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LA TEOLOGIA FONDAMENTALE Il dar ragione della propria fede (1 Pt 3,15) esiste dagli inizi del cristianesimo, ma solo nei secoli XII-XIII si chiarisce e si sviluppa il problema della motivazione razionale della fede che porta alle prime sintesi sistematiche dei problemi apologetici (Tommaso, Summa contra gentiles). Verso la fine del XVI secolo sorgono trattazioni apologetiche distinte dalla Dogmatica che si sviluppano inizialmente al di fuori dalla scuola. Nel secolo XVIII le questioni apologetiche, distinte dalla Dogmatica, entrano ufficialmente nelle Facoltà di Teologia. L.J. HOOKE, Religionis naturali set revelatae principia (1754), da inizio alla divisione tripartita (demostratio religiosa, christiana, catholica) che diverrà lo schema base di quella disciplina che dall’inizio del XIX secolo si chiamerà “apologetica (classica)”. [questo schema si trova però anche precedentemente in P. CHARRON, Des trois vérités (1514) e nel calvinista H. GROTIUS, De veritate religionis christianae (1627)]. Questo può comunque considerarsi l’inizio ufficiale dell’“apologetica classica” (anche se all’inizio non ha questo nome) come disciplina a sé. Le questioni da essa trattate vengono poste all’inizio dei corsi di Dogmatica (ne pone i fondamenti). Da essa, dopo vari ripensamenti interni, nascerà la “Teologia Fondamentale”. La Teologia Fondamentale assume in modo definitivo questo nome e non viene più chiamata “Apologetica” solo nella seconda metà del XX secolo. La costituzione Sapientia Christiana (29/04/1979) è il primo documento che la nomina esplicitamente. Questo cambiamento è stato preceduto da una lunga fase di ripensamento e critica dell’Apologetica classica che è terminata, a grandi linee, con il Conc. Vaticano II. - La critica riguarda soprattutto: Non si tiene in alcun conto il contenuto della rivelazione Gesù è visto solo come “Messia” Non si prende in considerazione il soggetto che deve accogliere la rivelazione Posizione di difesa che impedisce il dialogo - Per contro vengono messi in risalto: Nuova visione della rivelazione Ampliamento del tema della credibilità oltre i “miracoli e profezie” Necessità apologetica della conoscenza del Gesù storico Maggior attenzione verso il destinatario della rivelazione Nel periodo successivo al Vaticano II la Teologia Fondamentale ha dovuto precisare meglio il suo oggetto, il suo metodo e la sua struttura per giustificare la sua esistenza come disciplina autonoma e per non disperdersi in un insieme di questioni. - Oggetto materiale: la rivelazione di Dio in Gesù Cristo; Oggetto formale: la credibilità di questa rivelazione. - Metodo: “metodo dell’integrazione” = studia dogmaticamente il mistero della rivelazione e apologeticamente (scientificamente) l’evento della rivelazione. - Struttura: Il centro del suo studio è la rivelazione e la sua credibilità. Lo studio di altre questione sono implicate dall’assumere questo centro come oggetto principale di studio. ______________________ Bibliografia: R. LATOURELLE, «Teologia fondamentale (storia e specificità)», in Dizionario di Teologia Fondamentale (=DTF), Assisi 1990, 1248-1258; F. ARDUSSO, «Teologia fondamentale», in Dizionario Teologico Interdisciplinare, I, Torino 1977, 182-202; A. DULLES, «Apologetica (storia)», in DTF, 60-69; P. SGUAZZARDO, «Storia della Teologia Fondamentale», in Teologia Fondamentale (=TF), I, Roma 2004, 237- 340; A. SABETTA, «Modelli di Teologia Fondamentale del XX secolo», in TF, I, 341-401.

LA TEOLOGIA FONDAMENTALE - santanselmo.net · rivelazione», in Corso di Teologia Fondamentale, II, Brescia 1990, 66-94. - Su Vaticano I ( Dei Filius ) e Vaticano II ( Dei Verbum

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LA TEOLOGIA FONDAMENTALE

– Il dar ragione della propria fede (1 Pt 3,15) esiste dagli inizi del cristianesimo, ma solo nei secoli XII-XIII si

chiarisce e si sviluppa il problema della motivazione razionale della fede che porta alle prime sintesi

sistematiche dei problemi apologetici (Tommaso, Summa contra gentiles).

– Verso la fine del XVI secolo sorgono trattazioni apologetiche distinte dalla Dogmatica che si sviluppano

inizialmente al di fuori dalla scuola.

– Nel secolo XVIII le questioni apologetiche, distinte dalla Dogmatica, entrano ufficialmente nelle Facoltà di

Teologia.

– L.J. HOOKE, Religionis naturali set revelatae principia (1754), da inizio alla divisione tripartita

(demostratio religiosa, christiana, catholica) che diverrà lo schema base di quella disciplina che

dall’inizio del XIX secolo si chiamerà “apologetica (classica)”. [questo schema si trova però anche

precedentemente in P. CHARRON, Des trois vérités (1514) e nel calvinista H. GROTIUS, De veritate

religionis christianae (1627)].

– Questo può comunque considerarsi l’inizio ufficiale dell’“apologetica classica” (anche se all’inizio non

ha questo nome) come disciplina a sé. Le questioni da essa trattate vengono poste all’inizio dei corsi di

Dogmatica (ne pone i fondamenti). Da essa, dopo vari ripensamenti interni, nascerà la “Teologia

Fondamentale”.

– La Teologia Fondamentale assume in modo definitivo questo nome e non viene più chiamata “Apologetica”

solo nella seconda metà del XX secolo. La costituzione Sapientia Christiana (29/04/1979) è il primo

documento che la nomina esplicitamente.

– Questo cambiamento è stato preceduto da una lunga fase di ripensamento e critica dell’Apologetica

classica che è terminata, a grandi linee, con il Conc. Vaticano II.

- La critica riguarda soprattutto:

Non si tiene in alcun conto il contenuto della rivelazione

Gesù è visto solo come “Messia”

Non si prende in considerazione il soggetto che deve accogliere la rivelazione

Posizione di difesa che impedisce il dialogo

- Per contro vengono messi in risalto:

Nuova visione della rivelazione

Ampliamento del tema della credibilità oltre i “miracoli e profezie”

Necessità apologetica della conoscenza del Gesù storico

Maggior attenzione verso il destinatario della rivelazione

– Nel periodo successivo al Vaticano II la Teologia Fondamentale ha dovuto precisare meglio il suo

oggetto, il suo metodo e la sua struttura per giustificare la sua esistenza come disciplina autonoma e per

non disperdersi in un insieme di questioni.

- Oggetto materiale: la rivelazione di Dio in Gesù Cristo; Oggetto formale: la credibilità di questa

rivelazione.

- Metodo: “metodo dell’integrazione” = studia dogmaticamente il mistero della rivelazione e

apologeticamente (scientificamente) l’evento della rivelazione.

- Struttura: Il centro del suo studio è la rivelazione e la sua credibilità. Lo studio di altre questione

sono implicate dall’assumere questo centro come oggetto principale di studio.

______________________

Bibliografia: R. LATOURELLE, «Teologia fondamentale (storia e specificità)», in Dizionario di Teologia

Fondamentale (=DTF), Assisi 1990, 1248-1258; F. ARDUSSO, «Teologia fondamentale», in Dizionario

Teologico Interdisciplinare, I, Torino 1977, 182-202; A. DULLES, «Apologetica (storia)», in DTF, 60-69; P.

SGUAZZARDO, «Storia della Teologia Fondamentale», in Teologia Fondamentale (=TF), I, Roma 2004, 237-

340; A. SABETTA, «Modelli di Teologia Fondamentale del XX secolo», in TF, I, 341-401.

2

SIGNIFICATI DEL TERMINE “RIVELAZIONE”

- Fino alla scolastica del XIV secolo il termine è praticamente assente. Dall’illuminismo in poi esso viene posto

al centro della riflessione teologica con la comparsa dei manuali “De Rivelazione Divina”. Qui il senso è:

comunicazione di verità religiose fatta da Dio agli uomini direttamente o tramite un angelo.

- Come la Bibbia intende la comunicazione tra Dio e uomo:

- AT:

- Dio è il soggetto principale della “storia”. È la “storia” che manifesta l’azione e il nome di Dio.

- La rivelazione come storia mette in primo piano la parola e l’ascolto, non l’immagine e il vedere. La

verità riguarda, contemporaneamente, i “concetti” e l’avvenimento, l’azione.

- Lo scopo è di far conoscere il nome di Dio.

- Lo scopo è la salvezza e la vita dell’uomo.

- NT:

- Storia e parola vanno a coincidere in una persona: il Verbo di Dio.

- Il contenuto rivelativo si identifica totalmente con il soggetto che lo espone.

- Periodo patristico:

- L’essenza, la possibilità e la realtà della rivelazione non sono temi della teologia.

- Anche se manca visione “sistematica” il tema della comunicazione tra Dio e uomo è onnipresente e si

indica con: “parola di Dio”, “traditio” (Ireneo, Cipriano), “regula evangelii” (Didaché), “regula fidei”

(Tertulliano).

- Nessuna distinzione tra: “rivelazione” biblica e post-biblica, tra “rivelazione” naturale e soprannaturale.

- Con Giustino e i teologi alessandrini entra il concetto di “rivelazione” come vera dottrina ed

ammaestramento che porta verso una progressiva intellettualizzazione del termine “rivelazione”.

- Periodo della scolastica: elaborazione di un concetto formale di “rivelazione”.

- Bonaventura: «luce per la ragione» che da «illuminazione certa»

- Tommaso: «operazione salvifica» che possiede una componente gnoseologica, mediante la quale Dio fa

conoscere quelle cose utili e necessarie alla salvezza.

a) separazione tra “rivelazione” e “salvezza” che durerà fino al Vat. II

b) “rivelazione” si riferisce al processo e non al contenuto (le verità da credere). Quest’ultime sono

«sacra dottrina»

- Concilio di Trento (1545-1563)

- Il Concilio è interessato soprattutto sui mezzi e sulle fonti della rivelazione

- Compare per la prima volta in un documento il termine “rivelazione”, nel decreto sulla giustificazione

quando si tratta della “rivelazione privata” (DS 1516)

- Dopo Trento:

- Spostamento di interesse dalla fede alla ragione, intesa in un modo differente dal medioevo.

- Contesto del razionalismo e della Riforma:

a) focalizzazione sull’oggetto della verità di Dio

b) perdita della relazione con il soggetto credente

c) insistenza sui segni esterni della rivelazione

- Concilio Vaticano I (1869-1870): modello teoretico-dottrinale di rivelazione

- Cap. II di Dei Filius: prima affermazione dogmatica sulla rivelazione.

- Si affronta il tema della rivelazione in seguito ad una provocazione esterna: il razionalismo

a) La rivelazione viene ristretta al campo veritativo: verità certa ed assoluta che permette di entrare in

contatto con i beni divini che superano totalmente l’intelligenza umana (DS 3005).

b) La rivelazione è un “dottrina”, un insieme di misteri che superano l’intelletto, la cui credibilità non è

quindi ad essi intrinseca ma legata a prove esterne: miracoli e profezie (si salva quindi la “razionalità”

della fede contro il fideismo o kantismo)

- Concilio Vaticano II (1962-1965): modello autocomunicativo-partecipativo di rivelazione

- Dei Verbum è il primo documento magisteriale dedicato interamente alla rivelazione.

- Rivelazione: partecipazione agli uomini della vita di Dio, di Dio stesso, tramite l’incarnazione e la

comunicazione dello Spirito (dimensione trinitaria). Solo così essa può essere il fondamento ultimo del

cristianesimo.

3

- La rivelazione si compie secondo una dinamica storica che ha il suo culmine in Cristo (dimensione storica

e cristologica): Cristo è l’essenza del cristianesimo.

- La rivelazione avviene nella storia interpretata dalla parola (non i semplici fatti, ma eventi).

- La rivelazione è inscindibile dalla salvezza, e pertanto essa si può dire conclusa solo nel senso che

qualitativamente non può essere superata: Dio non può dire e dare un qualcosa di più.

- La rivelazione nel suo carattere visibile, concreto, intelligibile che culmina in Cristo è la “parola di Dio”.

La Sacra Scrittura non è invece “parola di Dio” ma l’attestazione canonica, normativa della rivelazione o

della “parola di Dio”.

___________________________

Bibliografia:

- Su storia in genere del concetto di rivelazione: FISICHELLA R., Introduzione alla Teologia fondamentale,

Casale Monferrato 1992, 67-80; SCHMITZ, J., La rivelazione, Brescia 1991, 49-90; SECKLER, M., «Il concetto di

rivelazione», in Corso di Teologia Fondamentale, II, Brescia 1990, 66-94.

- Su Vaticano I (Dei Filius) e Vaticano II (Dei Verbum): «La rivelazione cristiana nella Costituzione conciliare

“Dei Verbum”», in La Civiltà Cattolica IV(1985)417-428; TONIOLO, A., Cristianesimo e verità. Corso di

teologia fondamentale, Padova 2004, 189-204; O’COLLINS, G., Il ricupero della teologia fondamentale, Città

del Vaticano 1996, 78-103.

4

RIVELAZIONE COSMICA E RIVELAZIONE STORICA (Bibliografia: J. SCHMITZ, La rivelazione, Brescia 1991; W. KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, Brescia 1984, 99-106.)

- Il Vat. I (DS 3004) parla di rivelazione “naturale” e “soprannaturale” (esplicitamente parla solo di

quest’ultima) rifacendosi ad una divisione tradizionale che si può far risalire ai Libri Sapienziali (Sap 13,1).

- S. Bonaventura che distingue fra “liber coscientiae”, “liber creaturae” e “liber Scripturae”, e dove il termine

“liber” indica la presenza di una rivelazione (Opera Omnia 9, 455 (Sermo III)).

- Il Vat. II riprende quest’ultima distinzione (DV 3)

- La riflessione teologica odierna preferisce invece utilizzare i termini “cosmica” e “storica”.

- La prima riguarda la conoscenza naturale di Dio e la legge morale (coscienza), e il termine “naturale”

indica qui tutto ciò che si riconosce come “reale” per mezzo della ragione umana.

- La seconda riguarda l’autocomunicazione di Dio all’uomo che avviene nella storia ed è accolta nella

fede. Qui il termine “storica” traduce bene il senso di “soprannaturale” come era inteso dal Vat. I nel

contesto in proposito (DS 3004).

- La prima si può indicare anche come “rivelazione impropria”, visto che non riguarda ancora la realtà

della comunione con Dio; la seconda, quindi, si può anche indicare come “rivelazione propria”.

- Nel mondo protestante questa distinzione tradizionale si indica con i termini “legge” e “vangelo”.

La rivelazione cosmica

(Bibliografia: S. VISINTIN, «Dal cosmo a Dio. Ha la scienza interrotto questa via?», in Studia Patavina 52 (2005) 529-

548; ID., «L’Intelligent Design Movement e la Teologia», in Studia Patavina 53 (2006) 727-745; ID., «Teologia e Vita

nel pensiero di Karl Rahner», in Vita Monastica 228 (2004) 5-25.)

- La realtà del mondo, nella sua totalità (natura e uomo), ci si presenta come una continua domanda. Visto che

però questa realtà è una realtà creata da Dio, questa domanda è una sfida che Dio stesso rivolge all’uomo

perché giunga alla conoscenza di Lui.

Questo è, nelle sue linee generali, il ragionamento che permette di parlare di rivelazione cosmica di Dio nelle

realtà che la ragione umana può scoprire.

- Nella Bibbia e nel passato era normale guardare al mondo come ad una realtà che indirizza a Dio e alla sua

continua presenza.

Ma è questo ancora vero dopo che la natura è divenuta oggetto di studio delle moderne scienze che operano a

prescindere da Dio?

Molti pensano di no e hanno ristretto gli argomenti, per il necessario dar ragione dell’esistenza di Dio,

all’interiorità umana (vita morale, spirituale e affettiva).

- Però anche partendo dalla moderna visione scientifica del mondo è possibile trovare uno “spazio” per Dio e

una via verso Dio.

Questo è solo da intendersi in modo diverso da una prova di tipo scientifico-matematico.

1. La scienza non spiega tutto e lascia certe domande fondamentali senza risposta

- La scienza spiega l’origine dell’universo da qualcosa di pre-esistente, qualunque cosa essa sia, secondo i

dettami delle leggi fisiche. Essa è la risposta alla domanda, di tipo temporale, sul “come le cose sono

cominciate”. La dottrina della creazione vuole indicare invece che solo Dio é il fondamento del mondo e che

tutto si trova nei suoi confronti in un rapporto di totale dipendenza. Essa è la risposta alla domanda ontologica

sul “perché le cose esistano”. Domanda fondamentale, ma estranea alla scienza

- Il concetto di “creazione” non riguarda solo il passato del mondo ma anche il suo presente e il suo futuro, la

spiegazione teologica risponde anche ad un’altra legittima domanda che l’uomo si pone: quella circa il senso e

il fine ultimo dell’esistente e dell’esistenza umana. Domanda che trascende le possibilità di risposta della

scienza.

- La scienza presuppone l’intelligibilità dell’esistente senza poterla spiegare. La dottrina della creazione può

invece spiegarla.

2. Anche nella visione scientifica attuale ci sono elementi che possono indirizzare a Dio

5

- Nello studio dell’inizio dell’universo e della sua evoluzione è emerso come i vari elementi che concorrono a

questo processo devono presentare una così precisa regolazione (fine tuning) che ogni minima variazione

avrebbe prodotto – qualora avesse prodotto qualcosa di stabile – un universo totalmente differente e incapace di

produrre la vita e l’uomo.

Due sono le spiegazioni che sembrano al momento ragionevoli:

- Esistono una infinità di universi. Il nostro non è un “universo” ma un “multiverso”.

- Il mondo è il frutto di un piano di un Essere Intelligente che chiamiamo Dio.

- L’ipotesi “Dio” può essere proposta come miglior spiegazione possibile di ciò che scientificamente

conosciamo del nostro universo (e non come prova logico-deduttiva dell’esistenza di Dio) tenendo conto di altri

elementi: (a) essa è la risposta a domande fondamentali, come abbiamo visto al punto 1.; (b) essa rende conto

dell’imperativo etico; ad essa indirizza anche l’esperienza religiosa umana, che vedremo al punto 3.

- Il Concilio Vat. I parla a proposito della conoscenza di Dio che l’uomo può raggiungere con l’uso della

ragione, come di una conoscenza certa (DS 3004; 3026). Ma:

- Il Concilio qui «parla di conoscenza in senso latissimo, non di un modo di pensare di tipo logico-

argomentativo. Non si è dunque definito che Dio può essere dimostrato con il lume naturale della

ragione»

- La definizione «parla soltanto della possibilità di conoscere Dio (certo cognosci posse), ma non

intende dire alcunché in merito al fatto che questa conoscenza di Dio per via naturale avvenga». Si

tratta in fondo solo di una posizione di principio, teorica,

- Il Vat. II riprende poi questa astratta prospettiva teologico-trascendentale integrandola con una

concreta prospettiva storico-salvifica (DV 6) che fa vedere come la domanda che l’uomo è per se

stesso abbaia la sua risposta solo da Gesù Cristo e non dalla conoscenza naturale.

3. L’esperienza umana di Dio

- Oltre che all’esterno noi dobbiamo guardare anche all’interno di noi stessi per cercare argomentazioni per

rendere ragione della nostra fede in un Dio.

- L’esperienza che l’uomo ha di Dio è un “esperienza con l’esperienza”, in quanto la conoscenza che abbiamo

di Dio emerge solo quando ci volgiamo verso la nostra immediata e diretta esperienza di noi stessi e del mondo

e ci interroghiamo su di essa e sulle sue condizioni di possibilità.

- K. Rahner parla dell’esperienza umana di Dio in questi termini:

- Ogni uomo ha un’esperienza trascendentale di Dio - cioè un’esperienza della propria trascendenza: del

fatto che l’uomo “trascende” ogni limite, ed ogni traguardo è solo un nuovo punto di partenza.

- L’uomo è un essere “sempre per via” perché egli ha una consapevolezza dell’Essere Assoluto che non lo

lascia mai “riposare”, in quanto gli mostra la limitatezza, la finitezza e la caducità di ogni traguardo

raggiunto, sia nel campo del conoscere che in quello del volere, e lo spinge sempre oltre

- Questa sola esperienza è ambigua, perché essa è l’esperienza di un abisso inquietante, che ha il sapore

del nulla e che, pertanto, diviene un esperienza di Dio solo quando ci abbandoniamo ad essa trovandovi

sostegno e scoprendo che essa è l’esperienza dell’abisso di Dio e che ha il sapore del nulla solo perché è

l’infinito.

- I “miti”, pur assumendo la forma esterna di “storia”, sono totalmente differenti da ciò che noi indichiamo

come “rivelazione storica” ed entrano invece nella categoria dell’esperienza umana di Dio.

- La rivelazione cosmica consiste nel fatto che la realtà problematica della creazione rimanda, da sempre e

per sempre, al di là di sé, ad un Creatore.

- La rivelazione storica non ha a che fare con un qualcosa di permanente e dato “ab initio”, ma con

qualcosa che avviene in maniere nuova “in illo tempore” nella storia dell’umanità. Ciò che sta alla base

del cristianesimo sono avvenimenti storici concreti in cui viene sperimentata la presenza giudicante ed

amorevole di Dio e che danno una norma e un senso all’agire successivo, aprendo così ad un futuro in cui

l’uomo viene abilitato ad un agire pieno di speranza.

- Il mito parla sempre di un qualcosa avvenuto “in illo tempore” ma questo è un “prima di tutti i tempi”

fuori dalla storia, è ciò che rimane sempre uguale, non cambia e non si esaurisce, ciò che possiamo solo

lasciarci raccontare dalla tradizione. Il mito cerca l’evento decisivo per il presente – il fondamento e il

principio di comprensione di ogni esperienza umana fondamentale – nel tempo primordiale, in ciò che è

sempre stato e sempre sarà. E fa ciò per non dover valutare la totalità dell’esistente come soggetta al caso,

ma legata, per l’appunto, a un evento primordiale da doversi ripetere.

6

RIVELAZIONE COSMICA E RIVELAZIONE STORICA/2 (Bibliografia: per quanto riguarda la rivelazione secondo Rahner si veda S. VISINTIN, Rivelazione divina ed esperienza

umana, Bern 1999; ID., «Teologia e Vita nel pensiero di Karl Rahner», in Vita Monastica 228 (2004) 5-25.)

- Ciò che conosciamo scientificamente dell’universo e l’esperienza etica e religiosa umana possono anche oggi

indirizzare verso Dio (è la miglior spiegazione possibile di ciò che conosciamo).

Ma chi è questa realtà che chiamiamo “Dio”? In che rapporto sta con l’uomo? Chi è Egli per l’uomo e chi è

l’uomo per Lui?

La risposta ha queste domande, e anche la possibilità di formularle meglio, l’uomo l’ha solo nella rivelazione

che indichiamo come “storica” o “soprannaturale”.

- Ritornando a quanto detto in precedenza sull’esperienza umana di Dio, dobbiamo dire che essa è per Rahner

l’elemento più fondamentale ed originario a cui ogni altra “prova” rimanda. Essa nell’uomo storico concreto è

sempre anche esperienza della grazia, cioè di Dio stesso che si è comunicato all’uomo. Essa è un dato

“anonimo” finche non viene interpretato grazie alla rivelazione storica, ma è un dato reale ed universale (è un

“esistenziale”) sempre presente che costituisce già ciò che chiamiamo “rivelazione” e precisamente, per

Rahner, il suo aspetto “trascendentale”. Essa è la condizione di possibilità della rivelazione storica.

La rivelazione storica

Sua natura

- La rivelazione biblica non avviene solo nella storia ma come storia; il suo tratto specifico è proprio il suo

carattere storico.

La testimonianza dell’Antico e del Nuovo Testamento è carica di avvenimenti storici ben determinati che sono

stati visti come azioni di Dio, la cui presenza e il cui agire si manifesta e contemporaneamente si nasconde in

essi, introducendo in un mistero più grande.

- Il semplice accadimento storico, cioè, non è ancora evento storico, in quanto abbisogna della parola profetica

che interpreti l’accadimento storico, che lo sveli come proveniente da Dio e orientato a Dio.

- La rivelazione storica presenta quindi una struttura simbolica (svela e nasconde ad un tempo il significato),

dove il senso profondo degli avvenimenti non è naturalmente da intendersi come un contenuto che viene

semplicemente aggiunto dalla mente umana all’accadimento storico: l’accadimento manifesta e rafforza le

parole, mentre quest’ultime lo dichiarano e chiariscono il mistero in esso contenuto.

- Quanto poi si manifesta nell’evento storico di rivelazione non è solo il fondamento numinoso (numen, nel

linguaggio religioso romano, indica la volontà, la forza della divinità che permea tutta l’esistenza individuale e

collettiva) di tutta la realtà, ma un “Dio che guida”, un Dio che mette in movimento verso una salvezza

definitiva, prima prefigurata e poi espressa chiaramente.

- Questa rivelazione infine non offre solo un punto di appoggio all’uomo immerso nell’incertezza della sua vita,

ma avvia anche una storia e influisce su di essa. Essa cioè continua ad essere quell’avvenimento dinamico che

dischiude all’uomo una via nella storia sotto la guida del Dio trascendente-immanente.

Sua particolarità

- Nel giudeo-cristianesimo si ha la trasfigurazione dell’evento storico irripetibile in una manifestazione del

sacro. L’evento storico, pur rimanendo quello che è, diventa capace di trasmettere un messaggio tran-storico. Il

tempo e la storia acquistano valore e significato.

Sue tappe

- DV3 e DV4 parlano di preparazione e di completamento della rivelazione in Cristo.

- Il dato essenziale della rivelazione cristiana, e imprescindibile per ogni cristologia, risiede nella convinzione

di Gesù di essere il portatore escatologico di salvezza, e di essere quindi non solo colui che annuncia il Regno

ma anche colui che lo realizza. Con Gesù cioè la “promessa” di Dio quale nostra salvezza è diventata evento

storico in una maniera insuperabile e irreversibile ed è stata poi definitivamente suggellata dalla sua

risurrezione.

7

La peculiarità cristiana risiede quindi nel fatto che con Gesù è diventato un dato storico irreversibile e definitivo

che Dio è per l’uomo una realtà vicina che si dona all’uomo e lo salva. Ciò che l’uomo poteva solo sperare -

guardando alla sola sua esperienza religiosa e alle “prove” dell’esistenza di Dio cui quest’ultima è fondamento

– diviene una realtà storica confermata da Dio stesso.

Sua necessità

- Il pericolo insito in ogni trattazione della rivelazione partendo dall’universalità della domanda su Dio che

l’uomo formula partendo da ciò che scopre nel cosmo e/o nella sua esperienza interiore, è il rendere la

rivelazione storica non assolutamente necessaria (p.es. , nel “modernismo”).

- L’esistenza di una rivelazione storica, come messo in evidenza da K. Rahner, trova la sua condizione di

possibilità nel fatto che l’uomo è un essere materiale, è “spirito nel mondo”, che, in quanto libero, si caratterizza

ontologicamente come essere storico.

Quando qui diciamo che l’uomo si caratterizza ontologicamente come essere storico non vogliamo dire che la

sua storicità si pone accanto al suo essere “spirito”, ma che essa è un momento essenziale, intrinseco, del suo

essere: è un “esistenziale”. L’uomo è spirito e si realizza come tale solo in quanto entra in contatto con il

mondo e con la storia, solo nel mentre egli sperimenta, patisce e fa la propria storia. L’uomo è l’essere della

trascendenza, ma solo e in quanto ne prende coscienza mediante la storia e lo attua liberamente nella storia. Ed

è, pertanto, sempre e solo nella storia che si manifesta ciò che l’uomo da sempre è, ciò che vuol dire “essere

uomo” e chi sia Dio per lui.

- La nostra conoscenza a-tematica di Dio che emerge nell’esperienza religiosa deve essere vista propriamente

come una condizione di possibilità perché tramite il contatto con qualche elemento “esterno” si abbia una vera e

propria conoscenza tematica di Dio. Infatti, prima di tale contatto – volendo parlare in termini di “conoscenza”

– essa è solo una vaga consapevolezza che richiede il contatto con l’“esterno” per potersi dare un contenuto

tematico, articolato e oggettivo. Prima di tale contatto non c’è un vero e proprio contenuto e, quindi, non si

pone alcuna limitazione a ciò che si rivela nella storia. Essa è solo la condizione necessaria, la “luce”, che

permette di cogliere il valore dell’evento contingente della rivelazione storica.

- Lo schema che si segue qui è: senza domande (ciò che l’uomo scopre nella sua esperienza interiore e nel

cosmo) non c’è alcuna risposta (la rivelazione storica). Per non cadere in un puro soggettivismo (Cf. L.

Feuerbach) bisogna però anche evidenziare che la risposta rende più chiara la domanda e come tra le due ci sia

un rapporto di mutuo condizionamento.

Sua credibilità

- La rivelazione storica è una verità che si rivolge alla libertà umana e quindi non costringe l’uomo ad

accettarla. Essa è una verità che:

a) Si presenta come possibile ed accettabile (si tratterà di questo nella prossima lezione parlando della

“Pretesa di storicità del cristianesimo”).

b) Si presenta come portatrice di senso alla conoscenza che l’uomo ha del mondo e di sé. Essa è l’unica

risposta piena all’inevitabile interrogativo dell’esistenza umana: che rapporto c’è tra il mistero assoluto

(chiamato “Dio”), che compare nell’esperienza religiosa e si esplicita nella ricerca di “prove”, e l’uomo?

In altre parole, dall’uomo sorge e l’uomo stesso è una domanda a cui solo la rivelazione cristiana può

rispondere. In questo sta la credibilità di quest’ultima.

La rivelazione in Cristo rivela nella storia ciò che l’uomo poteva solo sperare: il Mistero del mondo è un

Dio personale vicino ad ogni uomo e vuole donarsi a lui per salvarlo. Pur essendo un evento storico

contingente essa ha dunque una portata universale, visto che è “risposta” all’interrogativo dell’esistenza

umana. (Cf. G.E. Lessing)

8

RIVELAZIONE COSMICA E RIVELAZIONE STORICA/3 [Bibliografia: R. FISICHELLA, La rivelazione: evento e credibilità, Bologna 1985

8, 357-507; ID., «La credibilità della rivelazione

cristiana», in G. Lorizio, ed., Teologia Fondamentale, II, Roma 2005, 397-462; K. RAHNER, Foundations of Christian Faith, New

York 2004, 264-284 (La teologia della risurrezione e della morte di Gesù)].

La rivelazione storica/2 - Pretesa di storicità del cristianesimo

- La pretesa del cristianesimo di essere una “religione storica” si concentra specialmente sulla persona di Gesù,

che del cristianesimo costituisce la vera essenza specifica.

A tal riguardo il dato storico essenziale e imprescindibile per ogni cristologia sembra risiedere nella

convinzione di Gesù di essere il portatore escatologico di salvezza, cioè di essere colui che non solo annuncia il

Regno ma lo realizza: in lui la promessa di Dio quale nostra salvezza diventa evento storico in una maniera

insuperabile e irreversibile ed è stata poi definitivamente confermata dalla sua morte salvata (la resurrezione).

a) Fonti non cristiane [Cf. F.F. BRUCE, Testimonianze extrabibliche su Gesù, Torino 2003; H. WALDENFELS, Teologia Fondamentale, Cinisello Balsamo

1988, 254].

- Svetonio, lo storico romano, evidenzia che tra il 41 e il 54 d.C. l’imperatore Claudio espulse i giudei da Roma

a causa dei disordini da essi provocati sotto la istigazione di Cresto (Crestus).

- Tacito, lo storico romano, scrivendo dell’incendio di Roma del 64 d.C., dice che Nerone incolpò i cristiani il

cui “originatore” Cristo fu giustiziato durante il regno di Tiberio dal procuratore della giudea Ponzio Pilato.

[Alcuni critici notano che Tacito scrive circa 50 anni dopo gli eventi e nulla lascia sospettare che egli sia una fonte indipendente da

quelle cristiane. Se egli avesse attinto da fonti legali del tempo di Pilato non avrebbe sbagliato dicendo che questi era “procuratore”

mentre in realtà era “prefetto”].

- Giuseppe Flavio, lo storico giudeo, parla di Giacomo il fratello di Gesù, il cosiddetto Cristo. Un secondo

riferimento (con aggiunte cristiane successive, per alcuni critici) parla di Gesù come uomo saggio e maestro,

con discepoli tra ebrei e pagani, condannato alla morte in croce da Ponzio Pilato

- Numerosi sono poi i cenni nel Talmud. [Alcuni critici notano che, a parte altri problemi di identificazione, questi testi non

vennero scritti prima del 200 d.C. e non c’è prova che questi cenni provengano da scritti più vecchi].

b) La questione del Gesù storico

- Da Reimarus (+1768) a Schweitzer (+1965) si è evidenziata l’impossibilità di scrivere una storia di Gesù a

partire dal materiale trasmessoci dalla comunità primitiva in quanto questa ha avuto un ruolo creativo e non

solo “trasmettitivo”. Pertanto bisognava prendere atto della differenza tra il Gesù della storia e il Cristo del

kerigma.

- R. Bultmann, evidenzia che il Gesù della storia non ha alcun interesse per la fede ma che per noi è importante

solo il Cristo del kerigma. In ogni caso poi il Gesù storico non si può raggiungere in quanto la comunità ha

creato il suo “mito”. Di lui si può dire solo il fatto della sua esistenza e morte, ma nulla di più.

- Dal 1953 inizia la critica a Bultmann da parte dei suoi discepoli. P. es., Käsemann e Fuchs evidenziano la

continuità tra Gesù di Nazaret e il kerigma concentrandosi nello studio della “particolarità” di Gesù e di tutta la

sua vita, della sua specificità, che ha indotto i discepoli, prima, a credere a lui e, poi, ad aderirvi pienamente

dopo. Schürmann cerca invece di evidenziare l’origine pre-pasquale delle parole di Gesù trasmesse dopo la

pasqua.

- Attualmente si dice che tra il Gesù di Nazaret e il Cristo del kerigma c’è una continuità (storico-teologica)

nella discontinuità: la pasqua ha cioè dato nuovi fondamenti alla fede dei discepoli, ma non l’ha creata ex novo.

È poi riconosciuto da tutti che i Vangeli sono delle testimonianze di fede e non delle biografie (quindi è

impossibile scrivere una “vita di Gesù”), in quanto vogliono annunciare la salvezza realizzatasi in Cristo. I loro

autori (nessuno è stato testimone oculare) selezionano e usano materiale precedente inquadrandolo in una

particolare prospettiva (dipendente dalle esigenze delle varie comunità a cui sono rivolti).

Volendo pertanto andare alla ricerca della relazione tra testo ed evento si procede ora nel seguente modo:

testo lavoro letterario (RG) lavoro letterario-storico (FG) lavoro storico (criteri di st.) evento

RG (Redaktion Geschichte): studia il contributo dei singoli evangelisti

FG (Form Geschichte): studia la tradizione orale più antica e la evoluzione delle varie forme fino alla redazione

scritta.

Criteri di storicità: Criteri fondamentali (che possiedono valore in se stessi e autorizzano giudizio sicuro di

storicità); Criteri derivati (dai criteri fondamentali); Criteri misti (si basano anche su indizi letterari).

Criteri fondamentali: a) Attestazione multipla; b) Discontinuità; c) Conformità; d) Spiegazione necessaria.

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c) I titoli cristologici

- Con questa analisi si intende vedere se i titoli attribuiti a Gesù esprimono la sua reale autoconsapevolezza –

mediata dalla comunità – o sono invece pura “creazione” della fede in lui di quest’ultima.

Alla loro formazione concorrono due fattori: 1) autoconsapevolezza di Gesù; 2) linguaggio di fede legato a

Gesù. Al loro interno possiamo fare la seguente suddivisione: 1) titoli che esprimono la coscienza popolare dei

contemporanei di Gesù (Profeta, Figlio di Davide); 2) titoli che risalgono a Gesù (Figlio dell’uomo); 3) titoli

della comunità post-pasquale (Sapienza, Signore, Messia, Figlio di Dio).

- Figlio dell’uomo. Titolo che assume in sé le caratteristiche messianico-escatologiche (gloria, potere,

giudizio escatologico) di Dn 7 e quelle della figura del “servo di JHWH” (umiltà, sofferenza). “Originalità”

e “discontinuità” fanno pensare ad una autentica espressione di Gesù. Nel NT esso, 37 su 51 casi, non è

nient’altro che un ampliamento – è più solenne – del pronome personale “io”; i casi rimanenti resistono

però alle critiche.

- Messia. In AT indica futuro salvatore in un contesto religioso. A seconda le periodo storico assume

differenti forme: regale, sacerdotale (dopo l’esilio), escatologica (Maccabei), profetica (Dt 18) e di servo di

JHWH. In NT c’è attesa di messia terreno e politico a cui risponde racconto delle tentazioni con il rifiuto di

benessere, gloria e potenza. Dall’analisi segue che non sembra essere una pura invenzione della comunità

credente in quanto sembra attendibile il fatto che Gesù si sia concepito –non definito! – tale anche se in

modo peculiare: a) Gesù non si definisce tale, ma corregge il titolo e non lo nega (Mt 11, 2-6); b) È detto

tale da altri – Pt in Mc 8, 27-30 – anche se sempre con correzione; c) Si riconosce tale in risposta a Caifa e

Pilato.

- Figlio di Dio. In AT si ha “figliolanza adottiva” – popolo, gente buona, giudici, re, angeli – ed indica

intimità e fedeltà, non la divinità. In NT indica una dimensione ontologica, allusa o chiara (in Gv). Gesù

non si è comunque mai detto tale, ma ha usato i termini “padre” e “figlio” in modo tale da far intendere il

carattere peculiare di figliolanza inerente al suo rapporto con il Padre (parabola dei vignaioli; uso del

termine “abba” in discontinuità con ambiente giudaico).

- In conclusione si può dire che guardando ai testi che la comunità primitiva ci ha trasmesso su Gesù emergono

dei tratti di autoconsapevolezza dello stesso Gesù che evidenziano come egli si sia compreso come il portatore

escatologico di salvezza, come colui che realizza il Regno e non solo lo annuncia, come colui mediante il quale

si rende presente nella storia in modo unico e definitivo il piano di Dio per l’umanità.

d) Il Risorto

- Prima del Vat.II: la risurrezione è un evento storico inconfutabile che si fonda sulla “tomba vuota” e sulla

credibilità dei discepoli che hanno visto Gesù risorto. Essa è poi una delle “prove” esterne del carattere divino

della rivelazione cristiana. Essa era cioè un qualcosa del passato e, tutto sommato, poco “significativo” per la

fede.

- Ora c’è insistenza su due aspetti della risurrezione: storicità e senso dell’avvenimento

a) Sua storicità – per rendere intelligibile e, quindi, ragionevole la scelta di fede.

- La resurrezione è storica perché realizzata da un uomo storico ed è sperimentata da testimoni storici. Più

esattamente, si può dire che essa è un evento reale accaduto nella storia (riguarda l’uomo Gesù, e ha effetti

verificabili dalla ricerca storica: apparizioni e sepolcro vuoto, il raggruppamento dei discepoli dopo la fuga,

la loro testimonianza fino al martirio, la nascita della Chiesa), ma che contemporaneamente trascende la

storia (superamento della morte e accesso alla pienezza di Dio, redenzione dell’umanità). Per questo motivo

di essa si potranno dare sempre e solo giustificazioni indirette.

- La “tomba vuota” non ha valore in sé ma solo assieme alle apparizioni, in quanto – insieme – indicano

che il risorto è Gesù crocefisso e sepolto. Una analisi storica deve ovviamente essere in grado di evidenziare

che Gesù è realmente morto, che è stato effettivamente sepolto e che il luogo era ben riconoscibile in modo

da poterlo poi indicare come vuoto.

- Le apparizioni sono un “effetto” della risurrezione che, in quanto tale, non ha avuto testimoni oculari. Su

di esse non si può dire molto di più di quanto evidenziato, pur nella sua lettura già “teologica”, nel NT: ci

sono dei testimoni che affermano di aver visto Gesù risorto in un momento particolare della loro vita e in un

incontro reale accaduto nello spazio e nel tempo (non è un “fantasma”), anche se la descrizione del Risorto

non può essere “catturata” da una narrazione puramente umana.

L’incontro con il risorto, poi, cambia e trasforma in modo radicale la vita di chi ne fa esperienza, e questa è

una realtà che si impone evidente e irrefutabile agli occhi dello storico: qualcosa è realmente successo!

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b) Suo significato – cioè sua credibilità legata al contenuto che “parla” alla mia esistenza.

- La resurrezione di Gesù non è la rianimazione di un corpo che non tocca la mia esistenza, ma essa

significa che ogni esistenza umana e definitivamente salvata e accettata da Dio.

Essa non significa il perdurare della “causa” di Gesù in senso idealistico, in quanto la sua causa è un

tutt’uno con la sua persona: egli si è presentato come il portatore escatologico di salvezza e, quindi, la sua

risurrezione, e solo essa, mi parla della vittoriosità di questa sua pretesa (non è solo una pia speranza).

Se la risurrezione è tutto questo, la fede in essa è un dato ad essa intrinseco. Essa non potrà mai essere la

vittoria escatologica di Dio nel mondo se io mi chiudo ad essa e non l’accolgo nella fede: solo nella fede la

risurrezione raggiunge il suo compimento. Pertanto, la frase “Gesù è risorto nella fede dei suoi discepoli” è

da intendersi nel senso che la fede di cui qui si parla non è la fede in un fatto, ma la fede che sa, guardando

a Gesù, che l’esistenza umana e salvata.

- Il destino di un uomo ha significato per tutti; Dio suscita un uomo che nella sua realtà è la parola e

l’offerta finale, insuperabile e irrevocabile all’umanità: Dio è un Dio “vicino” e invita l’uomo ad accettare

questa “vicinanza”; questa parola e questa offerta sono in lui è un dato storico; questa offerta può essere

definitiva solo se accettata, sia pure da un solo uomo; una accettazione che avviene in tutta la vita di

quest’uomo e diviene definitiva attraverso la morte; questa parola ed offerta di Dio può però dirsi completa

solo se questa accettazione da parte dell’uomo si rivela storicamente come accetta anche da Dio e ormai

“presente” davanti a Dio tramite ciò che indichiamo come “Risurrezione”.

La Risurrezione è cioè la conferma da parte di Dio della pretesa di Gesù di essere la presenza storica di

quella parola finale ed insuperabile dell’auto-rivelazione di Dio.

- L’esperienza, nella fede, della risurrezione “storica” di Gesù è legata in un legame di mutuo

condizionamento con la nostra esperienza della speranza e dell’attesa della nostra risurrezione. L’uomo può

infatti sperimentare la sua eterna validità come persona morale, quando in una decisione fondamentale

sceglie radicalmente e senza compromessi il bene per il bene.

11

RIVELAZIONE COSMICA E RIVELAZIONE STORICA/4

Rivelazione cosmica e rivelazione storica: unità nella distinzione

- Conoscere Dio come causa e fondamento del mondo e della storia (rivelazione cosmica) o credere in lui come

colui che si dona agli uomini per renderli partecipi della natura divina (rivelazione storica), sono due cose

diverse.

- Esse sono però anche profondamente unite:

- La creazione è la prima delle azioni di Dio che continuano poi nella storia del “suo popolo”.

- Il NT vede tutta la realtà come creata in vista di Cristo ed in lui ricapitolata. Mediante lui alla fine Dio

sarà tutto in tutti.

- Esse provengono quindi dalla medesima fonte e vanno verso lo stesso traguardo.

- Il “libro della natura” ed il “libro della Scrittura” sono ambedue scritti da Dio e sono così strettamente uniti

che non si possono leggere uno dopo l’altro ma insieme.

Rivelazione interiore e rivelazione esteriore

- Posizione “tradizionale”: azione combinata di annuncio esterno e attrazione interiore (inconoscibile

riflessivamente se non in casi mistici straordinari). Ben espressa da R. Latourelle, che insiste perché la

dimensione interiore della rivelazione non porti il nome di “rivelazione” ma di “testimonianza” [Vedi R.

Latourelle, «Rivelazione», in DTF, 1060-61].

- K. Rahner ritiene invece che ciò che tradizionalmente veniva indicato come “dimensione interiore” della

rivelazione dovesse portare a buon diritto il nome di “rivelazione”. Questo perché, per lui, l’uomo può fare

“esperienza”, può “essere consapevole” di questa realtà della grazia – cioè Dio stesso che si autocomunica

all’uomo.

- La possibilità di parlare di un’esperienza di Dio, di un’esperienza della sua autocomunicazione nello

Spirito trova il suo fondamento innanzitutto nella Scrittura stessa. Qui si parla di una vera e propria

esperienza dello Spirito e questo è un dato da non trascurare - anche se va interpretato.

- Nella tradizione cristiana sono sempre esistiti i fenomeni e i movimenti entusiastici e la mistica.

Quest’ultima, poi, non deve essere vista come un fenomeno “elitario”. Se la cogliamo nel suo nucleo

essenziale che prescinde dai fenomeni eclatanti e rari che la possono accompagnare, essa è un tipo di

esperienza che è fatta da ogni uomo, ne sia questi chiaramente consapevole o meno.

- Essa non è una conoscenza certa, facilmente tematizzabile

Rivelazione e salvezza

- Su tale questione registriamo due pareri circa le affermazioni del Vat. II:

- R. Latourelle, «Rivelazione», in DTF, 1055s. Il concilio non identifichi rivelazione e salvezza. La storia

della salvezza e coestensiva con la storia dell’umanità, mentre la storia della rivelazione non lo è. Infatti,

strettamente parlando, essa prima di Cristo si ignora generalmente come storia salvifica, non ha questa

“consapevolezza”.

- G. O’Collins, Teologia fondamentale, 72-77. Il concilio usa “rivelazione” e “salvezza” come termini

quasi intercambiabili. La storia della rivelazione coincide con la storia della salvezza. Questa posizione è

poi perfettamente in linea con l’impostazione “rahneriana” di questo libro.

- Secondo Rahner la storia della salvezza è al contempo storia della rivelazione e, tutte e due, sono coestensive

alla storia del mondo. La ragione di questa equivalenza nasce dal fatto che, nella sua visione, ogni uomo è

depositario di quella “rivelazione interiore” (= “rivelazione trascendentale”) che non è nient’altro che

quell’esperienza che ogni uomo ha dell’autocomunicazione di Dio e che riesce più o meno bene a tematizzare.

Questa sua posizione è poi secondo lui ben fondata nella tradizione dogmatica cattolica e, in ultima analisi,

poggia sulla volontà salvifica universale di Dio, che non è una semplice “non perdizione”, ma una salvezza in

senso autentico e cristiano (LG 16, GS 22, AG 7, NA 1). Questa realtà salvifica universale implica infatti una

rivelazione universale perchè:

a) La salvezza offerta da Dio a ogni uomo deve essere accolta liberamente e, quindi, necessariamente

anche come conosciuta. Dove per “conoscenza” non si deve intendere semplicemente un sapere

categoriale oggettivato in proposizioni. L’uomo infatti sa di se stesso infinitamente di più di quanto sia in

grado di oggettivare.

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b) L’unanime dottrina della Chiesa mette in evidenza come non ci possa essere salvezza senza fede. Ma

una fede senza un incontro con il Dio che si rivela in maniera personale è un controsenso. Pertanto, se

ovunque nella storia ci deve poter essere salvezza e quindi anche fede, ovunque nella storia dell’umanità

dev’essere all’opera una rivelazione soprannaturale di Dio rivolta all’umanità e in maniera tale da

raggiungere effettivamente ogni uomo e da operare la salvezza attraverso la fede in ogni uomo che non si

chiuda, per propria colpa, a tale “rivelazione”.

Qui, naturalmente, non si parla di una fede esplicita in questo o quel articolo di fede, ma di una fede che

sia semplicemente l’accettazione obbediente del “mistero” che si rende presente nella propria vita.

- Se la storia della salvezza coincide con quella della rivelazione ed ha valore universale, allora:

- La “rivelazione vetero e neotestamentaria” è un qualcosa che riguarda ogni uomo in quanto parla di

quell’esperienza che ognuno ha e che – in modo erroneo e parzialmente giusto – si trova tematizzata nella

storia del singolo e dell’umanità in quella che si potrebbe indicare come storia dello spirito (storia della

cultura, della socializzazione, dell’arte, della religione…).

- In tale contesto il cristianesimo non si pone come una religione accanto alle altre religioni, ma nella sua

essenza più autentica si pone come l’oggettivazione storicamente autentica di quell’esperienza di Dio, che

in forza dell’universale volontà salvifica esiste dappertutto come grazia, in quanto Dio si è partecipato a

tutti gli uomini. Pertanto, il suo compito sarà quello di far prendere coscienza, di far rettamente

interpretare e accogliere quell’esperienza di Dio – della sua autocomunicazione – che ognuno ha.

- Il fatto che il cristianesimo nella sua essenza più autentica non sia da considerare una religione accanto

alle altre è da attribuire al fatto che Cristo non è un “profeta” – nel senso ampio del termine che riunisce

ogni “portatore” della rivelazione – accanto ad altri “profeti”, inserito in una dinamica di progressivo

superamento. Nell’evento Cristo si compie, si attua l’oggettivazione storica assoluta della “rivelazione

interiore”, del fatto cioè che l’uomo è l’evento dell’autocomunicazione divina. Qui, il Dio che si

comunica e l’uomo che accoglie l’autocomunicazione divina diventano irrevocabilmente un solo

individuo (appunto in Gesù Cristo), e la storia della rivelazione e della salvezza di tutta l’umanità – a parte

la questione della salvezza individuale – perviene alla sua meta. Con questo evento, infatti,

l’autopartecipazione divina al mondo, non è più un qualcosa presente (come offerta) in ogni uomo solo a

livello della sua consapevolezza interiore, della sua esperienza, ma diviene un dato storico. Ora esiste

nella storia ciò verso cui l’umanità è orientata da sempre (anche se per grazia): il carattere divino-umano

dell’umanità nell’unico Dio-uomo Gesù Cristo. Per questo motivo si può dire che ciò che qui inizia è

veramente la “pienezza del tempo”, la fase finale di tutto il processo evolutivo del mondo. Come pure che

questo evento è anche il criterio di discernimento nella storia religiosa concreta, tra ciò che è legittima

spiegazione della umana esperienza interiore di Dio e ciò che è mero fraintendimento umano.

Rivelazione e Trinità

- Partendo dal solo Dio Creatore il concetto di rivelazione non è ovvio, ma necessità di un Dio Trinitario.

Rivelazione e Trinità sono cioè intimamente connessi, e questo già a partire dalla semplice possibilità di avere

una “rivelazione”.

La dottrina della creazione “ex nihilo” ci dice che Dio crea un qualcosa di radicalmente diverso da Sé, anche se

ad esso relazionato nella sola direzione creature-creatore, ma, allora, quale relazione ci potrà mai essere nella

direzione inversa? E anche ammesso che una tale relazione possa esistere, Dio “parla” in modo divino - e allora

come potremmo comprenderlo - o in modo umano - e allora come potremmo sapere che è Dio che “parla”? Il

concetto di “rivelazione” richiede quindi qualcosa di più di un monoteismo trascendente, richiede un Dio

trinitario. Richiede che Dio entri nella storia e nella vita umana e che all’uomo venga offerta la possibilità di

partecipare alla vita divina, senza che tutto ciò tolga la differenza assoluta tra Dio e creatura. Richiede, cioè, che

l’uomo venga accolto nel rapporto d’amore tra Padre e Figlio, rapporto che è lo Spirito Santo. É lo Spirito - che

è la comunione tra Padre e Figlio - che garantisce anche la comunione del Padre con le sue creature, non a

prescindere dal Figlio, ma proprio in Lui e mediante Lui.

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LA CREDIBILITÀ DELLA CHIESA (Bibliografia: S. PIÉ-NINOT, Teologia Fondamentale, Brescia 2002)

- La Chiesa è la mediatrice della rivelazione e, pertanto, deve essere lei stessa credibile e carica di senso se

vuole offrire motivazioni per una scelta di fede che, attraverso di lei, accoglie la realtà stessa della rivelazione.

- Nell’apologetica classica si cercava di raggiungere questo scopo tramite la Demostratio catholica, tesa a

dimostrare l’origine divina della Chiesa, la sua fondazione nel solenne atto in cui Cristo dava le chiavi a Pietro,

il suo permanere nelle “note” professate nel credo: una, santa, cattolica ed apostolica. Questa dimostrazione era

rivolta soprattutto ai cristiani non cattolici ed è stata utilizzata in tre forme:

a) Via historica, tesa a dimostrare in modo storico la continuità tra la Chiesa di Cristo e quella cattolica

romana. In pratica si riduceva sovente alla via primatus, che voleva provare che il capo della Chiesa

cattolica è il legittimo successore di Pietro.

b) Via notarum, tesa a dimostrare che le quattro note distintive della vera Chiesa di Cristo (una, santa ,

cattolica e apostolica) sussistono solo in quella cattolica. È stata quella maggiormente utilizzata nei vecchi

trattati di ecclesiologia;

c) Via empirica, tesa a dimostrare che il permanere nei secoli della Chiesa cattolica è il segno incontestabile

della sua origine divina. Essa è inoltre un vero miracolo morale: nonostante sia composta da uomini

comuni rimane come segno di trascendenza che ha in se quei valori fondamentali, primo tra tutti la santità,

che sono il bene assoluto.

- Attualmente, dopo una loro scomparsa, si possono trovare riadattate.

a) Via historica: 1) La Storia della Chiesa come luogo per il discernimento della vera Chiesa. Una storia

fatta secondo i metodi scientifici generali anche se il suo senso totale non si può comprendere senza il

concetto teologico di Chiesa. 2) La fondazione della Chiesa da parte di Cristo non viene più vista come

uno o più atti solenni. 3) Studi sul primato papale, visto come parte del mistero della Chiesa pellegrina.

b) Via notarum: 1) Metodo comparativo: le “note” sono più presenti nella Chiesa romana che nelle altre.

2) L’analisi delle caratteristiche della Chiesa deve concentrarsi più sulle finalità che sullo stato presente.

3) La nota caratteristica della Chiesa è il “paradosso” che è il rivestimento del mistero. Essa è un enigma

da decifrare, un mistero da penetrare come lo è Cristo a cui essa è legata: come Cristo è una teofania, la

Chiesa è una cristofania

c) Via empirica: 1) La Chiesa come hagiophania. La santità è segno della presenza e della chiamata divina

che invita alla conversione. La santità, la vita secondo il vangelo, rende testimoni e fa della Chiesa la

testimone credibile di Cristo. Una Chiesa che vive di testimoni è credibile perché mostra che in ognuno di

essi è stato ritrovato il senso della vita e come questa non sia stata vissuta solo per se ma come strumento

di annuncio e comunione. 2) Metodo indiretto di K. Rahner. 3) Chiesa come servizio al mondo. Senza tale

servizio essa non può essere segno di Cristo, il servo.

La Chiesa è fondata da Gesù (Via historica)

- C’è tutto un insieme di segni che indicano come Gesù volesse un gruppo di persone che continuasse dopo di

lui l’annuncio del Regno e l’appello alla conversione. Non esiste un solo atto giuridico di fondazione della

Chiesa, ma un insieme di atti ed espressioni di Gesù che rimandano verso la costituzione di ciò che oggi noi

chiamiamo la sua Chiesa:

- L’attualizzazione dei testi riferiti ad Israele ai discepoli, la scelta dei dodici, il cambiare il nome a Pietro

indicano la volontà di avere una comunità organizzata.

- Gesù ha fornito “regole” per la vita comunitaria (Mc 4,11ss; 9,35; 11,24; Lc 9,60-62; 14, 26-32) e

l’attività missionaria (Mc 6,6-13; Lc 10,1-12) che attestano la volontà di avere un gruppo che dopo di lui

vivesse della sua parola e dei suoi insegnamenti.

- Istituisce l’Eucaristia per fare memoria della sua perenne presenza in mezzo ai discepoli e a quanti

sarebbero venuti dopo di loro.

- Promette lo Spirito per guidare quelli che avrebbero creduto in lui fino al suo ritorno.

- Invia in missione verso i pagani.

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Metodo indiretto di K. Rahner (Via empirica)

1. Il Cristianesimo è essenzialmente ecclesiale

- Se Cristo è colui che risponde alle attese umane e mette la parola fine al dialogo fino allora aperto tra Dio e

l’uomo, in quanto con lui si rende storicamente presente e visibile il fatto che Dio si auto-comunica all’uomo e,

parimenti, che l’uomo (l’umanità nel suo complesso a prescindere dal destino individuale) accoglie tale auto-

comunicazione che per lui è sommo bene e verità ultima. Allora, affinché Cristo sia veramente e per tutti i

tempi la presenza storica e visibile dell’auto-comunicazione di Dio offerta e accettata (sempre parlando in

generale), è necessario che questa visibilità continui nella sua Chiesa che è per l’appunto la comunità di coloro

che credono in lui e lo confessano esplicitamente come tale mediatore. Essa è la presenza permanente e la

tangibilità storica di questa parola ultima e vittoriosa detta da Dio in Gesù Cristo.

- Da questo legame con Cristo e dalla necessità per l’uomo, in quanto essere sociale e storico, di avere sempre

innanzi a sé la visibilità storica del fatto che Dio si è auto-comunicato all’uomo nello Spirito (o nella Grazia),

ne segue che la Chiesa stessa è qualcosa di necessario e che la religione cristiana è necessariamente ecclesiale,

come pure il fatto che essa deve permanere nella verità o che le Scritture sono “ispirate”.

- Da tutto ciò risulta pure che esiste una gerarchia delle verità e che l’ecclesialità non sia la base portante e il

fondamento del Cristianesimo. Gesù Cristo, la fede, l’amore, queste sono le realtà centrali. - Per K. Rahner, queste realtà trovano esistenzialmente il loro equivalente nell’abbandono di sé all’oscurità

dell’esistenza e alla incomprensibilità di Dio, guardando e fidando in Gesù Cristo crocefisso e risorto. Il

cristianesimo è tutto qui, ed essere cristiano è quel peso leggero di cui parla il vangelo. Quando la vita e il pensiero

ci avranno inesorabilmente condotti in un vicolo cieco, esso ci domanda una semplice speranza che ci aiuta ad

accettare radicalmente il nostro essere e che ci dice che al di là di questo nostro limite “ontologico” ci sta ciò che

chiamiamo Dio, vita eterna e salvezza della nostra esistenza. La parola d’ordine dunque suona così: guarda a Gesù

crocifisso, che è entrato nella comunione eterna con Dio… e al suo fianco fa’ anche tu il passo che immette

nell’incomprensibilità.

- Il cristianesimo è quindi semplice ed anche credibile perché nessuno può fornire argomentazioni certe che

proibiscano di guardare a Cristo come alla realizzazione della propria speranza, mentre, per contro, un tale

atteggiamento fornisce il senso alla vita del singolo e di tutta l’umanità.

- Il cristianesimo però è al contempo un carico pesante e un compito difficile, perché l’abbandonarsi e il perseverare

nell’oscurità della propria esistenza è un qualcosa a cui l’uomo sfugge continuamente e in mille modi diversi,

spesso molto vicini e simili all’accettazione. Infatti, nessuno può dire che tutto il cristianesimo formale e sociale, o

che il bisogno assoluto di aggrapparsi a tutto un sistema capillare di norme e verità certe, immutabili e

immodificabili, non sia nient’altro che un modo per nascondere e nascondersi la propria disperata assenza di quella

semplice speranza che il cristianesimo chiede. Per questo motivo, nessuno può dire di più di quello che diceva lo

stesso Rahner: «Io spero di essere un cristiano».

2. La legittimità della pretesa della Chiesa Cattolica di essere la Chiesa di Cristo

- Ognuno è legittimato a ritenersi parte della vera Chiesa di Cristo. Ogni persona inizia infatti con una

fondamentale fiducia nella cultura e nei valori che gli vengono trasmessi.

- Ogni persona deve però anche interrogarsi sulla verità di questa sua fiducia originaria. In particolare, uno può

rimanere di questa convinzione se:

- La sua Chiesa è quella che storicamente ha il più stretto, il più semplice, il più evidente, ed il più

concreto legame con la Chiesa Cristiana originale di Gesù Cristo. Tanto più stretta è la connessione con

la Chiesa originaria tanto più uno può ritenere la sua Chiesa come la Chiesa di Cristo. Nessuno può

rinunciare alla continuità “incarnazionale”, storica e “corporea” senza rinunciare ad una realtà ecclesiale

che è indipendente da noi e che non ci lascia quindi in balia della nostra soggettività.

- La sua Chiesa non contraddice quella fondamentale essenza del Cristianesimo che uno ha già

sperimentato nella propria esistenza. La chiesa di Cristo esiste infatti solo la dove esiste quella realtà

spirituale che è il Cristianesimo e di cui ognuno fa in un certo modo esperienza grazie alla forza dello

Spirito. Questo criterio soggettivo ha un suo valore decisivo solo a riguardo di situazioni che non

possono divenire totalmente oggetto di riflessione.

- La sua Chiesa deve essere una realtà oggettiva che non dipendere solamente dalle sue preferenze. Essa

infatti deve esser parte del Cristianesimo come un elemento costitutivo di questo Cristianesimo

incarnato, storico.

- Se si applicano questi criteri in rapporto alla Chiesa luterana, si può dire che si trova la Chiesa di Cristo nella

Chiesa cattolica perché:

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- In base alla più semplice evidenza essa possiede in concreto la più stretta, la più evidente, la più chiara e

la più diretta continuità storica con la Chiesa del passato fino alle origini. Nella Chiesa cattolica c’è

infatti un ufficio Petrino ed un episcopato che ha una evidente connessione storica con la Chiesa che va

fino ai tempi apostolici. E lo stesso si può dire a riguardo della sua legislazione e della pratica dei

sacramenti.

- I sola gratia, sola fide e sola Scriptura, che sono i tratti formativi delle Chiese luterane, non giustificano

il non appartenere alla Chiesa cattolica. Infatti:

- Il “solo gratia” è perfettamente cattolico, visto che è dottrina comune il fatto che nessuno può

contribuire in qualche modo alla sua salvezza con qualcosa che non gli proviene per grazia da Dio

stesso.

- Il “solo fide” e il lato soggettivo del “solo grazia”: se tutto viene per grazia di Dio la salvezza viene

dalla sola fede. È dottrina cattolica che la risposta alla grazia di Dio è la fede: una fede che ha in se

la speranza nella grazia di Dio ed è illuminata e resa piena dall’amore santificante e giustificante.

- Il “solo Scriptura” è una affermazione che ha senso solo all’interno di una visione che vede le

Scritture come un “dettato” da parte di Dio, come il risultato di una ispirazione verbale. Oggi

nessuno crede in questo, mentre è ammesso da tutti che le stesse Scritture sono un prodotto della

Chiesa, che esse sono il risultato della tradizione, vale a dire, che esse sona la concretizzazione

letteraria della viva testimonianza della Chiesa. Per la Chiesa cattolica la S. Scrittura è comunque

la norma non normata che, in quanto parola di Dio scritta, è e rimane la norma ultima a cui far

riferimento per discernere tra la rivelazione di Dio e le teorie umane.

- Visto che, nonostante quanto detto sopra, la divisione con le Chiese luterane permane, il cattolico può

interrogarsi sul significato positivo che esse possono avere per la Chiesa cattolica e sul significato da attribuire

a questa divisione:

- Positivamente, tramite esse ci giunge un richiamo all’essenziale, a ciò che è realmente specifico e

proprio del cristianesimo.

- Per quanto sopra, esse ci danno una spinta a ricercare sempre meglio cosa voglia dire essere cristiani.

Nello stimolo vicendevole a sforzarsi di essere e di divenire il più cristiani possibile.

16

LA FEDE COME RISPOSTA ALLA RIVELAZIONE

- Fede umana o filosofica: si relaziona a realtà create. Indica l’accettare un qualcosa che non sia

immediatamente evidente o dimostrabile.

Fede teologale: assume gli aspetti della fede umana o filosofica ma si caratterizza per la sua relazione a Dio.

Fede come assenso, fiducia e obbedienza a Dio (DV 5)

- In DV 5 si ha ciò che più si avvicina ad una definizione della fede teologale, che è vista come:

- Risposta dell’uomo all’offerta che Dio fa di sé, alla sua auto-comunicazione salvifica.

- Essa è caratterizzata da tre elementi:

- Affidamento fiducioso alla sua volontà salvifica

- Ossequio obbediente alla sua signoria sovrana (che apre all’azione)

- Assenso alla sua parola rivelante.

- Essa è pertanto una realtà con un doppio aspetto:

- Aspetto personale, soggettivo (che è ciò che indicano le prime due caratteristiche): essa è il dono di sé,

libero e personale, fatto a Dio. È l’abbandono fiducioso e integrale dell’uomo, della sua intelligenza e

volontà, a Dio che salva.

- Si può parlare di “fede” in Gesù solo a riguardo di questo aspetto che rivela la relazione intra-

trinitaria. Tanto più Gesù e auto-consapevole (dell’unione ipostatica) e gode della visione

immediata, tanto più ha fede, visto che è proprio del Figlio abbandonarsi al Padre.

- Aspetto intellettuale, oggettivo (che è ciò che indica l’ultima caratteristica): essa è adesione alla verità

rivelata.

- Tutti e due questi aspetti sono necessari per definire cosa sia la fede. Essa è quindi un atto di fede (aspetto

soggettivo) in una professione di fede (aspetto oggettivo).

- La fede teologale nasce nell’uomo in seguito all’azione simultanea di due elementi:

- Elemento esteriore (che è quello secondario): esso è costituito da (a) l’annunzio e dall’ascolto del

messaggio cristiano e (b) dai segni che lo confermano.

- Elemento interiore (che è quello primario): esso è costituito dalla grazia dello Spirito Santo che previene,

soccorre, da gli “occhi per vedere” e una più profonda intelligenza della rivelazione.

- La fede teologale è quindi allo stesso tempo:

- Un dono: perchè è primariamente resa possibile dalla grazia di Dio.

- Una responsabilità personale: perché uno può rifiutare di ascoltare il messaggio evangelico o chiudere il

“proprio cuore” alla grazia che attrae il credente alla fede.

Confronto tra DV 5 e Dei Filius (DS 3004-05, 3008-11)

- In Dei Filius è prevalente l’insistenza sull’aspetto intellettuale-oggettivo della fede: essa è «una virtù

soprannaturale, per cui… crediamo vere le cose da lui rivelate… per l’autorità dello stesso Dio…che non può

né ingannare né ingannarsi».

- In Dei Filius c’è insistenza su “miracoli e profezie” come argomenti esterni che aiutano a giungere alla fede

nella divina rivelazione in modo conforme alla ragione. Essi sono «argomenti certissimi della divina

rivelazione, adatti ad ogni intelligenza».

In DV 5 non si trovano riferimenti a “miracoli e profezie”. In DV 4 c’è un riferimento ai “miracoli”, ma inserito

nella globalità della figura, vita ed opera salvifica di Cristo che «compie e completa la rivelazione e la

corrobora con la testimonianza divina». Tutto ciò indica:

- Una insistenza sulla necessità della grazia divina che, fatta salva la libertà di non aprirsi ad essa, da occhi

(gli “occhi della fede”) per vedere la credibilità del messaggio e dei segni esterni.

- Il passaggio dai vari “segni” al “segno” che è Cristo stesso.

- Il passaggio da una posizione “estrinsecista” ad una “intrinsecista” (la fede si giustifica a partire

dall’interno della fede stessa).

Una omissione in DV 5: la dimensione ecclesiale della fede (Catechismo nn. 166-175)

- La fede è un atto personale di risposta libera a Dio che si rivela ma non è un atto isolato: il credente ha

ricevuto la fede da altri e ad altri la deve trasmettere. Ognuno è come l’anello di una catena, che sostiene ed è

sostenuto nella fede dalla fede degli altri. La fede implica il mutuo sostegno di molti.

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- Il credere è quindi un atto ecclesiale: la fede della Chiesa precede, genera, sostiene e nutre la fede dei suoi

membri.

- La Chiesa ha anche sviluppato e continua a sviluppare il linguaggio stesso della fede, che ci permette di

entrare in contatto con la realtà divina che esso significa e ci da la capacità di esprimerla, di assimilarla sempre

più profondamente e di celebrarla.

RIFLESSIONE TEOLOGICA SULLA FEDE

La fede nella Summa Theologica

- La trattazione che S. Tommaso fa del tema della fede (Sth, II-II, 1-16) è tra le più perfette della Summa

Theologica ed è stata sempre vista dal Magistero e dai teologi cattolici come una proposta autorevole.

- Oggetto materiale e oggetto formale della fede:

- Fede ed enunciati (q.1, a.2): l’oggetto della fede non si riduce all’enunciato (alle “dottrine”) ma l’uomo ha

bisogno di enunciati (di “dottrine”). Il pensiero umano non può fare a meno del linguaggio e, quindi,

accettare la fede è indistinguibile dall’accettare le proposizioni che, in larga parte, la esprimono (se queste

sono rettamente comprese).

- Assenso di fede ed enunciati erronei (q.2, a.6, ad 2): è possibile però che un credente mal istruito possa

assentire ad un errore. Questo atto è però fede umana e non fede divina che non può estendersi a nessuna

falsità.

Si noti che il tomismo trascendentale (K. Rahner) pone una differenza tra formulazione concettuale

cosciente ed adesione di fede a Dio. Naturalmente, nota Rahner, nessuno potrà rifiutare quanto ci propone

in modo oggettivo il messaggio cristiano e dire di aver realizzato ugualmente l’essenza della fede – a patto

naturalmente che sia stato ben proposto e ben compreso. Infatti, come abbiamo detto in precedenza,

l’annuncio cristiano tematizza ed esplicita in modo insuperabile proprio quell’oscura esperienza originaria

di Dio che ogni uomo ha e, pertanto, nessuno potrà dire di accettare la realtà e di rifiutare il “concetto”, la

parola che comunica questa realtà. Anzi, normalmente, sarà proprio questa mediazione linguistica, questa

parola esterna, a guidare l’uomo a prender coscienza della realtà più profonda della sua esistenza e a

spingerlo ad abbandonarsi ad essa.

- Atto di fede interno (la “credenza”):

- q.2, a.1: per Tommaso l’atto di fede interno è essenzialmente la “credenza”, cioè l’assenso a verità che

interpellano primariamente l’intelletto. Si pone quindi l’accento sulla dimensione intelettuale-oggettivo

della fede e, quindi, in linea con il Vat II, si potrebbero aggiungere come atti interni l’affidamento

fiducioso e l’ossequio obbediente (vedi sopra).

- q.2, a.2: L’aspetto intelettuale-oggettivo (primaria per Tommaso) non esclude tuttavia neanche per lui,

l’aspetto personale-soggettivo. Una posizione aggiornata di questa posizione agostiniana e tomista, come

dicevamo, darebbe tuttavia maggior rilievo – in accordo con S. Scrittura e Vat. II – agli elementi della

fiducia e dell’ossequio. In definitiva, per S. Tommaso, abbiamo tre aspetti della fede: assenso al

messaggio rivelato (Credere Deum = oggetto materiale), fiducia in Dio (Credere Deo = oggetto formale),

ossequio obbediente alla sua signoria che apre ad un dinamismo, all’azione, al fare (Credere in Deum =

fede come elemento dinamico).

- Atto di fede esterno (la “confessione”):

- q.3, a.1: quello che si è concepito nel cuore tende naturalmente all’espressione, alla comunicazione;

- q.3, a.2: non è necessario confessare la propria fede sempre, in ogni momento e luogo.

- All’atto esterno della confessione andrebbero aggiunti l’obbedienza e la pratica ispirata dalla fede

(l’azione, il fare).

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RIFLESSIONE TEOLOGICA SULLA FEDE/2

La fede nella Summa Theologica/2

- La fede come virtù:

- q.4, a.1: dà una “definizione” della virtù teologale della fede. In quanto procede da una volontà attratta da

Dio la fede ha in sé i “germi” delle altre due virtù teologali: la speranza e la carità. Queste due tuttavia

hanno oggetti formali differenti: Dio quale datore di beatitudini superanti la capacità umana, per la

speranza - e Dio in quanto sommamente buono e desiderabile, per la carità.

- q.4, a.3: la carità perfeziona la fede. Pur avendo oggetti formali differenti, le virtù teologali si

compenetrano al punto che la “fede viva” è sempre perfezionata dalla carità. La “fede morta” (a.4) è una

fede manchevole e non deve essere la norma; essa non è una virtù.

- Proprietà della fede: La teologia cattolica riconosce che la fede possiede cinque qualità: soprannaturalità,

ragionevolezza, libertà, certezza e oscurità.

- Soprannaturalità: q.6, a.1. La soprannaturalità consegue dal fatto che la fede è anticipo della “visione

beatifica”, cioè, partecipazione alla vita divina (q.4, a.1: la fede fa aderire l’intelletto a cose inevidenti).

- Ragionevolezza. Il pensiero teologico tomista insiste soprattutto sul carattere conoscitivo della fede: essa è

una forma di conoscenza, è un “sapere”, anzi essa è l’unica forma di conoscenza o di “sapere” consona

alla rivelazione - q.2, a.1 e q.4, a.2 (la fede risiede nell’intelletto).

Questa “conoscenza” o “sapere” anche se non nasce da una “percezione evidente” (q.2, a.1) non è tuttavia

contraria alla ragione. Non nel senso che si possa dimostrare con la ragione quanto si crede (q.2, a.1, ad

1), ma nel senso che chi crede ha dei motivi sufficienti che lo invitano a credere (q.2, a.9, ad 3), senza che

tuttavia le cose di fede divengano evidenti e tolgano quindi il “merito della fede” (q.2, a.10, ad 2). Questo

“invito” a credere, poi, non nasce solo dall’esterno, ma anche dall’interno, dalla “luce della fede” (q.1,

a.4, ad 2 e 3). È quest’ultima che manca all’incredulo (q.1, a.5, ad 2).

- Libertà: q.2, a.9. Il credere è un atto dell'intelletto che aderisce alla verità rivelata sotto il comando della

volontà mossa da Dio mediante la grazia e quindi è un atto soggetto al libero arbitrio in ordine a Dio, per

quanto riguarda cioè il nostro aprirsi o il non aprirsi alla grazia.

La Riforma insistette sulla perdita del “libero arbitrio” dopo il peccato originale. Il Concilio di Trento

disse che si può parlare solo di un suo indebolimento, ma non di una sua scomparsa (DS 1554). Il Vat. I

aggiunse che la libertà va estesa anche all’assenso intellettuale contro la dottrina (interpretata) di Hermes

che insisteva sulla conoscibilità (sulla certezza intellettuale) dell’oggetto della fede (DS 3035). Il Vat. II

riprende dottrina del Vat. I e ribadisce la libertà sia dell’ossequio che dell’assenso (DV 5). Evidenzia pure

che la libertà “fisica” di non credere (non ci deve essere costrizione) non va confusa con la libertà morale

di non credere (questa non c’è in quanto si “deve” credere per avere la salvezza, l’atto di fede non è

puramente opzionale) (DH 1): la “libertà” non esclude quindi la testimonianza convinta (che non ha niente

a che fare con il proselitismo che conquista fedeli attraverso affermazioni false e fuorvianti o facendo

appello a motivazioni esterne al messaggio o alla religione).

- Certezza: q.4, a. 8. Oggi molti sono interessati proprio a quel lato soggettivo della certezza che qui

Tommaso dice non arrivare mai all’assolutezza. Tommaso riflette su questo problema anche nella q.2, a.1

dove definisce il credere come un “cogitare (= considerare o ponderare = “inquietudine del pensiero”)

approvando”. Qui si rende evidente come l’atto di fede sia definito con due termini che puntano in

direzioni opposte: la fermezza dell’approvazione e il dubbio, il sospetto, il timore legato al cogitare.

K. Rahner riprenderà questo contrasto e parlerà di una “concupiscenza gnoseologica” e richiamerà

all’esercizio della “virtù senza nome” (Nuovi Saggi IX, 419-425).

- Oscurità: Questa qualità è legata alla “libertà” e si ripercuote sulla “certezza”.

q.1, a.4: la fede ha per oggetto cose che non si vedono in quanto non c’è evidenza immediata (sensibile)

né dimostrabilità rigorosa (evidenza intellettuale). Però non c’è oscurità totale (la fede è anche luce) in

quanto si “vede” tramite il “lume della fede” che le cose da credere sono, appunto, credibili.

q.2, a.3: l’oscurità dipende dal fatto che l’uomo deve aderire a verità che sorpassano la capacità di

comprensione della mente umana.

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GIUSTIFICAZIONE DELLA FEDE (ANALYSIS FIDEI)

- Il problema è come sia possibile giungere ad un assenso di fede sicuro e certo a partire da delle premesse

razionali che, anche se necessarie, non mi danno alcuna certezza assoluta ma solo una certezza condizionata,

probabile.

J.H. Newman (1801-1890): il “senso illativo”

- Nell’opera Grammar of Assent, Newman intende giustificare in modo riflesso e sistematico il fatto che anche

la fede del semplice credente può dirsi razionale, anche se non compie tutte quelle analisi intellettuali che la

teologia scolastica del suo tempo riteneva necessarie per giungere ad un corretto giudizio di credibilità.

- Per lui bisogna distinguere tra assenso nozionale e assenso reale: il primo coinvolge solo la sfera intellettuale

e coglie l’aspetto formale di una proposizione – cioè il suo contenuto nella sua componente veritativa formale –

il secondo coinvolge tutta la persona e ne coglie l’aspetto vitale.

- Nel caso della vita di fede non ci si può fermare solo all’aspetto nozionale e la certezza non sarà pertanto da

raggiungere mediante una dimostrazione scientifica formale (formal inference), ma attraverso ciò che Newman

chiama “senso illativo” (illative sense), cioè attraverso la capacità di cogliere sinteticamente la convergenza di

una serie di elementi vari che, solo nel loro insieme, danno la certezza della credibilità, mentre presi

singolarmente danno solo probabilità. Non si tratta qui naturalmente di una certezza raggiunta in modo

matematico ma di una certezza che nasce dalla consonanza spirituale, dalla “sim-patia” con l’oggetto in

questione e che richiede determinate disposizioni morali.

- In una sua lettera egli porta l’esempio del “cavo” in cui il singolo filo è debole ma l’insieme è equivalente

ad una sbarra di ferro. Ora, nel nostro caso, il “cavo” sarebbe la prova morale, composta da singoli

elementi deboli che sono solo probabili, la sbarra di ferro sarebbe invece la prova matematica. A seconda

dei casi è ragionevole usare l’uno o l’altra.

- Il “senso illativo” è affine alla fronesis (giudizio) di cui parla Aristotele e che è la facoltà che guida la

mente umana in campo deontologico (doveri etici). Questa facoltà è quella che ci detta le regole per

decidere ciò che è buono e giusto nel nostro caso e tempo particolare. Un sistema etico può infatti fornire

solo leggi generali, principi direttivi, moniti, esempi… ma non può dire come ci si deve comportare in un

caso specifico: la scienza del vivere, atta a dirigere il singolo individuo nei singoli casi non è e non sarà

mai scritta. Questa facoltà è generata soprattutto grazie ad una abitudine di vita, alla pratica e

all’esperienza.

- Anche Pascal, con la sua celebre scommessa (pensiero n° 233), voleva fornire delle ragioni che, pur

rimanendo tali, andassero tuttavia al di là della stretta razionalità. La ragione ha i suoi limiti e «Il cuore, infatti,

ha delle ragioni che la ragione non conosce» (pensiero n° 277) e, pertanto, «È il cuore che sente Dio, e non la

ragione» (pensiero n° 278).

P. Rousselot (1878-1915): Gli occhi della fede

- Il suo scritto Gli occhi della fede è sicuramente una pietra miliare nella storia dell’analisi della fede ed è

servita come punto di partenza a molti teologi che hanno ulteriormente sviluppato la sua impostazione.

- Qui egli affronta il problema della conciliazione tra razionalità e soprannaturalità, e tra certezza e libertà. A

differenza delle analisi precedenti, egli non considera la credibilità e la fede come atti ben distinti e posti in una

successione lineare e logica. Influenzato da Newman, egli considera la fede fin dal suo inizio come un

complessivo atto vitale personale suscitato dalla realtà esteriore della rivelazione e sorretto dalla grazia

interiore, e contraddistinto dal fatto che questi suoi elementi si sostengono e si condizionano a vicenda.

- Egli inizia chiedendosi come nasca la fede, come si passi dal sapere al credere, quale spazio abbia la grazia (o

il lumen fidei). In particolare si chiede se la grazia intervenga solo nell’atto di fede in senso stretto o anche nel

giudizio di credibilità (cioè quando giudico le cose che mi vengono proposte come credibili). Egli prende le

distanze da due posizioni antagoniste:

- L’immanentismo modernista: non ricerca le basi razionali del credere ma si affida al sentimento religioso.

In questo modo la conoscenza (interiore) della credibilità, nell’esperienza religiosa, viene a coincidere con

lo stesso credere.

- L’estrinsecismo dell’apologetica classica: separa e rende il credere una tale conseguenza del conoscere da

mettere in pericolo la libertà dell’atto di fede. Propone una fede naturale o scientifica che si avvicina

20

troppo alle tesi condannate di Georg Hermes (DS 3035): la grazia non è necessaria per l’assenso di fede

(alle verità da credere), visto che esistono ragioni stringenti, sia speculative che pratiche, per accettare il

cristianesimo; solo la fede del cuore (Herzenglaube) è sostenuta dalla grazia.

- Secondo Rousselot la grazia è necessaria anche per la conoscenza della credibilità, visto che la capacità di

riconoscere i segni dati nella storia richiede una capacità di sintesi, capacità che Newman ha indicato come

senso illativo. Per lui la conoscenza della credibilità e la confessione della verità (l’atto di fede) sono un unico

atto sostenuto dalla grazia, e tra di essi c’è un rapporto di priorità reciproca.

- Per lui la grazia dona una capacità di vedere in modo diverso, ed è realmente “lume della fede” perché mi fa

cogliere gli avvenimenti esterni come segni che mi invitano a credere: essa è una luce percepiente (e non

percepita). E questo perché con questa grazia si entra in sintonia con il Dio rivelante e si vede la realtà dal suo

punto di vista; essa è una anticipazione della luce della gloria mediante cui i beati contemplano Dio in paradiso.

Egli parla poi di “priorità reciproca”, nel senso che i segni esterni sono indubbiamente precedenti all’atto di

fede da un punto di vista temporale, ma, visto che io posso percepirli come tali solo all’interno di un adesione di

fede che si impegna esistentivamente, essi sono essenzialmente secondari rispetto alla luce della fede che mi fa

vedere la realtà da loro indicata. In questo modo:

- Non c’è immanentismo, in quanto la realtà esterna, i segni, le ragioni per la fede, rimangono necessari.

- Non c’è estrinsecismo, in quanto la fede viene giustificata e trova le sue ragioni all’interno della fede

stessa.

- L’integrazione della conoscenza della credibilità nell’atto stesso di fede, permette poi di superare anche il

conflitto tra libertà e certezza (soggettiva) della fede. Due possibili soluzioni estreme:

- Il volontarismo: esso dice “fate come aveste già la fede e allora crederete”, ma così facendo non

salvaguarda la ragionevolezza della fede. Esso predica in fondo un sacrificio dell’intelletto (= certezza

soggettiva) a favore della volontà (= libertà) dicendo: vogliate e vedrete, praticate e crederete.

- La neoscolastica: essa pretende di passare quasi logicamente dalla credibilità, dimostrata dalla ragione,

alla fede. Essa salvaguarda la ragionevolezza della fede (= certezza soggettiva) ma a scapito della libertà:

se è credibile devo credere.

Secondo Rousselot l’unica soluzione accettabile consiste nell’ammettere che tra percezione della credibilità

(che veicola la certezza) e volontà libera di credere esiste un rapporto di priorità reciproca: «solo perché

l’uomo vuole, vede la verità; solo perché vede la verità, vuole». È la soluzione della “pericoresis” (o

circuminsessione), del circolo vitale e non vizioso: l’amore fa vedere e la visione sostiene l’amore.

- Risposte a possibili obiezioni:

- Questa proposta non è un “circolo vizioso” visto che parla di una “causalità reciproca” che è assente in

quest’ultimo: nell’ordine della razionalità viene prima l’indizio, ma in quello della soprannaturalità

vengono prima gli occhi per vedere. Astrattamente possiamo fare delle distinzioni tra questi due ordini,

ma non se ci poniamo su un piano vitale, qui uno precede l’altro e tutti e due “accadono” nel medesimo

istante.

- Questa proposta non è irrazionale o fideistica. Infatti, la conoscenza della credibilità può certamente

riguardare esperienze personali non facilmente comunicabili, ma esistono anche dei casi universalmente

noti (vita di Cristo, storia di Israele e della Chiesa) che possono essere fatti oggetto di indagine e

discussione razionale. In questi casi si può anche giungere a mostrare che i motivi di fede da essi desunti

esigono l’assenso dell’uomo ragionevole. Tuttavia tale assenso non sarà mai il risultato di un processo

razionale logico, in quanto proprio questa processo razionale logico sarà possibile solo se esso è già

animato da un atteggiamento di fede. Solo in un tale atteggiamento la ragione sarà libera di percepire

effettivamente ciò che esige l’assenso di ogni uomo ragionevole e di assentirvi.

- Questa proposta, infine, non nega che la fede sia un’adesione a realtà che non si vedono. Infatti, gli “occhi

della fede” mi danno una visione e una comprensione solo della credibilità dell’oggetto di fede (cioè della

rivelazione): quel poco che si vede non elimina l’oscurità del molto che si accetta per autorità.

- Punti positivi:

- Mostra che per la fede hanno molto più importanza le disposizioni spirituali del credente che non gli

“oggetti” sottoposti alla sua valutazione, e questo in quanto la fede è un ingresso in una nuova sfera di

vita.

- Riscoperta della dottrina tomista che la grazia della fede è una luce che Dio dona all’intelletto umano per

un giusto discernimento, e questo in quanto dona una connaturalità vitale con le cose divine.

- Questa impostazione è più rispettosa della dottrina del II Concilio di Orange che afferma l’impossibilità di

progredire verso la fede senza l’aiuto della grazia.

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- Mostra che nel miracolo il suo essere fatto eccezionale non può separarsi dal suo essere segno religioso –

sono strettamente interdipendenti. Pertanto esso non può venir dimostrato a prescindere dal significato

religioso; non è un dato “neutro”.

- Punti contestati:

- C’è chi ha definito Rousellot un fideista perché rendeva necessario il dono della fede anche per la

credibilità razionale e chi invece lo considerò troppo razionalista in quanto identificava la fede con la

percezione della credibilità razionale. Tutti erano comunque concordi nel contestagli il fatto di non aver

posto una distinzione reale tra la fede e le sue basi razionali.

- Tra chi lo considera un fideista, si notava come la sua teoria andasse contro la dottrina comune da

Agostino a Pio IX che affermava che un atto di fede responsabile presupponeva il riconoscimento delle

basi razionali del credere. Rendendo necessario il lume della fede egli minava il valore dell’apologetica

(diretta a chi non ha la fede).

- Tra chi lo considerava troppo razionalista (tra cui i domenicani Garrigou-Lagrange e Congar), si notava

che la sua ossessione per la credibilità gli faceva inserire erroneamente la percezione della credibilità

nell’atto di fede. Egli eliminava la distinzione tra giudizio di credibilità e atto di fede, e il fatto che la

causa del secondo è solo l’autorità di Dio mente il primo è solo una preparazione.

- Gli studiosi di ispirazione tomista confermarono entrambe le critiche, notando come Tommaso avesse sì

parlato della “connaturalità” in rapporto alla fede ma come egli non avesse mai affermato che la sua luce

illumini anche i segni di credibilità. Segni esterni e istinto interno erano due cose distinte, e i primi

avevano solo valore preparatorio all’atto di fede.

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GIUSTIFICAZIONE DELLA FEDE (ANALYSIS FIDEI)/2

H.U. von Balthasar

- Per Balthasar il punto centrale della rivelazione cristiana va riscontrato nel fatto che nella Pasqua di Gesù si ha

la piena manifestazione del mistero dell’amore. Essendo l’amore qualcosa di totalmente libero non c’è pertanto

alcuna possibilità di dimostrare né la necessità né la “prefigurazione” di questa rivelazione a partire dalle attese

e dai bisogni umani.

- Il “richiamo”, la “attrattiva”, il potere di convinzione che questa rivelazione dell’amore assoluto di Dio ha

sull’uomo sono legate solo all’oggettività stessa del “rivelato” e alle sue qualità “estetiche”. Al pari dell’opera

d’arte anche la rivelazione ha una “forma” che attrae e si fa comprendere in forza di se medesima. Questo è per

B. il dato primario che precede e preesiste a colui che la percepisce e alle sue capacità di percezione.

- Per cogliere pero la “forma” nella sua interezza e profondità, nella sua vera realtà, non basta solo la ragione

umana che, continuando nel paragone artistico, coglierebbe solo un insieme di linee, colori, ecc.. Per giungere a

questo fine è necessario che la ragione venga illuminata e, pertanto, non si può parlare, nel caso della

rivelazione, di una conoscenza della credibilità che preceda come tale l’assenso di fede: il tutto è un unico atto.

- La certezza di questo atto si fonda però solamente sull’imporsi dell’oggetto stesso, sulla evidenza che emana e

si impone a partire dal fenomeno stesso, e non dal fatto che questa realtà soddisfa dei bisogni o delle aspettative

del soggetto. La “forma” ha la sua propria evidenza che non è ne costituita né condizionata dal soggetto.

- Aspetti positivi:

- Non c’è pericolo di cadere nella critica di L. Feuerbach, che vede il cristianesimo come una proiezione

delle attese e dei bisogni umani.

- Aspetti problematici:

- Guardando alla realtà sembra tuttavia che le attese e le esperienze umane, pur non determinando da sole

il contenuto della rivelazione, abbiano la loro importanza nel processo rivelativo e ne siano anzi un

motore propulsivo.

- Anche seguendo il suo ragionamento, se questa forma della rivelazione mi rapisce per la sua intrinseca

“bellezza”, dovrà pur esserci un motivo, una giustificazione per questo mio rapimento: essa tocca

qualcosa che già c’è in me. Pertanto, senza giungere a dire che la rivelazione sia derivabile

completamente dalle attese umane, è tuttavia possibile dire che queste ultime confluiscono in qualche

modo nella prima e sono ivi elevate.

K. Rahner

- Per Rahner nessuno può oggi pervenire alla fede attraverso una riflessione completa ed esaustiva sui motivi

intellettuali di credibilità. L’enormità dei dati oggi disponibili fa sì che si debba vivere in una situazione di

pluralismo ineliminabile che non permette l’integrazione di tutti i dati disponibili in un armonico sistema

concettuale.

- Per giungere ugualmente ad un atto di fede che sia perlomeno intellettualmente onesto, bisogna saper dare lo

stesso una qualche giustificazione. Ciò, secondo Rahner, è possibile se si parte dall’esperienza concreta di

ognuno e si mostra come ogni uomo abbia già, ne sia consapevole o meno, una qualche esperienza di Dio;

come ogni uomo sia tale solo perché poggia ed è mosso dal mistero incomprensibile; come questo mistero sia il

fondamento della sua libertà e razionalità e, pertanto, abbandonarsi ad esso (= la fede) - o, che è lo stesso,

accettare la propria esistenza che su esso poggia - è razionale, anzi è l’attuazione della stessa razionalità.

- Il pieno disvelamento di questa realtà interiore è però possibile solo grazie alla realtà esteriore. In particolare,

l’autocomunicazione di Dio che l’uomo può sperimentare nel suo profondo trova la sua tangibile forma storica

in Gesù di Nazaret: è questo evento che per il cristianesimo è il «fondamento della fede attraverso il quale essa

si sa originata e legittimata di fronte alla coscienza di verità del credente».

- Questo evento storico – o eventi: miracoli e risurrezione – che mi legittima la fede non è però colto, per il

nostro A., al di fuori della fede stessa e, questo, non solo per motivi legati allo scetticismo dell’uomo odierno,

ma anche per ragioni dogmatiche. Infatti, il motivo della fede deve venir attinto nella fede stessa, in quanto «il

dogma cattolico circa la fede ritiene che la fede e la conoscenza di fede non siano possibili senza la grazia e che

esse significhino un’adesione personalmente libera del soggetto credente». Quindi la motivazione storica della

fede avviene effettivamente solo all’interno «dell’evento “grazioso” della stessa fede libera», ed esercita il suo

compito di fondamento solo all’interno di quel circolo di mutuo condizionamento tra esperienza (accettata)

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dell’autocomunicazione di Dio (= esperienza (accettata) della propria trascendenza = fede) e comprensione

degli eventi storici motivante la fede.

- Anche la S. Scrittura del resto si richiama sia agli eventi storici sia all’esperienza dello Spirito di Dio. È

solo presupponendo «questo reciproco condizionamento in cui la grazia della fede apre gli occhi per

vedere la credibilità di determinati eventi storici e in cui viceversa questi a loro volta legittimano

l’abbandonarsi all’esperienza trascendentale della grazia», possiamo capire la distinzione tra storico-

salvifico ([heils-] geschichtlich) e semplicemente storico (historisch): il primo indica quell’elemento

della realtà umana che può essere colto soltanto all’interno di una adesione di fede che si impegna

esistentivamente, il secondo indica ciò che è può essere colto al di fuori di una conoscenza di fede e che

entra anche in una storia puramente profana. Anche i primi testimoni di Gesù non si sono sottratti a

questa necessità e sono giunti alla realtà storica (salvifica) che fonda la fede solo nella fede.

Sintesi

- La fede trova il suo fondamento solo rimanendo all’interno della fede stessa. Qui vale l’analogia con l’amore

e con i suoi segni: i segni d’amore possono essere colti in modo adeguato solo all’interno dell’amore e non da

una posizione “neutra”. La fede è dunque una forma di conoscenza diversa da quella puramente razionale; è una

conoscenza d’amore.

- La credibilità promana dalla rivelazione stessa, attinta nella fede. Il fatto stesso della rivelazione irradia quella

luce che rende evidente la legittimità dell’atto di fede: non è evidente che Dio si è rivelato, ma è evidente che è

legittimo credere che Dio si è rivelato. È il contenuto della rivelazione stessa che, accolto nella fede, mi

legittima questa stessa fede.

- La credibilità non è tuttavia un fatto intimo e personale, in quanto può essere verificata e proposta anche al

non credente. Esistono dei segni e delle tracce che la ragione umana può esaminare e controllare, salvo restando

però il fatto che tali segni e tali tracce potranno essere colti propriamente come tali (come segni di credibilità)

solo all’interno della fede. La fede cioè può essere motivata, ma questa motivazione non è costringente se non

per chi accetta di condividere la stessa esperienza di fede. Solo questo atteggiamento di apertura ed abbandono

permette di giungere a quella conoscenza “per convergenza” di cui parla Newman, a quella conoscenza “per

connaturalità” di cui parla S. Tommaso che mi permette di giungere alla certezza o, che è lo stesso, solo questo

atteggiamento dona quegli occhi, gli “occhi della fede”, che Rousselot dice necessari per cogliere la credibilità.

Anche Rahner nota che, nonostante il fatto che un dato evento storico possa essere colto come evento della

storia salvifica solo all’interno dell’adesione di fede, questo non elimina la possibilità di giustificare la fede nei

confronti di un non-credente. Infatti il credente parte, consapevolmente o meno, dalla ben riuscita unità tra

l’accettazione del mistero indicibile presente nella sua vita, a cui egli non si sottrae, ed i fatti storici che

illuminano e danno il contenuto a questa sua esperienza profonda. In questo modo egli finisce per evocare,

suscitare, quella stessa esperienza della grazia che esiste già nell’altro in modo non cosciente e che gli

permetterà, a sua volta, di vedere l’evento storico come storico-salvifico.