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L'Africa dimenticata

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Circolo Culturale Primo Maggio, Bastia Umbra (PG)

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Quaderni del volontariato

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L’Africadimenticata

a cura di

Luigino Ciotti

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Coordinamento editorialeChiara Gagliano

© 2007 CESVOL2007 EFFE Fabrizio Fabbri Editore srl

ISBN: 978-88-89298-44-2

Progetto grafico e videoimpaginazioneStudio Fabbri, Perugia

StampaGraphic Masters, Perugia

Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia

Via Sandro Penna, 104/106Sant’Andrea delle Fratte06132 Perugiatel. 075/5271976 fax: 075/[email protected]@pgcesvol.net

Pubblicazione a cura di

Con il Patrocinio della Regione Umbria

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Il CESVOL, centro servizi volontariato per la Provincia di Perugia, nell’am-bito delle proprie attività istituzionali, ha definito un piano specifico nell’a-rea della pubblicistica del volontariato.

L’obiettivo è quello di fornire proposte ed idee coerenti rispetto ai temi diinteresse e di competenza del settore, di valorizzare il patrimonio di espe-rienze e di contenuti già esistenti nell’ambito del volontariato organizzatoed inoltre di favorire e promuovere la circolazione e diffusione di argomentie questioni che possono ritenersi coerenti rispetto a quelli presenti al cen-tro della riflessione regionale o nazionale sulle tematiche sociali.

La collana I quaderni del volontariato presenta una serie di produzionipubblicistiche selezionate attraverso un invito periodico rivolto alle asso-ciazioni, al fine di realizzare con il tempo una vera e propria collana edito-riale dedicata alle tematiche sociali, ma anche ai contenuti ed alle azioniportate avanti dall’associazionismo provinciale.

I quaderni del volontariato, inoltre, rappresentano un utile supporto perchiunque volesse approfondire i temi inerenti il sociale per motivi di studioed approfondimento.

I quaderni del volontariato:un viaggio attraverso un libro nel mondo del sociale

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Premessa

Parte PrimaIncontro con Padre Giulio Albanese

Capitolo Primo

Parte SecondaIncontro con Padre Renato “Kizito” Sesana

Capitolo Primo

Parte TerzaIncontro con Jean Leonard Touadi

Capitolo Primo

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Indice

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Il grande evento del Forum Sociale Mondiale di Nairobi svoltosi dal 20 al 25gennaio 2007, di cui si è parlato pochissimo nel Nord del mondo, conferma latesi del titolo di questa pubblicazione “L’Africa dimenticata” e le logiche e gliinteressi dei grandi media mondiali.

Per questo, con questo libro che in realtà è la trascrizione della registrazionedi alcune serate del circolo culturale “primomaggio”, al di là dei mesi tra-scorsi dalle iniziative, rimanendo inalterato il valore delle cose dette, le ripro-poniamo all’attenzione dei lettori perché il contributo di giornalisti comePadre Giulio Albanese e Padre Renato Kizito Sesana, entrambi comboniani, eJean Leonard Touadì, tutti profondi conoscitori ed esperti di questo meravi-glioso continente che è l’Africa, è utilissimo a farci capire qualcosa in più checi è indispensabile per un approccio serio e che non si fermi agli stereotipi.

L’Africa ricca, ma impoverita perché derubata; l’Africa che muore, ma che èpiù viva che mai e giovanissima; l’Africa che vive in migliaia di baraccopoli,ma che ha l’energia, la vitalità, la gioia di vivere dei ragazzi di Korogocho cheabbiamo portato in Umbria il 7 e 8 maggio; l’Africa dei villaggi turistici e deisafari, ma anche quella dei villaggi senza pozzi d’acqua e senza ambulatori;l’Africa delle guerre su commissione, del cancro della corruzione, ma anchedegli splendidi parchi e dei grandi animali, di riti e costumi antichissimi; ilcontinente dove siamo tutti vittime del mal d’Africa.

Noi stiamo da alcuni anni provando a capirlo con gli incontri che organizzia-mo ed i libri che presentiamo perché non vogliamo usarlo, calpestarlo, offen-derlo, ferirlo; non vogliamo prendergli il petrolio ed inquinarlo come fa l’Eniin Nigeria, vendergli armi che mietono vittime come in Somalia, parlargli didiritti umani ma dimenticare il popolo Saharawi e commerciare tranquilla-mente (senza porci domande) con il Marocco, parlare di giustizia e firmare gliEPA, dire di aiutarli e distruggere la loro agricoltura e fare cioccolato senzacacao.

Insomma anche l’Africa è un bene comune e per questo va salvaguardato enon può essere solo fonte di ricchezza per le tanti multinazionali che vi opera-no, ma deve esserlo innanzitutto per i suoi abitanti.

Questo libro vuole essere un piccolo strumento per provare a capire un po’ dicose, un antidoto alla scarsa informazione quando non è vera e propriadisinformazione dei media, un tentativo dal basso di costruire “un altromondo possibile”.

Premessa

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Vorrei chiudere con una parte di una poesia “Africanità” di un poeta Nuba(popolo del Sudan a noi caro), Yousif Kuwa Mekki:

FratelliPerdonatemiLa mia franchezza e il mio coraggioMalgrado l’umiliazione dei miei nonni,Malgrado la schiavitù di mia nonnaMalgrado la mia ignoranzaLa mia arretratezzaLa mia ingenuità…Il mio domani verrà.

CoroneròLa mia dignità con la conoscenzaAccenderò la mia fiaccolaE alla sua luceCostruirò la mia civiltà.E alloraTenderò la manoPerdonerò quelli che tentaronoDi distruggere la mia identitàPerché le mie aspirazioniSono amore e pace!

Luigino CiottiPresidente circolo culturale

“primomaggio”

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Parte Prima

ncontro con PadreGiulioAlbanese

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Giulio Albanese, giornalista,missionario comboniano, è nato aRoma il 12 marzo 1959.Ha diret-to il New people media centre diNairobi e fondato la Missionariservice news agency (Misna) cheha diretto fino al 2004. È statocorrispondente dall’Africa di Ra-dio Vaticana e ha collaborato convarie testate giornalistiche tra cuiGiornale Radio Rai, Avvenire eVita. È autore di alcuni libri tracui Ibrahim, amico mio (Emi,Bologna 1997), Il mondo capovol-to (Einaudi, Torino 2003), Solda-tini di piombo (Feltrinelli, Milano2005), Hic sunt leones,africa innero e in bianco (Paoline editoria-le libri 2006).

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Bastia Umbra 11/05/2006

Padre Giulio Albanese è venuto a presentare il suo ultimo libro a Bastia Umbragiovedì 11 maggio, ospite del Circolo culturale primomaggio. Il libro Soldatini dipiombo, edito da Feltrinelli racconta una serie di storie incentrate sul drammadei bambini soldato, principalmente in Uganda e Sierra Leone. Giulio Albanese è un missionario comboniano e un giornalista, ha vissuto alungo in Africa e nel 1997 ha fondato MISNA (Missionari Service NewsAgency), l’agenzia di stampa internazionale delle congregazioni missionarie cat-toliche. Impegnato da anni a fare informazione dal Sud del mondo è al suo terzolibro, dopo Ibrahim amico mio e Il mondo capovolto.

Luigino CiottiPadre Giulio, che ringraziamo per essere qui, è venuto a presentare il suo ultimolibro, uscito circa un anno fa, ma per noi è un’occasione per parlare di Africa,degli effetti della globalizzazione e di una serie di questioni che vanno dalladistribuzione delle risorse alla questione dei diritti umani.Ovviamente il libro offre uno spunto molto interessante per parlare di questo, marichiama l’attenzione su un problema di cui nessuno parla, del fatto che ci sonocirca 300 mila bambini soldato nel mondo, di cui 120 mila in Africa e i restanti180 mila negli altri continenti, in particolare in Asia e in America del Sud. Èuna cifra assolutamente non nota e negli ultimi anni, dal 2001 ad oggi, i bambinisoldato sono stati utilizzati in almeno 21 conflitti nel mondo e, naturalmente,muoiono a migliaia. Di tutto ciò non si parla, eppure noi spesso ci vantiamo, nella nostra società occi-dentale, di difendere i diritti dei bambini. In realtà, anche nei Paesi occidentali,i protocolli sui diritti dei bambini, come quello ratificato nel 2000 da oltre 190Paesi, tra cui l’Italia, vengono spesso disattesi, abbassando la soglia di età a par-tire dalla quale i giovani possono intraprendere la carriera militare ed esseremandati in guerra. Sono morti oltre due milioni di bambini nel corso di questi anni per le guerre,che è una cifra enorme, ma è un problema di cui nessuno parla, è una pratica diassoluto sfruttamento minorile che ha una serie di conseguenze e ricadute gravianche dopo l’essere andati in guerra. Basti pensare al trauma psicologico chebambini e bambine si portano dietro per tutta la vita, derivante da episodi di vio-lenza, di sfruttamento, di assunzione di droghe, aggravato dal fatto che l’età deibambini soldato si sta abbassando notevolmente. Il libro inizia con una di dedica “a tutti coloro, credenti e non credenti, che sibattono per un mondo migliore, contro ogni forma di violenza”. È quello cheanche noi, come circolo culturale, cerchiamo di fare con l’insieme di iniziative

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Capitolo Primo

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messe in piedi nel corso degli anni. E subito dopo cita una frase di DesmondTuto, Premio Nobel per la Pace: “È immorale che gli adulti vogliano fare com-battere i bambini al loro posto, non ci sono scuse né motivi accettabili per arma-re i bambini”.Do ora la parola a Padre Giulio Albanese.

Padre Giulio AlbaneseVi ringrazio perché mi offrite la possibilità di parlare di temi che mi stanno vera-mente tanto a cuore. Mi viene in mente quella pellicola di Stanley Kramer “viviamo davvero in unpazzo pazzo pazzo mondo”, basta accendere la televisione, ascoltare la radio, sfo-gliare i giornali e ti viene voglia di gettare la spugna perché purtroppo ci sonodavvero ingiustizie, sopraffazioni, da mattina a sera e non solo sotto il cielo afri-cano ma anche a casa nostra, nella vecchia Europa. È importante coltivare questa voglia istintiva di conoscere, perché credo che siail primo modo per vivere la dimensione della solidarietà, io dico sempre chel’informazione è la prima forma di solidarietà. Non possiamo semplicemente versare lacrime di coccodrillo di fronte all’infanziaabbandonata e se non abbiamo il coraggio di coniugare la solidarietà con l’infor-mazione non facciamo altro che legittimare questo sistema iniquo, di cui siamonoi stessi parte, in quanto tutti impegnati si in associazioni e nella società civile,ma pur sempre consumatori. Non dobbiamo fare come gli struzzi che mettono la testa sotto la sabbia, qualcu-no vorrebbe che rinunciassimo al pensiero, alla riflessione, viviamo sotto unbombardamento mediatico da mattina a sera, ci costringono a vedere i realityshow, una delle cose più aberranti di questo mondo, fatti apposta per azzerare ilcervello della gente e poi uno va a votare ... ma non ci rendiamo conto che c’èqualcuno che vorrebbe che non riflettessimo, che non pensassimo, che nonuscissimo almeno idealmente fuori le mura del Belpaese. Noi viviamo in un mondo dove le informazioni schizzano via alla velocità dellaluce, ma poi non sappiamo niente di quello che succede non solo nel sud delmondo, ma neanche a casa nostra, perché, lo dico come missionario e come gior-nalista, oggi l’informazione è in crisi, siamo al capezzale di un malato che è insala di rianimazione e la prognosi non è stata sciolta. Sappiamo poco o niente e proprio per questo sono importanti questo tipo di ini-ziative che organizzate come circolo primomaggio.

Il tema dei bambini soldato è una delle tante tragedie dimenticate e lasciatevolutamente nel cassetto. In questi anni ho girato l’Africa in lungo e in largo, dameridione a settentrione, e di teatri di guerra ne ho visti davvero tanti.

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Ultimamente, soprattutto nell’Africa Sub Sahariana, abbiamo registrato unadiminuzione dei conflitti e questa è una buona notizia. Secondo la “Freedom House”, un’organizzazione non governativa che ogni annostila la classifica delle democrazie, nel 2005 ci sono state tre nuove democrazienel mondo e tutte africane, Liberia, Repubblica Centrafricana e Burundi. L’annoscorso è stato siglato l’accordo in Sudan, che ha messo fine ad una delle più lun-ghe guerre africane, con oltre due milioni di morti. La lista delle guerre dimenti-cate è davvero lunga, ma nei piani editoriali queste non rappresentano una prio-rità. In Africa ci sono ancora scenari aperti, in nord Uganda, nel Darfur, inSomalia, dove solo a Mogadiscio sono morte nei giorni scorsi 150 persone. Visono alcuni Paesi dove la tensione è alta, come la Costa d’Avorio e altri doveinvece il processo di pacificazione si sta consolidando. Ora in questi Paesi afri-cani ho incontrato tanti bambini soldato. I Paesi dove ho toccato con mano questa tragedia sono Sierra Leone e Uganda. Premetto che in Sierra Leone la guerra è finita 5 anni fa, ma in Uganda la guerracontinua dalla fine degli anni ’80. Il bilancio di vittime per l’Uganda è alto, siparla di circa 150 mila morti in un fazzoletto di terra che ha le dimensioni diPiemonte e Lombardia messe insieme, dal 1994 nel nord Uganda sono statisequestrati circa 25 mila bambini. Che cosa hanno in comune queste due guerre?In questi due Paesi ho incontrato formazioni di ribelli composte prevalente-mente da bambini, circa il 98% delle reclute erano minori. In Sierra Leone ibambini erano all’interno di un gruppo ribelle denominato RUF (fronte unitorivoluzionario), ma anche all’interno di formazioni minori, anche di tipo filo-governativo. In Uganda il gruppo che più si è nutrito di bambini è l’Esercito di resistenza delSignore. Le tecniche di reclutamento sono le stesse: i bambini vengono seque-strati nei villaggi, assistono all’uccisione dei loro genitori e dei loro parenti evengono catturati e sottoposti ad un vero e proprio indottrinamento. I bambini vengono anche drogati, con jamba, una droga locale, e con cocaina; gliviene fatto bere latte e polvere da sparo, per innescare meccanismi di suggestio-ne e diventano delle feroci macchine belliche. Nel caso dell’Esercito di resistenza del Signore i bambini combattono sotto l’effet-to di un’ipnosi collettiva, cosa che ho visto personalmente essendo anche statosequestrato con alcuni miei colleghi. Quando parli con loro ti sembrano degliautomi e ti fanno davvero paura perché ti rendi conto che sono imprevedibili,che potrebbero tirare fuori la loro pistola, spesso Beretta e spararti. Quante armiitaliane finiscono da quelle parti!

Ricordo che la prima volta che incontrai i ribelli del RUF, il 12 marzo del ’99, lo

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feci insieme ad un bravissimo vescovo, missionario Mons. Giorgio Biguzzi, e uncollega giornalista della Rai, Silvestro Montanaro. Riprendemmo delle immaginidavvero ad effetto che qualche mese dopo andarono in onda nella trasmissionedi Rai Tre “C’era una volta”, uno di quei documentari che inizialmente andavain onda in prima serata e poi adesso è finito in quarta!Quando incontrammo i ribelli del RUF ricordo che uscirono fuori dall’erbaimprovvisamente e ci ritrovammo circondati in un batter d’occhio da centinaia dibambini armati. Eravamo spaventati, ci accompagnava un generale indiano delleNazioni Unite, il quale ci tranquillizzò e ci disse di provare a dialogare con loro.Alla fine vennero fuori quattro o cinque capi, tra cui uno dei leader storici delmovimento, un certo Mosquito. Ricordo che mi si avvicinò un ragazzo con i capelli alla Bob Marley, mi puntò ilfucile in pancia e mi chiese dei soldi, era ricoperto di bombe a mano, di granateche sembrava un albero di Natale. Gli chiesi come si chiamava, mi rispose conun nome che nella lingua locale significava “io ammazzo senza spargere san-gue”, gli risposi: piacere Padre Giulio! Non sapevo che dirgli. Poi mi accorsi cheaveva appeso al collo una grande croce d’oro, di quelle che portano i Vescovi einfatti l’aveva fregata all’arcivescovo di Freetown Mons. Ganda. Gli chiesi direstituirla al vescovo ma lui mi rispose che non poteva perché era un amuletoche lo difendeva dalle pallottole. Nel momento di salutarmi mi disse: “senti, te lo posso chiedere un regalo? Potreivenire con te? Mi piacerebbe tanto tornare a scuola!” Una battuta che mi fececapire che per quanto gli adulti fossero scellerati, questa umanità e questa vogliadi vivere era rimasta come una fiammella che continuava ad ardere e per me fuun messaggio di speranza.

I bambini vengono arruolati essenzialmente per tre motivi.La prima ragione è perché sono ubbidienti, puoi manipolarli, sottoporli al lavag-gio del cervello. La seconda ragione è che non costano niente, basta dar loro unamanciata di riso e si accontentano, ma la terza ragione è che gli adulti la guerranon la vogliono fare. La stragrande maggioranza delle popolazioni che abitano inquelle che noi solitamente consideriamo zone di conflitto non condividono asso-lutamente i progetti politici violenti, demenziali dei cosiddetti war lords, deisignori della guerra. Non è solo la società civile ma proprio la gente semplice anon volerne sapere di soluzioni violente. Una delle ragioni di questa mia inchiesta è proprio qui, mi sono chiesto tantevolte come mai i bambini vengono utilizzati, che cosa c’è dietro, quali logicheperverse?Una delle ragioni risiede nelle immense risorse minerarie, ci sono dei Paesi,come l’Uganda, che sono miniere a cielo aperto. In Congo, in circa 5 anni, sono

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morte almeno tre milioni e mezzo di persone. Avete mai sentito niente sui nostritelegiornali?Lì si combatte perché ci sono oro, diamanti, rutilio, il materiale che serve per inostri telefonini. Per non parlare del niobio, il miglior super conduttore almondo, un grammo costa 17 $, cioè al chilo 17 mila $, più del platino, serveanche per assemblare i satelliti. Di giacimenti di niobio ce ne sono due, uno inPerù e l’altro nel Congo. I signori della guerra fanno nascere questi movimentiribelli e con l’aiuto dei mercenari si mettono in contatto con le principali compa-gnie di sfruttamento di queste risorse. Tra i mercenari troviamo anche molti ita-liani, ex componenti dell’esercito, che reclutano i bambini. Il business condizio-na la realtà di questo continente.Non si tratta, come qualcuno mi dice, di essere afro-pessimista, ma io credo chedobbiamo essere afro-realisti, perché è importante che venga infranta quella cor-tina di omertà che ci impedisce un confronto con quelle che sono le reali proble-matiche di questo continente. Come fa l’Africa a sbarcare il lunario? C’è l’economia informale, vi sono moltistudi fatti da autorevoli economisti, penso soprattutto ad Albert Tevoedjiré, unodei più grandi intellettuali dell’Africa post coloniale, che ha scritto un libromolto bello negli anni ’70 La povertà ricchezza dei popoli, un libro pubblicato inItalia dall’EMI, l’editrice missionaria italiana, che vi inviterei a rileggere. Se fos-simo stati alle previsioni del Fondo Monetario Internazionale e della BancaMondiale l’Africa sarebbe dovuta sparire, completamente, invece l’Africa c’èancora ed ha grandi ricchezze, soprattutto i popoli che la abitano, persone chehanno tradizioni molto forti e culture distanti dalle nostre, che noi occidentalifacciamo fatica a decifrare. D’altro canto il nostro approccio è ancora infarcito di colonialismo; noi conti-nuiamo a parlare delle lingue africane come di dialetti, ma il luganda è parlatoda 7 milioni di ugandesi, è un dialetto? Quando ho provato a studiarlo mi sonoaccorto che c’erano cinque coniugazioni e sette declinazioni .. ma di esempipotremmo portarne altri. Pensate alla terminologia che noi solitamente utilizzia-mo quando parliamo dei gruppi etnici africani, sono tribù .. perché i Bagandache sono 7 milioni sono una tribù e gli svizzeri che sono 3 milioni e mezzo sonoun popolo, una nazione. Ma ci rendiamo conto?Dopotutto il Congresso di Berlino è una nostra invenzione, siamo stati noi atagliare a fette l’Africa, allora una sana autocritica non credo che guasti! Dobbiamo proporre un approccio un po’ diverso .. c’è un altro libro che ho scrittoalcuni anni fa Il mondo capovolto, ecco io credo dovremmo avere questo tipo diapproccio, perché che se ne dica le nostre categorie di riferimento sono quelleche abbiamo imparato sui banchi di scuola! Prima di entrare nella mia congregazione ero ufficiale di marina, sono stato in

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accademia, poi uno dei personaggi che è venuto qui a trovarvi qualche tempo fa.. un certo Alex (si riferisce a Padre Alex Zanotelli) mi ha incastrato nel nomedel Buon Dio, a me e alla mia compagna che è finita nelle suore di Madre Teresadi Calcutta! Il mondo capovolto significa davvero tentare di stravolgere il nostro approcciopaternalista! Io porto sempre l’esempio della cartina di Peters, uno storico che ci ha permessodi andare al di là della mappa tradizionale che noi continuiamo ad utilizzarenelle nostre scuole appesa al muro che è la proiezione di Mercatore. La carta diPeters è ortomorfica, cioè deforma i continenti ma mantiene il rapporto di super-ficie tra i continenti e ci aiuta a capire il vero rapporto che c’è tra la superficiedell’Africa e quella dell’Europa! E ci accorgiamo di quanto l’Africa sia enorme! Prendendo l’aereo a Lisbona per Maputo, la capitale del Mozambico, il pilota,che era anche mio amico, mi disse che avevamo più di 11 ore di volo … se guar-diamo la cartina di Mercatore non ci possiamo rendere conto che la distanza traLisbona e Maputo è uguale alla distanza che c’è tra Lisbona e Tokio! Tutto questo significa che il nostro approccio è etno-centrico, le nostre coordina-te sono etno-centriche, non solo per l’Africa … spesso parliamo di estremooriente, ma voi andate da un giapponese a dirgli: tu sei dell’estremo oriente …ma quello ti guarda e ti dice: sarai tu in estremo occidente!! Questo modo diragionare fa si che noi siamo sempre al centro! Quando poi vai in Africa, nel Suddel mondo, ti rendi conto che noi non siamo al centro, e lo dico senza voler smi-nuire i nostri valori, quelli di un Paese che ha dato molto all’umanità, ma in cuinon c’è sufficiente conoscenza delle diverse realtà. Quando parliamo di una guerra in Africa, spesso si dice che c’è una guerra asfondo etnico, ma la guerra tra hutu e tutsi, il genocidio del Ruanda, non la pos-siamo definire in questo modo perché parliamo di popoli che hanno la stessa lin-gua da tanti secoli … allora si capisce che c’è stata una manipolazione da partedelle potenze coloniali, prima tedeschi e poi belgi e che le cose non stanno pro-prio così come ce le raccontano! Purtroppo oggi l’approccio tende sempre allabanalizzazione e questo certamente non giova. Allora voi direte: che cosa dobbiamo fare? Due cose importanti: l’informazione, con l’impegno di documentarci di più, datoche oggi abbiamo anche molti strumenti a disposizione. Ci sono delle rivistecome Internazionale che è una bella rassegna su ciò che la stampa straniera dicedel mondo e anche dell’Italia, una finestra aperta sul mondo, e poi c’è Limes etestate come Liberazione, Il Manifesto, Avvenire, l’Osservatore Romano che con-siderano ancora la pagina esteri rilevante! Quella dell’Osservatore Romano è unadelle pagine estere fatte meglio, in cui trovate notizie che assolutamente non tro-vate su nessun altro quotidiano. Quindi se uno cerca, se ha voglia di conoscere, i

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mezzi ci sono. L’importante che ci sia questo desiderio, dico questo perché inItalia si legge poco o niente, è inutile che parliamo dei bambini-soldato,dell’AIDS, della lotta alla povertà … sapete in Italia qual’è il giornale più letto?La Gazzetta dello Sport edizione del lunedì e il settimanale più letto è TV Sorrisie Canzoni. Ora io dico non è peccato mortale leggere questa roba, ma se unolegge solo questo ... ecco questi sono i peccati che andrebbero confessati ad altavoce, che per me sono più orribili di tanti altri peccatucci che snoccioliamo …per chi si confessa naturalmente!L’informazione accanto ad un discorso di educazione alla mondialità, per capiree comprendere che il mondo è più grande del nostro piccolo paese e della nostrastessa vecchia Europa, capire che viviamo in un villaggio globale e che dobbia-mo fare i conti anche con la contaminazione. Spesso ci poniamo in un atteggiamento difensivo di fronte a tante altre culture,ma è inevitabile che ci sia contaminazione e l’incontro può diventare scontro,certo, ma uno deve accettare la sfida! Ecco perché è importante promuovere incontri, dibattiti, conoscenze, perchéquesto ci aiuta a capire e comprendere il comune denominatore di tante questio-ni di cui avremmo potuto parlare, la desertificazione, l’urbanizzazione in Africa,la lotta all’AIDS, ecc., che è l’ingiustizia, e nessuno di noi può dire io non c’en-tro! Nell’ipotesi che in questo momento avessi una bacchetta magica e con una sortadi incantesimo sollevassi il tenore di vita delle popolazioni dell’Africa Sub-Sahariana portandolo ai nostri stessi livelli europei, sapete che cosa succedereb-be nel mondo? Non ci sarebbe più ossigeno, non ci sarebbe più acqua, non cisarebbero più foreste … la verità è che noi consumiamo troppo, bruciamo tropposenza rendercene conto. Allora io credo che sia importante anche mettere in discussione il nostro modusvivendi, i propri stili di vita.

Luigino CiottiCi diceva il nostro comune amico Touadì che abbiamo fatto venire qui a parlaredell’Africa dimenticata a gennaio dello scorso anno, che domani è a Udine a pre-sentare la rivista Limes che è tutta dedicata all’Africa e che vi invito a compera-re per approfondire questo discorso e vi ricordo che il prossimo anno, a gennaio2007, ci sarà il prossimo Forum Sociale Mondiale a Nairobi in Kenia dal 20 al25 gennaio e che il Coordinamento Nazionale Enti Locali per la Pace e la Tavoladella Pace stanno cercando di organizzare la delegazione italiana. Credo che siaun’esperienza utile per conoscere di più l’Africa sia per parlare dei problemi piùcomplessivi che la riguardano. Padre Giulio non ha parlato solo dei bambini sol-dato, è andato ben oltre … per questo vi invito a fare delle domande.

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Robert De GraafNel 1989/90, non mi ricordo esattamente, sono andato in Africa per la primavolta, in Sierra Leone. Andai a fare un’indagine per Amnesty International sullostato dei diritti umani e mi ricordo che erano i giorni in cui fu liberato Mandela,c’era una grande festa e tutti parlavano di diritti umani proprio per il fatto cheera stato liberato il grande Nelson Mandela e niente faceva presagire che lì apoco tutto sarebbe cambiato. Io mi sono chiesto tante volte che cosa è successoin un Paese che stava imboccando la strada dell’abolizione della tortura, dellapena di morte, che aveva commissioni parlamentari per indagare sulla corruzio-ne, che sembrava la Svizzera dell’Africa, che era un paese ricco ... cinque annidopo era tutto finito! Io mi sono chiesto ma come è potuto succedere? Non erapossibile capire che sotto queste belle notizie c’era qualcosa che covava?

Padre Giulio AlbanesePurtroppo guardando soprattutto all’Africa tante volte noi sottovalutiamo quelloche ha rappresentato per questo continente il crollo del muro di Berlino. È unaspetto che viene solitamente sottaciuto. L’Africa ha sofferto sotto la guerra fred-da, era divisa ... ma con il crollo del muro questo continente è diventato davveroterra di conquista! La cosa incredibile è che sono saltate le alleanze, se prima ilgoverno di Maputo era sotto l’influenza di quella che chiamiamo l’ex UnioneSovietica e il Kenia sotto quella statunitense, saltando tutti questi meccanismioggi succede che un paese come l’Angola, dove vi era una tradizione marxista-leninista, oggi sono i più grandi alleati degli Stati Uniti! Purtroppo gli appetiticon la fine della guerra fredda in Africa sono cresciuti. Basta pensare al business dei diamanti e del rutilio! La Sierra Leone è stata,come altri Paesi dell’Africa occidentale, soprattutto vittima della massoneria. C’èun tema di cui non si parla mai per il Sud del mondo, quello della massoneria!Voi non potete immaginare i drammi e le tragedie che ha fatto la massoneria inAfrica, noi parliamo della P2, ma in Africa altro che P2! In Sierra Leone ci sono tre massonerie: la prima è quella degli ex schiavi, quelliche erano stati portati in catena negli Stati Uniti e poi ritornati in Africa, nella“terra dei liberi”, Freetown, che in America avevano conosciuto tante cose tracui la massoneria (che è uno degli elementi fondanti degli Stati Uniti, c’è scrittopure sul dollaro, c’è la piramide … Franklin era massone, Jefferson era masso-ne, Bush? Potrei raccontarvi molto su Bush, voi sapete chi è stato il più grossofinanziatore di Adolf Hitler durante la seconda guerra mondiale? Il papà di JohnKennedy e il nonno di J.W. Bush, è tutta roba che è stata pubblicata! Ma chiu-diamo qui!). La tragedia è che i massoni, i crio, rientrati in patria hanno creato itempli massonici, se andate a Freetown, a Monrovia, trovate i templi massonici.Poi c’è la massoneria autoctona, le società segrete che però sono entrate in siner-

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gia con la massoneria crio, e poi c’è la massoneria occidentale, quella inglese,quella italiana, quella francese, che naturalmente era legata al traffico di armi edi diamanti. Tutte queste triangolazioni hanno fatto si che si determinasse unalobby trasversale, da una parte c’erano i governativi e dall’altra i ribelli, ma lamassoneria era trasversale a tutte e due queste componenti. Io nel libro lo accen-no, perché c’è la testimonianza di un signore che ho intervistato, una bravissimapersona che ha sofferto molto nei campi profughi e che è stato il primo a rivelar-mi questi retroscena, questi sono argomenti che andrebbero approfonditi e inve-ce non se n’è mai parlato.La responsabilità del Regno Unito, dei francesi, degli americani e della comu-nità internazionale in Sierra Leone, ma anche in Liberia, sono indicibili.Noi abbiamo parlato di diamanti, per la Liberia dovremmo parlare delle traversi-ne. Avete mai sentito parlare delle traversine? Voi sapete che in Italia c’è tantolegname della Liberia? I nostri treni passano su quelle traversine di legno, legnoproveniente dalla Liberia, che viene importato, se non vado errato, ancora oggidal Console liberiano che credo sia italiano che sta a Genova, c’è tutto un busi-ness, ci sono tanti intrecci, perché c’è tanto da rubare, da rapinare! E dico davvero l’Africa è sottoposta ad una grande rapina, le materie prime sonopagate quattro soldi. Prima vi accennavo la questione del niobio, ma voi sapetequanto danno a quel poveraccio che sta lì nella miniera a cielo aperto a scavare?Nella migliore delle ipotesi sono tre euro a settimana, quindi meno di un euro algiorno! Poi noi parliamo di derrate alimentari, aiuti, campagne! La disinforma-zione regna suprema, ci sono tante questioni che dovremmo affrontare quando siparla di Africa. C’è la questione della cancellazione del debito estero, che è unaspada di Damocle sulla testa di questi paesi. Ci sono paesi africani, come ilMozambico, la Nigeria, che il debito l’hanno già restituito tre, quattro, cinquevolte! Ma siccome il meccanismo è iniquo, questi devono continuare sempre ecomunque a pagare. Anche qui la disinformazione regna suprema. Ricordereteche l’anno scorso sui giornali era uscita la notizia a titoloni “cancellato il debitodell’Africa”. Questa era la decisione presa dai grandi della Terra in Scozia: unaballa macroscopica perché questi hanno cancellato a una quota di 16 paesi, dicui 12 africani, il debito contratto con alcune istituzioni multilaterali che sonoFondo Monetario Internazionale, Banca mondiale e Banca Africana delloSviluppo, che è quello più insignificante! Il vero debito che pesa come unaspada di Damocle su tutta l’economia africana è quello con gli istituti finanziariprivati, con le banche, gente che andrebbe giudicata da un tribunale penaleinternazionale. Io mi chiedo con che faccia andiamo a parlare di esportare lademocrazia se poi permettiamo che vi sia questo scempio? E qui non si tratta diessere cattocomunista o cattoamericani, ma di avere buonsenso. Parlavo recente-mente con un mio caro amico algerino, che lavora al Ministero degli Esteri di

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Algeri il quale mi diceva che in questi tre o quattro anni hanno fatto una politicadi austerity, decidendo di accelerare le procedure di restituzione del debito. DaWashington hanno subito risposto “slow down”, riduci la velocità, dovete rispet-tare la tabella di marcia! Altrimenti non aumentano gli interessi! E poi parliamodi democrazia! Ma ci rendiamo conto di quanto siamo dementi!Ora è chiaro che la questione del debito estero è solo uno dei problemi che assil-lano l’Africa. Un altro è la mancanza delle regole, non è la globalizzazione, ma la deregulation!Questo è un mondo senza regole, o meglio le regole ci sono, ma come dicevaGiolitti “le leggi si applicano con i nemici, si interpretano con gli amici”. È quel-lo che fa Bush, la legge la imponi con i nemici e poi con gli amici la interpreti,stranamente il Pakistan che ha la bomba atomica non crea problemi!Una deregulation anche di tipo economico: il protezionismo fa disastri in Africa,i contadini africani non riescono a vendere i loro prodotti sui nostri mercati …anche se non possiamo mettere tutti i Paesi sullo stesso piano. La Francia, perquanto riguarda il protezionismo è la prima della classe! Ma questo discorso ciporterebbe molto molto lontano!L’Africa per essere aiutata ha bisogno di regole, di un ordinamento che siarispettoso dell’economie dei singoli stati.

Un bambino dal pubblico chiede a Padre Albanese perché non aveva por-tato via con lui quel bambino soldato che aveva incontrato …Grazie per questa domanda! L’ho incontrato nuovamente a Freetown un anno emezzo fa. Io non l’ho portato con me perché quando l’ho incontrato c’era ancora la guerra efigurati se il suo comandante me l’avrebbe regalato! Nessuno dei combattentipoteva in quel momento lasciare il movimento del RUF. Ma il destinato ha volu-to che a Freetown ricontrassi sia “kimansinobla”, che adesso fa l’autista e si èsalvato anche se non è riuscito a tornare a scuola perché la sua era una famigliaveramente povera, il padre fu ucciso, la madre era sola ecc..., ma anche“Caporal aiwei”, che ha una storia davvero toccante.Questo bamboccetto era riuscito a scappare dai ribelli e si era consegnato alletruppe dell’ECOMOG, della forza di interposizione dei paesi dell’AfricaOccidentale, composta prevalentemente da soldati nigeriani. Io cominciai aintervistarlo e aveva tutte le braccia coperte di tatuaggi, erano tante crocette …gli chiesi che cosa significavano e lui mi disse che erano tutti i soldati che avevaucciso! L’ho rivisto a Freetown in un centro gestito dai salesiani, ha iniziato l’uni-versità, non ha un computer ma a Freetown ha trovato un internet caffè ed ha unindirizzo di posta elettronica tramite il quale ci sentiamo ogni settimana ed èinteressante il fatto che sia riuscito a superare positivamente le sue precedenti

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esperienze ma è anche stato molto fortunato perché ha avuto la possibilità di tor-nare a scuola. Il grande problema è che la maggior parte dei ragazzi, terminata la guerra, vor-rebbe tornare a scuola, ma il fatto che siano stati firmati accordi di pace nonsignifica che sia scoppiata la pace. La Sierra Leone fino all’anno scorso era ilfanalino di coda nella classifica dei Paesi UNDP da punto di vista dello sviluppoe quindi capite che i ragazzi fanno fatica a sbarcare il lunario e se non trovanoun lavoro vengono risucchiati dalla malavita organizzata e le ragazze sonocostrette a prostituirsi … perché è l’unico modo per mangiare un boccone!Il fatto che sia finita la guerra non significa che sia scoppiata la pace. Lo stesso vale per l’Angola, un paese meraviglioso, che ha sofferto pene indicibi-li con la guerra civile combattuta prima per i diamanti e poi quando ci si è resiconto che il business dei diamanti non rendeva più allora si è fatta la pace.L’Angola è stato uno dei primi paesi africani in cui si è combattuto volutamenteper il controllo dei giacimenti di diamanti, poi quando ci si è resi conto che c’eraun altro business molto più conveniente che era quello del petrolio, allora si èfatta la pace, perché politicamente in quel momento serviva la pace, per poteravviare i lavori di sfruttamento di questo immenso bacino petrolifero. Nel 2002si sono resi conto che il bacino petrolifero dell’Angola è tre-quattro volte quelloche era stato stimato nell’1989. Tra l’altro il petrolio che c’è in Angola è tutto diqualità light, a basso tenore di zolfo, cioè adatto alla produzione della nostrabenzina ecologica. In Angola sembra che sia scoppiata la pace perché ormai daquattro/cinque anni non c’è più questa guerra tra il governo di Luanda el’UNITA di Savimbi, però la guerra continua perché la gente continua a saltaresulle mine ... è il paese in Africa con il più alto numero di mine antiuomo semi-nate sottoterra, 14 milioni di mine antiuomo su una popolazione di 10 milioni emezzo di persone. Ogni giorno saltano come birilli un centinaio di persone e nes-suno dice niente. Noi avevamo il primato con la Valsella di Castenedolo, lo dicoperché me le portavano in missione queste ciambelle! Per fortuna devo dire chenon le facciamo più, la FIAT aveva tentato di trasferire questo business aSingapore, ma visto che anche Singapore ha aderito al Trattato di Ottawa, non sifanno più. Però ce ne sono ancora molte in circolazione in Africa!

DonnaLei ha individuato nella mancanza di informazione una grave carenza e nonpensa che la Chiesa debba fare questa informazione, debba modificare la scaladei peccati e uscire fuori dalla cosiddetta “carità pelosa”?

Padre Giulio Albanese Sicuramente la carità pelosa è presente anche nelle Chiese cristiane. Da un

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punto di vista evangelico le dico che dobbiamo convertirci tutti al nostro SignoreGesù Cristo. La verità qual è? È che all’interno della Chiesa vi sono varie componenti, stoparlando in particolare dell’Africa Subsahariana, anzi vi sono sostanzialmentedue filoni: uno molto tradizionale che ha un approccio paternalistico, ed è quellopiù diffuso, ma ce n’è uno più impegnato sulla formazione della società civile,parliamo di piccoli gruppi, che svolgono un ruolo innovativo ma che non è statoancora sufficientemente recepito. Purtroppo succede che quando ti presenti allagente come benefattore, nel momento in cui tu inneschi questo meccanismo cul-turale, tentare di cambiare approccio diventa molto difficile, non so se riesco aspiegarmi, noi abbiamo una grande responsabilità che è quella di aver fomentatola dipendenza innescando questi meccanismi psicologici che genera una vera epropria schiavitù culturale a tutti gli effetti.Per quanto riguarda la nostra Chiesa, italiana ed europea, io ho la sensazioneche siamo molto distanti ancora, ci manca una vera coscienza di cooperazionemissionaria, noi intendiamo il rapporto con le Chiese sorelle sempre secondo lalogica del ricco epulone, mandare missionari, mandare offerte, non siamo suffi-cientemente liberi per porci in un atteggiamento diverso. L’Africa ci può anchedare molto, la missione non è solo dare, ma anche ricevere! Siamo ancora in altomare da questo punto di vista! Ci manca, lo ripeto, l’educazione alla mondialità. Qui non si tratta solo di fare la denuncia, non si tratta semplicemente di esserepicconatori, ma anche di essere propositivi, un approccio diverso, perché non cisi può limitare alla denuncia. Cioè io vedo anche nel mondo missionario unagrande ingenuità. Quando tu presenti la questione della globalizzazione e poidici che l’antidoto è il commercio equo e solidale, facciamo ridere i polli!. Anche io credo nel commercio equo, anche per finalità educative, ma io nonposso pensare che l’economia mondiale si regga sul commercio equo e solidale,altrimenti sono davvero un imbecille! A mio avviso sarebbe necessaria a livellodi società civile, di Chiese, una riflessione non solo sociale, economica, maanche teologica sull’economia, e da questo punto di vista siamo ancora in altomare. Vi erano stati dei momenti, negli anni ’80, in cui sembrava che questo tipodi riflessione si stesse avviando, subito dopo la pubblicazione di un’enciclicache a me piacque tanto, di Giovanni Paolo II “Sollicitudo Rei Socialis” che devodire, prima ancora che crollasse il muro, aveva prefigurato il rapporto nord-sud,però poi siamo stati risucchiati dal sistema.

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Parte Seconda

ncontro con Padre Renato “Kizito”Sesana

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Renato “Kizito” Sesana, mis-sionario comboniano, da oltrevent’anni è in Africa – tra Sudan,Zambia e Kenya, dove attualmen-te vive – portando avanti unaserie di progetti di cooperazione esviluppo attraverso le due comu-nità (ora anche ONG) di “Koino-nia” e di “Amani” di cui è fonda-tore e animatore. È anche prolifi-co pubblicista, collaborando convarie testate italiane e internazio-nali. È stato direttore di “Nigri-zia”, fondatore di “New People” edi “Radio Waumini”, emittentecattolica promossa dalla Confe-renza Episcopale kenyana. È sta-to l’ispiratore della prima agenziagiornalistica in Africa gestitacompletamente da africani, “Newsfrom Africa”.

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Bastia Umbra 6/05/2005

Nota: In queste pagine è riportata la trascrizione dell’incontro con Padre KizitoSesana e Gianmarco Elia. Il testo scritto ha subito leggere modificazioni rispettoa quello che è stato effettivamente detto solo da un punto di vista della sintassi edell’ortografia delle frasi, ma non dal punto di vista contenutistico. Purtroppodalla sbobinatura che è stata fatta, non è stato possibile estrarre l’introduzioneiniziale di Luigino Ciotti e parte della risposta di Padre Kizito Sesana relativa-mente alla sua esperienza da Cristiano, nella parte finale del testo.

Padre Kizito SesanaBuonasera, grazie per avermi invitato qui con voi. Cercherò di fare un interven-to abbastanza breve così da dare spazio alle vostre domande e poi rispondere inmodo da essere sicuro da toccare le cose che a voi interessano. Direi che l’e-sperienza che si racconta in questo libro nasce, come tutte le altre mie espe-rienze in Africa, dal fatto di essermi lasciato condurre un po’ dagli Africani. Ioho cominciato a viaggiare in Africa nel ’71, quando ho cominciato a lavorare aNigrizia, e poi mi ci sono stabilito, sostanzialmente dal ’77, prima in Zambia epoi dall’88 a Nairobi. Per mia attitudine personale e anche perché mi sembraval’atteggiamento giusto da tenere, fin dall’inizio ho cercato di fare silenzio,osservare molto, ascoltare moltissimo, lasciare che fossero gli Africani a dirmicosa si aspettavano da me piuttosto che prendere l’iniziativa. Questo mi ha por-tato a fare riflessione e a scoprire diverse cose, per esempio che gli Africani siaspettavano da me informazione e formazione, si aspettavano che li aiutassi acrescere come persone umane, che li aiutassi a guardare aldilà del loro mondo;gli Africani si aspettavano da me quindi un’introduzione a saper leggere larealtà del mondo di oggi, il mondo in cui vivevamo in quel momento e riflettereinsieme lasciando spazio anche alla loro libertà e alla loro creatività. Da allorami sono sempre lasciato un po’ condurre da loro, nel senso che le iniziative chefacciamo qui, sono tutte nate o direttamente dagli Africani o come risposta arichieste che venivano da loro. Non abbiamo mai fatto progetti pensati qui eportati giù, ma neanche io ho pensato progetti per la gente in mezzo alla qualevivevo. Ho lasciato che fossero loro a interpellarmi e poi insieme abbiamo rea-gito di fronte alla realtà che avevamo intorno. Così sono nati i progetti per ibambini di strada, sono nate le comunità che cercano di fare un servizio allagente che hanno intorno. Così sono nate anche le cose più banali e più sempli-ci, le attività sportive per i giovani che cerchiamo di organizzare nel nostroquartiere. Così è nata la scuola di computer, le diverse attività di impegno; cosìsono nate per esempio anche le attività di microcredito perché sono staterichieste che ci sono venute dalla gente. In questo modo ci siamo trovati coin-

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Capitolo Primo

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volti in centri per bambini di strada, adesso ne abbiamo uno a Lusaka e tre aNairobi dove facciamo accoglienza per i bambini che sono nelle situazioni piùdisperate e tutto un lavoro di crescita umana a quelli che ai bambini sono col-legati; perché i bambini hanno delle mamme, hanno una qualche forma difamiglia che sopravvive alle spalle, hanno dei fratelli maggiori, delle sorellemaggiori e adagio adagio, attraverso i bambini, cerchiamo di raggiungere tuttele persone che in qualche modo ci pongono delle richieste, ci interpellano perfare degli interventi. Ma sempre insieme agli Africani, sempre con loro, semprecon la loro comunità. Nella realtà in cui vivo io, abitualmente sono l’unico nonAfricano.

Così è stato anche con i Nuba. Quando sono arrivato in Kenya nell’88, il movi-mento di liberazione di allora faceva prigionieri missionari (ho avuto alcuni deimiei confratelli che sono stati prigionieri, anche se nessuno è stato in nessunmodo né ferito né ucciso). Era una situazione di grande difficoltà, quindi sonostato portato ad interessarmi e poi mi è stato richiesto ad un certo punto di fareda intermediario in alcune situazioni difficili: mi sono allora prestato ad andarein Sudan dove non era ancora rientrato nessuno dei missionari dopo l’espulsio-ne nel 1964 e poi le difficoltà del 1983. Allora un giorno, come racconto nellibro, viene nella casa della mia comunità a Nairobi, bussa alla porta un signo-re di poco più di 40 anni e mi dice: «Io sono Yusuf Kuwa, sono il leader deiNuba e sono venuto a chiederti se vieni a visitarci perché ho sentito che tu vaiin posti difficili, in posti dove magari gli altri missionari non intervengono e setu vuoi io ti invito a venire in mezzo a noi. Ci sono delle comunità cristiane, cisono dei Cattolici che hanno bisogno di aiuto». E lì è incominciato il mio coin-volgimento con i Nuba ed è cominciato qua anche il coinvolgimento di GianMarco e di Amani. Da notare Yusuf Kuwa (purtroppo è morto nel 2001 di can-cro) era mussulmano ed è venuto a chiedere il mio intervento, a chiedermi diandare ad aiutare i Cristiani che vivevano nelle aree controllate dal movimentodi liberazione. Non è stato facile perché le montagne in cui vivono i Nuba (inrealtà sono delle colline più che delle montagne che arrivano fino ai 1500-1800 metri d’altezza partendo da una pianura che è a circa, mediamente, a 400m a livello del mare) sono posti isolati, con due grandissimi ostacoli naturali: asud ci sono le paludi e il Nilo da attraversare, a nord c’è il deserto. I Nuba sem-bra che siano arrivati lì venendo da diverse parti dell’Africa, questo spiega per-ché ci siano tante lingue: la popolazione è di circa 2 milioni di abitanti e parla-no tante lingue diverse perché sembra che abbiano tante origini diverse.Questo è rimasto per secoli un pezzo incontaminato d’Africa, dove gli Inglesiavevano proibito ai missionari di operare, avevano tenuto questa zona ancheavvalendosi delle difficoltà geografiche di accedervi come una specie di zoo

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umano, cui non si poteva entrare. I Nuba furono fatti conoscere al mondo dadue grandi fotografi. Rogers, un inglese che alla fine degli anni ’40 aveva ripor-tato da una visita sui monti Nuba delle splendide fotografie; e poi dalla famosafotografa tedesca, che è morta l’anno scorso e che aveva oltre 100 anni, LeniRiefenstahl e che negli anni ’70 ne aveva fatto delle splendide fotografie acolori.

Quando a me è venuto questo invito, non è parso vero di poter andare a vederequesta gente di cui avevo letto, avevo studiato. Allora ci siamo organizzati,come dicevo non è stato facile. La prima volta dovevamo entrare io, Gianmarcoe altri due o tre amici e ci hanno informato che non si poteva andare perchéc’era in corso una battaglia nel posto in cui avremmo dovuto atterrare. Un par-ticolare da notare: stiamo parlando del Sudan che è un paese di 2 milione emezzo di km2, quindi è più grande dei 15 paesi della Comunità Europea, novevolte l’Italia. Quando parliamo dei Nuba parliamo di una zona che è grandecome l’Austria con 2 milioni di persone. Andarci da Nairobi significa fare 1000km per raggiungere il confine con il Sudan e poi fare 1200 km per arrivare nelcentro del paese. Quindi ci sono difficoltà notevoli da superare, in un paese inguerra, in un posto che il governo aveva dichiarato off-limits, non si potevaaccedere, era proibito agli stranieri accedere, non volevano che nessuno vedes-se quello che stava succedendo. Quindi si era lì illegalmente. La seconda voltache abbiamo tentato di entrare, l’ho fatto con un dottore italiano, il dottor Meodi una piccola ONG di Torino, il CCM, era il maggio del ’95: il dottor Meo èandato dentro prima, in una zona più sicura, è stato lì per una settimana. Iodovevo raggiungerlo con un aereo e dovevamo procedere insieme per i MontiNuba. Invece quando sono arrivato dove lui era, ho scoperto che era stato fattoprigioniero dai governativi mezz’ora prima e poi era stato portato a Karthoum(forse qualcuno di voi se la ricorda la storia) ed è stato per cinquanta giorni pri-gioniero del governo mentre il nostro ministero degli esteri tentava di interveni-re per ottenere il rilascio: poi è stato rilasciato per l’intervento del ministero.

Finalmente siamo entrati nell’agosto del ’95 e abbiamo trovato questa realtà dalpunto di vista umano e cristiano veramente straordinaria: prima di tutto la mag-gioranza dei Nuba, Mussulmani, che conviveva con una minoranza di Cristianie di Cattolici senza nessun problema di convivenza tra di loro. Anche se ilgoverno cercava di imporre la sharia, la legge islamica, la religione islamica, lalingua araba su tutti, però non ci sono riusciti perché tutti si sono rifiutati all’i-dea che Dio fosse di parte. Un grande rispetto per tutti, un grande rispetto pertutte le religione, veramente una grande lezione di civiltà. In un posto dove ungoverno stava cercando di usare la religione per dividere, questa gente poteva

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convivere tranquillamente avendo per esempio nella stessa famiglia i genitorimussulmani, due figli cristiani, due figli delle religioni tradizionali, altri due otre figli che seguivano l’Islam. Questo senza che costituisse un problema pernessuno. Una grande lezione veramente, in un mondo dove si cerca di farediventare Dio un Dio di parte e le religioni vengono usate per dividere più cheper unire. E poi come comunità cattolica abbiamo trovato i pochi Cattolicirimasti, dopo dieci anni che non vedevano un prete, in una situazione di perse-cuzione da parte del governo, che avevano fatto miracoli, avevano creato altrecomunità, avevano continuato ad espandersi e avevano fatto un lavoro inprofondità anche di crescita per le persone umane in genere. In questa realtà,così come poi è descritta nel libro, con l’evoluzione che c’è stata in questi diecianni, dal ’95 a oggi, abbiamo visto, all’inizio, un vero e proprio tentativo digenocidio, da parte del governo di Karthoum, di eliminare il popolo Nuba. Adun certo punto il governo, quando ha visto che anche i Mussulmani Nuba nonaccettavano le imposizioni governative, ha decretato la jihad, la guerra santa,contro tutti i Nuba, anche contro i Nuba Mussulmani, perché il sillogismo era“siccome si ribellano ad un governo che è un governo mussulmano, non sonoMussulmani veri, sono eretici e devono essere eliminati”. Questo era la posi-zione del governo di Karthoum. Quindi abbiamo visto per qualche anno un ten-tativo sistematico di annientare i Nuba, impedendo che la gente ricevesse aiutimedici, favorendo la diffusione delle malattie, cercando di far morire i Nubaper la guerra, facendoli schiavi, favorendo la violenza sulle donne per creareuna generazioni di bambini che non fossero più Nuba autentici geneticamente.Quindi tutto un sistema metodico per eliminare i Nuba. Quando sembrava cheil governo si fosse ormai rassegnato al fatto di non riuscire ad eliminarli, c’èstata la morte di Yusuf Kuwa, nel marzo del 2001, e si è scatenata una grossis-sima offensiva militare per cercare veramente di dare l’ultimo colpo alla resi-stenza Nuba, con 8 colonne militari che si sono mosse contemporaneamenteper accerchiarli e distruggerli. A questo loro hanno resistito, con gravi perdite,finché il governo si è ritirato e finché poi finalmente si è incominciato a parlaredi pace. C’è stato prima un cessate il fuoco nel gennaio del 2002, poi, nel gen-naio di quest’anno è stata firmata una pace comprensiva di tutto il Sudan.

Quindi in questo momento c’è pace, non siamo sicuri che sia una pace chedurerà a lungo perché il trattato è estremamente complicato, ha clausole diffi-cili, complicate, minuziose, prevede nei dettagli come si svilupperà il camminoche dovrà essere fatto per andare verso un referendum tra sei anni: e sei annisono lunghissimi e può succedere ancora di tutto. Il modo per aiutare i Nuba inquesto momento e aiutare tutti i Sudanesi perché restino in pace è di tenere gliocchi puntati su di loro, far percepire al governo che c’è un’attenzione interna-

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zionale e che quindi devono stare attenti prima di fare dei passi indietro. Peròpurtroppo c’è il gravissimo problema del Darfur, che non è problema nato acaso: lì c’è il petrolio e poi la cosa ancora più grave è che questo problema ènato poche settimane dopo che le due parti si sono sedute al tavolo della pace,che i ribelli del sud e il governo di Karthoum si sono seduti al tavolo dellapace. Tutto fa pensare che ci siano delle forze che non vogliono la pace inSudan. Per ragioni diverse la guerra fa comodo, l’instabilità fa comodo e quindiil Darfur è usato come pretesto, come impedimento ad una pace duratura. Adifferenza di quello che succedeva nelle altre parti del Sudan, per esempio suimonti Nuba (dove c’era una guerra di cui tutti erano consapevoli, cioè i Nubasapevano benissimo perché erano in una posizione di resistenza contro ilgoverno di Karthoum, erano consapevoli che la loro era una lotta per non esse-re arabizzati, per non diventare fondamentalisti mussulmani), in Darfur l’im-pressione è che la povera gente che è morta fino ad ora, forse 200.000-300.000persone in questi ultimi due anni, si è trovata in mezzo a due gruppi che sifanno la guerra ma senza sapere il perché. Poche settimane fa, ho trovato unpiccolo mercante arabo del Darfur, Arabo culturalmente, dal punto di vistaetnico molto nero, una persona senz’altro con tantissimo sangue nero dellegenti del sud: era un piccolo mercante in un villaggio del Darfur e lui mi dice-va, mi raccontava la sua storia, che il suo villaggio è stato attaccato e distruttoall’inizio del conflitto e nessuno aveva capito perché. E non lo sapranno maiperché sono morti prima di poterci pensare. Raccontava come sono venutedelle milizie che hanno chiamato Janjawid, che vuol dire diavoli a cavallo.Questi Janjawid sono arrivati e hanno messo il villaggio a ferro e fuoco, hannoincendiato le capanne, hanno ammazzato tutti quelli che vedevano in giro. Luisi è salvato con una ferita alla gola, che hanno tentato di tagliargli (è stato for-tunatissimo, si vede che gli è uscito il sangue ma la ferita non era sufficiente-mente profonda. E gli hanno dato una pugnalato al cuore, ma non l’hanno presoal cuore. Ha una ferita ancora molto visibile, molto grossa appena sopra ilcuore e l’hanno lasciato per morto). Sarebbe morto se non fosse stato che unasua vicina di casa, che per caso era una donna Nuba e chi si era sporcata invo-lontariamente del sangue dei suoi familiari e a quel punto i Janjawid pensava-no che fosse morta perché era tutta coperta di sangue. Questa donna, quandotutti sono andati via, si è alzata, è andata in giro a vedere se ci fosse qualchesopravvissuto, ha trovato questo signore che si chiama Mohamed Ali Mohamed(più mussulmano di così!): e questa signora ha caricato Mohamed su un asinel-lo e l’ha portato ad Al Junaynah che è la capitale della regione in cui si trovavail loro villaggio. Ma senza sapere perché. E moltissima gente in Darfur è mortacosì, senza sapere perché questa guerra si è scatenata su di loro.

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Noi, come Amani, come Koinonia, il gruppo di Nairobi, il gruppo degliAfricani di Nairobi, cerchiamo di fare qualcosa per reagire in queste situazionie per tirar fuori le risorse più belle, più genuine, più autenticamente africane.Sono loro che reagiscono, che si inventano cosa fare in queste situazioni. Daqueste cose sono nate le scuole, sui monti Nuba, sono nate le case per i bambi-ni di strada, sono nate tutte le attività che vi dicevo. Direi che mi fermo qui,lascio parlare un po’ Gianmarco che spieghi un più in dettaglio i progetti, lecose che facciamo.

Gianmarco EliaIo in realtà sono un fotografo, da ormai 12 anni. Prima ho avuto un’esperienza aMilano, per 6 anni ho lavorato con i ragazzi del carcere minorile e mi sonoavvicinato alle storie dei bambini di strada. Conoscevo Kizito da molti anniperché nel ’87 e nell’88 ho passato due estati dove lui lavorava in quel periodoin Zambia: e così la nostra amicizia è iniziata in questo modo con un viaggio,che consiglio a tutti voi, di venire verso l’Africa e di cominciare così un rappor-to (prima ancora di dare del denaro, prima ancora di aiutare, prima ancora dipensare a come fare per sostenere queste iniziative). Credo che, così, un rap-porto umano, fatto da un incontro, faccia una bella differenza.

La nostra vicenda è iniziata così, alla fine del ’94, quando ci siamo ritrovatidopo 6 anni in cui ero rimasto immerso nel mondo della cosiddetta criminalitàgiovanile o dei cuori violenti giovani di Milano del carcere Beccaria: e abbiamocominciato a pensare a come intervenire insieme con un gruppo di persone diNairobi, che provenivano da tutto il Kenya, con qualche buon progetto educati-vo per i bambini di strada. Poi sono venuti i Nuba, come ha raccontato Kizito,ma soprattutto è venuta un’avventura, per persone come me. In quel periodo hopoi cominciato con la fotografia in modo professionale, oggi lavoro soprattuttoper Repubblica, per la parte esteri, quindi ho ancora fortunatamente l’opportu-nità di viaggiare in molte parti dell’Africa e non solo. E trovo moltissima positi-vità, energia straordinaria in ogni paese africano, dove se ci si mette insieme,se ci si allea, in qualche modo si può fare, senza importare dei modelli dall’e-sterno: si cerca di capire qual è il modello locale e di partire con loro, si posso-no fare delle cose che respirano a lunga scadenza e soprattutto si vanno a radi-care sul territorio. E quindi ormai lavoro a metà tempo e mi sono lasciato coin-volgere in questa vicenda che è cresciuta con gli anni di Amani, di Koinonia,in questi progetti di cui vi abbiamo parlato o possiamo parlarvi; che in realtànon è stato tanto aiutare dei progetti africani a crescere, ma siamo cresciuti noicome persone umane e forse abbiamo capito qualcosa di più. L’Africa, nel miocaso, è stato un valore aggiunto nella mia vita più che aiutare qualcun altro, ha

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soprattutto aiutato me nel mio modo di quadrare le cose, di cercare di capirle eha aiutato un po’ anche la mia umanità, credo. Indubbiamente mi ha aiutatocome fotografo perché mi ha dato l’opportunità di raccontare i Nuba su tantissi-mi periodici, italiani e non solo, ma poi mi ha permesso molte volte di viaggiaretra di loro e questo è stato un bene straordinario, un dono straordinario.

Noi tentiamo di fare cooperazione in modo un po’ impopolare perché nonveniamo qui con dei manifesti con dei bambini che stanno morendo dicendoche se voi non intervenite e non ci date dei soldi moriranno domani, cosa pro-babilmente vera: però secondo noi non si fa così, innanzitutto per una questio-ne di dignità umana. Le persone in quanto tale vanno rispettate sempre ecomunque, ovunque esse siano. Poi perché il tema dei soldi è un tema moltodelicato che va trattato in maniera chiara soprattutto per raccogliere denaro chenon è proprio ma che è altrui e quindi bisogna essere molto chiari, molto tra-sparenti. Il tema dei costi non è mai scontato ma per noi è un tema quotidianoperché appunto non è un fatto mai scontato e bisogna starci molto attenti. Nonbisogna mai parlare male degli altri, mi insegnava mia nonna e mia madredopo di lei, però io direi che una buona metà (me lo chiedevano oggi anche aSpoleto) di organizzazioni, anche italiane, se chiudessero domani, nessuno sene accorgerebbe in Africa. Noi ci occupiamo più dell’Africa e parliamo diquello. Sono un po’ autoreferenziali, un po’ nate per se stesse e alla fine se fateun analisi dei costi vi rendete conto che ad esempio le grandissime NazioniUnite, con tutta la potenza d’intervento che hanno, sono regolarmente (ormaidirei dal ’90 in poi perlomeno, ma anche prima) inefficaci: nel caso delle gran-di emergenze, se vogliamo guardare a quelle, arrivano sempre tardi, non inter-vengono mai in maniera tempestiva e, soprattutto nel caso dei conflitti armati,non riescono a porsi come forza reale di interposizione. Fra l’altro in questigiorni c’è sugli schermi italiani Hotel Rwanda che anche da questo punto divista ci ricorda questo evento. Kofi Annan fu peraltro il principale responsabiledel disastro rwandese, oggi è segretario delle Nazioni Unite, cioè come dire chein una struttura che sbaglia e continua a sbagliare e che costa l’80% dei fondiche ha disposizione, nessun funzionario viene rimosso, nessun funzionario cheha sbagliato gravemente viene spostato, anzi fa un bel avanzamento di carriera.

Detto questo, ci sono strutture pesanti e secondo me abbastanza inutili e bisognaproprio ripartire a pensare la cooperazione proprio come un rapporto umano trapersone, partendo da piccole realtà. E noi stiamo tentando, non senza problemi,con tantissime imperfezioni, perché non siamo così bravi, proprio di partire daquesta idea e da un rapporto umano. È chiaramente una vicenda molto piùlenta, possiamo incidere nella vita forse di qualche decina di persone, creando

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per loro delle occasioni: però ci sembra che sia una strada interessante da per-correre. Sicuramente lo è per noi e ci sentiamo un po’ meglio noi nel lavorare inquesto modo, anche perché appunto ognuno di noi continua a mantenere (confatica devo dire, perché l’associazione cresce, dopo tanti anni; oggi abbiamo unadecina di gruppi, sparsi per l’Italia, che fanno un lavoro continuo, coordinati,non è semplice) il proprio lavoro e la propria professione, quindi dedicandotempo, energie, un po’ di denaro a questi progetti. Un incontro tra una societàcivile keniana, zambiana e sudanese e una società civile italiana e pensareinsieme un modello, ripeto, un po’ impopolare. Però meglio fare un incontro contrenta persone che fare delle campagne che magari rendono un milione di euro,perché poi oggi purtroppo le organizzazioni ragionano in termini di resa, difund-raising, così come viene definito. Oggi nascono delle scuole per le organiz-zazioni non governative del terzo settore (che è una realtà importante in Italia)per capire come raccogliere i fondi e come fare i soldi: cosa anche importanteperò, ripeto, che va trattata con delicatezza, perché il tema della raccolta fondi èdiventato predominante, quasi una religione per le organizzazioni, mentre inve-ce i temi portanti, quelli che dovrebbero essere discussi quotidianamente inun’organizzazione come la nostra, penso proprio che siano altri. Il denaro rimanecertamente importante, perché senza denaro non si fa nulla: noi le case le abbia-mo costruite, abbiamo strutture importanti, i bambini dormono in letti, concoperte, hanno persone che si occupano di loro in modo professionale, etc. etc. equesto costa. Però c’è modo e modo. E poi ci sono di mezzo le persone.

Niente, io non aggiungo molto, mi chiamo Gianmarco Elia, non l’ho detto, per-ché poi una delle cose che mi hanno insegnato in Africa è che innanzitutto ci sipresenta. Vengo dal Gianbellino che è un quartiere di Milano e ho vissuto aRiruta, che è un quartiere di Nairobi, metà di questi dodici anni, circa sei mesiall’anno ormai. Vi ho portato in regalo la cosa più bella dei Nuba che sono dellebellissime immagini: i Nuba sono diventati famosi per questo, come dicevapadre Kizito poc’anzi. Quest’anno noi abbiamo festeggiato, dire celebrato èquasi troppo importante, i nostri 10 anni di rapporto con i nostri amici Nuba,appunto 10 anni dal primo volo e lo abbiamo fatto con le foto straordinarie di unamico inglese, un fotografo molto noto nel suo paese, che è Davis Stewart Smith.Ogni anno noi realizziamo un calendario di autore, abbiamo ospitato fortunata-mente nomi di fotografi di fama internazionale: Stewart Smith quest’anno ci hadonato le sue immagini, sono rimaste ancora alcune copie, non bastano per tuttima io ve le regalo volentieri. Così vedete i Nuba, belli come sono! E grazie peressere venuti a passare una serata con noi e ascoltare temi non tanto popolari.

Gli ospiti rispondono alle domande e agli interventi del pubblico

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Primo interventoVolevo sapere qualcosa di più sul tipo di adozione che avete prima descritto eche adottate in Africa.

Secondo interventoUna domanda sul Darfur. Diceva prima che la popolazione del Darfur nonsapeva bene le cause che hanno portato alla guerra. Qui c’è un’altra personache queste cause non le sa certo molto bene, quindi se è possibile avere unpochino più di spiegazioni.

Terzo interventoUna domanda più generale e una più specifica. Vorrei sapere se la vostra asso-ciazione si limita ad un’opera di volontariato e assistenzialismo oppure cerca diinfluire in qualche modo e cambiare anche la situazione politica e socialeall’interno del paese, creando magari delle correnti di opinioni critiche adesempio contro il governo (perché, come sappiamo, questi paesi non sono pove-ri paesi in sé, ma poveri anche perché sono sfruttati da un governo corrotto chedetiene tutta la ricchezza, da multinazionali e affini, altrimenti questi paesi sta-rebbero bene e anche la popolazione). E poi una domanda più specifica. Vorreisapere che influenza ha avuto la religione e l’educazione cattolica, sulla culturae sulle tradizione del popolo Nuba. E inoltre a padre Renato, lei da Cattolico,cosa ne pensa della posizione ufficiale della Chiesa che vieta l’uso dei contrac-cettivi e quindi divieto che come sappiamo in Africa è causa di milioni di mortianche per l’Aids. Grazie.

Gianmarco EliaL’adozione l’abbiamo pensata collettiva perché ci siamo resi conto che c’è unavisione dell’adozione a distanza pensata in molti casi (chiaramente non si puògeneralizzare) come un rapporto sbagliato. Spesso riceviamo telefonate di per-sone che, per il fatto che davano, a distanza, una mano a crescere un bambino,volevano sapere tutta una serie di cose personali su di lui, sulla mamma (chemagari era ridotta in prostituzione), con anche tutta una serie di dettagli chenon ci pare il caso di raccontare. Le storie personali, soprattutto quelle doloro-se, vanno rispettate, sono patrimonio di una persona e non è giusto divulgarlein nessun modo. Inoltre era diventato un po’ anche un meccanismo faticoso,cioè il fatto che io ti do del denaro mi dà il diritto di sapere, di controllare lapersona, di sapere il perché, l’origine, e allora perché la madre non fa questo,etc. Ancora una volta quella visione tutta personale che noi abbiamo, dellesoluzioni a distanza, senza mai nemmeno aver conosciuto quei luoghi e quellepersone ed il come bisognerebbe fare. Quindi è un po’ faticoso di fondo.

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In generale poi perché siamo abituati ad avere dei posti molto grandi, moltoaccoglienti, dove ad esempio la casa per i bambini di strada (che nasce comeuna casa per i bambini di strada) oggi è un centro dove al lunedì alla domenicaentrano ed escono duemila persone: c’è un dispensario, c’è un gruppo di donneche fa una produzione di abiti, ci sono i gruppi che fanno microcredito, che èuna banca di accesso per le persone che hanno un livello bassissimo di reddito;c’è un gruppo di produzione di artigianato con produzione diversa, con varisoggetti e varie capacità, c’è una scuola di meccanica, il dispensario, non so sel’ho detto, con un medico tra l’altro che ha fatto l’università a Perugia e parlaperfettamente l’italiano. C’è una scuola di computer, c’è un mondo molto vastodove c’è soprattutto una massa di persone, qualcuno ha nominato l’AIDS, chesi presenta al cancello e che chiede ogni giorno un aiuto. E noi siamo una pre-senza nel quartiere direi quasi unica e il quartiere ha ottantamila abitanti. Sonocittà in realtà: noi pensiamo alle baraccopoli come dei quartieri forse sulladimensioni dei nostri. Sono in realtà delle città, spesso molto più grandi dellamedia delle città italiane: Kibera ha ottocentomila abitanti in pochi ettari,Mathare ne ha duecentomila. Tutta la cintura della città di Nairobi è fatta dicittà, di baracche dove vive la maggiorparte della popolazione. Per queste per-sone siamo un riferimento e, sulla base di un budget che viene richiesto adAmani dal gruppo che lavora in Kenya, cerchiamo di rispondere.

E quindi le adozioni a distanza, le donazioni libere per quel progetto, vanno arispondere alle varie esigenze, alle varie iniziative di quel progetto e di quellaporta, di quel cancello a cui un sacco di gente bussa ogni giorno e ogni settima-na. Una volta la gente veniva a chiederti, fino a pochi anni fa, magari un aiutoper mangiare perché non si mangiava in casa per una settimana. Oggi magari tichiedono aiuto perché hanno un parente da seppellire in casa da sei o settegiorni e non sanno come fare per una bara o per un trasporto, per portare ilcorpo al villaggio d’origine e cose di questo genere. È cambiata un po’ anche ladimensione dell’aiuto e anche della richiesta. Ci sembra che questo vada gio-cato, se si può usare questo termine, con grandissima delicatezza e attenzione equindi adottare un luogo, un progetto è forse meglio che voler avere un rappor-to che poi non c’è, con un bambino che è lontano e con la pretesa della letteri-na. Un bambino a dieci anni deve giocare nel tempo libero che ha e studiarequando è a scuola e stare più sereno possibile, recuperare un rapporto affettivocon chi si sta occupando di lui, con dei genitori e dei parenti che andiamo acercare, con cui cerchiamo di riallacciare dei rapporti; e non deve scriveredelle lettere finte che spesso poi sono costrette le suore a scrivere, o chi sioccupa dei bambini pur di non perdere l’aiuto e il contatto con quella persona.Ma cosa ne sa del contesto che c’è qui e delle risposte che noi ci aspettiamo? E

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poi perché scrivere in maniera così forzata a qualcuno che gli sta pagando unascuola? Si crea un rapporto sbagliato e un meccanismo un po’ finto. Quindiandiamo forse in una dimensione più reale. Lasciamo che i bambini siano bam-bini finché possono e noi facciamo quello che possiamo per mantenere la realtàcosì com’è.

Padre Regnato KizitoUn esempio. Io ho avuto, sembra assurdo, una persona di Milano che un giornomi ha chiamato tre volte al telefono, chiedendo di parlare con il bambino cheaveva adottato. Quando finalmente alla terza volta il bambino, Moses, era pre-sente e ha parlato con lui, io naturalmente gliel’ho passato. Il ragazzino, Moses,dopo mi dice: «Questo parla italiano, io non capisco mica!» E io allora: «Scusi,deve parlare inglese con il nostro ragazzino» «Ma come, non insegnate l’italia-no?». Non è la nostra prima preoccupazione insegnare l’italiano ai bambini diNairobi! A volte si innescano meccanismi veramente che poi diventano pesantie difficili da controllare.

(risposta al secondo intervento) Allora, volevi saperi le cause del Darfour o del Sudan in genere? Ne parliamoin sintesi, perché è veramente complicato entrare nei dettagli. In Sudan, paesedi grandi dimensioni geografiche, gli abitanti in totale sono solo circa tre milio-ni. Però in questo paese, e questa è una cosa che è un indice incredibile delladiversità che c’è, si parlano almeno (normalmente si dice) 652 lingue diverse, esono lingue diverse, non sono dialetti. E ad una lingua corrisponde una cultura,una mentalità, un modo diverso di vedere la vita, etc.etc. Questo ti da unaprima risposta. C’è un pluralismo di culture, di religioni, di situazioni, che tuttii governi che si sono succeduti a Karthoum hanno visto come un ostacolo con-tro l’unità del paese e hanno visto come un incubo piuttosto che vederlo comeuna ricchezza, piuttosto che vederlo come una grande risorsa. E quindi ha fattocontinuamente una politica di unificazione e di imposizione. Tutti devono par-lare l’arabo, tutti devono essere Mussulmani, tutti devono vestirsi alla mussul-mana possibilmente. Questa imposizione ha causato tanto malcontento e tantereazioni. Ci sono ragioni di origine storica, le genti del nord sono state persecoli gli schiavisti di quelle del sud. E la cosa è radicatissima. Per esempioper molta gente del nord, dire Nuba e dire schiavo è la stessa cosa, sono sino-nimi. I Nuba erano gli schiavi per antonomasia. E questo è ancora profonda-mente radicato, è una ragione profonda di divisioni. Quindi alla base c’è unadiversità culturale e delle ragioni storiche che fanno sì che sia stato un erroreclamoroso mettere questi due gruppi di popoli in quello stesso contenitore cheil colonialismo inglese ha chiamato Sudan. Una cosa forzata dall’esterno (come

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tutti gli stati africani), uno stato inventato dai colonialisti, seguendo delle logi-che che non hanno niente a che fare con le logiche locali. Tantissimi dei pro-blemi che ci sono in Africa derivano ancora da questi confini insensati. Unacosa che cito sempre ma che veramente da la misura delle ragioni per cui sifacevano i confini: il confine tra il Kenya e la Tanzania, se guardate la cartinageografica, era una linea retta dal lago Vittoria al mare. Era una linea retta.Adesso è una linea retta che ad un certo punto fa una curva e poi torna a fareuna linea retta perché gira intorno al monte Kilimangiaro, perché ilKilimangiaro era in Kenya (in quello che poi gli inglesi hanno chiamatoKenya). Quando la regina Vittoria ha avuto un nipotino che era il Kaiser dellaGermania, gli ha regalato il Kilimangiaro: allora hanno modificato il confine esono andati attorno al Kilimangiaro perché la Tanzania era sotto i tedeschi.Cioè i confini venivano fatti con questi criteri. Questi sono le ragioni di tanticonflitti africani oggi. Diciamo che la ragione fondamentale in Sudan è, secon-do me, una questione di diritti umani. Tra i diritti umani c’è anche il diritto allalibertà religiosa. Però fondamentalmente è proprio una questione di esserericonosciuti come persone che hanno diritti umani. I Sudanesi del sud, daquando c’è la dipendenza dal 1956, non hanno mai veramente votato, nonhanno mai avuto veramente la possibilità di esprimere che cosa vogliono fare dise stessi. È quindi una questione fondamentalmente di diritti umani.

A rendere più complicato questo discorso si sono poi aggiunti gli interessi eco-nomici e soprattutto gli interessi esterni. Si è aggiunto per esempio la scopertadel petrolio nel sud nell’82-’83, che ha portato alla corsa al petrolio sudanese,e adesso anche alla corsa del petrolio del Darfur. Il governo ha annunciato 15giorni fa che c’è il petrolio. Si è aggiunto il problema degli interessi di tutti ipaesi vicini per la questione delle acque del Nilo. Voi sapete, si dice che leguerre di questo secolo, se ci saranno, si combatteranno per l’acqua. Per esem-pio c’è una convenzione, sconosciuta alla maggioranza della gente anche deipaesi che sono interessati, firmata nel 1959 (quando quasi tutti questi paesierano ancora sotto i diversi poteri coloniali) che dice che le acque del Nilosono riserva esclusiva dell’Egitto. Quindi il Kenya, che è un paese rivierascodel Nilo (perché il Nilo nasce dal lago Vittoria), tutti i paesi rivieraschi del lagoVittoria, più il Sudan e l’Etiopia (dove nasce il Nilo Blu) sono soggetti a questaconvenzione che non permette loro di usare le acque del Nilo. Il Kenya che haragioni aride molto vaste vicino al lago Vittoria (e lo stesso vale per laTanzania), non può usare le acque del lago Vittoria per irrigazione perché leacque del lago Vittoria appartengono all’Egitto. L’Egitto ha causato altre com-plicazioni opponendosi, per esempio, alla divisione del Sudan in due paesi,perché preferisce trattare con un paese a monte piuttosto che con due. Ci sono

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entrati tanti elementi di geopolitica e di economia internazionale che hannocontribuito a dividere piuttosto che unire, a creare una corsa alle ricchezze delSudan. Per gli interessi occidentali, se entriamo nei dettagli, negli ultimi diecianni, la Francia è sempre stata al supporto del governo di Karthoum. Le com-pagnie francesi hanno scoperto il petrolio nel sud del Sudan alla fine degli anni’70 e hanno sempre mirato a controllare le stazioni del petrolio. Poi sonosubentrati i Cinesi. Le alleanze in queste cose cambiano. Quando c’eraNumeiri, che era un regime a Karthoum estremamente repressivo, gliAmericani erano alleati con lui. Negli ultimi dieci anni sono stati invece alleaticon il movimento di liberazione. La storia del Sudan in questo senso è estrema-mente complicata perché le alleanze sono cambiate mille volte. Ad un certopunto, 3-4 anni fa, prima che si firmasse il trattato di pace, il petrolio eraestratto da un insieme di compagnie: i Canadesi fornivano le tecnologie ehanno fatto gran parte dell’oleodotto, i Cinesi, i Malesi. Sono entrate all’ultimomomento e poi sono uscite quasi subito le compagnie statali dell’Austria edella Svezia. Cioè tutto il mondo! Il problema non era un problema politico, ilproblema era riuscire a mettere le mani su questo petrolio. Gli Americani, per-ché sono intervenuti pesantemente perché si facesse la pace? Meno male per lapace, no! Ma perché con la guerra, loro si erano trovati alleati al movimento diliberazione ed erano esclusi dal petrolio, perché il petrolio era nelle zone con-trollate dal governo. Allora hanno forzato a tutti i costi la pace e adesso arrive-ranno anche le compagnie americane. Quindi c’è tutto un intreccio di proble-mi. Lo stesso per il Darfur: la guerra del Darfur, secondo me, è stata voluta dachi non voleva la pace, come certe forze al governo di Karthoum, come proba-bilmente i Cinesi, perché la pace vuol dire che arriveranno anche gliAmericani e inevitabilmente si prenderanno anche loro una grossa fetta. Aquesti erano alleati alcuni signori della guerra del sud, perché la fine dellaguerra vuol dire la fine dei loro introiti, hanno semplicemente voglia che laguerra continui per continuare a vivere sulla guerra. Questa è gente che ormaiha fatto la guerra per venti anni e se questa finisce perdono tutto il potere.Quindi c’è una serie di interessi tutti molto molto complicati che stanno gio-cando in Sudan.

(risposta al terzo intervento) Non so se ho capito bene la domanda sull’influenza del Cristianesimo sui montiNuba. Direi che l’influenza è molto piccola al momento, nel senso che iCristiani restano una minoranza e quindi non hanno una voce determinante innessun campo per quanto riguarda i Nuba. Restano una minoranza, significati-va, impegnata. C’è, probabilmente tra i Cristiani, una percentuale più alta digiovani istruiti, perché valorizzano e tengono di più alla scuola, però comunque

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non è una minoranza che ha una voce forte. Per quello che riguarda la posizio-ne della Chiesa, direi che ci sono un po’ di miti da sfatare. Prima cosa mi sem-bra un po’ esagerato dire, come pure si legge normalmente sulla stampa italia-na, che migliaia o milioni di Africani muoiono perché la Chiesa è opposta all’u-so dei preservativi. Prima di tutto, la Chiesa chiede la fedeltà coniugale e chie-de l’astinenza a chi non è sposato. Quindi chi dovesse seguire l’insegnamentodella Chiesa, non si mette a rischio di Aids. Questo è quello che insegna laChiesa. In secondo luogo, probabilmente la Chiesa non ha questa influenza equesta capacità di determinare le scelte degli Africani che stranamente le siattribuisce quando si parla di questo argomento. Non credo che ce l’abbia. Cisono anche lì tante cause concorrenti, molto più complicate di quello che abi-tualmente si dice. Per esempio, ne nomino qualcuna che mi viene a mente acaso, le avevo un po’ elencate nel libro “La perla nera”. Per esempio, in Kenyala tribù più devastata (il popolo, diciamo, perché poi è un popolo di almeno 4milioni, forse 6 milioni di persone) dall’Aids sono i Luo. Addirittura i Luoerano il secondo popolo numericamente del Kenya ma il crollo è stato cosìgrande che oggi sono il terzo. Hanno veramente ricevuto una batosta tremendadall’Aids. Per quale ragione? Perché abitualmente, anche quelli Cattolici (equesto dimostra che per esempio che l’insegnamento della Chiesa non è poicosì determinante come si presume) i Luo applicano il levirato, come nell’anti-co testamento: se un uomo muore, la moglie o le mogli vengono ereditate dauno dei fratelli, con leggi, regolamenti, etc. Ora cosa succede se un uomomuore di Aids? È molto probabile, se ha una moglie o due, che esse sianoinfette, siano seriopositive e passano al fratello minore. Il fratello minore diven-ta seriopositivo e così via. Interi villaggi sono scomparsi nel giro di pochissimianni per questa logica e non ha niente a che vedere con l’insegnamento dellaChiesa.

Un altro fattore culturale che ha giocato è che gli Africani, ancora adesso, neivillaggi, fanno una grande fatica a credere che un’azione che tu fai oggi possaavere come conseguenza una malattia che ti colpisce tra cinque anni o diecianni. La mentalità africana, la cultura africana è una cultura che è molto sofi-sticata nelle relazioni con il passato ma è rispetto a noi molto più schematicanelle relazioni con il futuro. Questo lo vedi dalle lingue, se tu prendi le lingueafricane vedi che per esempio spesso hai 10, 12, 15 modi per parlare del pas-sato: nella lingua kikuio addirittura mi dicono che ci sono quasi 80 modi perparlare del passato, cioè c’è una modalità verbale che se tu la usi fai capire altuo interlocutore per esempio che adesso mentre sto parlando è mattina e ilfatto a cui mi riferisco è dell’altra sera. C’è una precisione incredibile quandosi parla del passato. Quando si parla del futuro ce n’è uno solo, e il futuro fini-

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sce per quasi tutti i popoli alla prossima stagione delle piogge, non va più in là.Quindi culturalmente per esempio è molto difficile che gli Africani, quelli chevivono nella cultura tradizionale, piantino alberi. L’albero da frutto che dà frut-to tra cinque, dieci anni. È un’eternità, non puoi controllarlo, sarai morto, nonsi va aldilà della prossima stagione delle piogge. Questo ha creato un’enormedifficoltà a far capire gli effetti dell’infezione, del diventare serio positivi chepuò provocare la morte dopo qualche anno di una persona. Non è visto comecredibile, ancora oggi, da moltissime persone. Ci sono tutta una serie di barrie-re che hanno giocato contro questo, purtroppo, e che veramente sono statedevastanti nella diffusione dell’Aids.

Tra l’altro queste barriere dimostrano tutto sommato, che dire che l’insegna-mento della Chiesa sia così drastico contro l’uso del preservativo è tutto dadiscutere: la Chiesa è molto più sfumata su questo, perché alla fin fine si dà lapriorità alla coscienza della persona. Quindi il confessore, il padre, può tran-quillamente insegnare ad una coppia che tu, in coscienza, se credi che questosia giusto, fai questo perché è giusto per te. Nel tuo va bene così, come è statodetto anche pubblicamente da diversi vescovi in Africa. Dunque la situazione èmolto complessa e io starei molto attento ad attribuire all’insegnamento dellaChiesa la responsabilità dei morti di Aids. In realtà ci sono delle cose di inter-pretazione controversa. C’è una recente polemica sull’interpretazione di alcunerecenti statistiche che sono state fatte in Uganda dove sembra, secondo alcuni,che il crollo della percentuale di infezioni che c’è stato in alcune zonedell’Uganda negli ultimi anni, sia dovuto ad uno sforzo delle chiese (non solodella Chiesa Cattolica) di formazione dei giovani ad una più attenta gestionedella loro sessualità in una chiave di valori cristiani. E lì c’è stato un crollo diinfezioni. Alcune statistiche non sono del tutto d’accordo, c’è una polemica suquesto. Hai per esempio chi non vuole interpretare a favore dell’insegnamentodella Chiesa questo crollo di infezioni in Uganda, vale a dire le grosse compa-gnie che vendono i preservativi e che ti fanno venire qualche dubbio che sianoloro che abbiano qualche interesse a vendere i preservativi e a promuovere unaforma di mancanza di educazione sessuale vera: la soluzione proposta usa piùpreservativi possibile, così facciamo gli interessi di chi li produce. Sono cosemolto sfumate, molto delicate.

Intervento pubblicoVolevo aggiungere qualcosa su questo tema. Io sono Shanti, studio adesso aPerugia però sono cresciuta in Africa, vi ho passato 13 anni e 6 e mezzo diquesti anni sono stati in Swatziland, che per quelli che non lo dovessero sapereè un microscopico paese tra il Mozambico e il Sudafrica. Allora, i dati ufficiali,

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che ho letto proprio l’altro giorno, sull’Aids e sulla seriopositività inSwatziland, ufficialmente davano il 38% della popolazione infetta, più proba-bilmente si parla di circa il 43%. Metà della popolazione morirà nei prossimianni. In Swatziland c’è un regno, una monarchia assoluta, c’è Mswati III e sonopochissimi anni che Mswati III ha finalmente detto, ragazzi questa malattia esi-ste. Quando eravamo noi lì, all’inizio degli anni ’90, mia madre faceva educa-zione sessuale con le donne e lì c’erano molte difficoltà anche a causa delletradizioni: in Swatziland si pratica ed è molto diffusa la poligamia, il re ognianno sposa una nuova moglie (è una cosa molto folkloristica, piace tanto aituristi!). E le donne dicevano: «Tu stai dicendo bugie perché sei gelosa, ilnostro re ci ha detto che questa cosa non esiste». C’era una grandissima epide-mia di tubercolosi nel paese, i più morivano per tubercolosi. E poi un giorno,una donna è andata da lei e le ha detto: «Senti, se quello che tu ci dici è vero,noi qui moriremo tutte. Perché noi non possiamo dire di no ad un uomo, non ènella nostra tradizione, non è nella nostra cultura dire di no». Ora inSwatziland direi che circa il 60% della popolazione appartiene a chiese cristia-ne, protestanti, metodiste, battiste. E poi c’è una minoranza cattolica. Questodimostra proprio che andare a dire che la Chiesa Cattolica centra in questogenere di diffusione, almeno questi livelli, è forse una cosa non esatta.

Padre Renato KizitoInteressante il caso dello Swatziland e anche il Lesotho, che addirittura, hosentito recentemente un dibattito a Nairobi, si teme che scompaiano. Ci sonofamiglie ormai che sono composte dal fratello maggiore di 14-15 anni e due-trefratelli più piccoli. Si teme la loro scomparsa e con loro scomparirà la culturatradizionale, perché non c’è più la trasmissione da una generazione all’altra.

Gianmarco EliaC’era una domanda su come ci poniamo noi con le autorità politiche, a qualilivelli si propone la nostra azione. Sicuramente uno, lo ripeto, è il livello diredazione, con chi lì sta lavorando e ha pensato i progetti e chi lì viene accoltoe chiede un aiuto. Questo è la priorità per noi. Poi dobbiamo stare un po’ atten-ti, perché se così tanto parliamo dei mal governi africani che per l’amor di Dioci sono, ci sono stati dei casi in cui probabilmente i leader africani si sono qua-lificati tra i peggiori al mondo: però io avrei come cittadino italiano una lista di25 o 30 politici degli ultimi 30 anni, potrei snocciolare i nomi senza difficoltà,di cui vergognarmi assolutamente. Detto questo, dovremo ricordarci anche difigure di assoluta grandezza, come per esempio Nelson Mandela, che aldilàforse di qualche aspetto che qualcuno ha posto in maniera così tanto ideologi-ca, è stata veramente una figura di primissimo piano: uno che, dopo una vita

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quasi, o metà della sua vita passata in prigione, non ha mai alimentato nessunsegno di rivalsa, si è fatto da parte dopo un mandato, ha incoraggiato il succes-sore, cioè ha fatto tutto quello che credo il 95% degli uomini politici del mondoabitualmente non fanno. Lui è arrivato al potere, ha detto le cose che aveva dadire, ha tentato di mettere in pratica quello che voleva mettere in pratica dopouna vita in prigionia, in cooperazione in qualche caso con chi lo aveva impri-gionato e alla fine del suo mandato è andato a casa. Quando è stato ricevuto inInghilterra (qui da noi non è stato trattato in questi termini), la stampa britanni-ca diceva che l’unica figura reale presente in quel momento nella nazione nelRegno Unito era quella di Nelson Mandela, senza attribuire nessuna regalitàalla regina. Quindi probabilmente io direi l’uomo politico, in assoluto, piùgrande del ’900, su questo io non ho dubbi, almeno personalmente. Oltre lui, cisono stati anche molti altri leader positivi. Comunque non neghiamo i proble-mi, ma ricordiamo anche le figure che il continente ha avuto.

Detto questo, c’è stata per esempio, organizzata da Koinonia, con alcune perso-ne, la marcia della pace a Nairobi, che è un tema che voi conoscete bene quidalle vostre parti, e che lo scorso anno, nel settembre del 2004, è arrivata allaquinta edizione e ha visto la partecipazione del vice-presidente. Cioè si tenta direspirare, dove si può, con la società civile e di coalizzarla, di metterla insieme,e là dove è possibile, di coinvolgere anche le autorità locali: non è facile, per-ché poi la dimensione dei problemi, nei paesi africani, lo abbiamo visto, aldilàdell’Aids, è effettivamente su larga scala e largamente legato alla povertà mate-riale. Quindi i problemi sono molteplici. Però a me pare che il gruppo diKoinonia sia un gruppo molto interessante proprio perché tenta di agire a livel-li molto diversi. Non abbiamo detto niente stasera del livello della comunica-zione, c’è un gruppo, direi eccellente, di giornalisti che lavora in un progettoche si chiama “News from Africa”, che aggiorna le pagine in internet daNairobi, che sta aprendo un portale che coalizza e coalizzerà decine di organiz-zazioni che lavorano per i diritti umani e che dall’Africa proporrà una voceautenticamente africana di soluzioni, di proposte, ma soprattutto di analisi e diriflessione, fatte da chi quei paesi li conosce e non da noi qui. Voglio dire, mipare che i Koinonia agisca davvero a molti livelli. Comunque la priorità rimaneun livello di intervento, di progettualità e di risposta ai bisogni della gente, noncerto l’intervento politico.

Padre Renato KizitoPoi bisogna sottolineare che c’è tanta società civile in Africa, dappertutto, chequi non viene raccontata (sarebbe troppo lungo ora andare a parlare di questo)che però esiste ed è attiva, in paesi diversi, a livelli diversi. In Kenya credo di

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poter dire che sia molto attiva, la marcia della pace, le scuole per la pace, leattività per la giustizia, i seminari, gli incontri, è una società molto viva da que-sto punto di vista.

Gianmarco EliaConsiglio Perla Nera, l’ha scritto tre anni fa Kizito con la collaborazione di uncoautore, a me pare che tratti molti argomenti della cooperazione internaziona-le, dall’Aids al rapporto tra le chiese, anche con i danni che le chiese hannofatto nel continente africano e anche ad esempio l’atteggiamento di una certaclasse politica. Tocca molti temi, secondo me, riguardo il continente, interes-santi e trattati in modo intelligente. Attira poco da un punto di vista della grafi-ca ma ha grandi contenuti!

Intervento pubblicoCasualmente ho letto che in Africa una delle malattie più diffuse e che è causadi mortalità, forse ancora più dell’Aids, è il diabete. È vero oppure è una noti-zia inventata? Mi ha stupito, perché da noi il diabete è curabile: lì mi hannospiegato che non si cura perché non hanno l’insulina e quella che viene donataviene poi importata dalle multinazionali.

Padre Renato KizitoOnestamente non so le statistiche ma certamente è un grosso problema. Comepure stranamente è un grosso problema l’ipertensione, mentre è un problemameno grave che da noi, notevolmente meno grave, il cancro. Però non sono unesperto in questo campo. Noi abbiamo un medico keniano che viene nel nostrodispensario, che ha studiato qui a Perugia, e fa un servizio straordinario.Quando io ho bisogno di sapere le notizie di quel tipo lì, le chiedo a lui, ma sta-sera purtroppo non è qui!

Gianmarco EliaComunque l’Africa è un campionario di malattie assolutamente curabili per cuisi muore, questo indubbiamente sì! Riferendosi al caso dei Nuba, non mi ricor-do se il primo o il secondo viaggio, ci fu un’epidemia dove morirono 3000 bam-bini per il morbillo. A me sembrava di essere sceso sulla luna. Quando sonotornato a casa e l’ho raccontato, la gente ti riempiva le tasche di soldi (ma non ènemmeno così che si fa), fece una grande impressione a me e alle personeattorno a me. Qualcuno dice che il vaccino della malaria ad esempio c’è, perònon viene commercializzato perché comunque la gran parte dei fruitori inrealtà non la può pagare (come lo si dice anche per l’Aids). Abbiamo un padregesuita americano, vicino a Clinton, vicino a moltissima stampa di primo livel-

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lo americana, uno che le informazioni le ha e le conosce bene: lui è sicuro diquesto e lo dice con certezza. Non ho ancora sentito nessuno che ha contrad-detto D’Agostino. Non c’è bisogno di far troppa dietrologia, però è veramenteuna campionario di malattie curabili per cui la gente muore. E poi non si sanemmeno il motivo, perché non c’è la possibilità di far nessun tipo di diagnosiin gran parte dei posti.

Per quanto riguarda l’Aids, giusto per ricordarlo, io ero vicino a quegli ambien-ti in quel momento come impegno: qui da noi si negò per molto tempo l’esisten-za dell’Aids, ad un certo punto si cominciò a dire che era la malattia dei gay,poi dopo di quello si disse che era la malattia dei tossicodipendenti, e infine lamalattia degli eterosessuali. Quindi abbiamo avuto anche noi un lungo percor-so per riconoscere il nostro rapporto come società occidentale con questo virus.Qualcuno diceva che poi ovviamente era nato in Africa e veniva da là, e quindiche loro ci diedero questo bel regalo. Però nessuno la mai dimostrato.

Intervento pubblicoSenta padre, volevo sapere qualche cosa sulla sua esperienza più prettamentecristiana, su come ha portato il messaggio di Cristo a queste popolazioni. Qualeè stato il suo approccio di Cristiano, sappiamo che il Cristianesimo si basa suidue pilastri dell’amore a Dio e dell’amore al prossimo (e dell’amore al prossimoabbiamo ampiamente discusso)? Quale è stata la sua esperienza di Cristianoche ha portato il messaggio di Cristo a questi popoli e a queste popolazioni?

Padre Renato KizitoNoi abbiamo portato spesso un Cristianesimo fatto di catechismo insegnato amemoria, un Cristianesimo fatto di cose già cucinate da noi, da cose che sonocresciute nel nostro ambiente e nel nostro humus culturale: e le abbiamo un po’imposte, facendo spesso gli stessi errori che erano stati fatti allo stesso livellodai colonialismi: mi viene in mente un’episodio, c’era un padre in Kenia cheveniva dalla Campania e portava devozione alla madonna di Pompei! Questesono cose che mi sembrano un po’ forzate. Io sono partito dopo un po’ di espe-rienza e ho sempre cercato di lavorare sul principio di portare i valori fonda-mentali. Uno di questi valori è ad esempio l’incarnazione, Dio che si fa uomo equindi la dignità della persona umana, i valori della persona umana. Quindi laradice di tutto è nel Dio che si fa carne.

Nella trasmissione di questi valori, uno in Africa ha un grande vantaggio: sitrova di fronte ad una religione tradizionale e quando la religione tradizionalemagari non c’è più, resta tutta la spiritualità tradizionale che è molto simile

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all’Antico Testamento. Come nel caso che citavo del levirato. Gli Africaniintuiscono, non hanno bisogno di esegesi per capire, perché la loro vita è così:sono vicinissimi all’Antico Testamento. Quindi il passo dall’Antico Testamentoal Nuovo, al capire il Vangelo, a capire il fatto che Dio si è fatto uomo, diventaper tutti noi la liberazione e la dignità che crea nella persona umana: e capirequesti valori è relativamente facile, perché sono già sulla strada, sono preparaticome erano preparati gli Ebrei dell’Antico Testamento. Questo secondo mespiega anche il fatto che in Africa ci sia stata una conversione al Cristianesimoche è storicamente la più grande che ci sia mai stata nella storia della sua dif-fusione. Non solo numericamente, perché potrebbe essere facile (oggi siamomolti di più di quanto fossimo mille anni fa), ma proprio a livello percentuale:se voi guardate l’Africa dell’anno 1900, probabilmente non c’era l’uno percento dei Cristiani. Se voi guardate l’Africa del 2000, i Cristiani sono oltre il50%. C’è stata un’esplosione in un secolo. Perché questa risposta? Perché c’èquesta preparazione e non perché, come a volte si pensa qui nel nostro senso disuperiorità, ci si è abituati a giudicare gli Africani come sempliciotti, comebambinoni: gli Africani sono ben consapevoli delle scelte che fanno. Non fannoscelte a caso, per aderire ad una religione devono essere convinti, devono fareuna scelta personale. Quindi se hanno fatto questo passo, è perché c’è tutta unapreparazione forte, c’è una spiritualità forte; tradizionalmente il senso di dio,della presenza di dio nel mondo è fortissima. Dio è unico, è grande, è padre edè presente e voi sentite le mamme dei villaggi che salutano i bambini al matti-no, nominano Dio, augurano la benedizione di Dio ma come una cosa sentita eprofonda. Per cui questa adesione è spesso un’adesione sincera, come è avve-nuta in tanti altri popoli. E adesso vediamo delle cose di ritorno, nel senso cioèdei ragazzi africani che sono venuti in Italia, tornano indietro e dicono: Dio nonc’è più per voi. Non lo si nomina più. Uno può stare a guardare la televisioneper 24 ore e non sente mai nominare Dio. Questo è impensabile in Africa, lapresenza di Dio, il senso della presenza di Dio lo si percepisce in mille modi.Mi ricordo anche un ragazzo, Michael, è stato su un mese in Italia; la primavolta che è venuto, ha fatto un corso d’informatica in un’istituzione legato ad uncentro di ricerca a Roma e viveva in una pensioncina a fianco delle mura vati-cane. E lui, la sua sensazione: «Ma qui Dio non c’è più, dov’è che l’avetemesso? Non ne parlate più, non esiste più». C’è questo grande senso della pre-senza di Dio.

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Parte Terza

ncontro con Jean LeonardTouadi

I

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Jean Leonard Touadi, giornali-sta congolese da tempo residentein Italia, è collaboratore e consu-lente di numerosi periodici italia-ni e stranieri per le tematicherelative ai rapporti tra Nord e Suddel mondo, ai fenomeni di migra-zione e di globalizzazione. Halavorato presso la redazioneEsteri del TG3, ha collaborato aprogrammi Rai (Permesso di sog-giorno, C’era una volta) e haspesso partecipato a programmidi informazione radiotelevisiva.Ha realizzato e condotto per RaiEducational il programma Unmondo a colori. Nominato direcente assessore al Comune diRoma per l’Università e le Politi-che Giovanili (con varie altredeleghe), continua a mantenereuna sua rubrica fissa su “Nigri-zia”. Numerose le sue pubblica-zioni, anche in volume. Tra que-ste, Africa. La pentola che bolle(EMI, 2003), Congo, Ruanda,Burundi. Le parole per conoscere(Editori Riuniti, 2004), L’Africa inpista. Storia, economia e società(SEI, 2006).

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Bastia Umbra 15/06/2006

Luigino Ciotti Buonasera a tutti. Questa sera abbiamo portato qui da noi Jean LeonardTouadi – giornalista della Rai – per parlare di una guerra dal tragico bilanciodi sangue, quella del Darfur, e più in generale dei grandi problemi dimentica-ti che attanagliano il continente africano. Problemi che sono veramente dram-matici. Pensiamo ad esempio alla questione dell’Aids: nel mondo ci sonocirca 40 milioni di malati di Aids e 28 milioni e mezzo sono nella sola Africa.In Sudafrica muoiono per Aids 600 persone al giorno, una cifra enorme.All’Aids si aggiunge poi tutta una serie di grave problematiche, come quellodel debito estero. Per fare un esempio, la Tanzania ha un debito estero daripagare che è nove volte superiore a quello che spende per l’istruzione. Èemblematico. Che futuro ha l’Africa di fronte a tutto questo, che cosa prospet-ta ai giovani? Kizerbo, uno storico del Burkina Faso – che è anche amico diJean Leonard – dice che i giovani rischiano, rispetto alla storia dell’Africa, ditrovarsi di fronte ad un passato muto, ad un presente cieco ed ad un futurosordo. Queste sono le prospettive dell’Africa. Un continente dove il prodottointerno lordo negli ultimi dieci anni è diminuito del 24%; in una situazione incui il rapporto tra il quinto dei paesi ricchi del mondo rispetto al quinto deipaesi più poveri si è fortemente sbilanciato, da 30 a 1 degli anni Sessanta adoltre 80 a 1 dei giorni nostri, tanto per dare degli elementi di valutazione. Uncontinente dove ancora esiste la schiavitù, dove esistono decine di migliaia dibambini soldato, dove in molte zone c’è il drammatico problema dell’acqua edove migliaia di persone muoiono a causa della fame o dei suoi degli effetticollaterali. Queste sono alcune delle questioni che abbiamo all’internodell’Africa. Anche se la situazione varia ovviamente da paese a paese, com-plessivamente le logiche sono simili dappertutto. Un continente dalle innu-merevoli zone di guerra dimenticate: la Costa d’Avorio, la Sierra Leone,l’Eritrea, il Sudan, tutta la questione dei grandi laghi, le precedenti esperien-ze dell’Angola e del Mozambico, tanto per fare degli esempi: zone dove simuore con quelle bombe che spesso fabbrichiamo noi. Tanto per darvi un’u-nità di misura, quest’anno nel mondo si sono spesi 957 miliardi di dollari soloper le armi – quando poi, con 14 miliardi di dollari annui, si può dare rispostaal problema della fame – e di questi 957 miliardi, 416 sono stati spesi dagliStati Uniti d’America. L’ONU si era presa la responsabilità – i cosiddetti“impegni del millennio” – di agire soprattutto rispetto a tre grandi questioni:ridurre di due terzi la mortalità infantile, cercare di eliminare l’analfabetismoe il risolvere problema dell’acqua potabile. In Occidente si diceva che basta-va lo 0,7 % del prodotto interno lordo per eliminare, nel giro di pochi anni,

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Capitolo Primo

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queste problematiche ed erano stati presi degli impegni precisi. Ma questiimpegni non sono stati assolutamente rispettati, tranne che in qualche caso,come nei paesi del Nord Europa: gli Stati Uniti d’America però, rispetto allecifre che spende per le armi, dà solo lo 0,14 %, una percentuale quindi netta-mente insufficiente inferiore rispetto a quel 0,7% di cui si parlava (che è stataritenuta fin da subito una cifra molto bassa, tanto è vero che si pensava diraddoppiarla). Questi sono i dati in cui ci troviamo di fronte oggi.

E rispetto a queste grandi tragedie, che cosa si fa? Pensiamo a questa que-stione del maremoto, lo tzunami che ha colpito i paesi dell’est asiatico: laquantità di risorse che è destinata alla cooperazione rischia di essere spostatae di finire tutta lì. Quando succede un’emergenza, tutto viene rigirato su diessa e si trascurano i problemi che già esistono. Questo tzunami quotidiano –che sono la morte per fame e per malattie, il fatto che in Africa si muore perpartorire o per le cose più stupide (come la diarrea o le polmoniti o perchénon ci sono i medicinali o non si ha la possibilità di comprarli, non ci sono imedici, non ci sono le strutture ospedaliere), che non si investe nella sanitàcosì come non si investe nell’istruzione perché spesso ci sono governi correttiche servono all’Occidente per rapinare meglio le risorse – viene di conse-guenza completamente dimenticato. Questa è in sintesi la situazione, se vole-te anche catastrofica. Però è un dato reale che milioni di persone lasciano lacampagna e si accentrano nelle baraccopoli (la Korogocho di cui ci ha parlatopadre Zanotelli è solo un esempio). Ma ci sono tante Korogocho, solo aNairobi ci sono circa duecento baraccopoli e questo vale per tutte le grandicittà. E rispetto a tutto ciò, che cosa si può fare? Io, per ora, ho cercato di dare degli elementi in modo tale che Jean Leonard,che è un grande conoscitore della sua terra, ci illustri ancora di più quelleche sono le problematiche dell’Africa per poi successivamente dare la parolaa voi, come è nostro costume, per fare domande e approfondire ulteriormente.Grazie.

Jean Leonard Touadi Io saluto tutti, avrei voluto salutarvi uno ad uno, facendo saluti lunghi comequelli che si fanno in Africa. Però non li farò perché mi hanno sempre dettoche quando vai a parlare di sera con gli Italiani e con gli Europei, devi parla-re poco; questa è gente che va a letto presto, perché deve lavorare, giustamen-te! Considerate davvero come se io vi avessi salutati uno ad uno! Per me èsempre un grande piacere tornare non solo in Umbria ma vicino Perugia doveho passato il mio primo anno di soggiorno in Italia all’Università per Stranieri.Era obbligatorio andare a Perugia, passare l’anno di lingua prima di andare

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all’Università. Però non conoscevo Bastia, perché le professoresse dell’Uni-versità per Stranieri ci dicevano di non frequentare i “burini” per non conta-minare la purezza della lingua che noi stavamo imparando! E allora eravamosegregati, il posto più lontano dove potevamo arrivare era Piazza 4 novembre,andare a teatro, a sentire il jazz e poi basta. Ci dicevano di non parlare con iPerugini, figuratevi con quelli di Bastia: sennò perderete tutto quello chestate imparando! Davvero, è sempre un piacere ritornare in Umbria perché èlegato a questo mio primo contatto: il mio “fidanzamento” con l’Italia iniziacon l’Umbria e con Perugia. E ringrazio Luigino per il suo invito, per i suoiinseguimenti, sia telefonici che tramite e-mail: neppure una donna innamora-ta mi ha mai inseguito in questo modo! Con tanta tigna ha voluto questoincontro e quindi lo ringrazio.

Lavorando io in Rai e facendo l’autore televisivo per guadagnarmi il pane eper fare anche tutto il resto, mi stavo chiedendo come mai oggi, venerdì, aquest’ora della sera, con tutto il ben di Dio che Rai e Mediaset (oppureRaiset, visto che siamo diventati tutti una famiglia!) hanno preparato per voi,come mai delle persone, madri e padri di famiglia, giovani, si ritrovano qua aparlare, a ragionare e a discutere di Africa. Questo davvero ogni volta mi col-pisce, perché i tempi che viviamo sono quelli che sapete; sono i tempi deimezzi di “distrazione di massa”. Ora quando si sente questa espressione,mezzi di “distrazione di massa”, uno pensa all’uso che abbiamo imparatosemanticamente della parola “distrazione” che sta per divertimento. L’anticaromano, “panem et circensem”; in qualche modo siamo tornati ai quei tempilà. E invece no, distrazione proprio nel senso letterale della parola latina,“trarre accanto”. Mezzi di distrazione di massa che traggano accanto all’es-senziale, accanto alle cose che toccano la vita delle persone, la vita di interecomunità: e allora non so se avete visto il grande dibattito che c’è in Rai ades-so, se il programma della Antonella Clerici “Il Ristorante” debba fermarsi oandare avanti: i programmi della Ventura, di Bonolis e così via dicendo. Learmi di distrazione di massa. Una congiura organizzata per trarre la massaaccanto all’essenziale, fuori dall’essenziale. Quindi mi intriga, mi inquietaanche un po’ la vostra presenza qui, stasera. Dovevate essere altrove! Speroche nel dibattito mi darete le ragioni e le motivazioni del vostro esservidistratti da questo ben di Dio creato da Mediaset e da Rai.

Vogliamo parlare di Africa. Non è semplice parlare di Africa e di tutte le que-stioni che Luigino ha prima sollevato. Vorrei cominciare parlando del rapportotra l’Africa e l’Europa. La mia impressione – ma non è solo un’impressione – èche per l’Europa, l’Africa è ancora una volta quella che si vede camminando

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tra il Colosseo e l’altare della Patria o ai Fori Imperiali. L’Africa dell’hic suntleones, l’Africa della terra incognita. Si conosce l’Asia Minore o Superiore, siconosce l’Africa settentrionale, (l’Africa europea dicono alcuni storici: laCirenaica, la Tripolitania e così via dicendo). Sotto il Sahara è l’hic sunt leo-nes, la terra incognita, quella terra che sappiamo che esiste ma di cui cono-sciamo poco. E quel poco che conosciamo ci inquieta. Un rapporto sempre traattrazione per l’ignoto ma anche di paura, come accade per tutte quelle coseche sono a noi ignote; una specie di contraddizione. Un rapporto strano questotra l’Africa e l’Europa, in cui ancora una volta gli Europei si sforzano di consi-derare le cose africane come cose a sé, come cose che in realtà non rientranonell’andamento del mondo e non partecipano della storia cosiddetta normale.È un po’ come se tutti voi aveste letto Hegel, quando dice, nel 1830, che inrealtà nella storia universale l’Africa non ha dato niente e che è il continentesenza storia. Non hanno dato niente all’umanità ‘sti negri, perché li dobbiamoinserire nella storia umana? Non hanno inventato la ruota, non hanno inventa-to la bussola. È il continente senza storia. Ciò che ci interessa dell’Africa èche lì accadono della cose che ci ricordano quello che noi eravamo nella bar-baria e quindi vi possiamo osservare l’uomo nella sua purezza selvaggia. Ilbarbaro per eccellenza. In Africa si sono spostati i confini delle barbarie. Per iGreci, i barbari erano i Macedoni. Per i Romani erano quelli che oggi chia-miamo i Laziali (i burini che vengono allo stadio Olimpico con la caciotta sottole ascelle e il trattore!). L’Africa rimane nell’immaginario collettivo ai marginidella storia del mondo e le cose che accadono laggiù noi non le possiamo capi-re. C’è come una specie di alone di inconoscibilità. Lì accadono delle cosestrane che noi razionali europei non possiamo capire. Una storia a sé.

Quindi la prima cosa che dobbiamo forse imparare stasera è di capire che inrealtà l’Africa fa parte della storia del mondo. Reinserire l’Africa nella storiadel mondo. Non c’è nulla di ciò che avviene oggi e di ciò che è avvenuto ieri inAfrica che non abbia rapporti con il resto del mondo, con voi, con la vostra vitadi tutti i giorni, con la vostra politica, la vostra economia, con la vostra cultura(e con la vostra presunta superiorità culturale). L’Africa è sempre stata nellastoria del mondo se è vero come è vero che l’uomo, inteso come nostra specie, ènato in questo continente. Anche Bossi e Calderoli possono rivendicare orgo-gliosamente origini africane, non so se lo sanno! Bisogna che qualcuno un gior-no glielo dica. Un’Africa da inserire con urgenza nella storia del mondo. Se noiparliamo del Congo, del Sudan, del Rwanda, attenzione a non dire guerre triba-li o guerre etniche. Stiamo parlando di guerre che sono anche vostre e sperostasera di riuscire a convincervi dei legami molteplici che ci sono tra quelleche voi chiamiate guerre etniche e la vostra vita, anche qui a Bastia (Bastia che

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è così piccola e già vi siete divisi in Bastia Nord e Bastia Sud, confondendo ilpovero Africano che viene da Roma e non sa dove uscire!). L’Africa come partedella storia del mondo e come parte delle scelte geopolitiche, economiche,delle scelte di civiltà che noi facciamo. Solo quattordici chilometri ci separanodall’Africa, lo stretto di Gibilterra. In realtà quei quattordici chilometri nonsono veri, perché Seuta – che è una città spagnola – è in realtà è una cittàmarocchina. Quindi è il continente più vicino a voi, è il continente gemellodell’Europa. Un’altra questione che possiamo dibattere stasera. Gli Stati Unitipossono ignorare l’Africa, geograficamente possono permetterselo: dubito cheGorge Bush sappia dove sia l’Africa, nonostante abbia una consigliera allasicurezza afro-americana, Coondoleza Rice. L’Europa non può permettersi que-sto lusso, è troppo vicina e ci sono legami storici, culturali, di dipendenza eco-nomica. Gli Europei devono interessarsi all’Africa, per tutti questi legami. Cosadifficile, perché se uno vuole far fare qualcosa ad un Europeo, deve fargli capi-re l’interesse che c’è a farla; perché l’Europeo capisce solo il linguaggio dell’in-teresse, del tornaconto. Ma che ci guadagno? Ebbene, 800 milioni di persone –che diventeranno un miliardo e passa tra dieci anni – alle porte dell’Europa, inquesto stato di sbandamento politico ed economico che descriveva primaLuigino, non sono nell’interesse dell’Europa. Quindi l’Europa deve muoversi, oper interesse e per etica. Temo che non avverrà mai per etica perché l’etica,così come le radici cristiane, servono solo per i discorsi e per i dibattiti a Portaa Porta. Ma quando l’Europa deve muoversi, conta solo il suo interesse. Siamoarrivati al punto in cui il buon Ciampi è arrivato ad ipotizzare la levata dell’em-bargo delle armi alla Cina perché c’è un interesse. De Gaulle diceva, parlandodella Francia: «La France n’a pas d’amis, elle n’a que des intérêts». Ebbenel’Europa non ha amici, l’Europa non ha valori, non ha principi; l’Europa capi-sce solo ed esclusivamente il linguaggio dell’interesse. È brutto dirlo, ma larealtà di oggi purtroppo è così. Avete avuto un anno fa un ministro degli esteri– seppure ad interim – che ha avuto il merito di parlare chiaro sotto questopunto di vista, dicendo che la politica estera italiana deve essere guidata dagliinteressi italiani e che le ambasciate italiane all’estero – e quindi anche inAfrica – devono diventare dei punti che incentivano il “Made in Italy”. Tuttinoi giornalisti ci siamo quindi sbizzarriti ad immaginare le ambasciate italianenel mondo con i salotti in cui sono appesi prosciutti oppure olio extravergine!Questo è commercio, non è politica estera: e un conto è il commercio, un contoè la politica estera. Un grande paese mediterraneo, come l’Italia, non si puòaccontentare di commerciare, deve avere una politica estera.

Abbiamo detto della necessità di reinserire l’Africa nella storia e dell’impor-tanza per l’Europa dell’Africa, il continente gemello. Terzo punto: le vicende

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africane toccano anche noi. 9 novembre 1989, caduta del muro di Berlino;l’Europa si ritira dallo scenario africano e investe verso il nuovo Eldorado,l’Europa dell’Est. È il momento che gli esperti definiscono “della solitudinegeopolitica africana”, perché con la guerra fredda – non per rimpiangere laguerra fredda – l’Africa ha avuto un suo ruolo negli equilibri geopolitica mon-diali, essendo uno dei teatri di scontro tra Est e Ovest. Alcuni di voi ricorde-ranno la guerra dell’Ogaden tra la Somalia e l’Etiopia o la guerra in Angolache è una parte rilevante della guerra fredda. Sul territorio angolano si sonocontrapposti il blocco occidentale e il blocco sovietico. L’MPELA, l’UNITA, ilFRELIMO, tutta questa gente si è schierata con i Sovietici; non certo perchéfolgorati sulla strada del marxismo-leninismo ma perché in quell’epoca in cuii Portoghesi – che facevano parte della Nato – occupavano l’Angola, nessunapotenza occidentale sosteneva i movimenti di liberazione angolani. Questihanno dovuto quindi scegliere il nemico delle potenze occidentali, come scel-ta obbligata. Ricordate la guerra in Mozambico e tante altri conflitti del perio-do della guerra fredda. Con la caduta del muro di Berlino, l’Africa ha persoanche questa sua rendita geopolitica. Gli Europei si sono ritirati, gli investi-menti sono cessati drasticamente dell’80% e si sono spostati, sia quelli privatiche quelli pubblici, nell’Europa dell’Est. È il momento della solitudine geo-politica africana, segnata dalla guerra della Somalia. La ritirata degliAmericani dalla Somalia e di tutte le altre potenze europee segna simbolica-mente il ritiro della politica occidentale dall’Africa, proprio quando GorgeBush I – non Gerge Bush II la vendetta!, non so se avete notato che ci stannopreparando un terzo Bush: Colin Powell è andato nel sud-est asiatico accom-pagnato dal fratello di Bush. Stanno cominciando a presentarlo a livello inter-nazionale e forse ci ritroveremo, come tutte le serie cinematografiche ameri-cane, Bush 1, Bush 2 e Bush 3! – prometteva il nuovo ordine mondiale. Conla fine dell’operazione in Somalia, abbiamo assistito alla ritirata simbolicadell’Occidente dall’Africa, apparentemente disinteressandosene. In realtà nonè stato così. Al posto degli equilibri della guerra fredda, l’Africa è diventata illaboratorio più interessante di quello che Ignazio Ramon, direttore de “Lemonde diplomatique” chiama la geopolitica del cinismo (o anche la geopoliti-ca del caos). L’Africa non è più una posta in gioco geopolitica per i motividella guerra fredda e delle contrapposizioni tra Est e Ovest. Che cosa è diven-tata allora l’Africa? Abbiamo detto che gli investimenti sono statti ritirati, chela cooperazione non c’è più, che la crisi del debito sta attanagliando questipaesi e che è cominciata la geopolitica del cinismo. Cerchiamo di delineare iconnotati di questa geopolitica del cinismo. A confrontarsi in Africa non sonopiù le ideologie, non è l’Est o l’Ovest che si combattono; a confrontarsi sonosolo e semplicemente i corposi interessi materiali legati alle multinazionali. Il

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territorio africano viene in qualche modo depotenziato dal punto di vista dellacapacità degli stati e dei governi di controllare il territorio, la crisi del debitomette in ginocchio il continente e fa si che i governi – che erano governi ditta-toriali, però avevano una certa legittimità e comunque avevano la capacità diassicurare un minimo di rete scolastica, un minimo di rete sanitaria, un mini-mo di infrastrutture e un minimo di garanzia dell’ordine – non riescano più adavere il controllo di queste cose. Gli stati si sfaldano o li fanno sfaldare, attra-verso la Banca Mondiale e Il Fondo Monetario Internazionale che svuotanoqueste nazioni di tutta la loro forza, attraverso le privatizzazioni. Lo stato cen-trale non controlla più la periferia e diventa, come lo hanno definito alcunianalisti, lo “stato nullo”, lo stato che non c’è più. E quando non c’è più lostato, incominciano a nascere in alcuni territori i signori della guerra che con-trollano, per conto terzi, quei territori. Se io ad esempio sono originario di unazona dove ci sono i diamanti, allora mi faccio finanziare dalla De Beers – cheè la prima esportatrice di diamanti del mondo – prendo le armi, le do a qual-che giovane ed io e la De Beers sfruttiamo il diamante direttamente, senzapassare per lo stato centrale. Chi sta nella zona dove c’è il legname fa altret-tanto, chi sta nella zona dove c’è il petrolio fa altrettanto, come la Elf o laShell e così via dicendo. Nell’analisi geopolitica, questa cosa si chiama la“somalizzazione” di un territorio: le multinazionali non passano più attraversonegoziati con i governi ma hanno direttamente accesso alle materie prime. Iprimi territori a sperimentare questa geopolitica del cinismo sono stati laSierra Leone e la Liberia che hanno come prodotti essenziali il legname e ildiamante (anche se adesso si è scoperto anche il petrolio). La geopolitica delcinismo che ribadisce che l’Africa, dal ’500 a oggi, non è altro che un grandeserbatoio di materie prime. Nella divisione internazionale del lavoro, finoadesso all’Africa resta questo triste compito di fungere da grande serbatoio dimaterie prime. Materie prime che prima venivano negoziate con i governimentre oggi basta rifornire di armi un signore qualunque in modo che crei unpiccolo esercito di ribelli. Materie prime scambiate con armi e anche condroga. Armi, materie prime, droga, una specie di trittico, drammatico, delleguerre in Africa. E allora diventa difficile anche fare un negoziato di pace. Seprima i soggetti e i protagonisti della guerra erano l’URSS o gli Stati Uniti,oggi non sono visibili. Inoltre questi signori della guerra non sono credibili,alcuni di loro sono semi-analfabeti. Non sono loro i protagonisti. Dietro questeguerre ci sono dei signori rispettabilissimi: De Beers ha gli uffici a Londra,andate a vedere che uffici che ha la De Beers, primo produttore di diamantinel mondo. Diamanti insanguinati, insanguinati per decenni, provenientidalla Sierra Leone, dalla Liberia, dall’Angola (nelle zone controllatedall’Unita), dal Congo Democratico. Questi signori si chiamano Elf, che ades-

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so si è allargata perché ha assorbito anche Total-Fina e dietro alla quale c’e-rano pure il figlio di Mitterand e attuali collaboratori di Jacques Chirac. Elfche non ha esitato a scatenare una guerra in Congo-Brazzaville o che hasostenuto la guerra in Angola. E dietro la Elf c’è anche la nostra brava Agip,questo neutrale, quasi simpatico dragone nero su sfondo giallo. L’Agip è pre-sente in tutte quelle zone e lì fa i suoi giochi. Ricordatevi come nel delta delNiger, nel 1993, il poeta Ken Saro-Wira venne impiccato insieme ad altrinove attivisti. Che delitto avrà mai commesso, Ken Saro-Wira il poeta? Quellodi aver chiesto che il popolo Ogoni – che vive nel delta del Niger – potessevivere sulla sua terra senza che l’olio della produzione petrolifera invadesse icampi o senza che i pesci del fiume morissero perché soffocati dalle macchied’olio. Per avere chiesto questo, Ken Saro-Wira è stato impiccato con novesuoi compagni a Lagos. Nemmeno per un giorno si è fermato il pompaggiodell’olio in Nigeria. E subito dopo la Shell, la presenza più importante neldelta del Niger è quella dell’Agip. Altro che Enrico Mattei, altro che l’Agipbuona! Questi signori si chiamano Sabena – la compagnia aerea belga – cheha trasportato per anni quel prodotto che si chiama coltan dalla zona delCongo. Quando ero piccolo, sapevamo di tutti questi traffici e di gente cheandava a cercare fortuna per i diamanti, il mercurio o l’uranio (che nel Congoè sfruttato fin dalla seconda guerra mondiale: l’uranio delle bombe atomichecadute su Hiroshima e Nagasaki proveniva proprio da lì). Oggi scopriamo chec’è un prodotto stranissimo, con il quale, quando eravamo piccoli, ci giocava-mo e a cui nessuno dava importanza. Il coltan, nome scientifico colombotanta-lite. Il coltan serve per fabbricare i cellulari. Quindi non solo diamanti insan-guinati ma anche cellulari insanguinati. Il coltan rientra inoltre anche nellacomponentistica dei computer e in quella degli aerei. Quindi tre settori chia-ve della new-economy come l’informatica, la telefonia mobile e l’aereospazia-le, non possono funzionare senza la colombotantalite. Ebbene, per sfruttare ilcoltan, le multinazionali europee non hanno esitato a camminare sui cadaveridi quattro milioni di Congolesi, morti in 6-7 anni. Avete mai sentito parlaredei 4 milioni di morti in Congo?

Guerra etnica, si è detto. In uno dei miei scritti, ho detto che ormai tuttiabbiamo imparato a conoscere questa espressione, la “guerra etnica”, e checome giornalista non posso sostituirla con una nuova, perché prima che lagente ci si abitui dovrebbe passare tanto tempo. Ma, se vogliamo parlare diguerra etnica, allarghiamo però la schiera di coloro che possono far partedelle etnie. La parola guerra etnica può avere senso solo se anche la Sabena,anche l’Agip, anche la De Beers, diventano delle etnie, delle mega etnia.Allora sì che sono guerre etniche! Non so se rendo l’idea. Ogni volta che apri-

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te la Repubblica o il Corriere e vedete questi diamanti che brillano, ricordate-vi che dietro c’è non solo il lavoro di ragazzini di dieci anni – che passanoquattordici ore al giorno con i piedi dentro il fiume a setacciare il fiume allaricerca dei diamanti – ma anche che quel diamante – un segno d’amore, comedice una pubblicità famosa! Un diamante è per sempre – è insanguinato.Abbiamo fatto una prova – rischiando anche parecchio – io, Alberizi delCorriere della Sera e Pietro Veronesi di Repubblica. Abbiamo comprato deidiamanti in una zona di guerra del Congo, quando era uscito il trattato inter-nazionale in cui le compagnie si impegnavano a non comprare diamanti dallazona di guerra. Siamo andati ad Anversa, in Belgio, a vendere queste pietre.Appena le hanno viste e hanno saputo subito da dove veniva il diamante –perché i diamanti non sono tutti uguali – l’hanno comprato e ci hanno chiesto,quasi pregandoci in ginocchio, se avevamo solo quello o se ne avevamo anchealtri.

E in questo modo stiamo vivendo anche le guerre nel Congo, nella SierraLeone, nella Liberia; e pure la guerra che stanno combattendo oggi nelDarfur, visto che c’è anche nel titolo. Il Darfur è una zona grandissima, all’o-vest del Sudan e in questo territorio 70000 persone sono già morte e 2 milionisono state sfollate (con un numero imprecisato, forse 250000, nel Ciad: anchese non si può essere sicuri, perché le etnie sono parenti, per cui alcuni nonvanno nei campi a farsi registrare). Lo stesso Sudan che fino a ieri era classi-ficato come uno degli stati canaglia: vi ricordate gli stati canaglia? In uno deidiscorsi sullo Stato dell’Unione, Bush ha usato questo nome di stati canaglia eil Sudan è stato il primo ad essere citato. E questo per un motivo semplicissi-mo: Osama Bin Laden ha vissuto a lungo a Karthoum in Sudan. GliAmericani che all’epoca bombardarono Karthoum oggi sono invece diventati ipiù grandi sponsor dell’accordo di pace tra il governo islamico di Karthoum eil sud. Per quale motivo c’è stata questa improvvisa folgorazione pacifica deldipartimento di stato? Il Sudan è emblematico della geopolitica del cinismo edella geopolitica del caos. Questo paese si è scoperto improvvisamente – maforse qualcuno lo sapeva già – pieno di petrolio e per questo motivo sta diven-tando una posta in gioco geopolitica ed economica importante, non solo pergli Americani. Che cosa fanno gli Americani, che cosa fanno le grandi poten-ze? Quando la guerra comincia a toccare i loro interessi, a lambire i loro inte-ressi, la fermano. Gli Stati Uniti hanno sponsorizzato la fine della guerra inSudan, per poter sfruttare gli immensi giacimenti di petrolio del Sudan. Peròattenzione, qui non ci sono solo gli Americani. Al petrolio del Sudan è inte-ressato anche la Cina. La Cina ha importato dal Sudan 110 milioni di tonnel-late di greggio con un aumento del 21% rispetto all’anno precedente. E la

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China National Petroleum Corporation (CNPC) è il principale partner delgoverno islamista di Karthoum per lo sfruttamento del petrolio. Quindi altroche diritti umani, altro che bene della popolazione, lì è solo business.

Era palese che in Sudan – lo hanno detto Human Rights, Mèdecins SansFrontières, Amnesty International, lo hanno detto tutti i giornalisti che sonoandati nel Darfur – si stava consumando un genocidio. E la carta internazio-nale dell’ONU dice che, quando si osserva che c’è un genocidio, l’ONU deveintervenire. Ma per negare il genocidio sono state usate tante diverse espres-sioni: chi ha detto eccidi di massi, chi massacri etnici, tutto per non pronun-ciare la parola “genocidio”. La carta dell’ONU definisce come genocidio qua-lunque degli atti di seguito elencati commessi con l’intenzione di distruggeredel tutto o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, raziale o religioso, inquanto tale: il massacro dei membri di un gruppo, l’attentato grave all’inte-grità fisica o mentale di un gruppo, la sottomissione intenzionale di un grup-po, etc. etc. Ora tutto quello che è avvenuto in Sudan si configurava come un genocidio.Invece, che cosa ha detto Kofi Annan? Kofi Annan ha detto: «Perché pronun-ciare questo nome, quando la comunità internazionale non è pronta ad inter-venire come esigerebbe la convenzione?». La parola non si pronuncia e senon si pronuncia non si fa niente. Chi si è opposto alle sanzioni contro ilSudan, al Consiglio di Sicurezza? Gli Stati Uniti erano pronti a delle sanzioni,perché la lobby afro-americana spingeva perché le sanzioni avvenissero. Chisi è opposto invece? La Cina, ha minacciato di esercitare il diritto di veto sefosse passata questa sanzione; l’Algeria, in nome della solidarietà araba (per-ché il governo di Karthoum è un governo arabo e mussulmano che sta massa-crando dei “negri” ed è sostenuto dalla lega araba, il cui portavoce si èdichiarato assolutamente contrario a sanzioni contro il Sudan); la Spagna, cheha degli interessi molto forti in Sudan e che per bocca del suo ministro degliesteri ha annunciato – proprio alla vigilia del voto al consiglio di sicurezza –la sua intenzione di riaprire la sua ambasciata a Karthoum. E l’Italia che cosaha fatto? L’Italia è stata tra i primi paesi ad andare in Sudan, avendo mandatonel Darfur il sottosegretario Margherita Boniver a fare una missione. Dopo diche veniamo a sapere che la joint-venture italo-britannica Alenia-MarconiSystem fornisce al governo sudanese sistemi radar per il controllo del trafficoaereo. Quattro milioni di dollari solo nel 2002, apparecchiature da 22 milionidi euro installati negli aeroporti – anche in quelli militari – secondo datidell’Istat (quindi non sono dati di Rifondazione, non sono dati comunisti!).Secondo dati dell’Istat sul commercio estero, l’Italia ha acquistato tra il 1999e il 2003 petrolio da Karthoum per oltre 144 milioni di euro; 24 milioni nel

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1999, 14 milioni nel 2000, 13 milioni nel 2001, 54 milioni nel 2002 e 37milioni nel 2003.Un’altra questione: gli aiuti umanitari. Di che cosa parliamo quando diciamodi mandare gli aiuti? Gli Africani sono stufi degli aiuti umanitari, basta aiutiumanitari. Soprattutto quando questi sono portati da pompieri che abitano lastessa casa dei piromani. Forse la cosa più utile che gli Africani possonochiedervi non è tanto di venire a fare i pompieri ma quello di combattere acasa vostra i piromani. È l’aiuto più grande che potete fare all’Africa.Smettete di venire a fare i pompieri. Voi dite: ma è il nostro spirito cristiano –visto che le radici cristiane sono diventate di moda. Pure Ferrara ha scopertole sue radici cristiane, che saranno belle grosse! Sono tuberi le radici cristia-ne di Ferrara! – è la nostra indole, la nostra solidarietà e buon cuore, andaread aiutare gli altri fa parte delle nostre radici cristiane. Voi dite che è lanostra indole. Noi vi chiediamo invece di non venire ad aiutarci ma di agire incasa vostra. I problemi dell’Africa non sono problemi dell’umanitario ma discelte politiche e di indirizzo economico. Finché non capiremo questo, l’aiutopotrà essere infinito e non basterà mai. Dobbiamo andare alla radici, ai nodi,alle strutture del peccato. Questa parola non è mia ma è del Pontefice. In unodei rari momenti di ispirazione in cui lo Spirito Santo passa ogni tanto aRoma, il Papa – trattando della globalizzazione in una delle sue encicliche –ha parlato di strutture di peccato. Basta quindi con l’aiuto, affrontiamo vera-mente i problemi. Mi fa male al cuore che una persona sensibile comeVeltroni, che si è fatto il giro dell’Africa e che ha visto quello che ha visto, neltornare a Roma, scrive un librettino dal titolo “Forse Dio è malato” – non sose l’avete visto in giro. Stendiamo un velo pietoso, se qualcuno l’ha vistonascondetelo perché non fa onore al nostro sindaco e neanche al suo partito! –e si limita a fare la proposta dei pozzi in Monzambico. Forse servono anche ipozzi in Mozambico, ma il segretario di un grande partito della sinistra – vicepresidente dell’internazionale socialista nel momento di quel viaggio – nonpuò fare quel viaggio e poi non fare una proposta politica su grandi nodi qualil’organizzazione mondiale del commercio, la questione del debito, quella delbrevetto, la questione della privatizzazione dell’acqua. Sono problemi politicidi cui noi Africani non abbiamo le chiavi; le chiavi stanno qui a Roma, aParigi, a Bruxelles. Basta con gli aiuti, non ce la facciamo più!

Abbiamo un po’ l’impressione di rivivere il ’500 quando chi ci veniva a bat-tezzare e chi ci veniva a colonizzare arrivavano dalla stessa nave e parlavanola stessa lingua. Di questo bisogna parlare, le guerre non sono etniche masono causate da questi problemi. Così avviene nella guerra in Congo o inquella in Sudan oppure in un’altra guerra, quella in Costa d’Avorio. Sulla

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Costa d’Avorio ho scritto recentemente un articolo per la rivista del gruppoAbele, intitolato “Narcomafie, il cioccolato insanguinato”. Vi vedo là tuttipesanti di torrone, panettone, non negate eh?! Ebbene il primo paese produt-tore di cacao al mondo, la Costa d’Avorio, sta vivendo una crisi incredibile,una guerra incredibile. C’è anche un giornalista ivoriano piuttosto famoso quiin Umbria, fa questo programma “Nero su bianco”, Laurent De Bai. In Costad’Avorio la posta in gioco non sono le rivalità etniche, ma gli interessi econo-mici. C’è la Francia che non vuole cedere il potere nel golfo di Guinea, unazona che molti in geopolitica chiamano “l’altro golfo”. Cosa sta avvenendo nelgolfo di Guinea? Sta avvenendo che il Medio Oriente è entrato in una crisiprofondissima che – forse voi non ve ne rendete conto – vi sta facendorischiare di avere il tracollo negli approvvigionamenti di petrolio e di gasnaturale. Il Medio Oriente è messo molto male. E l’Iraq non è che il primopunto. C’è l’Arabia Saudita che sta lì lì per scoppiare; nei piani degliAmericani, si pensava che la crisi dell’Arabia Saudita sarebbe venuta primadell’Iraq (in previsione della crisi in Arabia Saudita, hanno intanto deciso diprendersi l’Iraq). Quindi la crisi del Medio Oriente. Ciascuno naturalmentecorre ai ripari. E quali sono le alternative? Le alternative sono innanzitutto ilMar Nero e il Caucaso che ha delle riverse di petrolio e di gas naturale moltopiù importanti di quelle del Medio Oriente. Questo è il motivo per cui gliAmericani spingono per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, perchéattraverso la Turchia può passare il petrolio e il gas di queste zone. Anche ilvostro ministro degli esteri – questa volta senza bandana! – è stato uno deigrandi avvocati della causa della Turchia. Anche lì però il disordine è taleche queste risorse non sono sfruttabili a breve. Occorreranno almeno 10-15anni per pacificare la Cecenia, l’Abchasia, il Kazakistan, il Kirzighistan: tuttiquesti nomi a voi forse non dicono niente ma domani il vostro approvvigiona-mento in petrolio e gas naturali dipenderà da questi paesi. Tutti cercanocomunque di trovare degli approvvigionamenti alternativi: il Venenzuela o laLibia per esempio. Il presidente del Consiglio è andato ad inaugurare unapipeline che deve portare il gas dalla Libia alla Sicilia, arrivando fino a defi-nire Gheddafi un campione della libertà. Cosa non si fa per un po’ di petrolio!In questo contesto anche il petrolio africano diventa appetibile (quando parlodi petrolio africano parlo di quei paesi che vanno dalla Sierra leone giù giùfino all’Angola). Gli Stati Uniti hanno già chiesto e ottenuto di installare dellebasi militari a Sao Tomè e Principe che è una piccola isola al largo dellaGuinea Equatoriale. Da lì possono controllare l’Angola, il Gabon, il Congo-Brazzaville, la Nigeria e il Camerun che da soli fanno il 70% della produzionepetrolifera africana. Nella ridefinizione delle politiche strategiche fatta nel2000 degli Stati Unità, l’Africa ne diventa una priorità strategica. Da qui al

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2015, gli USA vogliono importare almeno il 30% del loro fabbisogno petroli-fero dall’Africa. La posta in gioco in quella zona è altissima. Per darvi un’ideadel futuro petrolifero dell’Africa, nel 2008 l’Angola produrrà più petrolio delKuwait. Questo significa che la geopolitica del cinismo è solo all’inizio, leguerre sono solo all’inizio, le sofferenze per le persone sono solo all’inizio. E iFrancesi – che sono già ben radicati in quel territorio – non intendono lascia-re campo libero agli Americani. Anche la guerra in Costa d’Avorio, come lo èstato la guerra in Angola, è da leggere in questa ottica. Altro che guerra etni-ca! Qual è il prezzo che i popoli ricchi sono pronti a far pagare agli altri pur diapprovvigionarsi di benzina, di diamanti, di oro, di uranio? Bastano un milio-ne di morti o ne servono due, tre o quattro? Su quanti cadaveri le multinazio-nali sono pronte a camminare pur di avere accesso alle materie prime?

In tutta questa situazione, concludo parlando del popolo africano; vittimadegli interessi esterni e vittima della sua classe politica, la quale non altroche un gruppo di potere che gestisce per conto terzi le ricchezze di questipaesi. Come durante la schiavitù quando non erano i negrieri che andavanoall’interno delle terre a catturare gli schiavi bensì i re della costa a cui venivadato questo incarico, allo stesso modo oggi i governi africani non sono altroche i mandatari di questi interessi extra-africani. A me fa ridere quando ciparlano male della nostra classe politica; nessuno dei grandi dittatori cheabbiamo avuto avrebbe potuto restare anche solo un’ora al potere senza l’ap-poggio politico, economico e finanziario di cui ha goduto all’estero. Non so sevi ricordate Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Zabanga, tale era il suonome durante il suo impero! Prima si chiamava Joseph-Désiré Mobuto, poi hadeciso di dire basta ai nomi occidentali, basta con la cravatta, etc; torniamoall’autenticità, da oggi in poi mi chiamo Mobutu Sese Seko Kuku NgbenduWa Zabanga. E tutti i giornali, radio, televisioni dovevano pronunciare ilnome sempre per intero. Siccome più della metà del telegiornale raccontava isuoi fatti, solo la pronuncia del nome prendeva un terzo del telegiornale!Rendendosi conto del ridicolo, Mobuto a metà degli anni ’80 dice: «Beh, sonoal potere da più di vent’anni, da ora in poi sono il papà di tutti gli Zairesi,chiamatemi pure papà» e quindi nel telegiornale: «Stamattina papà ha rice-vuto il presidente…». «Domani papà e mamma si recheranno in visita…».Voi ridete ma è così. Nella sigla del telegiornale c’erano delle grosse nuvolebianche con un puntino nero; poi le nuvole scendevano e mano a mano chescendevano compariva il faccione di Mobuto. Non ridete tanto perché l’ariache si tira qui non è poi così lontana! A parte questi fatti anedottici, quest’uo-mo è stato un dramma per l’Africa. È riuscito a rendere povero uno dei paesipiù ricchi del mondo – non solo dell’Africa – lo Zaire. Ha creato questa spe-

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cie di “cleptocrazia” durata 30 anni. Ebbene, per questo signore, la Franciaha mandato tre volte dei contingenti in Congo ogni volta che il potere diMobuto era minacciato. Ricordatevi le tre guerre di Kolwezi. Un personaggio,Mobuto, che veniva ricevuto in pompa magna in tutte le cancellerie occiden-tali. E quindi che cosa possono fare i popoli in Africa in mezzo a tutto questomarasma?

Un invito che vi vorrei fare in questo incontro è di sforzarvi di leggere la sto-ria, il presente, il futuro dell’Africa non solo attraverso i vari Mobuto ma sfor-zarvi anche di vedere l’altra parte; il popolo, la gente. Ecco perché quandol’editore, quando ha ricevuto il mio manoscritto, ha detto di intitolarlo “Ilsogno tradito” (questo era il titolo che aveva proposto, padre Ottavio). Ma ilsogno tradito sarebbe stato guardare le cose solo al negativo: e infatti tuttoquello che vi ho detto adesso è molto negativo, non potrebbe essere altrimen-ti. Vi ho solo raccontato quello che sta avvenendo. Questa è la fotografiadell’Africa. Se però noi ci sforziamo di andare oltre la fotografia e facciamo laradiografia delle società africane, voi troverete che ci sono motivi per nonessere così pessimisti. La capacità del popolo africano di resistere, di attac-carsi alla vita nonostante tutto dica morte, pandemie, Aids, crisi del debito,disoccupazione, inflazione – che raggiunge in certi paesi il 100% – mancanzadi ospedali. Ebbene questo popolo resiste, sorride alla vita e si inventa unpresente fatto di cose semplici. Se volete capire cosa voglio dire, andate a leg-gere Serge Latouche, “L’altra Africa”. L’Africa dell’informale, dei contadiniche si organizzano; l’Africa che sta riscoprendo i saperi tradizionali, sia nellamedicina che nelle piccole tecnologie, l’Africa delle donne, che sono unaforza della natura incredibile. Lo vedo nella mia famiglia, mia nonna, miamadre; donne che hanno conosciuto tragedie che se ve le raccontassi stasera,solo a sentirle vi sentite male. E che invece stanno in piedi, ogni giorno, sialzano, resistono, creano legami di solidarietà tra di loro. Vi racconto soloquesto: finita la guerra in Congo, non sapevo se mia mamma fosse viva oppuremorta ma alla fine riesco ad avere notizie. E mamma mi dice: «La nostra casaè distrutta, ma…» «Però voi siete vivi, va bene ricominciamo». Le mando unpo’ di soldi attraverso quei ladri organizzati della Western Union (è l’unicocanale che abbiamo per mandare i soldi in paese. Prendono il 14% sui soldiversati, però con la garanzia che se mamma mi chiama stasera e ha un proble-ma, io mando i soldi e nel giro di trenta minuti lei li può andare a prendere).Le mando dunque questi soldi. Passa un giorno, passano due giorni e la chia-mo per sapere se li ha ricevuti. E lei mi risponde ridendo: «Non solo li horicevuti, ma ho chiamato le mie amiche e abbiamo mangiato e bevuto conquesti soldi!». Lì per lì una cosa di questo genere la potrebbe prendere male,

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ma riflettendoci mi sono detto che i miei soldi oggi arrivano e domani nonpossono arrivare; in questo lei invece ha fatto un investimento sociale, hafatto un investimento relazionale. I miei soldi non ci sono sempre, ma le sueamiche ci saranno sempre e lei sa che potrà sempre in ogni momento contaresulla solidarietà di queste sue amiche. Ecco, questa è l’Africa dell’economiainformale; che non monetizza tutto ma che gioca sulla riattivazione di valoriche l’economia ufficiale e la mercatizzazione hanno espulso. Quell’Africa cheriesce a non trasformare le relazioni sociali in relazioni economiche comepurtroppo ha fatto invece l’Europa che è diventata una società di mercato. El’economia informale si ferma laddove il profitto diventa prevalente. QuestaAfrica che sta lì e che resiste, a mio avviso può essere il volano da utilizzareper risolvere tutti i drammi che vi ho raccontato. Quindi, ripartire dall’Africa.Io vi faccio una confessione, io sono nato attorno agli anni ’60 ed sono statouno di quelli che veniva mandato in Europa – a studiare nei collegi dei gesui-ti – con la missione ossessiva di andare a rubare il segreto della potenza euro-pea. Come dice il romanziere senegalese Cheikh Hamidou Kane nel libro“L’ambigua avventura”, “andate dagli europei a imparare l’arte di vinceresenza avere ragione”: arte nella quale siete insuperabili! Oramai sono passatimolti anni ma più vivo qua e più vado in Africa (e sempre più spesso ci vado),sto scoprendo che quel segreto che cercavamo in Europa sta ancora giù; nellasaggezza di questi anziani, nella capacità di resistenza di queste mamme. Epiù la globalizzazione mostra i suoi volti più cattivi, più mi dico che bisognascavare in Africa e non in Europa se vogliamo trovare la chiave per la soluzio-ne dei nostri problemi. Che cosa ci manca? Ci manca una classe dirigente cheabbia quelle caratteristiche che Gramsci delineava (si può ancora accettareGramsci?); mancano gli intellettuali organici, perché la scuola africana, nelmomento in cui noi mettiamo piede a scuola, comincia il cammino di allonta-namento dalla nostra società e dai nostri popoli. E più dura la nostra presenzae più si allunga la distanza tra noi e le istanze profonde di questi popoli.Quando poi torniamo, dopo 20-25 anni, e tentiamo di imporre a quei popolisoluzioni apprese altrove, lì nasce il corto circuito. Quindi un nostro vero pro-blema è trovare degli intellettuali obbedienti – nel senso latino di “ab-audiens” – che siano in ascolto dei loro popoli, che prendano queste aspira-zioni e le traducano in progetti politici. Se questo non avverrà, se continueràquesto corto circuito, l’Africa dell’informale e l’Africa ufficiale continuerannoa camminare per strade parallele. Mi consola il fatto che il problema di trova-re una classe politica adeguata, obbediente, organica, non è solo un problemaafricano! Grazie.

Gli ospiti rispondono alle domande e agli interventi del pubblico

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Nota Per problemi con l’impianto di registrazione, non è stato possibile riporta-re tutte le domande e gli interventi posti dal pubblico nonché alcune parti dellerisposte di Jean Leonard Touadi

Primo intervento pubblico La prima cosa che volevo dire è dare una risposta a quella domanda che ci erastata fatta all’inizio, sul perché eravamo qua stasera. Io sono qua stasera perchémio padre mi diceva sempre una cosa, che non dovevo fare agli altri ciò chenon mi piaceva fosse fatto a me. E da questo pensiero semplice, cerco di capirequello che succede ora in Africa e che poi probabilmente – non so cosa ciriserverà il futuro – può succedere benissimo anche in Italia. Un’altra cosa chevolevo chiedere: io faccio l’agricoltore e lavoro con molti immigrati di cui lamaggior parte sono africani. Lavoro in una azienda che fa tabacco e con lalegge della Comunità Europea che hanno approvato da poco, c’è la possibilitàdi fare il tabacco fino al 2006 dopodiché verranno dati incentivi per la suadismissione. Questo tabacco verrà fatto poi in Africa. Mi chiedo allora cheguerra si scatenerà in Africa per il tabacco visto che si sono scatenate guerreper tutto! Ho poi una curiosità. Molti degli operai che lavorano con me, soprat-tutto le donne, cambiano spesso nome. Mi sono ritrovato con queste ragazze cheprovenivano dall’Africa e che si chiamavano chi Natalina, chi Anna, chiRachele e ho chiesto il motivo di tutti questi nomi italiani. E loro mi hannorisposto che quando vengono in Italia, cambiano nome! Infine un’ultima cosasulla guerra da combattere a casa nostra. Lei faceva il discorso che in Africanon volete più gli aiuti umanitari ma volete essere lasciati in pace e inoltre hadetto che le guerre contro questi metodi di mercato devono essere combattuteall’interno dei propri paesi, quindi anche all’interno dell’Italia. L’ultima voltache è stato presentato un libro, quello su Ho Chi Min, un compagno raccontavache una volta una delegazione italiana del PC – tra cui anche Occhetto – eraandata da lui e che gli fu fatta la seguente domanda: «Come noi comunisti ita-liani possiamo venirvi a dare una mano?» e Ho Chi Min rispose, molto tran-quillamente: «Combattendo la nostra guerra all’interno del vostro paese».

Secondo intervento pubblico Volevo rispondere a quell’inquietudine che all’inizio ci avevi detto, l’inquietu-dine mia ma che forse riguarda tutto il genere umano. L’Africa ci inquietaperché forse è quella zona dove un tempo lontano c’era l’Eden. Ma siccomesiamo stati cacciati a calci in culo, forse ci ricordiamo questa inquietudine! Epoi, volendo ricordare alcuni concetti di Jung come quello di ombra, voi sietela nostra ombra: ombra non nel senso negativo del termine, perché poi le duecose stanno insieme e non sono separate. È la nostra coscienza, è la nostra

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anima: non per niente, l’animismo è di casa in Africa. Molto spesso il nostroCattolicesimo e le religioni ci fanno perdere il contatto con la nostra propriaanima. Io personalmente sono sempre stato attratto dall’Africa, mi affascinadell’Africa il mistero. Spesso parlando dei paesi dell’Asia e dell’India si diceche quei popoli o si amano o non si amano. Io credo che con l’Africa noncapiti questa cosa, ma si viene sempre affascinati.

Un’altra cosa su cui mi veniva da riflettere era che tutti si preoccupano, alivello mondiale, della Cina che comincia ad essere determinante nei consu-mi a livello internazionale. Si tralasciano però i veri problemi che sono anchei problemi dell’Africa. Quello di cui sono convinto e di cui cerco di convince-re gli altri è che, per risolvere tali problemi, bisogna iniziare ad essere essen-ziali nella vita, essenziali nel mangiare, essenziali nel comprare, essenziali intutto. E già la scelta di cercare di fare delle scelte dove si fa attenzione aquello che si acquista, da dove arriva, come si fa, non basta più. Va bene ilcommercio equo e solidale, ma non basta. Bisogna invece ridursi al minimo.

Luigino Ciotti Per chi vuole approfondire le questioni dell’Africa, vi ricordo che c’è la rivistadei Comboniani, Nigrizia, che è fatta molto bene. E poi ci sono un paio di siti,www.chiamafrica.it e www.misna.org che sono altrettanto importanti. Visegnalo poi che la Caritas locale ha prodotto recentemente un video suKasumo, dove hanno costruito due scuole anche grazie al contributo di diversiBastioli.

Terzo intervento pubblico Erri di Luca, qualche tempo fa, su un articolo di Liberazione molto interes-sante che riguardava la questione degli emigranti, parlando come se fosse unemigrante e non un cittadino italiano, diceva: «Noi siamo i piedi del mondo,siamo quelli che fanno i chilometri per arrivare nel posto dove serviamo almomento». In Africa – e non solo – è comunque aumentato il flusso delle gio-vani generazioni che spesso non hanno speranza e rivolgono la loro speranzaverso l’“amica” Europa. Mi chiedo allora se la domanda di questi giovani èdirettamente proporzionale al disinteresse dell’Europa e al cinismo della geo-politica o è soltanto – come dice qualcuno – la demografia in eccesso (fannotanti figli, l’economia è debole e si parte)? E questa bomba dell’immigrazioneche ci investirà indipendentemente dalle leggi che si possono fare in un paese(anche Roma fece delle legge che i Barbari non potevano entrare nell’impero.I barbari sono passati) è da valutare positivamente o invece ci creerà dei pro-blemi che dovremo affrontare in qualche modo?

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Jean Leonard Touadi Non comincerò dicendo che sarò breve perché significa che sarò lunghissimo!Però non darò risposte ai vostri interrogativi, mi angosciano come angoscianovoi. Mano a mano che vi ascoltavo mi veniva da rigirarvi a voi stessi ledomande che mi avete fatto…

Velocemente sul discorso degli agricoltori e del tabacco che si sposterà da quiall’Africa. Non ho informazioni precise a riguardo, so solo che gli agricoltoriafricani, così come quelli boliviani o colombiani, stanno cominciando a strap-pare dalla terra il caffè e il cacao per coltivare cose più redditizie, per coltiva-re quelle merci che l’Europa cerca e paga di più. E questo è drammatico, èuna cosa che non dovrebbe avvenire ma che invece sta già avvenendo. GliAfricani hanno capito quello che avevano capito gli Spagnoli all’epoca; cioèche – essendo il clima e la vegetazione simili in certe parti dell’Africa e dal-l’altra parte dell’Atlantico – certe piante, se crescono rigogliose in Bolivia e inColombia, allora crescono rigogliose anche nella foresta equatoriale delCentro Africa o del Congo. Ma questa roba non si consuma in Africa. E anchein questo caso si tratta di fare delle scelte. Che cosa preferite? Comprare ilcaffè o il cacao al giusto prezzo o vedere i vostri mercati inondati di droga?Scelte estremamente semplici. E la legge del mercato vuole che le personeproducano ciò che il mercato chiede. Non so se è la risposta alla tua doman-da, però sicuramente ci sono questi spostamenti…

Per quanto riguarda il cambio di nome, può essere anche un fatto culturale. Inomi africani sono nomi di circostanza. Solo adesso abbiamo imparato, con ildiritto coloniale, ad avere i nomi del papà. La persona nasceva e gli venivadato il nome a seconda della circostanza della sua nascita, a seconda delmomento che stava vivendo la famiglia; tanto è vero che mia moglie si divertemolto a chiamarmi con il cognome di mia mamma che si chiama “Base-biuna”, coloro che sanno mentire! Perché prima della nascita di mia madre,mia nonna aveva già avuto tre figlie (tre figlie erano quasi una sciagura!). Lasua famiglia incominciò a chiamarla “la donna sterile”. Quando poi è natamia madre, l’hanno chiamata “Basebiuna”, la vergogna delle bugie, ecco ènata. Però questo nome fa gioco a mia moglie per altri motivi! Quindi puòessere anche un fatto culturale, il non attaccarsi ai nomi perché i nomi cam-biano a seconda delle circostanze. Ma può essere una cosa ancora più brutta,forse più grave, che consiste nella difficoltà e nella fatica di dire agli altricome mi chiamo. Se vuoi entrare in contatto con me, devi imparare a direcome mi chiamo. Su questo spesso gli Italiani non si rendono conto, ma è undisagio sentire quando vai negli uffici: «Cheee???» «Mi chiamo Touadi…».

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Ci sono nomi più complicati di Touadi, pensate solo a Calderoli! Calderoli èpiù complicato di Touadi! Eppure… Questo fa sì che molti Africani voglianoabbreviare il momento dell’incontro interculturale offrendo agli Italiani unacosa facile e che dà loro meno noia. E questo è un fallimento, secondo il miopunto di vista, dei rapporti interculturali. Significa che una delle due parti siannulla per fare contenta l’altra. Questo è ciò che, da qualche anno a questaparte, mi sta un po’ costando l’amicizia con Magdi Hallam, un mio grandeamico. Lui dice che noi siamo i nuovi italiani, di pelle scura, con nomi diver-si, ma siamo la nuova Italia. L’Italia deve imparare a capire che non è fattasolo da persone bianche nate nel paese. La cittadinanza è un fatto di valori, diaccettazione, di regole comuni e non solo di biologia. Sono più Italiano io delpronipote di un Italiano che vive in Australia. Questo sicuramente. Però nelnostro essere Italiani, dobbiamo portare a questa nazione che ci ha accolto lospecifico di ciascuna delle nostre culture. Questo farà ricca l’Italia. Se noi ciaccontentiamo di servire al paese che ci accoglie ciò che vuole sentire, nonc’è lo scambio. È quello che rimprovero a Magdi Hallam, che spesso serveagli Italiani ciò che vogliono sentire. Mi dispiace per lui, ha fatto una brillan-te carriera, per noi è un onore che uno di noi sia diventato il vice direttore delCorriere della Sera; strappato da Repubblica a suon di miliardi, con un’ ope-razione tutta da capire su cosa è successo. Con questa specularità per cui sePisano dice una cosa, te lo ritrovi nell’articolo di Magdi Hallam il giornodopo. E poi quello che Magdi Hallam scrive, il ministro dell’interno la citatale e quale. Lui si è fatto una villa miliardaria, è ricco e sono contento perlui. Però la multiculturalità è qualcosa di diverso. È come nelle copie, comedire che noi andiamo d’accordo perché siamo uguali! Cretini, che cosa viscambiate?! Il profeta Kalil Jibram diceva: «Servitevi il vino l’un l’altro manon bevete dalla stessa coppa». Quindi questo cambio di nome – temo – siain qualche modo il fallimento del rapporto interculturale. Ribadisco alloral’importanza che voi ci aiutate a combattere qui da voi, che facciate la vostraparte di lotta qui. Anche noi Africani chiaramente dobbiamo fare la nostraparte, questo lo dico sempre. Ieri sera ero ad un dibattito a Milano sulla Costad’Avorio e ho detto a questi Africani (che si lamentavano con i francesi):«Attenzione, sono quarant’anni che siamo indipendenti, quanta fetta diresponsabilità abbiamo avuto? 50, 40, 30? 20, 10, 5%? Ma anche di questocinque, che cosa ne abbiamo fatto? Finché non sapremo render conto ai nostripopoli di che cosa abbiamo fatto di quel margine di autonomia che abbiamoavuto, le nostre grida contro le leggi e contro lo sfruttamento degli altri, nonavranno credibilità (discorso che è difficile far passare in Africa, quasi ti tira-no i pomodori). Quando però noi abbiamo fatto la nostra parte, c’è un puntodove noi ci fermiamo. La questione del debito, la questione dei brevetti per le

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medicine; la questione del “doping” sui prodotti (ad esempio il cotone nostroche incontra il cotone americano che è finanziato. E questo significa che nonc’è nemmeno mercato libero perché se tu ricevi sussidi e il tuo cotone arrivasul mercato a prezzo ridotto mentre il mio non ha avuto sussidi, non c’è mer-cato), la questione della globalizzazione che diventa anche un inganno. Laquestione delle armi: il kalashnikov è la cosa che si può più facilmente acqui-stare in Africa, compreso in Angola. Laddove le medicine, il pane, i quaderni,le penne non arrivano, le armi arrivano sempre e comunque. Chi li manda,chi li vende? Quali sono le banche? Forse anche i vostri risparmi, non soquanti risparmi avete in banca se non li avete sprecati in Cirio oppure inParmalat? Quello che è rimasto forse sta alimentando il circuito della compra-vendita delle armi. Queste sono battaglie che noi non possiamo fare. Allora, ionon è che vi dico di non venire. Se proprio ve l’ha prescritto il medico, venitepure in Africa! Ma la cosa più importante è che voi facciate queste battaglie,per liberare le comunità e i popoli, perché non ce la fanno più. Si dice chequesti “negri” non hanno voglia di lavorare. Andate in qualunque città africa-na, si muovono tutti. Si muovono i bambini, si muovono le mamme, tutti a cor-rere, camminano, si fanno dei chilometri, a volte con quattro arance sullatesta, arance sbucciate con un po’ di sale sulla testa. Chilometri e chilometri,come fanno i senegalesi sulle vostre spiagge durante l’estate. Per portare acasa che cosa? Un pesciolino rinseccolito con quattro fagioli neri. Questo nonè un popolo pigro, questo è un popolo che ha davvero la cultura della resi-stenza, che ha imparato a sue spese ad ottimizzare l’anarchia che c’è oggi inAfrica. È il punto di forza delle nostre popolazioni. Però anche quando avre-mo fatto questo, ci sono delle cose che non dipendono da noi. Chi vende learmi, chi traffica in droga, chi in petrolio. Che ci possiamo fare? Questa è unabattaglia che affidiamo alla parte più illuminata, alla parte miglioredell’Europa. Non lo dico perché siete qui ma quando a volte leggo i giornali emi chiedo in che razza di paese mi trovo, mi basta vivere una serata comequesta per capire che l’Italia non è quella che viene rappresentata in televi-sione, così come anche l’Africa non è sempre quella che viene rappresentata.Questa gente va aiutata e questo nemmeno a volte non lo capiscono nemmenole ONG. Anzi, sono soprattutto le ONG che non lo capiscono o i missionariche a volte vivono questa mistica del “deus ex machina” che arriva e risolvetutti i problemi. Io ho incontrato spesso dei missionari che magari stanno inun villaggio da trent’anni che girano ancora personalmente a chiudere dap-pertutto senza lasciare l’incarico ad altri perché non si fidano di nessuno. Nonti fidi di nessuno? Ma in questo modo stai decretando la fine, il fallimentodella tua missione. Se io fossi il tuo vescovo, dopo una frase di questo genere,ti rimanderei in Italia. Se dopo trent’anni non ti fidi di quel villaggio e pensi

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che non cambierà nulla, io ti rimando a casa. Ti faccio anche un piacere, checosa stai facendo là? Quindi, se c’è un senso oggi nell’aiutare l’Africa, è nelfare questa parte di lotta qui da voi su queste questioni che sono centrali: ildebito, i farmaci, la privatizzazione dell’acqua. In paesi dove piove otto mesisu dodici, se privatizzi l’acqua, hai ammazzato milioni di persone. È quelloche sta succedendo oggi. La Leonesse des Eaux, una compagnia francese, stacomprando tutte le fonti d’acqua nell’Africa Occidentale. La voglia di liberté,egalité, fraternitè!

Niente da dire sul discorso dell’inquietudine, il mistero dell’Africa che sta lì eforse rimarrà sempre, perché io stesso li ritrovo in Africa ogni volta che citorno, pur essendo io un Africano nato e cresciuto in Africa fino all’età di 19anni. Non so nemmeno perché mi hanno mandato in Europa, non avevo maipensato di arrivare a 45 anni a mangiare spaghetti! Non sono potuto tornareperché il paese è in guerra. Però ecco, questa idea di ritrovare qualcosa diprimordiale. È sbagliato dire primitivo o selvaggio, però sicuramente c’è qual-cosa di primordiale, di arcaico nel senso proprio di “archè”, principio, fonda-mento, inizio. Ed è un sentimento fortissimo. Dopo di che c’è anche quel mald’Africa così alla “matriciana”, quello di Licia Colò, tanto per intenderci!Questa multiculturalità semplicistica di Licia Colò dove la cultura dell’altrorimane sempre e comunque un folklore ad uso e costume degli Occidentali.Brava ragazza e si presenta pure bene, Dio la benedica. Però sta facendoun’intercultura alla matriciana, la cultura dell’altro piegata ad elementi folk-loristici, residuali ad uso e consumo degli Occidentali. E a lunga scadenza,non so se è bene o un male. A volte dico che è meglio non fare multiculturapiuttosto che farla mala, perché lascia delle cose profonde. Sono cose chedico anche a lei, anche lei lo sa.

Importante, secondo me, è il richiamo all’essenzialità. Un invito che facciosempre agli Europei e a tutti è il ritorno all’essenzialità, fare lo sforzo di sot-trarre buona parte della nostra vita alla logica del profitto e del dare/ricevere.Chiunque riesce a fare questo ne trae giovamento. E non dovete riscoprirequesto in Africa, fa parte della vostra cultura. Leggete Erich Fromm, “Avere oessere”, un libro eccezionale. È una scelta importante se io voglio viveresecondo la modalità dell’essere o secondo la modalità dell’avere. Cambiamolto. Tutta la televisione sempre spingerci verso la modalità dell’avere.Invece dobbiamo ribellarci. Quando Zanotelli dice che oggi la vera idolatriada combattere è quella dei supermercati, dice una cosa molto vera e anchemolto profetica. La società europea tornerà secondo me ad essere felice quan-do cesserà di credere che il benessere inteso come cumulo quantitativo di

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beni corrisponde allo stare bene come fatto relazionale e valoriale. Però que-sto è difficile. L’essere essenziale, forse l’Africa ci comunica anche questo.Potere essere felici con poco. Anche se pure lì la seduzione della modernitàsta avanzando attraverso i satelliti geostazionari, le antenne paraboliche. Sottoquesto punto di vista, esse rischiano di diventare per l’Africa antenne diaboli-che! Perché introducono degli elementi antropologici che distruggono deipilastri essenziali dell’antropologia africana come ne hanno distrutti pure inEuropa. Non credo che questi valori siano africani, sono valori semplicementeumani. Ecco perché quando li ritroviamo, abbiamo la sensazione di aver ritro-vato qualcosa che ci apparteneva, la primordialità.

La questione demografica è secondo me una falsa questione perché se da unlato c’è il boom demografico in quasi tutti i paesi del sud del mondo, bastasolo andare a guardare il tasso di mortalità per rendersi conto che il boomdemografico, stante queste condizioni, non avverrà mai. Se mi muoiono cin-que figli su dieci – e l’Aids sta completando il resto – la mia impressione (manon è solo la mia) è che parlare di pianificazione demografica prima di parla-re di sviluppo è mettere il carro dinanzi ai buoi. La mia sensazione, moltoempirica ma forse vera, è suffragata anche da studi: laddove c’è un minimo diinnalzamento di condizioni economiche e sociali, di alfabetizzazione delledonne, la demografia cala. Con un minimo di benessere materiale, di innalza-mento delle condizioni di vita, di cultura per le donne soprattutto, la demo-grafia cala. Allora che cosa bisogna fare? Sterilizzare tutti gli Africani?!Oppure fare in modo che le donne possano andare a scuola e che le condizio-ni economiche e sociali migliorino? L’ho visto nella mia famiglia, il passaggiodal numero di figli di mia nonna al numero di figli di mia madre al numero difigli di mia sorella. L’innalzamento delle condizioni di vita e della cultura,della capacità di andare a scuola, di avere accesso a conoscenze, etc. etc. haportato di per sé ad una riduzione drastica della natalità. Mia sorella ha duefigli il che per mia nonna che ne ha avuti dodici è un grande scandalo! Nelfrattempo c’è passata la scuola, il fatto che mia sorella lavora, l’emancipazio-ne, la cultura e così via dicendo. Per cui non confondiamo le cose, io noncredo molto nella bomba demografica. Credo invece che l’immigrazione siaun grosso problema, grossissimo: talmente grosso che non possiamo affidarloa Calderoli e Bossi. Purtroppo la politica d’immigrazione in questo paese èfatta da Castelli, Calderoli e Bossi, però questa non è colpa mia!

Quarto intervento pubblico Innanzitutto desidero complimentarmi con lei per la padronanza della nostralingua e per la brillantezza dell’esposizione, affatto noiosa. Vale 150000

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“Porta a Porta” questo incontro, a dir poco! La mia domanda è un pochinoparticolare. Negli anni ’70 Thomas Bernhard, uno scrittore austriaco, nel rice-vere un premio letterario, determinò un notevole scalpore affermando che lacultura austriaca e quella europea erano minacciata dalla presenza della cul-tura araba. Oggi in Italia c’è qualcuno che afferma quanto le sto dicendo, eforse lo avrà sentito, che la cultura italiana ed europea è minacciata da quellaafricana. Esiste un pericolo? Io non l’ho visto. Grazie.

Jean Leonard Touadi La questione che ha posto sul mondo arabo, se la cultura araba minaccia lacultura italiana, io la rovescerei e mi chiederei che cosa è la cultura italianaoggi. Sto andando in giro cercando un po’ di sfidare gli Italiani a dirmi oggiche cosa intendono per la cultura italiana. Non oso pensare che la cultura ita-liana è quella che va in onda sull’“Isola dei famosi”, “Panariello”, “GrandeFratello” etc. Non penso nemmeno che la cultura italiana sia solo quell’opera-zione di archeologia culturale che riguarda il passato, il glorioso Rinasci-mento o il Risorgimento, il mondo romano e così via dicendo. Di che cosa cul-turalmente vive l’Italia oggi? Che cosa sta esprimendo, nella contempora-neità? Che cosa sta attivando per far passare tutto quel patrimonio che ha resogrande l’Italia, che ha fatto invidiare a tutto il mondo gli Italiani, che cosa stafacendo l’Italia per travasare questo alle nuove generazioni? Chi fa qualcosaper evitare il corto circuito tra questo grande patrimonio e i giovani di oggiche rischiano di avere solo delle cose molto vaghe e generiche di quello che iloro antenati hanno vissuto? Dove posso trovare oggi la cultura italiana, dovela posso toccare, dove la posso esprimere? Se io la voglio vivere, dove vado?Sulle grandi questioni di cui stiamo parlando adesso, la globalizzazione, ilmondo, l’incontro/scontro tra le civiltà, io posso citarvi cinque, otto, dieciautori significativi francesi o significativi inglesi. In questo momento, toltoCacciari che più o meno sta su quella linea di dire “diamo risposte a questiproblemi”, quali sono gli autori significativi italiani? Stento a credere che voivogliate mettere in questa lista Giuliano Ferrara, Vittorio Feltri, Renato Fari-na e così via dicendo.

Quando gli Italiani dicono che vogliono difendere la propria identità, io capi-sco bene che un discorso strumentale; è un’identità che vogliono riscoprireper brandirla come spada, per dire “tu non sei dei nostri”. Però mi interessaquesto discorso della riscoperta delle radici, perché se gli Italiani davvero rie-scono a riscoprire la vera identità italiana, quell’identità ha molte cose da diresu ciò di cui stiamo parlando adesso. Quell’identità infatti afferma l’importan-za della centralità della cultura. Quell’identità afferma l’importanza della cen-

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tralità della persona. Quell’identità sostiene l’importanza della centralità dellacultura del diritto. Insomma, quell’identità dice tante cose che ci possonodare delle risposte. E se c’è una cosa che a me dispiace è come l’Europaabbia abdicato – nel momento della firma dell’accordo di Maastricht – a tuttoil suo passato per aderire ad un tipo di capitalismo di stampo anglo-sassone.Ciò che è passato nell’accordo di Maastricht non è la tradizione europea dellasocialdemocrazia, della dottrina sociale della Chiesa, della centralità dellapersona. Ciò che è passato nell’accordo di Maastricht è l’impianto capitalisti-co di stampo anglosassone, quello weberiano e protestante in cui primeggial’individuo. Se sono ricco è perché sono stato fedele a Dio e Dio mi gratifica.La cultura cristiano-cattolica dice invece solidarietà. Attenzione a Lazzaro,attenzione a colui che cade vittima, attenzione ai poveri. Una cultura questaespressa per la prima volta in modo organico dalla Rerum Novarum di LeoneXIII nel 1893 e sul franto laico espressa dalla socialdemocrazia che diceva diriformare il capitalismo insediando il welfare (questa parola che per l’econo-mia neo-liberale è diventata quasi una parolaccia, tanto che le vostre braveUnità Sanitarie Locali sono diventati “Aziende Sanitarie Locali”. Il malatonon è più una persona, è un utente. E le sale di chirurgia devono rendereconto delle operazioni che vengono effettuate quasi nello stesso modo in cui ilmagazziniere rende conto delle merci che entrano o escono). Dove sta in tuttociò l’identità italiana? Allora, di fronte a questa incertezza e a questo smarri-mento totale, qualunque cultura che abbia un minimo di coerenza e di forza,fa paura. Altrimenti non posso pensare come 400-500 mila immigrati possanominacciare la cultura di 58 milioni di italiani! È un’aberrazione. Se la minac-ciano, significa che la cultura d’origine sta attraversando una fase di grandedebolezza. Dopo di che ci sono dei conti aperti tra l’Occidente e il mondoarabo, dei conti storici. Lepanto o i diversi nodi che non sono stati risolti conil crollo dell’impero ottomano. E in questa situazione, l’Occidente che cosa hafatto? Si è solo precipitato sulle spoglie dell’impero ottomano dividendolo trabritannici e francesi, senza affrontare la questione culturale. Quindi stiamofacendo, con tanti secoli di distanza, i conti con i problemi che non avevamorisolto ieri, i problemi storici tra il mondo arabo e il mondo cristiano. Peròpossiamo dire che il cavallo di Troia è oramai oltre le mura. Non possiamopensare di cacciarlo, di ridefinire la nostra identità e poi semmai di rincon-trarli. Sono già qui.

I Mussulmani in Italia. Cosa vuoi fare con loro. Arrivare allo scontro? Comestanno facendo su i vari Borghezio che a Lodi hanno portato i maiali su unterreno destinato a far sorgere una moschea. Questa è la soluzione che noidiamo ad un problema annoso come questo? Quindi c’è la necessità, su questi

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problemi, di essere molto seri: non ci si può scherzare su questioni di talegenere. E allora qual è la scorciatoia? La scorciatoia è di dire che loro hannoun valore forte e di contrapporre anche noi un valore forte: che troviamo nelCristianesimo. Il Cristianesimo “à la carte”, prendendo solo quello che miserve per costruirmi un’identità e lasciando fuori tutto il resto. Per cui i grandiliberali come Ferrara, Feltri, Panebianco, oggi sono diventati i difensori deivalori cristiani, traviando lo stesso messaggio cristiano, proprio perché Cri-stiano significa essere aperto all’universale. Cristo non è Europeo, Cristo ènato in Medio Oriente ed è stato ammazzato perché ha rifiutato di identificarsicon una religione di stato. «Il mio regno non è di questo mondo» ha detto agliEbrei. E gli Ebrei hanno risposto: «Bene, se il tuo regno non è di questomondo, a questo punto non ci interessa, perché noi aspettavamo il Messia chedoveva liberarci dai Romani. Se sei venuto per questo, ti sosteniamo. Se nonsei venuto per questo, non ci servi più». Non so se vi rendete conto. Propriocolui che ha creato questa religione, sta ridiventando in Europa la personaattorno al quale coagulare una religione culturale e sociologica. Non è bastatoil cesaropapismo del Medioevo che ha traviato lo stato e la religione. Grazie aDio, il concilio ha liberato la religione e lo stato. Non possiamo tornare indie-tro. E i Cristiani che non sono Europei, possono fare la stessa operazione?Che facciamo, ci accaparriamo gli abiti di questo cristianesimo, un pezzettinoall’uno, un pezzettino all’altro? Non è seria questa cosa. E che Ruini,Ratzinger entrino in questa operazione, davvero è una cosa che mi scandaliz-za. È scandalosa, dal punto di vista dottrinale, prima ancora che dal punto divista morale e politico. Però si sa, lo Spirito Santo non soggiorna a Roma! Iomi auguro davvero che muoia presto questo Papa (Giovanni Paolo II, n.d.r.).Sono cinque anni che non controlla più niente. La fanno da padrone i variRuini e Ratzinger. Che muoia, che ci sia un uomo nella forza delle sue capa-cità fisiche e mentali e che decida. Non mi puoi scrivere un’enciclica aperta,rifiutare la guerra e avere invece dietro di te tutti i tuoi collaboratori checostruiscono una fortezza cristiana contro i Mussulmani. Non è coerente tuttoquesto, almeno dal mio punto di vista.

Basta, concludo così. Solo un’ultima constatazione, quella che una seratacome quella che abbiamo vissuto oggi ci dice che dobbiamo reimparare a pas-sare il tempo insieme. Grazie.

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luglio 2007