubblica. Per i figli dei migranti il dato è il 50%.

Questo dare per scontato la famiglia come welfare ha anche come con-seguenza la difficoltà – l’ho già accennato ma voglio riprenderlo – a svi-luppare veramente pari opportunità tra uomini e donne, talvolta con ilconsenso, se non la complicità, delle donne stesse. Si sentono donne direche il lavoro “prima lo deve avere lui”, senza pensare che se qualcosa vastorto nel matrimonio, o anche nel lavoro dell’uomo, può crollare tutto.Oppure ci sono donne disposte a lavorare solo a certe condizioni perchédevono anche occuparsi della famiglia, che è una responsabilità esclusi-vamente loro: quindi non troppo lontano, solo in certi orari, eccetera. Èquella che si chiama l’offerta di lavoro grigia. Questo produce non solodisuguaglianza tra uomini e donne, e anche disuguaglianze tra donne.Produce anche modalità culturali e modalità di narrazione di ciò chesuccede che in qualche modo giustificano, legittimano quello che succe-de: c’è una condivisione del fatto che certi compiti tocchino innanzituttoalla famiglia, e dentro la famiglia secondo una scala gerarchica. Non av-viene solo per gli italiani; nel libro che è stato citato nella presentazione,

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dove parlo anche delle famiglie transnazionali e migranti, riporto i datidi ricerca che mi hanno molto colpito: mentre i padri migranti sono con-siderati cattivi padri, oltre che dai loro figli anche da se stessi, se nonmandano abbastanza soldi a casa, o non li mandano, le madri migrantisono considerate non buone madri perché sono andate via a guadagna-re, perché non fanno il loro lavoro di cura. Ma ci si aspetta che debbanoanche guadagnare, per cui qualsiasi cosa facciano non va bene: se riman-gono e non guadagnano, la famiglia sta male; se partono e non curano,la famiglia sta male lo stesso, o comunque si percepisce come abbando-nata. Una modalità di ben essere fondata sulla famiglia e sulla divisionedel lavoro al suo interno può produrre questi circoli viziosi, queste im-possibilità di trovare un’alternativa, di rompere dei modelli di valorecondivisi e gli equilibri che ne derivano, con la sicurezza di trovare unacompensazione.

Questo funzionamento molteplice del familismo, o se volete delle so-lidarietà familiari praticate e più o meno obbligate, ha mostrato unagrande forza, in inglese si direbbe resilience, nei primi anni della crisi.Quelli di noi che si occupano di povertà erano stupiti di vedere che, tra il2007 e il 2010, la povertà non era aumentata di molto. I dati su disoccu-pazione, cassa integrazione, eccetera mostravano un forte calo, eppurenon risultavano crollati i consumi. Perché avveniva questo? Perché al-l’inizio i colpiti sono stati i giovani, i figli, cioè i secondi e i terzi redditi.La crisi aveva colpito anche i primi redditi, quelli dei capifamiglia ma-schi, però erano quelli più protetti. La cassa integrazione, cioè la prote-zione per i lavoratori “forti” (che stanno diventando in realtà sempre piùdeboli), più la solidarietà familiare hanno fatto in modo che per due o treanni i bilanci familiari abbiano tenuto, e i livelli di consumi si siano pocoridotti, molto spesso intaccando i risparmi. Ogni sei mesi ci dicevano chel’uscita dalla crisi era lì, si vedeva la luce in fondo al tunnel. Ci credeva-mo; dovevamo solo, come diceva Eduardo De Filippo, passare la nottata,riducendo certo i consumi ma non troppo, potendo anche permetterci diintaccare un poco i risparmi o di risparmiare meno, perché poi ci si sa-rebbe ripresi. Poi, tra il 2010 e il 2011 e tra il 2011 e il 2012, c’è stato uncrollo. All’Istat, quando hanno visto i dati, hanno pensato che ci fossequalche errore nell’indagine; perché non era mai successo un balzo cosìforte in termini percentuali dei dati sulla deprivazione e la povertà. In-fatti li hanno tenuti un po’ in sospeso, per sottoporli a ogni verifica. Peròpoi si è capito che, con il persistere della crisi, il cuscinetto di riserva si èesaurito e anche le stesse protezioni forti sono diventate sempre più de-boli, perché la cassa integrazione andava a finire. In questa situazione, la

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solidarietà familiare in molti casi non è stata più sufficiente. Di conse-guenza, quella stessa solidarietà che aveva protetto i singoli individuidalla povertà poi è diventata causa di una povertà familiare: si redistri-buisce anche la povertà, non si redistribuiscono soltanto le risorse.

Il fatto che i figli continuino a far fatica a lavorare, che per molti padrila cassa integrazione sia finita, ha prodotto un effetto paradossale: dopouna prima fase in cui molte donne sono diventate lavoratrici scoraggiate,ed è aumentato il tasso di inattività in un Paese che l’aveva già troppo al-to, nell’ultimo anno invece è aumentato il tasso di attività femminile eanche in parte di occupazione, sono aumentate persino le famiglie in cuiè la donna l’unica che guadagna o quella che guadagna di più. Non si ètrattato di un rovesciamento della disuguaglianza tra gli uomini e ledonne, ma del fatto che molte donne sono andate a fare la domestica, so-no andate a fare le pulizie. Molte donne che erano fuori dal mercato dellavoro hanno accettato un lavoro purchessia. Questo non è di per sé ne-gativo. Forse produce una capacità migliore delle famiglie e soprattuttoanche delle donne di reggere le crisi economiche. Però è stata una egua-lizzazione al ribasso: le donne che hanno lasciato l’inattività non sonoandate nei Consigli di Amministrazione o ai livelli alti delle gerarchieaziendali e neppure a occupare i posti persi dagli uomini. Sono andate apulire le scale dei condomini, o a fare le badanti. Tutti lavori decorosi edecenti, certo. Sto solo dicendo che quel “lavoro da donne” che le immi-grate sanno di poter trovare sta tornando a essere il “lavoro da donne”che italiane che hanno perso il lavoro, o il cui marito ha perso il lavoro,possono pensare di trovare. Contemporaneamente, stanno aumentandole disuguaglianze, proprio perché ci sono famiglie e ceti che non hannoperso niente, o che comunque hanno continuato a tenere. Oggi c’è unadivaricazione nelle classi sociali, dentro lo stesso ceto medio, molto piùelevata di qualche anno fa.

Finisco con piccoli flash. Questa famiglia che ha tenuto, ma adessonon tiene più o terrà sempre meno sul fronte della crisi, o tiene in modimolto asimmetrici a seconda delle classi sociali e anche delle composi-zioni familiari, rischia di tenere sempre meno rispetto all’aspettativa chefunzioni da welfare al posto del welfare mancante, anche per fenomeni le-gati a trasformazioni proprie della famiglia. Una l’ho già menzionata.L’aumento dell’occupazione femminile – anche se continua a essere trale più basse dentro l’Unione Europea e solo Malta ci consente di non es-sere all’ultimo posto nel tasso di attività e di occupazione femminile –,per quanto le donne si arrabattino a fare il doppio lavoro, modifica gliequilibri redistributivi del lavoro non remunerato, del lavoro di cura

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dentro alle reti parentali, proprio laddove l’invecchiamento delle paren-tele sta facendo aumentare la richiesta di questo lavoro di cura. Mi spie-go: è vero che si fanno meno figli – e forse c’è anche una spiegazione sulperché se ne fanno così pochi, perché basta averne due di età diverse e inscuole diverse per avere dei problemi organizzativi seri – quindi il lavo-ro di cura intensivo dei bambini piccoli è ridotto, contemporaneamente,tuttavia, la generazione di chi fa pochissimi figli e sta nel mercato del la-voro è essa stessa una generazione di pochi figli, e di poche figlie. Que-ste figlie, anche se non avessero null’altro da fare al mondo e avesserouna generosità strabordante e volessero occuparsi a pieno tempo deipropri genitori e suoceri, sono quindi spesso una a fronte di quattro. Ilfenomeno dell’invecchiamento delle parentele non viene mai discussoquando si parla delle politiche sociali. Si parla tanto dell’invecchiamentodella popolazione (chi ci pagherà le pensioni, il costo per la sanità...) epoi si conclude: allora lo riportiamo alla famiglia. Ma è nella famiglia,nelle parentele, che si sperimenta innanzitutto l’invecchiamento. L’Istatha fatto una stima considerando quante persone bisognose di cura avevauna quarantenne negli anni Sessanta, negli anni Ottanta e oggi. La qua-rantenne negli anni Sessanta aveva due o tre figli, e aveva spesso sopradi sé uno o due anziani. La quarantenne di oggi ha un figlio solo, ma glianziani sopra di sé sono quattro. Lo dice una come me che si sta avvian-do velocemente a quella che viene identificata come la soglia della vul-nerabilità, i 75 anni. Un bambino si sa quando nasce e quanto dura, più omeno, il periodo di accudimento intenso, che diminuisce con l’andar deltempo. La fragilità in età anziana (poi c’è anche la fragilità che può colpi-re improvvisamente nel corso della vita, di questo oltretutto si parlatroppo poco), invece, non si sa quando arriva – l’Alzheimer o una paresio un ictus possono colpire anche a 60 anni – e non si sa quanto dura, enon può che peggiorare con il tempo.

Ci troviamo in una situazione in cui è cambiata la demografia dellefamiglie, ma c’è sempre l’attesa che la famiglia sia invece quella in cui ledonne non lavorano e ci sono sempre abbastanza figlie e nuore a dispo-sizione. Non è così, inoltre l’instabilità coniugale, rompendo la solidarie-tà incrociata data per scontata, sta rendendo particolarmente vulnerabiligli uomini i cui figli si siano separati, o che loro stessi si siano separati:questi uomini anziani sono quelli oggi più a rischio, perché nell’ordinedella prestazione di cura ci sono i coniugi, le figlie, le nuore, mentre i fi-gli arrivano per quarti. I figli mandano la propria moglie ad accudire ipropri genitori. Questo è il modo in cui contribuiscono, rinunciando aun pezzo di lavoro di cura per sé, come mi disse una volta un collega,

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quando gli chiesi come facesse con sua madre: “le mando mia moglie”.Se interviene l’instabilità coniugale, questa ovvietà non può più esseredata per scontata. I mutamenti demografici, in senso proprio, ma anchelegati all’intenzionalità, ai mutamenti dei modi in cui si fa famiglia, han-no rotto l’ovvietà delle attese.

A questi fenomeni dobbiamo aggiungere la mobilità geografica. Non cisono soltanto le famiglie transnazionali dei migranti, ci sono le famiglietransregionali, o anche transnazionali, degli italiani i cui figli sono emigrati.Vivere vicini tra genitori e figli per tutto il corso della vita è ancora moltopiù frequente di quanto non ci immaginiamo, ma lo è sempre di meno e so-prattutto è anche indebolito da altre politiche. Quando si tratta di politichedella famiglia si ragiona in un modo, quando si tratta di politiche del lavo-ro si ragiona in un altro modo, a volte opposto e in contraddizione.

La professoressa Saraceno risponde alle domande del pubblico

Qual è il ruolo delle badanti nelle famiglie top down e quanto sarà sostenibilequesto sistema in futuro?

Le badanti sono la risposta familiare all’assenza di politiche pubbli-che: così come c’è il familismo top down, c’è il welfare familiare bottom up,come l’ha chiamato qualcuno, le famiglie hanno prodotto una innovazio-ne sul piano dei servizi, in assenza di politiche pubbliche e di consape-volezza e dibattito pubblico su questo problema. L’Italia non è l’unicoPaese in cui c’è il fenomeno delle badanti (parola che io odio, ma comun-que ormai si dice così), però in Italia è così spinto che nella letteratura in-ternazionale viene usato “badante” per intendere il lavoro di cura versoun anziano o adulto non autosufficiente, soprattutto quando si parla dilavoro migrante. È interessante questo termine profondamente squalifi-cante. Lo è sia per i lavoratori, uomini e donne (ci sono anche uominiche lo fanno), perché il loro lavoro viene ridotto a un semplice “badare”,senza alcuna attività relazionale significativa. È squalificante anche perchi fruisce di questo lavoro, per chi è “badato”, che viene così presentatocome persona così priva di diritti e portatrice di bisogni così poveri di si-gnificato che ha solo bisogno di essere badata, guardata perché non sifaccia del male, perché non si sporchi troppo. La dimensione relazionaledi questo lavoro, quindi anche la professionalità eventualmente richie-sta, oltre che la carica emotiva significativa, sono totalmente ignorate.Per reagire a questa svalorizzazione alcune femministe hanno, a mio pa-rere, ecceduto in senso contrario, ipervalorizzando la dimensione rela-

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zionale e affettiva del lavoro di cura a pagamento, come lavoro “del-l’amore”, analogamente a come viene spesso descritto il lavoro familiarenon pagato svolto dalle donne per la propria famiglia. Ritengo cheaspettarsi da una badante che non solo rispetti, ma ami la tua mammasia esagerato e non solo sovraccarichi impropriamente di doveri ancheemotivi chi presta cura, ma sottovaluti anche i rischi di burn out psicolo-gico ed emotivo di chi fa questo lavoro. Direbbero forse gli psicanalistiche un po’ di difesa emotiva è importantissima per questo tipo di lavoro,perché è tremendo, è terribile, finisce con la morte del cliente per lo più,che non è proprio il massimo come realizzazione professionale e di sé.

In Italia, a fronte dell’assenza di interventi, si sono utilizzati in modomolto inventivo e innovativo, ma del tutto anarchico, fondamentalmentedue strumenti di politica pubblica. Uno è l’indennità di accompagnamen-to, che consente anche ai ceti modesti di comprarsi qualche ora di cura;fenomeno molto interessante e che in parte avviene anche in Portogallo ein Spagna, pur se non a questi livelli di massa. L’altro sono le politichedell’immigrazione, perché sia nella definizione delle quote d’ingresso siasoprattutto nei periodici condoni – l’ultimo poi è stato chiarissimo, per-ché mentre si approvava la legge sulla clandestinità, si faceva eccezionesolo per loro – le badanti in Italia sono diventate l’unico immigrato meri-tevole di un occhio di riguardo, l’“immigrato buono”. Quando ci fu l’ulti-mo condono, io proprio di questo scrissi: perché il muratore no e la ba-dante sì? Maurizio Ambrosini, un sociologo di Milano, ha pubblicato sulgiornale on-line “la voce.info” un bell’articolo sulla figura della badantecome immigrante privilegiato. Perché la badante risponde a una doman-da sociale che lo Stato, il governo, quel governo, ma anche governi di al-tro colore, si erano rifiutati di affrontare; era una politica sociale a costozero, perché lo Stato non ci metteva nulla, salvo l’erogazione dei permes-si, con ciò credendo di aver risolto il problema senza preoccuparsi dei di-ritti. Partecipai a un dibattito alla radio con un prefetto che era allora re-sponsabile della attuazione delle norme sul condono e della parte sullebadanti. Ricordo che per queste la condizione era che l’orario fosse a tem-po pieno e con un unico datore di lavoro. Io dicevo cose banali, di buon-senso: scusi prefetto, ma guardi che moltissime badanti non hanno con-tratti di lavoro a tempo pieno, realizzano il tempo pieno lavorando perpiù famiglie, che magari le prendono due, tre ore al giorno. E lui: baste-rebbe che si mettessero d’accordo, con un datore di lavoro che fa da capo-fila. Ma, prefetto, sta dicendo che bisogna imbrogliare, far finta che ci siaun unico contratto quando ce n’è diversi? E poi lei crede davvero che cisia un italiano così cretino da prendersi la responsabilità di fingere di es-

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sere l’unico e dopo, se gli altri non pagano più i contributi, lui, che si è de-nunciato come unico datore di lavoro, li deve pagare?

Quanto è sostenibile tutto questo? Al momento è stato molto sosteni-bile, perché c’è stato un incontro tra domanda di cura insoddisfatta eun’immigrazione spesso irregolare, quindi che si poteva pagare poco. Lecose stanno un po’ cambiando, perché c’è una carriera delle badanti: dairregolari diventano regolari, e quando sono regolari accettano meno difare un lavoro 24 ore al giorno dormendo lì. Spesso preferiscono comin-ciare a occuparsi di bambini. Inoltre è cambiato il tipo di immigrazione.Le badanti oggi vengono per lo più da Paesi dell’Est europeo che fannoparte della UE e hanno aspettative più elevate di chi viene dal NordAfrica, dalle Filippine o dall’America Latina rispetto al salario e alle con-dizioni di lavoro. Inoltre, la crisi ha ridotto per le famiglie a reddito piùmodesto la possibilità di ricorrere a queste lavoratrici. Non ci sono daticerti, ma sembra che ci siano alcuni licenziamenti, soprattutto da partedi coloro che impiegavano una badante per poche ore; c’è forse il rischiodi una polarizzazione tra quelle che lavorano a pieno tempo e quelle perpoche ore, che hanno adesso anche la concorrenza delle italiane.

Aggiungo che a livello locale ormai diverse amministrazioni, attra-verso gli assegni di cura, il registro delle badanti, i corsi di formazioneper le stesse, cercano di regolare questo settore prendendo atto di un fe-nomeno che si è sviluppato in modo del tutto spontaneo e sregolato eche corrisponde anche a una cultura familiare che non vede di buon oc-chio l’istituzionalizzazione come alternativa valida alla totale presa incarico da parte della famiglia. L’istituzionalizzazione è una scelta di ulti-ma istanza. In Italia si istituzionalizza pochissimo e chi è istituzionaliz-zato di solito o è senza famiglia o è molto molto grave. Il ricorso alle ba-danti ribadisce il modello familiare della cura, appoggiandosi però almercato; non un mercato istituzionale, ma un mercato diretto. La fami-glia è il datore di lavoro diretto e la/il badante ha un rapporto di lavororaramente mediato da agenzie intermedie (anche se queste stanno svi-luppandosi proprio in questo settore).

È possibile un’uscita dal doppio registro del familismo amorale e del familismovirtuoso? Esiste un’alternativa alla famiglia? Qual è il ruolo della cultura catto-lica in questo contesto?

Confermo che c’è un doppio registro: c’è il familismo amorale e c’è ilfamilismo virtuoso, diciamo così. Però anche il familismo virtuoso è la-sciato a se stesso. Ripeto: non è che bisogna liberarsi della famiglia, oc-corre liberare la famiglia da un eccesso di responsabilità, da un eccesso

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di doveri, da un eccesso di compiti. Non è giusto, sia per i singoli sia perun problema di democrazia, che il ben essere, le opportunità delle perso-ne siano così dipendenti dalle risorse familiari. Questo, l’abbiamo appe-na detto, schiaccia spesso le donne per eccesso di domande di cura, senon possono comprarsene un po’ all’esterno. Io odio la polemica suimammoni (e non ho capito perché i papà non sono mai chiamati in cau-sa), perché una società che è tutta costruita sul fatto che bisogna dipen-dere dalla solidarietà familiare poi rimprovera coloro che da questa soli-darietà familiare dipendono, per necessità o anche per scelta; se ci si at-tende questo, è inutile che ci si lamenti del fatto che, anche quando po-trebbero, i giovani non escono perché tutto sommato preferiscono man-tenere un buon livello di consumi; l’autonomia deve sempre avere unarete di protezione familiare. Non so se la famiglia sia vittima, ma sicura-mente è sovraccaricata, con effetti perversi.

L’alternativa non è affrancarsi dalla famiglia, nel senso di essere tuttiorfani senza famiglia, ma avere le risorse, avere un’organizzazione com-plessiva – non solo del welfare e della scuola, ma anche del mercato dellavoro, dei sistemi professionali eccetera – che meno si affidi alla fami-glia, in cui il capitale relazionale non sia l’unica risorsa che conta per col-locarsi nel mercato del lavoro. Non mi piace la parola meritocrazia; però,che il figlio di un operaio abbia chance otto volte minori di andare al-l’università, e che poi anche da laureato comunque non abbia le stessechance perché privo di capitale relazionale e sociale, è grave. Il problemanon sta nella famiglia, ma in ciò che non c’è accanto alla famiglia. Questoè stato addirittura accentuato: noi siamo l’unico Paese che ha pressochétolto la tassazione dell’eredità; un non marxista come Luigi Einaudi ave-va detto a suo tempo che l’eredità è una delle ingiustizie più grandi checi sia, perché mette ai blocchi di partenza in modo disuguale. Quindi ègiusto tassarla. Eliminarla del tutto non si può, ma bisogna tassarla inmodo che questo vantaggio competitivo non meritato sia un po’ ridotto.Noi siamo riusciti a toglierla con un governo di centrosinistra. QuandoProdi disse: mettiamo un tetto basso, 300 mila euro, ho osservato che èun concetto di basso discutibile: 300 mila euro per erede non sono pochi.E anche la casa ereditata è sottoposta a una tassazione molto generosa.D’altra parte, è per questo che c’è tutta questa reazione sull’Imu ed è sta-to così popolare abolirla, perché la cosa importante che uno ha è la casache vede come un diritto divino da trasmettere.

Un conto è discutere come liberare la famiglia perché possiamo averebagagli un po’ più leggeri, sia in termini di doveri sia in termini di disu-guaglianze, altro è chiedersi quale alternativa alla famiglia attuale. In ef-

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fetti, alternative alla famiglia italiana attuale sono già state inventate. Lafamiglia attuale è le famiglie; si fa già famiglia in modo molto diverso.Che la legislazione italiana lo riconosca o meno, anche la famiglia italia-na, quella dello stereotipo, non è più quella di un tempo. Anche in Italianegli ultimi dieci anni c’è stata una trasformazione fortissima e accelera-ta del modo in cui si entra nel matrimonio. Ormai un matrimonio su tredi quelli che vengono celebrati oggi è preceduto da una convivenza, equindici anni fa era impensabile; ormai un bambino su quattro nasce dauna coppia non sposata. Certo, non siamo al 99% dei primogeniti neiPaesi nordici, o al 70, 80% in Francia e in Germania, però è un bambinosu quattro, mentre era il 2% vent’anni fa. Pur senza parlare delle famigliearcobaleno, delle coppie omosessuali, anche la famiglia eterosessuale stacambiando, le separazioni e i divorzi stanno creando forme familiari dialtro tipo, diverse da quelle delle favole in cui lui o lei erano vedovi ec’erano la matrigna o il patrigno, perché c’è una pluralità di figure geni-toriali, confini permeabili, figli che appartengono a due famiglie, nonniacquisiti; ci sono anche genitori che spariscono; ma ci sono anche legamifamiliari di tipo diverso. Le tecniche di riproduzione assistita in Italiaimpediscono il ricorso a donatore/donatrice, ma basta andare in Spagna:quanti bambini stanno nascendo senza essere consanguinei di entrambi igenitori e magari di nessuno dei due. Valeva già per l’adozione, ma oggiil fenomeno avanza. Quindi la famiglia sta già cambiando forma da unpo’. Bisogna ricordare che la famiglia non ha nulla di naturale, è conti-nuamente costruita e normata dalla società e in società. Noi siamo in unasituazione italiana di ritardo, ma non vale solo adesso: il divorzio ci hamesso centodieci anni a essere introdotto nel nostro Paese; io spero che ilriconoscimento delle coppie omosessuali ci metta un po’ di meno. D’al-tra parte, l’equiparazione dei figli naturali e dei figli legittimi definitadalla norma costituzionale del ‘48 è avvenuta solo nel 2012 (anzi 2013,perché poi si è dovuto aspettare per i decreti attuativi). Ci erano già vo-luti quasi trent’anni per togliere, nel 1975, la definizione di “illegittimo”,che è una cosa fortissima se ci pensate. Figlio illegittimo vuol dire chenon aveva diritto a nascere, a esistere. Nel 1975 è diventato “naturale” –che è un termine ridicolo, perché allora se i naturali non sono legittimi, ilegittimi non sono naturali – e adesso finalmente sono state tolte tutte lediscriminazioni residue. Fino ad ora, un figlio naturale non aveva lastessa parentela di un figlio legittimo, aveva forse i nonni, non era certose avesse gli zii, da un punto di vista legale. Il nostro è un Paese in cui lenorme fanno una fatica enorme a prendere atto del mutamento. Si pensache non cambiando le norme il mutamento non avvenga.

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È colpa della cultura cattolica? certamente anche, però non vorreispiegare l’Italia solo con la cultura cattolica, perché la cultura cattolicac’è anche in Spagna, che ha avuto la dittatura più a lungo di noi, c’è an-che in Portogallo. Qui c’è il Vaticano, ma allora il problema non è la cul-tura cattolica, il problema è la cultura politica, è la mancanza di laicitàdel nostro Paese. Dobbiamo smettere di dire che è colpa della culturacattolica, è colpa della mancanza di laicità del nostro Paese, è colpa delfatto che i nostri politici sono sempre preoccupati di essere i più osser-vanti su questi temi. È un Paese in cui, quando Berlusconi l’ultima voltaandò in visita di Stato dal Papa e disse che sulla famiglia aveva promes-so di fare quello che gli avrebbe fatto piacere, credo che solo Chiara Sara-ceno abbia scritto o fatto un’intervista, dicendo: ci arrabbiamo perché di-ciamo che ci impongono di fare come vuole la Merkel, ma mi sembraben più grave che un Capo di Stato dica che vuol fare sulla famigliaquello che un altro Stato gli impone. Oltretutto rischiano pure di esserespiazzati da papa Bergoglio, il quale sta facendo un’operazione molto in-teressante. A differenza dei protestanti, i quali nei loro documenti uffi-ciali dicono che esiste una pluralità legittima e dotata di valore di fare fa-miglia, sta dicendo che la dottrina si tiene ferma, non viene neanche di-scussa, poi però la pastorale è un’altra cosa e allora cosa facciamo conchi si ostina a non comportarsi secondo la dottrina? Li buttiamo a mare,

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oppure in qualche modo li accogliamo nella comunità? È un doppio re-gistro rischiosissimo, che non so quanto riuscirà a durare, e molti dentrola Chiesa sono preoccupati per quanto può reggere il dire che la dottrinaè ferma, e però i comportamenti... Farsi battere da un Papa sulle questio-ni familiari mi sembra veramente fuori dalla grazia di Dio.

Quali sono le cause della femminilizzazione dell’insegnamento?. La femminilizzazione dell’insegnamento è causata dal fatto che l’inse-

gnamento è poco pagato: è solo per questo. Ho abbastanza anni per ri-cordarmi quando alle elementari c’erano ancora i maestri, e i maschi interza elementare passavano sotto il maestro. Soprattutto nei licei, ma an-che alle scuole medie, il rapporto era molto equilibrato. La femminilizza-zione a tutti i livelli è avvenuta quando, mi sembra attorno agli anni Ot-tanta, si è allargato il divario tra gli stipendi dei professori dei licei e glistipendi dei professori universitari, che sono stati agganciati a quelli deimagistrati. In tutti i Paesi, le professioni meno remunerate sono profes-sioni femminili. Quindi la femminilizzazione non deriva dal fatto che siaconsiderato particolarmente adatto a una donna fare l’insegnante, nonda una questione vocazionale, ma dal fatto che è un lavoro poco pagato,che un tempo era anche considerato a tempo parziale, quindi particolar-mente adatto alle donne. Sotto il fascismo addirittura le donne non pote-vano insegnare matematica alle superiori, perché era una roba maschile,richiedeva altre menti, anche se alcune femministe fasciste avevano os-servato che era più una norma per ridurre la competizione con i maschi,per favorire il monopolio maschile. Anche loro, pur fasciste, avevano ca-pito qual era il problema. Nella Russia sovietica la medicina, che era po-co pagata, era prevalentemente femminile, negli Stati Uniti, dove inveceè una professione privata molto pagata, è stata a lungo prevalentementemaschile. Non c’entrava il contenuto della professione, ma il suo statutosociale e finanziario. La femminilizzazione dell’insegnamento è andatadi pari passo, certo, con l’aumento della scolarità femminile – ci sono piùdonne che possono fare l’insegnante. Il gender gap nell’istruzione in Italiasi è chiuso alla fine degli anni Settanta, con dieci anni di ritardo rispettoalla maggioranza dei Paesi sviluppati, però si è chiuso. Ma è andato so-prattutto di pari passo con la diminuzione sia del prestigio sia del reddi-to di quella professione. Si può parlare di motivazioni vocazionali, manon è così. Se osservate, l’unico posto dove c’era un monopolio, per leg-ge, femminile erano i nidi e le scuole materne, con l’idea che ci volevauna donna perché gli uomini non erano capaci con i bambini piccoli. Poic’è stata una vertenza di pari opportunità ed è stato aperto ai maschi; ma

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Famiglia e “familismo”

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i maschi non si sono fiondati in questa professione, nonostante ci sia an-che la disoccupazione maschile, e, se per caso finiscono lì, chissà perchédiventano subito coordinatori.

Chiara Saraceno ha insegnato Sociologia della Famiglia all’Universitàdegli Studi di Torino presso la facoltà di Scienze politiche, è stata diret-trice del Centro interdipartimentale di Studi e Ricerche delle Donne, èstata presidente della Commissione italiana d’indagine sulla povertà el’emarginazione, è stata poi professore di ricerca presso il Centro di Ri-cerca sociale di Berlino e attualmente è insegnante onoraria presso il Col-legio Carlo Alberto di Torino. Si è occupata, spesso in un’ottica compara-tiva, di sociologia della famiglia, di questione femminile, di rapporti trageneri e tra generazioni, dei sistemi di welfare, dei mutamenti sociali edemografici e delle loro conseguenze.

Le sue pubblicazioni su questi temi sono numerosissime, ricordiamosolo le più recenti: Sociologia della famiglia (il Mulino, 2007) con ManuelaNaldini, Onora il padre e la madre (il Mulino, 2010), Conciliare famiglia e la-voro (il Mulino, 2011) sempre con Manuela Naldini, I nuovi poveri. Politi-che per le diseguaglianze (Codice, 2011), Cittadini a metà (Rizzoli, 2011),Coppie e famiglie. Non è questione di natura (Feltrinelli, 2012), Il welfare (ilMulino, 2013), Eredità (Rosemberg e Sellier, 2013).

Suggerimenti per l’approfondimento CHIARA SARACENO, Coppie e famiglie. Non è questione di natura, Milano,

Feltrinelli, 2012.CHIARA SARACENO, Il welfare, Bologna, il Mulino, 2013.CHIARA SARACENO, Eredità, Torino, Rosemberg e Sellier, 2013.EDWARD BANFIELD (con prefazione di Arnaldo Bagnasco), Le basi morali di

una società arretrata, Bologna, il Mulino, 2010.MAURIZIO FRANZINI, Ricchi e poveri. L’Italia e le disuguaglianze (in)accettabili, Milano, Università Bocconi ed., 2010.GIANPIERO DALLA ZUANNA, GUGLIELMO WEBER, Cose da non credere, Roma-

Bari, Laterza, 2011.

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CHIARA SARACENO

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FILIPPO FOCARDIUniversità di Padova

“ITALIANI BRAVA GENTE”Origini e persistenza di un mito identitario

Maria Laura Cornelli

Vorrei ricordare che un carattere distintivo di questo ciclo è la plurali-tà dei temi e dei punti di vista sull’oggetto “identità italiana” e dopo iltema famiglia e l’ottica sociologica della volta scorsa, che comunque ave-va un respiro fortemente comparativo e attento alle trasformazioni, tor-niamo all’ottica storica per affrontare un tema specifico, quello che anchenel titolo della serata abbiamo definito “un mito identitario”, che a no-stro avviso ci segna profondamente.

Vorrei partire da un articolo dello storico Emilio Gentile pubblicato l’8novembre su “la Repubblica”. Interpellato sulla questione della sepoltu-ra di Priebke, Gentile afferma: «Sicuramente noi non abbiamo fatto i con-

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ti con quella storia... è nel guscio vuoto della nostra democrazia che vacercata l’incapacità di chiudere con il Novecento. I fantasmi del nazismosono in realtà il riflesso della nostra fragilità nazionale. In una democra-zia davvero solida, in un Paese che gode della piena fiducia dei cittadininelle istituzioni, la sepoltura di Priebke sarebbe stata un atto quasi nor-male, magari oggetto di macabro folclorismo, ma non un pericolo nazio-nale». Noi quindi, dice Gentile, non abbiamo fatto i conti con questa sto-ria. Mi ha colpito molto vedere classi di studenti e gruppi di cittadini te-deschi che vanno quasi ogni anno a Monte Sole, sui luoghi della stragedi Marzabotto, e scoprire che a Sant’Anna di Stazzema si svolgono ogniestate concerti e incontri organizzati dall’Associazione italo-tedesca“Amici dell’organo della pace”. Durante la strage i nazisti hanno distrut-to anche l’organo della chiesa e due musicisti tedeschi qualche anno fa,per una sorta di riparazione, hanno organizzato una colletta, hanno rac-colto dei fondi e hanno comprato e donato un organo alla chiesa diSant’Anna; da quel momento – mi pare dal 2007/2008 – sono cominciatiquesti cicli di incontri e di concerti. Non mi risulta che niente di analogoavvenga da parte degli italiani nel campo di concentramento di Soluchin Cirenaica, a Debrà Libanòs in Etiopia, a Domenikon in Grecia o, re-stando più vicini, nel campo di concentramento di Raab nell’attualeCroazia.

Come ci confrontiamo con momenti poco lusinghieri, negativi dellanostra storia: colonialismo, fascismo, occupazioni violente durante la Se-conda guerra mondiale in Jugoslavia, Albania, Grecia? Riconosciamo dinon essere stati solo vittime ma anche carnefici? Ci pare che ci sia unaspecificità italiana in questo rapporto con la propria storia e abbiamoquindi deciso di affrontare in questo ciclo anche il mito identitario del“buon italiano”, un mito che rimuove o banalizza, che si nutre di sme-moratezza e insieme di auto-assoluzione: le responsabilità sono semprequelle degli altri, appunto del “cattivo tedesco”. Abbiamo deciso di af-frontare quindi questo tema nella convinzione che come sostiene JoséZalaquett – un giurista cileno che faceva parte del governo di Allende,che è stato poi in prigione, quindi espulso e oggi si occupa di dirittiumani, di verità e riconciliazione – «le identità forgiate su mezzi ricordio false memorie facilmente commettono trasgressioni». E nella convin-zione che, come sostiene Nicola Labanca a proposito del colonialismo,«una buona conoscenza della storia potrebbe inoculare utili vaccini». Perqueste ragioni abbiamo deciso di affrontare questo spinoso argomento eabbiamo interpellato il professor Focardi che su questi temi ha centratomolti dei propri lavori.

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FILIPPO FOCARDI

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Vorrei leggere le righe finali del suo ultimo libro, perché mi sembrache diano un po’ il senso di questa serata: «Servirebbe una ben maggiorediffusione della conoscenza della nostra storia, a partire dalle scuole. Èdoveroso che gli studenti conoscano Sant’Anna di Stazzema e Monte So-le, come Auschwitz e le foibe, ma dovrebbero sapere anche che cosa han-no rappresentato Domenikon e Raab, per non dire di Debrà Libanòs inEtiopia. Allo stesso modo può avere un valore formativo che venga loroadditato l’esempio di un Giorgio Perlasca, ma non dovrebbero essere ta-ciute le colpe di un Rodolfo Graziani o di un Mario Roatta. Anche così sicostruisce una memoria europea fondata sull’etica della responsabilità eaperta alla dimensione globale e multietnica delle società in cui viviamo,al di là di una memoria nazionale finora centrata su se stessa, vittimisti-ca e autocelebrativa».

Filippo Focardi

Grazie a Maria Laura Cornelli per la sua bella presentazione, grazie alCentro culturale NuovoProgetto, alla Fondazione Zaninoni e alle altreassociazioni che hanno organizzato questo ciclo di incontri molto impor-tante, di grande respiro nazionale. Quando ho letto il programma ho ac-cettato subito molto volentieri di tornare a Bergamo, dove ero stato agennaio scorso per presentare il mio ultimo libro Il cattivo tedesco e il bra-vo italiano.

Con la relazione di oggi riprendo il tema del mio libro, ma lo ampliofacendo riferimento non solo alla memoria nazionale della Secondaguerra mondiale ma anche a una memoria, a una autoraffigurazione na-zionale, legata alle vicende del colonialismo italiano, come indica ap-punto il titolo scelto per questa conferenza.

Partirei non dalle origini del mito degli “italiani brava gente” ma dal-la sua persistenza, di cui si possono fare molti esempi. Un esempio fa-moso, di una ventina di anni fa, è rappresentato dal film Mediterraneo,pluripremiato in Italia e all’estero, opera di un grande regista della sini-stra, Gabriele Salvatores, con attori molto noti, da Claudio Bisio ad Aba-tantuono a Cederna. Credo che molti di voi l’abbiano visto. Ho scopertoinvece con sorpresa che gran parte dei miei studenti, di 19 anni, non loconoscevano. E ciò mette in evidenza la rilevanza del problema genera-zionale quando parliamo di memoria. Ma restiamo a Mediterraneo, filmche racconta le vicende di un manipolo di soldati italiani approdati du-rante la Seconda guerra mondiale su una bellissima isola greca. Quei mi-

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“Italiani brava gente”

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litari italiani sono degli occupanti, non sono andati lì in vacanza, e peròsembrano quasi dei turisti: non emerge alcun atteggiamento guerriero,essi giocano a carte con gli anziani del posto, fanno delle magnifiche par-tite di pallone con i bambini, bevono ouzo, si cimentano nel sirtaki, flir-tano con successo con le donne del posto: insomma, una esemplare rap-presentazione del “bravo italiano”. Circa dieci anni dopo l’uscita di Me-diterraneo, nel gennaio del 2002, la Rai manda in onda in prima serata lafiction Perlasca. Un eroe italiano, interpretata da un volto notissimo, LucaZingaretti. La trasmissione ha un enorme successo di pubblico. La fictionracconta le vicende di Giorgio Perlasca, un italiano di sentimenti fascisti,che con grande coraggio riuscì a salvare in Ungheria durante la guerracirca cinquemila ebrei spacciandosi per diplomatico spagnolo. Perlascaaveva combattuto da volontario fascista nella guerra civile spagnola eper i suoi meriti aveva ottenuto una carta diplomatica dalle autoritàfranchiste. Proprio utilizzando quella carta e inventandosi con un certoingegno vari stratagemmi era riuscito a salvare moltissimi ebrei. La suastoria è stata scoperta molto tempo dopo, in Italia all’inizio degli anniNovanta, perché anche coloro che erano stati salvati pensavano che luifosse davvero uno spagnolo, non sapevano che era italiano. In ogni caso,per noi conta il fatto che questa fiction abbia efficacemente riproposto algrande pubblico, a milioni di telespettatori, il volto degli italiani salvato-ri di ebrei.

Bisogna tener conto che questa raffigurazione ha finito per essere ri-lanciata a partire dall’introduzione in Italia nel 2000 della Giornata dellamemoria dedicata alla Shoah. Infatti, fra le varie forme che hanno assun-to le commemorazioni di questa nuova festa civile, spicca l’esaltazionedell’aiuto prestato dagli italiani agli ebrei. Un aiuto il cui ricordo è previ-sto dalla stessa legge istitutiva della Giornata della memoria. L’art. 1 del-la legge, infatti, oltre a prescrivere di ricordare le vittime della Shoah, levittime della deportazione politica, militare, eccetera, richiama l’oppor-tunità di ricordare anche quello che gli italiani dell’una e dell’altra partepolitica hanno fatto per il salvataggio degli ebrei. Negli anni successiviall’introduzione della legge, non a caso si è assistito al proliferare sullascena pubblica della commemorazione di figure di salvatori di ebrei, co-me Perlasca, come Guelfo Zamboni (console italiano a Salonicco), comeil funzionario di polizia Giovanni Palatucci (quest’ultima, però, figuracontroversa).

Facciamo adesso un altro esempio. Nel novembre del 2009 è stataesposta a Firenze una mostra intitolata L’occupazione italiana della Libia.Violenza e colonialismo (1911-1943), finanziata dalla Regione Toscana, pa-

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trocinata dall’Istituto storico della Resistenza in Toscana. La mostra erastata organizzata dall’amico Costantino Di Sante in collaborazione congli archivi libici. La mostra documentava i crimini e le violenze commes-si dagli italiani in Libia dall’occupazione nel 1911 fino al 1943, concen-trandosi soprattutto sul periodo fascista, focalizzando dunque l’attenzio-ne sulla riconquista della Cirenaica, sulla deportazione di decine di mi-gliaia di libici nei campi di concentramento organizzata da Graziani etutto quello che era seguito. I giornali locali hanno reagito a questa mo-stra, una delle prime occasioni in cui si parlava pubblicamente dei latioscuri dell’esperienza coloniale italiana, presentandola con mini trafilettidi dodici-quattordici righe. Il giorno successivo all’inaugurazione, poi,l’edizione cittadina del “Corriere della Sera”, il “Corriere Fiorentino”, hapubblicato un articolo di tre pagine intitolato Noi fiorentini, dall’altra partedella Libia che prendeva spunto da interviste realizzate per l’occasione afamiglie italiane espulse dalla Libia da Gheddafi nel 1970. L’articolo pre-sentava ad esempio un’intervista fatta al signor Francesco Chirchirillo,ritratto in una foto in groppa a un dromedario nella Libia degli anni Cin-quanta, o forse degli anni Quaranta, quando era bambino. Vi erano poimolte altre foto a corredare un lunghissimo articolo in cui si criticava lamostra come un’operazione del tutto unilaterale che non dava conto diquello che avevano davvero fatto gli italiani in Libia, con ampia profu-sione di lodi per lo strepitoso lungomare di Tripoli che assomigliava tan-to alla Costa Azzurra, per i magnifici oliveti, eccetera eccetera. Alle criti-che rivolte alla mostra e a questo modo di presentare gli aspetti positividel colonialismo italiano replicava il giorno dopo Simone Neri Serneri,direttore dell’Istituto della Resistenza, con una lettera pubblicata dalgiornale, ma alla quale a sua volta replicava il direttore del “CorriereFiorentino”, Enrico Nistri. Vi voglio leggere solo alcuni passaggi della ri-sposta del direttore: «In meno di dieci anni l’Italia fece per la Libia moltopiù di quanto avesse fatto qualsiasi dominatore dai tempi di Settimio Se-vero in poi. Completò una rete ferroviaria di 398 chilometri, inaugurònel 1937 una grande strada litoranea, la cosiddetta Balbia, lunga 1.822chilometri dal confine tunisino a quello egiziano, organizzò un sistemadi servizi pubblici che si irradiava nell’entroterra da Tripoli e da Bengasisu di una rete di strade in buona parte asfaltate, cambiò il volto delle cit-tà realizzando splendidi lungomare, palazzi pubblici prima inesistenti,musei archeologici e di storia naturale, grandi fiere campionarie destina-te a incrementare il commercio e l’industria della colonia, fondò scuole eospedali, edificò chiese cristiane ma costruì o restaurò anche templi mu-sulmani come la moschea Sidi Scensian di Tripoli, una delle più venerate

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del Paese. E soprattutto avviò un’opera capillare e imponente di coloniz-zazione, finalizzata a fare dello “scatolone di sabbia” quel giardino cheera al tempo della prima dominazione romana». E andando avanti contono sempre più enfatico, il direttore descriveva poi «ogni villaggio conla sua chiesa, il suo municipio, l’ambulatorio, la scuola elementare, lafontana della piazza, a volte il cinema-teatro. Tutt’intorno ulivi, viti,spesso mandorli, cereali, agrumi irrigati con motopompe, nell’ambito diun progetto di colonizzazione affidato all’Inps (all’epoca Infps)», cioèIstituto nazionale fascista della previdenza sociale, e così via. Ora, nonera la voce di un ex-colono italiano, da cui ci si può aspettare un ricordonostalgico della propria vita trascorsa in Libia da ragazzino. Ma era ungiornalista, direttore di uno dei principali giornali di Firenze, a ripropor-re tutti gli elementi tipici del presunto colonialismo italiano “dal voltoumano”. Quindi al tentativo dell’Istituto della Resistenza, della RegioneToscana, della Provincia, di allestire una mostra e provare a parlare an-che di aspetti poco noti e poco commendevoli dell’esperienza colonialeitaliana si replicava in questo modo. Il volto del “bravo italiano” eradunque riproposto, solo quattro anni fa, in questi termini. Dunque “ita-liani brava gente” perché non hanno ammazzato nessuno, come invecehanno fatto i tedeschi, perché hanno salvato gli ebrei, perché in Libia maanche in Etiopia hanno costruito giardini pieni di mandorli, ariosi lungo-mare e bellissime strade. Come se solo gli italiani lo avessero fatto, comese gli altri, inglesi e francesi, avessero invece sviluppato solo un colonia-lismo di sfruttamento. Tutte le potenze coloniali hanno realizzato delleopere importanti nei territori colonizzati, perseguendo comunque innan-zitutto i propri interessi.

Se questa è la situazione tutt’oggi, qual è l’origine dello stereotipo de-gli italiani “brava gente”? Gli studiosi di relazioni internazionali in gene-re individuano nelle grandi guerre dei momenti di svolta: le grandiguerre hanno un valore, loro dicono, costituente, rimodellano l’ordineinternazionale. Ci sono vinti e vincitori, ci sono sistemi internazionaliche cambiano, dopo la Prima guerra mondiale così come dopo la Secon-da guerra mondiale. Noi storici aggiungiamo a questa riflessione che legrandi guerre modificano anche le coordinate mentali, il modo in cui ipopoli si raffigurano e raffigurano gli altri, e molto spesso il modo in cuiraffigurano gli altri è lo strumento attraverso il quale ridefiniscono anchela propria identità. Questo è assolutamente vero per la Seconda guerramondiale.

Quello che sostengo è che l’immagine del “bravo italiano”, degli “ita-liani brava gente”, la quale utilizza materiali culturali di lunghissima da-

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ta che provengono anche dall’Ottocento se non da prima, viene fissataalla fine della Seconda guerra mondiale e negli anni immediatamentesuccessivi, con particolare rilevanza da attribuire agli anni 1943-1947.Dove il 1947 è legato al trattato di pace italiano. Questo vale per la me-moria della Seconda guerra mondiale – quindi l’immagine del “bravoitaliano” che salva gli ebrei in Jugoslavia o in Francia meridionale, perdirne una –, ma vale anche per il colonialismo italiano.

Per provare a spiegare questa affermazione, parto dalla riflessione diun grande storico britannico deceduto alcuni anni fa, Tony Judt, il qualeha parlato dell’esistenza di una memoria europea della Seconda guerramondiale comune a tutti i Paesi che vi avevano partecipato, una memoriasegnata però da una eredità maledetta, a vicious legacy. Secondo Judt, tuttii Paesi che hanno partecipato alla Seconda guerra mondiale subendo l’ag-gressione tedesca hanno sviluppato una memoria che, pur nelle differen-ze che ovviamente ci sono da Paese a Paese, ha alcuni tratti comuni, chesono fondamentalmente due: aver creato un mito della Resistenza, basatosull’idea che tutto il popolo abbia partecipato durante la guerra alla resi-stenza contro i tedeschi, e l’idea che tutte le colpe, tutti i crimini, tutte lesofferenze della guerra siano responsabilità esclusiva dei tedeschi: «Theydid it», loro l’hanno fatto, l’hanno fatto i tedeschi. Perché secondo TonyJudt si tratta di una memoria viziata? Ovviamente perché se prendiamo ilmito della Resistenza come guerra di popolo, allora come si collocano icollaborazionismi? È vero, in ogni Paese, dalla Francia alla Norvegia allaPolonia, sono nati movimenti di resistenza, però in tutti questi Paesi sononati anche e sono prosperati movimenti collaborazionisti a fianco dei te-deschi. Inoltre è sbagliato attribuire alla Germania e ai tedeschi la respon-sabilità esclusiva per i crimini della Seconda guerra mondiale. Certo, i te-deschi portano la responsabilità principale degli enormi crimini perpetra-ti nella Seconda guerra mondiale, da loro scatenata. Però anche altri belli-geranti si sono macchiati di crimini, compresi i vincitori. Si possono faremolti esempi, partendo dall’Italia con le foibe e le cosiddette “marocchi-nate”, poi i bombardamenti a tappeto degli Alleati, i crimini commessidall’Armata rossa in Polonia, le deportazioni di massa di tedeschi, un-gheresi, bulgari o ucraini alla fine della guerra e così via.

Il discorso di Judt vale anche per l’Italia, però l’Italia ha una peculiari-tà. Anche in Italia è stata sì sviluppata una memoria che ha fatto riferi-mento alla Resistenza come “un popolo alla macchia” – secondo la defi-nizione di Luigi Longo –, come se tutti gli italiani avessero fatto la Resi-stenza, anche in Italia si è cercato di addossare tutte le colpe al tedesco,al “cattivo tedesco”. Però l’Italia non è paragonabile agli altri Paesi, né a

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quelli che hanno subito l’aggressione tedesca, dalla Francia alla Poloniaalla Norvegia eccetera, né ai cosiddetti alleati minori dell’Asse comel’Ungheria, la Romania, la Bulgaria o la Finlandia che hanno combattutoper un certo periodo a fianco dei tedeschi. Non è paragonabile perché haavuto un ruolo storico diverso: innanzitutto l’Italia è la culla del fasci-smo, il fascismo è nato in Italia ed è stato il modello di Hitler. Inoltrel’Italia monarchico-fascista è stata costantemente in guerra almeno dal1935. Si comincia con l’aggressione all’Etiopia, che non è una classicaspedizione coloniale, vengono messi in campo mezzo milione di uomini,è una guerra modernissima dove si impiegano anche agenti chimici, car-ri armati, aviazione; non è ancora finita la guerra in Etiopia che nel 1936inizia la guerra civile in Spagna, e Mussolini vi invia 70 mila uomini acombattere a fianco di Franco fino al 1939; prima dell’inizio della Secon-da guerra mondiale c’è poi l’aggressione e l’occupazione dell’Albania,nell’aprile del ‘39. Tutte queste operazioni sono finalizzate a destabiliz-zare l’ordine internazionale stabilito dopo la Prima guerra mondiale.L’Italia di Mussolini ha una responsabilità preponderante insieme allaGermania nello scardinare il sistema europeo e nel precipitare l’Europanella guerra. Non è un caso che Mussolini si allei con Hitler. Spesso neldibattito pubblico si sente affermare che il fascismo era un sistema auto-ritario blando, non privo di meriti, che avrebbe poi commesso l’erroreesiziale di allearsi con Hitler; ebbene, non fu un errore, l’alleanza colFuehrer era iscritta per così dire nel Dna del fascismo, il fascismo infatticontemplava una grande guerra europea per creare il “Nuovo ordinemediterraneo” di Mussolini, il quale magari avrebbe voluto scatenare laguerra non nel ‘39 ma qualche anno dopo, perché appunto doveva recu-perare un po’ di energia che aveva speso in Etiopia, in Spagna, eccetera.Quindi non si può paragonare l’Italia agli altri Paesi. Certo, l’Italia nonentra subito in guerra, i primi mesi dichiara la non belligeranza, ma ap-pena Mussolini pensa che la guerra sia decisa, quando vede la Franciacrollare sotto i colpi della Wehrmacht, decide l’intervento. E il duce pro-va a fare una sua guerra, la cosiddetta guerra parallela, con propri obiet-tivi imperialistici: i Balcani soprattutto, e l’Africa. L’aggressione alla Gre-cia nell’ottobre del 1940 va male, però in qualche modo costringe Hitlera intervenire nell’area. Nell’aprile 1941, grazie all’azione convergentedelle armate tedesche e italiane, insieme a bulgari e ungheresi, l’Asse oc-cupa la Jugoslavia e la Grecia. C‘è una sorta di competizione italo-tede-sca in quell’area, ma Hitler non lascia a Mussolini semplicemente le bri-ciole: le truppe italiane occupano i due terzi della Grecia e occupano al-meno un terzo della Jugoslavia (annessione della Slovenia e di tutta la

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Dalmazia, controllo di vaste zone della Croazia, protettorato sul Monte-negro). C’è poi il tentativo di estendere l’area di influenza italiana dal-l’Albania verso il Kosovo. Inoltre l’Italia partecipa alla guerra di stermi-nio tedesca sul fronte russo. Prima ancora, c’è l’occupazione di alcunezone della Francia sudorientale (la zona sotto controllo italiano sarà este-sa dopo il novembre 1942). In tutti questi contesti territoriali gli italiani,non solo le camicie nere ma le forze armate regolari italiane, commetto-no gravi crimini di guerra, soprattutto nei Balcani. Non si tratta di crimi-ni di tipo genocidiario (commessi invece nei territori coloniali). Nel con-testo europeo l’esercito italiano non compie stermini di massa assimila-bili a quelli commessi dall’alleato germanico contro gli ebrei o contro isinti/rom; ma si macchia pur sempre di numerosi e gravi crimini diguerra, anche ai danni delle popolazioni civili. Nel tentativo di reprime-re i movimenti di resistenza che nascono rapidamente ovunque, dalMontenegro alla Slovenia alla Grecia continentale, l’esercito italiano in-fatti mette in atto misure di controguerriglia rivolte anche contro i civili,molto simili a quelle adottate dai tedeschi. Nel Montenegro ad esempio icomandi italiani impartiscono alle truppe direttive che arrivano a preve-dere l’uccisione per rappresaglia anche di cinquanta o cento montenegri-ni per ogni italiano ucciso. Raramente vengono applicate con questa ra-dicalità e mai in modo sistematico (come fanno invece i tedeschi in Ser-bia), ma si produce comunque un’escalation di violenza repressiva chemiete moltissime vittime. Durante le operazioni i civili delle zone infe-state dai partigiani sono considerati come fiancheggiatori dei “ribelli”, enon si esita a ricorrere a misure draconiane per fare “terra bruciata” in-torno alla resistenza. Vengono effettuati grandi rastrellamenti con depor-tazioni di decine di migliaia di persone: è stato calcolato che almeno 110mila fra sloveni, croati, bosniaci e montenegrini siano stati deportati da-gli italiani. Di questi, almeno 25 mila sloveni, pari all’8% dell’intera po-polazione della Provincia di Lubiana annessa al Regno d’Italia. E altret-tanti montenegrini. Si crea un sistema di campi di concentramento italia-ni presenti sia in Italia, come ad esempio a Gonars in Friuli o a Monigovicino a Treviso, sia nei territori occupati, come il famigerato campo si-tuato sull’isola di Arbe/Raab in Croazia, dove il tasso di mortalità rag-giunse il 20% (con 1.500 vittime su 8.000 internati). Ma furono allestiticampi di internamento anche in Grecia, come quello di Larissa, da cuivenivano prelevati gli ostaggi da fucilare per rappresaglia.

Vari fattori rendono difficile un calcolo preciso delle vittime fatte da-gli italiani. Ad esempio come considerare le decine di migliaia di greciche muoiono di fame ad Atene e in altre zone della Grecia nell’inverno

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del 1941 per la carestia, una carestia indotta in gran parte dalla politicadelle requisizioni di beni alimentari fatte dall’esercito italiano, ma anchedalle spoliazioni economiche perpetrate dai tedeschi e dai bulgari? Co-me considerare il gran numero di partigiani e di civili nei Balcani vittimedelle bande collaborazioniste al servizio degli italiani? I cetnici, i nazio-nalisti serbi che gli italiani utilizzano nella guerra contro i partigiani co-munisti di Tito, fanno migliaia di vittime, rendendosi protagonisti anchedi una pulizia etnica nei confronti di croati e musulmani. Queste vittimele consideriamo vittime dell’occupazione italiana oppure no? La storio-grafia ha fornito fino adesso stime attendibili solo sul caso sloveno, gra-zie agli studi condotti dall’Istituto per la storia contemporanea di Lubia-na, in particolare da Tone Ferenc, scomparso alcuni anni fa. La cosiddet-ta Provincia di Lubiana, ovvero la parte di Slovenia annessa dall’Italia(l’altra parte era stata annessa dal Terzo Reich) aveva una popolazionedi 334 mila abitanti. Sono state documentate 1.569 esecuzioni capitalicon o senza processo e 1.376 morti sloveni in campi di concentramentoitaliani, più un numero imprecisato (diverse centinaia) di partigiani slo-veni passati per le armi, molti di questi dopo essersi arresi (il trattamen-to veniva applicato anche alle donne partigiane). Questi numeri sonopiccoli in termini assoluti, ma se li commisuriamo all’entità della popola-zione otteniamo un tasso di violenza repressiva maggiore rispetto aquello esercitato dall’occupante tedesco nelle regioni italiane più colpitedalle stragi naziste come la Toscana o l’Emilia Romagna.

Ebbene, di questo lato oscuro della partecipazione italiana alla Secon-da guerra mondiale, di quella che un documentario ha chiamato La guer-ra sporca di Mussolini, cosa è passato nella memoria nazionale? Pratica-mente niente. Qual è invece l’immagine comune, più diffusa, della guer-ra? È senz’altro quella dei soldati italiani che partecipavano alla guerrasenza alcuna convinzione, dando ampia prova delle proprie qualitàumane, come ad esempio nel caso del salvataggio degli ebrei. Insomma,una “nazione di tanti Perlasca”. È proprio qui sta l’elemento specificodel caso italiano, ovvero l’Italia, come tutti gli altri Paesi europei, ha svi-luppato anch’essa un’immagine del “cattivo tedesco”, non diversa daquella che si può trovare in Polonia, in Francia o in Norvegia. Però af-fiancata al “cattivo tedesco”, anzi contrapposta a questa, ha sviluppatol’immagine del “bravo italiano”. Non si tratta di due raffigurazioni sepa-rate, sono due stereotipi intrecciati: il “bravo italiano” è stato creato pro-prio in contrapposizione al “cattivo tedesco”. È bene precisare subito chegli stereotipi hanno sempre una base di verità, non sono mera invenzio-ne. La differenza di comportamento fra i “camerati” dell’Asse fu reale.

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Gli italiani effettivamente in Croazia hanno salvato oltre due mila ebreirifiutandosi di consegnarli ai tedeschi, lo stesso hanno fatto in Francia ein Grecia. L’immagine del “cattivo tedesco” aveva dietro di sé la spaven-tosa mole degli atroci crimini commessi dal Terzo Reich. Io stesso vengoda una famiglia segnata da questa violenza: uno dei fratelli di mia nonnaè stato fucilato a Rodi dai tedeschi nel febbraio del 1945. Si chiamavaBruno Masini e a lui ho dedicato il mio volume del 2008 Criminali diguerra in libertà.

Quindi non dobbiamo ribaltare gli stereotipi, però dobbiamo capirecome nascono e che funzione hanno svolto. Qual è stato dunque il pro-cesso genetico della coppia di stereotipi del “cattivo tedesco” e del “bra-vo italiano”? Innanzitutto ci furono alla base esigenze politiche moltoforti. La prima esigenza è quella degli Alleati, prima della Gran Bretagnae poi anche degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Gli Alleati indivi-duarono fin dall’inizio nell’Italia l’anello debole dell’Asse. Ciò li portò asviluppare un enorme sforzo propagandistico mirato a far saltare il fron-te interno italiano, a staccare gli italiani da Mussolini. L’azione fu svoltaattraverso il lancio di milioni di volantini sulle città italiane e in manieraancor più efficace attraverso la propaganda via radio. Prima RadioLondra, cioè il servizio per l’Italia della Bbc, poi dal 1941 Radio Mosca eRadio Milano-Libertà, cioè le radio gestite da Mosca da Palmiro Togliatti edai comunisti, e La voce dell’America da New York “bombardarono” quo-tidianamente gli italiani con messaggi di questo tipo: smettete di com-battere, questa non è la vostra guerra, voi siete vittime della guerra, que-sta è la guerra di Mussolini e dei gerarchi che vi hanno messo a fiancodel vostro nemico tradizionale, il tedesco; fate attenzione perché il tede-sco è un combattente barbaro che sta sterminando senza pietà i popolieuropei, ma anche voi potreste diventare una delle sue vittime. Le radiodiffusero anche notizie inventate sul presunto tradimento tedesco aidanni dell’alleato italiano consumato sui campi di battaglia; in particola-re a El Alamein e sul Don dove si disse che i tedeschi erano scappati la-sciando gli italiani indietro, appiedati, a contrastare senza speranza il ne-mico. Non mancarono in effetti episodi sia in Africa sia sul Don in cui itedeschi lasciarono indietro gli italiani, ma la storiografia, anche italiana– mi riferisco ad esempio agli studi di Alessandro Massignani sulla cam-pagna di Russia –, ha dimostrato che ci sono state altrettante situazioniin cui furono gli italiani a prevaricare sull’alleato tedesco tentando il tut-to per tutto per mettersi in salvo, non esitando a menare le mani e anchea ricorrere alle armi. Questi atteggiamenti ci furono da ambedue le parti.Ma in generale i due alleati dell’Asse collaborarono in queste fasi criti-

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che, combattendo contro i partigiani russi e contro l’Armata Rossa perrompere l’accerchiamento e mettersi in salvo. Quello che ci interessa sot-tolineare è, ad ogni modo, l’estrema efficacia di persuasione che ebberole trasmissioni alleate, ascoltate in ogni angolo d’Italia, sebbene ciò fosseseveramente proibito. Fra l’altro, si trattava di trasmissioni preparate ingran parte dagli antifascisti italiani in esilio: tutte le trasmissioni di RadioMosca e Radio Milano-Libertà erano scritte o comunque supervisionate daTogliatti; a Radio Londra lavoravano moltissimi italiani come i fratelli Tre-ves, Elio e Renzo Nissim, Umberto Calosso, Ruggero Orlando, soprattut-to ebrei scappati dopo l’introduzione nel 1938 delle leggi razziali. NegliStati Uniti, a La Voce dell’America, collaborava ad esempio Roberto Lopez,uno storico del Medioevo. Quindi gli argomenti usati dalla propagandacorrispondevano sostanzialmente al tradizionale punto di vista dell’anti-fascismo: la vera Italia non era quella di Mussolini poiché il fascismo erauna dittatura che si era imposta con l’inganno, l’oppressione e la violen-za; la vera Italia era quella antifascista, ecc.. Però la propaganda alleataaveva una specifica finalità bellica. Basti pensare che contemporanea-mente la stessa propaganda inglese o americana nelle trasmissioni in lin-gua tedesca si rivolgeva ai tedeschi sottolineando la scarsa affidabilitàdell’alleato italiano. Era dunque antitedesca con gli italiani e antitalianacon i tedeschi. Quello che interessa a noi però è – ripeto – l’efficacia diquesta propaganda. Gli italiani nonostante i divieti ascoltavano ovunqueRadio Londra, perfino nelle sedi del dopolavoro del fascio. A Radio Londraveniva data molta più credibilità che non ai bollettini di guerra del regi-me. Quando gli Alleati sbarcarono in Sicilia trovarono scritto sui muri«Viva il colonnello Stevens». Il colonnello Stevens era l’ex-addetto mili-tare dell’ambasciata britannica a Roma, diventato uno degli speaker piùnoti di Radio Londra. Ovviamente i soldati alleati non potevano conoscer-lo non ascoltando le sue trasmissioni in italiano, ma i siciliani con quellascritta avevano voluto dare loro una sorta di benvenuto.

Questo per quanto riguarda gli Alleati. Ma furono gli italiani ad avereun ruolo decisivo nel costruire la coppia di stereotipi. Si verificò unaconvergenza fra monarchia, Badoglio, Ministero della Guerra e Ministe-ro degli Esteri da un lato e le forze antifasciste del Cln dall’altro lato.Inoltre, al processo di costruzione del “bravo italiano” e del “cattivo te-desco” partecipò anche l’Italia che oggi viene definita anti-antifascista:l’Uomo qualunque, l’Italia di Montanelli tenera verso il “buonuomoMussolini” cui si imputava quasi soltanto l’errore di aver stretto alleanzacon la forsennata e brutale Germania nazista, dopo aver gestito il poteretutto sommato in modo efficace, garantendo treni in orario e paludi bo-

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nificate. Ma cerchiamo di vedere con più attenzione. Dopo l’8 settembre,quando il re e Badoglio si rifugiano a Brindisi cercando di animare da lìla lotta contro i tedeschi, essi riprendono e rilanciano gli stessi slogan uti-lizzati dalla propaganda alleata, cercando di separare nettamente le re-sponsabilità del Paese e della monarchia da quelle del regime. Neganodunque che la guerra dell’Asse fosse stata davvero la guerra degli italia-ni (Badoglio la definisce una guerra “né voluta né sentita”), e rivendica-no come propria la guerra contro il tedesco cominciata dopo l’armistizio(e ufficializzata il 13 ottobre con la dichiarazione di guerra alla Germa-nia) stabilendo un nesso con le tradizioni del Risorgimento e della Gran-de Guerra. Lo scopo è innanzitutto quello di mobilitare il Paese nellanuova guerra a fianco degli Alleati contro il “comune nemico” tedesco,come veniva definito. Però ci sono anche esigenze di salvezza personale,perché Badoglio, il generale Roatta, Capo di Stato Maggiore dell’Esercitoche è scappato da Roma insieme a Badoglio, il generale Vittorio Ambro-sio, Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, scappato anche lui conBadoglio, sono nelle liste dei criminali di guerra. Badoglio finisce nelleliste dei criminali richiesti dall’Etiopia. Mentre Roatta è il principale cri-minale di guerra secondo gli jugoslavi, e anche Ambrosio è accusato da-gli jugoslavi. Scaricare ogni responsabilità su Mussolini e sui tedeschi ri-sulta così un comodo alibi per allontanare da sé il peso di qualsiasi re-sponsabilità. Per quanto riguarda l’antifascismo, va tenuto presente che ipartiti del Cln, dai liberali ai comunisti, dopo la svolta di Salerno delmarzo-aprile 1944, fanno parte dei governi di unità nazionale. Anche es-si sono chiamati a mobilitare gli italiani contro i fascisti e contro l’occu-pante tedesco, e a questo scopo non mancano di ricorrere ampiamenteagli stessi slogan: il popolo italiano è innocente, non voleva la guerra, noisiamo la vera Italia, combattiamo contro il “cattivo tedesco”, il nostro ne-mico atavico. Non è certo un caso che sia la parte monarchica sia quellaciellenistica definiscano la Resistenza come un “secondo Risorgimento”.

Ma non c’è solo l’esigenza della mobilitazione (e della salvaguardiapersonale nel caso degli apparati monarchici). C’è un altro fattore ancorpiù importante, un fattore fondamentale, fino ad adesso ampiamente tra-scurato dagli storici: mi riferisco alle esigenze dettate dalla politica esteracondivise anch’esse sia dal fronte monarchico sia da quello ciellenista.L’Italia aveva firmato un armistizio come nazione nemica sconfitta suben-do una resa incondizionata. Il Paese era dunque nelle mani degli anglo-americani. E anche il riconoscimento della cobelligeranza non aveva mo-dificato lo status internazionale del Paese. Va tenuto presente che acclusoalle clausole dell’armistizio c’era un documento diplomatico di grande

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valore, un telespresso inviato da Churchill e da Roosevelt nell’agosto1943 durante le trattative a Lisbona per la resa italiana. Il documento con-fermava il principio della resa incondizionata ma al contempo promette-va che gli Alleati avrebbero migliorato le condizioni armistiziali del Paeseproporzionalmente al futuro contributo dell’Italia alla lotta contro la Ger-mania nazista. Cioè in sostanza si diceva: voi siete una nazione nemicasconfitta, ma se combatterete contro i tedeschi, noi ne terremo conto al ta-volo della pace. Questo documento orientò tutta la politica estera italianafino alla firma del trattato di pace nel 1947 e produsse conseguenze digrande rilievo per quanto riguarda la raffigurazione del conflitto, dunquela memoria della guerra. Infatti, ci fu un enorme sforzo della nuova classedirigente, da Badoglio a tutti i partiti antifascisti al governo, per chiederel’adempimento delle promesse alleate onde evitare all’Italia una pace pu-nitiva. Si fece di tutto, ad esempio, per esaltare il contributo italiano nellalotta contro i tedeschi, da qui l’esaltazione della Resistenza come guerradi tutto il popolo italiano. Anche questa rivendicazione non era una merainvenzione. La Resistenza era una grande e cruenta lotta in corso. E la ri-vendicavano persone che avevano visto molti compagni assassinati daifascisti o dai nazisti, o avevano avuto propri familiari fra le vittime, comenel caso del leader socialista Pietro Nenni. L’enfatizzazione di questosforzo nazionale collettivo fu finalizzata non solo alla legittimazione deisingoli partiti (come finora sottolineato dalla storiografia) ma appuntoanche a soddisfare sacrosante esigenze di tutela della sorte della nazione.Ad esempio, è stato scoperto che anche la scelta del 25 aprile come festanazionale fu legata a questo tipo di considerazioni. L’Italia è uno dei po-chissimi Paesi in cui come festa nazionale non si celebra il giorno che rap-presenta la fine della guerra (in genere negli altri Paesi si è scelto l’8 o il 9maggio), ma il giorno della dichiarazione dell’insurrezione generale daparte del Clnai, il 25 aprile. E c’è una lettera del 1946 scritta dal comunistaGiorgio Amendola al premier De Gasperi, in cui Amendola (allora sotto-segretario alla Presidenza del Consiglio) consiglia la scelta del 25 aprilecome festa nazionale innanzitutto perché si deve rendere onore ai “marti-ri” della Resistenza, ma anche perché così facendo si può dimostrare agliinglesi e agli americani, cioè ai vincitori, quanto l’Italia ha fatto per la vit-toria contro la Germania, insomma si può valorizzare il contributo italia-no alla lotta antitedesca.

E c’è un altro aspetto fondamentale legato alle esigenze di politicaestera: non solo si enfatizzano la Resistenza e la cobelligeranza (sta qui lavera origine di una certa mitizzazione di Cefalonia), ma si fa anche tuttoil possibile per distinguere nettamente le responsabilità italiane da quelle

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tedesche negli anni della guerra dell’Asse (1941-1943), quando si è com-battuto insieme in Jugoslavia, in Grecia e in tanti altri fronti di guerra. Sitende ad addossare infatti ogni crimine sulle spalle dei tedeschi e a sotto-lineare i meriti umanitari dei soldati italiani. Ciò nasce da un’esigenzapolitica. Devo dire che anch’io, qualora avessi fatto parte di quella classedirigente, avrei fatto lo stesso. Bisogna considerare fra l’altro che sulleforze antifasciste, anche quelle della sinistra, aleggia una forte preoccu-pazione, quella che possiamo definire la “sindrome di Weimar”: si temeche se l’Italia alla fine della guerra fosse punita dagli Alleati come un ne-mico sconfitto da debellare, ciò potrebbe scatenare una revanche naziona-lista come era successo in Germania dopo la Prima guerra mondiale,quando la destra radicale tedesca riuscì a far passare l’idea che l’esercitogermanico in realtà non era stato sconfitto sul campo, ma erano stati i so-cialdemocratici e i pacifisti tedeschi a decretarne la sconfitta. La colpadella débâcle militare e della successiva punizione di Versailles era statadunque imputata alle forze democratiche e si era generato nel Paese unforte “vento di destra” che aveva gonfiato anche le bandiere del nascentemovimento nazionalsocialista. Questo è quanto afferma ad esempio inmaniera chiarissima Luigi Sturzo. Sulla spinta di queste esigenze, eccoche il Ministero degli Esteri italiano comincia a raccogliere documentiche dimostrano come gli italiani hanno salvato gli ebrei. Il primo passoin questo senso è rappresentato da un articolo che esce nell’autunno del1944 sotto lo pseudonimo di Verax (quindi “verace”, “vi dico la verità”)sotto cui si cela Roberto Ducci, altissimo funzionario del Ministero degliEsteri, responsabile con Luca Pietromarchi dell’Ufficio Croazia durantela Seconda guerra mondiale, quindi implicato nell’occupazione fascistadella Jugoslavia, che racconta sulle pagine di “Politica estera” come ladiplomazia e i comandi militari italiani abbiano salvato oltre duemilaebrei in Croazia. La diplomazia italiana raccoglie successivamente unvero e proprio dossier su quello che è stato fatto in difesa degli ebrei, cheviene inviato agli Alleati, soprattutto alle principali potenze occidentali,nel momento in cui nella primavera del 1946 si discute a Parigi il trattatodi pace italiano. E sul fatto che gli italiani abbiano salvato gli ebrei du-rante la guerra, così come sul fatto che il Paese sia stato contrario alleleggi razziali fasciste tutti si mostrano d’accordo, cattolici comunisti so-cialisti, anche la comunità ebraica che vuole rimarginare la ferita apertasicon le leggi del ‘38.

C’è un altro aspetto interessante: quello dei criminali di guerra. Primaho parlato dei crimini di guerra compiuti dagli italiani in Grecia e in Ju-goslavia. In base all’armistizio l’Italia è tenuta a consegnare i suoi crimi-

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nali di guerra, come la Germania, come il Giappone. Però essa non lo fa.I governi italiani di unità nazionale antifascista rivendicano il diritto diprocessare i criminali di guerra italiani in Italia, presso tribunali italiani.Questa è la posizione ufficiale. Anche se – va ricordato – c’è una piccolama sostanziale differenza fra la posizione delle sinistre e quella delle for-ze moderate. Nel periodo successivo alla liberazione di Roma (giugno1944), le sinistre provano effettivamente a portare in giudizio anche i ge-nerali, come Roatta, che si erano macchiati di crimini di guerra. Alcunidi questi vengono arrestati nell’ambito delle politiche di epurazione peressere processati per crimini fascisti. Roatta, che era a capo del Serviziosegreto militare implicato nell’omicidio dei fratelli Rosselli in Francia,viene arrestato su mandato dell’Alta Corte di Giustizia nel novembre1944; ebbene, socialisti e azionisti chiedono che egli venga processato an-che per i crimini compiuti in Jugoslavia come comandante della Secondaarmata, non solo per il delitto dei fratelli Rosselli. Questo però non vienemai fatto. Ancora sotto processo, Roatta riesce a scappare, è condannatoall’ergastolo in contumacia solo per i crimini commessi nel ventennio,ma poi la Cassazione pochi anni dopo annulla la sentenza. Alla fine iprocessi ai criminali di guerra italiani non vengono fatti. C’è un momen-to di svolta che vede anche le sinistre confluire su una posizione di dife-sa degli interessi nazionali, questo avviene dopo l’occupazione tempora-nea di Trieste e della Venezia Giulia da parte di Tito, nel maggio-giugnodel 1945. Non solo si manifesta così una minaccia gravissima sul territo-rio nazionale, ma cominciano ad arrivare le notizie delle violenze contro

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Filippo Focardi, Maria Laura Cornelli.

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gli italiani fatte dagli jugoslavi, insomma le foibe. A quel punto, per ri-flesso di difesa nazionale, anche azionisti e socialisti prendono risoluta-mente posizione contro qualsiasi ipotesi di estradizione dei criminali diguerra italiani sostenendo senza esitazioni la posizione ufficiale della di-plomazia che rivendica l’esclusiva giurisdizione italiana: i nostri (pre-sunti) criminali li processiamo noi, non li estradiamo. Il Partito comuni-sta assume una posizione ambigua: sulla stampa rivendica (sporadica-mente) la necessità di una dura punizione dei criminali di guerra, nelleistituzioni invece condivide in pieno la linea del governo. Il risultato èche nessun criminale di guerra italiano viene estradato. Solo un pugnodi connazionali, catturati in Jugoslavia o in Grecia dopo l’armistizio,vengono puniti per crimini di guerra contro i civili, qualcuno fa ancheuna brutta fine. Fra questi figurano fra l’altro alcuni ufficiali italiani dellaDivisione Garibaldi che dopo l’8 settembre erano passati a combattere afianco della resistenza jugoslava. Su queste esperienze è stato realizzatolo scorso anno un bel documentario televisivo da Eric Gobetti, andato inonda in tre puntate su Rai Storia. Il punto importante comunque è chenon vengono fatti processi per crimini di guerra (salvo un certo numerodi italiani processati in Italia dagli Alleati per violenze contro i prigionie-ri di guerra). Dunque, il mito del “bravo italiano” non viene toccato daeventuali processi che avrebbero dimostrato che anche gli italiani aveva-no compiuto gravi crimini di guerra.

E il colonialismo che c’entra con la Seconda guerra mondiale? C’entraeccome. Esiste, come abbiamo visto, la preoccupazione di non subire unapace punitiva, di non subire un trattamento analogo a quello dell’ex al-leata Germania. Ecco perché si distingue fra “cattivo tedesco” e “bravoitaliano”: il tedesco è stato “cattivo” e la Germania sarà duramente puni-ta per i suoi atroci crimini (addirittura si parlava di smembramento delPaese), noi no, noi italiani siamo stati “bravi”, quindi dovete tenerneconto, non ci potete trattare come la Germania. Ma in ballo c’è anche ilproblema del futuro delle colonie italiane. I governi italiani di unità anti-fascista affermano subito che sono disposti a rinunciare alle colonie fa-sciste come l’Etiopia e il Dodecaneso, ma rivendicano il mantenimentodelle colonie prefasciste: Eritrea, Somalia e Libia. Il democristiano DeGasperi, ma anche il socialista Nenni, reclamano le colonie prefasciste.Anche qui l’unica eccezione è rappresentata dal Partito comunista chenel settembre 1945 condanna il colonialismo e assume una posizionecontraria alle rivendicazioni italiane sulle colonie. Salvo poi cambiare at-teggiamento quando comincia la Conferenza di pace: nel momento deinegoziati italiani, all’inizio del 1946, si verifica un allineamento di tutti i

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partiti politici, anche dei comunisti, a difesa delle colonie italiane prefa-sciste. Ma quali argomenti sono usati per perorare i diritti italiani sullecolonie? Si ricorre proprio all’argomento del “bravo italiano”, ai meritidi un presunto colonialismo dal “volto umano”: noi – con il nostro lavo-ro – abbiamo portato la civiltà nelle colonie! Cioè si rivendica un po’quello che ha sostenuto nel 2009 il direttore Nistri del “Corriere Fiorenti-no”, e queste cose le afferma anche Nenni, che tra l’altro è Ministro degliEsteri in un breve periodo fra il 1946 e il 1947. Noi abbiamo costruito lestrade, abbiamo costruito i pozzi, abbiamo reso fertili queste terre: vo-gliamo le colonie prefasciste. È una fase breve ma importante, perché al-lora poteva invece essere messo in discussione tutto il colonialismo. Poil’Italia, come sapete, non ottiene nulla, ottiene solo l’amministrazione fi-duciaria della Somalia per dieci anni. Dal 1949-1950 anche le sinistre poi“ritrovano” se stesse, la propria cultura, perché quando c’era stata l’oc-cupazione dell’Etiopia l’antifascismo aveva criticato quell’operazione e icrimini commessi durante l’occupazione, e quindi socialisti e comunistitornano a parlare negativamente del colonialismo in generale, anche diquello italiano.

Il problema è capire come mai questi stereotipi, che hanno almeno inparte un fondamento di verità, sono così persistenti, così longevi. Unamia collega – Cecilia Winterhalter – ha parlato di “inerzia della memo-ria”: i mass media, dai giornali alle televisioni, tenderebbero a riprodurredeterminate immagini. Però c’è ben altro. Io qui avanzo solo alcune con-siderazioni. La prima questione è il ruolo delle istituzioni; la secondaquestione è come ci vedono gli altri, l’atteggiamento internazionale neinostri confronti.

Le istituzioni italiane hanno agito concordemente almeno fino allametà degli anni Novanta per tutelare l’immagine del “bravo italiano”,sia sul versante della memoria della Seconda guerra mondiale sia sulversante del colonialismo. Se ne possono fare tanti esempi. Riguardo alcolonialismo, è interessante ad esempio che il Ministero per l’Africa ita-liana venga soppresso definitivamente solo nel 1953. Non solo: nel 1952,prima che il Ministero scompaia, un decreto istituisce un Comitato per lostudio dell’opera svolta dagli italiani in Africa. Questo comitato, che poisi insedia presso il Ministero degli Esteri, produce quaranta volumi incui viene esaltata l’opera di civilizzazione italiana in Africa, senza nessu-na autocritica sui crimini. Di questo comitato fanno parte molti ex-fun-zionari dell’amministrazione coloniale, a tutti i livelli, che non sono statiepurati. Non solo non sono stati puniti i criminali di guerra, come Bado-glio e Graziani richiesti dall’Etiopia, ma non sono stati epurati nemmeno

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i funzionari, e per di più dagli anni Cinquanta sono loro che scrivono lastoria del colonialismo italiano. Si improvvisano storici insieme a storicicoloniali, come Carlo Giglio ed altri, esaltando l’opera svolta dagli italia-ni nelle colonie. Un altro esempio importante che mette insieme sia lamemoria della Seconda guerra mondiale sia quella del colonialismo èrappresentato dalla vicenda del documentario Fascist Legacy, prodottodalla Bbc inglese e mandato in onda nel 1989. Il documentario affrontavasia il tema dei crimini commessi dagli italiani in Etiopia e nei Balcani sia,nella seconda parte, la questione della mancata punizione dei criminalidi guerra italiani. Ebbene, cosa fa l’Italia quando viene mandato in ondaquesto documentario? Inoltra immediatamente una protesta diplomaticaufficiale a Londra. Poi il documentario viene comprato dalla Rai, Massi-mo Sani ne cura una versione in italiano, che viene messa in un cassettoperché forze politiche e apparati istituzionali hanno posto costantementeil veto alla proiezione. Vi sono poi i problemi di accesso agli archivi. Gliarchivi dell’ex-Ministero dell’Africa italiana e del Ministero delle Colo-nie sono stati appannaggio per anni di quel Comitato di cui si parlava,per cui storici indipendenti non potevano accedervi. Per molti anni an-che il fondo H-8 presso l’Archivio Storico dello Stato Maggiore dell’Eser-cito, che contiene la documentazione sulla complessa vicenda dei crimi-nali di guerra italiani, è stato escluso dalla consultazione perché ufficial-mente “in riordino”. Adesso pare che la situazione si sia sbloccata, marestano molti vincoli imposti agli studiosi. C’è stata una grossa polemicaperché io ho denunciato la cosa sul “Corriere della Sera” nel 2009. Il fon-do H-8 risultava “in riordino” dal 2005. E perché proprio da quell’anno?Perché nel 2005 è uscito un libro di Costantino Di Sante, l’autore dellamostra sul colonialismo in Libia di cui vi parlavo prima, sull’occupazio-ne italiana della Jugoslavia intitolato Italiani senza onore basato sul fondoH-8. Fino ad allora il contenuto del fondo era pressoché sconosciuto aglistessi archivisti dell’Asmae*, e Di Sante aveva potuto consultarlo nel2003-2004. Guarda caso, una volta uscito il volume di Di Sante, il fondo èentrato nella lunghissima fase di “riordino”! Tutto questo, come dicevo,fino a metà degli anni Novanta, perché poi qualche segnale di cambia-mento c’è stato. La cosa più importante è stata l’ammissione dell’utilizzodegli agenti chimici nella guerra d’Etiopia fatta nel 1996 dal Ministerodella Difesa per conto anche del Ministero degli Esteri, sotto il governoDini. Questa dichiarazione arrivava dopo una lunghissima polemica fraAngelo Del Boca e Indro Montanelli, il quale si ostinava a negare l’utiliz-

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* Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri.

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zo italiano dei gas rivendicando il suo ruolo di testimone oculare. DelBoca allora aveva proposto di dirimere la questione rivolgendosi diretta-mente al Ministero della Difesa e Montanelli aveva appoggiato tale ini-ziativa, con gli esiti richiamati. Un altro segnale di apertura è arrivatosul problema delicato del confine orientale. La Jugoslavia è stato il prin-cipale accusatore dell’Italia per quanto riguarda i crimini di guerra,c’erano 750 criminali di guerra italiani iscritti nelle liste delle NazioniUnite su denuncia jugoslava o richiesti direttamente a Roma da Belgradoper via diplomatica. Però vi era stata anche la questione delle foibe, deicrimini commessi dagli jugoslavi. In Italia abbiamo avuto l’istituzionedel Giorno del ricordo nel 2004, per commemorare le vittime delle foibee ricordare gli italiani espulsi dall’Istria e dalla Dalmazia. All’inizio que-sta memoria, per anni coltivata dalla destra neofascista, è stata utilizzatain chiave nazionalistica: gli italiani ritratti solo come vittime, senza alcunriferimento né alla politica di snazionalizzazione intrapresa dal fascismocontro le minoranze slave prima della guerra né ai crimini commessi daparte nostra durante l’occupazione. Anche il primo intervento di Napoli-tano, nel febbraio 2007, ha destato perplessità per i suoi toni nazionalisti-ci recisi. Per di più il Presidente ha nell’occasione conferito una medagliad’oro alla memoria a un ufficiale italiano che faceva parte di un tribunalemilitare italiano a Sebenico, Vincenzo Serrentino, poi fucilato dagli jugo-slavi, considerato criminale di guerra dagli stessi italiani. Tutto ciò nonha mancato di provocare una crisi politico-diplomatica con la Croazia ela Slovenia. Successivamente, però, Napolitano ha corretto il tiro, ha co-minciato a dire: certo, ricordiamo le foibe, ma ricordiamo anche quelloche abbiamo fatto noi contro gli sloveni e i croati. C’è stata la grande oc-casione del concerto a Trieste nel luglio 2010 di Riccardo Muti con un’or-chestra di sloveni, italiani e croati, preceduto la mattina dalla visita diStato congiunta di Napolitano e dei Presidenti croato e sloveno prima aquello che resta della Casa del Popolo slovena, il Narodni Dom, data allefiamme nel 1920 dai nazionalisti italiani, e poi a un altro monumento chericorda invece l’espulsione degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia.Quindi si può vedere un’evoluzione nell’atteggiamento del Quirinalevolta a trasformare la memoria delle foibe da memoria nazionale riven-dicativa a memoria europea riconciliata. Resta però ancora molto da fa-re. Manca ancora ad esempio un gesto simbolico forte come quello com-piuto (più volte, ormai) dai Presidenti tedeschi − anche quest’annol’omaggio di Gauck a Sant’Anna di Stazzema. Ciampi, alla fine del suomandato nel 2006, avrebbe voluto realizzarlo, ma è stato bloccato dall’al-lora Ministro degli Esteri italiano, Gianfranco Fini.

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L’altro elemento fondamentale è rappresentato dall’atteggiamentoesterno nei nostri confronti: come gli altri ci vedono. Non c’è dubbio chei tedeschi – dopo un avvio invero molto reticente – abbiano saputo svol-gere dagli anni Sessanta in avanti un doloroso esame di coscienza con icrimini del nazionalsocialismo, con le pagine nere della loro storia delNovecento, fino a sviluppare oggi una attenta memoria autocritica. Suquesta strada – va osservato – la Germania è stata costantemente spintada una forte pressione esterna, dall’attenzione costante dell’opinionepubblica internazionale preoccupata di qualsiasi segnale di rivitalizza-zione di un passato segnato da orrori. Non poteva essere diversamente,è stato giusto così, da Norimberga in poi. Per cui se in un cimitero ebrai-co tedesco compare una svastica, si accendono immediatamente i riflet-tori di tutte le televisioni del mondo. Se accade la stessa cosa in Italia, edè successo, nessuno si preoccupa, o comunque le reazioni sono moltomeno energiche. Questo dato è importante. Gli italiani infatti sono statifondamentalmente assecondati nella loro autoraffigurazione di “braviitaliani”. Prendiamo un film come Il mandolino del capitano Corelli, grandeproduzione hollywoodiana, grandi attori, Nicolas Cage e Penelope Cruz:il capitano Corelli, ufficiale italiano a Cefalonia, prima della strage, suo-na il mandolino e fa la corte con successo a una ragazza greca. Gli italia-ni insomma sono quelli che cantano e pensano all’amore. Poi arrivanosulla scena i barbari tedeschi e gli italiani diventano vittime. Badate be-ne, l’immagine del cosiddetto “bravo italiano” che hanno nel mondo an-glosassone o anche in Francia non è esattamente uguale alla nostra: nonmanca un atteggiamento vagamente denigratorio, che cela a fatica unsenso di superiorità, quasi a dire: “siete un popolo amante della bella vi-ta, ma poco serio; suonate pure i mandolini che vi viene bene, ma lascia-te perdere la guerra”. Gli jugoslavi e i serbi parlano di quella italiana co-me di una “occupazione allegra”, comparata a quella tedesca, ma anchefacendo riferimento alla scarsa capacità italiana di fare la guerra. Dietroquesto genere di stereotipi, legati alla Seconda guerra mondiale, trapela-no radici più lontane, che risalgono probabilmente all’età moderna.Qualche segnale di cambiamento però anche qui c’è stato, a mio avviso,piccoli segnali ma significativi, legati al cambiamento politico italiano.Va detto chiaramente: dal momento in cui, all’inizio degli anni Duemila,si sono costituiti in Italia governi di centrodestra con il coinvolgimentodi esponenti provenienti dalla destra radicale, abbiamo cominciato a ve-dere sui giornali inglesi, americani, tedeschi, francesi inchieste dedicateal rischio di un ritorno del fascismo in Italia, con accenti allarmati circala mancata resa dei conti del Paese con il suo passato fascista. Io stesso

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sono stato coinvolto in inchieste di questo genere della Bbc, del “Guar-dian”, di giornali olandesi e tedeschi. Uno dei libri che ha avuto più suc-cesso in Germania nella saggistica è stato recentemente il volume di unostorico svizzero, Aram Mattioli, intitolato Viva Mussolini! La guerra dellamemoria nell’Italia di Berlusconi, Bossi e Fini, che conteneva una dura de-nuncia della situazione italiana. Quindi qualche segnale di cambiamentonel modo in cui gli altri ci vedono è sicuramente emerso, ma solo qual-che segnale, perché poi credo che ancora prevalga invece la raffigurazio-ne edulcorata e un po’ macchiettistica stile Il mandolino del capitanoCorelli. Altra questione interessante: il monumento dedicato al marescial-lo Graziani. Il mausoleo a Graziani costruito nel 2012 ad Affile, nel La-zio, con i soldi pubblici della Regione (governata allora dal centrodestra)è stata una cosa scandalosa. Graziani è uno dei principali, forse il princi-pale − se la gioca con Roatta − criminale di guerra italiano, consideratotale in tutto il mondo, e in Italia gli si dedica un mausoleo su cui spicca-no le parole “onore e patria”. Ci sono state reazioni italiane, sì, ma nontantissime, e inizialmente soprattutto più a livello locale, sulla stamparegionale. Poi però l’allarme principale è venuto dall’esterno. Anche quigiornali americani, giornali inglesi, “El País” in Spagna hanno lanciatoun allarme: ma che succede in Italia? A quel punto si è mossa anche lagrande stampa italiana: il “Corriere della Sera”, ad esempio, ha pubbli-cato un articolo, una pagina intera di Gian Antonio Stella, quindi unapenna molto nota, contro il “mausoleo della vergogna”.

La scorsa settimana a Perugia ho presentato il mio libro su “il cattivotedesco e il bravo italiano” e gli organizzatori mi hanno detto: ma in-somma, ormai è una partita persa quella di provare a cambiare questaimmagine del “bravo italiano”, perché bene o male tutti ci riconosciamoin questo autoritratto, e pure all’estero esso è prevalente. Ma perché cidobbiamo ostinare adesso a demolirlo? A mio avviso, ci sono tanti moti-vi per farlo. C’è un motivo etico: noi parliamo molto di memoria, la le-ghiamo all’identità, ed è una cosa pericolosa perché si creano spesso me-morie contrapposte, esclusive e non inclusive. Però – come afferma Pao-lo Jedlowski, uno dei principali studiosi della memoria – esiste ancheuna dimensione della memoria legata alla giustizia. Memoria e giustizia,e il perno di tutto è il principio della responsabilità: fare memoria riu-scendo a rendere conto, respondere alla latina, di quello che hai fatto. Ilmassimo valore etico è espresso non nella rivendicazione della memoriadelle vittime della tua parte, degli italiani uccisi nelle stragi tedesche onelle foibe – cosa comunque importante e sacrosanta per i familiari, neso qualcosa anch’io –, ma quando si riesce a fare memoria dei crimini

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commessi dalla nostra parte. È importante fare i conti con le proprie col-pe. In questa capacità di fare autocritica c’è un valore morale. È impor-tante dunque uscire da una dimensione vittimistica, autocelebrativa, na-zionalistica della memoria, per aprirsi a una memoria che abbia una ca-pacità inclusiva, adatta ad una società europea, ad una società fra l’altrosempre più multietnica.

C’è una dimensione del discorso anche a livello europeo, perchél’Unione Europea vive un momento difficilissimo, in cui risorgono po-pulismi che propagandano invece le memorie esclusiviste, identitarie,nazionali e contrapposte. Quindi anche per fare sbarramento a questooccorre rendere conto, avere la capacità, la forza di ammettere le propriecolpe, di riconciliarsi e andare avanti insieme. Ma c’è anche un’altra di-mensione, forse meno evidente, legata alle politiche della memoriadell’Unione Europea. Badate bene che l’Unione Europea, che ha tantissi-mi problemi, però dal punto di vista della memoria si sta muovendo, staprovando a creare un modello europeo della memoria. Questo modelloha due poli di riferimento. Uno è la Shoah, lo sterminio degli ebrei, cheva benissimo, ma nella misura in cui siamo capaci di riconoscere il no-stro coinvolgimento, non se attribuiamo ogni responsabilità esclusiva-mente ai tedeschi e ad Auschwitz; perché la Shoah non è solo Au-schwitz, perché prima di arrivare ad Auschwitz gli ebrei sono passati daFossoli, e la metà dei deportati ad Auschwitz sono stati catturati dallapolizia italiana e da questa consegnati ai tedeschi. Quindi la Shoah vabenissimo se però non è solo Perlasca, perché accanto ai Perlasca, chehanno salvato gli ebrei e che è giusto ricordare, ci sono gli altri, moltisconosciuti, che invece hanno denunciato gli ebrei. L’altro pilastro delmodello europeo è l’antitotalitarismo: soprattutto da quando l’Unione siè allargata ai Paesi dell’Europa centrale e orientale (nel 2004 e nel 2007),che hanno vissuto per tanti anni sotto regimi comunisti, vi è stata unaforte spinta ad adottare questo modello antitotalitario che tende a mette-re sullo stesso piano i crimini del nazismo e i crimini del comunismo. IPaesi baltici, i polacchi, gli ungheresi e gli altri premono molto in questadirezione, dicono: noi allora abbiamo subito l’occupazione nazista, tanticrimini bestiali, però abbiamo avuto poi molti più anni di regime comu-nista, e adesso ci sentiamo addosso questo retaggio e rivendichiamo unamemoria nazionale incentrata sul ricordo del periodo comunista vissutocome una lunga fase di oppressione. Ci sono però alcuni pericolosi “ef-fetti collaterali”: in alcuni di questi Paesi l’esaltazione della lotta antico-munista ha fatto sì che fossero trasformati in eroi nazionali i collabora-zionisti di allora, coloro che avevano appoggiato il nazismo, ad esempio

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il maresciallo Antonescu in Romania, o i giovani lettoni e lituani che ave-vano combattuto nelle Waffen-SS contro l’Armata Rossa. Ma c’è un pro-blema anche italiano, che non è ancora così avvertito ma cui secondo medobbiamo fare attenzione, esso è legato proprio alla valutazione generaledel fascismo. Se il modello di riferimento in Europa è quello antitotalita-rio e se nel totalitarismo vengono fatti rientrare solo il nazismo e il co-munismo, si dà un’ulteriore spinta all’azione di edulcorazione del fasci-smo quale presunta dittatura all’acqua di rose, completamente diversadal nazismo. Questo è un discorso anche storiografico, perché sapete cheRenzo De Felice ha sostenuto appunto che il fascismo non è stato un to-talitarismo. E questo punto di vista ha avuto largo seguito. Recentemen-te Emilio Gentile, un suo allievo, insiste invece sul fatto che anche il fa-scismo va annoverato fra i totalitarismi. Secondo Gentile, infatti, non esi-ste un totalitarismo perfetto, sono tutti “laboratori totalitari”, sono tuttiesperimenti, la Germania nazista, come l’Unione sovietica staliniana, co-me il fascismo italiano. Questa dimensione europea della memoria in re-altà riguarda anche noi italiani, perché se si procede su questa strada vi èil rischio di un’ulteriore spinta a ridimensionare le nostre responsabilità,a ridimensionare quello che è stato il fascismo. Con grande fatica, dopomolti anni di lavoro stiamo facendo uscire nei prossimi giorni un volu-me intitolato L’Europa e le sue memorie. Politiche e culture del ricordo dopo il1989, un volume collettaneo, con l’Editrice Viella, che ho curato con ilcollega Bruno Groppo, in cui si affrontano questi problemi, trattando al-cuni casi nazionali, fra cui quello italiano, però in questa dimensione eu-ropea.

Altro fattore molto importante è sicuramente la scuola. Sebbene conritardo, ormai negli ultimi venti anni varie leve di storici, in Italia e al-l’estero, hanno sgretolato il mito del “bravo italiano”, già posto sotto ac-cusa negli anni Settanta dai vari Rochat, Sala, Collotti e Del Boca. Quindigli storici il loro lavoro l’hanno in gran parte svolto e lo stanno svolgen-do. Ora il passaggio da realizzare è quello di parlare innanzitutto allascuola, cioè il passaggio dal libro, come può essere il mio, ai manualiscolastici. Qualcosa è stato recepito, sia riguardo ai crimini coloniali siariguardo ai crimini commessi in Europa. Ma resta ancora moltissimo dafare per diffondere attraverso la scuola una consapevolezza critica suquesti temi. Poi ci sono, certo, i grandi vettori di memoria che sono imass media e le istituzioni, e in Italia c’è un rapporto strettissimo fra lapolitica, le istituzioni e i mass media, forse più forte che in altri Paesi.Questo è un terreno fondamentale e non si può che sperare che quei ti-midi segnali intravisti, ad esempio al Quirinale, negli ultimi anni rappre-

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sentino l’inizio di una diversa e più generale sensibilità, destinata a svi-lupparsi piuttosto che a rattrappirsi.

Il professor Focardi risponde alle domande del pubblico

Perché l’immagine del “buon italiano” è diffusa anche nei Paesi che hanno subi-to l’occupazione italiana durante la Seconda guerra mondiale, come la Grecia ela Jugoslavia? Quale ruolo hanno gli storici dei Paesi che hanno subito le nostreoppressioni?

Dobbiamo stare attenti perché non da tutte le parti si dice «italiani egreci, una faccia una razza»; se voi andate nelle zone continentali dellaGrecia, tipo in Tessaglia, che sono le zone dove ci sono state le operazio-ni antiguerriglia italiane più dure, trovate anche molte memorie negati-ve, segnate dal ricordo della violenza. In generale, è vero che esiste unamemoria tutto sommato positiva dell’occupazione italiana, dettata dalparagone con l’occupante tedesco e anche dalle vicende dell’8 settembre.Tuttavia, come mi ha raccontato la presidente dell’Associazione naziona-le Divisione Acqui, se vi capita di passare per la Grecia il giorno della fe-sta nazionale, che guarda caso è il 28 ottobre cioè il giorno in cui Musso-lini lanciò l’attacco nel 1940 per “spezzare le reni” del vicino ellenico, èdifficile che riscontrerete atteggiamenti tanto benevoli verso gli italiani.Lo stesso vale per altri Paesi. Ad esempio un mio collega, Serge Noiret,un belga che lavora a Firenze all’Istituto universitario europeo, qualcheanno fa è andato in Montenegro e ha fatto finta di essere italiano, parlan-do italiano, e se l’è vista male in certe situazioni, allora a quel punto tira-va fuori il francese. C’è una memoria positiva degli italiani in Serbia?Certo, perché gli italiani durante la guerra hanno salvato circa 35 milaserbi dagli ustascia croati. Ma se andate in Slovenia non trovate un’im-magine positiva degli italiani, in Slovenia gli italiani non hanno salvatonessun ebreo, hanno solo fatto quello che abbiamo detto prima.

Mi ha colpito molto ad esempio un fatto: nel 2008 è stato realizzato undocumentario che si intitola La guerra sporca di Mussolini, incentrato sullavicenda della strage fatta dagli italiani in Grecia, nel febbraio ‘45, a Dome-nikon, un paesino dove per ritorsione 145 maschi dai 14 agli 80 anni sonostati fucilati. Nel documentario il ruolo del narratore è svolto dal nipote diuna delle vittime, un professore di matematica in un liceo greco, si chiamaStathis Psomiadis; egli ha perso il nonno e altri familiari nell’eccidio. Il do-cumentario è frutto di una collaborazione fra History Channel, una retegreca e Mediaset. Abbiamo presentato questo documentario a Roma nel

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2008 insieme a Stathis Psomiadis. Lui nel documentario figura sempre ac-canto alla madre, ma la madre a Roma non c’era. Allora gli ho chiesto per-ché non fosse venuta e lui mi ha risposto: «Sai, lei non se la sente di venirenel Paese degli italiani». Successivamente ho messo in contatto con Pso-miadis la Fondazione Scuola di Pace di Monte Sole, che sorge vicino a Mar-zabotto. E nel 2010 lui è stato invitato a Marzabotto in occasione delle com-memorazioni della strage nazista. Io non c’ero al mattino, quando Psomia-dis è salito sul palco insieme al sindaco. Nel pomeriggio invece anch’io hopartecipato all’incontro organizzato dalla Fondazione a Monte Sole. Lui eraaccompagnato dalla figlia diciottenne, che parla un po’ italiano, si chiamaVenezia. Io, come già avevo fatto a Roma, ho chiesto a Stathis di sua mam-ma, volevo sapere anche come stava, e la sua risposta è stata nuovamente:«Non se la sente di venire in Italia, non ce la fa». Sono cose che colpiscono.È stato un incontro molto bello perché erano presenti anche quattro o cin-que sopravvissuti italiani alla strage di Marzabotto, ormai molto anziani. Inuna sala pienissima Psomiadis leggeva in greco il testo di un poeta del suoPaese che raccontava la strage di Domenikon. Accanto una persona tradu-ceva. E via via vedevo i sopravvissuti italiani che iniziavano a piangere,perché si riconoscevano pienamente nell’esperienza, nelle sensazioni pro-vate dai greci che avevano subito la fucilazione italiana. Stathis Psomiadissta facendo di tutto per avere giustizia, lui vuole giustizia da un tribunale.Vuole portare alla sbarra i responsabili della strage di Domenikon. Ormai,secondo me, il binario giudiziario molto probabilmente è impraticabile, permotivi anagrafici. Però Stathis ha contattato Marco De Paolis, il procuratoremilitare che ha svolto in Italia tutti i grandi processi contro i criminali diguerra nazisti. E credo che De Paolis si sia mostrato disponibile a verificarela percorribilità della strada giudiziaria. Non è escluso che qualcuno dei re-sponsabili sia ancora in vita. Da poco sono stati trovati in archivio docu-menti del governo greco risalenti ai primi anni Cinquanta in cui si fa men-zione a criminali di guerra italiani, comprendenti non solo ufficiali ma an-che ranghi bassi, soldati semplici e carabinieri. E qualcuno di questi potreb-be essere ancora in vita, ma ripeto quella giudiziaria secondo me è una viaormai difficilissima, comunque gli indiziati sarebbero novantenni. Dieci,quindici anni fa sarebbe stato diverso. Ma la questione dei crimini italianiera al tempo ancora quasi sconosciuta.

È importante certo che gli storici di questi Paesi – dalla Slovenia allaGrecia al Montenegro, per non dire dell’Etiopia o della Libia – si occupi-no dell’occupazione italiana e dei suoi misfatti. Ci sono già degli esempi.Alcuni però, ad esempio degli storici greci, si sono lamentati perché han-no trovato le porte degli archivi italiani chiuse. Il riferimento è al già ri-

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cordato fondo H-8 presso l’Aussme*. C’è il caso interessante di un giova-ne storico greco, che voleva vedere quel fondo ma gli è stato detto di no.Mi risulta che lo studioso greco abbia indirizzato una lettera di protestaal “Corriere della Sera”, dove però non è stata pubblicata.

Come è stata gestita l’epurazione nel secondo dopoguerra?L’epurazione ha avuto un ruolo importante, perché non c’è solo la

mancata Norimberga, cioè il mancato processo ai criminali di guerra, aimilitari italiani o ai fascisti che hanno commesso crimini dal 1941 al ‘43;c’è anche il problema dell’epurazione dei ranghi dell’amministrazionefascista in generale. Su questo aspetto l’amnistia Togliatti ha pesato pa-recchio, e pesa tutt’oggi. In che termini? Sapete che nell’ “armadio dellavergogna”, cioè nei fascicoli d’inchiesta sulle stragi naziste insabbiate nel1960, sono presenti all’incirca cinquecento nomi di tedeschi criminali diguerra e trecento nomi di italiani, collaborazionisti fascisti criminali diguerra? Ebbene, questi italiani non si possono processare in alcun modo,anche se sono responsabili dei peggiori delitti, e non si possono proces-sare perché lo vieta l’amnistia Togliatti. Ho fatto una domanda esplicitain questo senso al procuratore De Paolis, il quale mi ha riposto che nonsi può fare assolutamente niente. E la cosa è strana perché invece que-st’anno un tribunale di Barcellona ha iniziato un procedimento contro gliaviatori italiani fascisti che dalle Baleari nel 1937-’38 bombardarono Bar-cellona e tutta la Catalogna, facendo migliaia di vittime civili. Quindinon c’è stata solo Guernica in Spagna. Anche noi italiani abbiamo bom-bardato i civili. Però mentre i tedeschi hanno chiesto scusa per Guernica,noi italiani non abbiamo fatto altrettanto; e per lo più non conosciamonemmeno i fatti di Barcellona. È curioso perché anche in Spagna c’è unalegge di amnistia per cui gli spagnoli non possono processare i loro cri-minali di guerra franchisti. Garzón ci ha provato e ha fatto una brutta fi-ne. Però adesso provano a processare gli italiani, ormai fuori tempo mas-simo. Quindi l’epurazione pesa molto ed è un discorso che vale non soloper l’Italia, vale anche per altri Paesi.

Le strade e le varie opere nelle colonie non sono forse state costruite a favore de-gli italiani e non dei popoli conquistati?

Mi ha colpito recentemente leggere un commento di Sergio Romano,nella sua rubrica sul “Corriere della Sera”. Sergio Romano è sempre statomolto critico ad esempio nei confronti di Del Boca, usando un argomento

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* Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito.

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che va per la maggiore: noi abbiamo commesso crimini di guerra, ma tut-ti li hanno commessi – questo è l’argomento classico –, anzi forse ne ab-biamo fatti meno dei francesi o di altri. Però c’è una differenza fondamen-tale: i francesi per l’Algeria, gli americani per il Vietnam, gli inglesi perun sacco di cose, dall’India al Kenya, si sono confrontati, l’opinione pub-blica discute su queste cose. Il “Times”, il giornale conservatore inglese,un paio di anni fa ha scoperto dei documenti in archivio su eccidi com-messi in Kenya nel momento della decolonizzazione e ha aperto un di-battito. Noi siamo gli unici che non parliamo dei nostri crimini. Magarine abbiamo fatti anche di meno gravi rispetto ad altri Stati, però non neparliamo e ci raffiguriamo esclusivamente nelle vesti di “bravi italiani”.Questo è il punto. Dicevo di Sergio Romano: mi ha colpito un ragiona-mento che non mi aspettavo da lui. Un lettore gli ha mandato una letterache diceva: ora tutti parlano delle responsabilità italiane, dei crimini ecce-tera, ma in realtà il nostro colonialismo non era così male. Sergio Romanorisponde: no, noi siamo stati peggio degli altri perché gli altri Paesi, ifrancesi, gli inglesi, alla fine hanno creato delle classi dirigenti locali, in-vece gli italiani no. Mussolini diceva: «nessun governo a mezzadria»,quindi controllo diretto, dominio diretto, segregazione, perché poi inEtiopia il sistema era come l’apartheid. Siamo andati via dalle colonie per-ché sconfitti nella Seconda guerra mondiale, non abbiamo vissuto la fasedi decolonizzazione, abbiamo perso le colonie perché abbiamo perso laguerra, e però lì non abbiamo lasciato niente, tabula rasa. Sono d’accordo:le strade sono rimaste ma erano state fatte per essere usate a vantaggiodegli italiani, esattamente come era per gli altri colonialismi. Però rispettoagli inglesi e ai francesi non abbiamo lasciato i germi di una futura classedirigente, e infatti le ex-colonie italiane, invero già erano molto povere,sono tuttora fra i Paesi più disgraziati, dalla Somalia all’Eritrea alla Libia.

Come ha contribuito la letteratura dei reduci dalla Russia all’immagine del“buon italiano”?

L’ho detto sin dall’inizio: c’è una base di verità negli stereotipi. SergioDini, ex procuratore militare di Padova, ha fatto un’indagine sulle sentenzedei tribunali militari, da cui risulterebbe che in Russia ci sono stati pochissi-mi casi di diserzione, e invece molti italiani trovavano ospitalità dalle don-ne russe e ucraine, a differenza di quello che capitava in Jugoslavia. Secon-do lui questo dimostrerebbe appunto che i rapporti con la popolazione era-no migliori in Russia. Ho posto la questione a Nicola Labanca che da stori-co militare ha fatto questa obiezione: attenzione, bisogna vedere come fun-zionavano i bordelli, magari in Russia questi non funzionavano e i soldati

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erano più propensi ad intrattenere rapporti con l’esterno. Sicuramente cisono testimonianze che descrivono rapporti piuttosto buoni con la popola-zione, tuttavia recentemente lo storico tedesco Thomas Schlemmer ha pub-blicato un libro con Laterza, Invasori, non vittime. La campagna italiana inRussia 1941-1943, in cui fa vedere anche quello che hanno fatto gli italiani,cioè il forte coinvolgimento ideologico nella campagna anti-bolscevica; lacollaborazione con i tedeschi anche nella persecuzione degli ebrei; il coin-volgimento nelle azioni contro la guerriglia partigiana russa con applica-zione di misure draconiane. Quindi anche per quanto riguarda la campa-gna di Russia c’è un lato che fino adesso non abbiamo affrontato: l’esercitoitaliano ha fatto quello che fa un esercito occupante, aggressore.

Prima stavo parlando di cosa si può fare, e ho parlato della scuola. Ri-cordo di aver letto un articolo di Antonio Cassese che commentava pro-prio la scoperta da parte di Matteo Dominioni della famosa strage, quel-la a nord di Addis Abeba, a Zeret. Era uscito su “la Repubblica” per l’oc-casione un articolo di Del Boca e sotto a questo un articolo di AntonioCassese, grande esperto di diritto internazionale, che tra le varie cose au-spicava la realizzazione di un museo dedicato al colonialismo.

C’è un altro aspetto importante poi di cui ancora non ho parlato: lamemoria pubblica nazionale negli ultimi dieci anni è stata in gran partelegata all’istituzione da parte del Parlamento di giornate commemorati-ve. Abbiamo ormai un calendario civile completamente modificato. Cisono state almeno cinquantotto proposte di legge per istituire giornatedella memoria diverse. Molte non sono approdate a niente, ma alcunehanno avuto successo e infatti il panorama della nostra memoria pubbli-ca appare modificato. Abbiamo la giornata per la Shoah, la giornata dellefoibe, la giornata delle vittime di tutte le stragi mafiose e terroristiche ecosì via. Nel 2006 i Comunisti italiani fecero due proposte per introdurredue giornate della memoria. Una doveva essere dedicata alle vittimeafricane del fascismo, e come giorno commemorativo era stato scelto il19 febbraio, in ricordo dell’attentato a Graziani nel 1937 ad Addis Abebae delle rappresaglie scatenate contro gli etiopi con migliaia di morti. L’al-tra doveva essere una giornata in memoria delle vittime del fascismo, esi era proposto il 10 giugno, prendendo la data del rapimento e uccisionedi Giacomo Matteotti. Le due proposte di legge ovviamente sono naufra-gate con la scomparsa politica nelle elezioni del 2008 delle forze che leavevano avanzate. È vero che forse c’è un’inflazione di questi giorni del-la memoria, e che si possono sollevare dubbi sul loro funzionamento,tuttavia secondo me sarebbe positivo per la coscienza storica del Paesese ci fosse una giornata in cui si ricordano le vittime del fascismo.

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Filippo Focardi è attualmente ricercatore di Storia contemporanea pres-so il dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e Studi internazionalidell’Università di Padova. Ha partecipato a numerosi progetti di ricercain Italia e all’estero, collabora con l’Istituto storico germanico di Roma,presso il quale si è perfezionato, sviluppando temi di ricerca con lo stori-co tedesco Lutz Klinkhammer. Si occupa principalmente di memoria delfascismo, di Seconda guerra mondiale, di Resistenza in Italia, della que-stione della punizione dei criminali di guerra tedeschi e italiani, dei rap-porti tra Italia e Germania dall’Ottocento a oggi.

Su questi temi ha pubblicato: La guerra della memoria. La Resistenza neldibattito politico italiano dal 1945 a oggi (Laterza, 2005), Criminali di guerrain libertà. Un accordo segreto tra Italia e Germania federale, 1949-55 (Carocci,2008) e Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della se-conda guerra mondiale (Laterza, 2013), che ha vinto nel 2014 il Premio in-ternazionale Baron Velge conferito dalla Université Libre de Bruxelles.Ha curato, con Bruno Groppo, L’Europa e le sue memorie. Politiche e culturedel ricordo dopo il 1989 (Viella, 2013).

Suggerimenti per l’approfondimentoFILIPPO FOCARDI, Criminali di guerra in libertà, Roma, Carocci, 2008.FILIPPO FOCARDI, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, Roma-Bari, Laterza, 2013.FILIPPO FOCARDI, BRUNO GROPPO (a cura di), L’Europa e le sue memorie.

Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, Roma, Viella, 2013.PAOLO JEDLOWSKI, Memoria, esperienza e modernità. Memorie e società nel XX

secolo, Milano, Franco Angeli, 2002.ANGELO DEL BOCA, Italiani, brava gente?, Vicenza, Neri Pozza, 2005.COSTANTINO DI SANTE, Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi

negati (1941-1951), Verona, Ombre corte, 2005.THOMAS SCHLEMMER, Invasori, non vittime. La campagna italiana in Russia

1941-1943, Roma-Bari, Laterza, 2009.TONY JUDT, L’età dell’oblio: sulle rimozioni del ‘900, Roma-Bari, Laterza, 2009.ARAM MATTIOLI, Viva Mussolini! La guerra della memoria nell’Italia di

Berlusconi, Bossi e Fini, Milano, Garzanti, 2011.Il documentario La guerra sporca di Mussolini (2008) si trova in versione

integrale su youtube: https://www.youtube.com/watch?v=_ttQKhut4vo

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SABINO CASSESEUniversità La Sapienza, Roma

UNA SOCIETÀ SENZA STATO?Modernità e arretratezza delle istituzioni italiane

Antonio Censi

Nella nostra riflessione sull’identità italiana il difficile rapporto tra lasocietà e lo Stato è stato un tema ricorrente ed è stato affrontato finora daun’angolazione storico-sociologica: Vittorio Vidotto ci ha parlato del-l’orientamento degli italiani a trasformare in rapporti privati quelli chesarebbero per loro natura rapporti pubblici e ha spiegato come questo at-teggiamento nasca dalla mancanza di una coscienza civica diffusa; Chia-ra Saraceno ha rivisitato criticamente il concetto di “familismo amorale”cercando di dimostrare come non sia tanto la famiglia a piegare lo Statoalle sue esigenze quanto lo Stato a sovraccaricare la famiglia di compitiimpropri; Aldo Schiavone, affrontando la storia italiana in una prospetti-

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va di lungo periodo, ha posto in evidenza come l’aspetto che ci differen-zia profondamente dagli altri Paesi è una cronica assenza di Stato. A dif-ferenza dei relatori citati, che hanno posto l’accento sul diffuso e radicatoanti-statalismo presente nella società italiana, questa sera con l’aiuto delprofessor Cassese vorremmo spostare l’attenzione sullo Stato e in parti-colare sul faticoso processo di costruzione del suo apparato amministra-tivo, cercando di mettere in luce i caratteri costanti e di segnalare le fra-gilità che da sempre ne connotano l’azione. Fragilità che contribuendo almal funzionamento dell’apparato amministrativo finiscono con rafforza-re, in una sorta di circolo vizioso, la presenza nella società di quei senti-menti anti-statali che a loro volta ne condizionano pesantemente le capa-cità realizzative.

Sabino Cassese *

L’Italia ha un secolo e mezzo di vita e in un secolo e mezzo di vita haavuto 127 diversi governi, 12 formule elettorali interamente diverse, haavuto un debito che è stato superiore al prodotto interno lordo per 111anni e che, per 56 anni, è stato addirittura superiore, come è oggi, delcento per cento del prodotto interno lordo. Quindi un Paese che in 150anni, da cui bisogna togliere 20 anni di fascismo con un solo governo, ilgoverno Mussolini, ha avuto poco più di un governo all’anno, e che nonè mai riuscito a trovare un patto tra popolo e Stato. Infatti la legge eletto-rale è un patto tra popolo è Stato. La formula elettorale consiste nel mo-do in cui si traducono i voti in seggi e se leggete i libri inglesi o america-ni sulle leggi elettorali nei diversi Paesi le due parole che ricorrono piùspesso sono “longevity and stability”: non ho bisogno di tradurlo.

Ora voi capite bene che, rispetto al carattere longevo delle leggi elet-torali di altri Paesi e alla loro stabilità, noi abbiamo avuto un periodicocambiamento delle leggi elettorali e un periodico cambiamento dei go-verni. Secondo me queste tre cifre relative ai governi, alle leggi elettoralie all’ammontare del debito pubblico descrivono immediatamente il pa-norama di uno Stato che è uno Stato debole.

Guardiamo un altro lato: le speranze di vita oggi degli italiani rispettoal 1861 si sono più che raddoppiate, la mortalità infantile è cento volteminore rispetto a quella del 1861, l’analfabetismo è passato dal 78 al 2per cento, nel solo periodo del secondo dopoguerra il prodotto interno

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SABINO CASSESE

* Trascrizione a cura della redazione, non rivista dal relatore.

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lordo per abitante è aumentato cinque volte. E qui vedete un altro latodella medaglia: mentre il primo ci segnalava una debolezza dello Stato,quest’altro ci segnala invece un grande progresso civile, che io ho misu-rato con degli indicatori che sono importanti, in quanto riguardano la vi-ta delle persone: il progresso economico e l’istruzione.

E allora ci si chiede: perché un sistema che in un secolo è riuscito aportare tutti i fanciulli e le fanciulle alla scuola elementare non riesce inun secolo e mezzo ad avere un numero di laureati pari a quello delle na-zioni sviluppate? Perché lo Stato che ha reagito alla grande crisi del1929-’33 impossessandosi di qualcosa come un quarto dell’intera indu-stria italiana, per non dire della totalità della finanza italiana, non riescea reagire con pari energia e forza alla crisi che è iniziata nel 2008? Perchéquello stesso Stato che nel 1956-1964, cioè in otto anni, ha costruito unagrande rete autostradale non riesce a fare quello che viene chiamato eu-femisticamente l’ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria? Nonvedete in tutto questo una sproporzione? Da un lato una società civilemolto ricca, dall’altro uno Stato che riesce in qualche cosa e che invecefallisce miseramente in qualche altra. L’esempio dell’autostrada secondome è estremamente significativo. Per non parlare di oggi: ho portato conme un ritaglio del “Corriere della Sera” dove l’economista professorMarcello Messori fa un esempio dei macigni da cui è schiacciata l’Italiaelencando «un abnorme debito pubblico, una produttività stagnante daquasi quindici anni, un’elevata tassazione, una inefficienza della spesapubblica, un basso tasso di attività in presenza di un forte invecchiamen-to della popolazione, un distorto utilizzo delle risorse umane con conse-guente fuga all’estero di larga parte dei giovani più brillanti, una inade-guatezza della giustizia civile, un insufficiente controllo del territorio ri-spetto alle organizzazioni illegali».

Ho voluto cominciare mostrandovi queste realtà contraddittorie del no-stro Paese per farvi capire che il problema della debolezza dello Stato, dicui vi voglio parlare questa sera, è un problema complesso che va coniu-gato da un lato con una grande ricchezza della società civile e dall’altrocon i divari nello sviluppo della società civile e poi va coniugato con lemanifestazioni da un lato di straordinarie capacità dello Stato in alcunicampi e in alcuni momenti e dall’altro con una straordinaria incapacitàdello Stato di affrontare alcuni dei problemi che ha davanti. Allora qualisono le cause di questa debolezza? E qui viene la parte centrale della ri-flessione che vi voglio sottoporre. Farò una sorta di elenco di cause, di fat-tori che possono dare una spiegazione di questa realtà contraddittoria del-lo Stato italiano. Sono otto e vi prego di seguirmi anche se la materia è

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complessa e richiede conoscenze giuridiche, sociologiche, di scienza del-l’amministrazione economica e così via che volta a volta cercherò di illu-strare.

All’origine di tutto a mio modo di vedere c’è quella che chiamereiuna costituzionalizzazione debole. Abbiamo avuto due Costituzioni, co-me sapete, una lo Statuto Albertino, che va da anni precedenti all’unifi-cazione, 1848, fino al 1944, e poi, con lo iato di due Costituzioni provvi-sorie, la Costituzione repubblicana che va dal 1948 ai giorni nostri. LoStatuto Albertino costituì il fondamento del Regno d’Italia, perché è unacostituzione e provvede a dare le fondamenta ad un edificio che si chia-ma lo Stato, il potere pubblico. Ma innanzitutto il Regno d’Italia non sidette questo Statuto, lo ereditò dal Regno di Piemonte, il quale a sua vol-ta non aveva affidato ad un’Assemblea costituente il compito di adottarelo Statuto Albertino, che infatti si chiama Albertino perché lo concesse ilre Carlo Alberto e appunto lo concesse, e di conseguenza viene indicatocome uno Statuto un po’ octroyé (concesso, n.d.r.). Uno dei protagonisti diquell’epoca scrisse (in francese e traduco): “Bisogna darlo lo Statuto, nonfarselo imporre, dettare le condizioni, non riceverle”. Avete capito cosac’è dietro questa frase: è un potere pubblico che concede qualcosa perchéha timore di rimanere sopraffatto, stiamo parlando del 1848 che evocaqualche ricordo nella storia d’Europa, e quindi è un modo per concederequalcosa per non dovere poi sottostare alle condizioni di un’Assembleacostituente. Quindi lo Statuto Albertino nasce con un’intrinseca debolez-za, non è approvato dall’assemblea eletta dal popolo, è un atto che vieneconcesso da un potere pubblico che vuole evitare di rimanere sopraffattoda richieste più forti di tipo popolare. La popolazione non partecipò inalcun modo quindi alla scelta della configurazione del nuovo Stato, na-sce uno Stato ma nasce per così dire vuoto, uno Stato senza popolo, per-ché lo Stato è innanzitutto il popolo, la cittadinanza che fa parte di quel-lo Stato. E nasce concesso da un re, intorno a un re. Se leggete lo StatutoAlbertino potete scoprire che non c’è neppure la parola governo, la paro-la governo non esiste, perché vi sono i ministri del re, quindi non è nep-pure configurato un esecutivo, si assume che l’esecutivo sia il re. Mancaun popolo quindi ma c‘è un protagonista, unico protagonista è il re. LoStatuto Albertino poi è una costituzione che viene chiamata da noi stu-diosi di diritto pubblico flessibile, si presta agli abusi del fascismo, vienesostituito dalla Costituzione repubblicana, quella che oggi ci regge. LaCostituzione repubblicana – questo è un giudizio storico ormai consoli-dato ed è un giudizio badate bene che nasce dagli stessi protagonisti del-la Costituzione – è sostanzialmente divisa in due parti: una prima che

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guarda lontano e una seconda che guarda troppo vicino; una prima checonfigura un futuro e una seconda che cerca di evitare il ripetersi deglierrori del passato; una prima che conferisce diritti ai cittadini e una se-conda che organizza i poteri dello Stato avendo nella testa quello cheGiuliano Amato ha chiamato il “timore del tiranno”, e cioè la vicinanzadel periodo fascista spinse a configurare al vertice dell’esecutivo un go-verno che non fosse in grado di stabilizzarsi e quindi un governo che go-vernasse. L’altra debolezza della Costituzione italiana è che è rimastamolto e troppo lungo sulla carta. Basta che vi ricordi che i Consigli regio-nali vengono eletti in Italia e quindi vengono costituite le Regioni soltan-to nel 1970, quando la Costituzione era entrata in vigore il primo genna-io del 1948. Vedete quanti anni passano. La Corte Costituzionale di cuifaccio parte inizia la sua attività nel 1956, vedete quale distanza di tempodal momento in cui viene adottata la Costituzione. È quella che uno deigrandi protagonisti della Costituzione ha chiamato la lentissima attua-zione della Costituzione repubblicana. E possiamo dire oggi che la Costi-tuzione repubblicana è interamente applicata? Possiamo dire che l’arti-colo 4, che riconosce il diritto al lavoro, è applicato? Possiamo dire che losia l’articolo 34, che dice che i capaci e meritevoli, anche se privi di mez-zi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi? Possiamo di-re che l’articolo 39, che riguarda il riconoscimento giuridico dei sindaca-ti, è applicato? Possiamo dire che l’articolo 46, che disciplina la parteci-pazione dei lavoratori alle gestione dell’ambiente, è stato applicato? Ve-dete quindi che noi abbiamo avuto un processo di costituzionalizzazionealtamente imperfetto. Da un lato le fondamenta poste dallo Statuto Al-bertino senza il popolo, con un re protagonista, con questa flessibilitàche poi prestò il fianco all’avvento del fascismo, che permise, per non es-sere rigida a sufficienza, le modificazioni di fatto delle leggi fascistissimedel 1925 – tra le altre naturalmente, ho citato queste perché dietro c’è co-me protagonista Alfredo Rocco, oltre a Mussolini –, dall’altro una Costi-tuzione repubblicana che da un lato guarda lontano e dall’altro guardatroppo vicino e infine una Costituzione repubblicana che, essendo stataattuata con grande ritardo e in parte non attuata, costituisce una promes-sa non mantenuta. E le promesse che sono contenute nelle costituzionidebbono essere mantenute tutte insieme, se non si realizzano tutte, senon si mettono sul muro tutte le tessere del mosaico, il disegno che stanel mosaico non si riesce a vedere. Il disegno costituente in realtà è statoper lungo tempo non realizzato ed è la ragione per cui tanti padri costi-tuenti hanno parlato di Costituzione tradita. Questo secondo me è statoun primo fattore di debolezza: le fondamenta dell’edificio non sono state

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sufficientemente robuste. Nel corso dei centocinquant’anni della storiaitaliana abbiamo avuto delle fondamenta deboli e quindi l’edificio delloStato è sempre stato un po’ sbilenco.

Il secondo fattore di debolezza è quello del distacco tra Stato e popo-lo, nell’Ottocento, copiando l’espressione francese, si diceva tra Paesereale e Paese legale, poi si è detto tra il palazzo e la gente. Ricordatel’espressione di Pasolini? Con questo voglio dire che vi è stata una scar-sa partecipazione popolare alla formazione della volontà dei poteripubblici. La percentuale della popolazione ammessa ad esercitare il di-ritto di voto dal 1861 al 1881, in venti anni, è passata dall’1 per cento al2, in quel momento gli italiani erano circa 21 milioni. Dal 6 all’8 per cen-to nei successivi trent’anni, 1882-1909. Si è attestata intorno al 25 percento nei successivi trent’anni, dal 1913 al 1944, ma in mezzo ci sono ivent’anni del fascismo con la legge Acerbo e poi con la Camera dei Fa-sci e delle Corporazioni. Con la quale, 1939, le elezioni non esistono piùperché la Camera dei Fasci e delle Corporazioni sostituisce la Cameradei deputati e i suoi membri sono i membri del Consiglio nazionale delPartito nazionale fascista e del Consiglio nazionale delle Corporazioni,cioè chi entrava nel Consiglio nazionale del Partito nazionale fascista odelle Corporazioni diventava automaticamente membro della Cameradei Fasci e delle Corporazioni, quando cessava dalla prima carica cessa-va anche dalla seconda, senza che vi fosse un’elezione popolare. Quindiuna scarsa partecipazione per un lunghissimo periodo di tempo, perchésoltanto con la Liberazione e subito prima della Costituzione da un latoil suffragio è esteso anche alle persone di sesso femminile e poi vi è unallargamento del diritto di voto a tutti i cittadini maggiorenni, ma nelperiodo precedente con una scarsa partecipazione al voto, per cui solo il50 per cento degli aventi diritto al voto, numero così basso come ho giàspiegato, partecipava effettivamente alle elezioni. A questo elemento,che riguarda appunto l’insufficienza della base nazionale dello Stato, sene aggiunge un altro che riguarda sempre il rapporto tra lo Stato e ilsuo popolo, che è quello costituito dal fatto che tra il 1862 e il 1958, e inparticolare tra il 1887 e il 1913, 25 milioni di italiani hanno lasciato l’Ita-lia che così è diventata, tra quelli di cosiddetta nuova emigrazione – idemografi definiscono nuova emigrazione quella che è succeduta allagrande emigrazione irlandese, che ha dato luogo a tanti irlandesi negliStati Uniti d’America – il Paese che ha esportato il maggior numero diabitanti, tanto che tranquillamente moltissimi demografi dicono che infondo le più popolose città italiane non stanno in Italia. Capite benequale voto di sfiducia viene così dato al proprio Paese. Nel proprio Pae-

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se uno vuole vivere, ma se non riesce a viverci va altrove, e questo è unvoto di sfiducia. Come è un voto di sfiducia, parziale, quello costituitodalla circostanza che, tra il 1955 e il 1970, 9 milioni di abitanti si sonotrasferiti dal Sud al Nord, e ogni anno ancora oggi in 60mila lasciano ilSud per venire al Nord. Che cosa è se non una manifestazione di sfidu-cia nello Stato, una manifestazione di sfiducia alla capacità dello Statodi riequilibrare le diverse zone d’Italia e consentire delle condizioni divita, economiche e sociali, di eguaglianza a tutti i cittadini? Che è pro-messa nella Costituzione, all’articolo 3, Costituzione che garantisce nel-la prima parte l’eguaglianza in senso formale e nella seconda partel’eguaglianza in senso sostanziale, in quanto afferma che la Repubblicafa in modo di superare tutti i vincoli che creano diseguaglianze. QuellaRepubblica non ha creato le condizioni perché le diseguaglianze venis-sero superate, tanto che spinge 60mila persone ancora oggi annualmen-te a spostarsi da una parte all’altra del territorio. Questa, come poteteimmaginare, non è una mobilità fisiologica, anche perché il numero di60mila è economicamente e statisticamente un saldo, il che vuol direche non c’è un numero altrettanto alto di persone che va a Sud, la mobi-lità è tutta in un senso, non nell’altro. La mia conclusione su questo se-condo fattore è che per una lunga parte della sua storia la maggioranzadel popolo del nostro Paese è stata estranea allo Stato, perché innanzi-tutto la partecipazione dei cittadini avviene attraverso la partecipazioneal voto, è il primo dei diritti politici di un cittadino, cioè dei diritti di ap-partenenza ad una società – polis, politica –, e molte persone erano cosìlontane dallo Stato che hanno vissuto con disagio nello Stato, tanto di-sagio da essere costrette ad abbandonarlo e trasferirsi prima all’estero epoi in una parte del territorio nazionale rispetto a un’altra parte. Io cre-do che questo sia un fattore su cui come storici e giuristi attenti alla vitasociale di questo Paese dobbiamo interrogarci per vedere in che modoabbia influito sulla debolezza dello Stato e quindi sulle condizioni di vi-ta dei suoi cittadini.

Il terzo fattore in qualche modo fu riassunto da Mazzini nel 1871quando, criticando il modo in cui si era costituita l’Unità d’Italia, scrisse“manca l’anima della nazione”. Che voleva dire? Intanto l’Italia è statacostituita come un Paese unico tra persone che non parlavano italiano:secondo gli studi dei linguisti gli italofoni al momento dell’Unità erano il2 per cento della popolazione e coloro che intendevano l’italiano, cioèriuscivano a capirlo, erano il 10 per cento. Nelle memorie di un noto pre-fetto sub-alpino che fu prefetto di Palermo nel primo decennio dopol’Unità c’è scritto che lui comunicava con la società locale in francese

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perché era la lingua con cui si potevano intendere, non avrebbero potutointendersi in altre lingue. Quindi un Paese, che a livello del prefetto deveavere rapporti con almeno l’élite locale, deve ricorrere ad una lingua stra-niera per poter comunicare con i propri concittadini, dei concittadini chedebbono parlare la lingua di un altro Paese: potete capire bene che cosavuol dire questo. Come segno di un altro elemento di disomogeneità,uno studioso ha scritto nel 2011 che a centocinquant’anni dall’Unità ilMezzogiorno resta il più grande nodo irrisolto dello sviluppo del Paese,e dopo aver scritto questa frase considera che nel Sud rispetto al Nordsono inferiori il prodotto pro-capite, la produttività del lavoro, il tasso dioccupazione, le dotazioni infrastrutturali, la qualità dei servizi pubblici,mentre sono maggiori le attività irregolari, l’illegalità e l’incidenza delpubblico impiego sull’occupazione complessiva. Capite bene: questi duedivari registrano in sostanza due Italie forse, non una Italia, e quindi unPaese sostanzialmente diviso. La conclusione per questo terzo fattore èche vi è stata una mancata integrazione nazionale. Noi italiani, come èstato messo in luce dai fondamentali studi di Tullio De Mauro sulla sto-ria linguistica italiana, parliamo italiano e ci intendiamo da che è arriva-ta la televisione. Badate bene, più la televisione che la scuola: è un segnodella debolezza del sistema scolastico che secondo coloro che hanno uni-ficato l’Italia doveva essere il fattore di unificazione. Quando nel 1882venne allargato il suffragio, da parte della Sinistra, che era andata al po-tere qualche anno prima, si disse: questa legge porterà progressivamenteal suffragio universale – sempre maschile sia chiaro, perché le donne so-no considerate non cittadini – perché essendoci il livello di censo ma an-che quello di istruzione si pensava che con il progresso dell‘istruzione sisarebbe ottenuto automaticamente un progresso degli aventi diritto alvoto e quindi il suffragio universale maschile. Cosa che non è accadutaperché la scuola non è stata capace di funzionare, se mi consentite la me-tafora, da ascensore, perché questo era il concetto: si innalza il livello diistruzione quindi si produce un livello di istruzione che consente a que-ste persone di rientrare tra gli aventi diritto al voto per il loro grado diistruzione. Mancata integrazione nazionale, forte diversità di tradizioniciviche, inefficacia statale su una buona parte del territorio nazionale: ipochi dati che vi ho fornito sulle due Italie sono un segno del fatto che loStato italiano non è riuscito a realizzare una integrazione tra le due partidi cui è composta l’Italia.

In questa elencazione il quarto punto l’ho denominato una giuridicitàdebole e può sembrare un’espressione un po’ da addetti ai lavori, ma mivoglio riferire al fatto, che è lamentato quotidianamente su tutti i giorna-

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li, della abbondanza della legislazione derogatoria, al fatto che già Sten-dhal, francese, diceva (traduco in italiano): “La maggior parte degli attidel governo sono una deroga a una regola”. Quando la maggior partedegli atti del governo sono “un dérogation à un règle”, una deroga ad unaregola, capite bene che si entra non nel campo della regolazione ma nelcampo dell’anomia, dell’assenza di regolazione. Per cui Piero Calaman-drei, uno dei padri costituenti, con un ossimoro parlava di illegalesimolegale. Capito il concetto? È legale ma è illegale nello stesso tempo, per-ché è un insieme di deroghe che, essendo scritte, rendono legale qualco-sa che però è illegale perché è contro la regola generale che si applica pertutti. Di qui la nota frase di Giovanni Giolitti (cito soltanto autori o poli-tici lontani, Giovanni Giolitti è l’uomo che ha governato l’Italia per i pri-mi due decenni del secolo XX) secondo la quale le leggi si applicano ainemici e si interpretano per gli amici. Frase che avrete trovato mille voltee che risale a Giovanni Giolitti, autorevole, non dimenticate che entra inpolitica a 40 anni e che fino a quell’epoca ha ricoperto alcune delle cari-che più alte nell’amministrazione dello Stato, è stato un funzionario delMinistero della Giustizia, è stato membro di alcuni dei corpi più impor-tanti dello Stato, quindi non era solo un politico, veniva chiamato da Sal-vemini il principe dei burocrati, nel senso che era uno che lo Stato lo co-nosceva dall’interno prima di gestirlo come appartenente al corpo politi-co. Quindi questo ulteriore fattore di debolezza dello Stato è costituitodalla sovrabbondanza di deroghe da che cosa? Un ampio spazio allascelta di diritto, un ampio spazio alla negoziazione, una discrezionalitàper applicare una o altra norma, e quindi una fortissima conflittualità:perché hai applicato quella deroga a quello e non applichi la stessa dero-ga a me, perché a me applicare la regola e non la deroga? Capite beneche tutto questo si presta non solo a diseguaglianze ma a un eccesso diarbitrio delle amministrazioni, a una facoltà di scelta praticamente liberadel potere pubblico che volta a volta può scegliere quello che vuole. Viracconto un episodio che riguarda la mia storia personale. Parecchi annifa un Ministro dell’Università mi chiese di presiedere una commissioneper redigere un testo unico delle leggi sulle università italiane, presiedet-ti questa commissione, lavorammo più di un anno in un gruppo di diecipersone, c’erano i massimi esperti della materia, redigemmo un testo,che venne consegnato al Ministro successivo – perché naturalmente nelfrattempo era cambiato il governo, se sono 127 in 130 anni, di fatto, èchiaro che uno è destinato a consegnarlo a un Ministro successivo. Sape-te quale fu la ragione in base alla quale qualcuno dei rettori influenzòquel Ministro perché venisse rifiutato questo bellissimo testo unico che

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avevamo preparato? In questo modo ci obbliga a seguire una regola,mentre noi possiamo giostrarci in mezzo alle norme e trovare la soluzio-ne quando vogliamo, la soluzione giusta. E il rettore di un’importanteuniversità ebbe il coraggio persino di dirmelo questo, che in realtà io co-sì stabilivo una regola valida per tutti e questo si rifletteva in una sortadi vincolo per lui perché quella sarebbe stata la regola per tutti, i profes-sori, i rettori, i ministri dell’Istruzione, i ministri dell’Università, mentrelui voleva avere mano libera e potersi scegliere la regola che gli piacevatra quella del 1865, quella del 1898, quella del 1913, quella del 1924, quel-la del 1952, quella del 1978 e così via. Questa è una piccola testimonianzapersonale di quel fenomeno generale che vi ho illustrato prima.

Vengo rapidamente agli altri fattori di debolezza dello Stato. Ho pri-ma detto che la parola governo non era neppure menzionata nello Statu-to Albertino e il problema è che questo fenomeno di debolezza dell’ese-cutivo, con l’eccezione della parentesi fascista in cui come sapete fu inve-ce rafforzato, è continuata. La Costituzione nel 1948 prevedeva, c’è scrit-to, una legge che regolasse la Presidenza del Consiglio dei Ministri: lalegge è stata adottata nel 1988. 1948-1988, quaranta anni per fare una leg-ge prevista espressamente dalla Costituzione. Perché tanto tempo? E poil’instabilità governativa, costituita da queste leggi transeunti e da questigoverni che passano continuamente, ha fatto sì che, nonostante una certacontinuità degli uomini, non vi sia stata continuità delle politiche.L’obiezione di molti studiosi all’argomento dei governi di troppo brevedurata è solitamente questa: sì però poi nell’uno e nell’altro governoc’era Moro, i governi De Gasperi sono stati cinque-sei, Fanfani in quantigoverni è stato? È vero che c’era continuità di uomini, ma questi uoministavano in posti diversi, una volta occupavano il Ministero dell’Agricol-tura, un’altra volta era il Ministero degli Esteri, un’altra volta da Mini-stro dell’Interno, un’altra volta erano al Ministero dei Trasporti, e questocomporta che c’era discontinuità delle politiche. Io ho una qualche espe-rienza per avere lavorato sia in tanti ministeri sia come ministro, e civuole tempo per imparare il mestiere, per capire quali sono i problemi diun settore e se uno passa dall’uno all’altro, dall’uno all’altro, dall’unoall’altro la continuità delle politiche dei trasporti chi la garantisce? Si po-trebbe dire: sì, ma c’è stata la Democrazia cristiana per tutti questi anni,in fondo dalla caduta del fascismo fino al 1993. Ma anche la permanenzaal potere di un partito non ha comportato la continuità delle politiche,cioè di quegli indirizzi politico-amministrativi che servono poi alla con-tinuità dello Stato. Perché non è che si può pensare un giorno di fare unacerta politica scolastica, ad esempio stabilire che le scuole non debbano

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avere più di un certo numero di allievi, e il giorno dopo dimenticarsenee pensare che invece bisogna non costruire più scuole. La pubblica am-ministrazione è per eccellenza l’elemento della continuità dello Stato e sela continuità dello Stato poi si deve coniugare con la completa disconti-nuità delle persone che sono innanzitutto chiamate a gestire lo Stato, iministri, che sono i principali amministratori della cosa pubblica, capitebene che questa continuità non c’è. E quindi, e questa è la mia conclusio-ne su questo punto: il centro motore dello Stato, che è costituito dal go-verno, è stato indebolito dalla sua precarietà, è più precario degli avven-tizi e dei precari che vengono normalmente stabilizzati nella pubblicaamministrazione. I ministri potrebbero anch’essi chiedere una stabilizza-zione... Non andate in giro a dirlo perché è pericoloso. E questo natural-mente ha reso difficile la continuità delle politiche pubbliche, e se nonc’è una continuità delle politiche pubbliche non c’è efficienza dello Stato.

Tutto questo si è riflesso nella costituzione di un altro fattore che èquello dato dall’eguaglianza governi deboli - corporazioni forti. Più de-bole, più precario è il governo, più forti sono gli interessi che si collocanointorno al governo: i commercianti, gli agricoltori, gli industriali, i lavo-ratori. Un grande storico italiano, Alberto Caracciolo, in un vecchio sag-gio ha illustrato la vicenda della soppressione nel 1887 del Ministero che

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Pia Locatelli, Sabino Cassese, Antonio Censi.

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allora si chiamava di Agricoltura, Industria e Commercio. Ed è una vi-cenda veramente molto significativa perché siamo in un’epoca dove pre-valente è il liberismo, dove tutti gli uomini politici dichiarano che lo Sta-to non deve interferire con gli interessi privati, però quando con una leg-ge viene soppresso il Ministero di Agricoltura Industria e Commercioquali sono le voci che si sollevano per criticare la soppressione e sostene-re la necessità di ripristinare il Ministero? Gli agricoltori, gli industriali ei commercianti, perché ritenevano che il Ministero stesse lì non per go-vernare l’agricoltura, l’industria e il commercio ma per un altro scopo,che era quello di dare a loro una possibilità di far sentire la loro voce nel-l’apparato dello Stato, cioè non il Ministero in quanto stabiliva delle re-gole per l’economia ma il Ministero in quanto serviva per dare all’econo-mia un portavoce all’interno del governo. Era una concezione esatta-mente rovesciata di quello che dovrebbe essere lo Stato, che raccoglie lavolontà dei cittadini e indirizza l‘attività degli operatori in una certa so-cietà. Se avete letto i giornali di questa mattina o di ieri avete appresoche sono stati presentati 3.300 emendamenti al disegno di legge di Stabi-lità e avete capito a che cosa mi riferisco quando parlo di governo debo-le, corporazioni forti. Ognuno di questi emendamenti rappresenta un in-teresse, una parte di un interesse che si accavalla e che si spinge su chideve decidere: il Parlamento e il governo.

Quindi finisce che questo Stato si presenta come uno Stato permeabi-le, gli inglesi dicono poroso, ma non trasparente. E infatti quando vengo-no prese decisioni dai governi vi sfido a capire che cosa c’è scritto nelleleggi, le leggi italiane sono incomprensibili. Noi siamo parte dell’UnioneEuropea e nell’Unione Europea ogni volta che bisogna fare un atto nor-mativo o un regolamento la Commissione prepara un Libro verde in cuiillustra i propri obiettivi, lo sottopone ad una discussione, in cui tuttipossono intervenire, quando tutti sono intervenuti viene preparato unquadro complessivo del dibattito che si è svolto sugli obiettivi indicatidal governo, sulla base di tutto questo viene fatta una proposta che vienedi nuovo resa pubblica, e solo alla fine di questa procedura vengono ap-plicati gli atti normativi. Questo si chiama procedere in maniera traspa-rente, questo si chiama procedere in modo da far capire, dialogare, que-sto si chiama quella che oggi diffusamente viene denominata democraziadeliberativa come qualcosa che integra la democrazia rappresentativa,non quindi le elezioni soltanto ma anche la possibilità di interloquire nelformarsi delle decisioni parlamentari, del governo e così via. Tutto que-sto non accade in Italia e il risultato è costituito da norme che la maggiorparte dei cittadini non capisce, ma vi posso assicurare che anche la mag-

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gior parte degli esperti non capisce, perché veramente sono arrivate a untale livello di incomprensibilità – intendiamoci: funzionale allo scopo dichi le rende incomprensibili – che anche gli esperti sono purtroppo inca-paci di comprendere. Quindi da questo punto di vista lo Stato diventapermeabile, poroso, poco trasparente e di conseguenza poco controllabiledai cittadini, mentre è invece controllato dagli interessi organizzati chehanno o riescono ad avere una voce nel processo di decisione.

E in tutto questo manca, e in Italia non c’è mai stato, un corpo ammi-nistrativo dello Stato. In Italia abbiamo avuto un lungo periodo in cui siparlava di piemontesismo, poi abbiamo avuto una meridionalizzazionedel pubblico impiego. Filippo Turati, 1920: “il Mezzogiorno è il gran vi-vaio e quasi il solo vivaio di tutta la burocrazia italiana”. Non abbiamomai avuto l’equivalente dell’École Nationale d’Administration franceseo del ruolo svolto da Oxford e Cambridge rispetto al Higher Civil Ser-vants inglese, cioè non abbiamo mai avuto un vivaio, come dicono i fran-cesi, di grandi commessi dello Stato, non ci siamo mai preoccupati distabilire che ci debbono essere degli esperti che governano la macchinapubblica, e non si può essere degli amateurs per governare la macchinapubblica. I direttori generali, i capi divisione dei ministeri, coloro che go-vernano gli apparati delle Regioni, dei Comuni non possono essere – iosono un giurista quindi lo dico da giurista – dei generici giuristi, personeche conoscono soltanto quattro norme e due principi di diritto costitu-zionale e amministrativo, debbono essere ad esempio ingegneri. Quantiingegneri sono rimasti nell’amministrazione italiana, quanti tecnici,quanti chimici? L’amministrazione italiana si è totalmente depauperatadi tecnici, di amministratori che conoscono le cose. Ragion per cui prati-camente l’amministrazione italiana è sussidiaria di privati perché, nonsapendo progettare, deve affidare all’esterno i progetti e quindi abbiamoquesta assurdità, che si vede solo nell’amministrazione italiana, per cuinon solo l’esecuzione delle opere ma pure la loro progettazione è fattafuori, ma anche l’idea progettuale è fatta fuori. A questo punto che resta?è come mangiare un carciofo: si toglie una foglia e si toglie un’altra e sitoglie un’altra, si resta con niente in mano. È quello che abbiamo fatto inItalia, perché quel tanto che esisteva dei tecnici è scomparso praticamen-te subito prima del fascismo e poi non c’è mai stata cura nel formare uncorpo di grandi amministratori pubblici. E questo è stato un ulteriorefattore di indebolimento dello Stato, ed è l’ultimo che vi volevo accenna-re, la fuga dallo Stato. Dato che l’amministrazione dello Stato non sa farele cose all’interno che fa per procurarsi degli strumenti finanziari? Crea,Giolitti 1913, l’Istituto Nazionale Assicurazioni. Anni 1929-’33, grande

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crisi mondiale, bisogna risolvere il problema della crisi della metallurgia,della meccanica, del settore elettrico e così via, che viene fatto? Vienecreato l’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale. 1953, c’è il problemadelle risorse energetiche in Italia, che viene fatto? Viene creato l’Eni.1950, bisogna sviluppare il Mezzogiorno, cosa che poi non si è riusciti afare, si crea la Cassa per il Mezzogiorno. Nulla nello Stato, tutto fuoridallo Stato, quasi il contrario di quella formula che amava Mussolini:tutto nello Stato, nulla fuori dallo Stato. Il processo continua nei giorninostri, perché dal 1990 in poi le grandi amministrazioni sono le autoritàamministrative indipendenti: l’Autorità antitrust, l’Autorità per le comu-nicazioni, l’Autorità per l’energia elettrica e così via. Ancora una voltasono delle istituzioni non statali e quindi per far fronte alla riconosciutadebolezza della macchina pubblica si ricorre a rimedi esterni, che ovvia-mente ulteriormente indeboliscono la costruzione statale, perché spessole funzioni più importanti vengono date all’esterno e spesso questi figlidello Stato sono dei figli riottosi, come capita a tanti figli e a tanti padri,sono figli che non ascoltano lo Stato, come fu dimostrato da tutta l’espe-rienza conclusasi negli anni Novanta del secolo scorso delle cosiddettePartecipazioni statali che a un certo punto erano diventate più potentidello stesso Stato. Il Ministro delle Partecipazioni statali non si sapeva sestava lì per dare gli indirizzi del governo alle partecipazioni statali o perdare gli indirizzi delle partecipazioni statali al governo, nella maggiorparte dei casi faceva questa seconda cosa e non la prima, che è esatta-mente contraria a qualunque principio costituzionale e del diritto.

Due parole per concludere. Mi potreste chiedere: ma in questa situa-zione secondo te che bisogna fare, o almeno da dove partire? Io pensoche i punti dai quali partire sono due e sono molto semplici. Se lo Stato èinnanzitutto il suo cuore, il governo e la macchina esecutiva del governo,bisogna per prima cosa stabilizzare i governi ed evitare di avere un Pae-se nel quale ogni due riunioni del Consiglio europeo noi mandiamo unnuovo Presidente del Consiglio, anche per la faccia di quelli che mandia-mo, dico la verità, ogni volta i nostri partner stranieri devono farsi unacultura per cercare di capire qual è il loro interlocutore italiano e posso-no pensare che noi siamo un po’ matti. Dall’altro bisogna avere un corpoamministrativo dello Stato che non deve essere costituito da decine dimigliaia di persone, non ci vogliono migliaia di persone per governare.Le macchine oramai sono molte pubbliche e basta qualche centinaio dibravi amministratori pubblici, ben selezionati, non con il pessimo siste-ma detto spoils system oggi vigente in Italia, selezionati in base ai criteridel merito e non dell’appartenenza politica, che è l’unico criterio costitu-

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zionalmente corretto. Perché da un lato governi più stabili, dall’altroun’amministrazione capace ed efficiente possono cominciare a rimetterein piedi l’edificio dello Stato italiano che, oltre ad essere molto debole, èanche parecchio sbilenco.

Il professor Cassese risponde alle domande del pubblico

Quali misure proporrebbe per il rafforzamento dell’esecutivo, basta ad esempiola sfiducia costruttiva o serve qualcosa di più forte che cambi l’assetto costitu-zionale?

Lei ha parlato di rafforzamento, io ho parlato di stabilizzazione. Io noncredo che il governo italiano abbia bisogno di un rafforzamento, credoche abbia bisogno di una stabilizzazione. Provo a spiegarmi. Se stabiliz-zato il governo italiano avrebbe dei poteri enormi, il nostro Presidente delConsiglio ha poteri superiori a quelli del Presidente degli Stati Uniti, per-ché in Italia, se si realizza quel continuum tra maggioranza del popolo,maggioranza parlamentare e governo, di fatto il Presidente del Consigliopuò controllare l’attività dell’esecutivo e l’attività del legislativo. L’unicacosa che gli sfugge è l’attività del potere giudiziario. Negli Stati Unitid’America il Presidente, come è noto, se vuole che venga approvata unalegge deve fare il lobbista con il congresso degli Stati Uniti, è molto piùdebole. Il Presidente del Consiglio italiano si sveglia un giorno, presentaun disegno di legge in Parlamento e la sua maggioranza l’approva. Quin-di io non credo che il problema sia di rafforzamento, credo che sia unproblema di stabilizzazione. I poteri ci sono, la questione è che sono affi-dati a mani che stanno lì per esercitarli per troppo poco tempo. La chiavedi volta non sta nella modifica della Costituzione ma sta nel sistema elet-torale, ossia quello che consente di realizzare questo continuum tra mag-gioranza del popolo, maggioranza del Parlamento e infine governo.

Le istituzioni europee possono svolgere un ruolo in rapporto alle nostre debolezze?Le istituzioni europee certo possono fare molto. Faccio un esempio:

come avrete letto sui giornali, in questo momento le istituzioni europee,Consiglio e Commissione, stanno perfezionando un meccanismo che sichiama “accordi contrattuali con i singoli Paesi”. Con i quali un Paese siimpegna a realizzare certi obiettivi e l’Unione Europea si impegna a for-nire incentivi, risorse, diminuzione dei vincoli per la realizzazione diquesti obiettivi. Ma l’azione che può svolgere l’Unione Europea, che ècertamente molto importante, è minore rispetto a quella che, “medico

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cura te stesso”, noi dovremmo iniziare. Quindi da questo punto di vistal’appartenenza all’Unione Europea certamente aiuta ma può aiutare solomarginalmente, queste sono cose di casa nostra e dovremmo cercare dimigliorarle innanzitutto e principalmente in casa nostra. Anche per esse-re più efficaci poi nell’azione nei confronti dell’Unione Europea.

Forse sarebbe necessario qualcosa di analogo al controllo di gestione delle azien-de private, ossia meccanismi che rilevino l’andamento del bilancio e i necessariinterventi.

Le risponderò solamente con un dato, perché a volte i dati concreti so-no più importanti di belle teorie. L’organo fondamentale che dovrebbesvolgere in Italia il controllo si chiama Corte dei Conti. Sessant’anni fa laCorte dei Conti era composta per metà di esperti in ragioneria – sono gliesperti di ragioneria che si interessano dei conti – e per metà di giuristi.Sa com’è composta oggi? Per il cento per cento di giuristi. Quindi la Cor-te dei Conti, che dovrebbe fare anche il controllo di gestione, non è com-posta dalle persone adeguate per svolgerlo, molto semplice. Pertantonon c’è il controllo di gestione. Questi sono i fattori più interni di crisidella macchina amministrativa (sui quali non mi sono soffermato perchénaturalmente l’elenco sarebbe stato intorno agli ottanta punti invece chedi otto). Quanti direttori generali del personale dei ministeri sanno qual-cosa sulle tecniche di gestione del personale? Pochissimi. Sanno tutto sututte le norme relative ai trasferimenti del personale ma non sanno direquali sono le tecniche di gestione del personale. E se non si introduconodelle tecniche moderne di gestione del personale, si crea uno squilibriotra personale che lavora in aziende private e personale che lavora nellastruttura pubblica. Nonostante che poi quest’ultima sia oramai regolatadal principio della contrattualizzazione del rapporto di impiego e si par-li di una uniformità di regimi o addirittura di una privatizzazione delrapporto di lavoro pubblicistico con la pubblica amministrazione. Quin-di in realtà nella pubblica amministrazione il controllo di gestione è per-sino previsto da molte norme, ma non si fa per il semplice motivo chenon ci sono le persone capaci di farlo.

Accanto alla problematica della stabilizzazione del governo forse c’è anche quelladi una classe politica, formata in misura rilevante da laureati in legge, che si in-tende di cavilli e li usa per fare leggi incomprensibili ai più e che hanno il fine diproteggere alcune categorie.

La domanda mi pare fondamentalmente rivolta a capire se poi in real-tà questa debolezza amministrativa non sia sostanzialmente dovuta an-

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che alla debolezza parlamentare. La mia risposta è che gli esempi di altriPaesi mostrano che Parlamenti altrettanto deboli – e quando dico debolinon voglio dire che sono poco forti, voglio dire che sono composti dipersone con qualità ed esperienza inferiori alla media – sono largamentecompensati dalla capacità di grandi burocrazie e di grandi strutture am-ministrative capaci di gestire. Il Parlamento inglese è spesso stato com-posto da persone che sono dei puri amateur, ma questo è stato semprecompensato dalla solidità della burocrazia che riesce, grazie anche al-l’azione educativa che svolge, a instradare, contenere, orientare, illumi-nare, controllare persino, per quanto possa sembrare strano, l’azioneparlamentare.

L’instabilità non potrebbe essere semplicemente il riflesso di una instabilità sociale?Io tenderei a rispondere negativamente. Prendiamo i grandi sistemi

che stanno tra lo Stato e la società, che sono la scuola, la sanità, la prote-zione sociale, fondamentalmente le tre gambe dello Stato sociale – stia-mo parlando di milioni di persone, quando parliamo della scuola parlia-mo di un milione, non ho le cifre aggiornate ma circa 700mila insegnantie poi tutto il personale amministrativo; per la sanità parliamo di dimen-sioni leggermente più ridotte; e stiamo raggiungendo quasi 2 milioni; epoi c’è tutto il sistema della protezione sociale che è dato dall’Inps piùtutte le strutture di assistenza sociale e territoriale. Bene, in questi siste-mi abbiamo avuto qualche successo, perché chi poteva pensare nel 1950che saremmo riusciti a creare un Servizio sanitario nazionale, 1978, lalegge 833; e la rete scolastica ha funzionato. Cioè quei punti dello Statoche si appoggiano sulla società, per così dire che appoggiano sulle nostrespalle, siamo riusciti a tenerli, a sostenerli. Sorridendo vi dico l’esperien-za mia di professore universitario: siamo stati noi che abbiamo fatto an-dare avanti l’università che improvvisamente è diventata un’universitàmastodontica. Io sono entrato nelle aule dell’Università di Roma quandomi sono trasferito all’inizio degli anni Ottanta e insegnavo in un’aula checonteneva 50 persone, dopo pochi anni mi sono dovuto trasferire inun’altra che ne conteneva 500, e non le dico la quantità di esami che do-vevo fare, li ho fatti io con le mie forze, nulla di più e non è che sono au-mentati i dipendenti pubblici, c’erano dei bravi ex studenti che prestava-no la loro attività a titolo volontario perché sapevano che io avrei letto iloro lavori, li avrei seguiti nella loro carriera accademica e così via, nonerano neppure pagati, e non è che il mio stipendio sia aumentato. È unesempio personale modesto e vale per quello che vale ma voglio dire:non avete idea di quanti sono le migliaia di insegnanti in Italia che fanno

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fronte a lacune. Io parlo spesso nei licei romani e non avete un’idea diquanti presidi, di quanti insegnanti mi dicono: sa professore, questascuola la stiamo facendo andare avanti noi perché lo Stato non ci dà sol-di, quindi facciamo collette tra le famiglie degli studenti, la carta igienicae il gesso per le lavagne li compriamo con i soldi che raccogliamo noi,quindi noi prendiamo l’iniziativa e ci mettiamo a organizzare queste co-se. Che idea le dà tutto questo? Sono piccolissimi campioni e quindi pos-sono anche portare nella direzione sbagliata, ma la mia impressione èche quei punti dello Stato sotto i quali ci siamo noi in qualche modo fun-zionano, nel senso che ci sono tante persone di buona volontà che sup-pliscono a ciò che non funziona. Vi posso dire del mastodonte che era lamia facoltà a un certo punto, avevamo 8mila iscritti al primo anno, 8milain una facoltà al primo anno, che è un numero massimo di un’intera uni-versità, di tutti gli iscritti in una università americana ad esempio, vi ren-dete conto? In Francia, appena si cominciò a vedere questo con la rifor-ma del 1968, l’università di Parigi, la Sorbona, fu divisa in tredici univer-sità. Noi a Roma abbiamo La Sapienza, Tor Vergata e Roma Tre, poi ci so-no le università private. Questo le dà un’idea della rapidità della rispo-sta del governo francese. Io vado tutti gli anni a far lezioni alla Sorbona ele posso dire che negli ultimi anni prima del ‘68 era un luogo invivibile,sporco, cadente, adesso è un gioiello, perché è solo l’abitazione di unauniversità e mezzo mentre prima ne conteneva l’equivalente di tredici.Ora ci sono tanti altri edifici, Parigi II sta a rue d’Assas e poi si va fino aNanterre con l’Università Parigi XIII. E in Italia invece la lentezza: lentis-simamente Tor Vergata, lentissimamente Roma Tre, e siamo ancora a 3, lìsono a 13. Dall’altra parte invece una buona volontà, una capacità di rea-zione della società, di coloro che sono impegnati e che io riscontro anche,ripeto, nei licei romani, questa capacità dell’amministratore periferico, dichi sta a contatto con le esigenze. Perché poi sono i professori al liceo chesono a contatto, che si preoccupano di fare queste cose, e quindi suppli-scono, naturalmente suppliscono umanamente, come possono, con deisurrogati che sono spesso non in grado di rispondere alle esigenze, al bi-sogno fondamentale, però in qualche modo hanno una forza reattiva.

Riguardo al parere del professore che i tre pilastri scuola sanità e assistenza socialetutto sommato reggono, grazie allo sforzo volontaristico di tanta gente eccellente,si fa osservare che anch’essi presentano problematicità. Scuola: il Rapporto Pisa-Ocse dice che permangono problemi e in particolare c’è un divario enorme traNord e Sud. La sanità registra l’emigrazione degli ammalati dal Sud al Nord. Pernon parlare dell’assistenza sociale e della cassa integrazione, in deroga e “norma-

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le”. Si osserva che la nostra classe dirigente, non solo quella politica, non è all’al-tezza del compito e forse il difetto sta dove quella classe dirigente si doveva forma-re, cioè nella scuola e nelle università, a cui si deve rimettere mano pesantemente.

La sua è la domanda delle domande ed evoca una folla di risposte.Vorrei dividerle in due parti. La prima riguarda quello che ormai si chia-ma il capitale sociale, lei ha evocato le differenze tra Nord e Sud, che esi-stono. Il capitale sociale non è il capitale economico, è la ricchezza dipartecipazione civica, sono le virtù civiche dei cittadini, il numero delleassociazioni, le società di Mutuo Soccorso, le fondazioni, i centri comequesto, e se c’è un divario di capitale sociale è chiaro che c’è minore par-tecipazione civica, quindi c’è minore ricchezza di strutture pubbliche,perché necessariamente alcune di queste si appoggiano sulla società. Econcordo pienamente con la sua diagnosi relativa al differenziale Nord -Sud per scuola, sanità, protezione sociale, assistenza sociale.

La seconda parte della sua domanda: quali possono essere i difetti delsistema scolastico e del sistema universitario. Io credo che ci sia un certonumero di difetti dell’uno e dell’altro. Per quanto riguarda il sistema sco-lastico c’è il problema degli abbandoni e c’è il problema, che il sistemascolastico non ha affrontato, dell’analfabetismo di ritorno, su cui ormaistudi molto approfonditi dimostrano che non si può più dividere la vitadi una persona in età scolare e in età post-scolare, altrimenti si corre il ri-

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schio di un declino delle capacità che si sono acquisite nella scuola e poidi un ritorno allo stato di analfabeti. E credo che ci sia una responsabilitàdell’università, che penso abbia tradito il modello humboldtiano di uni-versità, questo è il vero problema. Von Humboldt, che ha pensato il mo-dello universitario agli inizi dell’Ottocento in Germania, che è quello acui si sono ispirate tutte le università del mondo, pensava che l’universi-tà fosse una comunità di studenti e di studiosi. Le condizioni di questacomunità si sono perdute per il numero degli studenti e per l’incapacitàdei professori di essere veramente professori. Tantissimi miei colleghipensano che fare il professore consista nel fare tre ore di lezione a setti-mana e andare in seduta di laurea, mentre fare il professore vuol direqualcosa di più, fare i tutor, fare i mentori, mentoring e tutoring sono i duetermini più diffusi nelle università americane, quelle poche università incui c’è ancora questo concetto di una comunità di studenti e di studiosi.Quindi certamente c’è stato un “tradimento dei chierici”, per ripetere ilfamoso titolo di un famoso libro francese di tanti anni fa, e tuttavia noncredo che la scuola e l’università siano i principali responsabili di questasituazione. Ci sono responsabilità più diffuse che stanno fuori della scuo-la e dell’università e che riguardano fondamentalmente la classe dirigen-te, che certamente è una classe dirigente debole. Da Gobetti a Dorso aSalvemini sono state scritte tante pagine sulla debolezza della classe diri-gente italiana, tutta la classe dirigente, non solo il settore pubblico ma an-che il settore privato (ma io vi dovevo parlare solo dello Stato oggi).

Quindi concordo con la sua diagnosi, ritengo che ci sia un problemadi differenziale di capitale sociale, penso che vi siano responsabilità dellascuola e dell’università, i cui difetti ritengo che non siano comunque ifattori determinanti che hanno creato questa situazione.

Chi può riformare la burocrazia che sembra più forte anche della politica? Parlare della burocrazia oggi è molto difficile perché sapete che è

composta di una base che è scelta con la stabilizzazione dei precari e diun vertice creato con la precarizzazione dei dirigenti, cioè con lo spoilssystem. Quindi abbiamo una burocrazia che alla base e al vertice è ali-mentata nel modo sbagliato. Al punto basso si dovrebbe giungere me-diante concorsi e a quello alto sulla base di valutazioni comparative ba-sate sull’esperienza lavorativa. Se non si creano queste due condizioni viè un corpo burocratico amorfo come quello attuale. Vada in qualunqueministero, vada a vedere da dove vengono i direttori generali: quello èstato nominato dal governo X, quello è stato nominato dal governo Y,quell’altro è stato nominato dal governo Z, vada a vedere come sono sta-

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ti assunti. Basta vedere il recente provvedimento sull’assunzione dei pre-cari: ci si propone di assumere 150mila persone solamente perché hannoun qualche rapporto, nessuno ha mai verificato chi l’ha costituito, quan-do è stato costituito, perché è stato costituito, per quale scopo. Perché laCostituzione dice che si accede agli uffici pubblici mediante concorsi?Perché i concorsi sono l’unico modo per garantire due cose: primo,l’eguaglianza di tutti i cittadini, perché il concorso pubblico è aperto etutti possono concorrere, quindi si offre a tutti un’opportunità in condi-zioni di eguaglianza; secondo, perché si può misurare il merito. Ora voicapite bene che se invece si è assunti nella pubblica amministrazionenon in base a questi due criteri si violano due principi costituzionali,l’eguaglianza e il merito, e ci si trova un’amministrazione che è mal fun-zionante e quindi finisce per essere solamente fattore di pastoie burocra-tiche, perché la più grande forza dell’amministrazione è quella nell’iner-zia, nel dire no, perché dire no è facile. È necessario impedire l’attivitàimpeditiva dell’amministrazione. Questo quindi io ritengo che sia unfattore grave, ma la gravità deriva da due fatti fondamentali. La purtrop-po continua stabilizzazione di avventizi e precari: dagli inizi del Nove-cento, per più di un secolo ormai, abbiamo avuto continuamente leggiche scrivevano nel primo articolo: “per terminare nella pessima abitudi-ne di stabilire dei precari vengono fatti dei concorsi riservati”, che comeè noto non sono concorsi, “per assumere delle persone”, e ogni volta di-chiaravano che lo si faceva per l’ultima volta. E ci sono state tante ultimevolte, tantissime ultime volte e continuiamo ad avere ultime volte. E poial vertice si introduce, come è stato fatto alla metà degli anni Novantadel XX secolo, lo spoils system. Uno dei più alti funzionari dello Stato al-cuni anni fa mi diceva sorridendo: “ma sa professore, io sono stato no-minato in questa carica – non vi dico quale perché era una carica vera-mente altissima – dodici volte”, chiedo “come mai?”, risposta: “perché ioscado con ogni governo, quindi tutti i governi mi hanno rinominato”. Ioho pensato: “grazie a Dio ti hanno rinominato”, però questo crea unacondizione di precarietà. Quando invece poi non succede ancora di peg-gio, perché quello era almeno uno che aveva vinto un concorso e che sa-peva il suo mestiere, ma può anche arrivare qualcuno che mestiere nonc’è l’ha ma è semplicemente un signore che era amico di un altro signore.

Sabino Cassese. Giurista. Allievo e successivamente docente nella Scuo-la Normale Superiore di Pisa, ha svolto un’intensa attività accademica inItalia (Ancona, Napoli, Roma) e all’estero (fellow del Wilson Center di

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Washington, professeur associé all’Università di Nantes e Parigi, professoralla Hauser Global Law School della New York University). All’attivitàdi docenza ha costantemente affiancato una intensa attività di studio e diricerca nell’ambito di numerose commissioni ministeriali, che spesso hapresieduto. Dal 1987 al 1991 ha fornito un contributo importante al mi-glioramento dell‘amministrazione pubblica europea nella veste di presi-dente dell’European Group of Public Administration. Dal 1993 al 1994 èstato Ministro della Funzione pubblica nel governo tecnico presiedutoda Carlo Azeglio Ciampi. Dal 2005 è membro della Corte Costituzionale.La non comune esperienza amministrativa di Sabino Cassese fa di luil’italiano che sa destreggiarsi meglio nei complessi meandri della nostrapubblica amministrazione.

Della sua vasta produzione scientifica (più di mille tra libri e articoli,di cui un quarto scritti o tradotti in lingue straniere) segnaliamo alcunidei titoli più recenti: Oltre lo Stato (Laterza, 2006), Il mondo nuovo del dirit-to (il Mulino, 2008), I tribunali di Babele (Donzelli, 2009), Il diritto globale(Einaudi, 2009), Lo Stato fascista (il Mulino, 2010), L’Italia: una società senzaStato? (il Mulino, 2011).

Suggerimenti per l’approfondimentoSABINO CASSESE, Governare gli italiani. Storia dello Stato, Bologna, il Mulino,

2014.SABINO CASSESE, L’Italia: una società senza Stato?, Bologna, il Mulino, 2011.EMILIO GENTILE, Né Stato, né nazione. Italiani senza meta, Bari-Roma, Laterza,

2010.STEFANO RODOTÀ, Elogio del moralismo, Bari-Roma, Laterza, 2010.

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SILVANA PATRIARCAFordham University, New York

IL “CARATTERE NAZIONALE”Storia e politica di un’idea

Daniela Rosa

Questa sera, con l’aiuto della professoressa Patriarca, affrontiamo inmaniera più approfondita e specifica il tema del carattere degli italiani.La relatrice però non ce ne parlerà sotto il profilo antropologico, ma faràpiuttosto un’analisi dell’uso politico che è stato fatto di questo discorsosul carattere, dal Risorgimento fino ad oggi. Dal suo libro, intitolato Ita-lianità. La costruzione del carattere nazionale, emerge come questo discorso,per lo più declinato con stereotipi quasi sempre negativi (localismo,mammismo, clientelismo, sfiducia negli altri e così via), sia stato usatocome strumento di lotta politica: se la denuncia dei difetti nell’età risor-gimentale era volta alla costruzione del “nuovo italiano”, in altri mo-

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menti storici è stata usata invece come autogiustificazione, perché “sia-mo fatti così”. Ma fare un discorso sul carattere degli “italiani” in manie-ra indifferenziata, senza distinguere fra classe, cultura, orientamento po-litico (e aggiungerei anche genere), finisce con l’oscurare le differenze eimpedisce di individuare specifiche responsabilità.

Vorrei leggere un breve passo del libro perché mi sembra chiarisca be-ne questo concetto: «Tra coloro che avevano sostenuto il fascismo e chenon avevano mai sconfessato la loro scelta politica, il carattere degli ita-liani era spesso fatto oggetto di disprezzo e di sarcasmo, un modo diesprimere la propria delusione e di coinvolgere tutti in una generalizzataresponsabilità per come erano andate le cose. Ma se erano tutti responsa-bili, nessuno era realmente responsabile. Oltre agli italiani che condivi-devano le responsabilità del regime, c’erano però anche coloro che ave-vano lottato per liberare l’Italia dal fascismo. Oltre a coloro che avevanoatteso passivamente l’arrivo degli Alleati, c’era anche chi era entrato nel-la Resistenza. Dimenticare tutto questo non era solo un insulto a quegliitaliani che avevano pagato di persona, ma anche un modo per minareintenzionalmente la fragile fiducia del Paese nelle nuove istituzioni de-mocratiche». E ancora: «Negli ambienti di destra dell’Italia repubblicanail disprezzo per le istituzioni democratiche si sarebbe sempre accompa-gnato con una visione cinica del popolo italiano». Il discorso sul caratte-re è stato quindi usato anche come arma per denigrare l’avversario.

Nel libro vi è un’ampia disamina del discorso sul carattere degli ita-liani che compare negli scritti di giornalisti importanti come Prezzolini,Longanesi, Montanelli e lo stesso Bocca, ed anche dell’immagine degliitaliani che la cosiddetta “commedia all’italiana” ha ampiamente diffusoanche all’estero. Il libro mette in rilievo come il discorso sul caratteresvolga anche un’importante funzione identitaria, ma mette in guardiasul rischio che si corre facendo un discorso di questo tipo, ossia di noncogliere le novità e le rotture storiche, e questo può diventare oggettiva-mente un freno al cambiamento, un elemento di conservazione. Parlaredegli eterni italiani, far riferimento al carattere come a una categoria sen-za tempo, immutabile, non è, a giudizio dell’autrice, uno strumento vali-do per affrontare e superare la crisi e le sfide che stiamo vivendo.

Silvana Patriarca

Grazie dell’invito, sono felice di essere qui anche perché potrò visitareBergamo che non ho mai visitato finora, ma di cui tutti mi parlano benis-

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simo. Come è già stato detto nell’introduzione da Daniela Rosa, vi parle-rò della storia di un’idea, un’idea che storicamente è parte integrale direidell’identità nazionale, un’idea che in se stessa già segnala l’esistenza diuna coscienza nazionale, almeno da parte di coloro che la usano, e su cuisicuramente ognuno di voi, ognuno di noi, ha un’opinione.

Che cos’è il carattere nazionale? Leggevo di recente le risposte dateda alcuni intellettuali, uomini e donne, intervistati in un’inchiesta sul-l’identità italiana prodotta nell’anno del centocinquantesimo anniversa-rio della fondazione dello Stato. La domanda era generica, chiedeva“qual è, se ritiene che esista, il carattere nazionale italiano”. Vi voglioleggere un paio di risposte. Un intervistato di una trentina d’anni dice:«Il carattere italiano è stato definito una volta per tutte da Pinocchio pri-ma che dalla commedia all’italiana. Sempre incerti se diventare adulti orestare bambini, col comico in perenne agguato sul tragico. Penso chequesto tratto sia immutabile, come immutabile è l’Italia». Io ho trovatosorprendente che una persona di trent’anni abbia questa idea. Un’altrarisposta: «L’italiano è un misto curioso di genio e di furberia, di santità edi disonestà; nei nostri geni si sono sedimentati tutti i grandi oppostidella storia umana, temo, non credo che ciò potrà mutare se non in tem-pi di ere geologiche».2 Addirittura! Questo intervistato appartiene a qua-si un’altra generazione rispetto al precedente. Come si può notare, chiusa l’espressione allude spesso a qualcosa di eterno, sostanzialmente im-mutabile nel bene ma ancora di più direi nel male. Se ne parla al presen-te, cioè si dice gli italiani – oppure l’italiano, notare il singolare maschileche non è esattamente molto rappresentativo – sono fatti così, non cam-biano mai.

Io ho molti dubbi su questa nozione di carattere nazionale (e non solosul fatto che il presunto carattere sia immutabile), anzi diciamo che pro-prio non la condivido. Scientificamente non ha basi, non la si usa più ne-gli studi storici o sociologici per studiare le società e la loro storia perchéè una metafora che trasferisce alla collettività qualcosa che appartiene al-l’individuo. L’individuo ha un carattere, l’individuo ha una personalità;un’intera nazione dubito che possa averli. Io non faccio parte di unascuola di pensiero completamente relativistica, non voglio dire che nonci siano delle specificità culturali che distinguono le società, ma l’espres-sione “carattere nazionale”, o anche “carattere regionale” o “carattere

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2 Vedi “Nuovi argomenti,” no. 53 (gennaio-marzo 2011), pp. 27 e 57. Questo numero dellarivista si intitola “Là dove il sí suona” ed è dedicato a “98 scrittori e 10 domande sull’essereitaliani”.

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cittadino”, è problematica perché è difficile distinguerla dagli stereotipietnici sui popoli. Ci sono migliaia di barzellette su come è il tedesco, co-me è l’inglese, come è l’italiano e così via. Gli studi scientifici che hannocercato di verificare se le percezioni dei caratteri nazionali hanno riscon-tro nella struttura dei tratti e della personalità degli abitanti di nazionidiverse hanno mostrato che questa struttura è molto simile in culturemolto diverse, perché la struttura della personalità degli individui ha de-terminanti genetiche che sono comuni a tutto il genere umano.3

Però secondo me è interessante studiare il carattere nazionale comeidea, come rappresentazione, e constatarne i mutamenti nel tempo (il cheè anche ironico quando si parla di immutabilità!). È quello che faccio nelmio libro: uno studio storico di questa idea, di come questa idea è mutatanegli ultimi due secoli di storia italiana. Il tema del carattere è molto anti-co, si parla di carattere dei popoli già nell’antichità, c’è tutta una storiadel discorso sul carattere italiano anche prima della formazione della na-zione nel Risorgimento, però io comincio da lì perché da qualche parte sideve cominciare e perché è in quel periodo, nel Risorgimento, che il temadel carattere assunse una valenza ideologico-politica (si trattava allora didare una definizione di una nazione o popolo che reclamava uno Stato edi fare dei cittadini) e arrivo fino all’oggi, quando il tema del carattere edell’identità sembra avere grande rilievo. In questi ultimi anni forse me-no, ma quando scrivevo questo libro, leggendo i giornali italiani mi colpi-va come moltissimi editorialisti usassero questo termine; infatti sin daglianni Novanta il tema dell’identità aveva saturato un po’ il discorso pub-blico. Secondo me è molto importante analizzare criticamente questi con-cetti: si tratta di rappresentazioni che hanno un rapporto complesso conla realtà che dovrebbero riflettere. Infatti non sono semplicemente un “ri-flesso” della realtà, sono un’elaborazione problematica di questa realtà, ene fanno parte integrante come tutte le immagini. Gli individui agisconospesso sulla base di immagini di se stessi e degli altri.

Oggi vi voglio illustrare alcune delle idee sul carattere italiano che sisono alternate nel tempo e in particolare sottolinearne gli usi, che vannodalla spiegazione e denuncia di difetti e manchevolezze, all’auto-giusti-ficazione, fino alla funzione identitaria. So che Filippo Focardi vi ha par-lato del mito del bravo italiano come mito identitario: ora anche il di-

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3 Vedi AA.VV., National Character Does Not Reflect Mean Personality Trait Level in 49Cultures, “Science” 310 (2005), pp. 96-100. La conclusione a cui arrivano questi studiosi è che“le percezioni dei caratteri nazionali appaiono essere stereotipi che possono servire a mante-nere una identità nazionale” (p. 96).

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scorso sui vizi può avere una funzione identitaria. Quando si parla di ca-rattere si fa di solito riferimento a un insieme di tratti morali e psicologi-ci, di virtù e di vizi oggettivi che distinguerebbero gli italiani come po-polo. Nello studiare questo discorso, questo ripetersi nel tempo di affer-mazioni sul tema, ho notato particolarmente la presenza che vi assumo-no i vizi, il che mi pare interessante per capire la specificità della coscien-za nazionale italiana fin dalle sue origini risorgimentali (nella versioneinglese del libro, che è uscito in contemporanea all’edizione italiana, il ti-tolo fa riferimento appunto a questa tematica dei vizi). Si deve notare – equi apro una parentesi – che il lemma “carattere” non ha lo stesso signi-ficato di identità, termine che usiamo di solito per far riferimento aun’idea di appartenenza, al riconoscersi in una particolare collettività. Iltermine identità era in origine usato dagli psicologi che lo applicavanoagli individui; l’uso di identità con riferimento a una collettività è recen-te, lo troviamo a partire dagli anni Sessanta-Settanta, almeno negli StatiUniti. L’idea del carattere nazionale, come ho detto, è più antica, maspesso le due nozioni vengono usate in maniera intercambiabile, non ne-cessariamente quando si usa uno dei due termini si parla di una cosa econ l’altro di un’altra, spesso si parla della stessa cosa. E comunque an-che quando si parla di identità si parla di auto-immagini, di idee di sé.

Storicamente in Italia il discorso del carattere nazionale è stato certa-mente anche un esercizio di auto-definizione in positivo: pensate a Gio-berti, che nel Primato morale e civile degli italiani ne esalta la civiltà, ne no-ta le origini etniche distinte e fa un gran panegirico dell’importanza del-la civiltà italiana nella cultura europea. Però, oltre ad avere questa fun-zione identitaria su cui ritornerò, è stato secondo me soprattutto un lin-guaggio di denuncia dei loro difetti come popolo. Ad esempio, per tor-nare al Risorgimento, Cesare Balbo, l’autore de Le speranze d’Italia, diceche gli italiani che vivevano allora erano degenerati rispetto a quelli cheerano stati un tempo, perché secoli di assoggettamento al dominio stra-niero li avevano resi dipendenti, “effeminati.” Il tòpos dell’effeminatezzaitaliana era molto presente negli scritti dei patrioti risorgimentali ed an-che naturalmente all’estero, c’era un dialogo tra le immagini che aveva-no degli italiani i non italiani e le immagini che avevano gli italiani di sestessi – o almeno del popolo italiano. A causa di questa lunga storia diassoggettamento, gli italiani erano diventati servili e il Risorgimentoavrebbe dovuto produrre la rigenerazione degli italiani. I patrioti accusa-vano soprattutto le classi dirigenti aristocratiche di essere oziose ed “ef-feminate,” le volevano più decise, più virili, più produttive specialmentee più combattive, sull’esempio inglese.

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Ma la denuncia dell’ozio non scomparve neanche dopo l’Unità. Aquesto punto era l’ozio soprattutto delle classi popolari, che venivano vi-ste come inadeguate alle sfide che il nuovo Stato si trovava ad affrontare,inadeguate alla sfida della modernizzazione industriale, della competi-zione economica: il cattolicesimo le aveva rese molto fataliste, passive, emancava l’idea del self made man. Ma anche sotto il profilo della cittadi-nanza, in questi testi post-unitari si diceva ad esempio che pochi di colo-ro che avevano il diritto di voto lo esercitavano e prevaleva in generequella che Francesco De Santis definisce la mentalità dell’“uomo delGuicciardini”. In contrasto a Machiavelli, l’uomo del Guicciardini è tuttoorientato verso l’interesse privato piuttosto che verso l’interesse colletti-vo. Quindi anche dopo l’Unità rimaneva molto da fare per trasformaregli italiani in veri cittadini, e questo era del resto il significato vero delfamoso detto di D’Azeglio “ora che è fatta l’Italia dobbiamo fare gli ita-liani” – in realtà non usò esattamente queste parole, piuttosto lamentavache gli italiani non si stessero facendo; non si preoccupava della mancan-za di omogeneità culturale, diceva che gli italiani non esistevano comecittadini, erano esistiti fino ad allora come sudditi e quindi non avevanoun senso di dovere nei confronti della collettività.

È interessante notare come la problematica dell’ozio in qualche modoesca di scena negli anni Ottanta-Novanta dell’Ottocento e si affermiun’altra visione di quello che è il difetto principale degli italiani: l’italia-no come popolo estremamente individualista al punto da essere anarchi-co, incapace di organizzarsi, molto indisciplinato. Questa visione è ilpunto di vista di certi membri dell’élite alla fine dell’Ottocento, quandoin realtà i lavoratori cominciano a organizzarsi, entrano nel movimentosocialista e anarchico, sono protagonisti delle lotte di quel periodo. Tral‘altro l’immagine dell’italiano molto individualista, declinata però insenso positivo, era presente già nella storiografia culturale degli anniSessanta dell’Ottocento; lo storico svizzero Jacob Burckhardt sostenevache gli italiani avevano inventato l’individualismo moderno e lo dicevain senso positivo perché per lui era una cosa molto positiva. Gli osserva-tori italiani di quel periodo, come il napoletano Pasquale Turiello, autoredi un famoso trattato, Governo e governati in Italia, pubblicato all’iniziodegli anni Ottanta, sottolineavano invece gli aspetti negativi dell’indivi-dualismo, definendolo estremo. Turiello era un sostenitore, tra l’altro,dell’avventura coloniale italiana, voleva un esecutivo più forte, argo-mentando questa necessità con il fatto che il sistema parlamentare nonera adatto a un popolo dalla natura troppo meridionale, “sciolto” e indi-sciplinato: se gli italiani volevano contare nel mondo delle nazioni, nella

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competizione imperiale, dovevano diventare più disciplinati. Gli anniOttanta e Novanta dell’Ottocento sono anche gli anni in cui si sviluppal’antropologia italiana. È un’antropologia soprattutto fisica che usa ilconcetto di razza: le nazioni sono agglomerati razziali con certe caratteri-stiche fisiche e psicologiche. Il siciliano Giuseppe Sergi sviluppa proprioin quegli anni l’idea della “razza mediterranea”, molto più numerosa alSud, ma presente anche altrove, e nota come sia decaduta sviluppandodei tratti psicologici molto negativi per la società nel suo insieme. Sonoanche quelli gli anni delle teorizzazioni sul declino, la decadenza dellenazioni latine e l’ascesa di quelle anglosassoni: dopo la sconfitta dellaFrancia nella guerra con la Germania del 1870, dopo la sconfitta dell’Ita-lia nella guerra coloniale in Etiopia nel 1896, la sconfitta della Spagna nelconfronto imperialistico con gli Stati Uniti nel 1898, si diffonde l’idea chele “razze latine” abbiano dei problemi notevoli, e l’idea del carattere ser-ve allora a spiegare queste sconfitte dei Paesi latini nello scacchiere inter-nazionale. Quindi vediamo questa nuova declinazione, questa nuovaidea dei difetti del carattere italiano e un uso politico di questo concettoadattato al nuovo contesto storico di competizione imperialistica.

Le idee di Turiello tra l’altro continuano a circolare anche nel nuovosecolo: Turiello è molto importante come trait d’union tra il nazionalismoche si sviluppa alla fine dell’Ottocento e il nazionalismo dell’Associazio-ne Nazionale Italiana di Corradini che confluirà nel fascismo. È il nazio-nalismo più aggressivo, che vuole soprattutto la rivincita dopo la scon-fitta di Adua. Le idee di Turiello circolano nel periodo giolittiano quandoil Primo Ministro piemontese viene attaccato da nuovi intellettuali cherifiutano la sua politica, e la politica democratica in genere, specialmentele aperture di Giolitti ai socialisti riformisti e al movimento operaio, espingono per la guerra come uno strumento di rigenerazione, ma anchedi disciplinamento del corpo sociale. È in questo contesto che vediamoad esempio l’opera dei vociani, di Giuseppe Prezzolini, uno dei più atti-vi elaboratori dell’idea di un carattere italiano nel XX secolo. Prezzoliniinsiste sugli italiani indisciplinati, gli italiani di Caporetto che non vo-gliono combattere, un popolo arretrato, pieno di difetti dal punto di vi-sta politico-militare. Prezzolini è stato enormemente influente nella cul-tura italiana, specialmente nel giornalismo perché è il maestro di Monta-nelli e Montanelli ha avuto un effetto molto importante nel cristallizzarequesta idea a livello popolare.

Questa idea dell’estremo individualismo italiano persiste anche du-rante il fascismo, nonostante il fatto che il fascismo ponga una forte enfa-si, come sappiamo, sui tratti positivi dell’italiano, dell’identità nazionale

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e anche del carattere nazionale, in funzione identitaria. Il fascismo enfa-tizza l’idea di superiorità culturale, che comunque era già emersa in pre-cedenza, con Vincenzo Cuoco alla fine del Settecento e poi con Gioberti,insomma l’idea del primato culturale degli italiani c’era già, però il fasci-smo la estremizza. Tutti ben conosciamo la retorica fascista sul popolo disanti e di navigatori. Allo stesso tempo però Mussolini e i fascisti aveva-no molti dubbi, evidentemente gli italiani erano lontani da questa perfe-zione se Mussolini li voleva rifare. Anche i fascisti avevano un progettodi rigenerazione degli italiani. E come li volevano rifare? Più disciplinati,più “maschi” – c’è sempre un elemento di genere in questo discorso: giànel Risorgimento troviamo un’enfasi sulla mascolinità virile, e l’idealedel fascismo è il maschio italiano ipervirile e militarizzato, con un sensoforte della propria presunta superiorità culturale e razziale, uno dei mo-tivi per cui il regime invade l’Etiopia, per costruire l’impero e il carattereimperiale dell’italiano. Una storia che si conclude con le vergognose leg-gi razziali che espellevano gli italiani di religione ebraica dalla nazione,dopo tutta una campagna in cui gli ebrei erano stati rappresentati comeun gruppo che ha uno spirito borghese contrario al fascismo fino a esse-re in ultimo definiti non di “razza” italiana, anzi, non di razza ariana, vi-sto che gli italiani vennero definiti come tali. Alla fine di questa traietto-ria c’è il disastro della Seconda guerra mondiale, una guerra voluta daMussolini che diventa da subito una serie di sconfitte che il dittatore cer-ca di spiegare con il carattere degli italiani, che non sarebbe stato trasfor-mato abbastanza, gli italiani rimanendo quelli di sempre: imbelli, inca-paci di battersi.

Vorrei sottolineare di nuovo la declinazione razziale dell’idea di ca-rattere che emerge alla fine dell’Ottocento e diventa dominante con il fa-scismo. Razza e carattere erano profondamente legati e vi leggo un brevepasso da uno scritto di Julius Evola, uno dei teorici più estremi del fasci-smo, che uscì su “Carattere”, una rivista pubblicata negli anni dellaguerra. Si tratta di un articolo del dicembre del 1941, quando ormai lesconfitte si erano accumulate, in cui si dice che l’uomo nuovo del fasci-smo era ancora lungi dall’essere creato, perché «la sua enucleazione èostacolata dalla presenza di componenti etniche sospette, inclinazionicaotiche ed anarchiche, di tare del carattere, di atavismi sfavorevoli». Ec-co qui ricomparire la razza mediterranea, meridionale, un po’ africanadell’antropologo Giuseppe Sergi, nonché qualche idea lombrosiana. Nelgergo giornalistico odierno, si direbbe che il “Dna” degli italiani ha unatara. Riflettiamo sul nesso tra l’idea di carattere e questa metafora moltofisica che si usa spesso.

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La questione che complica tutto questo discorso è che comunquel’idea del carattere degli italiani si può trovare anche in altre aree politi-che, non solo a destra, non solo tra i conservatori. Anche se non è decli-nata con questo senso molto fisico, razziale, la si trova tra i liberali ancheradicali, come ad esempio Piero Gobetti. Il giovane torinese, fondatoredella rivista “La Rivoluzione Liberale”, nella sua breve vita – morì a soli26 anni – vide un nesso tra carattere nazionale e origine del fascismo eanche Gramsci nei suoi scritti giovanili fece riferimento a questo nessotra il carattere nazionale e il fascismo. Il carattere italiano era visto comeil prodotto di una realtà arretrata, come il prodotto del fatto che il Risor-gimento non era riuscito a creare un rinnovamento, non era stato una ve-ra rivoluzione. E il popolo non aveva davvero contrastato l’ascesa del fa-scismo perché in fondo era attratto da un personaggio così superficiale,così teatrante come Mussolini. Quindi il fascismo veniva interpretato daGobetti come l’“autobiografia della nazione”, il risultato di tante man-canze della storia italiana. C’è qui anche una visione direi antropologicadell’eterno popolo italiano ed è una visione che non aiuta a comprende-re, come ha anche notato Pier Giorgio Zunino, la pericolosa novità delfascismo.4

È vero che non tutti i liberali utilizzavano queste categorie. Croce adesempio criticava l’idea del carattere nazionale, del carattere di un popo-lo: durante la Prima guerra mondiale, quando molti denigravano i tede-schi, li definivano unni, un’orda di barbari, lui, che aveva rispetto per lacultura tedesca, diceva: no, non esiste questa idea del carattere di un po-polo, è una falsità, una generalizzazione. Eppure proprio lui, subito do-po il crollo del fascismo, si inventò l’idea del fascismo come una “paren-tesi” della storia italiana e cercò di deflettere tutte le colpe sui tedeschi esulla loro specificità come popolo. Quindi anche lui in qualche modocontribuì ad assolvere gli italiani – e con loro se stesso – per il sostegnodato al fascismo.

A proposito di auto-assoluzione: non è un caso che l’idea degli italiani“brava gente” diventi dominante proprio alla fine della Seconda guerramondiale, quando gli italiani vogliono dimenticare in fretta di essere en-trati in guerra dalla parte degli aggressori nazisti e preferiscono vedersicome vittime. Ovviamente divennero anche vittime, però all‘inizio eranogli aggressori. Molti nelle file moderate, come pure in quelle comuniste,erano impegnati a costruire l’immagine buona degli italiani. Qualcuno

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4 PIER GIORGIO ZUNINO, Interpretazione e memoria del fascismo. Gli anni del regime, Roma-Bari,Laterza, 2000, p. 6.

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ha detto che questa era una bugia necessaria che gli italiani si dovevanodire per costruire il nuovo regime democratico. È possibile, anche se hoqualche dubbio. Comunque la sua funzione auto-assolutoria è molto evi-dente (non voglio soffermarmi ulteriormente su questo perché avete giàsentito Focardi, che ne parla anche nel suo libro).

La fine della guerra è anche il periodo in cui ci sono i reduci del fasci-smo come Leo Longanesi, che si riferisce ai suoi compatrioti con moltodisprezzo chiamandoli un popolo di pusillanimi, il cui motto è: «ho fa-miglia». Era il punto di vista di un nazionalista frustrato, di un fascistadeluso che non voleva però riconoscere di essere stato dalla parte sba-gliata e accusava gli italiani di non avere sostenuto il fascismo fino infondo. Era però anche un modo per denigrare il nuovo Stato, la nuovademocrazia che si stava formando.

E arriviamo agli anni Cinquanta, arriviamo a Sordi, quindi accanto al-l’auto-stereotipo positivo della brava gente emerge anche la figura assaipiù negativa dell’italiano medio ritratto da Alberto Sordi, di nuovo vile epusillanime, nonché mammone. Il “mammismo” – un termine nuovodegli anni Cinquanta – è una metafora della dipendenza, adatta all’Italiadegli anni Cinquanta che in qualche modo è diventata cliente degli StatiUniti, quindi c’è anche una dimensione internazionale. È anche il simbo-lo di una ritornante “effeminatezza” degli italiani, non più virili come livoleva il fascismo, ma dediti all’amore, latin lover. Tutte queste immaginiche si producono in quegli anni non sono necessariamente critiche per-ché c’è sempre anche un po’ di auto-compiacimento. E infatti a questopunto, con il discredito in cui cade il nazionalismo dopo il disastro dellaSeconda guerra mondiale, non ci sono più progetti di rifare gli italiani.L’italiano è quel che è – sembra essere il messaggio – e bisogna un po’rassegnarsi. Emerge proprio, secondo me, in questo periodo l’idea chegli italiani “sono fatti così”, e questa è francamente una filosofia dellostatus quo, una visione conservatrice, disincantata e direi anche cinica fat-ta propria e propagandata da personaggi diversi del mondo della cultu-ra. E qui sottolineerei il ruolo dei giornalisti: c’è sempre di mezzo Prez-zolini – che ha una lunga vita e quindi ha scritto per tutto il Novecento –e ci sono però anche quelli che traducono in maniera filmica, e quindimolto più potente, l’immagine dell’italiano, che sono appunto gli autoridella commedia all’italiana e tra questi Ennio Flaiano che scrisse diversicopioni di questi film forgiando quello stereotipo dell’italiano rappre-sentato dai personaggi di Sordi.

Due parole ancora su Prezzolini: nel dopoguerra da un lato era moltocritico della Repubblica antifascista e sosteneva che in realtà gli italiani

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sono un popolo che non è predisposto alla democrazia e al liberalismo,queste sono cose adatte ai francesi o agli inglesi, noi le abbiamo importa-te, e lo diceva non in modo sarcastico, lo diceva anche per denigrare l’an-tifascismo, perché lui era anti-antifascista. Dall’altro lato, mentre facevaquesto discorso sugli italiani come popolo incapace di essere democraticodiceva anche: però sono buoni, sono tolleranti, sono un popolo non guer-rafondaio né antisemita. È quantomeno strano fare quest’affermazionesolo pochi anni dopo le leggi razziali, dopo essere entrati come aggressoriin una guerra di cui non c’era necessità. E poi in Prezzolini c’era sempretutta l’esaltazione nazionalista della civiltà italiana già notata prima, lagrande civiltà dell’Italia, che esisteva prima ancora che diventasse unoStato nazionale, una civiltà che ha espresso valori universali. È da notareanche che queste affermazioni si accompagnavano a generalizzazioni ditipo veramente razzista che contrapponevano la civiltà molto attiva deglieuropei a quella di popoli non europei. Degli asiatici diceva che avevanouno spirito ascetico e non erano capaci di creare; dei neri diceva che era-no pigri. L’ho già fatto notare, ma vorrei sottolinearlo di nuovo: questi so-no intellettuali che si sono formati durante il fascismo, che hanno contri-buito a creare la cultura di quel periodo e a loro volta ne sono stati in-fluenzati, quindi la Repubblica del dopoguerra si nutre della prosa dipersonaggi che non si sono mai veramente defascistizzati né decolonizza-

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Giuliano Mazzoleni, Silvana Patriarca, Daniela Rosa.

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ti nella mentalità, sono ancora lì che scrivono le stesse cose. C’è una gran-de continuità: essi diventano gli opinion makers del periodo repubblicanoe sono molto produttivi di idee su come sono gli italiani.

Alcuni di questi auto-stereotipi italiani si trovano poi anche negli am-bienti azionisti del dopoguerra. Questa è la cosa che mi preoccupa di più,cioè che questo discorso ha anche una declinazione di sinistra. Ci sononaturalmente delle differenze, però a volte la prosa di Giorgio Bocca, perfare un esempio, ha molto in comune con la prosa di Montanelli. È veroche Montanelli e altri spargono disincanto e cinismo volontariamente, in-tenzionalmente, mentre chi pratica la versione di sinistra del discorso delcarattere finisce magari solo e involontariamente a spargere della rasse-gnazione, ma ciò non va trascurato: se crediamo che “siamo fatti così” sa-rà molto difficile cambiare. È rischioso usare questo discorso come de-nuncia; non funziona bene, secondo me, come denuncia. Tra l’altro Boccaspesso usa riferimenti agli scritti di Prezzolini, di Longanesi, c’è un’inter-testualità tra questi vari scritti e quindi strutture e motivi simili. Per que-sto a me sembra che sia difficile non riconoscere l’egemonia su questo ti-po di discorso che ha avuto la destra. Si parla spesso degli anni della pri-ma Repubblica come un periodo in cui la sinistra è stata egemone in Ita-lia, ma in realtà questo tipo di discorso ha un’altra origine.

Per avviarmi a concludere questa carrellata, voglio fare ora solo alcu-ne osservazioni sul periodo più vicino a noi, dove c’è questa saturazionedi discorsi sull’identità. Gli anni di tangentopoli e della transizione, chesembra non finire mai, verso una “normalità” che sembra irraggiungibi-le, hanno consacrato il grande ritorno del tema del carattere. Siamo alladisperata ricerca di una spiegazione del perché c’è tanta corruzione nelnostro Paese e perché ci sono anche tante cosiddette anomalie nel nostrosistema politico. Quindi il carattere è di nuovo diventato la spiegazioneuniversale, quella che un altro bravo storico del pensiero italiano con-temporaneo, Luca La Rovere, ha chiamato la spiegazione passepartout, laspiegazione che serve a spiegare tutto.5

Vi si è infine anche aggiunta la declinazione leghista che, oltre a sca-gliarsi contro Roma e il Sud, proclamava – e ancora proclama – la supe-riorità del Nord. Ricordo che, in occasione delle celebrazioni dedicate aGaribaldi nel 2007, un ideologo della Lega pubblicò un libro6 in cui Gari-

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5 LUCA LA ROVERE, L’eredità del fascismo. Gli intellettuali, i giovani e la transizione al postfascismo,1943-1948, Torino, Bollati Boringhieri, 2008.

6 GILBERTO ONETO, L’iperitaliano. Eroe o cialtrone? Biografia senza censure di Giuseppe Garibaldi,Rimini, Il Cerchio, 2006.

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baldi sembrava un po’ Sordi, cioè un concentrato dei difetti peggiori de-gli italiani, da cui però i leghisti si vogliono differenziare perché in qual-che modo non si considerano veramente italiani. Ma anche l’immagina-rio leghista è stato modellato dalla cultura cinematografica e televisivaitaliana in cui Sordi ha avuto un grande ruolo.

Sempre in questi ultimi anni, il carattere nazionale ha acquistato an-che una funzione identitaria: parlare del carattere ha come scopo il raf-forzare l’idea che siamo un popolo. E mi voglio riferire a una pubblica-zione di un altro docente che mi ha preceduto, Aldo Schiavone, che pro-prio un paio di anni fa, alla fine del 2011, al termine di tutto il ciclo di ce-lebrazioni per l’Unità, con Ernesto Galli della Loggia ha pubblicato un li-bretto dal titolo Pensare l’Italia, una conversazione che è una specie di ri-flessione/bilancio sul centocinquantesimo anniversario dell’unificazio-ne. Nel capitolo intitolato “Antropologia italiana” la conversazione siconcentra sui tratti, sulle predisposizioni morali e psicologiche del popo-lo italiano e mentre Schiavone sottolinea gli effetti negativi prodotti sullamoralità degli italiani dalla Chiesa controriformistica, Galli della Loggiainsiste sul fatto che l’Italia non ha avuto una monarchia nazionale di lun-go periodo, come la Francia e l’Inghilterra, che abbia instillato negli ita-liani un senso dello Stato, e che questo pertanto ancora manca in Italia.Non voglio discutere questa posizione, ma voglio notare che Galli dellaLoggia, dopo avere osservato che il carattere nazionale italiano più chealtro è uno specchio di opinioni di stranieri e che in realtà ci sono dei ca-ratteri regionali ma il carattere italiano non esiste, fa una strana afferma-zione, che vi leggo: «Dobbiamo mantenere fermo che, nonostante tutto,si possa parlare di un carattere nazionale degli italiani, che questo carat-tere esista realmente», dopo aver detto che in realtà è uno specchio de-formante! E continua: «C’è pur sempre un tratto comune di fondo, fruttodi una storia che per molti aspetti ci ha diviso ma che ancora di più ci hauniti: oltre che in comuni, decisivi orientamenti culturali e ideali, in unasensibilità d’animo, in una declinazione di sentimenti, in una predisposi-zione emotiva che restano tutt’oggi le nostre»7. È un’affermazione impe-gnativa e va notato il contrasto tra l’idea del carattere nazionale comespecchio deformante e l’idea del carattere nazionale come imperativo,qualcosa in cui gli italiani devono credere per preservare la nazione intempi di declino e di nuove sfide. Insieme a questo imperativo c’èun’esplicita definizione di identità nazionale come orientamento cultura-le derivante da un passato comune, ma anche da un modo di sentire, un

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7 ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA e ALDO SCHIAVONE, Pensare l’Italia, Torino, Einaudi, 2011, p. 81.

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insieme di predisposizioni emotive condivise da una popolazione. Direiuna visione piuttosto romantica, romanticizzata anche, dell’identità, checi riconduce a quella concezione etno-culturale della nazione che prevaleancora in Italia (e che spiega in parte anche il razzismo che c’è oggi nelnostro Paese), cioè una concezione del popolo italiano come un’entitàfissa, con certi tratti, con certe predisposizioni, eccetera. Io interpretoquesta enfasi corrente sull’antropologia italiana, anche quando ne accen-tua i tratti più problematici, come il segno di una paura di perdita diidentità nel mondo della globalizzazione, la paura che se non riconoscia-mo l’esistenza di questi tratti rischiamo di indebolire una identità che ègià fragile, quindi ci aggrappiamo a questo eterno carattere come a unmarchio di identità per crederci, per rafforzare il senso di essere una na-zione. Come strategia discorsiva fa sicuramente parte del bagaglio ideo-logico dell’idea di nazione, coniugata in un senso culturale: siamo spe-ciali, siamo unici, sia in senso positivo sia in senso negativo.

Mi pare che la funzione identitaria del discorso del carattere naziona-le sia stata particolarmente preminente negli ultimi anni e soprattutto inoccasione delle celebrazioni dell’anniversario nel 2011, quando tutto ciòche poteva essere descritto come tratto nazionale o caratteristico è statoutilizzato per sottolineare e rivendicare l’Unità del Paese, persino ap-punto l’idea dei vizi italiani. Per esempio “la Repubblica” nel marzo del2011 chiese ai suoi lettori di scegliere da una lista quei luoghi comuni checonsideravano come indicativi di qualcosa originariamente e tipicamen-te italiano, per completare quello che il quotidiano definiva, come si facon i vini, “italiano doc”. La lista di opzioni era la seguente: arrangiarsi -brava gente - Casanova - dolce vita - dritto, nel senso di furbo - Fantozzi- fesso - Gattopardo - gestualità - mafia - mamma - mandolino - Pinoc-chio - pizza - polentone - Pulcinella - qualunquismo - tangente - terrone -vitellone. Una bella lista! Il termine più votato fu “arte di arrangiarsi”(che è tra l’altro il titolo di un film degli anni Sessanta) seguito subitodalla mafia. Questa naturalmente non è un’indagine scientifica, perchériguarda solo quei lettori de “la Repubblica” che hanno scelto di rispon-dere, però è interessante la somiglianza con indagini più scientifiche. Adesempio la rivista “Limes”, che è stata molto interessata al tema del-l’identità nazionale e ha fatto parecchi sondaggi negli ultimi anni (ha co-minciato a pubblicare all’inizio degli anni Novanta), in un numero del2009 pubblicava i risultati di un sondaggio fatto da sociologi che cerca-vano di verificare il senso di appartenenza nazionale attraverso la do-manda sui tratti del carattere che, guarda caso, coincidono molto conquelli che aveva scelto “la Repubblica”. Sono un po’ più seri, perché qui

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i tratti sono: attaccamento alla famiglia - arte di arrangiarsi - patrimonioartistico - creatività - tradizione cattolica e così via, ma anche qui in que-sto campione più scientifico l’arte di arrangiarsi è tra i tratti più popola-ri. Questi sono sondaggi che vogliono misurare quanto sia forte l’idea diun sé nazionale tra il popolo italiano. L’interiorizzazione di queste carat-teristiche rappresenterebbe una forma di coscienza nazionale.

Chiediamoci che cosa vuol dire fare questo tipo di domande quandola popolazione dell’Italia sta cambiando, in seguito all’immigrazione, econtiene un numero crescente di persone che non sono nate nel nostroPaese. Non hanno forse queste domande un significato piuttosto esclusi-vo e un effetto escludente? Specialmente in una situazione in cui, secon-do le leggi del nostro Stato, anche chi nasce in questo Paese da personeche non sono cittadini non viene riconosciuto come cittadino/a e, anchese ha frequentato le scuole italiane, deve fare una domanda per la citta-dinanza a 18 anni e sottoporla alla discrezionalità dell’amministrazionestatale. Forse una concezione culturale del “chi siamo” è esattamentequello di cui molti italiani hanno bisogno o vogliono sentire in questocontesto di cambiamento rapido e di immigrazione, cioè riaffermare ap-punto una differenza. Ed è forse proprio per questo motivo che ci si ag-grappa ancora a questa idea di carattere nazionale. L’asserzione identita-ria del carattere nazionale è fortemente visibile a destra. Sui giornali del-la destra, molti giornalisti sono continuamente impegnati a sviluppareuna visione dell’italianità basata sull’idea di superiorità culturale. Unnoto opinionista lamentava di recente la “dannata” tendenza degli italia-ni a auto-denigrarsi e invitava i suoi lettori a “ricordarsi” che la loro sto-ria e cultura invece ne farebbero un popolo “superiore,” superiore dalpunto di vista estetico e storico, anche quando in altre aree, in altre sferedi attività non lo sono. In maniera complementare, l’antropologa IdaMagli, sempre sullo stesso giornale, sosteneva che la cultura cristiana ela cultura musulmana sono essenzialmente diverse, non possono coesi-stere. Si tratta di discorsi pericolosi, che non si possono dissociare poidalla violenza che vediamo espressa oggi spesso nei confronti di mino-ranze etniche.

Da tutto questo emerge che quando si parla di carattere nazionale avolte si fanno delle osservazioni innocue, un innocente esercizio di cita-zioni di luoghi comuni (siamo il popolo dell’arte di arrangiarsi e cose delgenere), ma più spesso si fa o si partecipa a un’operazione politica, di cuisecondo me bisogna essere molto consapevoli. È un’idea che ha avutomolti usi, che da un lato ha permesso di denunciare i mali del Paese maha anche permesso, e continua a permettere, di spostare le proprie re-

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sponsabilità su qualcun altro. Gaetano Salvemini già nel 1947 notavaquesto uso: la scusa del “siamo fatti così” veniva utilizzata dai politicidella Repubblica post-fascista per giustificare le loro decisioni spessomolto opinabili. Si possono fare molte analogie con l’oggi. Proprio perquesti motivi, se vogliamo richiamare l’attenzione sulla responsabilitàcollettiva, è meglio servirsi di altri concetti, abbiamo bisogno di un voca-bolario più preciso perché questa idea di carattere è monolitica, semplici-stica e basata su un determinismo storico-culturale che in realtà secondome nasconde anche un determinismo quasi razziale, genetico. Pensate alcontinuo ricorrere della metafora del Dna: “è nel nostro Dna”. Ma cosac’è esattamente nel nostro Dna? Dobbiamo insomma pensare alle impli-cazioni del linguaggio che usiamo. Io penso che per essere efficaci la de-nuncia e l’autocritica devono evitare la metafora del carattere, perché in-vece di elevare le aspettative le abbassano. Ha detto bene di recente il so-ciologo Paolo Ceri quando ha notato che una cosa è l’autocritica che alzail livello delle aspettative, altra cosa è l’autocritica che tiene basso o addi-rittura abbassa il livello delle aspettative. Si potrebbe proporre, comeesempio di diversa articolazione del discorso del carattere, l’idea ameri-cana del vivere all’altezza dei tratti migliori del proprio carattere nazio-nale. Tuttavia, se non si riescono a trovare dei tratti significativamentepositivi o ad accordarsi su quali siano questi tratti, è difficile adottare

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questa retorica e secondo me questa è una delle ragioni per cui è megliolasciar perdere il discorso del carattere nazionale, oppure di nuovo esse-re ben consapevoli di cosa facciamo quando lo usiamo. Allo stesso tem-po, abbiamo visto che l’idea di carattere nazionale è anche servita nelpassato, e serve ancora, a scopi identitari, è il residuo di un periodo direlativa omogeneità culturale, e anche in questo caso è molto problema-tica, specialmente direi oggi con una popolazione che si sta diversifican-do parecchio, può avere un effetto molto esclusivista.

Voglio concludere citando uno dei più acuti pensatori italiani del No-vecento, Antonio Gramsci, che una volta ha notato che il processo storicoha depositato in noi un’infinità di tracce senza lasciare un inventario. Ec-co: un inventario storico del modo in cui gli italiani si sono visti e perce-piti nel tempo ci può servire a distanziarci da luoghi comuni che ci fac-ciamo di noi stessi e a cercare categorie e spiegazioni più precise e piùutili per capire l’origine dei problemi della nostra società e per identifica-re precise responsabilità personali e collettive. Grazie.

La professoressa Patriarca risponde alle domande del pubblico

È stata studiata l’influenza del cattolicesimo sull’identità italiana?Sì. Sicuramente avete sentito uno dei precedenti relatori in questo ci-

clo parlare dell’influenza del cattolicesimo sull’identità italiana. Studiscientifici di tipo antropologico sicuramente ce ne sono, e anche di tipostorico. Mi viene in mente uno studio storico-antropologico di alcuni an-ni fa che sottolineava il forte imprint culturale che ha la Chiesa cattolicain Italia, e questa non è una cosa che io contesterei. Qualcuno direbbeche il cattolicesimo ci ricorda sempre che il potere sbaglia e che c’è unpotere superiore, quindi il cattolicesimo non ha aiutato l’identificazionedegli italiani con il potere civile perché si presenta sempre come un’auto-rità superiore al potere civile. È la tesi di Schiavone. Quando guardoquello che succede in Italia molto spesso mi dico che in effetti intuitiva-mente sembra molto vero, però poi quando penso a studi molto ben fon-dati, con una metodologia che permetta una verifica per il lungo perio-do, non mi vengono in mente veramente degli studi specifici che mi ab-biano convinto. Evidentemente anche la Chiesa è tra le classi dirigentiche formano l’opinione morale, le idee dei cittadini, il potere ecclesiasti-co è sempre stato molto importante nel nostro Paese e quindi chiaramen-te ha formato delle mentalità. Di nuovo lasciamo perdere il discorso sulcarattere, ma le mentalità, i modi di vedere, i modi di relazionarsi con il

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potere sono stati sicuramente modellati dalla presenza della Chiesa cat-tolica, tutte le autorità danno degli esempi, che sono seguiti o non sonoseguiti, ma sono forti, sono lì. Non contesto questo imprint che magari al-tre società cattoliche non hanno avuto; gli storici hanno discusso questaquestione: la Francia ad esempio è un Paese cattolico però ha avuto unastoria diversa, ha fatto anche la rivoluzione, la Spagna pure ha avutodelle rivolte, una storia di conflitti con la Chiesa molto forti. In Italia sìc’è stato anche un conflitto nel periodo liberale, però è un conflitto chepoi il fascismo ha chiuso, come sappiamo, con i Patti Lateranensi, il Con-cordato, che dà un ruolo molto importante alla Chiesa. Durante il perio-do liberale dopo un iniziale e forte contrasto tra Chiesa e Stato c’è statapoi una convergenza progressiva che il fascismo ha formalizzato. Sicura-mente è una presenza molto forte, però io qui non discuto questo tipo dimentalità ma il modo in cui si parla del nostro carattere nazionale, nonquindi delle formazioni di tipo culturale o di mentalità, per usare un ter-mine che usano antropologi e storici.

Nessuno ha mai fatto una grande riflessione sulla mancanza di quei valori mo-rali e civili che ci facciano pensare che in fondo questa piccola striscia di terrache avanza nel centro del Mediterraneo deve pure avere una missione, anche inomaggio al suo passato. Forse non siamo mai riusciti a capire qual è il nostroruolo e qual è il modo con cui gli italiani possono ancora dare e dire qualche cosanel mondo di oggi globalizzato.

Per poter giustificare la nostra esistenza come popolo dobbiamo dav-vero avere una missione? Missione è un termine che troviamo in Mazzi-ni, che certo non pensava a missioni civilizzatrici del tipo che emergonopoi nel periodo imperialista, quando il suo pensiero venne travisato pergiustificare il colonialismo. Quindi missione è un termine ambiguo cheio non vorrei utilizzare. Certo vogliamo trovare degli elementi positivi, enella nostra identità come nazione ce ne sono, e secondo me possono es-sere degli elementi che vengono dalla Costituzione. Se devo scegliere untipo di patriottismo scelgo il patriottismo costituzionale e dico che la no-stra è una buona Costituzione: nonostante tutte le critiche che sono statefatte, ci sono degli elementi validi, dei valori di tipo civico che gli italianidovrebbero abbracciare. E in un periodo come questo, in cui appunto stavenendo meno la presunta omogeneità etnico-culturale della popolazio-ne italiana, si può creare o ricreare questa unità mancante attorno a deivalori comuni, dei valori civico-politici. Ma l’idea di missione è per metroppo ambigua, le si possono applicare dei significati molto diversi equesto è quello che è stato fatto storicamente: l’idea di missione in senso

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democratico che aveva in mente Mazzini viene travisata, si potrebbe di-scutere fino a che punto, ma insomma viene poi trasformata in qualcosache è il suo contrario, che è in realtà l’imposizione del dominio di unPaese che si considerava superiore per civilizzazione a popoli che veni-vano definiti “primitivi,” in Africa e così via. Se proprio vogliamo unamissione per il presente, magari possiamo cercare di dare un esempiomeno negativo di quello che è stato dato negli ultimi anni: da metà deglianni Novanta c’è stato un declino tremendo nella percezione dell’Italia, eforse questo già sarebbe positivo, vale a dire ridare all’Italia un’immagi-ne un po’ più rispettata all’estero.

Bocca ha condotto per molti decenni una rubrica su “l’Espresso” che aveva a ti-tolo L’antitaliano e oggi quella rubrica è condotta da Roberto Saviano, quindida un interprete assolutamente contemporaneo, anche giovane generazional-mente, dell’italianità, che viene letto all’estero e che descrive un tratto dell’ita-lianità, quello del rapporto con la giustizia.

Ha mai considerato Pasolini come un italiano che veicola un modello di ita-lianità assolutamente scomodo, assolutamente anti-italiano?

Per quanto riguarda la domanda sull’anti-italiano: si tratta di una for-mazione che si trova dentro al discorso del carattere italiano: gli arci-ita-liani contro gli anti-italiani sono due modalità di discorso che a voltecoesistono nello stesso individuo. Non so esattamente perché dal 1981“l’Espresso” decide di intitolare la rubrica di Bocca L’antitaliano (prima sichiamava Il cittadino e lo Stato), però si potrebbe notare che dagli anni Ot-tanta si comincia a pensare di più all’identità, mentre prima si parlava diclassi, di scontri di altro tipo; negli anni Ottanta e ancor di più nei No-vanta l’ossessione identitaria diventa molto presente nel nostro Paese. Èinteressante certamente vedere come si mantenga questa terminologiacon Saviano, che continua nell’opera di denuncia, perché in fondo la ru-brica di Bocca è la rubrica della denuncia dei mali dell’Italia. Non so finoa che punto però la prosa di Saviano rifletta quella di Bocca, perché Boc-ca è un uomo nato all’inizio degli anni Venti, è cresciuto durante il fasci-smo, quindi con una serie di imprint culturali che gli vengono da quelperiodo.

Pasolini come modello di antitaliano. Pasolini partecipa molto anchein questo discorso, sebbene non l’abbia inserito nel mio libro, come nonho inserito altri personaggi fondamentali del secondo dopoguerra, Flaia-no, per esempio, che avrebbe dovuto esserci perché è il trait d’union tra ilcinema e il giornalismo, nel senso che ha fatto lo sceneggiatore di moltifilm della commedia all’italiana come i Vitelloni ed altro, e nei suoi scritti

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si trova questa immagine molto disincantata, quasi cinica degli italiani.Pasolini invece è il personaggio che denuncia, si potrebbe di sicuro ana-lizzare il suo discorso sul fascismo, che per molti aspetti è anche moltoproblematico, e inserirlo in questa galleria. Insomma: ne ho lasciati fuorimolti e tra gli esclusi si potrebbero anche menzionare gli scrittori di fic-tion, i narratori italiani che pure hanno contribuito a produrre una certaimmagine degli italiani. Ma questo lo lascio fare ai critici letterari.

Giuliano Mazzoleni

Vorrei in qualche modo difendere quello che stiamo facendo. Il di-scorso di Silvana Patriarca è articolatissimo e dottissimo, e il suo volumeItalianità. La costruzione del carattere nazionale (tra l’altro questa sera ci so-no delle novità rispetto al testo e la ringrazio per questo aggiornamentonon indifferente) è uno dei più bei libri che abbiamo letto nel corso dellanostra ricerca e serve soprattutto per metterci in guardia nei confrontidelle trappole ideologiche che possiamo incontrare nel continuare a por-ci la nostra domanda fatidica. Da questo punto di vista Silvana Patriarcaè stata eccezionale, nel senso che ci ha messo in guardia praticamente sututto, grazie per questo veramente, e il fatto di aver voluto introdurre ilsuo discorso in questo percorso è in fondo da parte nostra il desiderio dimantenere un taglio anche autocritico nei confronti di quello che stiamofacendo. E quello che noi stiamo facendo è, in un’epoca di crisi, chiedercidella fragilità italiana, problematizzarla. Del resto lei ha parlato di speci-ficità culturali che non sono da negare, nelle conclusioni del suo libro ac-cenna di passaggio al senso civico e alla corruzione, e forse si potrebbeaggiungere anche qualcos’altro, dilatare il concetto e problematizzarel’atteggiamento degli italiani nei confronti delle regole e della legalità.Noi procediamo a tentoni in questa ricerca, abbiamo osato chiamarla ri-cerca dell’identità perché è una ricerca di tratti fondamentali del nostromodo di essere, nella speranza di trovare il bandolo della matassa ossiale ragioni della nostra fragilità istituzionale, politica, ma anche economi-ca e sociale, nella quale ci troviamo da vent‘anni. Quindi io credo che lanostra domanda abbia un senso, forse la sua opinione potrebbe essereche anziché chiamarla identità potevamo usare un vocabolario più ag-giornato. Comunque noi crediamo che il discorso sull’uso ideologicodella nozione di carattere nazionale e anche di identità nazionale non fascomparire l’oggetto del problema, e del resto questo onestamente Silva-na Patriarca non l’ha mai sostenuto.

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Silvana Patriarca

Grazie di nuovo a voi perché mi interessa molto partecipare a questodibattito. Il mio punto di vista è proprio questo: usate anche il terminema sappiate che cosa comporta, cioè i rischi che ci sono. Secondo me illinguaggio del carattere non va bene, così anche nel caso dell’identità bi-sogna pensare all’identità come a un progetto, l’identità non è una cosa,non è un’entità concreta, è una serie di immagini che ci facciamo di noistessi, magari un senso di appartenenza a cui vogliamo dare un signifi-cato, ma questo significato lo creiamo noi, non ci viene imposto dal pas-sato. L’identità è un progetto e bisogna stare attenti: quando se ne parlatroppo alla fine si vanno a formare blocchi contrapposti – noi siamo cosìe gli altri sono così – invece di trovare punti di dialogo. Recentementeparlavo con un bravissimo studioso israeliano che mi diceva appuntoche ci sono delle metafore che permettono il dialogo e altre invece che loimpediscono. Per esempio, siciliani e tunisini si scontrano, però quandosi incontrano in certi momenti usano il linguaggio del cuginato: magarinon siamo fratelli, però siamo cugini. Allora pensiamo a delle metaforeche ci aiutano a vivere insieme in un mondo più complesso. L’identitàviene fuori spesso quando si hanno delle paure, però il mondo dellacomplessità si affronta senza questo terrore di perdere qualcosa che èmolto intangibile, bisogna costruire appunto delle idee di noi stessi chesiano inclusive ed essere coscienti che l’identità è sempre un progetto,non è una determinazione che ci deriva dal nostro Dna, perché il Dna c’èa livello individuale, ma gli scienziati hanno mai trovato il Dna del po-polo italiano?

Silvana Patriarca si è laureata in lettere all’Università di Torino e ha con-seguito il dottorato presso la John Hopkins University. Ha intrapreso lacarriera accademica negli Stati Uniti e attualmente insegna Storia euro-pea contemporanea alla Fordham University di New York. Ha pubblica-to saggi in varie riviste italiane, inglesi e americane e nel 2010 ha pubbli-cato presso l’editore Laterza Italianità. La costruzione del caratterenazionale, uno dei testi più interessanti e originali usciti in occasione del150° anniversario dell’Unità d’Italia. Il libro è stato pubblicato quasi incontemporanea in inglese, dalla Cambridge University Press. Nel 2011ha pubblicato Costruire la nazione. La statistica e il Risorgimento, traduzio-ne italiana di un precedente saggio edito dalla Cambridge UniversityPress. Nel 2012 ha pubblicato, in collaborazione con la storica irlandese

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Lucy Riall, un testo sul Risorgimento: The Risorgimento Revisited. Nationa-lism and Culture in Nineteenth-Century Italy.

Attualmente sta esplorando il tema della interazione fra nazione e“razza” e lavorando ad un libro sulla storia del razzismo nell’Italia delsecondo dopoguerra.

Suggerimenti per l’approfondimentoGIULIO BOLLATI, L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione,

Torino, Einaudi, 1983 [1996].LOREDANA SCIOLLA, Italiani. Stereotipi di casa nostra, Bologna, Il Mulino, 1997.ALESSANDRO CAVALLI, Cultura politica, cultura civica e carattere nazionale in:

TOMMASO PADOA-SCHIOPPA, STEPHEN R. GRAUBARD (a cura di), Il casoitaliano 2, Milano, Garzanti, 2001.

SABINO CASSESE (a cura di), Ritratto dell’Italia, Roma-Bari, Laterza, 2001.SILVANA PATRIARCA, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Roma-

Bari, Laterza, 2010.

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ROBERTO CARTOCCIUniversità di Bologna

LA GEOGRAFIA DEL CAPITALE SOCIALE IN ITALIANon solo eredità del passato

Daniela Rosa

L’argomento che questa sera affronterà il prof. Cartocci, La geografiadel capitale sociale. Non solo eredità del passato, ci sta particolarmente a cuo-re e lo riteniamo cruciale nell’economia del ciclo. Il professore focalizze-rà il suo intervento sul tema della scarsità, nel nostro Paese, del senso ci-vico e del suo correlato scientifico che è appunto il capitale sociale intesocome fiducia, senso di obbligazione e di responsabilità verso gli altri everso le istituzioni, solidarietà, partecipazione. Questo è uno dei puntipiù dolenti del nostro essere italiani, perché il capitale sociale è una ri-

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sorsa immateriale indispensabile per una buona qualità della democra-zia, ma è anche una risorsa di cui l’Italia è purtroppo molto carente.

Il professor Cartocci ha trattato questo tema in Mappe del tesoro, un li-bro di piccole dimensioni ma molto denso, uscito nel 2007; da alloraqualcosa è cambiato nel nostro panorama politico, ma il tema è purtrop-po attuale più che mai. Mappe del tesoro si presenta come un aggiorna-mento del famoso (e anche discusso) libro di Robert Putnam Tradizionecivica nelle regioni italiane, pubblicato nel 1993, che metteva in luce la di-seguale dotazione di capitale sociale nelle diverse aree geografiche italia-ne e in particolare tra Nord e Sud: a più di vent’anni di distanza da quel-l’opera i risultati a cui era giunto Putnam vengono riconfermati dall’in-dagine di Cartocci che nell’ultimo capitolo del suo libro usa un’espres-sione forte, e parla di fallimento della Repubblica, che si è dimostrata in-capace di risolvere questo divario fra le due aree dell’Italia. Secondol’autore infatti i maggiori responsabili di questa situazione non sono solole classi dirigenti dell’Italia postunitaria e liberale, ma anche quelle del-l’epoca repubblicana.

L’argomento di questa sera ci sembra particolarmente significativoper le implicazioni etiche derivanti dalla denuncia di questa gravissi-ma carenza di spirito pubblico nel nostro Paese, che mette a rischio ildestino del bene comune. Vorrei leggere solo qualche riga delle pagineconclusive del libro. Scrive Cartocci: «Non abbiamo la secessione alleporte, abbiamo però una priorità politica: risolvere un deficit di integra-zione nazionale. Prima e più del divario economico, il differenziale distock di capitale sociale e di rendimento delle istituzioni si riflette sullaqualità e ampiezza dei diritti sociali garantiti ai cittadini del Nord e delSud. La promessa universalista della cittadinanza democratica vienequotidianamente smentita in quanto la gamma dei diritti dipende inmisura decisiva dalla qualità delle istituzioni.[…] La riduzione delledistanze in termini di dotazione del capitale sociale dovrebbe costituireuna priorità politica evidente». E conclude: «Occorre prendere coscien-za del peso costituito dal nostro tratto culturale fatto di particolarismoe di sfiducia negli altri e nelle istituzioni. Contare sulla capacità di im-provvisare e sull’arte di arrangiarsi è ormai un lusso che non possiamopiù permetterci».

Segnalo che nel libro sono presenti delle appendici quantitative chepermettono di confrontare l’Italia con cinque Paesi della UE; c’è ancheun indice del capitale sociale provincia per provincia, così possiamo ve-dere come si colloca Bergamo (non male, ma certamente non benissimocome ci sarebbe piaciuto).

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ROBERTO CARTOCCI

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Roberto Cartocci

Il capitale sociale come orizzonte di valoriDevo confessare una certa emozione nell’essere nella sede di una So-

cietà di Mutuo Soccorso il cui socio numero uno è stato Giuseppe Gari-baldi. Ho letto un’iscrizione affine a San Casciano Val di Pesa, antico Co-mune del Chianti che ha ospitato Machiavelli esule nella villa dell’Alber-gaccio. In quella lapide, che commemora la locale Società di Mutuo Soc-corso, il richiamo a Machiavelli e quello a Garibaldi si fondono nell’affla-to patriottico che esalta il riscatto e la rinascita dell’Italia. È dunque emo-zionante parlare di capitale sociale in questa sala, cornice quanto maipertinente.

Sono stato allievo di Carlo Tullio-Altan e vorrei spendere due paroleper ricordarlo. È mancato nel 2006, un anno prima che uscisse il mio li-bro Mappe del tesoro. Dire che è stato un grandissimo maestro non è unomaggio ritualistico. L’importanza della sua lezione è dimostrata da tut-to quello che è accaduto in questi ultimi anni. Come spesso accade aquelli che vedono più lontano degli altri, gli è mancato il riconoscimentodel merito di aver segnalato, in tempi non sospetti, i limiti storici del no-stro spirito civico e i pericoli insiti nelle derive degenerative che si eranoinnestate negli anni Settanta e Ottanta nella politica italiana. Valga soloquel meraviglioso libro che è La nostra Italia, uscito nel 1986 e ripubblica-to nel 2000 dalla Casa editrice Egea, che ne aveva colto la persistente at-tualità. Chiunque lo legga può fare un bel percorso nella storia dello spi-rito pubblico italiano e trovare le radici, le ragioni e i protagonisti chehanno alimentato le degenerazioni degli ultimi decenni.

Per parte mia, posso dire che le categorie di Tullio-Altan mi sono stateindispensabili per mettere a fuoco in termini analitici soddisfacenti lanozione di capitale sociale. Infatti uno dei problemi di noi scienziati so-ciali è il vocabolario, nel senso che abbiamo poche parole per veicolaremolti concetti. Per questo assegniamo molti significati diversi a parolecome libertà, democrazia, società, classe sociale, secolarizzazione e cosìvia. Buona parte del dibattito scientifico riguarda il significato delle pa-role, compresa l’espressione “capitale sociale”. In questo quadro le consi-derazioni analitiche di Tullio-Altan continuano a essere indispensabiliper il mio lavoro. Pochi esempi bastano anche per iniziare una discussio-ne sul capitale sociale.

C’è chi dice che il capitale sociale è una risorsa individuale: se io co-nosco il vescovo, il prefetto e il generale dei Carabinieri, ho un più eleva-to capitale sociale rispetto a chi conosce semplicemente il barbiere, il cia-

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La geografia del capitale sociale

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battino e il cappellano. In questa ottica il capitale sociale è la ricchezza direlazioni sociali. Si badi, è una definizione del tutto pertinente – non acaso Bourdieu ne ha fatto uno specifico approfondimento: accanto allericchezze materiali e alle risorse culturali, si può concepire anche unaricchezza di relazioni. Posso chiosare, a questo proposito, che noi italianiabbiamo dei veri e propri termini tecnici in proposito: da ben prima chesi parlasse di capitale sociale sapevamo che disporre di “santi in paradi-so” cui “raccomandarsi” è una risorsa particolarmente utile per risolverei problemi della vita. Come dire: parole nuove per concetti vecchi. Inquesto modo rischia di rimanere scoperta quella accezione, quel signifi-cato del capitale sociale che invece serve per mettere a fuoco il problemadella solidarietà e dello spirito pubblico. Mi è utile richiamare la famosacopertina di un disco dei Pink Floyd, The dark side of the moon, dove com-pare un prisma che separa le diverse lunghezze d’onda fuse nel raggiodi luce bianca prima di attraversare il prisma. Contro la babele linguisti-ca dei molti significati assegnati a pochi termini, a noi scienziati socialiserve un prisma per separare i diversi significati che stanno fusi nella lu-ce bianca.

Per quanto riguarda l’argomento di questo incontro, il primo prismaè il modo in cui Tullio-Altan ha illustrato la complessità della naturaumana. Gli esseri umani, in virtù del loro patrimonio culturale, hannoa disposizione due modalità per conferire senso al mondo: uno è lostrumento del concetto e l’altro è il simbolo. La cultura è fatta di con-cetti e di valori, noi diamo senso al mondo attraverso concetti e attra-verso valori, solo che concetti e valori non sono la stessa cosa. I concettisono quegli strumenti attraverso cui noi prendiamo un distacco dallarealtà e diciamo “questa è una bottiglia, la uso, mi è utile”; il mondodei concetti è quindi il mondo dell’utilità e della oggettivazione. Confe-risco senso al mondo ponendomi come soggetto se e fin quando riescoa riconoscere il mondo come un insieme di oggetti utili, che individuoattingendo al mio patrimonio di concetti. Io mi costituisco fine e uso ilmondo, compresi gli altri esseri umani, per i miei scopi: è il mondo deiconcetti, della razionalità, del calcolo; un mondo nobile, sia chiaro, manon il solo mondo. Infatti accanto ai concetti ci sono i simboli: l’espe-rienza simbolica permette all’essere umano di conferire senso al mon-do in un’altra maniera, esattamente come un vettore diverso. Si esperi-scono processi di identificazione, di annullamento delle distanze e nondi oggettivazione e distacco. È il mondo delle identità collettive, del-l’amore, dell’arte, della religione, delle ideologie. Modi e ambiti diversidella esperienza simbolica in cui io mi costituisco soggetto, trovo un

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senso alla mia esistenza, non usando il mondo ma mettendomi a dispo-sizione di esso identificandomi in un simbolo. L’esperienza simbolica èesattamente l’esperienza che viene indicata dalla etimologia di simbolo,che significa “metto insieme”, due cocci che finiscono per combaciare,annullando le distanze. Come anticipato, ambiti tipici dell’esperienzasimbolica sono la fede religiosa, l’amore e, paradigmatico, il dialogodei mistici con Dio. L’estasi di Santa Teresa d’Avila scolpita da Gianlo-renzo Bernini, che il genio dell’artista tratteggia risaltandone la sensua-lità, è, secondo me, la più efficace icona dell’esperienza simbolica, terri-bile e sublime.

Esperienza simbolica contro esperienza razionale, una messa a puntoa livello micro che funziona da prisma: permette di fare ordine tra lemolte definizioni di capitale sociale e individuare quella che a me serve,ossia quel significato di capitale sociale che prevede, né più né meno, ilsenso di obbligazione individuale nei confronti di un collettivo di cui cisi sente parte. Questa è la prima tappa, che consente di escludere dalladefinizione ogni riferimento a un principio individuale di strumentalità.Si tratta di definire i contorni del collettivo, e qui nasce un secondo livel-lo di approfondimento, che tiene conto del “raggio”, dell’estensione delcollettivo e della sua adeguatezza rispetto alle sfide che deve superare.Mi spiego meglio: il familismo è un tipo di capitale sociale in cui il pro-cesso di identificazione e di corresponsabilità si limita all’intorno mini-mo del proprio nucleo oppure della linea di parentela e di comparaggio;il municipalismo presuppone un confine (territoriale) più ampio, minoretuttavia rispetto al regionalismo. Il nazionalismo, o il patriottismo, sonoorizzonti di capitale sociale relativamente congruenti con il livello istitu-zionale di governo effettivo. Si tratta del punto che ritengo il più rilevan-te per quanto riguarda il caso italiano e in generale il problema dellaqualità della democrazia. A questo livello il capitale sociale costituisce laversione aggiornata del concetto di “nazione”, distinto nettamente daquello di Stato. Ma ci torneremo in seguito.

Naturalmente poi c’è un senso di appartenenza e di obbligazione chetravalica i limiti della nazione, come quando il senso di corresponsabilitàverso gli altri diventa europeismo, oppure un umanesimo che non si po-ne confini, in una prospettiva ecumenica di fratellanza e condivisione. Ilmunicipalismo è, ovviamente, una forma di esperienza simbolica, unidentificarsi con un mondo che ha dei confini, e il confine del municipa-lismo è rispettabile, in un certo senso, sappiamo quanto municipalismoc’è in Italia; il problema è che il municipalismo non è più coerente con ilivelli istituzionali da cui siamo governati. A parte le differenze in termi-

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ni di ampiezza dell’orizzonte della responsabilità e della solidarietà,l’esperienza di tipo simbolico costituisce una risorsa in grado di costrui-re e alimentare integrazione sociale.

Ma anche in questo caso occorre introdurre un approfondimento ana-litico, una distinzione tra forme diverse di capitale sociale. Putnam hadistinto tra capitale sociale bonding e capitale sociale bridging. Il primopuò essere tradotto in italiano come capitale sociale “che serra”. Il verboserrare traduce in italiano i due significati del verbo inglese to bond: en-trambi significano sia chiudere sia stringere i legami (come in “serrare lefila”). Il capitale sociale bridging indica quella forma di responsabilità adampio raggio che si apre all’altro, inclusiva e tollerante. Il capitale socialebonding tende a essere escludente e pone barriere all’altro. Ma tenderei anon porre questa distinzione in termini rigidi. Infatti il lato bonding im-plica non solo chiusura ma anche un rafforzamento dei legami di unacomunità. Al di là di questo, non si può tuttavia negare che il capitale so-ciale presenti dei lati oscuri e ne troviamo un esempio in un libro di Put-nam del 20108: negli Stati Uniti la religione ha un ruolo pubblico impor-tante, del tutto differente da quello che ha in Europa, è una delle fontidel capitale sociale alimentando fratellanza e solidarietà. Ma, affermaPutnam, negli Stati Uniti negli ultimi decenni molte posizioni di intolle-ranza si sono innestate su una base religiosa, come quelle che caratteriz-zano la destra repubblicana dei tea party.

La banalità dei valori e il capitale socialeDetto che il capitale sociale è un processo di natura simbolica, che im-

plica la sfera dei valori, occorre segnalare che questi non sono solo quelliscritti con la maiuscola: “il Vero, il Giusto, il Bello e il Buono”, ma sonotutte quelle rappresentazioni di natura simbolica che ci legano, che ci ob-bligano in qualche misura e che comunque sono del tutto estranee almondo della utilità, della razionalità, dell’uso, dell’oggettivazione. E quitorna utile il Woody Allen del finale del film Manhattan, quando rimanesolo dopo che la sua ragazza ha deciso di andare a Londra a studiare ar-te drammatica. Il protagonista, affranto, giace sul divano nella penombraconsiderando che la sua vita non ha più senso. Un’ulteriore riflessione loporta a stilare una serie di motivi per cui ha senso vivere:

il vecchio Groucho Marx, Joe DiMaggio, il secondo movimento della sinfoniaJupiter, Louis Armstrong che interpreta Potato Head Blues, i film svedesi,L’educazione sentimentale di Flaubert, Marlon Brando, Frank Sinatra, quelle

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8 ROBERT PUTNAM, American Grace: How Religion Divides and Unites Us, 2010.

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incredibili mele e pere dipinte da Cézanne, i gamberi da Sam Woo, il viso di Tra-cy (la ragazza impersonata da Muriel Hemingway, ndr).

Questo repertorio mescola cultura alta e bassa, miti della cultura dimassa e capolavori dell’arte. Come vedete è tutta roba assolutamenteinutile, ma l’aspetto simpatico è che non c’è solo l’alta cultura, Mozart eL’educazione sentimentale, ci sono anche i piani intermedi e i piani bassi, cisono i miti della cultura di massa, Joe DiMaggio, Marlon Brando, FrankSinatra. Dal punto di vista freddamente razionale si tratta di esempi cheesulano dalla sfera dell’utilità immediata ma, e qui sta il punto, contri-buiscono a dare un senso alla nostra vita. Questo repertorio mi pare unottimo esempio della “banalità” dei valori, della loro presenza quotidia-na nella nostra vita e nelle nostre scelte.

Consentitemi un altro esempio per fare un altro passo. Keith Ri-chards, inquieto chitarrista dei Rolling Stones, nella sua autobiografia Li-fe racconta le sue esperienze di bambino cresciuto nella Londra dell’im-mediato dopoguerra: molti convivono con altre famiglie nelle poche casesopravvissute ai bombardamenti tedeschi. Ricorda che all’epoca sua ma-dre Doris era in conflitto con la suocera, una militante laburista che, do-po la guerra, era responsabile del programma di edilizia popolare delsuo Comune. Doris sperava di ottenere una casa più decente, ma la ri-sposta della suocera era stata: «Ma non posso darti la casa, cara Doris,sei mia nuora»9. Dentro questa considerazione di fatto c’è un valore,quello per cui gli obblighi d’ufficio non possono essere piegati a vincolidi parentela. Il modello culturale della nonna di Keith Richards esclude-va la liceità di favori ai parenti. Questo è, secondo me, un esempio cri-stallino della banalità dei valori: non emergono come valori predicati macome valori praticati. Tutti fanno così; ci si aspetta che tutti facciano così!

Se ci riflettiamo, è questa banalità dei valori impliciti che favorisce lafiducia tra i cittadini e nelle istituzioni, secondo la seguente catena: a)esistono regole che presiedono alla soluzione di uno specifico problemacollettivo, b) chi ha la responsabilità delle decisioni si attiene alle regole,c) le decisioni seguono un criterio di priorità pertinente e impersonale, inbase al bisogno oppure al merito. Se regole impersonali vengono piegateper favorire chi non merita oppure chi non ha bisogno, allora le istituzio-ni creano diffidenza tra i cittadini e distruggono il loro credito. Parte lacaccia alla raccomandazione e si distrugge il capitale sociale! Il capitalesociale è quindi un costrutto culturale, fondato su valori condivisi (tal-mente condivisi da non essere proclamati), tale da assicurare condivisio-

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9 KEITH RICHARDS, Life, 2012.

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ne, cooperazione e reciprocità all’interno di un collettivo, nonché lealtà esostegno al relativo assetto istituzionale.

Al capitale sociale viene spesso associata la metafora della rete. Madire reti non basta, devono essere reti buone, in cui circolino produzionee protezione di beni comuni o pubblici. Cioè: non tutte le associazionisono buone, non tutte le reti sociali sono buone, ci sono anche reti socialitossiche. Qualche collega ha parlato anche di capitale sociale della mafia.Sappiamo tutti che la mafia è un’organizzazione efficientissima, la cui ef-ficienza è garantita proprio da una costellazione di valori, ma questi so-no valori di gerarchia, subordinazione, fedeltà personale, violenza –esattamente il contrario di quanto ci aspettiamo in una società libera edemocratica.

Non mi interessa un discorso astratto sul capitale sociale, sui capitalisociali. Mi interessa un capitale sociale che renda più semplice la vita ditutti in una società aperta, democratica e in cui i costi per garantire i di-ritti sono coperti dal senso di obbligazione morale verso gli altri, com-presi gli sconosciuti, e verso le istituzioni che tali diritti garantiscono.Quindi: produzione e protezione di beni pubblici, gratuità dell’impegno,adesione volontaria e naturalmente, dal punto di vista delle reti, un’ar-chitettura orizzontale e non gerarchica. Il capitale sociale non è solo retima, se di reti si tratta, devono essere volontarie, a cui si accede per liberascelta, non per legami familiari o parentali né per trovare protezioni e fa-vori. C’è una importante riflessione, in ambito anglosassone, sulla quali-tà della democrazia che sottolinea l’importanza di questi legami orizzon-tali tra i cittadini; legami pre-politici ma che servono al sostegno dell’ar-chitettura istituzionale democratica. Il termine chiave è “responsabilità”:in queste reti si deve esercitare la responsabilità nei confronti degli altri.Di solito gli studiosi del capitale sociale parlano di fiducia; in realtà la fi-ducia non basta, anzi, la fiducia è in realtà il frutto dell’esercizio della re-sponsabilità. Ovviamente in una società in cui si ritiene che tutti sianoresponsabili, la fiducia è alta, perché tutti possono dare per scontato chele azioni degli altri saranno responsabili. Fra responsabilità e fiducia c’èuna legame stretto ma il motore è la responsabilità. Una responsabilità diampio raggio produce fiducia di ampio raggio. C’è un ridotto rischio difree riders (quelli che viaggiano senza pagare il biglietto); il free rider è ra-ro in una società con elevato capitale sociale perché chi fa il viaggio gra-tis non danneggia solo la società degli autobus ma danneggia tutti, a co-minciare da coloro che sullo stesso autobus pagano il biglietto. Il capitalesociale non sono solo reti, ma anche individui che, fuori dalle reti, si sen-tono responsabili nei confronti degli altri.

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Tutto questo ha attinenza con il senso della nazione? Secondo me sì: èappunto un altro modo per parlare di nazione.

Nella tabella che segue viene rappresentata la sintesi del processo se-colare dello sviluppo politico in Europa che si può distinguere in quattrotappe: formazione dello Stato, costruzione della nazione, democratizza-zione, welfare State.

Come si vede, prima viene lo Stato e poi viene la nazione, secondo unprocesso di tipo top down: la nazione si forma per opera dello Stato, an-che se – di solito – noi italiani, che siamo stati gli ultimi a creare uno Sta-to unitario, tendiamo a pensare che prima sia nata la nazione e poi loStato. Quanto ai diritti, ve ne sono di tre tipi: diritti civili, diritti politici ediritti sociali. Alla formazione dello Stato corrisponde la fase che si chia-ma “Stato di diritto”, col riconoscimento di alcuni diritti civili, per esem-pio quello a non essere torturati. Poi su questo corpo di diritti civili si in-nestano i diritti politici, la libertà di associazione, di pensiero, l’organiz-zazione di partiti politici, la partecipazione alle elezioni e così via, e adessi corrisponde lo Stato democratico. I diritti sociali sono gli ultimi chearrivano e sono i diritti del welfare State, diritto all’istruzione, alla saluteecc. Abbattere una barriera architettonica vuol dire allargare l’area dellacittadinanza, garantire un diritto sociale a un cittadino o una cittadinasvantaggiata. Bene: un contrappeso a questo processo di atomizzazioneè la costruzione della nazione, che è una fase dello schema ma anche unprocesso sempre in corso; costruire lo Stato non finisce mai, lo sappiamobene noi italiani che ogni tanto ci troviamo a dover ricostruire un pezzodi Stato. Ma anche la costruzione della nazione non finisce mai, il cantie-re della nazione non finisce mai perché la storia è un’alternanza di fasi didistruzione e fasi di costruzione della nazione.

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LO SVILUPPO POLITICO EUROPEO SECONDO LA CORRISPONDENZA TRA LE CATEGORIEANALITICHE DI T. MARSHALL E DI S. ROKKAN

T. MARSHALL(CITTADINANZA E CLASSE SOCIALE)

S. ROKKAN(STATO, NAZIONE E DEMOCRAZIA IN EUROPA)

Fasi dell’estensione dei diritti di cittadinanza

Fasi dell sviluppo politico

Diritti civili (tribunali)

Diritti politici (parlamento)

Diritti sociali (scuola e welfare state)

Formazione dello StatoCostruzione della nazione

Democratizzazione – Abbassamento della sogliadella rappresentanza politica

Welfare state

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Il capitale sociale e i costi della cittadinanza democratica Che cosa c’entra tutto questo con il capitale sociale? C’entra, perché il

capitale sociale, definito come corresponsabilità nei confronti degli altri,è pienamente riconducibile alla categoria analitica della costruzione del-la nazione, ne è l’equivalente aggiornato agli equilibri di oggi. Quelli diuna società democratica, libera e molto generosa nell’offrire coperture diwelfare, quindi molto costosa. I costi della cittadinanza sono molto eleva-ti, soprattutto con l‘estensione dei diritti sociali. I diritti politici costanorelativamente poco, di solito. Per inciso: l’attuale polemica relativa ai co-sti della casta attesta che la nostra democrazia è molto insoddisfacente,con inevitabili ricadute negative sul nostro stock di capitale sociale. In li-nea generale quelli che costano sono i diritti sociali. La scuola, le pensio-ni, la sanità, tutto questo costa, e allora da qualche parte ci deve essereuna obbligazione, che non può essere fornita solo dallo Stato, perché loStato può fornire semplicemente la repressione, la repressione della fro-de, la repressione dell’evasione fiscale, la repressione del furto, ma è sulpiano della costruzione della nazione che si deve supplire ai costi dellacittadinanza e si deve arginare quella deriva atomista che è implicita neidiritti individuali. I diritti individuali rendono ogni singolo soggetto au-tonomo da tutti gli altri: questa è una grande conquista del pensiero eu-ropeo, noi siamo individui autonomi, in quanto individui totalmente do-tati di diritti. Ma questa condizione atomista potrebbe distruggere la so-cietà se non esistesse una forza in senso contrario costituita dal capitalesociale, inteso come senso civico, responsabilità e obbligazione morale.

Putnam nel suo libro sulle tradizioni civiche delle regioni italiane10

ha provato a misurare il capitale sociale, dopodiché molte altre ricerchesono seguite, quantificando quello che Tullio-Altan aveva tratteggiatocon considerazioni di tipo analitico e storico in La nostra Italia. Esisteadesso tutta una serie di ricerche che “misurano” il capitale sociale neidiversi Paesi, e noi scopriamo di esserne piuttosto poveri. È una nostraspecificità questa carenza, siamo tra le persone che hanno meno fiducianegli altri, siamo gli europei che hanno meno fiducia nella democrazia.Sono peraltro ben presenti i segni di questa mancanza di civicness: bastipensare a come vengono trattati gli spazi pubblici rispetto agli spaziprivati. Pensate a quel quotidiano esperimento sociale che è la fermatadell’autobus, in cui la coda neppure si forma. Banalità quotidiane cheattestano la debolezza del senso di responsabilità collettivo. Sullo stessopiano ma a livello macro, i problemi sono debito pubblico ed evasione

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10 ROBERT PUTNAM, La tradizione civica nelle regioni italiane, 1993.

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fiscale. Il debito pubblico è un esercizio di irresponsabilità perché fa pa-gare i costi dei benefici a chi non c’era quando il debito è stato contratto,cioè a quelli che oggi hanno meno di trent’anni. L’evasione fiscale è unmacroscopico esercizio di free riding. In entrambi i casi operiamo unesercizio di scissione, perché vogliamo tutto e il contrario di tutto: servi-zi efficienti, pensioni generose e contemporaneamente riduzione delletasse. Un analogo esercizio di irresponsabilità avviene nella percezionedei limiti della classe politica. La nozione di “casta”, richiamata anchein precedenza, ha avuto successo poiché consente una bella razionaliz-zazione auto-assolutoria: la colpa è tutta loro, noi non c’entriamo nien-te, siamo vittime.

Due Italie del capitale socialeIn termini comparati possiamo dire che il capitale sociale in Italia è

più basso che nella media di quasi tutti gli altri Paesi europei. Quellicon più elevato capitale sociale sono regolarmente quelli nordici, scan-dinavi in particolare. Se poi andiamo a vedere la qualità della democra-zia scopriamo che la dotazione di capitale sociale e la qualità della de-mocrazia tendono a coincidere, in virtù di un processo di causalità cir-colare.

Il quadro italiano è ancora più complicato dal fatto che, prevedibil-mente, le Italie sono almeno due: il caso italiano è caratterizzato da unaprofonda spaccatura tra Nord e Sud anche su questo piano. Spaccaturache già Putnam aveva rilevato studiando la qualità delle istituzioni re-gionali, e si era reso conto di quanto fossero lontane le regioni del Nordda quelle del Sud dal punto di vista della qualità dei servizi, della effi-cienza delle istituzioni e soprattutto del capitale sociale. Putnam ragionasulla qualità delle istituzioni regionali, e si accorge che un conto è viverein Emilia Romagna e un conto è vivere in Calabria, anche a causa dellaben diversa qualità delle amministrazioni regionali. Che cos’è che incidesul funzionamento delle istituzioni? Putnam confuta la risposta marxista– perché il Sud è povero e il Nord è ricco – provando che alla fine del-l’Ottocento l’Emilia Romagna e la Calabria avevano lo stesso reddito,bassissimo, ma in Emilia c’erano le Società di Mutuo Soccorso e i sinda-cati, in Calabria no. Conclusione: dove c’era miseria ma anche capitalesociale la società è riuscita a diventare ricca, dove c’era miseria e manca-va il capitale sociale la miseria è rimasta. Le sue ricostruzioni delle radicistoriche sono state molto criticate dagli studiosi italiani, che tuttavia nonsono stati in grado di dare spiegazioni alternative persuasive, prescin-dendo dalla dimensione culturale.

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Figura 1. La civic community nelle regioni italiane (1980).Fonte: R. PUTNAM, La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano,Mondadori, 1993.

Più civica

Media

Meno civica

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La ricerca sul capitale sociale che Putnam ha fatto con le regioni io hoprovato a replicarla a livello delle province. Nella pagina precedentel’immagine della ricerca di Putnam, che rappresenta la civic communitynel 1980; le regioni scure sono quelle con il massimo di capitale sociale,quelle bianche con il minimo di capitale sociale. Le regioni del Centro-nord, in particolare la Toscana, l’Emilia e anche il Trentino-Alto Adige,sono ai primi posti, agli ultimi posti la Campania e la Calabria. Nel 1870c’era più o meno la stessa frattura: Emilia-Romagna e Lombardia sonoquelle che hanno maggior capitale sociale così come si poteva rilevare al-la fine dell’Ottocento; quindi il capitale sociale della fine dell’Ottocentoinfluisce sul capitale sociale degli anni Settanta/Ottanta del Novecento,e influisce direttamente sulle performance istituzionali. Lo schema fonda-mentalmente non lascia speranze: il Sud è figlio di un’altra storia e nonpotrà che essere così.

Per parte mia, ho fatto nuove analisi con alcuni degli indicatori cheaveva usato Putnam, con dati raccolti fra il 1999 e il 2001. Nella figurache segue (figura 2, pag. 160) è riportata la diffusione dei quotidiani, conuna divaricazione molto sensibile fra Nord e Sud.

Anticipo l’obiezione: nel Mezzogiorno il reddito è inferiore. Vero, nelMezzogiorno nelle situazioni più compromesse i redditi sono la metà oun terzo rispetto alle ricche province del Nord, ma la lettura di giornali èda cinque a dieci volte più bassa.

Per la partecipazione elettorale invece i valori sono più vicini, si passadal massimo di Bologna, 68,2, al minimo di Agrigento, pari a più dellametà: 37,4. Ho usato tutte le elezioni che si sono tenute nel triennio, com-presi i due referendum, uno nel ‘99 che aboliva la quota proporzionaledel mattarellum, che fu invalidato per la mancanza di poche migliaia divoti (poi si scoprì che quelle poche migliaia di elettori non esistevano,perché erano rimasti iscritti nelle anagrafi per incuria), e uno sulla modi-fica costituzionale del titolo V, voluta dal centrosinistra. Nel 2001 si sonosvolte le elezioni europee e quelle politiche. Mettendo insieme tutte que-ste votazioni risulta un valore medio di partecipazione per ciascuna pro-vincia. Come si vede nella figura 3 (pag. 161) i valori più alti si concen-trano nelle province cosiddette rosse dove c’è una tradizione di parteci-pazione elettorale molto più forte che altrove. Emerge comunque un sen-sibile differenziale tra Nord e Sud.

Donatori e donazioni di sangue (figura 4, pag. 163) rappresentanouna sorta di nucleo del capitale sociale, il dono di una parte di sé a sco-nosciuti mosso da una precisa obbligazione verso gli altri. I valori più al-ti riguardano sempre il Centro-nord, con la bellissima eccezione di Ragu-

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Figura 2. Numero di copie di quotidiani diffuse ogni 1.000 abitanti.

17,94 – 39,06

39,06 – 63,72

63,72 – 86,15

86,15 – 110,44

110,44 – 175,43

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Figura 3. Affluenza media alle urne su 100 elettori (1999-2001).

37,4 – 47,7

47,7 – 52,3

52,3 – 57,4

57,4 – 59,8

59,8 – 68,2

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sa, che è prima per numero di donatori. Ho approfondito questo recenteesperimento di costruzione di capitale sociale. Il caso di Ragusa richiamacomunque, anche in questo caso, antiche radici storiche. La Contea diModica – quella che noi adesso chiamiamo provincia di Ragusa – dal1500 si distingue dal resto della Sicilia perché non c’è il latifondo: c’è sta-ta una riforma agraria fatta dal conte di Modica, appunto, che ha favori-to la nascita di piccoli coltivatori e poi, come dice Francesco Barone nelbel libro L’oro di Busacca, è stata “benedetta dai terremoti”, paradosso chemette in evidenza gli effetti perversi di queste calamità. I terremoti pro-ducono danni e morti, ma i sopravvissuti si adoperano non solo per rico-struire ma anche in opere di solidarietà per gli orfani e coloro che sonorimasti senza casa. Esiste così una tradizione di confraternite che ha ali-mentato nei secoli il capitale sociale. Poi c’è Matera che ha anch’essa unasua tradizione particolare.

La diffusione delle società sportive (figura 5, pag. 164) è anch’essauno degli indicatori usati da Putnam e conferma il divario Nord-Sud.

La figura 6 (pag. 165) contiene l’indice finale di dotazione del capitalesociale. Devo dire che su questo indice finale pesa molto la partecipazio-ne elettorale, per motivi tecnici che non sto a raccontare. Ho provato a ri-fare l’indice in un’altra maniera per rendere meno pesante la partecipa-zione elettorale e in effetti Bologna non è più prima, ma ai primi posti cisono Piacenza, Parma, Trieste e Bolzano, poi arriva Bologna; ma il pro-blema vero è che le prime posizioni se le giocano sempre lassù e la sepa-razione tra Nord e Sud viene sempre confermata, con ovvi riflessi sulrendimento delle istituzioni, come ad esempio la quota di raccolta diffe-renziata.

A mio parere non ha ragione Putnam nel sostenere che le cose sonostate così sempre e saranno così sempre, perché ci sono stati dei processiin cui la dotazione di capitale sociale e la qualità delle istituzioni hannofatto passi avanti, hanno ridotto il differenziale Nord-Sud. Sicuramente èfalsa la posizione neoborbonica, emersa anche in occasione delle celebra-zioni dei centocinquant’anni dell’Unità, secondo cui il Mezzogiorno almomento dell’Unità era più ricco e più industrializzato del Nord ed èstato rovinato dalla conquista piemontese. A parte la sfera economica (sucui le ricerche più serie concordano nel segnalare un differenziale di red-dito pro-capite a favore del Nord) basta prendere in considerazione iltasso di alfabetizzazione e la diffusione delle Società di Mutuo Soccorsoe delle opere pie prima dell’Unità per eliminare ogni dubbio sul fatto cheil Mezzogiorno sia arrivato dentro l’unificazione in condizioni più svan-taggiate rispetto al Nord.

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Figura 4. Numero di donatori di sangue ogni 1.000 abitanti.

8,8 – 17,6

17,6 – 21,9

21,9 – 25,9

25,9 – 30,6

30,6 – 55,7

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Figura 5. Numero di società sportive ogni 1.000 abitanti.

0,70 – 1,69

1,69 – 2,20

2,20 – 2,47

2,47 – 2,78

2,78 – 3,90

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Figura 6. Indice finale di dotazione del capitale sociale.

-6,43 – -3,54

-3,54 – -0,27

-0,27 – 1,20

1,20 – 2,59

2,59 – 5,47

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A parte queste considerazioni di tipo genetico, più interessante è osser-vare che nella storia italiana ci sono poi state delle fasi alterne. L’epoca gio-littiana è una specie di età d’oro dell’Italia del Centro-nord, soprattutto deltriangolo industriale: nasce la grande industria, si rafforzano i sindacati.Ma a ragione Salvemini ha definito Giolitti “il ministro della malavita”.Per le debolezze politiche del Regno, i liberali erano di fatto più una co-stellazione di club (consorterie) che un partito, e Giolitti usava come forzaparlamentare i deputati meridionali che, grazie al controllo del Ministerodell’Interno, riusciva a far eleggere; quindi è vero che a sud del GariglianoGiolitti era un ministro della malavita, che utilizzava questo consenso perpromuovere le riforme nel Centro-nord. Quindi l’età giolittiana, che è l’etàdel decollo del Nord, l’età dell’ingresso dei socialisti nella dinamica politi-ca, nel Mezzogiorno ha avuto tutto un altro sapore.

Il periodo fascista invece costituisce una fase di segno opposto: nelNord è repressione delle reti orizzontali costruite dai partiti di massa.dai sindacati, dalle cooperative e così via; nel Mezzogiorno le reti oriz-zontali non c’erano, c’erano reti verticali clientelari e mancava lo Stato,il fascismo usa queste reti verticali (i notabili diventano segretari delFascio e podestà), ma porta per la prima volta lo Stato con i consultoridell’Onmi, Opera nazionale Maternità e Infanzia, la mobilitazione deiragazzini con la divisa da balilla, il sabato fascista, ecc. Se nel Nord c’èla repressione violenta di una società relativamente libera e pluralista,nel Mezzogiorno per la prima volta arrivano servizi e forme di mobili-tazione di massa. In questo senso, probabilmente, il fascismo è statauna fase di riduzione delle distanze. Nelle campagne certo era cambia-to poco, come Carlo Levi e Cesare Pavese inviati al confino hanno de-scritto, l’autorità tradizionale si era semplicemente rivestita con l’orba-ce, ma nelle città ha voluto dire l’arrivo dello Stato – anche come Statodel welfare.

Un’altra fase cruciale è il modo in cui è finita la guerra, perché nelMezzogiorno della guerra non si sono praticamente accorti, a parte qual-che bombardamento prima del luglio del ‘43, ma poi gli americani sonoarrivati a Cassino e a quel punto “tutti a casa”. Mentre nell’Italia delCentro-nord la guerra continuava e c’era la mobilitazione politica dellaResistenza, nel Mezzogiorno non c’era quel network di organizzazionipolitiche – il fascismo certamente non le aveva fatte nascere – e non c’èstata neanche l’occasione della resistenza, e così già nel ‘44 nasce il Fron-te dell’Uomo Qualunque che diceva: «Basta con queste chiacchiere deipolitici, vogliamo solo una buona amministrazione». L’esito della guerraha finito perciò per ricreare le distanze.

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ROBERTO CARTOCCI

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E poi c’è la fase del dopoguerra, anche quella bizzarramente perversa,perché ci sono stati intellettuali di prim’ordine, come Pasquale Saraceno,Alberto Beneduce, formatisi nell’Iri del fascismo, che hanno fatto l’opera-zione che aveva fatto Roosevelt nella Tennessee Valley, cioè lavori pubblicie intervento speciale per far sviluppare le aree depresse. La Cassa del Mez-zogiorno ha messo molte risorse. Io sono andato a Taranto nel ‘79, invitatodai dirigenti dell’Italsider (si chiamava così all’epoca) per studiare i motiviper cui i tecnici non riuscivano a far funzionare lo stabilimento come piani-ficato ed inoltre avevano il problema di essere rifiutati dalla città. Abbiamoscoperto che i problemi di inquinamento erano percepiti solo dagli abitantidel quartiere Tamburi, investiti dai fumi portati dai venti prevalenti. Il pro-blema stava in un rapporto duplice con l’impresa. L’arrivo dell’Italsider aTaranto aveva voluto dire 20mila stipendi da metalmeccanico turnista, ne-gli anni Settanta fior di stipendi, e questo avrebbe dovuto innescare un pro-cesso virtuoso di sviluppo. Invece le assunzioni sono state fatte in manieraclientelare e quindi senza attenzione a merito e capacità. Per evitare di as-sumere comunisti erano sostanzialmente stati assunti contadini, i quali pe-rò hanno continuato a fare i contadini, riducendo la produttività del lavoro.L’assenza di capitale sociale, cioè l’assenza di reti orizzontali fra pari di co-obbligazione reciproca, ha fatto in modo che il processo di industrializza-zione, invece di essere uno strumento di modernizzazione, sia stato esatta-mente l’opposto, irrobustendo le relazioni politiche clientelari tradizionalidi una quantità di risorse mai vista prima. Questo ha segnato la sorte ditutto l’intervento straordinario nel Mezzogiorno fondato sulla grande in-dustria di Stato. Taranto oggi costituisce un amarissimo monumento al fal-limento del tentativo di sviluppare il Mezzogiorno attraverso la grande in-dustria. Passi verso la modernizzazione della struttura produttiva sono sta-ti fatti, ma certo non è stata sradicata la convinzione che per risolvere i pro-blemi di una famiglia (reddito, salute, casa) la soluzione migliore è avere “ilsanto in paradiso”, il cui intervento beneficia i singoli offrendo beni privaticon risorse pubbliche ma alimenta la sfiducia negli altri e quindi distruggeil capitale sociale.

Il professor Cartocci risponde alle domande del pubblico

Quanto il problema dell’immigrazione influisce sul capitale sociale? L’immigrazione crea insicurezza perché il nuovo e il diverso smenti-

scono il quadro di ciò che è “dato per scontato” e che garantisce le no-stre certezze. La diversità delle lingue e delle abitudini genera insicu-

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La geografia del capitale sociale

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rezza proprio perché rompe gli schemi. Il rischio in questo caso è che sivengano a creare dei nuclei di capitali sociali estranei gli uni agli altri,che potrebbero essere le singole comunità di immigrati. La risposta se-condo me è sempre una sola: dovrebbero essere le istituzioni a governa-re il processo. Se le istituzioni riescono a prevedere forme di integrazio-ne non traumatica o per lo meno morbida degli immigrati è chiaro chequesto riduce i rischi di contrapposizioni. Altrimenti possono rafforzar-si anche forme di capitale sociale bonding. Da qui il buon gioco dei parti-ti populisti di destra che quando arriva l’immigrato cercano di capita-lizzare consenso agitando la minaccia dell’altro: portano via le nostredonne, portano via il nostro lavoro. Questa dinamica è riscontrabile inmolti Paesi, compresi quelli di più antica immigrazione, come Francia ePaesi Bassi.

L’Italia in particolare non ha una precisa politica dell’immigrazione.Subisce in buona parte la sua caratteristica geografica, rinunciando a“scegliere” di privilegiare un certo tipo di immigrazione. Nascono cosìstrutture ambigue e disumane come i Cie, cioè dei luoghi di internamen-to coatto dove non vigono i diritti civili né tanto meno gli altri diritti. Inquesta situazione noi ci troviamo a fare la parte dei cattivi e contempora-neamente dei buoni, perché da una parte abbiamo i Cie e dall’altra sia-mo impegnati a inviare una squadra navale per salvare i profughi chesalpano dalle coste libiche su barconi improbabili. Se ci pensate bene, ilfatto di avere un orientamento così scisso significa che ci manca una mi-nima bussola, quindi l’insicurezza degli italiani rispetto agli immigratinon può che aumentare, perché non sappiamo se li vogliamo o se non livogliamo. Peraltro si tende a dimenticare che gli immigrati sono un capi-tale umano prezioso: giovani e aperti al cambiamento.

Un breve cenno al tema dell’emigrazione interna: uno dei problemidel Mezzogiorno è costituito dalla fuga di coloro che vogliono cambiare.Centocinquant’anni di emigrazione di capitale umano lasciano un terri-torio depauperato anche di capitale sociale. Le possibilità di sviluppoovviamente non possono che essere ridotte dalla fuga dei più giovani edei più aperti al cambiamento.

La crisi del capitale sociale dipende anche dal fatto che rispetto al passato sono ve-nute meno le occasioni di incontro e di contatto tra uno strato sociale e l’altro?

Bisogna distinguere due fenomeni: quello della crescita delle differen-ze sociali, che si trasforma in una segmentazione di pubblici ognuno a séstante, e quello del ritirarsi negli spazi privati. Putnam ha scritto sul de-clino del capitale sociale negli Stati Uniti il volume Bowling Alone, che nel

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titolo richiama il fatto che la gente è sempre più isolata. E fa il caso delpassaggio dagli anni Sessanta, gli anni kennediani del capitale sociale,agli anni Ottanta e Novanta. Una serie di fattori hanno privatizzato le vi-te e ridotto il capitale sociale; per esempio: il trasferimento dai vecchiquartieri ricchi di capitale sociale ai sobborghi: si passano ore in macchi-na, ognuno ascolta la sua radio, e alla fine non c’è più tempo per andarenelle associazioni a fare il volontariato. La televisione in un primo mo-mento ha avuto degli effetti virtuosi, poi ci si mette a guardarla da soli,calano gli inviti a cena degli amici, non si invitano più i bambini compa-gni di scuola a casa. A questa dinamica della privatizzazione del tempo edegli spazi si aggiungono gli effetti del cambiamento economico e dellaglobalizzazione: tendono ad aumentare progressivamente le distanze so-ciali con le differenze di redditi e di stili di consumo. Alla fine abbiamomolti frammenti e per la politica è diventato complicato riunificare ilquadro mediante offerte trasversali di rappresentanza. Nel caso italianoquesto problema di sintesi e rappresentanza politica è poi ulteriormentecomplicato ma è comunque un tratto comune ai Paesi avanzati.

Roberto Cartocci è attualmente professore ordinario di Metodologia del-la Scienza politica all’Università di Bologna. È stato allievo di Carlo Tul-lio-Altan (a cui ha dedicato il libro Mappe del tesoro). A partire dagli studiantropologico-culturali, ha orientato la sua attività di ricerca nel campodei valori e degli atteggiamenti politici. In particolare ha indagato le tra-

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Giuliano Mazzoleni, Roberto Cartocci, Daniela Rosa.

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sformazioni dei partiti, i mutamenti della geografia elettorale, il compor-tamento elettorale, i processi di secolarizzazione in Italia e il capitale so-ciale. Collabora a numerose riviste scientifiche e a progetti di ricerca in-ternazionali.

Fra le sue pubblicazioni, edite dal Mulino, ricordiamo: Fra Lega e Chie-sa (1994), che indaga in che modo queste due realtà hanno cercato disupplire alle carenze delle istituzioni pubbliche dando una risposta al bi-sogno di identità e di integrazione; Diventare grandi in tempi di cinismo,pubblicato nel 2002, un’indagine fra i giovani italiani sulla fiducia nelleistituzioni; Mappe del tesoro. Atlante del capitale sociale in Italia, del 2007,che analizza la distribuzione del capitale sociale nelle centrotrè provinceitaliane. Nel 2011 è uscito Geografia dell’Italia cattolica che contiene un’in-dagine di grande interesse sul processo di secolarizzazione in Italia e suiprofondi mutamenti sociali di questi ultimi decenni, con un indice finaledi secolarizzazione provincia per provincia.

Suggerimenti per l’approfondimentoCARLO TULLIO-ALTAN, La nostra Italia, Milano, Feltrinelli,1986, ripubblicato

nel 2000 da Edit. Egea. ROBERT PUTNAM, La tradizione civica nelle regioni Italiane, Milano, Mondadori,

1993.ARNALDO BAGNASCO, FORTUNATA PISELLI, ALESSANDRO PIZZORNO, CARLO TRIGLIA,

Il capitale sociale. Istruzioni per l’uso, Bologna, il Mulino, 2001.ROBERTO CARTOCCI, Mappe del tesoro. Atlante del capitale sociale in Italia,

Bologna, il Mulino, 2007.PIERPAOLO DONATI, LUIGI TRONCA, Il capitale sociale degli italiani. Le radici

familiari, comunitarie e associative del civismo, Milano, Franco Angeli, 2008.GUIDO DE BLASIO, PAOLO SESTITO, Il capitale sociale. Che cos’è e che cosa spiega,

Roma, Donzelli, 2011.

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ARNALDO BAGNASCOUniversità di Torino

L’IMPRENDITIVITÀ ITALIANASuccessi e limiti

Giuliano Mazzoleni

Questa ricerca dell’identità italiana non si conclude in modo definiti-vo, però alcuni punti fermi li può registrare, alcune rocce si cominciano adistinguere chiaramente sul fondale. Quello che noi diciamo adesso è unpunto solido del percorso fin qui compiuto ma che può essere ripreso edesplorato ulteriormente.

Il tema di oggi conclude un ciclo in cui si sono alternati storici, giuri-sti, politologi, sociologi specialisti, sociologi più generalisti, come Arnal-do Bagnasco. È stato introdotto questo tema particolare per mettere inevidenza un tratto della nostra identità nazionale generalmente ritenutopositivo, uno dei non molti positivi: spesso si dice che gli italiani si san-

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no arrangiare, si danno da fare anche individualmente, sono imprendito-ri, si vede in Italia e si vede anche all’estero. Avvicinandoci un po’ di piùal tema scopriamo che forse anche questo tratto positivo è molto proble-matico.

Arnaldo Bagnasco

1. Un Paese con molti imprenditoriDevo, questa sera, aggiungere un tassello al quadro che si è composto

nel ciclo sull’identità italiana, confrontandomi con uno degli stereotipipiù diffusi, con il quale ci piace immaginarci, perché ha un alone positivo.

Imprenditività è un termine piuttosto elastico: richiama spirito di ini-ziativa, attitudine a darsi da fare, che confina con audacia. In terminimeno nobili richiama l’arte di arrangiarsi. L’estensibilità permette di rife-rirlo a molti caratteri e tipi umani. Quando si pensa ai navigatori e aimercanti del Medioevo e del Rinascimento, agli uomini di cultura co-smopoliti, agli emigranti di tutte le classi sociali, si è portati a pensareche si tratti di caratteri tipicamente italiani. Ma bisogna stare attenti aglischerzi degli stereotipi. Se se ne segue un altro, l’Italia è il Paese del dol-ce far niente, o della dolce vita. Un sinonimo come intraprendenza puòassumere anche una coloritura negativa, che ha a che fare con furbizia escarso rispetto delle regole. Ho fatto questa premessa per dire che cimuoviamo su un terreno malcerto parlando di imprenditività italiana, eche ci sono cose diverse che spesso sono ricondotte senza molto control-lo a una stessa matrice.

Per delimitare un terreno più facilmente trattabile, scelgo nella fami-glia dei possibili sinonimi, imprenditorialità, che si riferisce corrente-mente all’imprenditività economica. Inoltre, farò riferimento alle forme ealle condizioni in cui questa si è manifestata ed è evoluta nel tempo, sen-za dare troppo ascolto dunque a una presunta mentalità di base degliitaliani, che magari pure ci sarà e sarà influente al riguardo, ma che è dif-ficile, se non impossibile, cogliere, e può essere comunque il tema di altriapprocci disciplinari. Il mio punto di vista è considerare come diverse fi-gure sociali attivano il funzionamento dell’economia, come sono trasfor-mate dalla sua evoluzione, in quali vincoli e condizioni operano, fra po-litica e mercato, come istituzioni che dell’economia regolano il funziona-mento, con conseguenze più generali sugli assetti della società.

Ci sarà pure un generale spirito imprenditivo, o un più specifico spi-rito imprenditoriale che da questo deriva, ma il dato da cui partire per

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me è dunque che ci sono molti imprenditori, quindi bisogna vedere chisono, di che tipo, e le condizioni che hanno permesso il loro emergere eche segnano le loro difficoltà. L’imprenditività alla quale mi riferisco co-me caratteristica dell’Italia è dunque quella che si riferisce al dato che nelnostro Paese ci sono molti imprenditori. Non solo: più in generale abbia-mo molti lavoratori indipendenti. Questa è davvero una caratteristicadell’Italia, che cercherò di mettere in prospettiva comparata e storica,perché altrimenti non si capiscono bene le trasformazioni recenti. Taleforte presenza ha anche inciso sul modo di essere della società italiananel suo complesso: a differenza di altri Paesi, un vasto insieme di im-prenditori e lavoratori autonomi ha caratterizzato il ceto medio italianoin un modo specifico. Capire cosa succede di imprenditori e lavoratoriautonomi significa capire una parte importante di come cambia il cetomedio, che è il pilastro centrale della struttura sociale italiana, dove sicolloca il suo baricentro.

Considerando insieme tutti i settori dell’economia, le imprese per1.000 abitanti nel 2009 erano 65 circa in Italia, a fronte di 34 in Francia, 2nel Regno Unito, 25 in Germania. Questo significa anche molte piccoleimprese. Un solo esempio: gli addetti a imprese industriali con meno di50 addetti erano nel 2006 il 65,3%, a fronte del 30,9 della Germania; al la-to opposto della scala, le aziende maggiori, da 250 addetti in su, pesava-no da noi per il 17,5, in Germania per il 46,2. Uno sguardo più in genera-le alla presenza di lavoro indipendente, che comprende gli imprenditori,ci dice che sono il 23% dell’occupazione contro una media europea del14%. Uno su due dei lavoratori con elevate qualifiche professionali,escludendo insegnanti e universitari, è un professionista indipendente, afronte di una media europea di 8,5%. In sostanza, l’Italia è un Paeseavanzato, ma la sua ricchezza si fonda sulla presenza e il contributo dimilioni di piccoli imprenditori, commercianti, professionisti che lavora-no senza padrone. In questo modo, per il bene e per il male, abbiamo ag-ganciato la crescita e adesso fronteggiamo la grande crisi.

Vediamo allora più da vicino come è cambiato l’habitat degli impren-ditori.

2. L’habitat: due periodi di circa trent’anni con un intermezzo

2.1. Un trentennio di grande crescita: l’età del capitalismo organizzatoLe possibilità del capitalismo in cerca di crescita economica e coesione

sociale in un quadro politico democratico sono state sperimentate in mo-di diversi dai sistemi nazionali. Va subito messo in conto che gli anni che

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ora ci interessano sono quelli del capitalismo industriale al suo apogeo,nel quale la grande industria di produzione tiene il centro della scena neiPaesi avanzati. Il fordismo, la grande produzione standardizzata con lasua organizzazione del lavoro, consentiva crescita di produttività, coninvestimenti tecnologici adeguati; il prodotto era destinato a un mercatodel consumo in crescita, ciò che richiedeva salari anch’essi in crescita eragionevoli prospettive di stabilità e prevedibilità dei mercati, come con-dizioni in grado di assicurare remunerazione a un capitale “paziente”quanto ai tempi della sua remunerazione.

È su questo sfondo che si modellava la regolazione per garantire in-sieme sviluppo economico, coesione sociale, democrazia politica. I qua-dri istituzionali della connessione di economia e società in tale prospetti-va sono di solito riassunti come i “grandi compromessi” o “contratti so-ciali” di metà secolo. Il compromesso americano è stato più liberistamentre quello tipico europeo, in diverse varianti, ha previsto una mag-giore regolazione politica. Si può però dire che in entrambi i casi eraesplicita un’intenzione politica di ottenere sentieri di sviluppo, con diffu-sione del benessere e attenzione alla coesione sociale, in un quadro diistituzioni democratiche che si ricostituivano dopo la guerra. Mi soffer-mo qui in particolare sull’Europa dove, in un’economia di mercato, loStato era influente nel regolarlo e anche correggerlo, in certi casi sosti-tuirlo.

Tre sono gli ingredienti fondamentali del modello sociale europeo: – le politiche di spesa dette keynesiane di stabilizzazione e di regola-

zione politica dell’economia in vista del pieno impiego dei fattori dellaproduzione, in particolare del lavoro;

– sistemi importanti di welfare-State per promuovere il benessere deicittadini, ma anche componente finanziaria decisiva per gestire gli equi-libri keynesiani di regolazione;

– forme di regolazione concertata dell’economia, del mercato del la-voro in particolare e del welfare-State, fra governi, rappresentanti di inte-ressi padronali e sindacati di lavoratori.

I tre decenni del dopoguerra furono di grande crescita, e quanto aglieffetti redistributivi basterà ricordare quanto dice un esperto del tema,Maurizio Ferrera: al culmine dell’età del capitalismo organizzato «lastragrande maggioranza, se non la totalità della popolazione era ormaiinclusa in programmi di protezione sociale per tutti i ‘rischi standard’:vecchiaia, invalidità e perdita di un familiare; malattia e infortuni sul la-voro; disoccupazione e familiari a carico; [...] i diritti sociali di cittadi-nanza raggiunsero piena maturità e assunsero la stessa importanza degli

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altri due tipi di diritti (quelli civili e quelli politici) nel plasmare le attesedelle persone e le loro opportunità di vita».

In quel periodo, come dicevo, l’economia industriale giunge al suoapogeo. Grandi imprese con produzione standardizzata ne sono al cen-tro. La regolazione keynesiana funziona, in particolare sostenendo gli in-vestimenti in vista della piena occupazione. Tutti i Paesi avanzati regi-strano una forte crescita, e con loro anche l’Italia che vive un vero mira-colo economico (fra il 1957 e il 1963).

2.2. L’intermezzo degli anni Settanta e la nascita dei distretti industrialiÈ sempre difficile stabilire l’inizio o la causa di una grande trasforma-

zione sociale; nel nostro caso, comunque, lo sfondo è la fine progressivadella società industriale, con la sua economia, le sue istituzioni, la suastruttura di classe, la quale nonostante i conflitti costituiva anche un pos-sibile principio di ordine.

Cresce l’occupazione nei servizi e si ridimensiona quella nell’indu-stria, ora trainata dai settori delle nuove tecnologie, in particolare quelledell’informazione e comunicazione. Si sviluppano nuovi e più elasticimodelli organizzativi, per adattarsi a un mercato che via via si fa più dif-ferenziato e instabile. Tutto questo è progredito nel tempo, insieme a nuo-ve sfide dall’esterno ai Paesi di vecchia industrializzazione: fra le prime,quelle che hanno determinato le due crisi petrolifere degli anni Settanta.

Con l’apertura crescente dei mercati diventano meno efficaci i mecca-nismi di regolazione in essere, già appesantiti da fattori come l’invec-chiamento della popolazione o una minore ordinabilità di una societàpost-industriale più differenziata e individualizzata, ma anche la ruggi-ne depositata da un lungo periodo di gestione da parte di interessi con-solidati. L’economia è in difficoltà, stagnazione e inflazione si presentanoinsieme, la disoccupazione cresce. I modelli keynesiani di regolazioneperdono efficacia. Sono anni di incertezza, con le grandi imprese indu-striali della produzione di massa in nuove difficoltà.

Anche in Italia l’industria dell’automobile è in difficoltà, e nuovegrandi industrie della produzione Ict come l’Olivetti non si stabilizzano.In quegli anni, tuttavia, in Italia prende forma una specie di secondo mi-racolo economico segnato dalla diffusione dei distretti industriali di pic-cole imprese. È una storia tante volte raccontata, e basterà richiamarequalche punto. Il fenomeno è stato tipico di alcune regioni del Centro-nordest del Paese, che in modo sorprendente salirono rapidamente nelleclassifiche del reddito prodotto, inventando forme nuove di produzionedi beni tradizionali. L’ambiente tipico si presenta come un tessuto fatto

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di medie città, che aveva diffuso un insieme di infrastrutture relativa-mente semplici, ma appunto diffuse ed efficienti: strade, scuole, servizi,banche e così via. A queste città con storie antiche, anche economiche, siaggiungevano centri minori con tradizioni artigianali o piccolo produtti-ve, spesso di qualità. La campagna circostante i centri era caratterizzatain molta parte da stanziamenti di contadini autonomi, che assicuravanoun mercato del lavoro elastico e all’inizio poco costoso: strategie unitariedelle famiglie appoderate consentivano che una parte dei familiari si im-piegasse come dipendente nella piccola industria vicina. La formazionedi imprenditorialità più importante per spessore economico era nei cen-tri maggiori, ma anche nei centri minori e nelle stesse famiglie contadinesi formavano micro-accumulazioni di capitale, gestito al livello familiare,sufficiente per l’avventura imprenditoriale in settori industriali ad altaintensità di lavoro. È importante sottolineare che anche questo modellosi presterà a una modernizzazione tecnologica, tipicamente in certi setto-ri, con l’impiego di macchinari a controllo numerico, ma anche che in ge-nerale si affermarono specializzazioni in settori più avanzati del made-in-Italy tradizionale. In generale, l’economia di quelle regioni è stata e so-prattutto è diventata più complessa di quanto un modello del distrettoindustriale, per quanto essenziale, ci mostra.

Gli economisti hanno spiegato bene la struttura e il funzionamento diquesta economia, comparsa nel momento in cui i mercati mondiali siaprivano e la domanda di beni diventava più differenziata, favorevole apiccole serie di produzioni. Per il seguito del nostro discorso basta oradire che i distretti anticiparono allora l’importanza di due cose, che sipresenteranno poi anche in modi diversi: le reti di imprese e i sistemieconomici locali.

2.3. Dagli anni Ottanta a oggi: l’età della deregolazioneLa reazione alle difficoltà emerse negli anni Settanta si è manifestata

con un ricorso a maggiore regolazione di mercato, contro la ruggine chesi era depositata nei vecchi meccanismi di regolazione. La spinta neoli-berista è stata all’insegna della deregolazione, che ha indotto spostamen-ti del quadro internazionale delle convenienze a investire (la globalizza-zione), e accelerato la finanziarizzazione dell’economia, spingendo in di-rezione di una redditività a breve periodo, con forti componenti specula-tive. Con le nuove ricette della deregolazione si è dato uno scossone al-l’economia, che si è ripresa, ma successivamente il quadro è cambiato, si-no alla crisi di fine secolo, che ancora non è superata in molti Paesi avan-zati, e in particolare in Italia.

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Per quanto ci riguarda, è necessario rilevare che il successo dei di-stretti non deve nascondere l’involuzione del sistema delle grandi im-prese e d’altro canto neppure la relativa debolezza dell’economia diffu-sa. Dobbiamo qui sottolineare un punto: la grande impresa di produzio-ne, in precedenza e nell’età del capitalismo organizzato che abbiamoconsiderato, era tipicamente l’impresa manageriale, che ha visto crescerel’importanza di questa nuova figura imprenditoriale, accanto al proprie-tario. Questo tipo di impresa, tipica dell’America, sia è diffusa in modidiversi anche in Europa. Mi limiterò a due citazioni sulla sua natura e lasua successiva trasformazione nell’epoca del neo-liberismo, della dere-golazione e della finanziarizzazione.

La prima è dell’economista e sociologo Ronald Dore: «I manager chegestivano la produzione in epoca fordista assicuravano un tornaconto aun azionariato disperso, ma si sentivano impegnati a soddisfare esigenzepiù generali come fornire prodotti affidabili, a prezzi ragionevoli, pro-muovere l’innovazione, assicurare condizioni di lavoro decenti». Succes-sivamente, dice Dore, si è passati dal capitalismo dei manager al capitali-smo degli investitori. Per questo secondo, uso una citazione da LucianoGallino, sociologo: «All’epoca del denaro circolante senza regole in for-ma di bit, capitalisti e manager hanno fatto l’allettante scoperta che gene-rare rendite finanziarie è diventata un’attività più remunerativa che nonprodurre valore aggiunto».

La crescente finanziarizzazione ha significato sia la diffusione delleattività finanziarie, sia quella della logica finanziaria all’interno delle im-prese di produzione.

Il capitalismo delle public companies, con un azionariato disperso, e deimanager è stato come dicevo un tipico assetto americano. Il quadro in Eu-ropa è già diverso; in Italia, Paese giunto dopo nella corsa all’industria-lizzazione, lo è ancora di più. Rilevante da noi è stata da sempre l’azionedello Stato a sostegno del capitalismo privato, e anche in sostituzione diquesto, con la creazione di imprese pubbliche. In tale contesto, assiemead alcuni grandi capitalisti privati, sono stati manager privati e pubblici –come ha ribadito anche di recente l’economista Marcello De Cecco – i ve-ri protagonisti di una storia di sviluppo, cominciata prima degli anni dicui qui ci occupiamo, che è riuscita ad assicurare una avanzata simbiositra scienza, tecnica e industria. È una storia sottovalutata, anche perchénegli anni Sessanta il particolare modello manageriale di origine pubbli-ca entrò in crisi, strumentalizzato dai partiti, e d’altro canto in quegli an-ni e nei successivi non evolverà in senso manageriale l’industria privata.Questa rimarrà sino a oggi, in parte importante, di natura familiare, in

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rapporti con la politica che la favoriscono e insieme appesantiscono. Igruppi proprietari sono gruppi di controllo, con diffuse partecipazioniincrociate ed effetti telescopio, sottocapitalizzati. Inefficienze e rendite simescolano così in molti casi al profitto.

Un esempio emblematico ci viene poi, al riguardo, dal settore finan-ziario, dove l’istituzione di una autorità antitrust è avvenuta solo nel1990; una indagine su banche, assicurazioni e società di gestione del ri-sparmio ha documentato che quasi l’80% di gruppi e imprese presentaall’interno dei propri organismi di governance soggetti con incarichi nellagovernance di gruppi concorrenti. È una anomalia che non ha riscontro innessun altro Paese europeo.

Il capitalismo deregolato non ha dato buona prova di sé. All’inizio delnuovo secolo si registrano due crisi generali: la grande recessione del2008-2009 e la crisi dei debiti sovrani nel 2011-2012. Ancora si sentono leconseguenze di queste crisi, ma va ricordato che gli effetti di recessione ecomunque gli scossoni per l’Italia sono stati e perdurano particolarmen-te forti perché i problemi delle nuove condizioni si scaricano su una eco-nomia già indebolita in precedenza, e su un Paese con un debito pubbli-co molto grande.

3. Gli imprenditori nel cambiamento socialeHo dato un’idea dell’habitat economico nel quale i nostri imprenditori

si sono formati e sono cresciuti, trovando un loro spazio. Dirò ora qual-cosa su come è cambiata la società nelle tre fasi di sviluppo che abbiamoconsiderato. Vedremo l’insieme delle figure sociali presenti, fra le quali sitrovano anche imprenditori e lavoratori autonomi, e riprenderò qualcheaspetto delle istituzioni all’interno delle quali anche loro si muovono.

La prima fase del capitalismo organizzato aveva costruito assetti isti-tuzionali che garantivano non solo una regolazione dinamica dell’econo-mia, ma anche una regolazione sociale. Già lo abbiamo visto per qualcheaspetto. Una espressione per indicare la logica di questa regolazione so-ciale è l’istituzionalizzazione del conflitto di classe. L’esistenza di diver-sità di interessi fra categorie sociali viene riconosciuta, ma attraversol’interazione fra governi, sindacati dei lavoratori e sindacati padronali sitrovano decisioni concordate che ottengono la compatibilità delle grandivariabili aggregate dell’economia, compensazioni e stimoli per la cresci-ta, per un sentiero di sviluppo economico e di coesione sociale. Sono igrandi compromessi o contratti sociali di metà secolo, diversamente for-mati a seconda dei Paesi, più o meno efficaci rispetto allo scopo.

Ciò che ora interessa osservare è che in conseguenza di quegli assetti

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si è determinato un cambiamento rilevante nella struttura della societàin tutti i Paesi avanzati, e anche nel nostro. Si tratta di un movimento diascesa verso condizioni di vita al centro della scala sociale, che dà allastruttura complessiva la forma più di una cipolla che di una piramide.Per vie, risorse, attività diverse, cresce il ceto medio: un insieme moltovariegato di occupazioni, con accesso a risorse redistribuite dal welfare-State, unificato da un tenore di vita cresciuto in termini di redditi, capaci-tà di consumo, sicurezza, istruzione. Ricordiamo quanto già prima ab-biamo detto al riguardo. Possiamo però aggiungere che non tutti aggan-ciavano le nuove condizioni: si parlò della società dei due terzi o dei trequarti, ma si trattava di un processo evidente di inclusione sociale, condiminuzione della disuguaglianza sociale.

In Italia, gli operai dell’industria sono cresciuti con continuità, sino almassimo del 31% degli occupati nel 1971, per poi decrescere. Altrovel’inversione di tendenza, più o meno accentuata, era cominciata prima diquesta data. Lo sviluppo fa crescere le classi medie: l’economista PaoloSylos Labini, all’inizio degli anni Settanta, lo impone come un dato mol-to significativo per comprendere la società italiana; di più, mostra che ilpeso delle classi medie è sempre stato rilevante, dall’Unità in poi: impie-gati privati, impiegati pubblici, artigiani e altri lavoratori autonomi era-no già circa un quarto degli attivi nel 1881, poco di più nel 1951, ma già il38,5% nel 1971 e ormai vicini alla metà all’inizio degli anni Ottanta; lasupereranno nei primi anni Novanta.

L’attenzione alle classi medie rinvia al ruolo della politica nella strut-turazione della società. In quegli anni nasce una loro immagine che re-sterà, pesando anche al di là del dovuto. Sylos Labini attira l’attenzionesui “topi nel formaggio”, politicamente sostenuti, poco sensibili all’inte-resse generale; il sociologo Alessandro Pizzorno parla di “ceti medi neimeccanismi del consenso” e di una loro “mobilitazione individualistica”attivata da leggi e pratiche nel quadro di un sistema politico bloccato,che ai ceti medi dà spazio come base di consenso, con scarso riferimentoalla loro modernizzazione e efficienza.

Negli anni Sessanta si annuncia però la novità, che si consoliderà neldecennio successivo: l’inatteso ritorno sulla scena della piccola impresa,di cui ho detto. Questo mette dunque in circolazione una immagine po-sitiva degli imprenditori e degli artigiani, che rimarrà anche se a voltetenderà a nascondere le debolezze di una loro parte e in ogni caso la ca-renza non sostituibile di grande industria.

La crescita del ceto medio è confermata dalla autopercezione dellepersone: in Italia arriva a definirsi di ceto medio nei sondaggi il 60% del-

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la popolazione attiva. In quegli anni l’Italia conosce una mobilità socialemolto elevata. Due ricercatori, Cobalti e Schizzerotto, hanno registratoall’inizio degli anni Novanta che quasi i tre quinti degli attivi appartene-vano a una classe diversa da quella di origine. La forte mobilità segnalache sono molto cambiati in quegli anni i gradini della scala sociale e laloro ampiezza. Rimane però bassa la fluidità sociale, vale a dire la diver-sa opportunità di passaggio da un gradino a un altro, a seconda di quel-lo di partenza. Questo è vero in pratica per tutti i Paesi avanzati; tutta-via, una fluidità sociale particolarmente scarsa dell’Italia è evidente neiconfronti: il nostro Paese si distingue per bassa mobilità intragenerazio-nale, ovvero di carriera, per scarse possibilità di accesso intergenerazio-nale da posizioni basse a posizioni di vertice, per minore mobilità di-scendente; la scarsa fluidità suggerisce che l’Italia si porta dietro nellatrasformazione anche forti rigidità, che pesano sulle possibilità di conso-lidare l’efficienza economica e di modernizzare le relazioni sociali. Arri-vati ai giorni nostri, un rapporto del 2010 rileverà che l’Italia è il Paesedell’Ocse, subito dopo l’Inghilterra, dove più alto è il collegamento fra li-velli di reddito del padre e del figlio: «un affare di famiglia», come recitail titolo del rapporto.

4. Gli imprenditori e la crisi del ceto medioDicevo prima che con le crisi conclamate dei primi decenni del nuovo

secolo si vedono con chiarezza i limiti del capitalismo deregolato. Ma giàprima si erano avvertiti segni evidenti che la condizione sociale per mol-ti andava degradandosi. In particolare, a cavallo del nuovo Millennio hasuscitato preoccupazione in gran parte dei Paesi sviluppati la “questionedel ceto medio”: inchieste giornalistiche, confermate da indagini più si-stematiche, mettevano in luce che preoccupazioni o effettive difficoltàtoccavano anche persone e famiglie che sino a quel momento erano con-siderate bene assestate. Naturalmente, ceto medio, in un Paese come ilnostro, significa anche molti lavoratori autonomi e imprenditori, unaparte dei quali incontrava difficoltà o ne temeva in prospettiva. Un piùvasto insieme di persone e famiglie nel mezzo del corpo sociale era statala base di riferimento per il vecchio modello di regolazione e per i con-tratti sociali inclusivi che lo avevano permesso. La crisi del ceto medio èanche la conferma sociologica della crisi di quel modello di regolazione,nelle sue diverse varianti, che peraltro si sono mantenute in grado direagire, a grado e in modi diversi.

Se il capitalismo de-regolato non funziona, bisognerà trovare modiaggiornati di regolazione, ma anche trovare le basi sociali per nuovi con-

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tratti che lo consentano nelle condizioni che sono cambiate. Si tratta diun problema complicato, sia per la pratica politica che come oggetto dianalisi. Il punto fondamentale sta nella differenziazione delle figure pro-fessionali e nella individualizzazione dei rapporti di lavoro che sono ul-teriormente cresciuti nel tempo. Detto in altro modo: le classi della socie-tà industriale erano un principio di ordine al quale grandi organizzazio-ni degli interessi potevano fare riferimento; nelle nuove condizioni inve-ce i tasselli da combinare, da parte della politica e delle parti sociali, so-no diventati più piccoli e aumentati di numero. Questo genera la cacofo-nia politica di oggi.

Quanto alle analisi, qualcuno prova a sintetizzare le tendenze soste-nendo che le vicende recenti hanno generato una polarizzazione sociale,svuotando il ceto medio. Credo che dobbiamo essere molto attenti a con-clusioni premature ed eccessive. In effetti, penso si possa dire, dai dati a

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Giuliano Mazzoleni, Arnaldo Bagnasco, Roberto Spagnolo.

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disposizione, che esiste effettivamente una corrente che genera disugua-glianza sociale e attira in direzione degli estremi, in particolare verso ilbasso della scala per molti. Si può mostrare che questa corrente è presen-te in tutti i Paesi avanzati, più o meno forte a seconda dei casi. In Euro-pa, la disuguaglianza, misurata per esempio con riferimento al reddito, èaumentata, ma rimane a livelli molto più bassi nei Paesi scandinavi ri-spetto all’Italia, Paese ad alta disuguaglianza, non da oggi. Anche la po-vertà è da noi aumentata.

Più in generale, possiamo limitarci alle indicazioni che fornisce l’ulti-mo sondaggio della Demos sulla autovalutazione della posizione di clas-se. La percentuale del 60% di rispondenti che si dichiarava di ceto me-dio, che vedevamo prima, rilevata da un sondaggio di pochi anni fa, èscesa oggi al 40%. Si percepiscono dunque fenomeni di declassamento,ma si noti che la percentuale che ritiene di essere nel mezzo della scala,nonostante le condizioni generali che inducono ad apprezzamenti pessi-mistici, rimane comunque consistente. Significativo il dato molto bassoper i lavoratori autonomi: 38,9%. In realtà, nella categoria si mescolanomolte figure e condizioni diverse: si va da imprenditori a chi è titolare diuna partita Iva in condizioni di forte dipendenza e precarietà, di fatto undipendente mascherato. Da questi e altri sintomi, credo si possa dire che,fra due estremi, una parte rilevante della popolazione sia da qualcheparte nel mezzo, con al momento capacità di resistenza, e risorse da im-piegare per ripartire al cambiare delle circostanze. In ogni caso, non sia-mo di fronte a due blocchi socialmente omogenei.

Ciò detto, è vero che la corrente di polarizzazione è forte. In alto nellascala, in Italia, il 50% della ricchezza è in mano al 10% delle famiglie, e imilionari sono aumentati. In generale, c’è stato un travaso di ricchezzadai dipendenti agli indipendenti: imprenditori, professionisti, commer-cianti, con forti poi divaricazioni anche all’interno di queste categorie,come accennavo prima. Significative sono le indicazioni che ci vengonodalle condizioni di lavoro, per le conseguenze che questo ha sulle oppor-tunità di vita in generale. La disoccupazione è stata in rapida e continuaascesa in Europa a partire dal 2008 (con differenze però a seconda deiPaesi); sembra stabilizzarsi l’ultimo anno, ma in media a livello elevato.Tuttavia, va notato che la disoccupazione di lunga durata sul totale delladisoccupazione cresce regolarmente dopo il 2009 e raggiunge quasi lametà dei disoccupati, e in Italia la supera. Ancora: la disoccupazione deigiovani di meno di 25 anni cresce con continuità in Europa dal 2007 eraggiunge ora il 24% circa, ma in Italia il 42%. In sostanza: la corrente dipolarizzazione è forte, e abbiamo poco tempo per invertirla.

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5. Gli imprenditori come risorsa nel mezzo del corpo sociale: qualche idea perdiscutere

Torniamo infine agli imprenditori, alle risorse nel mezzo del corpo so-ciale e alle eredità delle vicende passate. Per concludere, voglio solo sot-toporvi, in quattro punti, qualche elemento per la discussione.

– Molti imprenditori e lavoratori autonomi sono una componente at-tiva del ceto medio, e possono contribuire a risalire la china. Ci sono, frai lavoratori autonomi, molti giovani professionisti, con notevoli dotazio-ni di conoscenza, sono molto attivi, ma molti di loro senza riconoscimen-to professionale e rappresentanza istituzionalizzata, come anche senzacopertura di welfare-State. Alcuni sono probabilmente finiti nell’insiemeche è sceso nell’autopercezione, ma cominciano a farsi riconoscere comeun insieme di notevoli potenzialità, con fisionomie specifiche, e stannoanche trovando forme associative e organizzative.

– Vediamo l’eredità dell’epoca dello sviluppo diffuso e dei distretti,in epoca ormai post-industriale. La crisi ha fatto danni ovunque, si puòperò dire che le tracce di quella stagione sono ancora visibili. Le regionipiù tipiche dello sviluppo diffuso hanno tassi di disoccupazione inferiorialla media nazionale e alle regioni di vecchia industrializzazione. Nontutte peraltro, e questo mostra diverse capacità di reazione: molti distret-ti sono pronti a ripartire, altri più tradizionali sono in difficoltà.

– Un punto importante è che i distretti sono stati grandi generatori dimedie imprese. Le medie imprese crescono anche in altri ambienti e so-no la speranza del nostro capitalismo, visto il regresso della grande in-dustria. Si tratta spesso di imprese efficienti, presenti sulla scena mon-diale, che attirano anche l’attenzione di investitori esteri. Questo è, in-tanto, un segno che si tratta effettivamente di buone imprese; che marchiimportanti siano acquistati da gruppi esteri non significa poi che quelleaziende vengano fagocitate e stravolte: al contrario, quella è una condi-zione per raggiungere una massa critica sufficiente a giocare bene suimercati globali, e infatti si verificano in quelle imprese risultati che mi-gliorano e aumenti dell’occupazione. Possiamo considerare, in certo sen-so, le reti di imprese una eredità dei distretti, che ora sono oltre i distret-ti. Disponiamo di un nuovo strumento giuridico che è il contratto di rete.Si tratta di un accordo mediante il quale due o più imprenditori si impe-gnano a collaborare per accrescere la propria capacità innovativa e lapropria competitività sul mercato, sia individualmente sia collettivamen-te, per mezzo di un programma comune. Con l’iscrizione, la Rete acqui-sta soggettività giuridica. È un modo elastico ed efficiente per crescere, ele reti di imprese stanno diffondendosi.

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– I distretti avevano segnalato l’importanza dei sistemi locali. Oggiefficienti sistemi locali sono realtà sempre più costruite, si tratta di con-nettere fra loro risorse e strategie di attori diversi, pubblici e privati, ma-turando un sentiero di crescita che valorizzi le risorse, spesso presenti inmaggior quantità di quanto non sembri. È la prospettiva della pianifica-zione strategica, seguita da molte città in Europa, e che si rivela promet-tente in particolare per medie città, così presenti nel nostro Paese. Im-prenditività politica e imprenditività economica hanno qui lo spazio perintegrarsi in progetti comuni.

Il professor Bagnasco risponde alle domande del pubblico

In Italia si fa poco o niente contro la disoccupazione, eppure si è stabilizzata, al-tri Paesi europei, ad esempio la Spagna, hanno fatto progressi nella regolamen-tazione dei contratti di lavoro che hanno prodotto un aumento di posti di lavoro,però il livello globale di disoccupazione è più pesante di quello italiano: come sispiega questa situazione?

La disoccupazione in Italia si è fermata (è un dato molto recente) masiamo a un livello molto alto, e non è affatto detto che non ricominci dinuovo a crescere: non crediamo di essere usciti dal tunnel. Forse la Spa-gna sta peggio di noi da questo punto di vista. Il punto è anche la qualitàdell’occupazione. Facendo riferimento alla disoccupazione di lunga dura-ta, ho mostrato che stanno aumentando coloro che sono intrappolati inuna situazione di quel genere, e quindi evidentemente in una cattiva con-dizione di lavoro. Questo è il principale problema. Non a caso Keynesaveva inventato la sua proposta, perché c’era stato il dramma della disoc-cupazione dopo il ‘29-’30 che, lo sappiamo, in Europa ha prodotto laspinta nazista, la guerra, il fascismo. Il suo era un tentativo precisamenteper far fronte alla disoccupazione. Qui mettiamo un momento al riparo isociologi, che fanno il loro mestiere, e rivolgiamoci agli economisti. Que-sti ultimi non hanno prodotto una sintesi che ci possa dire oggi qual è laricetta di regolazione, non l’hanno ancora inventata. Abbiamo tante ricet-te e alcune cose forse si cominciano a capire: per esempio che dobbiamosmetterla in Europa con politiche che impediscono la crescita del prodot-to lordo, nel terrore dell’inflazione che hanno i tedeschi. Questo l’abbia-mo capito, poi naturalmente dal punto di vista politico non è facile riusci-re a cambiare. I Paesi più deboli sono quelli che pagano di più in termininegativi questa situazione. Non ho risposto fino in fondo alla sua doman-da però credo che sia questo il quadro nel quale ci si muove.

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Un problema delle aziende italiane di piccole dimensioni può essere quello delladistinzione tra proprietà e management, che spesso costituisce un problema nelmomento della successione?

Managerialità/proprietà è un elemento che ho toccato quando ho ri-cordato che la rivoluzione manageriale in Italia non c’è stata, o per me-glio dire c’è stata soltanto in parte, con dei momenti magici della nostracapacità di crescere anche in termini di simbiosi fra scienza, tecnica e lo-ro applicazione all’economia. Una figura emblematica di quest’epocal’avete in casa: Natta, premio Nobel, è stato un grande organizzatore del-l’innovazione economica di quegli anni, ma ne potremmo citare anchealtri, ad esempio Olivetti. Per fortuna a un certo punto sono sorte le pic-cole imprese, per fortuna ora ci sono le medie imprese, che forse sono amisura di quello che riusciamo a governare. Però su questo non sareitroppo tranquillo perché la tendenza al gioco della famiglia continua aessere molto forte, anche se a volte si tratta di famiglie eccellenti, nel sen-so che fanno delle imprese di tutto rispetto. In Piemonte i Ferrero dellaNutella, per citare una grande famiglia imprenditoriale: hanno imparatoa introdurre dei manager al loro interno (e li ascoltano), e tutt’altro che inposizione secondaria. Una di queste ottime aziende familiari, parlo diTorino che ho più sott’occhio, è senza dubbio la Lavazza, la quale peròcominciava ad avere dei problemi di gestione. Ebbene, li ha giocati conuna forte immissione di manager professionali. Però non c’è dubbio chepiù di tanto non cresciamo e questo è legato anche alla difficoltà che leimprese familiari tengano conto del fatto che nel mondo non esistonosoltanto le famiglie.

Probabilmente nasceranno nuovi agglomerati urbani, ma qui si sconta una ca-renza di pianificazione sul piano urbanistico, ad esempio nel Nord-est c’è statouno sviluppo assolutamente non governato.

I geografi ce l’hanno rivelato: c’è stato un consumo di suolo spavento-so e poi sono nate delle cose che non sappiamo neanche capire bene checosa sono. Parliamo di Milano. Quanti abitanti ha? Se si fa un ragiona-mento sulla conurbazione, vale a dire l’occupazione di spazio senza so-luzione di continuità, i geografi ci dicono che è qualche cosa come 4 mi-lioni e mezzo di abitanti, che tocca più province. Lì dentro ci sono dei di-stretti industriali, ci sono altre cose che non sappiamo bene cosa siano,eppure è un pezzo molto efficiente del nostro sistema. Qualcuno la chia-ma “piattaforma” perché non ha trovato un nome migliore. Ma come sigoverna una cosa di quel genere, che tipo di identità ne ricaviamo? Que-ste sono questioni nuove. Per non parlare poi dei “mostri” nel mondo, le

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grandi città del Terzo Mondo sono agglomerati spaventosi. Il fenomenometropolitano è un salto rispetto al concetto di città così come l’abbiamocostruito. Abbiamo sempre sottovalutato quanto sia stato importantenella costruzione del modello europeo, che ha cercato di tenere insiemesviluppo e coesione sociale, il fatto di avere un tessuto di città medie emedio-grandi, capitali regionali, che sono state fondamentali nel rendereattivo il nostro modello integrativo e di gestione di queste idee e di que-sti mezzi generali. Quella che è veramente una grossa eredità dell’Euro-pa, certamente ora è in difficoltà. In Italia lo siamo in modo particolare.Non abbiamo mai avuto, se non per qualche piccolissimo episodio, unapolitica esplicita per le città. Ci sono tanti pezzi di politica che possonotoccare la città ma non sono immaginati in maniera unitaria per le città.Bisogna riconoscere che i poteri pubblici locali sono fortemente impove-riti e poco capaci di rappresentare e governare gli interessi generali di unterritorio, perché sono esposti a interessi esterni forti, pubblici, privati edi vario genere, e diventano non dei progettisti di quello che potrebbeessere il futuro di una città ma dei mediatori. È diventato difficilissimo,questo lo dicono bene i giuristi amministrativi, siamo molto indietro inItalia. Qualche movimento c’è ora, ci sono delle commissioni interparla-mentari che si sono poste esattamente il problema delle città. Siamo mal-messi in Italia, non facciamoci l’idea che in quattro e quattr’otto usciamoda questo pantano, dobbiamo lavorare molto. Io credo che abbiamo mol-te risorse per uscirne ma non ci riusciremo automaticamente. Il sistema politico italiano come si rapporta al ceto medio?

Intanto osserviamo una cosa: le tendenze di polarizzazione creano,soprattutto in questo momento e mi riferisco alla parte più bassa dellascala sociale, degli insiemi di gente molto arrabbiata ma molto eteroge-nea. Non pensate che sia un blocco, è molto differenziato, non è unblocco sociologicamente definibile. In termini politici questo insieme ècapace di esprimere, a volte anche in maniera molto efficace, forme diprotesta, perché riesce a mettere il dito dove c’è un pasticcio. Ma è dif-ficile che costruisca un disegno di progetto politico. Per tornare in par-ticolare al ceto medio, abbiamo fatto una ricerca su questo tema in pas-sato. Parte del nostro gruppo ha studiato come i giornali e i politici sisono rappresentati nel tempo il ceto medio e come vi si sono rapporta-ti. La nostra impressione è stata che ci sono dei momenti in cui si cercadi concettualizzarlo come un insieme, come in pratica io sto facendoun po’ adesso, nonostante le differenze. Ma molto spesso in realtà ilgioco è quello di considerarne solo delle componenti, il pubblico ri-spetto al privato per esempio. La nostra impressione è che si siano

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svendute le opportunità di immaginare un programma che partisse darisorse di innovazione che si potevano trovare nel ceto medio. Se que-sto è stato vero negli anni passati, credo sia ancora più vero oggi. Peròinsisto: io non mi metto a inveire contro la politica, ci sono mille ragio-ni di critica, ma voglio parlarne soltanto dopo aver riconosciuto che èdifficile fare politica oggi, è molto difficile fare politica nel nostro Pae-se, anche se continuiamo a sperare.

L’invecchiamento della nostra popolazione, che comporta una difficoltà al cam-biamento, può rappresentare un problema. Come gestirlo?

Certo l’invecchiamento ha costituito un problema. Ma non credo checi voglia una politica del genere “allora facciamo tanti figli”. Viviamoin un mondo che non si sa bene ancora come faccia a stare insieme contanti che siamo già diventati. E forse con il tempo si può riequilibrareun poco con l’invecchiamento. È chiaro che siamo di fronte a societàche sono invecchiate: per fortuna sono “invecchiate bene”, nel sensoche una volta uno a cinquant’anni era un vecchio, adesso noi ne abbia-mo 75 ma facciamo ancora qualcosa, ci teniamo un po’ su. Voglio dire:ci sono cambiamenti importanti, per cui anche l’allungamento del lavo-ro è una cosa sulla quale si può ragionare. Sono problemi importantida gestire, abbiamo visto la questione delle pensioni per esempioquanto si è rivelata complicata in un Paese come il nostro in cui c’eranoscompensi. Non si risolve in cinque minuti questa cosa. Per dareun’idea che ci sono dei pezzi di Italia che funzionano e dei pezzi chenon funzionano: su tutti i giornali leggete acrimonia contro l’Inps, mal’Inps è un esempio di buona organizzazione. In questi ultimi anni hafatto delle razionalizzazioni nel suo sistema che sono di tutto rispettoed è perfettamente in equilibrio. Ad eccezione di compiti che gli vengo-no scaricati, come la cassa integrazione speciale, che non dovrebbe co-prire con i suoi mezzi dato che la gestisce per conto dello Stato e delleRegioni, i quali gli dovrebbero trasferire i fondi per farlo. Siccome nonsono in grado in questo momento di trasferirli è chiaro che scaricanodelle difficoltà. Ma l’Inps è un ente che in questi anni ha avuto una for-te razionalizzazione. Ce ne sono altri importanti, per esempio la Bancad’Italia. L’esempio che faccio sempre per il nostro Paese è quello di unospedale (l’ho personalmente sperimentato) che ha due piani in cui sifanno esattamente le stesse cose ma mentre uno sembra un orologionell’altro non riesci neanche ad andare in bagno tanto è sporco. Alloravuol dire che ci sono delle risorse da utilizzare meglio! Cominciamo alavorare bene noi.

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Arnaldo Bagnasco, sociologo, già docente di Sociologia economica pres-so gli atenei di Firenze (1973-79) e Napoli (1980-82), nel 1982 ha assuntola cattedra di Sociologia urbana all’Università di Torino (facoltà di Scien-ze politiche), mantenuta per quattordici anni; dal 1996 insegna Sociolo-gia presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Torino.

Ha analizzato le dinamiche sociali in azione nel mercato e ha scrittosoprattutto di sociologia economica; tra le pubblicazioni più note si ri-cordano: Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano (il Muli-no, 1977), L’Italia in tempi di cambiamento politico (il Mulino, 1996), Le cittànell’Europa contemporanea (Liguori, 2001), con Patrick Le Galès, e Taccuinosociologico (Laterza, 2012). Inoltre segnaliamo: La costruzione sociale delmercato. Studi sullo sviluppo di piccola impresa in Italia (il Mulino, 1988),Tracce di comunità. Temi derivati da un concetto ingombrante (il Mulino,1999), Società fuori squadra. Come cambia l’organizzazione sociale (il Mulino,2003), Corso di sociologia (prima edizione del 1997, riedito nel 2013), conMarzio Barbagli e Alessandro Cavalli.

Suggerimenti per l’approfondimentoARNALDO BAGNASCO, L’Italia in tempi di cambiamento politico, Bologna, il

Mulino, 1996.ARNALDO BAGNASCO, Società fuori squadra. Come cambia l’organizzazione

sociale, Bologna, il Mulino, 2003.ARNALDO BAGNASCO, Ritorno a Montegrano, in: E. BANFIELD, Le basi morali

di una società arretrata, Bologna, il Mulino, nuova ediz. 2006.ALBERTO ALESINA, ANDREA ICHINO, L’Italia fatta in casa, Milano, Mondadori,

2009.LUCIANO GALLINO, Italia in frantumi, Bari-Roma, Laterza, 2006.PAOLO SYLOS LABINI, Le classi sociali negli anni ’80, Bari-Roma, Laterza,

1986LUCA RICOLFI, Le tre società. È ancora possibile salvare l’unità dell’Italia?,

Milano, Guerini e Associati, 2007.

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Il tema dell’identità, per essere affrontato in modo adeguato, richiedecontributi scientifici provenienti da campi disciplinari diversi: la sociolo-gia, l’antropologia, la storia, la scienza dell’amministrazione pubblica. Lerelazioni di questo ciclo hanno proposto una grande quantità di riferi-menti scientifici, di spunti e di stimoli che possono essere utilizzati perampliare e approfondire ulteriormente la conoscenza del nostro argo-mento. Riteniamo opportuno, come responsabili del progetto di questaricerca, indicare valutazioni su cui verifichiamo un’ampia convergenza etemi su cui avvertiamo l’esigenza di approfondimenti.

Per contrastare la possibile dispersione dei molteplici contenuti dellerelazioni si può accettare la distinzione proposta da Vittorio Vidotto tra“identità italiana” e “identità nazionale”. Con il termine “identità italia-na”, ci si riferisce alle caratteristiche antropologico-culturali degli italia-ni, con il termine di “identità nazionale”, ci si riferisce al rapporto che icittadini hanno con lo Stato.

Il contributo di Aldo Schiavone permette di ricostruire il quadro stori-co entro il quale è maturata una crisi identitaria avvertita da molti. Se-condo Schiavone quella che stiamo attraversando, infatti, è una crisi noncongiunturale ma strutturale. In Italia i profondi cambiamenti introdottidalla globalizzazione e dalla crisi economica in corso dal 2008 hanno fat-to emergere una profonda fragilità identitaria. Oggi è sempre più diffusala percezione di un declino italiano. Ciò può apparire paradossale per unPaese che ha raggiunto due vertici di civilizzazione quali l’Impero roma-no e il Rinascimento. Il nostro “particolarismo” è un tratto molto antico,segnalato già nel Rinascimento. Le sue origini e il suo sviluppo nei secolinon sono stati indagati adeguatamente. I nostri pluralismi impediscono,nel Cinquecento, di far confluire gli Stati regionali in un più ampio e po-tente Stato nazionale e già dal Seicento l’Italia passa dall’assoluta eccel-lenza alla marginalità estrema. Su di essa la Chiesa controriformista eser-cita un’egemonia che, pur non riuscendo a unificarla politicamente, ne

Convergenze, problemi aperti

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marca profondamente le caratteristiche antropologiche, nel senso dellapropensione al conformismo e alla doppia verità. Pluralismi e lacerazio-ni sono giunti fino ad oggi, passando attraverso le fratture del Novecen-to e la “Repubblica dei partiti”, e spiegano sia le profonde divisioni cheattraversano la nostra società sia la difficoltà italiana a modernizzarsi co-struendo un quadro statale forte e democratico. A partire dal Rinasci-mento l’Italia appare come una grande civiltà che non è riuscita a darsiuna forma politico-istituzionale adeguata.

L’identità italianaPer riconoscere le specificità culturali che caratterizzano gli italiani è

utile ricorrere all’immagine che gli altri hanno di noi. Questa immaginecontiene una serie di tratti distintivi di cui Vittorio Vidotto ci offre, mu-tuandolo dal sociologo Alessandro Cavalli, un elenco ampio ed esaurien-te: individualismo, mammismo, familismo, particolarismo, localismo,clientelismo, fatalismo, sfiducia negli altri e nelle istituzioni, mancanza disenso dello Stato e dell’interesse collettivo, fragilità dell’etica pubblica.

Silvana Patriarca, non condividendo la nozione di “carattere naziona-le”, che sottintende un determinismo quasi genetico, propone che al suoposto venga utilizzata la locuzione “specificità culturali”. Inoltre il con-cetto di carattere, secondo Patriarca, è stato esposto ad un uso ideologicoe politico. Nel Risorgimento dovendo “rifare” gli italiani se ne denuncia-no i “vizi” (ozio, effeminatezza); negli anni 1880-1890 per sostenere na-zionalismo e imperialismo si denuncia l’individualismo e l’indisciplina;nel Novecento nazionalisti e fascisti vogliono gli italiani più maschi, di-sciplinati e combattivi. Sul piano politico le specificità culturali negativesono state spesso assunte in funzione autogiustificatoria: a destra le siusa per spargere un cinismo facile e gratuito (“cosa volete, se gli italianisono fatti così, non possiamo farci nulla”); a sinistra le si denuncia, manon riuscendo a trovare le strade per farle evolvere le si utilizza per giu-stificare i propri fallimenti, alimentando la rassegnazione.

Un importante esempio dell’uso autogiustificatorio sul piano storicodelle nostre specificità culturali è fornito da Filippo Focardi attraversol’analisi dello stereotipo degli “italiani brava gente”, costruito per occul-tare le responsabilità italiane nel processo di destabilizzazione del quadroeuropeo a partire dal 1935 e in particolare per i gravi crimini di guerracommessi nelle colonie e poi nel corso della Seconda guerra mondiale sututti i fronti dalle nostre truppe di occupazione. L’immagine del “buonitaliano”, estraneo al fascismo, alla sua guerra e ai suoi crimini, nacquedal convergere di diverse esigenze. Gli Alleati, la monarchia e gli stessi

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antifascisti fecero di tutto per distinguere le responsabilità italiane daquelle tedesche accreditando l’immagine degli italiani come vittime. Cosìuna nostra memoria storica priva del senso della giustizia e della respon-sabilità contribuisce a rendere malferma la nostra identità nazionale.

L’identità nazionaleDall’Unità ad oggi la costruzione dell’identità nazionale si è rivelata

particolarmente faticosa e rimane tuttora ben lungi dall’essere completa-ta per l’azione congiunta di due fattori: da un lato, la cronica debolezzadell’autorità statale (favorita da una prima fase di ostilità della Chiesanei suoi confronti); dall’altro l’incapacità degli italiani a sentire il colletti-vo come valore.

La debolezza del nostro Stato è stata approfonditamente analizzatada Sabino Cassese che la fa risalire principalmente a otto fattori: una co-stituzionalizzazione debole, il distacco tra lo Stato e il popolo, la man-canza di un’“anima della nazione”, una giuridicità debole (norme con-traddette da continue deroghe), la precarietà del potere esecutivo, l’in-fluenza degli interessi corporativi, l’assenza di un corpo qualificato diamministratori pubblici, la creazione di autorità amministrative indipen-denti (la “fuga dallo Stato”). La principale carenza delle due Costituzioniche hanno regolato la vita del nostro Stato può essere fatta risalire ai loroprocessi di formazione e attuazione. Lo Statuto Albertino non solo nasceper iniziativa del re, ma si fonda su un impianto normativo caratterizza-to da manchevolezze e flessibilità che hanno facilitato l’avvento del fa-scismo. La Costituzione repubblicana, pur presentando un impianto nor-mativo più solido, e predisposta da un’assemblea eletta dal popolo, è ri-masta troppo a lungo sulla carta, ragione che ha spinto molti padri costi-tuenti a parlare di “Costituzione tradita”. Sulla sua lenta e non ancoracompiuta attuazione hanno pesato, da un lato il rapido sgretolarsi diquella coesione politica, che negli anni immediatamente successivi allaLiberazione aveva reso possibile far confluire in un testo condivisoorientamenti di diversa ispirazione; dall’altro la scarsa penetrazione nel-la società civile di una moralità pubblica coerente con i principi posti asuo fondamento.

CriticitàNel loro insieme le relazioni e le discussioni hanno posto in evidenza

almeno tre criticità di carattere generale.Una prima criticità nasce dal contrasto fra le specificità culturali degli

italiani e i valori costituzionali. Questi ultimi, secondo Vidotto, potrebbe-

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ro costituire la base di una nuova identità nazionale: il “patriottismo co-stituzionale” formulato da Jürgen Habermas.

Tuttavia la nostra Costituzione pone traguardi elevati di socialità chesi rivelano molto lontani dall’identità italiana contraddistinta dal suo in-dividualismo di fondo. Su questo tema è fondamentale l’acquisizione delcontributo di Roberto Cartocci sul “capitale sociale”, l’indicatore empiri-co per misurare la cosiddetta civicness, il senso civico, il legame e l’obbli-gazione responsabile nei confronti del collettivo. I suoi contenuti consi-stono nella protezione dei beni pubblici, nella gratuità dell’impegno enella volontarietà dell’adesione. La civicness è un concetto che si opponea quello del nostro “particolarismo”. Il capitale sociale coincide con queivalori che contribuiscono a costruire la comunità nazionale; essi sonol’espressione di quella parte dell’identità italiana che sostiene l’identitànazionale. Riguardo alla sua distribuzione geografica, la ricerca di Car-tocci mette in rilievo un grosso divario di capitale sociale fra Nord e Suddell’Italia. Sul piano storiografico resta aperto il problema di individuarequali siano stati i periodi e i processi che lo hanno aumentato oppure di-minuito, anche se molti storici insistono sulla sua riduzione complessivanei 150 anni dall’Unità. La civicness italiana, complessivamente, si rivelainferiore a quella di molti altri Paesi europei, ma quanto sia marcata que-sta nostra “specificità culturale”, che è al centro della nostra identità, èun problema tuttora aperto alla ricerca.

Una seconda criticità è rappresentata da una scarsa diffusione delsenso della legalità, fenomeno influenzato da svariati fattori. Importanteè quello che Sabino Cassese definisce “il carattere derogatorio” della le-gislazione. Un insieme di provvedimenti rende legale qualcosa che nonlo è perché contrario alla regola generale che si applica a tutti. Un esem-pio è rappresentato dai condoni edilizi che, di fatto, “legalizzano” lospiccato orientamento degli italiani all’abusivismo. Per Vidotto questo èil segno di un “individualismo esasperato”. La sovrabbondanza dellederoghe contribuisce a lasciare ampio spazio alla negoziazione, alla di-screzionalità nell’applicazione della norma. Ciò rafforza la tendenza afar convivere quelle che Vidotto chiama “etiche separate”, ossia l’eticadella legalità con quella dei codici d’onore dei singoli gruppi e delle cor-porazioni, dall’università al sistema sanitario, fino a quelli delle variemafie imperanti. Inoltre, ancora secondo Vidotto, lo Stato è sentito comeesercizio di un potere sempre di parte. Permane generale l’opinione chela società civile sia migliore di quella dei politici mentre il rapporto delcittadino con la Pubblica Amministrazione viene considerato come unoscambio di favori, con la ricerca continua di privilegi piccoli o grandi. Il

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difetto di legalità rende difficile il funzionamento delle istituzioni el’azione dello Stato.

Una terza criticità può essere rintracciata in una sorta di circolo vizio-so fra organi e politiche dello Stato da una parte e la presenza di forma-zioni sociali per ora ancora forti, come la famiglia, dall’altra parte. Chia-ra Saraceno analizza una situazione diversa dal “familismo amorale” diEdward Banfield: un “familismo costretto”, risultato dell’assenza delloStato nell’assistenza degli anziani e dell’infanzia oltre che nelle politichedi occupazione giovanile. Gli oneri vengono scaricati interamente sullafamiglia e, in particolare, sulle donne, negando però o sottovalutando lacrisi in cui entra questo “welfare familistico”, a causa dell’invecchiamentodella popolazione, della mobilità territoriale e della formazione di nuovitipi di famiglia. Del resto, non solo alla famiglia lo Stato delega funzioniche sarebbero sue.

Queste gravi criticità convivono con una società che produce moltiimprenditori, avverte Arnaldo Bagnasco: più numerosi da noi rispettoagli altri Paesi. Tuttavia anche questa nota positiva nasconde problemi. Ilceto medio italiano è composito e contiene anche posizioni di rendita (i“topi nel formaggio” di Sylos Labini) nonché posizioni di lavoro para-subordinato precario (molte “partite Iva”). L’imprenditività italiana ècertamente una risorsa, ma il suo sviluppo è contrastato dalla presenzadi nicchie di mercato scarsamente competitive e dal governo di molteaziende in mano a famiglie di scarsa cultura manageriale.

Emerge alla fine l’immagine complessiva di una identità “italiana”molto frastagliata, con fratture culturali, economiche ed etiche, che faticaa sostenere un’identità nazionale resa, anche per questo, molto fragile.

La ricerca della nostra identità è un processo ampio, che si sta svol-gendo in molte forme. Essendo lontana da conclusioni definitive è unbene che la ricerca continui. Già fin d’ora è tuttavia possibile scorgere siai temi principali da approfondire per una comprensione adeguata, sia gliostacoli alla maturazione civile e allo sviluppo economico. Progetti poli-tici ed educativi di ampio respiro dovrebbero prendere le mosse daquanto emerso, se vogliamo uscire dalla crisi economica e, soprattutto,dalla crisi del sistema democratico in cui ci troviamo.

Il gruppo di ricercaAntonio Censi - Maria Laura Cornelli - Giuliano MazzoleniDaniela Rosa - Francesco Trombetta

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Dallo STATUTO della “FONDAZIONE A. J. ZANINONI”

Art. 3

La Fondazione, che non ha fini di lucro, ha lo scopo di dare continuitàalla presenza non conformista e stimolante di A. J. Zaninoni, imprendito-re, fondatore del gruppo “Jack Better”, che opera nel settore tessile-abbi-gliamento, attraverso un’attività di promozione culturale e di formazio-ne riferita a tutti i livelli professionali – dalle mansioni operaie a quelleimprenditoriali – a partire dall’ambito territoriale dove lo stesso ha ope-rato, la Valle Seriana e la Bergamasca, fino alla internazionalizzazionedella sua attività.

Per il raggiungimento dello scopo la Fondazione:• promuoverà la diffusione della cultura del lavoro, anche nella sua ac-

cezione più ampia di progetto di vita;• studierà i trend dell’economia, approfondendone le dinamiche;• analizzerà i meccanismi del mercato del lavoro, la sua complessità ed

i suoi processi attuali e futuri;• favorirà opportunità equivalenti e percorsi tendenti alla parità, intesa

come possibilità per donne ed uomini di realizzarsi nella vita privata,professionale e pubblica;

• contribuirà alla formazione di cittadine e cittadini consapevoli, nonconformisti e socievoli, anche mediante il sostegno e la collaborazionealle attività del “Centro culturale Progetto” di Bergamo.

Ai fini suddetti la Fondazione – utilizzando ogni strumento informa-tivo – potrà promuovere e realizzare:• studi e ricerche, raccolta di materiali e documentazione, seminari,

convegni, conferenze, dibattiti, mostre, corsi di formazione e di ag-giornamento, pubblicazioni, anche periodiche;

• la istituzione e la erogazione di borse di studio.

La Fondazione svolgerà la propria attività senza limitazioni di ambitoterritoriale.

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Consiglio d’Amministrazione Collegio dei Revisori

Pia Elda Locatelli - presidente Franco Tentorio - presidenteRoberto Bruni - vicepresidente Luciana Gattinoni - revisorePaolo Crivelli - direttore Maria Silvia Bassoli - revisoreSilvio Albini - consigliereRaffaella Cornelli - consigliera SupplentiItalo Lucchini - consigliere Barbara Botti - revisoreLaura Viganò - consigliera Alessandro Redondi - revisore

Comitato tecnico-scientifico

Francesca Bettiodocente di Politica economica, Università di Siena,esperta per la D.G. V della Commissione europea

Mauro Cerutiprofessore ordinario di Filosofia della Scienza, IULM (Liberà Università di Lingue e Comunicazione), Milano

Mario Comanadocente di Tecnica bancaria, Università Luiss “Guido Carli”, Roma

Sergio Fumagallidottore in fisica, consulente del Garante della Privacy

Donata Gottardiprofessoressa ordinaria di Diritto del Lavoro, Università di Verona

Riccardo Leonidocente di Economia del Lavoro, Università degli Studi di Bergamo

Marina Piazzapresidente di Gender, consulenza formazione ricerca

Donald Sassoondocente di Storia europea comparata, Queen Mary University of London

Ornella Scandellaricercatrice, esperta di formazione e orientamento,collabora con l’Università degli Studi Milano Bicocca e con l’ISFOL area sistemi formativi

Paola Villadocente di Economia industriale, Università degli Studi di Trento

Vera Zamagnidocente di Storia economica e Storia dell’Industria, Università di Bologna

Quaderni della Fondazione A.J. Zaninoni

Augusto Benvenuto - direttore

Fondazione A.J. Zaninoni - Ente Moralefondo di dotazione € 2.582.284,50 - cf 95116380163via Zambonate 33 - 24122 Bergamo - tel. 035/240907 - fax 035/3831903e-mail: [email protected] - http://www.fondazionezaninoni.org

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Titolo

DELLA STESSA COLLANA:

• L’EUROPA E IL LAVORO. Flessibilità, diritti, tutele

• IL LAVORO CAMBIA, IL WELFARE QUANDO? Parti a confronto

• GENDER AUDITING DEI BILANCI PUBBLICI

• UNA GIORNATA CON RITA LEVI-MONTALCINI

• LA SOCIETÀ ITALIANA ALLA FINE DEL 2004Presentazione del Rapporto annuale del Censis sulla situazione socialedel Paese

• LA SCIENZA E LA TECNOLOGIA, CHIAVI DEL FUTURO DELL’EUROPALinee guida per la politica di sostegno alla ricerca dell’Unione.Risoluzione del Parlamento europeo. Rapporto Locatelli

• TESSILE: TRA PASSATO, PRESENTE E FUTURO

• NULLAFACENTI:luogo comune o grave ingiustizia nella pubblica amministrazione?

• 1957-2007. L’EUROPA COMPIE CINQUANT’ANNI.Realizzazioni e prospettive

• DONNE IN POLE POSITION: il futuro è già cominciato?

• TESSERE IL FUTURO: guardare avanti e OLTRE...

• Finanza ed economia in crisi: QUALE FUTURO PER IL CAPITALISMO?

• LA CULTURA DEGLI EUROPEI DAL 1800 A OGGI

• Superare la crisi: UN PATTO GLOBALE PER L’OCCUPAZIONE(predisposto dall’ILO)

• UN PAESE PER GIOVANI: idee e proposte

• DOPO LA CRISI. RITORNA IL GOVERNO DELL’ECONOMIA?

• L'UNITÀ DELLE DIVERSITÀ. Tempi, luoghi, problemi di 150 anni di patria

• COSA STA CAPITANDO AL MONDO?

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• IL PROFETA DELLA CRISI. TRIBUTO A HYMAN MINSKY

• LA CRISI FINANZIARIA E I SUOI SVILUPPI: gli insegnamenti di Hyman Minsky

• LOMBARDIA IN MOVIMENTO

• IMPEGNO E LAVORO PER LE OPPORTUNITÀ CONDIVISE. Un ricordo di Laura Baruffi

• L'EUROPA NEL XXI SECOLO

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Finito di stamparenel mese di giugno 2014