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Primo numero - 2011
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La Testata
Gennaio – Febbraio 2011
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Ormai è risaputo che il 2011 è l’anno del centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Le celebrazioni che si stanno organizzando in tutta la Nazione, in ogni regione, città o provincia sono innumerevoli e tutte volte ad affermare fortemente il senso di Patria che negli ultimi anni sembra aver abbandonato le coscienze di molti nostri connazionali. Tuttavia una data ha scatenato molte polemiche: il 17 marzo, giorno in cui ricorrono precisamente i 150 anni della nascita dell’Italia come Nazione, ovvero quando Re Vittorio Emanuele II proclamò l’Unità della nostra Patria. Dopo molte diatribe e discussioni varie si è deciso che il 17 marzo dovesse essere
17 Marzo: una festa
per chi si sente Italiano Di Giuseppe Cuva
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Rivoluzioni e Diritti Umani,
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In questi ultimi due mesi abbiamo assistito ad un sommovimento politico generalizzato in Nord Africa, area dalle molteplici valenze strategiche, commerciali e
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sviluppati, essi sono assoluti, per il semplice fatto di essersi sviluppati. All’esterno della comunità, invece, sono del tutto relativi, e validi solo fintanto che vengono riferiti
Trent’anni fa, Battisti ha ucciso mio padre
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dalla Pace di Westfalia alle rivolte in Medioriente
Di Marco Cassini
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«Trent’anni fa Battisti ha ucciso mio padre. Non voglio vendetta, ma da allora aspetto giustizia e non l’ho avuta..Non c’è pace
Di PierPaolo Rispoli
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senza giustizia e la mia famiglia non l’ha avuta». Queste parole sono estratte dalla lettera aperta indirizzata idealmente
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festa nazionale e quindi giorno festivo. Fra coloro che hanno voluto fortemente questa festività spicca il nome del ministro della Gioventù Giorgia Meloni, che ha sempre creduto nei valori della Patria e dell’Unità nazionale. Molto critici, invece, sono stati i rappresentanti della Lega Nord ed anche il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. Fanno discutere le posizioni di molti politici del Carroccio: il ministro Umberto Bossi ha deciso di astenersi dalla votazione per decretare la festa nazionale; ha fatto molto parlare, invece, la dichiarazione del ministro Roberto Calderoli che, dopo aver saputo la decisione del consiglio dei ministri, ha affermato: « il decreto è pura follia, ed è anticostituzionale». È pura follia sostenere che un giorno così importante per la nostra giovane Nazione debba essere festeggiato? È incostituzionale che il 17 marzo, che è una ricorrenza veramente importante per chiunque si senta veramente italiano, venga celebrato nella maniera più degna possibile? La cosa più spiacevole è che certe parole le pronunci un Ministro della Repubblica, alla fine nessuno lo obbliga a festeggiare l’Unità di quell’Italia che forse lui e tanti altri esponenti del suo partito non amano e non ritengono propria. Io, con il mio modesto parere personale, proporrei che il 17 marzo non sia festa nazionale solo in questo 2011, ma lo sia per sempre perché solo così si può rafforzare il nostro sentimento patriottico, anche perchè questa festa a differenze di altre non è fortemente politicizzata, come quelle che invece sembrano essere riservate solo ad alcuni. Sarebbe ora che tutti avessimo più rispetto per la nostra Nazione, e che il giorno dell’unità, come ha detto Giorgia Meloni, «non sia considerato una festività di serie B. Siamo in un momento di crisi economica e pur comprendendo le difficoltà credo che una nazione non sia fatta solo di interessi economici». Perciò chi ama l’Italia ed è orgoglioso di essere italiano il 17 marzo dovrebbe festeggiare. Senza
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politiche, legittimato agli occhi dell’opinione pubblica occidentale con un “bisogno di democrazia”. Questa legittimazione afferma che i capi degli Stati oggetto di (preteso) rovesciamento del potere avrebbero meritato questo esito in ragione delle misure di Governo dal carattere “totalitario” con cui avrebbero ridotto nel “terrore” interi popoli, violando sistematicamente quei diritti umani posti dalla dottrina occidentale: la Tunisia per prima, l’Egitto fino al 18 febbraio, e ora la Libia di Gheddafi. Questa dottrina di giustificazione, a prescindere da ogni valutazione complessiva e di merito che si può avere dei diritti umani, ha una dimensione apparentemente individualistica all’estremo, capace di porre in secondo piano ogni tipo di società e di comunità rispetto all’uomo singolo. Secondo la dottrina dei diritti umani – e si badi che il termine “dottrina” non è impiegato in senso apologetico o denigratorio – l’uomo inteso come ente a sé stante è prioritario rispetto a qualsiasi altra formazione sociale. Si afferma il valore dell’individuo come supremo e superiore a tutto e a tutti, e lo si pone come
Di Marco Cassini
Segue da pag. 1 Rivoluzioni e Diritti Umani
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dalla Pace di Westfalia alle rivolte in Medioriente
La Testata
Gennaio – Febbraio 2011
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facente parte di una “umanità” sostanzialmente e non solo formalmente eguale. Tale concezione è sì molto affascinante, ma anche, fuori da illusioni progressiste, densa di contraddizioni. Innanzitutto parte da un irreversibile ed estremo individualismo, facendo dell’Uomo (astratto, e non concretamente calato in una sua precisa realtà storica) la misura di tutte le cose ma arriva ad un universalismo che ricalca la Legge di Natura in quanto valida in ogni tempo e in ogni condizione storica. Si opera quindi un’esaltazione dell’unicità del singolo e contemporaneamente si inserisce quest’unicità del singolo in una cornice di sostanziale eguaglianza, facendo dell’umanità, ma anche di qualsiasi gruppo sociale che ricomprenda più individui, una mera somma delle unicità dei suoi componenti. La conclusione logica è che l’eguaglianza affermata di tutti gli individui nega implicitamente la loro unicità: esisteranno sempre delle disparità – umane, morali, spirituali – non solo nella qualità ma anche nella misura.
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Pertanto, la tesi secondo cui tutti sarebbero “egualmente unici” non fa che compendiare in sé un ossimoro. Il difetto principale della dottrina dei diritti umani è la sua astrattezza. Non si considera l’Uomo come uomo concreto, e l’umanità è altrettanto astratta. Il pericolo principale della dottrina dei diritti umani è il fatto che rifiuta sin dal principio di riconoscere le effettive differenze che esistono tra gli uomini: e così uno sarà meno tutelato di come dovrebbe esserlo, e uno lo sarà eccessivamente. Tolta qualche assunzione di base, i diritti nell’uomo non sono una creazione divina, ma sono un prodotto concreto, che è scaturito dalla Storia, dalla Tradizione e dalla prassi di ogni gruppo, comunità o popolo. È più libero chi è costretto in nome dei diritti umani a rinunciare alle tradizioni che gli sono proprie o chi è tenuto dalle proprie tradizioni a comportamenti determinati? I diritti, come tutti i valori non fondamentali, pertanto hanno una duplice veste, assieme assoluta e relativa. All’interno della comunità dove si sono
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alla comunità di origine. Mi sembra opportuno ricordare infatti che qualsiasi orizzonte di riferimento politico è per il fatto stesso di essere politico, e quindi sottoposto a diversità che si relazionano tra di loro, un contesto radicalmente plurale e anzi composto da più fratture di conflitto. È questa l’impostazione seguita da Carl Schmitt, che giunge all’impossibilità non solo logica, ma anche concretamente storica di raggruppare politicamente in armonia e pace tutti i popoli della terra. Se questa armonia fosse raggiunta, se si creasse una convivenza tra visioni del mondo, religioni, popoli e classi, è la tesi di Schmitt, la politica semplicemente non avrebbe più ragion d’essere, in quanto momento di mediazione relativamente pacifica dei contrasti. Questo cammino deciso in direzione della meta indicata da Carl Schmitt come estinzione di politica e di Stato e in direzione del pensiero unico non comporta però, necessariamente, l’estinzione della guerra. Anzi, se una realtà sociale di tal fatta potrà condurre una guerra, questa guerra sarà condotta in nome dell’umanità, e quindi ad un livello infinitamente più totalizzante di quanto non sia condotta ora, dove il Nemico rimane un essere umano. Abbandonando Carl Schmitt per ricollegarci alla realtà attuale, le pretese imperialistiche che appena un secolo fa erano chiamate con il loro nome –
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azioni di guerra per aumentare la potenza di uno Stato – ora sono contrabbandate come “ingerenze umanitarie”: il Kosovo negli anni Novanta, il Nord Africa ora, producendo situazioni di completo dissesto a tutto vantaggio di note concentrazioni finanziarie. Il problema eminente per chi legge queste righe non è il cercare di influenzare la decisione di vertice – impresa del tutto impossibile – ma quello di contrastare coloro che in buona fede appoggiano la sostanziale legittimità, in quanto capace di produrre un aumento di libertà alla Rousseau e, alquanto egocentricamente, ad occidentalizzarsi, che nella logica dei diritti umani equivale pressappoco alla redenzione ultima del popolo tramite il suo sfarinamento. L’ingerenza umanitaria ha anche una rilevanza giuridica, del tutto trascurata dalle cronache odierne ma, di fatto, operante nella stessa giustificazione ex-‐post della Seconda Guerra Mondiale e da allora fatta accettare non solo come “naturale” ma anche come “giusta” e comunque verso cui tendere. Questa giustificazione della guerra come “ingerenza umanitaria” sta inficiando il principio stesso del diritto internazionale per come è stato fissato alla nascita dello Stato moderno, vale a dire alla Pace di Westfalia del 1648. La Pace di Westfalia è rilevante poiché ha fissato come cardine dell’essenza della Sovranità la incapacità da parte di un altro
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Stato sovrano (o di una coalizione di Stati più o meno sovrani, per operare un parallelismo con la situazione attuale) di intervenire negli affari interni onde impedire violazioni della “Legge di Natura” prima e “Diritti umani” ora. In modo particolare, è da riconoscere come gli Stati Uniti si siano assunti il “diritto” di rappresentare una astratta “comunità internazionale” al fine di tutelare i propri interessi strategici, approfittando delle molteplici e affermate “violazioni dei diritti umani”. Tale approccio, anche dando per scontato ciò che scontato non è, e cioè che la “comunità internazionale” nei suoi membri più potenti sia davvero interessata a ingerire in nome dei “diritti umani”, non è solo pericoloso per il concetto stesso della sovranità, ma anche per il ruolo che è corretto assegnare alla giustizia. Non è un’affermazione apodittica, ma si ricollega al concetto stesso dei diritti umani, che sono fortemente individualistici. Questo vero e proprio culto dei diritti umani individualistici produce, inevitabilmente, una perdita di significato e di rilevanza di ogni società e comunità. Il carattere sostanzialmente individualista della dottrina dei diritti umani è degenerata nello stesso ambiente dove è stata concepita, con la tendenza a sovrapporre i concetti di “diritto” e di “bisogno”, sempre meno vitale e fondamentale. Questa tendenza, che
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personalmente giudico pericolosa per la tenuta di ogni sistema sociale, a maggior ragione se costretto a confrontarsi con sistemi sociali alieni ai “diritti umani”, a un livello più macroscopico finisce con l’equiparare ai diritti non già i bisogni (per la sopravvivenza) ma gli interessi, in base alla naturale tendenza umana di confliggere. Per salvaguardare almeno in parte l’ordine sociale si è scelto di appoggiare la giuridicizzazione delle relazioni umane, che ha condotto alla percezione anche normativa del giudice come di colui deputato a risolvere efficacemente i contrasti, ambito teoricamente principale del politico: dalla pietà del Re si è passati alla clemenza della Corte. Se con il pretesto – sia esso fondato o meno – dei diritti umani si colora di giustizia ciò che è politica, inevitabilmente il concetto stesso di giustizia viene a trovarsi sovraordinato al concetto di politica, quando è evidente che la stessa giustizia umana sia un modo di applicazione delle determinazioni del potere politico, che produce le leggi che la giustizia deve applicare. È la giustizia che promana dalla politica (e dalla forza), e non è il contrario né lo può essere.
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La commemorazione del 10 febbraio ricorda una delle più grandi tragedie italiane di sempre, quella delle Foibe e dell’Esodo dalla Dalmazia e dalla Venezia Giulia, dell’uccisione di 30.000 italiani, della cacciata di altri 350.000 ad opera degli slavo-‐comunisti di Tito, con la cooperazione fattiva o l’ignavia dei comunisti italiani del PCI. Le foibe hanno rappresentato un’autentica pulizia etnica progettata con lucidità e con grande anticipo dal governo di Belgrado, e dal suo dittatore, il “maresciallo” Tito. Gli Italiani vittime delle Foibe furono di ogni idea politica, di ogni classe sociale, di ogni età: fascisti ed anti-‐fascisti, ricchi e poveri, religiosi ed atei, uomini e donne, vecchi, adulti, bambini. Dopo aver patito gravissime sevizie (umiliazioni, percosse, stupri, evirazioni) venivano legati con del filo spinato gli uni agli altri, e messi in fila. Il
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capofila veniva poi posto all’imboccatura di una foiba quindi veniva fucilato oppure scaraventato nel vuoto, trascinando con sé gli altri a lui legati. Ed è purtroppo comprovato che ci fu la cooperazione dei comunisti italiani, infatti la brigata partigiana “Osoppo”, costituita da partigiani “bianchi” cattolici e favorevoli alla difesa dei confini nazionali dall’invasione, fu sterminata col tradimento e l’inganno da partigiani comunisti. Togliatti ed il PCI si accordarono con Tito per la cessione di tutte le terre italiane sino al Tagliamento, obbedendo certamente ad ordini di Stalin ed aspirando ad estendere il più possibile i domini del “socialismo reale. Il PCI orchestrò poi una campagna stampa contro gli esuli, e difese in ogni modo in parlamento ed in campo internazionale gli interessi e le ambizioni territoriali del dittatore Tito. La verità storica, ossia che i titini invasero la Venezia Giulia, massacrando e scacciando la popolazione, ed imponendo un’annessione contro la volontà degli abitanti, doveva essere celata in tutti modi, perché sarebbe stata distruttiva di un mito, quello della “Resistenza” (in particolare dei partigiani comunisti e dei politici comunisti che se ne sono sempre pretesi eredi e massimi rappresentanti), diventata negli anni una categoria ideologica su cui si è preteso di fondare la validità dell’attuale Repubblica e la presunta superiorità morale di chi aveva combattuto dalla parte giusta. Normalmente si assiste, anche in maniera pregiudizievole, a giustificare questa pulizia etnica e caccia all’italiano come una reazione alle ingiustizie fasciste effettuate durante la sovranità italiana, dimenticandosi, però, che non si trattò di moto di reazione ma di una vera e propria “bonifica etnica”. D’altra parte la storia la scrivono i vincitori che in questo caso non hanno avuto il minimo scrupolo nel mettere in piedi una della più ignominiose e spregevoli mistificazioni. Non solo, su questi eventi per 50 anni è calato un ignobile e delittuoso silenzio. Gli esuli sono stati emarginati e dimenticati, così come la loro storia. Come la storia di Norma Corsetto, ragazza istriana di 24 anni laureanda in lettere, in un giorno di settembre del 1943 prelevata
Foibe: la pulizia etnica che la sinistra
non vuole ricordare
Di Pierpaolo Rispoli
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dalla sua abitazione e trasportata in varie caserme prima di finire nella scuola di Antignana, dove cominciò il suo calvario; venne legata ad un tavolo con alcune corde e violentata ripetutamente da 17 uomini prima di essere gettata nuda in una foiba. Quando venne recuperato il suo cadavere, ci si rese conto che i suoi aguzzini non si erano “accontentati” di abusare di lei ma le avevano reciso i seni e conficcato un legno nelle parti intime, le sue mani erano state legate con del filo di ferro. Come la storia raccontata dal cantante Gino Paoli: “I miei parenti non erano militanti fascisti, erano persone perbene, pacifiche. Ma la caccia all’italiano faceva parte della strategia di Tito, che voleva annettersi Trieste e Monfalcone. I partigiani titini, appoggiati dai partigiani comunisti italiani, vennero a prenderli di notte: un colpo alla nuca, poi giù nelle foibe. Mia
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madre e mia zia non hanno mai perdonato. Mi ricordavano spesso i nomi dei loro cari spariti in quel modo, senza lasciare dietro di sé un corpo, una tomba, una memoria. Peggio: una memoria negata”. Lo studioso Gianni Oliva nel suo libro “Foibe” ha scritto: “A sessant’anni dagli avvenimenti delle foibe e degli infoibati restano ancora una strage negata esclusa dalla coscienza collettiva della nazione”. Solo nel 2004 l’Italia ha riconosciuto ed ha istituito il 10 febbraio come il “Giorno del Ricordo” in memoria delle vittime delle foibe e degli esuli istriani, giuliani e dalmati, con lo scopo di ridare quella dignità e riconoscimento, mancato per lunghi anni, a chi è stato tragicamente ucciso, e a tutti i sopravvissuti costretti ad abbandonare le loro case per fuggire dai massacri per mantenere la propria identità di Italiani. Nel giorno di commemorazione delle vittime
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(il 10 Febbraio 2007) sono emblematiche le parole del presidente Napolitano che, in riferimento alla tragedia delle Foibe, parla di “Congiura del silenzio” e continuando dice: “Non dobbiamo tacere. Dobbiamo assumerci la responsabilità dell’aver negato o teso a ignorare la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali”. Le parole del presidente Napolitano sono state di certo un importante passo in avanti, dette da chi è stato appartenente al Pci hanno avuto l’effetto di un fendente teso a squarciare il silenzio ed il velo dell’ipocrisia che lo copriva (ed è per questo che sono stato oggetto di dure e piccate critiche soprattutto in terra slava) ma ancora oggi la memoria continua ad essere purtroppo osteggiata da chi tenta di negare o giustificare quello che è avvenuto. Alla luce di questo è un imperativo morale ricordare le Foibe e l’Esodo, un atto di giustizia verso i morti ed i profughi. Il suo ricordo dovrebbe essere un patrimonio condiviso della Nazione italiana, senza distinzione di partito o di idee politiche ed un monito per noi tutti affinchè ciò che è accaduto in passato non abbia più a ripetersi in futuro. Sursum corda!
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Dio salvi e custodisca la politica. “God save the Politics”, direbbero in casi come questo all’ombra del Big Ben. Forse tra i sudditi di sua maestà Elisabetta II qualcuno potrebbe un tantino storcere il naso vedendo coniato il termine “the Politics” in sostituzione del sacro “the Queen” ( o “the King”, a seconda del sovrano che governa in quel momento ) che scandisce il titolo dell’ inno Nazionale del Regno Unito. Nonostante ciò (considerato che siamo insieme nell’ Europa Unita, nella libera circolazione di merci, persone, capitali e, quindi, di idee e di modi democraticamente consentiti per esprimerle), questa è la frase che meglio rafforza l’idea del tipo di riflessione che bisognerebbe fare in un periodo di gran confusione come questo. Ovviamente non è Dio che deve pensarci, non possiamo chiedere all’ Onnipotente di intervenire in
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questioni a cui noi umani potremmo e dovremmo esser in grado di dare risposte giuste e sensate. Si, ma che questioni dovremmo affrontare ed a chi dovremmo darle queste risposte? E da cosa dovremmo salvarla la Politica? Le risposte ovviamente vanno date ai cittadini italiani ed al loro crescente disamore per la Politica in generale. La questione fondamentale è proprio questa: il distacco troppo grande che i cittadini sentono in questo momento rispetto al mondo della politica, che spesso si tramuta in maniera preoccupante in indifferenza e disamore per la cosa pubblica. Non volendo entrare nei particolari della lotta tra bande che nell’ultimo anno ha conquistato costantemente le prime pagine dei giornali nazionali, relegando vergognosamente spesso in secondo piano notizie tragiche come la scomparsa di nostri militari in Afghanistan o offuscando sistematicamente quanto di buono fatto da questo Governo dall’inizio del suo mandato ad oggi, bisogna riconoscere che molti politici ce l’han messa proprio tutta per far traballare questa II Repubblica. Ma se eventuali scandali sessuali rientrano in quel genere di categoria che comunque afferisce alla sfera del privato, che di sicuro possono infastidire la morale pubblica, ma che di fatto non costituiscono una via di non ritorno che debba portare alle dimissioni obbligate, così non possiamo dire per le case di
God Save the
Politics
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partito vendute a prezzo ribassato come se fossero proprietà di una persona fisica (eventuale truffa), non possiamo dire per le pressioni costanti (eventuale concussione) per far assumere in Rai suocere o cognati, come così non possiamo dire per le pressioni costanti (eventuale concussione) per imporre in Puglia le nomine di direttori amministrativi e sanitari nelle ASL ed in diversi presidi ospedalieri. Ma allora com’è che qualcuno và sotto inchiesta e qualcun altro no? Perché su alcune inchieste vi è una costante attenzione dei media, mentre altre improvvisamente spariscono nel nulla? Com’è che il bello ed il cattivo tempo lo fanno le indagini della Magistratura? Semplicemente perché allo stato attuale delle cose vi è una ristretta fetta di magistratura che non ha nessuna voglia di rispettare il principio dell’ equilibrio tra i poteri dello Stato sancito dalla Costituzione Italiana, che non ha nessuna intenzione di non influire nelle scelte politiche del Paese e che è spalleggiata da un centro-‐sinistra incapace di offrire una benche' minima proposta politica al Paese; ed è anche e soprattutto da questo che bisogna salvare la Politica (e direi la Magistratura stessa ) e la sua indipendenza, dall’ ingerenza ad orologeria di una ristretta parte di magistrati. “God Save the Politics” quindi e noi umani iniziamo a pensare su quali valori ( non programmi ) ed uomini dobbiamo basare le fondamenta della III Repubblica.
Di Stefano Pisaniello
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Al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, Dopo aver visto l'ultima puntata di Ballarò, ho pensato di non poterne più. Non di Ballarò, ma dei temi che tratta con insistenza. Non ne posso più della superficialità, della leggerezza e dell'assoluta disinvoltura con cui vedo trattare e ritrattare questioni di nessuna concreta rilevanza ignorando, completamente, le concrete priorità nazionali. Basta anche con la questione Fini-‐Montecarlo. Sarebbe ora di cessare l’attacco agli avversari politici su questo fronte. E’ necessario spegnere i riflettori accesi, da troppo tempo, sulle nostre miserie. E’ necessario riportare il confronto sul terreno Politico, rifiutando il confronto sulla mediocrità. I temi che affollano i media sono competenza della magistratura che dovrebbe agire con discrezione, sobrietà, imparzialità e professionalità. Ho votato per lei, nella speranza di un reale cambiamento di rotta -‐graduale ma concreto-‐ dalle vecchie consorterie, dai vecchi giochi di potere, dagli schemi esausti di appassiti arnesi di un’epoca che non c’è più. Insieme alla maggioranza degli Italiani le abbiamo consegnato la guida del nostro Paese e, che piaccia o no, è il Presidente del Consiglio di tutti gli Italiani. Ho creduto e credo alla squadra di governo nel suo insieme (tutto è sempre perfettibile) e ho avuto modo di apprezzare ministri su cui si dicevano e dicono solo ipocrite falsità. Ho apprezzato l’azione di governo su molti temi (istruzione e formazione, rilancio della gioventù, criminalità, emergenze, politica estera ed economica) con la critica, semmai, dell’eccessiva timidezza e, viceversa, della troppa enfasi su temi come il nucleare e il ponte sullo Stretto. Non penso che nel centro-‐sinistra vi sia un leader degno di sostituirsi a lei, così come non vedo un programma di governo chiaro e utile al presente
Lettera aperta al Presidente del Consiglio
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ed al futuro del nostro Paese. Non trovo, nel centro-‐sinistra, la volontà e la determinazione politica necessaria a far ripartire il nostro sistema economico. E vedo questo come un limite, non come un vantaggio ulteriore. Non mi piacciono gli attacchi plateali e sistematici della magistratura verso la sua persona. Non li condivido e li censuro perché, anzichè rafforzare l'Italia, la indeboliscono ulteriormente. Nei limiti della legalità, nella sua vita privata lei può fare ciò che vuole come chiunque, anche se posso non approvare alcuni suoi passatempi. Ma mi permetta di dirLe che ritengo che Lei occupi una parte del suo tempo in compagnia di “amici” scrocconi e infidi e di signore/signorine di basso profilo morale e intellettuale disposte a tutto pur di sfilare dalle sue ricche tasche soldi e vantaggi di ogni tipo e che le fanno prestare il fianco a critiche ipocrite e sterili. Tra la folla dei sedicenti amici e collaboratori che la circondano ci sono almeno un paio di persone valide: si faccia aiutare. Lei ha in mano il futuro dell'Italia, la sua sfida più grande. Tenga stretta la guida ed eviti di riportare il Paese al voto. Chi spinge, oggi, per nuove elezioni persegue un fine personale anziché un fine collettivo, nazionale. Lei deve arrivare alla fine naturale della sua legislatura. Solo a quel punto vorremmo tornare a votare, non prima. Gli italiani non sono marionette da chiamare al voto ogni volta che a qualcuno pruda il bisogno.. Se fossimo ricondotti ad elezioni politiche perderemo un mucchio di tempo bruciando un sacco di soldi (che scarseggiano..) e inutilmente se, con molta probabilità, lei fosse rieletto. Se anche dovesse perdere avremo un governo alternativo caratterizzato da una drammatica e pericolosa fragilità perché la controparte politica non è pronta all’alternanza. Durerebbe poco e tutto sarebbe, ancora, da rifare. Nel frattempo l’Italia
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andrebbe a picco. Cosa intende fare? Vuole occuparsi del suo Paese ? Vuole vincere o perdere la sfida più grande della sua vita? Ripulisca la nostra casa! Via le sanguisughe! Apra le porte a persone di valore e capacità e li impegni nella scrittura del progetto di rilancio economico, e non solo, del nostro Paese. Accenda le telecamere e trasmetta l’operosità del Nuovo Tavolo di Lavoro per l’Italia, all’Italia e al mondo perché possano ammirare il genio italico. E' urgente! Pretenda l'innovazione dell’impresa sfruttando i punti di forza italiani, superando i vecchi modelli industriali che già ci vedono soccombenti nel confronto imposto dalla globalizzazione. Valorizzi il nostro patrimonio artistico, storico e naturale trasformandolo in una gigantesca fonte economica, che il mondo intero ci invidia. Avvii, anche, la nuova fase della Ricerca Italiana. La Ricerca può essere una grande impresa proficua . Il nostro paese è ricco di talenti che sarebbe ora di spendere in casa. Lei lo può fare. Le sue capacità sono straordinarie, le metta di nuovo e di più al servizio del nostro Paese. Lasci perdere gambette, boccucce e sederini! La sua virilità non è in discussione, mentre deve ancora dimostrare di essere un leader politico da 10 e lode. E, all’esito della prova, potrà puntare al Colle e potremmo applaudirla con entusiasmo, primo Presidente di una nuova Italia rifiorita. Con i migliori auguri! Stefano
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La valigia sul letto è firmata Vuitton e l'occhiale dorato che trasuda bon ton con l'orgoglio guerriero del rivoluzionario firmi un bell'elzeviro di plauso alla D'Addario ma l'exploit di eleganza con Battisti l'hai dato e per Lula il Carioca l'appellino hai firmato il compagno che sbaglia assassino non è se di libri noir poi ne scrive due o tre
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se non firmi non vale non sei un intellettuale se non firmi non vale lui non è criminale e del resto siglasti il tuo esordio da dotto con la chiave katanga e la P38 se non firmi non vale non sei un intellettuale se non firmi non vale lui non è criminale dentro quella valigia più di un morto ammazzato non puoi insabbiare fa' alla storia una chiosa e rimescolala un po' poi dichiara: "In Italia libertà non ne ho". Perché quello che conta tra il dire e il fare è strappare un assegno ad un altro editore se non firmi non vale non sei un intellettuale se non firmi non vale lui non è criminale e del resto siglasti il tuo esordio da dotto con la chiave katanga e la P38 se non firmi non vale non sei intellettuale se non firmi non vale lui non è criminale dentro quella valigia più di un morto ammazzato non puoi insabbiare
Se non Firmi
non Vale Di Pautasio
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È strano morire ventenni. Quando si è appena concluso lo sfasamento dell’adolescenza, ma è ancora troppo presto per avere la stabilità degli uomini, nell’ottica adulta. A ventanni si cerca ancora di costruire la propria identità sociale e psicologica, è l’età in cui si cercano i nuovi appoggi ideologici, pubblici, universali, associativi, cui aggrapparsi, dopo aver distrutto i precedenti che in fin dei conti non sono mai appartenuti a te, ma a chi ti ha messo al mondo. Avevo 20 anni quando ho lasciato l’Italia dei primi Anni Ottanta. L’ho fatto in silenzio, nella pace del sonno, e con il cranio fracassato. Sono romano, aderente al Fronte della Gioventù. La notte del 2 febbraio 1983 affiggevo con Daniela alcuni manifesti che incitavano alla protesta per l’esproprio di Villa Chigi. Arrivato nello spartitraffico di Piazza Gondar, ho fatto un solo errore: ho dato le spalle a due ragazzi che alle 24.45 aspettavano l’autobus… Ma l’autobus a quell’ora mica passava… Il rumore di passi veloci alle mie spalle, una corsa forse… Un gran dolore alla testa, tanto calore, lo stordimento forte, pesante, insistente… Come un grande coccio di vetro piantato sul capo. Cammino verso l’auto dove Daniela a bocca aperta aveva visto tutto, parliamo un po’. «C’è da pulire la ferita», fa lei scossa. Il sangue defluisce, cerco di fare quello che posso alla fontanella. Poi la decisione di tornare a casa. La ferita fa male, mi lamento, mamma e papà sentono. Lì, scivolo via dalla vita. Sguscio in un riposo innaturale, mentre mamma chiama l’ambulanza e piange. Papà mi chiama, cerca di riportami da lui, mi prende la mano, la scuote. Ma è troppo tardi, sono già lontano. Lo chiamano ‘coma’. Io sono finito nel ‘coma’, così dicono i dottori ai miei genitori, che dicono anche che l’indomani mattina mi operano. Sono nudo nella sala operatoria e m’hanno rasato i capelli: ho due ematomi e un
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tratto di cranio fratturato. Chi è stato? La domanda viene fatta a Daniela che è l’unica ad aver visto tutto quello che mi è successo. Il dottor Marchionne, che è il dirigente della Digos romana che si occupa del caso, del mio caso, però sembra più interessato a che facevamo noi nel Fronte della Gioventù: vuole i nomi di chi c’era dentro,
Io mi chiamo Paolo Di Nella 9 Febbraio 1983 – 9 Febbraio 2011
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vuol sapere che ci dicevamo, quali erano i rapporti fra i noi e i dirigenti… Lei risponde a tutto, poi d’un tratto Marchionne esclama: «Faida interna!». Che vuol dire? Che a colpirmi è stato qualcuno che si sedeva accanto a me alle riunioni del Fronte? Ma che dice? Perché? È impossibile. Il Presidente della Repubblica viene a trovarmi all’ospedale, mi sfiora la mano. Lo fa come un padre, dicono che abbia un caratteraccio, non c’ho mai creduto. Poi dopo 7 giorni di ‘coma’ io muoio. A Dio, gli ci son voluti 7 giorni per creare il mondo. A me 7 per lasciarlo. I miei amici mi stanno vicino, fanno striscioni con il mio nome. Qualcuno li strappa, qualcuno scrive ‘sono stato io’ sui muri. Ci sono perquisizioni nelle case dei Collettivi Autonomi di Valmelaina e dell’Africano. Un nome torna sempre: Corrado Quarra. Daniela dice che è lui, l’ha riconosciuto. Ha aggredito
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anche altri ragazzi con la spranga. Daniela poi dà la descrizione dell’altro ragazzo. Qualcuno dice che l’identikit descrive Luca Baldassarre. Daniela in un confronto all’americana indica un ragazzo che pensa sia Baldassarre. Marchionne ride: «Vedi, il giovane da te riconosciuto non è Baldassarre, ma un amico scelto appositamente per la grande somiglianza». Il giudice istruttore Calabria, che pure si occupava dell’indagine si fa beffe di Daniela: «Se hai sbagliato il secondo riconoscimento puoi anche aver sbagliato il primo». Quarra viene scarcerato, lo si proscioglie dalle accuse, poco prima di Capodanno, così ha il tempo di festeggiarlo con la sua famiglia. Io, invece, qui mi sento solo. M’hanno rubato i Capodanni, m’hanno rubato la mia mamma e il mio papà… Il mio nome? Io mi chiamo Paolo Di Nella e sono morto in silenzio, nella pace del sonno, e con il cranio fracassato.
In ricordo di Mikis Mantakas
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Il 28 febbraio 1975 si celebra a Roma la prima udienza del processo per il rogo di Primavalle in cui perirono i due fratelli Mattei. Alla sbarra i tre assassini, identificati dopo un anno di indagini. Nonostante l'indifendibilità di un reato così orrendo, tutta la sinistra scende in campo massicciamente in favore degli assassini. La mobilitazione è generale, non c'è giornale o telegiornale che non ospiti autorevoli pareri "garantisti" e innocentisti. Viene persino pubblicato un libro dal titolo "Incendio a porte chiuse" per accreditare la tesi di un incidente e scagionare così i compagni di Potere Operaio. Naturalmente i complici degli assassini si mobilitano anche per fare pressione "fisica" sui giudici. Di fronte al tribunale viene organizzata una manifestazione e alla fine si forma il solito corteo per le vie paralizzate della città e da esso si stacca -‐ secondo una strategia ormai nota -‐ un gruppo che assalta la sezione del MSI di via Ottaviano, al cui interno si trova un piccolo gruppo di studenti universitari del Fuan in riunione. Gli assalitori sfondano il portone, riescono a penetrare nel cortile interno, ma qui vengono affrontati dagli studenti del Fuan che li respingono nella via. Dal gruppo messo in fuga, però, saltano fuori improvvisamente delle pistole. Pochi colpi secchi e Mikis Mantakas, 21 anni,
28 Febbraio 1975 – 28 Febbraio 2011
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cittadino greco, iscritto all'Università di Roma, da un anno militante del Fuan, rimane a terra senza vita. Ferito anche un altro studente, Fabio Rolli, di 18 anni. Sabrina, la ragazza di Mikis, il giorno dopo, scrisse una struggente lettera d'addio pubblicata sul "Secolo d'Italia". Proprio quella lettera ispirò a
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Carlo Venturino, leader del gruppo musicale "Amici del Vento", una delle più belle canzoni di musica alternativa, rimasta per oltre vent'anni il simbolo del martirio dei giovani di destra: "Nel suo nome". Due degli assassini, Alvaro Lojacono e Fabrizio Panzieri, quelli che materialmente impugnarono le
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pistole, vengono subito identificati e arrestati. Anche in questo caso, però, nei mesi successivi si ripete l'ormai noto balletto di complicità e protezioni. L'allora segretario del Partito Socialista, Giacomo Mancini, arriva addirittura al punto di andare a far visita in carcere al suo "amico" Panzieri. In quegli anni è attivo anche il "Soccorso rosso", un'organizzazione finanziata dal Partito comunista per fornire avvocati e aiuti economici ai carcerati di sinistra e fu così che anche Lojacono e Panzeri, come già gli assassini dei fratelli Mattei, furono rilasciati tra una fase processuale e l'altra, riuscendo poi a fuggire all'estero. Seppure condannato in contumacia, il "latitante" Lojacono trovò modo comunque di tornare in Italia partecipando, tra l'altro, al rapimento e all'uccisione del leader democristiano Aldo Moro riuscendo poi ancora a rientrare in Francia. Di lui, condannato a 16 anni per il delitto Mantakas e all'ergastolo per quello di Aldo Moro (chissà poi perché tanta differenza?) si è tornato a parlare, nel corso del 2000, perché finalmente "rintracciato" nella sua tranquilla latitanza. L'allora ministro di Grazia e Giustizia, il comunista Oliviero Diliberto, si è però guardato bene dal fare pressioni sulla Francia per ottenerne l'estradizione.
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[…] al neo presidente Dilma Rousseff e a tutti i brasiliani, scritta da Adriano Sabbadin (figlio di Lino Sabbadin, il macellaio ucciso il 16 febbraio 1979 a Santa Maria di Sala ,Venezia) pubblicata da “Il Corriere del Veneto”, all’indomani della decisione del presidente uscente Lula che nel negare l’estradizione di Battisti ha sconcertato gli italiani ma ancor peggio ha negato giustizia e pace ai familiari delle vittime dell’assassino Cesare Battisti. Ma chi è Cesare Battisti? «Era un malavitosetto romano dall’intelligenza vivace, poi con me ha creduto di diventare anche politico», così lo descrive Arrigo Cavallina, 65 anni, veronese, tra i fondatori dei Proletari armati per il comunismo (Pac), oggi dissociato e libero dopo aver scontato 12 dei 15 anni per il concorso nell’omicidio del maresciallo Santoro (uno dei quattro delitti attribuiti a Battisti). Dunque descrizione più appropriata non potrebbe esserci,
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infatti Battisti viene per la prima volta arrestato nel 1972, per una rapina compiuta a Frascati. Nel 1974 nuovamente tratto in arresto per una rapina con sequestro di persona compiuta a Sabaudia e, successivamente, denunciato (ma non condannato) per aver commesso atti di libidine su una persona che i verbali definiscono “incapace”. Dopo aver raggiunta la maggiore età, nel 1977 viene arrestato, sempre per rapina, e rinchiuso nel carcere di Udine dove entra in contatto con il suddetto Arrigo Cavallina, ideologo dei PAC, che lo accoglie nell’organizzazione. Pertanto prima di entrare nel gruppo eversivo, già da degna prova della sua vera natura, quindi una volta trasferitosi a Milano, inizia a partecipare alle azioni del gruppo eversivo, responsabile prima di varie rapine a banche e supermercati nel quadro di quelli che venivano definiti “espropri proletari” (come lo stesso Battisti ammette in una lettera del 2009 indirizzata ai giudici della Corte suprema del Brasile) e successivamente anche di alcuni omicidi di commercianti e appartenenti alle forze dell’ordine per i quali, il malavitosetto romano diventato nel frattempo uno dei capi dei Pac viene condannato con sentenze definitive all’ergastolo e ad un periodo
Cesare Battisti ha ucciso mio padre
Di Pierpaolo Rispoli
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di isolamento diurno: in due omicidi (omicidio del maresciallo degli allora Agenti di Custodia Antonio Santoro, Udine 6 giugno 1978; omicidio dell’agente Andrea Campagna, Milano 19 aprile 1979), egli spara materialmente in testa o alle spalle delle vittime; per un terzo (Lino Sabbadin, macellaio, ucciso il 16 febbraio 1979 a Santa Maria di Sala ,Venezia) partecipa materialmente facendo da copertura armata al killer Diego Giacomini; per il quarto (Pierluigi Torregiani, Milano 16 febbraio 1979) è condannato come co-‐ideatore e co-‐organizzatore. C’è da precisare che gli omicidi Sabbadin e Torregiani sono commessi, perché i due commercianti si erano resi responsabili, secondo “la giustizia proletaria”, di avere reagito a rapine che avevano subito poco tempo prima. Due onesti lavoratori, padri di famiglia uccisi perché mai avrebbero dovuto reagire ai proletari costretti alle rapine per sopravvivere! Nel 1979 Battisti viene arrestato nell’ambito di un’operazione antiterrorismo di vaste proporzioni e detenuto nel carcere di Frosinone, ma il 4 ottobre 1981 riesce ad evadere e a fuggire in Francia. Inizia la sua latitanza prima in Francia, poi in Messico ed quindi di nuovo in Francia, favorito da una lettura distorta della dottrina Mitterand, in pratica l’ impegno dell’ex presidente francese a dare ospitalità ai ricercati dalla giustizia italiana
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negli anni di piombo ma certo non a quelli macchiatisi di fatti di sangue. Il cosiddetto caso Battisti riesplode il 10 febbraio 2004 quando viene arrestato a Parigi. La magistratura italiana richiede nuovamente la sua estradizione, concessa dalle autorità francesi il 30 giugno: poco prima il presidente Jacques Chirac, successore di Mitterrand, manifesta il suo consenso all’estradizione in Italia in caso di esito negativo del ricorso in Cassazione presentato dai legali di Battisti. Il Consiglio di Stato francese e la Corte di Cassazione, con due successive decisioni sulla richiesta di estradizione, autorizzano la consegna di Battisti alle autorità italiane. Sembra sia arrivato il momento in cui l’assassino Battisti possa pagare il suo debito con la giustizia ma si rende latitante, lascia la Francia (si dice anche aiutato dai servizi francesi) e fa perdere le sue tracce. Rispunta in Brasile arrestato arrestato a Copacabana, in Brasile, il 18 marzo 2007. Il 13 gennaio 2009, il Brasile accorda lo status di rifugiato politico a Cesare Battisti con il ministro della giustizia Tarso Genro, che esprimendosi in modo contrario rispetto alla decisione dal CONARE (l’organismo brasiliano che esamina le richieste di asilo politico) votata due mesi prima, motiva la decisione sulla base di quello che definisce il fondato timore di persecuzione del Battisti per le sue idee politiche, nonché sui dubbi espressi sulla regolarità
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del procedimento giudiziario nei suoi confronti. Il 18 novembre 2009 la più alta istituzione giurisdizionale del Brasile, il Supremo Tribunal Federal, considera illegittimo lo status di rifugiato politico concesso dal governo brasiliano, si pronuncia favorevole all’estradizione di Battisti in Italia, ma lascia alla Presidenza della Repubblica del Brasile la parola definitiva sulla sua effettiva esecuzione. Il 31 dicembre 2010 Lula annuncia il proprio rifiuto all’estradizione di Battisti in Italia. A tal proposito si può citare l’ex giudice capo del Supremo Tribunale Federale brasiliano, Carlos Velloso, che sottolinea che “non era mai successo che una sentenza del Stf non venisse rispettata”, anche perché “non c’è nessuna parola nella legge che autorizzi il capo dello Stato a non rispettare una decisione riguardo un’estradizione.La decisione del tribunale doveva semplicemente essere applicata da Lula” Insomma, la decisione per Velloso “non ha basi giuridiche” ma è “ideologica e anche incomprensibile, visto che la stessa sinistra europea non concorda con ciò che ha fatto Battisti”. E allora perché questa scelta? C’è chi privilegia nell’interpretazione del caso le implicazioni economiche legate al rapporto con la Francia, e chi invece sottolinea l’origine politico-‐culturale di Lula, la sua militanza storica nella sinistra, la vicinanza ai movimenti di liberazione anche di matrice
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guerrigliera: in particolare avrebbe influito su Lula la mobilitazione pro-‐Battisti dell’intellighentia di sinistra, guidata in America Latina da Garcia Marquez, e il fatto di dover in qualche modo “rispondere” agli altri leader della sinistra sud-‐americana, Chavez in testa, che non gli avrebbero perdonato una capitolazione a un governo di destra come quello italiano. E allora ecco che la bassa politica e il bieco cinismo violentano la giustizia e perpetrano una ignobile
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vergogna: ad un terrorista assassino, giudicato colpevole con sentenze passate in giudicato, viene permesso di non pagare per gli omicidi commessi!
Libertà di informazione o informazione libera? Di Giuseppe Cuva
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In questi giorni non si è potuto non notare come l’informazione sia stata quasi tutta concentrata sui fatti privati del Premier e di altri politicanti. Si è arrivati anche a trasmissioni intere dedicate solo ed esclusivamente al gossip parlamentare, tanto che il direttore della RAI Masi ha dovuto telefonare in diretta ad Annozero per riprendere Michele Santoro e la sua truppa di inquisitori e moralizzatori affinché il suo programma fosse meno fazioso. La cosa che comunque è, secondo il sottoscritto, andata fuori dagli schemi è stata la perquisizione della giornalista de “Il Giornale” Anna Maria Greco rea di aver scritto un articolo contro il magistrato Ilda Boccassini, diventata famosa
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agli occhi della cronaca per le indagini che sta perpetrando in maniera maniacale contro Silvio Berlusconi con il caso “Ruby”. Il pezzo raccontava di un flirt che il giudice aveva avuto nel lontano 1982 con un giornalista di “Lotta Continua” e proprio allora la stessa Boccassini si difese dicendo che non si doveva mai andare a sforare la sfera privata, bella contraddizione visto che oggi si diverte ad indagare sui fatti privati degli altri. Anna Maria Greco ha avuto “l’onore” di ricevere la visita dei carabinieri la mattina del primo febbraio. Le forze dell’ordine hanno perquisito per intero l’abitazione della giornalista romana, presi in sequestro i computer della Greco e del figlio e addirittura si parla anche di perquisizioni corporali. Adesso la domanda sorge spontanea: come mai “Il Giornale” e i suoi giornalisti sono stati già vittime d’indagini e perquisizioni per ben due volte, mentre altre testate, dove
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un giorno sì e l’altro pure escono scoop e inchieste che riguardano quasi sempre gli stessi personaggi, non sono mai state sfiorate da una mezza idea di indagine o cosa simile? Mentre ci si domanda come possa succedere tutto ciò alcune considerazioni nascono senza troppe difficoltà: si dice sempre che in Italia non ci sia libertà d’informazione, che siamo in un regime, che le notizie che riportano sono sempre false, che se parli male della destra sei un uomo libero, se invece ne parli bene sei uno schiavo del potere. A tutto ciò si potrebbe rispondere con delle domande: in quale regime esisterebbe una trasmissione televisiva interamente dedicata allo sputtanamento di un unico personaggio, tra l’altro trasmessa dalla televisione pubblica? In quale regime esisterebbero dei giornali che scrivono solo per il piacere di gettare fango solo su una determinata classe politica? Mi sa che molti non hanno chiara la concezione di regime.
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Cameron e la fine del multiculturalismo: “Much ado about nothing”
Di Silvia Quaranta
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Le parole pronunciate sabato scorso dal Primo Ministro inglese David Cameron, all'indomani della conferenza sulla sicurezza di Monaco, hanno scatenato una tempesta di feroci polemiche in Gran Bretagna e non solo. “Il multiculturalismo è fallito” ha dichiarato Cameron, ponendo immediatamente l’attenzione su quello che è stato il filo conduttore del suo discorso: il problema dell’integrazione dei cittadini musulmani. Apriti cielo: le prima dita puntate sono giunte dall’opposizione laburista e dalle associazioni musulmane, secondo cui il premier avrebbe avuto un approccio “semplicistico” nei confronti della delicata questione. Sono seguite, a pioggia, le critiche provenienti da tutta la stampa britannica, da
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cui Cameron è stato tacciato perfino di razzismo. Ciò che sembra aver maggiormente urtato la sensibilità della stampa inglese, tuttavia, sembra essere stata la sonora ramanzina (accompagnata da una non molto velata minaccia di tagliare i fondi) a quelle associazioni che "cercando di presentarsi come un ponte di accesso alle comunità musulmane vengono riempite di denaro pubblico, anche se non fanno nulla di concreto per combattere l'estremismo". In realtà, leggendo il testo completo del discorso, risulta difficile capire come possa aver destato (e continui a destare anche in Italia) tutto questo scalpore, visto che, se considerato nell’insieme, non appare affatto "delirante" come
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è sembrato a tanta stampa. Anzi, si tratta di affermazioni tanto sensate da non apparire nemmeno, verrebbe da dire, così originali. Dopo un lungo preambolo sull'importanza di distinguere tra l'islam moderato e le associazioni fondamentaliste, Cameron ha criticato tanto la destra (la quale, a suo giudizio, è solita fare di tutta l'erba un fascio) quanto la sinistra (la quale non fa che allungare la "lista delle lagnanze" e sostenere che "se solo i governi rispondessero alle loro rivendicazioni, gli attacchi terroristici si fermerebbero"). Sul problema dei diritti taglia corto: coloro che insistono per dare spazio alle rivendicazioni "ignorano il fatto che molti di quelli che sono stati condannati per terrorismo, in Gran Bretagna e nel resto del mondo, sono laureati e spesso appartengono alla classe media". Inoltre, incalza Cameron, coloro che accusano i leader mediorientali di governare senza essere stati eletti e vedono nei regimi non democratici le condizioni che permettono la nascita e la proliferazione degli estremisti, non vedono il problema reale. “Se il problema è la mancanza di democrazia – dice Cameron – perché molti di questi estremisti stanno in società libere e tolleranti?". Il nocciolo della questione quindi, secondo il Premier britannico, va ricercato nella formazione di un’identità condivisa. "Con la dottrina del multiculturalismo -‐ ha
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dichiarato -‐ abbiamo incoraggiato le diverse culture a vivere in modo separato, sia l'una rispetto all'altra sia rispetto a quella principale. Non siamo stati capaci di offrire una visione della società alla quale possano desiderare di appartenere”. Un problema, dunque, di territorio comune, di identità unanimemente sentita che non si è venuta a creare anche a causa di un certo lassismo che è stato erroneamente fatto passare per relativismo etico. “Un esempio concreto? Non aver saputo affrontare in modo concreto la crudeltà del matrimonio coatto. Questa nostra indifferente tolleranza è servita soltanto a rafforzare l'impressione che non ci siano valori realmente condivisi. E questo lascia alcuni giovani musulmani con la sensazione di essere privi di radici". Il premier, infine, ha concluso il proprio intervento richiamandosi ai diritti e doveri non solo dei cittadini verso lo Stato, ma anche di quest’ultimo nei loro confronti. “Una società
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passivamente tollerante – sostiene – dice ai propri cittadini: finché obbedite alla legge vi lasciamo fare ciò che volete. Mantiene una posizione neutrale di fronte a tutti i diversi valori. Io invece penso che una società realmente liberale deve fare molto di più: poiché crede in certi valori, si adopera attivamente per promuoverli. La libertà di parola, la libertà di culto, la democrazia, lo stato di diritto, la parità dei diritti indipendentemente dalla razza, il sesso o l'orientamento sessuale. Una società di questo tipo ai propri cittadini dice: questi sono i valori che ci definiscono come società; per appartenervi bisogna credere in essi”. Dopo l’allarme sulla mancanza di una comune identità (annosa questione, soprattutto qui in Italia), insomma, Cameron ha chiuso con un appello ai principi della democrazia che devono essere non solo rispettati, ma anche tutelati e condivisi. Come spesso accade, “tanto rumore per nulla”.
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Novanta giorni di fuoco hanno investito il medioriente, due tiranni del mondo arabo sono caduti, uno dopo l’altro. Gli egiziani hanno vinto la loro battaglia e l’hanno vinta “senza veleno né spada”, per dirla con Jacques Le Goff, che nella medesima intervista ha dichiarato “oggi è storia”. Non si è trattato solo di una rivolta di popolo, ma anche e soprattutto di una rivolta voluta e messa in atto dai giovani, che in Egitto sono la maggioranza. Tre quarti della popolazione ha meno di
Il tramonto del Faraone Di Silvia Quaranta
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trent’anni: quella che si è ribellata contro Mubarack è una generazione di ragazzi che non chiedono solo pane, ma anche libertà, democrazia, intenet. È una rivolta che fa paura, e non sono agli Stati Uniti. L’imbarazzo di Obama è risultato evidente fin da subito: dopo un timidissimo tentativo di non farlo (Mubarack era pur sempre un alleato di vecchia data), il presidente non ha potuto che sostenere il popolo egiziano. Del resto, come ha osservato Marc Thiessen, dell'American Enterprise Institute, in Egitto l'America non si gioca solo la propria coscienza, ma anche (soprattutto) la propria reputazione presso il mondo arabo, che è fonte d’interesse politico, strategico ed economico. Cavalcare il cambiamento è stata, più che un’opzione, una necessità. Sostenere Mubarak sarebbe stata una scommessa persa in partenza: se fosse sopravvissuto, Washington si sarebbe resa complice della repressione; in caso contrario, come è infatti accaduto, gli egiziani ora rinfaccerebbero (a ragione) all'America di aver tentato di sabotare il loro risveglio nazionale. Da decenni, l’Egitto è considerato il gigante e il garante della stabilità regionale: insieme a Pakistan e Arabia Saudita, è il nucleo del blocco sunnita su cui puntano Israele e Stati Uniti in chiave anti-‐iraniana. Per avere un'idea
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dell'importanza strategica ricoperta dall'Egitto per il governo statunitense, basti pensare che ogni anno Washington elargisce circa un miliardo e mezzo di dollari in aiuti – militari e non – al Cairo e che, di contro, l’Egitto ripaga con un controllo abbastanza serrato sul movimento della Fratellanza Musulmana all’interno dei propri confini e, al di fuori, con un rapporto privilegiato con lo Stato di Israele. E chi avverte con maggiore preoccupazione la caduta di Mubarack, ora, sembra essere proprio Israele. Non è un caso che il governo israeliano si sia mosso in favore di Mubarack, invitando il resto del mondo a moderare le critiche nei suoi confronti per preservare la stabilità nell'area. Non solo: per la prima volta dai tempi di Camp David, il governo di Tel Aviv ha concesso il Sinai alle truppe del Faraone. Ciò che si teme, e che si sta
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rivelando sempre più un pericolo concreto, è l’effetto domino su tutta la regione: l’onda partita dalla Tunisia ha sconvolto l'Egitto passando per il Libano e sta minacciando Marocco, Algeria, Yemen, Giordania, Oman. Nessun regime della regione si sente sicuro. E l’ansia di libertà che ha investito il medioriente ha avuto echi anche molto lontano: a rendersi conto della pericolosità della rivolta del Cairo c’è stata anche la Cina, che ha impedito la ricerca della parola "Egitto" sui siti di microblogging nazionale. La situazione allo stato attuale rimane incerta: la rivolta egiziana potrebbe dar vita al temuto effetto domino, ridisegnando una serie di equilibri già instabili, ma per il momento potrebbe anche risultare un fuoco di paglia, come già è accaduto in Tunisia. Quel che è certo, come osservava Le Goff, è che i moti di questi giorni rimarranno nella storia.
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Uno scherzo chiamato Maternità
Di Giuseppe Cuva
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Un paio di giorni fa navigando su internet una notizia mi è subito saltata all’occhio: Nicole Kidman è di nuovo mamma. Fin qui la cosa potrebbe apparire normale, anzi normalissima, se non che il nuovo figlio della star hollywoodiana non sia stato portato in grembo dalla Kidman, ma da un’altra donna con il cosiddetto “utero in affitto”. Così mentre l’attrice se ne andava a presentazioni di film, a festival di cinema e altre feste e celebrazioni varie, la mamma surrogata, magari pagata a suon
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di quattrini, portava avanti una gravidanza di un’altra donna. La tecnica dell’utero in affitto è nata per tutti quei casi di sterilità femminile e di difficoltà di procreazione e quindi un’altra donna può “prestare” il proprio utero per il periodo della gravidanza, mentre le uova e gli spermatozoi devono provenire dalla coppia committente. Il problema è che molti adesso usano questo metodo come se fosse una semplice moda scherzando su una cosa delicata ed importantissima che si chiama maternità.
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Coloro che usufruiscono della mamma surrogata, pur non avendo problemi di natura riproduttiva, sentiranno loro quel bambino che è stato per nove mesi nel grembo di un’altra donna, e colei che ha portato avanti una gravidanza come si sentirà dopo aver partorito un figlio che a priori sa di non essere suo? Quello dell’utero in affitto è un altro tassello che si va aggiungere a quel puzzle di disvalori che stanno affliggendo sempre di più la nostra povera società malata, dove il materialismo e il menefreghismo verso temi importanti la fanno da padrone. La mamma surrogata, nata come aiuto per donne in difficoltà, sta pian piano prendendo le sembianze di qualcosa di “normale” e qui si rischia di fare diventare la maternità come uno scherzo, come lo stanno per diventare l’aborto, l’eutanasia, l’uso degli stupefacenti e tutte gli altri non valori che tormentano la nostra realtà. Forse sarebbe l’ora che ci si rendesse conto che l’etica ha anche dei suoi limiti e trasgredire questi confini può essere pericoloso e se certi metodi non sono più utilizzati per bisogno o per necessità si arriverà al punto che anche la costruzione di una famiglia diventerà una specie di passatempo dimenticando che anche la stessa famiglia è frutto del sacrificio, ma cosa ci aspettiamo quando ormai ha preso il sopravvento la cultura del tutto e subito?
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Di Paolo Licciardo
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8 dicembre 1965: fine del Concilio Ecumenico Vaticano II. E’ la svolta. Tra le tante decisioni che vengono prese in questa grande assemblea una in particolare riguarda i cattolici impegnati in politica. Quest’ultimi non dovranno per forza far parte del partito politico centrista, cattolico per eccellenza (ovvero la vecchia DC), ma potranno entrare anche nei partiti della destra e della sinistra. In pratica si tratta di un’anteprima della fine della prima repubblica quando, dopo gli scandali legati al caso “tangentopoli”, la Democrazia Cristiana si sciolse definitivamente. Così in seguito a questa decisione molto politici facenti parte dell’area cattolica si divisero nei vari M.S.I., P.C.I., P.S.I. e cogli anni a seguire in Forza Italia, Alleanza Nazionale, Ulivo, Margherita fino ai giorni nostri negli attuali Pdl, Pd e nel cosiddetto “terzo polo”. Ovviamente ci sono ancora i nostalgici che hanno rifondato la Dc o che sono confluiti nell’Udc, nulla hanno a che vedere col vecchio partito di centro. Ora la domanda sorge spontanea: che voce in capitolo hanno gli esponenti cattolici presenti nei partiti di destra e sinistra ai giorni nostri ?Sono decisivi oppure no? La destra ha subito chiarito la posizione dei cattolici al proprio interno aggiungendo anche articoli al proprio statuto (come fece Alleanza Nazionale al congresso di fondazione tenutosi a Fiuggi nel 1994) che furono suggeriti e scritti direttamente da ex Dc confluiti nell’allora partito guidato da Gianfranco Fini. Diversa la situazione è nella sinistra dove la presenza dei cattolici ha creato spaccature per le decisioni più importanti. Negli ultimi mesi si è parlato di una candidatura del governatore della Puglia Nichi Vendola come candidato premier della sinistra alle prossime politiche del 2013. Questa decisione ha suscitato grandi polemiche nell’area cattolica del Pd guidata da Dario Franceschini che insieme ai suoi fedelissimi non è d’accordo sulla candidatura del governatore
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pugliese in quanto, essendosi dichiarato omosessuale, rivendicherebbe molti diritti per gli omosessuali stessi. Che dire, questa presa di posizione sarebbe anche da discutere in quanto molti diritti che chiedono gli omosessuali vanno contro l’etica cattolica. Una cosa è certa, i cattolici non permettono alla politica di cercare di mediare su alcuni temi importantissimi quali bioetica o eutanasia, che ai gironi nostri sono il pane quotidiano di molti dibattiti, e sono stati definiti quasi un ostacolo dai loro colleghi facenti parti di altre aree politiche. La collaborazione tra cattolici e non cattolici sui temi di etica religiosa potrebbe segnare l'inizio di una nuova era politica italiana che di questi tempi è solamente un'utopia.
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Tenue ripresa senza lavoro: il caso di Verona
Di Federico Maccadanza
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Camera di commercio: è boom di cassa integrazione straordinaria e in deroga La difficile situazione economica mondiale sembra alleggerirsi tra le righe dei bilanci aziendali scaligeri; i bilanci tornano lentamente in positivo e le richieste per la cassa integrazione ordinaria sono calate rispetto i precedenti trimestri (700 mila nel terzo trimestre 2009 a fronte delle attuali 627 mila). Se da un punto di vista formale si potrebbe affermare l’esistenza di una leggera ripresa dell’economia veronese, uno studio congiunto della Camera di Commercio e dell’Università di Verona ha sottolineato come la provincia scaligera sia interessata da quello che gli economisti definiscono come “jobless recovery” ovvero una ripresa senza lavoro. I bilanci tornano in “nero” cioè con segno positivo espellendo forza lavoro quindi lasciando per strada sempre più famiglie; da qui il dato preoccupante
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inerente l’aumento della disoccupazione che passa dal 4,7% del 2009 all’attuale 6%. La disoccupazione giovanile raggiunge il 29%. La forza lavoro che viene espulsa è composta in genere da tutti quei soggetti che hanno contratti cosiddetti “precari” non a tempo indeterminato. Il fenomeno ha generato nell’ultimo trimestre del 2010 un’esplosione della cassa integrazione straordinaria e di quella in deroga cioè di strumenti a cui si ricorre quando le difficoltà permangono e ci si appresta a licenziare i dipendenti. Si tratta incontrovertibilmente di un fatto serio che non va sottovalutato anche alla luce dei dati passati; si pensi come nel 2008 la “straordinaria” e quella “in deroga” fossero praticamente inutilizzate. Secondo alcuni sindaci della zona la situazione è molto grave. Antonio Casu, primo cittadino di San Bonifacio, vede nero: «Negli ultimi mesi ci stiamo occupando di 24 famiglie con minori che
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hanno ricevuto lo sfratto esecutivo, e i ritardi con gli affitti sono diventati un problema sociale». Mario Faccioli, sindaco di Villafranca, vede la crisi di un modello: «Il sistema delle piccole imprese negli anni passati permetteva i cosiddetti travasi orizzontali: cioè se andava male il tessile, per esempio, ci si metteva a lavorare il vetro. Ora però il mercato subisce una contrazione complessiva». Il rettore dell’Università di Verona Mazzucato sottolinea il filo che lega le proteste studentesche all’attuale situazione lavorativa: «Dietro agli slogan e ai gesti clamorosi -‐ osserva -‐ questi ragazzi lanciano un allarme che va ascoltato, perché l'Italia è l'unico grande Paese che in concreto ha dimostrato di non credere nel proprio capitale intellettuale. Di fatto abbiamo affrontato passivamente la crisi, tagliando la spesa senza fare investimenti per la crescita». Secondo il comandante dei Carabinieri colonnello Paolo Edera «In questo momento -‐ afferma -‐ è forte il rischio d'infiltrazioni criminali nell'economia locale. Non penso alle grandi aziende che sanno come parare i colpi. Penso alle piccole imprese che magari hanno difficoltà a farsi prestare soldi dalle banche. Molti imprenditori possono essere tentati di accettare denaro da personaggi oscuri, che praticano l'usura e alla fine gli scippano l'attività». (fonte delle interviste Corriere del Veneto).
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Di Federico Maccadanza
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Il gioco d’azzardo rappresenta un’importante capitolo d’entrata nel bilancio statale. Un tempo definito dai più “immorale”, svolto nell’ombra, lo ritroviamo oggi ovunque, tollerato e, mi preme dirlo, incentivato. Nell’ultimo decennio l’azzardo è stato al centro di numerosi interventi normativi che l’hanno trasformato, legalizzato e liberalizzato. Le definizioni “gioco legale” o “gioco sicuro” nascono in questi anni per indicare quelle attività soggette a regolamentazione del monopolio statale. La promozione statale non è un segnale del fatto che non c’è nulla di male a giocare d’azzardo? Quindi dove sta il problema? Il gioco si insinua in ogni aspetto della società: nei bar, sui giornali, negli sponsor delle squadre calcistiche, su internet, sui cartelloni stradali e in televisione sia negli spazi pubblicitari, sia negli spazi che dovrebbero essere riservati all’informazione (brilla il trafiletto che ogni settimana vediamo in basso a sinistra del teleschermo durante l’edizione del tg1-‐tg2). Un vero business che ha fatturato nel 2003 circa 20,6 miliardi di euro a fronte dei 5,1 del 1990. Per avere un’idea ben precisa dell’importanza dei media nell’incentivare il gioco basti pensare che il gruppo Snai nel corso del 2000 ha investito in appoggio alle scommesse sportive: circa 7,2 milioni di euro per cinque mesi di spot sulle reti Rai, Mediaset, Stream, Snai Sat e 120 emittenti locali collegate a Crai S.r.l (una società affiliata Snai). Massicce pure le campagne pubblicitarie promosse da Lottomatica e Sisal, rispettivamente per Lotto e SuperEnalotto. Sembra che la differenziazione dell’offerta con diversi prodotti, la diffusione via internet ed il sempre più facile accesso inducano ad una maggiore crescita dell’azzardo; questo spiegherebbe la nascita delle innumerevoli formule con le quali il cittadino soddisfa il proprio bisogno. Poker online, Gratta e Vinci, Totogol, Totosei, scommesse sportive, Bingo, Lotto, scommesse sull’ippica, Totip, Corsa Tris, Totocalcio, casinò, lotterie e non ultima il Win for
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Life. Le vincite occupano le prime pagine dei giornali; chi vince (si presume) è quasi sempre un disagiato, il montepremi Superenalotto si classifica sempre come “re dell’informazione” ed il suo successo commerciale lo si deve quasi esclusivamente a ciò: chi non spenderebbe due euro per guadagnarne ben 168 milioni? Vincere è possibile anche se si ha una possibilità su 622.614.630. Ne è convinto anche il fisco che calcola un’entrata fiscale di circa 4.000 euro al minuto per il solo Superenalotto. Le trasmissioni sul poker online sono nate negli ultimi anni, quasi in concomitanza con la diffusione del “poker texas” tra i giovani. Una coincidenza? E da quanto tempo sono nati i poker via internet? Win for life rappresenta l’ultimo arrivato; al vincitore una vincita di 6.000 euro per vent’anni, psicologicamente parlando il regolamento cerca di presentare la vincita agli occhi del consumatore come uno stipendio che renderà la vita, dipinta dalla famosa pubblicità, più “spensierata e leggera”. Nel 2007 il fisco ha incassato un totale di 6,7 miliardi di euro dalla strabiliante cifra che gli italiani hanno speso in totale nello stesso anno pari a 42,2 miliardi di euro (erano 14,3 miliardi di euro nel 2000, 18 del 2002, 23,1 nel 2004, 28 nel
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A-Social Network
Di Margherita Berardi
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Parola d’ordine: condividere. No, non sono di fronte all’Ultima cena di Leonardo, ma allo schermo del mio pc, naturalmente collegato ad Internet, naturalmente una delle pagine aperte è Facebook. Facebook, il biasimevole, irresistibile social network, la piazza telematica in cui tutti condividono, appunto, tutto. Una specie di riedizione informatica e molto americana de “I fatti vostri”, storico programma televisivo made in Italy per il pubblico della mattina, ambientato in una accogliente piazzetta artificiale, in cui si susseguono giochi, ospiti, notizie. Il parallelo sorge spontaneo: invece di Facebook il sito poteva benissimo chiamarsi YourBusiness, dal momento che in quasi sette anni gli interventi di aggiornamento da parte dello staff, oltre a curarne l’estetica, si sono concentrati soprattutto nel potenziamento degli strumenti di ficcanasaggine di ogni utente. Veri e propri tentacoli informativi che neanche il Mossad si sogna. La caratteristica principale del social network, però, è l’altra,
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2005, 35,2 miliardi di euro nel 2006). Ciò che non si racconta nei telegiornali sono i pesanti costi sociali che il gioco d’azzardo provoca tra la popolazione: i giocatori patologici in Italia sono infatti stimati in 700mila e il nostro sistema sanitario non è preparato ad aiutarli. La malattia del gioco rovina moltissime famiglie riducendole sul lastrico. L’indebitamento per gioco d’azzardo è la prima causa nazionale che alimenta l’usura e una delle prime per quel che concerne i casi di suicidio. Il presidente di Alea, associazione che studia il problema del gioco
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d’azzardo, Riccardo Zerbetto in una passata intervista riferiva: «Mancano strutture dove curarsi. Le famiglie dei giocatori compulsivi, sfibrate non solo economicamente, si rivolgono ancora a parroci e medici di base. Solo a gennaio sono stati definiti i livelli di cura per paziente, in modo da determinare i costi di cura per le regioni. Le richieste, dove ci sono servizi specialistici regionali, sono invece in aumento. Senza contare che anche i parenti hanno bisogno di cure psicologiche. Senza contare che il giocatore non va ai Sert con drogati e alcolisti».
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quella citata in apertura: la “condivisione”. La parola suona bene, sa di affinità, di partecipazione, di altruismo. Invece, esattamente all’opposto, finisce in molti casi per cibare larga manu un individualismo sempre più affamato. A fronte di un utilizzo – misurato – del sito come strumento per riallacciare e mantenere i contatti con persone lontane, per divulgare notizie, per partecipare ad iniziative o, più semplicemente, per farsi due risate, si registra la tendenza di molti a servirsi di Facebook come di una vetrina da cui attirare consensi e notorietà. Dal messaggio personale alle foto, dalle note ai cosiddetti “link”, sulla pagina personale si cerca di rovesciare quanto più possibile per farsi conoscere: citazioni -‐ spesso erroneamente attribuite -‐, massime – in parecchi casi di minimo spessore -‐, pose – quasi sempre ammiccanti o finto-‐spontanee -‐ , canzoni – non di rado indefinibili come tali. La gara è a chi ottiene più commenti o più “mi piace”, per finire a buon diritto nella categoria “notizie più popolari”. Quasi sempre vince chi ha più amici, qualcuno che clicca lo trovi sempre. Già, gli amici: entità che, in certi casi, hai visto e forse salutato una volta nella vita. Il social network per molti, è fondamentalmente un mezzo per dimostrare ciò che si vorrebbe essere. Un mondo virtuale di profili ancora più virtuali, in cui si ostenta un’immagine di sé vincente, orgogliosa, che nella vita reale è solo un’idea lontana. Una maschera che riproduce la bidimensionalità cui si è ridotta l’esistenza. Citare venti volte al giorno Jim Morrison – a quanto pare il più prolifico autore di aforismi di tutti i tempi! -‐ invece di leggere Foscolo, giocare per ore a Pet Society invece di uscire a fare una passeggiata, fare pettegolezzo pomeriggi interi invece di fermarsi dieci minuti a pensare. Nell’era in cui tutto è commercio, non si può che finire a fare pubblicità. Di se stessi. Pubblicità ingannevole, per giunta. Quel che è peggio è che la soglia dell’età di chi accede a Facebook si abbassa sempre di più, nonostante vi sia un minimo da rispettare, e sempre più ragazzini e ragazzine diventano fan di tronisti e soubrette d’avanspettacolo anziché sognare Peter Pan e Alice nel Paese delle Meraviglie.
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La conseguenza più triste di questo quadro apocalittico è che inevitabilmente, irrimediabilmente, ci si isola. Se anziché “condividere”, “pubblicare”, “suggerire” in continuazione parole scopiazzate, alla cieca ricerca del “mondan romore” di dantesca memoria, si coltivasse un piccolo spazio interiore, sconosciuto ai più, e lo si riempisse di idee, sogni, pensieri, interessi, musica; se ci si rifugiasse in questo intimo e personalissimo “angulus” oraziano, per godere della bellezza nel senso più profondo del termine, e quindi della felicità, si recupererebbe intanto un minimo di buongusto. E poi una dimensione spirituale, genuina e sincera, che colmerebbe il vuoto di tanti rapporti umani reali ed allevierebbe almeno un po’ quel senso di decadente precarietà che ci troviamo a vivere ai giorni nostri. “Madame Michel ha l'eleganza del riccio: fuori è protetta da aculei, una vera e propria fortezza, ma ho il sospetto che dentro sia semplice e raffinata come i ricci, animaletti fintamente indolenti, risolutamente solitari e terribilmente eleganti.” (Muriel Barbery, L’eleganza del riccio)
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Arte e cultura
C’era una volta Leonforte… Di Pina Maria Barbera
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Al centro del sistema montuoso degli Erei, nella dimenticata provincia di Enna, sorge un piccolo paese che sembra arrampicarsi su di una collina. La vista che si propone dinnanzi a chi sta per giungere nel paese della pesca tardiva e della fava larga è a dir poco stupefacente…di sera poi, quando si accendevano le luci colorate di quel giallo che dà un tocco di serenità e pacatezza, era uno spettacolo vederlo da lontano. Su tutto domina il Palazzo Branciforti, quello che un tempo era la residenza
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dell’omonimo principe-‐fondatore di Leonforte. Ma da qualche tempo questo spettacolo è turbato da una strana illuminazione, poiché, in occasione dei festeggiamenti per il quattrocento anni della fondazione di Leonforte, l’amministrazione comunale ha ben pensato di puntare sul suddetto Palazzo una luce BLU che distoglie l’attenzione dal circondario. La storia del palazzo Branciforti in realtà è molto travagliata e di certo la recente e stravagante illuminazione non è l’unico
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motivo che non fa riposare in pace il nostro caro Principe. Ma partiamo dall’inizio. Con la conquista Normanna il feudo passò da un signorotto all’altro fino a quando, nel XV secolo, pervenne alla famiglia Branciforti. Nel 1610 il principe Nicolò Placido Branciforti decise di avviare i lavori per la costruzione, che si protrasse per mezzo secolo, della sua residenza sotto la direzione di tre capomastri ennesi: Gianguzzo, Inglese e Calì. Il palazzo si presenta con una mole inconsueta e stupefacente per un centro agricolo di nuova fondazione. Ha pianta quasi quadrata e tre elevazioni, è dotato di ampio cortile e presenta alti bastioni sul fronte meridionale che si affaccia sul vecchio borgo.
Acquistato nell'Ottocento dai Conti Li Destri ha subìto manomissioni sia all'interno che nei prospetti, mentre un crollo negli anni Cinquanta ha irrimediabilmente cancellato l'ala est, oggi parzialmente ricostruita. Il manieristico portale bugnato è simile a quello del palazzo che il Principe possedeva a Palermo, oggi sede della Fondazione Lauro Chiazzese. Il palazzo fa parte di un complesso artistico ed architettonico ben più vasto
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cadute le scuderie, sempre al secolo proprietà dei poveri Branciforti? Sono tra le più grandi del sud Italia, unico esempio in Sicilia di edificio destinato all'allevamento di cavalli, di grandissime dimensioni, aperte in parte solo in concomitanza del periodo natalizio per l’esposizione di un presepe artigianale, e che vantano la residenza non di privati questa volta, ma di colombe che amoreggiando “si moltiplicano” e, ahimè, deturpano con i loro bisogni fisiologici le affacciate seicentesche delle allora residenze dei 102 cavalli del principe. E perché non citare la chiesa di santo Stefano, ovvero la “parrocchia” a cui nessuno si preoccupa di fare arrivare i fondi per un restauro imminente, capace di salvare le ricchezze che solo il parroco della stessa chiesa forse
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che andrebbe a costituire l’ARTE che Leonforte potrebbe vantare di possedere, ma essendo ormai da anni proprietà privata di diverse famiglie che vi abitano, lo stabile rimane un vanto per i pochi eletti che vi accedono ogni giorno. Infatti, l’infrastruttura non è visibile per ovvie e altrettanto folli ragioni al pubblico, se non dall’esterno. Anche Garibaldi ebbe l’onore di visitarlo e pernottarvi, ma questo sarebbe troppo per un comune turista o cittadino che avrebbe avuto tanta voglia, passando per Leonforte, o vivendoci, pur non essendo un eroe dei due mondi, di perdersi nei meandri di questa fortezza. Chissà quale mobile in stile liberty nasconde oggi quel passaggio segreto di cui ci giunge voce, e che sappiamo collegasse la residenza del principe alla retrostante chiesa di sant’Antonio; quel passaggio fatto costruire dal principe per far sì che la sua amata probabilmente fosse protetta nel suo cammino verso l’incontro con Dio. Le alternative per un uso più “comunale” del monumento, potrebbero essere tante, ma nessuno si sforza di pensarci, tanto stiamo tutti bene così, ormai il leonfortese medio si è persino abituato all’uscita di una mercedes benz o di un enorme fuoristrada da quell’immenso portone dal quale il Principe non usciva di certo facendo rombare il motore della sua Ferrari. E cosa dire dell’oblìo in cui sono
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conosce veramente?! Per quanto riguarda la chiesa madre basta citare l’importanza della scalinata ondulata rispetto alla facciata che si dispone su un piano, esempio atipico dello stile barocco. Forse una rarità. E per l’interno qualcuno ha idea del pregio e del valore del marmo delle colonne della navata centrale? Il sacrato poi è ormai un parcheggio autorizzato. E vogliamo parlare della Granfonte? Quella che noi comunemente chiamiamo i “vintiquattru cannola”? Vanta di avere attratto il famoso critico Sgarbi, che dopo averla vista disse che sarebbe stato meglio portare un’opera d’arte di cotanta bellezza altrove. Addirittura qualche ragazzino tempo fa si è sentito autorizzato a decorare la fontana barocca, simbolo dell’abbondanza idrica di Leonforte, con qualche scritta
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nella parte posteriore, ma qualcuno se n’è accorto? Probabilmente No! Perché per accorgersene bisogna attraversare la porta Garibaldi e scendere nei lavatoi , gli stessi lavatoi su cui altre città e paesi del sud fondano e basano il proprio giro turistico, ma che a Leonforte vengono usati come luogo di ritiro per giovani che ivi scendono allegramente per atti poco leciti e legali. Quante iniziative culturali ed eventi in alternativa a questo squallore e degrado sociale e giovanile si potrebbero organizzare dal palazzo spostandosi verso la parte sud, scendendo da quelle scalinate tortuose a volte anche impraticabili per quanto sono scoscese ma che ci rimandano indietro nel tempo?! Quelle case esposte al sole in modo da non farsi ombra l’una con l’altra e in modo da catturare e lasciare entrare all’interno tutti i raggi caldi del sole, emanano ancora l’odore del tempo che è trascorso e dei nostri avi che percorrevano queste ultime strade ancora rimaste tali e quali. Non posso dunque non citare la villa comunale su cui si affacciava un tempo il principe direttamente dal suo palazzo e che oggi è aperta
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quando “va” di aprirla e che per un paio di giorni è stata ravvivata dalla presenza di immondizia disposta in maniera artistica sul marciapiede antistante l’ingresso nella stessa. Non tutti sapranno dell’esistenza della tela di un allievo di Pietro Novelli (?) o dello stesso Novelli nella Chiesa dei Cappuccini. Perché nessuno viene a vederla? Leonforte non ha solo le pesche da offrire, ma quando i turisti vengono numerosi per questa sagra rinomata sono poche le iniziative proposte e attuate per accoglierli e presentare loro la storia di quel territorio che produce un frutto tanto profumato che forse è così tanto pregiato perché il leonfortese non vi mette niente di suo, è la natura che lo fa. Non ci vuole un animo tanto nostalgico e legato alla tradizione di una ragazza di 23 anni che scrive per potersi accorgere di quanta bellezza offre Leonforte, magari basterebbe che un assessore alla cultura avesse un po’ di tempo in un pomeriggio di primavera per fare una passeggiata un po’ più a sud e richiamare alla mente il sapore dell’arte.
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Direttore Resonsabile GIOVANNA IANNIELLO Presidente dell'Associazione CRISTIAN ALICATA Responsabile di Redazione PAOLO QUADROZZI Responsabile Web SILVIA QUARANTA
Ringraziamo tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo numero, ed in particolare tutti i collaboratori ed articolisti:
Giuseppe Cuva, Pietro Crescenzo, Marco Cassini, Stefano Pisaniello, Federico Maccadanza, PierPaolo Rispoli, Paolo Licciardo, Margherita Berardi, Pautasio, Pina Maria Barbera.
..ed il supporto tecnico di:
Daigoro Mazzoleni