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Laggiù mi hanno detto che c è il sole - gayle forman

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Il libro

“Mi rincresce informarvi che mi sono tolta la vita. Era una decisione che meditavo da tempo e di cui miassumo tutta la responsabilità. So che vi addolorerà, e mi dispiace tanto per questo, ma dovevo porretermine alla mia sofferenza. Voi non c’entrate niente, è stata una mia scelta. Voi non avete nessuna colpa.”

Questa è la lettera che Cody riceve il giorno in cui Meg, la migliore amica di sempre, si toglie la vitabevendo una bottiglia di candeggina in una squallida stanza di un motel.

Cresciute insieme, Meg e Cody erano inseparabili, non esistevano segreti tra loro, o almeno questoera quello che pensava Cody. Quando però va a recuperare le cose dell’amica nella città dove un annoprima si era trasferita per andare al college, scopre che c’è tutta una parte della vita di Meg da cui leiera stata esclusa: i coinquilini, gli amici del college e Ben. Il ragazzo con la chitarra, un sorrisostrafottente e tanti, troppi lati oscuri. E poi c’è un file criptato sul computer dell’amica che una voltaaperto sconvolgerà Cody: all’improvviso tutto quello che credeva di sapere su Meg sembrerà nonavere più senso.

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L’autrice

Gayle Forman è giornalista freelance, si occupa da sempre di giovani e tematiche giovanili. Ha vinto,fra gli altri, il prestigioso premio NAIBA Book of the Year Awards e l’Indies Choice Book Awards. Vivea Brooklyn con la sua famiglia.

Con Mondadori ha pubblicato Per un giorno d’amore, Per un anno d’amore, Resta sempre qui e ilbestseller Resta anche domani da cui è stato tratto un film.

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Gayle Forman

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LAGGIÙ MI HANNO DETTO CHE C’È ILSOLE

Traduzione di Simona Mambrini

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LAGGIÙ MI HANNO DETTO CHE C’È IL SOLE

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A Suzy Gonzales

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Il giorno dopo la morte di Meg ricevetti questa mail:

Mi rincresce informarvi che mi sono tolta la vita. Era una decisione che meditavo da tempo e di cui miassumo tutta la responsabilità. So che vi addolorerà, e mi dispiace tanto per questo, ma dovevo porretermine alla mia sofferenza. Voi non c’entrate niente, è stata una mia scelta. Voi non avete nessuna colpa.

Meg

Meg aveva inoltrato il messaggio ai suoi genitori, a me e alla polizia di Tacoma,indicando il motel dove si trovava, il numero della camera, la sostanza che aveva ingeritoe le disposizioni per la rimozione del suo cadavere. Sul cuscino aveva lasciato unabanconota da cinquanta dollari e un biglietto per la donna delle pulizie, in cui la pregavadi non toccare il corpo e di chiamare le autorità.

Aveva impostato l’invio differito delle mail in modo da essere sicura che le ricevessimouna volta che lei se ne fosse già andata.

Tutto questo, però, lo avrei saputo in seguito. Perciò, leggendo il messaggio di Meg sulcomputer della biblioteca pubblica, mi dissi che doveva trattarsi di uno scherzo. O di unabufala. Chiamai Meg, poi, dato che non rispondeva, telefonai ai suoi.

“Avete ricevuto la mail di Meg?”“Quale mail?”

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Ci sono le funzioni commemorative. Ci sono le veglie funebri. E poi ci sono i gruppi dipreghiera. Uno finisce per confondersi. Alle veglie si reggono le candele, e certe volte losi fa anche ai gruppi di preghiera. Alle funzioni commemorative la gente pronuncia deidiscorsi, ma che cosa c’è poi da dire?

Era già abbastanza brutto che Meg fosse morta. Di sua volontà. Anche se mi sarebbepiaciuto strozzarla con le mie mani per avermi costretta a sopportare questo supplizio.

«Sei pronta, Cody?»È un tardo giovedì pomeriggio e stiamo andando a una cerimonia, la quinta in un

mese. Stavolta è una veglia a lume di candela. Almeno credo.Emergo dalla mia stanza. Mia madre si sta tirando su la lampo del tubino nero che ha

comprato al negozio di indumenti usati dopo la morte di Meg. Lo usa come abito dafunerale ma, una volta conclusa questa parentesi, sono sicura che verrà riciclato per lasera. Le sta davvero bene. Come a molta gente in paese, il lutto le dona.

«Perché non sei ancora pronta?» mi chiede.«Tutti i miei vestiti buoni sono da lavare.»«Quali vestiti buoni?»«E va bene, i miei vestiti vagamente da funerale sono da lavare.»«E da quando questo è un problema?»Ci fulminiamo a vicenda con lo sguardo. Quando avevo otto anni, Tricia decise che ero

abbastanza grande per farmi il bucato da sola. Io odio fare il bucato. Vi lascioimmaginare le conseguenze.

«Non capisco perché dobbiamo andare a un’altra funzione» le dico.«La nostra comunità ha bisogno di metabolizzare.»«Il glucosio viene metabolizzato. La comunità ha semplicemente bisogno di un altro

dramma a cui appassionarsi.»Stando a quanto afferma il cartello sbiadito sull’autostrada, la nostra è una cittadina di

millecinquecentosettantaquattro anime. “Millecinquecentosettantatré” disse Meg dopoessersi trasferita al campus di Tacoma lo scorso autunno, grazie a una borsa di studio. “Ene resteranno millecinquecentosettantadue non appena tu verrai a Seattle e andremo adabitare insieme” precisò.

Al momento il numero rimane fermo a millecinquecentosettantatré, e sospetto chenon varierà fino alla prossima morte o alla nascita di un altro abitante. La maggior partedella gente non se ne va di qui. Persino quando Tamara Henthoff e Matt Parnerabbandonarono i rispettivi consorti per scappare insieme – il pettegolezzo più succulentoprima della tragedia di Meg – si stabilirono in un’area attrezzata per case mobili appenafuori città.

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«Devo proprio venire?» Non so nemmeno perché glielo chiedo. Anche se è mia madre,non ha alcuna autorità in materia. So bene che devo andarci. E so anche perché. Per Joe eSue.

Sono i genitori di Meg. O almeno lo erano. Sono sempre incerta sui tempi verbali dausare. Si continua a essere genitori di qualcuno che è morto? Di sua volontà?

Joe e Sue sono distrutti dal dolore; intorno agli occhi hanno cerchi così profondi chemi chiedo se svaniranno mai. È per loro che mi infilo il vestito meno sporco e mi preparoa cantare. Di nuovo.

Amazing Grace. Che musica ignobile!

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Ho scritto mentalmente una dozzina di elogi funebri per Meg, pensando a tutte le coseche potrei dire su di lei. Tipo: una settimana dopo che ci eravamo conosciute, all’asilo,Meg fece un disegno di noi due, con sotto i nostri nomi e alcune parole che non capivoperché, a differenza sua, non sapevo ancora né leggere né scrivere. “C’è scritto ‘amichedel cuore’” mi disse. E, come tutto ciò che Meg voleva o prediceva, finì per avverarsi.Potrei parlare di quel vecchio disegno, tutto stropicciato a forza di essere preso in mano,che conservo in un cofanetto di metallo assieme alle cose a cui tengo di più.

Oppure potrei parlare di come Meg conoscesse particolari delle persone che persinoloro stesse ignoravano. Per esempio, sapeva esattamente quanti starnuti di fila faciascuno di noi: a quanto pare esiste uno schema prevedibile. Io tre, Scottie e Sue quattro,Joe due e Meg cinque. Inoltre, era in grado di ricordare che vestito indossavi il giornodella foto di classe, o a Halloween. Meg era una specie di archivio storico della mia vita,nonché la regista delle mie giornate, dato che abbiamo passato insieme praticamenteogni Halloween, di solito con addosso costumi ideati da lei.

O forse potrei parlare della sua ossessione per le canzoni sulle lucciole. Ebbe inizio ilprimo anno delle superiori, quando scovò un singolo di un gruppo chiamato Heavens toBetsy. Mi trascinò in camera sua e mi fece ascoltare il vinile graffiato su un vecchiogiradischi che aveva comprato per un dollaro a un mercatino parrocchiale e avevaaggiustato da sola, grazie a qualche video di istruzioni su YouTube. “E non saprai mai cheeffetto fa illuminare il cielo. E non saprai mai che effetto fa essere una lucciola” cantava CorinTucker con una voce così potente e allo stesso tempo così fragile che quasi non sembravaumana.

Dopo la scoperta degli Heavens to Betsy, Meg si mise alla ricerca di tutte le canzonimai scritte sulle lucciole. Tanto per non smentirsi, nel giro di qualche settimana riuscì ascovarne un buon numero. “Ma l’hai mai vista una lucciola?” le chiesi mentre compilavala playlist.

Conoscevo già la risposta. Come me, Meg non era mai stata a est delle MontagneRocciose. “C’è tempo” rispose allargando le braccia, a indicare che aveva tutta la vitadavanti.

Joe e Sue mi avevano chiesto di parlare in occasione della prima commemorazione, unagrande messa che si sarebbe dovuta celebrare nella chiesa cattolica che i Garciafrequentavano da anni e che invece non si tenne perché padre Grady, benché amico difamiglia, era un uomo ligio alle regole. Meg aveva commesso un peccato mortale, perciòla sua anima non sarebbe andata in paradiso e il suo corpo non poteva essere seppellitoin terra consacrata.

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La questione della sepoltura era puramente teorica. Infatti, sarebbe passato un po’ ditempo prima che la polizia restituisse la salma alla famiglia. A quanto pareva, Meg avevaassunto una sostanza tossica piuttosto rara. Il che, conoscendola, non mi stupiva più ditanto. Lei non comprava mai vestiti nelle grandi catene e ascoltava gruppi musicalisconosciuti, perciò non c’era da meravigliarsi che per uccidersi avesse scovato un oscuroveleno.

Così, alla prima grande funzione tutti piansero calde lacrime su una bara vuota e nonci fu alcuna cerimonia di sepoltura. Sentii lo zio di Meg, Xavier, sussurrare alla fidanzatache sarebbe stato meglio se non ci fosse mai stata. Nessuno avrebbe saputo cosa scriveresulla lapide. “Qualsiasi frase sembrerebbe un rimprovero” osservò.

In quell’occasione provai a scrivere un elogio funebre. Sul serio. Per trovarel’ispirazione, ascoltai il CD con le canzoni sulle lucciole che mi aveva masterizzato Meg.La terza traccia era Fireflies dei Bishop Allen. Non so se prima avessi mai prestatoattenzione alle parole, perché in quel frangente ogni frase mi fece l’effetto di uno schiaffodalla tomba: “Sei ancora in tempo a perdonarla. E lei ti perdonerà a sua volta”.

Io però non so se posso perdonarla. E ignoro se lei lo abbia fatto.Comunicai a Joe e Sue che non potevo scrivere un elogio funebre per Meg perché non

sapevo che cosa dire.Era la prima volta che raccontavo loro una bugia.

La commemorazione di oggi è al Rotary Club. Malgrado non sia una funzione religiosa,l’oratore sembra una specie di prete. Non so proprio da dove saltino fuori tutte questepersone che parlano di Meg senza averla conosciuta veramente. Al termine dellacerimonia Sue mi invita da loro per il rinfresco.

Passavo tanto di quel tempo a casa Garcia che ero in grado di indovinare l’umore diSue dal profumo che si sentiva nell’ingresso. Burro: aveva fatto una torta, quindi eramalinconica e bisognosa di essere tirata su di morale; spezie: era allegra e stavapreparando un piatto messicano per Joe, anche se a lei causava bruciori di stomaco;popcorn: era sdraiata in camera sua, al buio, e Meg e Scottie si sbizzarrivano con ilmicroonde. In quelle occasioni Joe ci invitava scherzosamente ad approfittarne perabbuffarci di schifezze e saliva a controllare come si sentiva sua moglie. Noi stavamo algioco, ma di solito dopo il secondo o il terzo würstel in pastella ci veniva la nausea.

Conoscevo così bene le abitudini di casa Garcia che quando chiamai quella mattina,subito dopo avere ricevuto la mail di Meg, nonostante fossero le undici di sabato erocerta di trovare Sue sveglia a crogiolarsi a letto; diceva di non riuscire più a dormire fino atardi nemmeno adesso che i figli erano cresciuti. Nel frattempo, Joe avrebbe preparato ilcaffè e si sarebbe seduto al tavolo della cucina a leggere il giornale. Scottie sarebbe statodavanti alla tivù a guardare i cartoni animati. La routine era una delle tante cose che mipiacevano di quella famiglia, così differente dalla mia. Tricia non si alza mai prima dimezzogiorno, se va bene, e certi giorni puoi trovarla in cucina a prepararsi una ciotola dicereali, altre volte, invece, non si fa vedere affatto.

Adesso dai Garcia c’è una routine diversa, molto meno allettante. Non ho nessunavoglia di andare, ma accetto lo stesso l’invito di Sue.

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Le auto parcheggiate davanti alla casa sono molto meno numerose che all’inizio, quandotutti gli abitanti della cittadina si presentavano a fare le condoglianze con l’immancabilepirofila. Trovavo un po’ ipocrite quelle offerte di cibo e la rituale formula diaccompagnamento: “Ci dispiace per la vostra perdita”, poiché le voci che circolavanoerano di tutt’altro tenore. “Non c’è da sorprendersi più di tanto. Quella ragazza è semprestata fuori di testa” bisbigliava la gente al negozio di alimentari. Io e Meg sapevamobenissimo cosa pensavano di lei certe persone; in una cittadina come la nostra, era comeuna rosa spuntata in mezzo al deserto, e i benpensanti ne restavano sconcertati. Ma dopola sua morte non era più qualcosa di cui andare fieri.

Le maldicenze, comunque, non si limitavano a Meg. Nel bar dove lavora Tricia unavolta sentii due donne malignare su Sue. “Come fa una madre a non accorgersi che lafiglia ha tendenze suicide?” disse la signora Tarkington. Avrei voluto chiederle se,considerata la sua onniscienza, fosse al corrente che la figlia Carrie si era fatta mezzascuola, ma l’altra donna replicò subito: “Sue? Vuoi scherzare? Lei vive in un mondo tuttosuo”. Quella cattiveria gratuita mi lasciò attonita. “Come vi sentireste se aveste appenaperso vostra figlia, brutte stronze?” sbottai. Tricia dovette trascinarmi via.

Dopo la funzione di oggi, mia madre mi accompagna dai Garcia prima di andare allavoro. Joe e Sue mi stringono in un abbraccio un po’ più lungo di quanto vorrei. Capiscoche trovino un certo conforto nella mia presenza, ma lo sguardo di Sue tradisce una seriedi domande silenziose, che alla fine si riducono a una sola: “Tu lo sapevi?”.

Sarebbe peggio se io l’avessi saputo e fossi rimasta in silenzio? La verità è che,malgrado Meg fosse la mia migliore amica e ci dicessimo tutto, o almeno così credevo,non ne avevo la minima idea.

“Era una decisione che meditavo da tempo” ha scritto nella lettera di addio. Da quantotempo? Settimane? Mesi? Anni? Conoscevo Meg fin dai tempi dell’asilo ed eravamosempre state amiche per la pelle, praticamente sorelle. Da quanto ci pensava senza che ione sapessi nulla? E, soprattutto, perché non me ne aveva mai parlato?

Dopo essere rimasto seduto in completo silenzio per una decina di minuti, Scottie, ilfratellino di dieci anni di Meg, mi si avvicina con Samson, il loro – anzi, ormai il suo –cane, al guinzaglio e dice: «Passeggiatina?».

Annuisco e mi alzo. Sembra che Scottie sia l’unico a non essere cambiato più di tanto,forse perché è ancora piccolo; in realtà, non è poi così piccolo ed era molto affezionatoalla sorella. Quando Sue aveva una delle sue crisi e Joe spariva per occuparsi di lei, eraMeg a fare da madre a Scottie.

Siamo alla fine di aprile, ma a quanto pare il clima non se n’è accorto. Soffia un ventofreddo e sferzante, astioso. Ci incamminiamo verso il terreno incolto dove tutti portano icani a fare i loro bisogni, e Scottie lascia libero Samson che, nella sua beata ignoranza, simette a trotterellare di qua e di là.

«Come va, Tappetto?» Mi sento ipocrita a chiamarlo con il suo vecchio nomignoloscherzoso, e poi so benissimo come sta. Ma, senza Meg a fargli da mamma e con Joe eSue chiusi nel loro dolore, qualcuno deve pur chiederglielo.

«Sono arrivato al livello 6 di Fiend Finder» risponde. «Adesso posso giocare tutte le

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volte che voglio» aggiunge con un’alzata di spalle.«Un beneficio collaterale» mi scappa detto. Mi copro la bocca con la mano: non è il

caso di condividere il mio umorismo macabro.Scottie, però, si lascia sfuggire una risata roca, sin troppo adulta per la sua età. «Già. È

vero.» Si ferma a guardare il suo cane che annusa il posteriore di un collie.Sulla strada di casa, con Samson che tira il guinzaglio pensando alla pappa, Scottie mi

dice: «Sai cosa non capisco?». Convinta che stia ancora parlando di videogiochi, sonoimpreparata al seguito. «Perché non ha mandato il messaggio anche a me?»

«Hai un indirizzo di posta elettronica?» gli chiedo, come se fosse questa la ragione.Lui alza gli occhi al cielo. «Ho dieci anni, mica due. Ce l’ho dalla terza elementare. Meg

mi scriveva spesso delle mail.»«Oh, be’... Allora probabilmente voleva proteggerti.»Per un istante gli occhi gli diventano vitrei come quelli dei suoi genitori. «Già. Mi ha

protetto.»

Gli ospiti cominciano ad andarsene. Sorprendo Sue a gettare nella spazzatura unpasticcio di tonno. Mi rivolge un’occhiata colpevole. Quando la abbraccio per salutarla,mi trattiene.

«Puoi restare?» chiede con la sua voce soave, così diversa da quella garrula di Meg,capace di convincere chiunque a fare qualsiasi cosa.

«Ma certo.»Indica in direzione del soggiorno, dove Joe se ne sta sprofondato sul divano con lo

sguardo perso nel vuoto, incurante di Samson che, ai suoi piedi, implora la pappa. Loosservo nella luce crepuscolare. Meg aveva preso dal padre la carnagione olivastra,messicana.

Nell’ultimo mese sembra invecchiato di colpo di mille anni. «Cody» si limita a dire. Edè sufficiente a farmi venire le lacrime agli occhi.

«Ciao, Joe.»«Sue vuole parlarti, e anch’io.»Il cuore comincia a battermi all’impazzata. Ecco, stanno finalmente per chiedermi se

sapevo qualcosa. Ho già risposto alle domande di rito della polizia, ma più che altro leautorità erano interessate a capire come avesse fatto Meg a procurarsi quella sostanzaletale. Io non ne ho la più pallida idea, so solo che se la mia amica voleva una cosa trovavasempre il modo di ottenerla.

Dopo la sua morte ho fatto alcune ricerche in rete sui segni premonitori del suicidio.Lei non mi aveva regalato nessun oggetto a cui teneva particolarmente né aveva maiparlato di togliersi la vita. Cioè, era capace di uscirsene con frasi del tipo: “Se laprofessoressa Dobson ci fa fare un altro compito in classe a sorpresa, mi sparo”. Maquesto non conta, no?

Sue sprofonda accanto a Joe sul vecchio divano. I loro sguardi si incrociano per mezzosecondo, ma entrambi li distolgono subito, come se fosse troppo doloroso, e si rivolgonoa me, nemmeno fossi la Svizzera. «Il mese prossimo si conclude il semestre al campus diCascades.»

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Annuisco. Meg aveva ottenuto una borsa di studio per un prestigioso college privato.In base ai nostri piani, una volta finito il liceo ci saremmo trasferite tutt’e due a Seattle.L’avevamo deciso sin dalla terza media. Avremmo frequentato l’università di Washington,dividendo una stanza al campus per i primi due anni per poi trovarci un appartamentino.Ma in seguito Meg aveva avuto la fortuna di vincere la borsa di studio a Cascades e io,pur essendo stata ammessa all’università di Washington, non potevo contare su alcunsussidio. Tricia mi fece capire chiaramente che non mi avrebbe aiutato: “Ho appena finitodi saldare i debiti”. Perciò alla fine rinunciai e restai qui. Avrei frequentato l’universitàlocale e, terminati gli studi, avrei raggiunto Meg a Seattle.

Joe e Sue rimangono seduti in silenzio. Lei si tormenta le unghie. Ha le pellicinemartoriate. Finalmente alza lo sguardo. «Al campus sono stati molto gentili. Si sonoofferti di raccogliere tutto e di spedircelo, ma non sopporto l’idea che degli estraneitocchino le sue cose.»

«E i suoi coinquilini?» Cascades è piccolo e non ha un dormitorio. Meg vive – viveva –all’esterno del campus, in un appartamento con altri studenti.

«A quanto pare si sono limitati a chiudere la porta della sua stanza, lasciando tuttocosì com’era. L’affitto è pagato fino al termine del semestre, ma adesso dobbiamoprendere le sue cose e portarle...» Le si affievolisce la voce.

«... a casa» finisce Joe per lei.Mi ci vuole un secondo per capire quello che vogliono da me, cosa mi stanno

chiedendo di fare. Lì per lì mi sento sollevata: non sarò costretta ad ammettere che nonavevo la minima idea delle intenzioni di Meg. Che l’unica volta in tutta la sua vita in cuiavrebbe avuto bisogno di me ho fallito miseramente. Poi, però, il peso di quella richiestami chiude lo stomaco. Ciò non significa che rifiuterò. Lo farò. Certo che lo farò. «Voleteche vada io a ritirare le sue cose?»

Annuiscono. Annuisco anch’io. È il minimo che possa fare.«Quando saranno finiti i corsi, è ovvio» precisa Sue.Ufficialmente le lezioni termineranno il mese prossimo. Ufficiosamente sono

terminate il giorno in cui ho ricevuto la mail di Meg. Ormai sto prendendo soloinsufficienze. O sufficienze con riserva. La distinzione mi pare irrilevante.

«E se riesci a prenderti una pausa dal lavoro» aggiunge Joe.Lo dice in tono rispettoso, come se il mio fosse un mestiere importante. Faccio le

pulizie in casa della gente. Tutte le persone da cui vado sono al corrente della faccenda diMeg, come chiunque altro in città, e si sono mostrate molto comprensive, invitandomi aprendermi tutto il tempo necessario. Ma passare lunghe ore vuote a pensare alla miaamica non è quello di cui ho bisogno.

«Posso partire quando voglio» annuncio. «Anche domani.»«Non si era portata molta roba. Puoi prendere la macchina» dice Joe.I Garcia hanno un’auto sola, e l’organizzazione delle loro giornate è complessa quanto

una missione della NASA: Sue accompagna Joe al lavoro e Scottie a scuola, poi va a suavolta al lavoro e a fine giornata passa a riprendere tutti. Il weekend si ripete più o menolo stesso schema, per fare la spesa e sbrigare le varie commissioni che si sono accumulatedurante la settimana. Io non ho la macchina. Ogni tanto Tricia mi lascia usare la sua.

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«E se prendessi il pullman? Se non ha... se non aveva molta roba...»Joe e Sue sembrano sollevati.«Ti pagheremo il biglietto. Eventualmente potrai spedire qualche scatola con il

corriere» dice Joe.«Non devi portare indietro tutto.» Sue fa una pausa. «Solo le cose più importanti.»Annuisco. Hanno un’espressione così riconoscente che sono costretta a distogliere lo

sguardo. Si tratta di un viaggio da poco, questione di tre giorni. Uno per l’andata, uno perimpacchettare tutto e uno per il ritorno. Meg si sarebbe offerta di farlo senza nemmenobisogno che le venisse chiesto.

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Mi è capitato di leggere qualche articolo sulle opere di riqualificazione urbanistica cheavrebbero dovuto permettere a Tacoma di rivaleggiare addirittura con Seattle. Tuttavia,quando il pullman si ferma nello spopolato centro cittadino, lo spettacolo è desolante,frustrante come un tentativo malriuscito. Mi fa pensare a certe amiche cinquantenni dimia madre che, nonostante la minigonna, gli zatteroni e il trucco, non fanno fessonessuno. “Pecore travestite da agnelli” le definiscono alcuni tizi del posto.

Avevo promesso a Meg che sarei andata a trovarla ogni mese, invece l’ho fatto unavolta sola, lo scorso ottobre. Avevo comprato un biglietto per Tacoma, ma scesaall’autostazione di Seattle la trovai lì ad aspettarmi. Aveva deciso che avremmogironzolato per Capitol Hill, mangiato ravioli in qualche bettola di Chinatown e chesaremmo andate a sentire una band a Belltown: insomma, tutte le cose che avevamoprogettato di fare dopo esserci trasferite lì. Era talmente galvanizzata dal programma chenon avrei saputo dire se fosse una specie di anteprima o un premio di consolazione.

A ogni modo, fu un fiasco. Pioveva e faceva freddo. A casa, almeno, c’era il sole. “Unmotivo in più per non venire a vivere a Seattle” pensai. E nessuno dei posti in cuiandammo – negozietti di abiti vintage, librerie di fumetti, caffè – si dimostrò all’altezzadelle mie aspettative. O almeno questo fu ciò che dissi a Meg.

“Mi dispiace” replicò lei senza sarcasmo. Sembrava mortificata per il fatto che avessitrovato Seattle deludente.

Comunque si trattava di una bugia. La città era fantastica. A dispetto del temposchifoso, mi sarebbe piaciuto un sacco abitarci. Ma sono sicura che mi sarebbe piaciutoaltrettanto vivere a New York, a Tahiti o in un milione di altri posti che non vedrò mai.

Quella sera saremmo dovute andare a sentire una band che conosceva Meg, ma io mitirai indietro con la scusa che ero stanca, perciò tornammo a casa sua a Tacoma. Eraprevisto che mi fermassi almeno fino al pomeriggio del giorno successivo, invecel’indomani mattina le dissi che avevo un gran mal di gola e salii sulla prima corriera inpartenza.

Lei mi invitò a farle visita altre volte, tuttavia trovavo sempre qualche pretesto perrimandare: ero molto impegnata, il biglietto del pullman costava troppo. Entrambe lecose erano vere, anche se la realtà era un’altra.

Bisogna prendere due pullman per arrivare dal centro città al piccolo campus diCascades, immerso nel verde. Seguo le istruzioni di Joe e per prima cosa vado inamministrazione per ritirare alcune carte e le chiavi. Anche se Meg non risiedeva nelcampus, è l’università a gestire le varie residenze studentesche. Non appena mi presento,

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tutti capiscono immediatamente perché sono lì, lo intuisco dal loro sguardo. Odio quellosguardo che ho imparato a riconoscere così bene: la maschera del cordoglio.

«Ci dispiace molto per la tua perdita» dice l’impiegata, una cicciona con addosso uncamicione drappeggiato che la fa sembrare ancora più grassa. «Abbiamo creato ungruppo di sostegno a cadenza settimanale per aiutare le persone colpite dalla morte diMegan. Se vuoi, puoi unirti a noi per il prossimo incontro.»

Megan? Tranne i suoi nonni, nessuno la chiamava così.La donna mi porge un opuscolo colorato su cui sono stampati la foto di una Meg

sorridente che non riconosco e il nome dell’associazione, Lifeline, con dei cuoricini sulle“i” al posto dei puntini. «Lunedì pomeriggio.»

«Ho paura che sarò già partita.»«Oh, peccato.» Dopo una pausa soggiunge: «La comunità studentesca ne ha tratto un

grande beneficio. È stato davvero scioccante».“Scioccante” non è il termine giusto. Scioccante è stato venire finalmente a sapere da

Tricia l’identità di mio padre e scoprire che, almeno fino a quando avevo nove anni,viveva a una trentina di chilometri di distanza da noi. Con Meg è successo qualcosa dicompletamente diverso, come se svegliandomi una mattina mi fossi ritrovata su Marte.

«Mi fermo solo per una notte» la informo.«Oh, peccato» ripete.«Già, peccato.»Mi porge un mazzo di chiavi e mi dà le indicazioni per raggiungere il posto,

raccomandandosi di chiamarla in caso di bisogno. Taglio la corda prima che mi allunghiun biglietto da visita o, peggio, cerchi di abbracciarmi.

Busso alla porta dell’ex casa di Meg. Dato che non risponde nessuno, apro con lechiavi. C’è odore di birra, pizza e canne. E qualcos’altro... la puzza di ammoniaca di unalettiera per gatti sporca. Si sente una musica da jam band, tipo i Phish o gli WidespreadPanic, il genere di robaccia da hippie che a Meg avrebbe fatto venire voglia di uccidersi.Poi mi ricordo che, in effetti, è quello che ha fatto.

«E tu chi sei?» Mi compare davanti una stangona assurdamente carina. Indossa unamaglietta in stile batik con il simbolo della pace e ha un sorrisetto strafottente.

«Cody Reynolds. Sono venuta a prendere la roba di Meg.»La tipa si irrigidisce. È come se il solo sentirla nominare, il semplice fatto che lei sia

esistita, avesse il potere di rovinarle il trip. Mi sta già antipatica. Quando dice dichiamarsi Tree, vorrei tanto che Meg fosse qui, così ci scambieremmo quell’impercettibileocchiata d’intesa che abbiamo perfezionato negli anni per esprimere un disprezzocondiviso. Tree?

«Sei una delle sue compagne d’appartamento?» le chiedo. All’inizio Meg mi scrivevalunghe mail sulle lezioni, i professori, il suo lavoro part-time e, qualche volta, si divertivaa disegnare spassose caricature a carboncino dei suoi coinquilini, che scansionava perme. Era il genere di comportamento insolente che di norma avrei apprezzato, perché erasempre stato così: io e Meg contro il Mondo. Ci avevano soprannominate “le Gemelline”.Invece, leggendo quei messaggi avevo l’impressione che esagerasse a bella posta i difetti

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delle sue compagne per farmi sentire meglio. Peccato che in realtà io mi sentissi peggio.A ogni modo non ricordavo nessuna Tree.

«Sono un’amica di Rich» risponde la stronzetta hippie. Ah, già: Richard lo Scoppiato,come lo chiamava Meg. Lo avevo conosciuto la volta che ero venuta a trovarla.

«Mi metto al lavoro.»«Accomodati.» L’aperta ostilità di Tree è uno shock, dopo che nell’ultimo mese mi

hanno trattato tutti con i guanti.Sulla porta di Meg mi aspetto quasi di trovare uno di quegli altarini che da noi sono

apparsi ovunque: ogni volta che ne vedo uno devo trattenermi per non strappare via ifiori o distruggere le candele.

Invece, non c’è niente del genere. Sul battente è appiccicata la copertina di un album,Feel the Darkness dei Poison Idea, con un tizio che si punta la pistola alla tempia. È questal’idea di altarino che hanno i suoi coinquilini?

Con una certa emozione infilo la chiave nella toppa e giro la maniglia. Anche la stanzanon è come la immaginavo. Meg era notoriamente molto disordinata. A casa, la suacamera era disseminata di pile traballanti di libri e CD, disegni sparsi e lavoretti vari: unalampada che cercava di riparare, un film in super 8 che stava montando. Sue mi avevadetto che i coinquilini di sua figlia si erano limitati a chiudere a chiave la stanza senzatoccare nulla, ma qualcuno dev’essere passato a rassettare. Il letto è rifatto e la maggiorparte della roba di Meg è stata accuratamente piegata. Sotto la rete ci sono delle scatoleportaoggetti da assemblare.

Ci vorranno al massimo un paio d’ore per raccogliere tutto. Se l’avessi saputo, avreipreso l’auto dei Garcia per andare e tornare in giornata. Sue e Joe si sono offerti dipagarmi un motel, ma io ho rifiutato. So bene che non navigano nell’oro: ogni centesimoveniva investito nell’istruzione di Meg. La borsa di studio non bastava a coprire tutte lespese. E la sua morte non aiuta di certo. Perciò ho detto loro che avrei passato la nottenella sua stanza. Adesso che sono qui, però, non posso fare a meno di pensare all’ultimae unica volta che ci ho dormito.

Sin da piccole io e Meg eravamo abituate a condividere letti, brandine e sacchi a pelo.Ma quando venni a trovarla, stesa in questo letto accanto a lei che dormiva della grossa,non chiusi praticamente occhio. Russava leggermente e continuavo a darle calci, come sefosse quello il motivo che mi impediva di prendere sonno. La mattina dopo, quando mialzai, ero rabbiosa e avevo una gran voglia di attaccare briga. Però l’ultima cosa chevolevo era litigare con Meg. Lei non aveva fatto niente. Era la mia migliore amica. Perquesto presi la prima corriera per ritornare a casa, non perché avessi il mal di gola.

Scendo di sotto. La musica è diversa, più rockeggiante: credo che siano i Black Keys.Molto meglio, anche se il contrasto è piuttosto curioso. Un gruppo di persone su undivano rosso porpora si sta dividendo una pizza e un pacco da dodici lattine di birra. C’èanche Tree. Io passo oltre come se niente fosse, ignorando loro e il profumo di cibo chemi fa gorgogliare lo stomaco, dato che non ho mangiato niente tranne una merendina inpullman.

Fuori c’è nebbia. Percorro una strada finché non incontro una serie di tavole calde.Entro in una a caso e ordino un caffè ma, notando l’occhiataccia della cameriera, decido

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di approfittare dell’offerta per la colazione a tutte le ore da due dollari e novantanove.Immagino che questo mi dia il diritto di restarmene accampata qui per il resto dellanotte.

Qualche ora e cinque o sei tazze di caffè dopo, la cameriera finisce per lasciarmi inpace. Tiro fuori il mio libro, pentendomi di non aver portato con me un thrillermozzafiato. Ma ultimamente la bibliotecaria, la signora Banks, mi ha fatto conoscere unoscrittore mitteleuropeo. È lei a rifornirmi di libri fin da quando, a dodici anni, misorprese a leggere un romanzo di Jackie Collins al bar dove ogni tanto ciondolavo mentremia madre lavorava. Mi chiese che cos’altro mi piacesse leggere e io le sparai qualchetitolo, più che altro romanzetti tascabili che Tricia aveva portato a casa. “Sei una granlettrice” mi disse e mi invitò a passare in biblioteca il lunedì seguente. Quando mipresentai, mi consegnò una tessera sulla quale aveva caricato una copia di Jane Eyre e unadi Orgoglio e pregiudizio. “Quando avrai finito di leggerli, se ti saranno piaciuti te ne daròdegli altri.”

Li terminai in tre giorni. Jane Eyre era il mio preferito, anche se avevo odiato il signorRochester e mi era dispiaciuto che non fosse morto nell’incendio. La signora Bankssorrise di quel commento, dopodiché mi diede Persuasione e Cime tempestose. Divoraianche questi in breve tempo. Da quel momento cominciai ad andare da lei almeno unavolta alla settimana per ritirare i libri che aveva in serbo per me. Sembrava incredibileche la nostra piccola biblioteca disponesse di un assortimento di titoli così vasto. Soltantoanni dopo venni a sapere che la signora Banks aveva fatto ricorso più volte al prestitointerbibliotecario per darmi l’opportunità di leggere i romanzi che riteneva potesseropiacermi.

Stasera, però, il riflessivo Milan Kundera che mi ha dato mi concilia il sonno. Ognivolta che mi si chiudono le palpebre la cameriera, nemmeno fosse munita di un radar, siprecipita subito a versarmi dell’altro caffè, anche se la tazza è praticamente piena.

Mi trascino così fino alle cinque del mattino, quando pago il conto e me ne vado, nonsenza aver lasciato una mancia sostanziosa. Non sono sicura se gli sforzi della camerieraper impedire che mi addormentassi siano stati una dimostrazione di cattiveria, oppure seabbia cercato solo di non farmi sbattere fuori. Vago per il campus in attesa che apra labiblioteca, alle sette, poi mi trovo un angolo tranquillo e schiaccio un pisolino per alcuneore.

Di ritorno all’appartamento di Meg, mi imbatto in un ragazzo e una ragazza chebevono caffè nel portico.

«Ciao» dice lui. «Cody, giusto?»«Esatto.»«Richard.»«Sì, ci siamo già incontrati.» Lui non sembra ricordarsene. Probabilmente era troppo

fumato.«Io sono Alice» si presenta la ragazza. Ricordo che Meg aveva accennato all’arrivo di

una nuova coinquilina, in sostituzione di un’altra che si era trasferita dopo il primosemestre.

«Dove hai passato la notte?» mi chiede Richard.

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«In un motel» mento.«Non allo Starline, spero!» esclama Alice allarmata.«Come?» Mi ci vuole un secondo per rendermi conto che lo Starline è il motel. Il motel

di Meg. «No, un altro postaccio.»«Ti va un po’ di caffè?»Le numerose tazze che ho trangugiato nottetempo mi hanno fatto venire acidità di

stomaco e, malgrado la spossatezza e il cervello annebbiato, non mi va proprio dimandarne giù dell’altro. Scuoto la testa.

«Una canna?» chiede lo Scoppiato.«Richard!» Alice gli dà una pacca sul braccio. «Deve mettersi a fare scatoloni. Non

credo che abbia voglia di sballarsi.»«Be’, pensavo che una canna potrebbe aiutare» replica Richard.«Sono a posto così, grazie» dico. La luce del sole che comincia a filtrare attraverso il

sottile strato di nuvole mi abbaglia al punto di farmi girare la testa.«Siediti. Mangia qualcosa» propone Alice. «Sto imparando a fare il pane. Ho appena

sfornato una bella pagnotta fresca.»«È un po’ meno mattone del solito» assicura Richard.«È buono» precisa lei. «Basta spalmarci sopra un bello strato di burro e di miele.»Non mi va il pane. Non avevo nessuna voglia di conoscere queste persone prima,

figuriamoci adesso. Ma Alice sparisce e in un battibaleno ritorna con una fetta imburrata.Il pane è compatto e gommoso, però ha ragione: con un po’ di burro e miele non è male.

Lo mangio tutto e mi ripulisco dalle briciole. «Adesso è meglio che mi dia una mossa»annuncio avviandomi verso la porta. «Comunque qualcuno ha già provveduto a fare ilgrosso del lavoro. Sapete chi ha sistemato le cose di Meg?»

I due si scambiano un’occhiata. «È stata lei a lasciare la stanza così» risponde Alice.«Ha messo via la sua roba.»

«Stronzetta spocchiosa fino all’ultimo» commenta Richard. Poi mi guarda e fa unasmorfia. «Scusa.»

«E di che? Mi sbrigherò prima» dico con la massima disinvoltura, come se mi sentissidavvero sollevata.

Impiego tre ore a impacchettare il resto delle cose di Meg. Elimino magliette e biancheriaintima usurate: perché i suoi dovrebbero volere questa roba? Butto via le pile di rivistemusicali accumulate in un angolo. Sono incerta se tenere o no le lenzuola. Conservanoancora il suo odore e temo che a Sue possano fare lo stesso effetto che a me, risvegliandoricordi viscerali: le volte che abbiamo dormito l’una a casa dell’altra, le feste, leconfidenze fino alle tre di notte e lo stato di torpore in cui ci svegliavamo la mattina dopoper le ore di sonno perse; ma anche l’euforia che quelle chiacchierate ci trasmettevano,come trasfusioni di sangue, iniezioni di autenticità e di speranza, spiragli di luce nellacappa soffocante della vita di provincia.

Sono tentata di affondare il naso nelle lenzuola: forse basterà a cancellare tuttoquanto. Ma è impossibile trattenere il fiato per sempre, alla fine sarei costretta a espirare.

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Allora mi sentirei come quelle mattine in cui mi sveglio e non ricordo niente per alcunisecondi, prima che la realtà abbia il sopravvento.

Il deposito dell’UPS è in centro. Mi toccherà chiamare un taxi per trasportare la roba, poidovrò tornare indietro a prendere i borsoni in tempo per salire sull’ultima corriera dellesette. Di sotto, Alice e Richard non si sono mossi. Ma quand’è che si mettono a sgobbaresui libri gli studenti di questa prestigiosa università?

«Ho quasi finito» li informo. «Devo solo chiudere le scatole.»«Ci pensiamo noi a recuperare i gatti prima che tu parta» dice Richard lo Scoppiato.«I gatti?»«I due mici di Meg.» Alice mi guarda inclinando la testa di lato. «Non te ne ha

parlato?»Mi sforzo di non mostrarmi sorpresa. O avvilita. «Non ne so niente.»«Un paio di mesi fa ha trovato due gattini randagi denutriti e malati.»«Con gli occhi tutti pieni di schifezze» rincara Richard.«Sì, avevano un’infezione agli occhi, tra le altre cose. Meg li ha raccolti, li ha portati

alla clinica veterinaria e ha speso un sacco di soldi per farli curare. Poi li ha accuditifinché non sono guariti. Gli era molto affezionata.» Alice scuote la testa. «È la cosa che miè sembrata più strana: perché darsi tanto da fare per quei gattini e poi...»

«Già. Be’, Meg era fatta così.» L’acidità del mio tono è tale che scommetto si sentanell’alito. «E i gatti non sono un mio problema.»

«Qualcuno dovrà pur occuparsene» obietta Alice. «Finora gli siamo stati dietro noi,anche se qui non è permesso tenere animali, e comunque per l’estate ce ne andremo tuttie nessuno può prenderseli.»

«Sono sicura che troverete una soluzione» replico scrollando le spalle.«Ma li hai visti?» Alice si avvicina al fianco della casa mettendosi a schioccare la

lingua. Un attimo dopo due batuffoli di pelo saltellano nel soggiorno. «Quello è Dillo» miinforma indicando un gattino grigio con una macchia nera sul muso. «E quello è Ridillo.»

“Dillo e Ridillo vanno al mare. Dillo affoga, chi rimane?” Xavier, lo zio di Meg, ci avevaraccontato quella storiella, e io e lei ci divertivamo a ripeterla all’infinito. Ridillo. Ridillo.Ridillo.

Alice me ne mette uno in braccio e quello comincia a impastarmi la maglietta con lezampe come fanno i gatti quando cercano il latte. Ma smette subito e si addormenta, unapalla di pelo premuta contro il mio petto. Avverto qualcosa smuoversi dentro, come unosmottamento nel gelo.

Quando il gattino si mette a fare le fusa sono definitivamente fregata. «C’è un ricoveroper animali da queste parti?»

«Sì, ma hanno già una marea di gatti e poi li tengono al massimo per tre giorni primadi...» Alice mima con la mano il gesto di tagliare la gola.

Dillo, o forse è Ridillo, continua a farmi le fusa in braccio. Non posso portarli a casa.Tricia andrebbe su tutte le furie. Non mi permetterebbe mai di tenerli dentro efinirebbero sbranati dai coyote o morti di freddo. Potrei chiedere a Joe e Sue se livogliono, ma ho visto come si comporta Samson con i gatti...

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«A Seattle ci sono alcuni ricoveri dove gli animali non vengono soppressi» intervienelo Scoppiato. «Ho visto un posto del Fronte liberazione animale.»

«E va bene.» Sospiro. «Farò un salto a Seattle sulla strada del ritorno per lasciare igatti.»

«Non è come andare in lavanderia!» Lo Scoppiato ride. «Mica puoi passare e mollarlicosì. Devi chiamare per un appuntamento, verificare se hanno posto e sbrigare le variepratiche.»

«Quando mai sei entrato in una lavanderia?» chiede Alice. Dillo, o Ridillo, si mette amiagolare. Lei mi guarda. «Quanto impieghi per tornare a casa?»

«Sette ore, e prima devo spedire i pacchi.»Alice sposta lo sguardo da me allo Scoppiato. «Sono già le tre. Ti conviene andare a

Seattle a portare i gatti al ricovero e ripartire domattina presto.»«Non puoi portarceli tu i gatti al ricovero?» ribatto. «Visto che sei così brava a

organizzare le cose.»«Devo finire un elaborato per il corso di Studi sulla condizione femminile.»«E poi?»«No» risponde dopo un attimo di esitazione. «Quei gattini erano di Meg, non me la

sento di portarli in un ricovero.»«Ah, è così? Lasci a me il lavoro sporco, vero?» Avverto la nota rabbiosa nella mia voce.

So bene che non è con Alice che dovrei prendermela, ma il suo imbarazzo mi provoca unbrivido di soddisfazione.

«Senti, ti accompagno io in macchina a Seattle» si offre lo Scoppiato. «Sistemiamo igatti, ti fermi a dormire qui e domattina presto riparti.» Ha l’aria di volersi sbarazzare dime tanto quanto io di lui. Almeno il sentimento è reciproco.

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5

A quanto pare, fare ammettere un animale in un ricovero di Seattle è un’impresa piùardua che ottenere un ingresso nella discoteca più esclusiva. I primi due che visitiamosono pieni e non c’è preghiera che tenga. Il terzo ha posto, però bisogna compilare unformulario e allegare la scheda anamnestica del veterinario.

Spiego alla ragazza con i pearcing e modaioli sandali vegan che vado di fretta e ho igatti in macchina. Quella mi rivolge l’occhiata più sprezzante del mondo e mi fa notareche avrei dovuto pensarci prima di adottare un animale. Devo trattenermi per nonprenderla a schiaffi.

«Ti va adesso quella canna?» mi chiede Richard dopo il terzo tentativo andato a vuoto.Sono le otto e ormai i ricoveri hanno chiuso.

«No.»«Vuoi andare a ballare, o da qualche altra parte? A sfogarti un po’? Già che siamo a

Seattle...»Sono esausta per la notte in bianco, non ho nessuna voglia di uscire con lo Scoppiato e

mi domando come cavolo farò a procurarmi la scheda veterinaria, dal momento chedomani è domenica.

Nicchio, ma lui aggiunge: «Potremmo andare in uno di quei postacci che piacevanotanto a Meg. Ogni tanto si degnava di invitarci». Fa una pausa. «Aveva un casino di amicida queste parti.»

La verità è che ho voglia di vedere quei posti. Ripenso al locale dove saremmo dovuteandare la volta che ero venuta a trovarla e a quelli in cui lei aveva programmato diportarmi tutti i fine settimana che le avevo dato buca. Meg era elettrizzatadall’opportunità di vivere la scena musicale di Seattle, anche se dopo la mia visita glispasmodici resoconti sui vari concerti avevano cominciato a diradarsi, per poiinterrompersi del tutto.

«E i gatti?» chiedo a Richard.«Staranno benissimo in macchina» mi risponde. «Stasera ci saranno dodici o tredici

gradi. E hanno cibo e acqua.» Dopo aver frignato e miagolato per tutto il tragitto, oraDillo e Ridillo se ne stanno buoni buoni, acciambellati l’uno contro l’altro nel trasportino.

Raggiungiamo un locale di Fremont, lungo il canale. Prima di scendere dalla macchinaRichard si accende una pipetta di hashish e butta il fumo fuori dal finestrino. «Nonvorrei che i gatti si sballassero» scherza.

Mentre paghiamo, mi dice che Meg veniva spesso qui. Annuisco come se già losapessi. Il locale è vuoto. C’è puzza di birra rancida, candeggina e disperazione. LascioRichard al bancone del bar e mi metto a giocare a biliardino da sola. Verso le dieci il

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locale comincia a riempirsi e alle undici sale sul palco il primo gruppo della serata, dalsound tutto distorsioni e feedback. Il vocalist più che cantare ringhia.

Dopo un paio di pezzi accettabili Richard mi raggiunge. «Quello è Ben McCallister»dice indicando il chitarrista-ringhiatore.

«Uh-uh.» Mai sentito nominare. Ci vuole un po’ prima che le novità della scenamusicale di Seattle arrivino nel buco del culo della provincia.

«Meg ti ha parlato di lui?»«No» mi limito a rispondere, anche se vorrei urlare alla gente di smetterla di farmi

domande su Meg. Ormai non so più ciò che mi ha detto e ciò che mi ha taciuto. Di unacosa, però, sono assolutamente certa: non mi ha mai detto che stava male al punto diprocurarsi una dose di veleno e trangugiarlo per farla finita.

Richard lo Scoppiato va avanti a blaterare della fissazione di Meg per quel tipo, masmetto di ascoltarlo: lei aveva sempre un’ossessione per qualche chitarrista. A un tratto,però, Ben McCallister si gira per bere una sorsata di birra, stringendo tra due dita illungo collo della bottiglia, con la chitarra ciondoloni come un braccio sul fianco ossuto. Equando si rivolge di nuovo al pubblico, sotto la luce accecante dei riflettori, noto i suoiocchi incredibilmente azzurri. Se li scherma con la mano, come per scrutare tra ilpubblico. Il suo gesto mi fa scattare qualcosa dentro.

«Ah, sì, dev’essere il Tragico Mago della Chitarra!» esclamo.«Quel tizio non ha proprio niente di magico» commenta Richard lo Scoppiato.Il Tragico Mago della Chitarra. Ricordo un paio di mail di Meg su di lui, le uniche in

cui parlava di un ragazzo. Sembrava che adorasse quel gruppo e fosse andata giù di testaper il cantante, come le succedeva puntualmente con i tipi – e le tipe – delle band checonosceva.

Sì, Meg mi scrisse del Tragico Mago della Chitarra e della sua musica rétro in stileSonic Youth o Velvet Underground, permeata di sonorità moderne. Tutta roba per cui leiandava pazza. Ma mi accennò anche al fatto che aveva un paio di occhi incredibilmenteazzurri, tanto da farle sospettare che portasse lenti a contatto colorate. Eccoli, quegliocchi. In effetti hanno un colore pazzesco.

Mi viene in mente una frase di una delle sue mail: “Hai presente l’avvertimento che ciha dato Tricia quando ha cominciato a lavorare al bar?”.

A Tricia è sempre piaciuto dispensare consigli, specie a un pubblico attento come Meg.Tuttavia capii subito a quale avvertimento alludesse lei. “Mai andare a letto con il barista,ragazze” ci aveva detto mia madre una volta.

Meg aveva riso. “Per quale motivo? Perché lo fanno tutte?” Le piaceva il tono compliceche Tricia usava con noi, come se parlasse con delle amiche.

“Anche. Ma soprattutto perché puoi dire addio ai drink gratis.”Meg sosteneva che lo stesso principio valesse per il Tragico Mago della Chitarra, cosa

che mi lasciò piuttosto perplessa. Non aveva mai detto di essere innamorata di lui, diuscirci insieme e tanto meno di esserci andata a letto (del resto Meg aveva fatto sessosolo una volta, però avevamo stabilito che non contava). Se avesse compiuto il grandepasso, me lo avrebbe sicuramente confidato. Aspettavo di approfondire la questione conlei la prima volta che fosse tornata a casa. Ma non è mai tornata.

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Dunque eccolo qui, il Tragico Mago della Chitarra. Finora era stato solo unpersonaggio mitico. E di solito i miti perdono un po’ della loro aura quando li vedi incarne e ossa.

Nel caso di Ben McCallister, invece, questo non succede.Osservo la band con maggiore attenzione. Come tutti i rockettari che si rispettino, Ben

McCallister dà delle gran manate sulla chitarra, curvo sullo strumento, con la bocca chesfiora il microfono. Alla fine del concerto lo afferra e lo stringe con un gesto sensuale. Ètutta scena, ma è bravo. Immagino lo stuolo di groupie e stento a credere che Meg siastata una di loro.

«Siamo gli Scarps. Dopo di noi tocca ai Silverfish» annuncia Ben al microfono altermine della breve esibizione.

«Stiamo per andarcene?» mi chiede Richard.Non sono ancora pronta a uscire. A un tratto ce l’ho con Ben McCallister. Mi rendo

conto solo adesso che quel tipo ha approfittato della mia amica in svariati sensi. Forsel’ha trattata come una groupie usa e getta? Non si è reso conto con chi aveva a che fare?Nessuno poteva buttare via Meg Garcia. «Non ancora» dico a Richard.

Mi alzo e mi dirigo verso il bancone dove Ben McCallister sta bevendo l’ennesimabirra, attorniato da gente che continua a fargli i complimenti per lo show. Lo raggiungo agrandi passi ma, una volta arrivata dietro di lui, così vicina da vedergli le vertebre delcollo e il tatuaggio sopra la scapola, non ho la più pallida idea di che cosa dire.

Ben McCallister però è uno che sa il fatto suo. Scambia le ultime battute con le altreragazze, si gira e mi guarda. «Ti avevo notato.»

Da vicino, toglie decisamente il fiato. Direi che ha i tratti tipici del bel ragazzoirlandese: capelli neri, una pelle che, se fosse una donna, si potrebbe definire dialabastro, labbra di un rosso vivo. E quegli occhi... Meg aveva ragione. Sembra che portilenti a contatto colorate. «Mi avevi notato?»

«Laggiù.» Indica i tavolini. «Stavo cercando un’amica, ma quelle luci ti accecano.» Siporta la mano di taglio sulla fronte, come ha fatto sul palco. «E poi ti ho visto.» Fa unapausa studiata. «Chi lo sa, magari era proprio te che cercavo.»

È così che fa? È questo il suo repertorio? Perfezionato al punto di arrivare allapantomima di quello che scruta dal palco tra la gente? Perché la battuta funziona allagrande, non c’è che dire. Se eri tra il pubblico, puoi effettivamente pensare: “Caspita,guardavi proprio me!”. E se invece non lo eri: “Hai detto una cosa davvero carina, cherockstar sensibile devi essere per credere al destino”.

Ha fatto lo stesso con Meg? Lei si è lasciata abbindolare così? Mi vengono i brividiall’idea che la mia amica sia rimasta ammaliata da simili cazzate. Ma chi può dire come sicomportava lontano da casa, con gli occhi pieni di stelline e il cervello annebbiato daifumi della chitarra?

Ben McCallister scambia il mio silenzio per un segno di timidezza. «Come ti chiami?»Il mio nome gli dirà qualcosa? Chissà se Meg gli ha parlato di me. «Cody» rispondo.«Cody, Cody, Cody.» Se lo rigira in bocca come una caramella. «È un nome da cowgirl»

commenta strascicando le parole. «Da dove vieni, cowgirl?»«Da Cowgirlandia.»

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Ha un sorriso lento, come se lo centellinasse intenzionalmente. «Mi piacerebbevisitarlo. Magari ti vengo a trovare e ci facciamo una bella cavalcata.» Ammicca, nel casonon avessi colto il doppio senso.

«È molto probabile che tu sia disarcionato seduta stante.»Oh, come si diverte! Crede che stiamo flirtando, lo stronzo. «Dici?»«Certo. I cavalli si accorgono se uno ha paura.»Per un attimo sembra vacillare, poi ribatte: «Cosa ti fa pensare che io abbia paura?».«Gli stronzetti di città ne hanno sempre.»«E chi ti dice che sono uno stronzetto di città?»«Be’, siamo in una città. E tu sei uno stronzo, no?»Gli si dipinge in faccia un’espressione confusa. Non riesce a capire se ha davanti un

peperino, una di quelle ragazze focose che a letto tirano fuori le unghie, oppure se ildiscorso ha preso una piega inaspettata. Alla fine sfoggia il suo sorriso indolente darockstar. «Si può sapere con chi hai parlato, cowgirl Cody?» Il suo tono è leggero, ma sipercepisce una lieve nota di aggressività.

Con voce languida, la stessa di mia madre, mi chino verso di lui e gli chiedo: «Vorrestisapere con chi ho parlato, Ben McCallister?».

Lui si protende verso di me, quasi si preparasse a un bacio. La maggior parte dellevolte dev’essere così che vanno le cose.

«Sai, invece, con chi non ho parlato ultimamente?» La mia voce è puro respiro.«Con chi?»È talmente vicino che sento l’odore di birra nel suo alito. «Con Meg Garcia. È più di un

mese che non le parlo. E tu?»Ben McCallister si ritrae di scatto come fa un cobra prima di sferrare l’attacco. «Ma che

c...?»Il corteggiamento si è concluso bruscamente. Adesso la sua voce è un autentico

ringhio, niente a che vedere con il grugnito impostato che usa sul palco.«Meg Garcia» ripeto. È dura guardarlo negli occhi adesso, ma da un mese a questa

parte mi è cresciuto un bel pelo sullo stomaco. «La conosci?»«Chi sei?» Ha gli occhi ardenti, accesi da una specie di furia, e le iridi di ghiaccio. Non

sembra più che porti le lenti a contatto.«Oppure ti sei limitato a scoparla e tanti saluti?»Qualcuno mi sta battendo sulla spalla. Richard lo Scoppiato è dietro di me. «Devo

alzarmi presto domattina» mi comunica.«Ho finito.»È quasi mezzanotte, ieri ho dormito non più di tre ore, ho saltato di nuovo un pasto e

mi sento debole. Mi faccio forza e riesco a raggiungere l’uscita del locale senzainciampare. Richard mi sostiene per un braccio e in quel momento commetto l’errore divoltarmi per fulminare un’ultima volta con lo sguardo quel borioso verme fighetto di BenMcCallister.

E subito me ne pento. La sua faccia è contratta in una smorfia di rabbia mista a sensodi colpa. Riconosco quell’espressione. La vedo ogni mattina nello specchio.

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6

Più tardi collasso sul divano di velluto completamente vestita. Mi sveglio domenicamattina con Dillo e Ridillo acciambellati addosso. Delle due l’una: o sono stata io aespropriarli del divano, oppure sono stati loro ad appropriarsi di me. Mi metto a sedereappena in tempo per scorgere l’ultimo inquilino, che finora non si era mai visto,depositare la ciotola della colazione nel lavandino e dileguarsi dalla porta sul retro.

«Ciao, Harry» gli grida dietro Alice.Così quello è Harry Kang. A quanto diceva Meg, se ne sta quasi sempre chiuso in

camera sua, circondato da computer e barattoli di cavolo fermentato.Alice va in cucina e torna con una tazza di caffè per me, specificando che è biologico,

equosolidale e coltivato nel Malawi all’ombra di alberi ad alto fusto. Io annuisco come semi importasse di qualcos’altro oltre al fatto che è bollente e contiene caffeina.

Rimango seduta sul divano a osservare i gattini giocare tra loro. Ridillo ha un orecchiorovesciato. Quando glielo rimetto a posto con un colpetto, emette un miagolio straziante.Non me la sento proprio di abbandonare queste due bestiole in un ricovero.

Finito il caffè, prendo il cellulare ed esco nel portico. Qualcuno ha disposto a triangolouna serie di bottiglie di birra vuote come se fossero birilli. Chiamo Tricia. Sono solo ledieci e mezzo ma, per miracolo, risponde.

«Allora, com’è la metropoli?» mi chiede.«Grande. Senti, che ne diresti se portassi a casa un paio di gattini?»«Che ne diresti di cercarti un’altra casa?»«Sarebbe solo una sistemazione temporanea. Finché non trovo un posto adatto.»«Scordatelo, Cody. Ti ho tirato su per diciotto anni. Non ho nessuna intenzione di

accudire altre creature bisognose.»Quell’affermazione mi irrita per svariati motivi, non ultimo l’implicazione che io sia

una creatura bisognosa che lei avrebbe accudito per tutti questi anni. Direi piuttosto chemi sono tirata su da sola, ma farei un torto ai Garcia. Quando ho avuto la tonsillite, èstata Sue a notare che avevo le placche in gola e a portarmi dal pediatra per farmiprescrivere gli antibiotici. Quando mi sono venute le prime mestruazioni, è stata Sue acomprarmi gli assorbenti. Tricia si era limitata a indicarmi i Tampax nell’armadietto deimedicinali dicendomi: “Per quando sarà il momento”, senza rendersi conto di quantol’idea di infilarsi un tampone tra le gambe potesse essere terrificante per una dodicenne.Quanto alle cinquanta ore di pratica di guida che mi servivano per ottenere la patente,Tricia se ne è sobbarcata tre e Joe le restanti quarantasette, passando non so quantedomeniche pomeriggio in macchina con me e Meg.

«Forse mi fermo ancora qualche giorno» annuncio. «Potresti andare tu dalla signoraMason lunedì? Tiri su quaranta dollari.»

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«Certo.» Figuriamoci se si lascia scappare una prospettiva così allettante. Non michiede neanche che cosa mi trattiene né quando ho intenzione di tornare a casa.

Poi chiamo i Garcia. Meglio essere più diplomatica con loro: se accennassi ai gatti, disicuro si offrirebbero di prenderli, anche se con Samson in giro sarebbe un disastro.Spiego a Sue che mi servono altri due giorni per sistemare un paio di faccende in sospesorelative a Meg. Sembra sollevata e non fa altre domande. Si limita a dirmi di prendermitutto il tempo necessario. Sto per chiudere quando aggiunge: «E, Cody...».

Odio quella frasetta sospesa. È come il clic del cane di una pistola. Ti aspetti lo sparo:“Sappiamo tutto”. «Sì?»

C’è una lunga pausa dall’altra parte del filo. Sento il cuore martellarmi nel petto.«Grazie» è tutto quello che dice Sue.

Rientro in casa e mi consulto con Alice sulle mosse necessarie per trovare unasistemazione ai gatti. Una sistemazione decente.

«Potresti mettere un annuncio in rete, ma ho sentito dire che a volte gli animalifiniscono in laboratori di ricerca.»

«Non è incoraggiante.»«Perché non stampiamo dei manifesti? Chi non si intenerisce davanti alla foto di un

gattino?»«D’accordo.» Sospiro. «Come procediamo?»«La cosa migliore è che tu faccia una foto ai mici con il cellulare, te la mandi per posta

elettronica, aggiungi qualche riga di testo e poi stampiamo le copie... Forse però è piùsemplice usare il portatile di Meg. Ha una webcam integrata.»

Il computer da milleottocento dollari che i suoi le avevano regalato per l’università.Stanno ancora pagando le rate.

Salgo in camera di Meg e lo recupero da uno scatolone. Quando lo accendo, mi chiedela password. Digito “Tappetto” e subito appare il desktop. Porto il computer di sottomentre Alice cerca di mettere in posa i gattini, impresa più difficile di quanto si possaimmaginare. Alla fine riesco a scattare una foto, Alice confeziona un manifestino conl’apposito programma di editing, dopodiché collego il computer alla stampante di Megper una copia di prova.

Faccio per spegnere il computer ma mi blocco. Sulla barra delle applicazioni c’è ilprogramma di posta elettronica. Ci clicco sopra senza pensarci due volte e la casella siriempie all’istante di nuove mail, per lo più spam e messaggi anonimi di gente che nonsa della morte di Meg. Un paio dicono: “Ci manchi moltissimo, Meg”; uno le augura dimarcire all’inferno perché il suicidio è un peccato. Lo cancello.

Sono curiosa di sapere qual è l’ultima mail scritta da Meg e a chi. La lettera di addio?Clicco su POSTA INVIATA guardandomi istintivamente intorno come se qualcuno mi stesseosservando. “Chi vuoi che ci sia?”

L’ultimo messaggio di Meg non è la lettera di addio, che ha scritto due giorni prima dimorire e per la quale, come sappiamo, ha impostato l’invio differito. Dopo, ha mandatodiverse mail, tra cui una indirizzata a una biblioteca per contestare una sanzione relativa

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a un ritardo nella restituzione di un libro. Aveva pianificato il proprio suicidio e sipreoccupava per una multa?

Com’è possibile? Come si fa a prendere una decisione simile, redigere addirittura unalettera di addio e poi andare avanti come se niente fosse? Allora perché non continuaread andare avanti comunque?

Scorro gli altri messaggi inviati. La settimana della sua morte ce n’è uno indirizzato aScottie. Dice solo: “Ciao, Tappetto, ti voglio bene. Te ne vorrò sempre”.

Era il suo modo per dirgli addio? È possibile che abbia scritto anche a me qualcosa delgenere e che non me ne sia resa conto?

Scorro l’elenco a ritroso. Strano: ci sono un sacco di mail risalenti alla settimana primadella sua morte, poi un buco di sei settimane fino al mese di gennaio.

Sto per chiudere il programma quando mi cade l’occhio su un messaggio che hainviato a [email protected] pochi giorni prima di uccidersi. Dopo un attimo diesitazione lo apro: “Non devi più preoccuparti per me. ”.

È un congedo diverso. Nonostante la faccina sorridente, avverto lo strazio di chi è statorespinto, il senso di sconfitta e lo smacco, tutte emozioni difficili da associare a MegGarcia.

Torno alla posta in arrivo e cerco le mail spedite da bigbadben. Ce n’è una sfilza apartire dall’autunno; le prime, che consistono in brevi frasi e battute scherzose, sonostate scritte dopo che Meg ha sentito suonare la band. È un profluvio di “ti ringrazio diessere venuta” e “grazie per l’apprezzamento, anche se abbiamo suonato da schifo” chetrasudano falsa modestia. Alcune fanno riferimento alle date dei concerti a venire. Innessuna compare in calce la replica di Meg.

Poi, via via, il tono si fa più confidenziale, fino a sfiorare il corteggiamento. In unmessaggio lui la chiama “Meg Fuoriditesta”, in un altro commenta i suoi stivali“elettrici”, probabilmente quelli da cowboy in pelle di serpente arancione, che Meg avevatrovato in un mercatino dell’usato e che non si toglieva praticamente mai. In un paio dimail le dà della pazza: è indiscutibile che Keith Moon sia il miglior batterista al mondo.Ce ne sono altre dello stesso tenore, il genere di discussioni tra patiti del rock che Megpoteva sostenere per giorni e giorni.

A un certo punto, però, il registro cambia di colpo. “Tranquilla, siamo sempre amici”scrive lui. Ma ancora adesso, dopo tutto questo tempo, avverto il suo imbarazzo. Cerconella posta inviata le risposte di Meg. Trovo i primi messaggi, fra cui quello in cuicompare la battuta su Keith Moon, ma non i successivi. Un’altra lacuna. Praticamente èstata eliminata quasi tutta la corrispondenza di gennaio e febbraio. Che strano!

Mi concentro sulle mail di bigbadben. In una dice: “Non preoccuparti”. In una laprega di non chiamarlo così tardi. In un’altra ribadisce che sì, sono ancora amici, ma iltono non è dei più convinti. In un’altra ancora le chiede se ha lei la sua maglietta deiMudhoney. Se è così, la rivuole indietro perché era di suo padre. Poi leggo una delleultime mail, che consiste in una sola, semplice frase ma di una brutalità che mi gela ilsangue nelle vene e mi fa odiare seduta stante Ben McCallister: “Lasciami in pace, Meg”.

Non c’è che dire: ti ha accontentato.Tra le cose che ho trovato ieri c’era un’enorme T-shirt bianca, nera e rossa

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perfettamente ripiegata. Pensando che non potesse appartenere a Meg, l’ho messa nelmucchio di cose da dare via. La recupero. Sopra c’è la scritta MUDHONEY. La sua preziosamaglietta.

Torno davanti al computer e pestando con rabbia sulla tastiera scrivo un messaggio abigbadben dall’account di Meg.

Oggetto: Di ritorno dall’infernoMi riferisco alla tua preziosa maglietta. C’è un limite ai miracoli e alle resurrezioni.

Non la firmo e, senza stare a pensarci troppo, la invio. Trenta secondi dopo, però, sonogià pentita. Ecco perché odio le mail. Quando scrivi una lettera, mettiamo a tuo padre,puoi riempire pagine e pagine di tutte le cose che ti sembrano importanti, dato che ignoridove viva; anche se lo sapessi, impieghi un altro po’ di tempo a procurarti una busta e unfrancobollo, e a quel punto hai già stracciato la lettera. Invece, se conosci un indirizzo diposta elettronica e hai a portata di mano un computer connesso a internet, non hainessuna ancora di salvezza: butti giù di getto quello che provi e premi INVIO prima diavere avuto il tempo di ravvederti. Dopodiché aspetti, e aspetti... e non arriva nessunarisposta. Allora tutte le cose che ti sembrava tanto importante dire in realtà non contanoniente. Non hanno alcun valore.

Io e Alice tappezziamo di manifestini la zona intorno all’università. Poi lei ha la brillanteidea di andare ad affiggerli in centro, vicino a un negozio di alimenti biologicifrequentato da una clientela abbiente. Durante il tragitto in autobus mi informa chepurtroppo non è un supermercato della catena Whole Foods, anche se presto neapriranno uno a Tacoma.

«Che bellezza!» commento.«Già» replica Alice, che evidentemente non ha colto l’ironia.Guardo fuori dal finestrino augurandomi che stia zitta.La nostra missione si rivela un mezzo fallimento: il direttore del negozio non ci dà il

permesso di attaccare i manifestini all’interno, perciò ci mettiamo a distribuirliall’ingresso ai clienti muniti di sporte riciclate, che ci guardano come se stessimodistribuendo campioni omaggio di crack.

Quando rientriamo, alle cinque passate, anche l’intraprendente Alice è demoralizzata.Io, invece, sono infuriata e avvilita. Possibile che sia così difficile trovare unasistemazione per due gattini? Questa storia comincia a sembrarmi una specie di macabroscherzo in cui è Meg a ridere per ultima.

In casa aleggia odore di cibo, uno sgradevole miscuglio di spezie che non c’entranoniente l’una con l’altra: curry, rosmarino, un sacco di aglio. Tree sta bevendo una birra suldivano.

«Credevo che fossi in partenza» dice freddamente.Alice attacca un manifesto sulla bacheca vicino alla porta, accanto a un volantino con

gli orari della riunione del gruppo di sostegno di domani. Spiega a Tree che sto cercandodi sistemare Dillo e Ridillo.

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Lei fa una smorfia.«Che c’è? Hai qualcosa contro i gatti?» le chiedo.Arriccia il naso. «Dillo e Ridillo... Sono nomi da... gay.»«Io sono bisessuale e non mi piace il modo dispregiativo in cui usi il termine “gay”» la

rimbrotta Alice in un tono che vuole essere scanzonato.«Be’, mi dispiace, so che erano i gatti della ragazza morta. Ciò non toglie che hanno

dei nomi da gay.»Da quello che dice, più che una hippie, Tree sembra una delle benpensanti reazionarie

della mia cittadina. E questo me la fa detestare un po’ di più e un po’ di meno allo stessotempo.

«Tu che nomi gli daresti?»Senza un attimo di esitazione risponde: «Clic e Clac. È così che li chiamo dentro di

me».«E hai il coraggio di criticare Dillo e Ridillo?» esclama Richard lo Scoppiato spuntando

dalla cucina con addosso un grembiule macchiato e un mestolo di legno in mano. «Iopropongo di chiamarli Lenny e Steve.»

«Non sono nomi da gatti» obietta Alice.«Perché no?» domanda Richard alzando il cucchiaio pieno di una sbobba che ha lo

stesso odore che proviene dalla cucina. «Chi vuole assaggiare?»«Che roba è?» si informa Tree.«Uno stufato in cui ho messo tutto quello che c’era in frigo.»«Perché non aggiungi anche i gatti?» suggerisce lei. «Così risolviamo il problema di

dove sistemarli.»«Credevo che fossi vegetariana» ribatte acida Alice.Richard lo Scoppiato mi invita a provare il suo terribile intruglio. Dalla puzza si

direbbe che ci sia stata una specie di lotta fra le varie spezie senza che ne sia uscita unavincitrice, ma non è questa la ragione per cui rifiuto. Il fatto è che non sono più abituata asocializzare. Non so come sia successo. Una volta avevo degli amici, per così dire,frequentavo un po’ di gente. Andavo sempre a casa dei Garcia. Ma tutto questo succedevatanto tempo fa, o almeno così mi pare.

Lascio i coinquilini al loro pasto e vado in cucina a prendere da bere. Nella sua fogaculinaria, lo Scoppiato ha scombussolato l’interno del frigorifero e mi tocca spostare unbel po’ di roba per recuperare la bottiglia di Dr Pepper che avevo comprato e messo infresco. Così facendo, scorgo due lattine di Royal Crown Cola in fondo allo scomparto eavverto una stretta allo stomaco: Meg era l’unica persona di mia conoscenza che labeveva. Verso la bibita con del ghiaccio in una vecchia tazza dei Sonics. In quella casa nondeve restare la minima traccia della mia amica.

Esco a bere nel portico deserto. Tuttavia, non appena metto il naso fuori, mi rendoconto di non essere sola. Mi blocco di colpo, schizzandomi la maglietta.

Lui sta fumando. La brace della sigaretta arde minacciosa nella luce cupa e grigia delcrepuscolo. Non so cosa mi sorprenda di più: il fatto che la mia mail abbia sortito uneffetto o la sua espressione truce. Si direbbe pronto a uccidermi.

Non gliene do la possibilità. Poso la tazza sulla ringhiera del portico, giro i tacchi e

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salgo di sopra, lentamente, cercando di restare calma. È qui per la maglietta, perciò glielaandrò a prendere. Gliela tirerò in faccia e gli dirò di sparire.

Sento un rumore di ghiaino smosso, seguito dal tonfo dei suoi passi sugli scalinidietro di me. Non so cosa fare: se grido aiuto faccio una figuraccia, ma ho visto losguardo che aveva negli occhi...

Insieme alla mail gli è arrivato anche il mio astio, che adesso mi si ritorce contro.Entro in camera di Meg. La maglietta è dove l’ho lasciata, in cima a uno dei mucchietti.

Lui mi ha seguito e si trattiene sul vano della porta. Gliela lancio contro. Voglio che se nevada, che esca dal mio spazio. Invece non si muove. La maglietta gli finisce addosso escivola a terra.

«Che cazzo significa?» esclama.«Rivolevi la tua maglietta, no? Be’, eccotela.»«Ma che razza di persona sei?»«Perché? Cosa ho fatto? Ci tenevi tanto a riaverla e...»«Piantala con le stronzate, Cody» mi interrompe. È così strano sentirlo pronunciare il

mio nome. Non cowgirl Cody, con quello stupido bisbiglio da cascamorto. Solo il mionome, puro e semplice. «Mi hai mandato una mail dall’indirizzo di una ragazza morta.Sei una sadica? Oppure sei anche tu fuori di testa?»

«Rivolevi la tua maglietta» ripeto. Ma il tono impaurito mi rende poco convincente.Mi fulmina con lo sguardo. I suoi occhi hanno un colore diverso nella luce fioca della

stanza. Mi torna in mente una delle ultime mail di Meg – “Non devi più preoccuparti perme” – e sento di nuovo la rabbia montarmi dentro.

«Non potevi lasciarle un souvenir?» sbotto. «Forse dovresti distribuire magliette-ricordo a tutte le ragazze che ti scopi. Ma chiederla indietro non è molto elegante.»

«È ovvio che non sai di cosa stai parlando.»«Allora illuminami.» La mia voce tradisce una punta di disperazione. Il fatto è che ha

ragione. Non so di che cosa sto parlando. Se fossi più informata riguardo agli eventi degliultimi mesi, probabilmente adesso non saremmo qui a discutere.

Mi guarda con un’espressione schifata. Sembra impossibile che sia lo stesso ragazzosmanceroso della scorsa notte.

«Che cosa è successo?» chiedo. «Ti sei stufato di lei? È così che ti comporti di solitocon le ragazze? Be’, evidentemente sei privo di immaginazione, perché se avessiconosciuto davvero Meg non avresti mai potuto stancarti di lei. Chi cazzo sei tu, BenMcCallister, per dire a Meg Garcia di lasciarti in pace?» Mi trema la voce ma mi sforzo dimantenere i nervi saldi. Ci sarà tempo per crollare più tardi. Per quello c’è sempre tempo.

Ben cambia completamente faccia. Ora indossa una maschera di ghiaccio. «Come fai asapere che cosa le ho detto?»

«Ho visto la tua mail: “Lasciami in pace, Meg”.» Quando l’ho letta, mi è sembrata unafrase crudele, ma pronunciata da me è solo meschina.

Ben è annichilito. «Non so se sia più schifoso leggere le mail di una morta o scriveredal suo account.»

«Tra schifosi ci si intende» ribatto, nemmeno avessi otto anni.Lui mi guarda e scuote la testa. Poi se ne va, abbandonando la sua preziosa maglietta

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sul pavimento come un misero straccio.

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7

Dopo che Ben se n’è andato impiego circa un’ora a calmarmi e un’altra prima di trovare ilcoraggio di riaccendere il computer di Meg. Su una cosa non posso assolutamente darglitorto: non ho la minima idea di quello di cui sto parlando. E il modo in cui l’ha dettolascia intendere che Meg abbia fatto qualcosa che giustifica la sua stronzaggine. ConoscoMeg. E conosco i tipi come Ben. Nel corso degli anni ne ho visti a sufficienza girareintorno a mia madre.

Apro di nuovo il programma e clicco sulla cartella della posta inviata, ma ci sono solole prime mail, quelle di novembre: la parte di Meg nel flirt, tipo chi ha composto lecanzoni più belle, chi è il miglior batterista della storia, quale gruppo è statosopravvalutato, quale sottovalutato. Poco prima delle vacanze di Natale la corrispondenzasi interrompe bruscamente. Non ci vuole un genio per capire che cosa è successo. Sonoandati a letto insieme e poi lui l’ha scaricata.

Quello che non riesco a spiegarmi è il buco nei messaggi di Meg. È vero che non cisiamo scritte molto nell’ultimo inverno, ma sono sicura di aver ricevuto qualcosa da partesua. Entro nel mio account per verificare di non essermelo sognato: nella posta in arrivonon ci sono mail datate gennaio, mentre a febbraio ce ne sono alcune di Meg, che perònon risultano nel suo archivio.

Che strano! Forse un virus ha cancellato una parte dei messaggi? Oppure lei li haspostati in qualche altra cartella? Passo in rassegna le varie applicazioni, senza saperebene che cosa cercare. Apro il calendario: vuoto. Guardo nel cestino, pensando che se liha eliminati magari sono ancora lì. C’è della roba, ma la maggior parte dei file èilleggibile. Noto una cartella senza titolo. Quando ci clicco sopra appare un messaggio incui si dice che non posso aprirla dal cestino. La trascino sul desktop e ci riprovo. Un altromessaggio mi avvisa che il file è crittato. Temendo che contenga qualche virus chesputtanerebbe il computer, mi affretto a cestinarla di nuovo.

Sono solo le nove e mezzo, non ho ancora messo niente sotto i denti e ho una gransete, ma non mi va di scendere di sotto. Così mi spoglio e mi infilo nel letto, che conservaancora l’odore Meg: in questo momento mi conforta sentirlo. So che dormendo qui inparte lo coprirò con il mio, rendendo ancora più evanescente la sua traccia, ma non me neimporta. Del resto, è sempre stato così.

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8

Al mattino mi sveglio sentendo qualcuno bussare sommessamente alla porta. La luce delsole inonda la stanza attraverso la finestra non schermata. Mi metto a sedere nel letto. Hol’impressione di avere la testa piena di sabbia. Bussano ancora.

«Avanti» dico con voce rauca.Compare Alice con in mano una tazza di caffè, di sicuro raccolto da nani nicaraguensi.Mi stropiccio gli occhi e accetto il caffè biascicando un grazie. «Che ore sono?» le

chiedo.«Mezzogiorno.»«Mezzogiorno? Ho dormito tipo quattordici ore.»«Lo so.» Alice si guarda intorno. «Allora non era Meg. Magari questa stanza ha un

effetto soporifero, come il campo di papaveri del Mago di Oz.»«Che vuoi dire?»«Meg dormiva un sacco. Praticamente non faceva altro, a parte uscire con i suoi “amici

cool di Seattle”» dice virgolettando la frase con le dita.«A Meg piace... piaceva dormire. Il suo cervello girava sempre a mille e aveva bisogno

di molte ore di sonno per rinvigorirsi.»Alice fa una faccia poco convinta. «Non ho mai conosciuto nessuno che dormisse così

tanto.»«E poi in seconda liceo ha avuto la mononucleosi» le spiego mentre mi torna alla

mente quell’anno tremendo. Meg era stata quasi sempre assente da scuola: aveva dovutostudiare a casa per interi mesi, costretta a letto.

«La mononucleosi?» esclama Alice. «E non si era ancora ripresa?»«L’ha avuta in una forma particolarmente grave.» Ricordo che i Garcia non mi

permettevano di andarla a trovare per paura del contagio.«Sarà stato il virus di Epstein-Barr o roba simile» osserva Alice sedendosi sulla sponda

del letto. «Non lo sapevo. Non la conoscevo bene.»«Sei qui solo da pochi mesi.»«Che però mi sono bastati per conoscere gli altri» replica stringendosi nelle spalle. «E

credo che nemmeno loro la conoscessero bene. Era piuttosto scostante.»Con Meg non c’erano vie di mezzo: o era tua amica o non lo era. E non sopportava gli

stupidi. «Bisognava sforzarsi un po’ per conoscerla sul serio.»«Ma io ci ho provato» insiste Alice.«Evidentemente non abbastanza. Insomma, i vostri rapporti non dovevano essere poi

tanto idilliaci se le avete attaccato sulla porta un’immagine come quella.»Gli occhioni da cerbiatto di Alice si riempiono di lacrime. «Non siamo stati noi. Ce

l’aveva messa lei. E ci è stato detto di non toccare niente.»

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Dunque era stata Meg ad affiggere la copertina. Magari uno psicologo lo avrebbeinterpretato come un segnale di allarme, una richiesta di aiuto, anche se mi è difficilenon scorgere in quel gesto l’umorismo contorto della mia amica. Il suo modo percongedarsi. «Ah!» esclamo. «Adesso sì che ha senso.»

«Tu credi? Mi sembra un po’ morboso. Ma, come ho già detto, la conoscevo poco.Probabilmente ho passato più tempo con te che con lei» ammette con tristezza.

«Vorrei poterti dire che non ti sei persa molto, ma non è così.»«Raccontami di lei. Com’era?»«Vuoi sapere com’era?»Alice annuisce.«Be’, lei era...» Allargo le braccia a significare la vastità, l’ampiezza potenzialmente

infinita di possibilità. Non so se questo riesca a dare un’idea di Meg o di come mi sentivoquando ero con lei.

Alice ha un’aria talmente implorante che provo a dirle qualcosa di più. Le racconto diquando io e Meg ci trovammo un lavoretto estivo come operatrici di telemarketing – ilmestiere più noioso del mondo – e, per divertirsi un po’, lei faceva una voce diversa aogni telefonata. Le riusciva talmente bene che finiva per accalappiare un sacco di clienti,superando alla grande la quota giornaliera minima, tanto che la mandavano sempre acasa prima.

Le parlo di quando, a causa di pesanti tagli al bilancio, la biblioteca municipale limitògli orari di apertura a tre giorni alla settimana: una tragedia per me che, se non ero daiGarcia, praticamente vivevo lì. Meg, pur non essendo un’assidua frequentatrice dellabiblioteca, si diede da fare come una matta per mobilitare l’opinione pubblica contro lachiusura. Tramite il suo blog riuscì a coinvolgere una band – all’epoca moderatamentenota e oggi tra le più acclamate della scena musicale – e a organizzare nella nostra cittàun concerto di beneficenza che attirò pubblico da ogni parte, raccogliendo qualcosa comedodicimila dollari. Grazie al fatto che la band era già abbastanza conosciuta e allapersonalità prorompente di Meg, l’iniziativa ottenne l’attenzione della stampa nazionalee alla fine la biblioteca fu costretta a estendere l’orario di apertura.

Le racconto anche della volta in cui Scottie, che è sempre stato un po’ schizzinoso sulcibo, finì per diventare anemico. I medici si raccomandarono che mangiasse alimentiricchi di ferro, ma Sue non sapeva come fare, dato che era impossibile convincere il figlioa seguire un’alimentazione sana. Meg, però, conoscendo la mania del fratello per itrattori, trovò su eBay una serie di stampi per alimenti con quella forma e li usò perpreparare sformati di patate, carne e spinaci che Scottie divorò avidamente.

E poi ci fu il mio brutto litigio con Tricia, la volta che scappai di casa per andare allaricerca di mio padre nonostante lei mi avesse detto di aver perso le sue tracce da anni.Arrivai fino a Moses Lake prima di esaurire soldi e coraggio. Ero ormai sull’orlo di unacrisi di nervi quando vidi spuntare una macchina con a bordo Meg e Joe. Avevano seguitoil mio pullman per tutto il tempo. Questo però non lo dico ad Alice, perché è il genere diconfidenza che puoi fare solo a una buona amica. E io ho perso l’unica che avevo.

«Ecco, questa era Meg» concludo. «Una che non si tirava mai indietro e si faceva inquattro per risolvere i problemi di tutti.»

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«Tranne i propri» commenta Alice dopo una pausa di silenzio.

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9

L’ultimo spettacolo funebre per Megan Luisa Garcia si tiene su un piccolo promontoriogiù al Sound. Un chitarrista e un violinista suonano Lumina di Joan Osborne. Qualcunolegge dei brani di Khalil Gibran. Sono presenti appena una ventina di persone, tutte inabiti normali. Il maestro di cerimonie è del centro di sostegno psicologico del campusma, grazie al cielo, non si mette a fare un predicozzo sul servizio pubblico di prevenzionedel suicidio, snocciolando i vari segni premonitori di cui evidentemente nessuno si èaccorto. Invece, parla della disperazione che cresce e si alimenta nel silenzio, fino aspingere le persone come Meg a compiere l’irreparabile. La disperazione che si è lasciatadietro – anche per chi non la conosceva – va percepita e rispettata.

Poi lo sguardo dell’oratore vaga tra i presenti e finisce per posarsi su di me. Io non l’homai visto prima e me ne sto seduta in disparte accanto ad Alice; ho acconsentito amalincuore a partecipare, soltanto perché mi sentivo in colpa per averla accusata di avereappeso la copertina dell’album dei Poison Idea sulla porta di Meg.

«Mi rendo conto che molti di voi fanno fatica a trovare un senso a tutto questo. Anchese il fatto che non conoscessimo bene Meg può alleggerire il peso, il processo dielaborazione non è meno difficile. So che è qui presente una sua cara amica, Cody, cheimmagino stia passando attraverso questa difficile fase.»

Fulmino con un’occhiata Alice, che ovviamente è la responsabile della fuga di notizie,ma lei mi restituisce uno sguardo inespressivo.

Il tizio prosegue. «Te la senti, Cody, di condividere con noi qualcosa riguardo a Meg? Odi raccontarci quello che stai passando?»

«Non ho nessuna intenzione di muovermi» sussurro fra i denti ad Alice.Lei mi fissa con gli occhioni sgranati per lo stupore. «Mi è stato così utile quello che mi

hai detto prima. Ho pensato che magari poteva essere di aiuto anche ad altre persone. E ate.»

Tutti quanti mi stanno guardando. Alice continua a darmi di gomito. Vorrei strozzarla.«Dài, racconta la storia della biblioteca, di suo fratello...» bisbiglia.Ma, una volta uscita allo scoperto, non tiro fuori nessuna commovente storiella su

biblioteche, fratelli schizzinosi o concerti di beneficenza. «Volete sapere qualcosa diMeg?»

È una domanda retorica, e il mio tono è intriso di sarcasmo, eppure quel gregge dipecorelle mi fa un cenno incoraggiante con la testa.

«Meg era la mia migliore amica e credevo che non ci fossero segreti fra noi, che cidicessimo tutto. Invece ho scoperto di non conoscerla affatto.» In bocca ho un fortesapore metallico. È sgradevole, ma lo assaporo come si fa con il sangue quando si perdeun dente da latte. «Non sapevo niente della sua vita qui. Non sapevo quali corsi seguisse

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né con chi abitava. Ignoravo che avesse adottato due gattini malconci e che si fosse presacura di loro, per poi lasciarli orfani. Non sapevo nemmeno che frequentasse i locali diSeattle, che avesse degli amici e si prendesse delle cotte per ragazzi che le spezzavano ilcuore. Ero la sua migliore amica e non sapevo niente di tutto questo perché lei non me loaveva detto. Non mi aveva mai parlato del suo male di vivere. Non avevo la minima ideadi quello che stava passando.» Mi sfugge una specie di risolino isterico. Se non sto attentarischio di dire qualcosa che non vorrei mai sentire, che nessuno vorrebbe sentire. «Comesi fa a ignorare quello che prova la propria migliore amica? Anche se non te ne parla,dovresti capirlo. Com’è possibile che una ragazza così bella e vitale, la persona piùmagica che io abbia mai conosciuto, soffrisse tanto da arrivare a ingerire un velenotalmente potente da farle fermare il cuore? Quindi, per favore, non chiedetemi di parlaredi Meg, perché non so un bel niente di lei.»

Guardo gli astanti illuminati da qualche raggio di sole. Alcuni sono rimasti a boccaaperta. È una bella giornata e nell’aria si avverte la promessa della primavera: cielo terso,nuvolette di bambagia, il dolce profumo dei primi fiori portato dalla brezza. È assurdoche esistano giornate così. Che sia primavera. Una parte di me era convinta che l’invernosarebbe durato tutto l’anno.

Qualcuno sta piangendo per colpa mia. Sono diventata tossica. Bevetemi e morirete.«Scusate» dico e batto in ritirata.

Via. Via dal prato, fuori dal parco, verso la strada principale. Devo andarmene di qui.Lontano da Tacoma. Lontano dal mondo di Meg.

Sento dei passi dietro di me. Sarà Alice, o magari lo Scoppiato. Non ho niente da dire anessuno dei due, perciò continuo a correre. Ma il mio inseguitore, chiunque sia, è piùveloce.

Quando una mano mi tocca la spalla, mi giro di scatto. Stavolta i suoi occhi hanno ilcolore violaceo del cielo dopo il tramonto. Non mi era mai capitato di vedere degli occhiche cambiassero a seconda dello stato d’animo. Ammesso che lui ce l’abbia, un’anima.

Restiamo a fissarci per alcuni istanti mentre riprendiamo fiato.«Se vuoi, posso dirti io alcune cose.» Grugnisce come al solito, ma nella sua voce si

avverte una punta di esitazione.«Non le voglio sapere.»«Potrei raccontarti che cosa faceva Meg qui, se ti interessa.»«E tu che ne sai? Per te lei è stata soltanto una botta e via...»Fa un cenno con la testa come a significare che quello non è il luogo adatto. «Andiamo

a parlare da un’altra parte.»«Perché sei venuto?»«La sua coinquilina mi ha dato il volantino.»Questo, però, spiega solo perché fosse a conoscenza della cerimonia, non il motivo per

cui è venuto.Restiamo immobili.«Dài, andiamo a sederci da qualche parte a parlare» insiste.«E di cosa? Sai per caso perché si è uccisa?»Ecco che si ritrae di nuovo. Scatta indietro come il cane di una pistola. Come se fosse

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stato strattonato. Stavolta, però, l’espressione che gli si dipinge sulla faccia non è dirabbia. «No» dice.

Camminiamo fino a un McDonald’s. All’improvviso ho una gran fame, e non di robavegetariana, biologica o sana. Ho bisogno di rifocillarmi. Ordiniamo due menu QuarterPounder Deluxe e andiamo a sistemarci a un tavolino tranquillo vicino al cortile deserto.

Mangiamo in silenzio per un po’, poi Ben comincia a parlare. Mi racconta di quandoMeg ha fatto il suo ingresso nell’ambiente indie rock, dell’amicizia che ha subito strettocon un sacco di musicisti del posto. Già, lei era fatta così. Quella diciottenne appenasbarcata a Seattle da una cittadina di provincia del cavolo si era inserita nel giro con unadisinvoltura sorprendente e tutti quanti avevano finito per adorarla. Nemmeno questo mistupisce. All’inizio Ben era invidioso di Meg. Arrivato a Seattle dall’Oregon due anniprima, aveva dovuto sputare sangue per conquistarsi uno spazio sulla scena musicale.Lui e Meg potevano passare ore a discutere su chi fosse il miglior batterista tra KeithMoon e John Bonham, o il miglior chitarrista tra Jimi Hendrix e Ry Cooder, o se fosseropiù belli i testi dei Nirvana o dei Rolling Stones. Da Ben apprendo che Meg adottò i duegattini dopo avere sentito i miagolii provenire da un cartone vicino a un cassonetto, neipressi del ricovero per senzatetto di Tacoma dove lavorava come volontaria qualche oraalla settimana. Li portò dal veterinario, spendendo centinaia di dollari per farli curare.Mobilitò alcuni dei musicisti più in voga della città per sollecitare donazioni da devolverealle cure – e in questo, ancora una volta, la riconosco in pieno – e li nutriva lei stessadando loro il latte per neonati con il contagocce perché erano troppo piccoli per mangiarecibo per gatti. Di tutte le cose che mi ha raccontato, è proprio l’immagine di Meg che dàamorevolmente da mangiare a quei poveri gattini a commuovermi fino alle lacrime.

«Perché mi stai dicendo tutto questo?» Adesso è la mia voce a essere praticamente ungrugnito.

Il pacchetto di sigarette è posato sul tavolo, ma invece di accendersene una Ben silimita a giocherellare con l’accendino. A ogni scatto la fiammella sibila. «Mi sembrava chene avessi bisogno.» Dal tono pare quasi un’accusa.

«Perché mi stai dicendo tutto questo?» ripeto.La fiamma dell’accendino gli illumina gli occhi per un attimo, e ancora una volta riesco

a scorgere le varie sfumature del senso di colpa. Come i miei, gli occhi di Ben ardono diun furore più vivo di quello della fiamma con cui sta giocando.

«Parlava di te, sai?» dice.«Sul serio? Di te invece no.» Cosa che, naturalmente, non corrisponde al vero, ma non

voglio dargli la soddisfazione di sapere che Meg gli aveva dato un nomignolo. In ognicaso, non riesco a vedere in lui proprio niente di tragico.

«Mi ha raccontato di quando, mentre facevi le pulizie in casa di un tipo, quello ti hapalpato il culo e allora tu gli hai preso il braccio e gliel’hai piegato dietro la schiena cosìforte che si è messo a strillare e ti ha aumentato la paga.»

Già, mi era capitato con il signor Purdue. Dieci dollari alla settimana. Ecco quanto valeuna palpata indesiderata al culo.

«Ti chiamava “Buffy l’ammazzavampiri”.»Da questo, ancor più che dall’aneddoto sul signor Purdue, capisco che Meg gli ha

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effettivamente parlato di me. Mi chiamava così quando voleva complimentarsi di qualchemia prodezza. Lei, invece, sosteneva di essere Willow, l’amica di Buffy Summers dotata dipoteri magici. Ma si sbagliava, perché in realtà era allo stesso tempo Buffy e Willow, forzae magia incarnate in una sola persona. Io mi limitavo a splendere di luce riflessa.

Non mi piace che Ben sappia queste cose di me: è come se avesse visto le mieimbarazzanti foto da piccola. Non ha il diritto di conoscere certi dettagli. «Ti ha detto unsacco di cose per essere stata l’avventura di una notte.»

Fa una faccia afflitta. Che attore quel Ben McCallister! «Eravamo amici» afferma.«Non sono sicura che “amici” sia la parola giusta.»«No» insiste «prima che tutto andasse a puttane eravamo amici.»Le mail. Le punzecchiature. I battibecchi scherzosi. Il cambiamento improvviso.«Allora cos’è successo?» domando, anche se lo so benissimo.Eppure è scioccante sentirgli rispondere: «Abbiamo scopato».«Siete andati a letto insieme» lo correggo. So ciò che dico. Dopo quello che aveva

passato l’altra volta, Meg non si sarebbe più lasciata andare con qualcuno se non ne erainnamorata. «Meg non era una che scopava in giro.»

«Allora diciamo che me la sono scopata» ribadisce Ben. «E il sesso rovina l’amicizia»aggiunge facendo scattare l’accendino e lasciandolo spegnere subito dopo. «Lo sapevo,eppure l’ho fatto lo stesso.»

La sua sincerità lo rende ripugnante e magnetico allo stesso tempo, come un terribileincidente stradale che non riesci a impedirti di guardare, anche se poi avrai gli incubi.«Se sapevi che avresti rovinato tutto, perché l’hai fatto?»

Sospira e scuote la testa. «Sai com’è, quando sei preso dal momento non ti metti apensare al giorno dopo.» Mi rivolge uno sguardo d’intesa, ma la verità è che io non so unaccidente. Anche se può sembrare incredibile, io non l’ho mai fatto. Quando vieni da unasituazione degradata, cerchi in tutti i modi di non farti condizionare dall’ambiente,nonostante il più delle volte sia un’impresa impossibile. Comunque non mi darei lazappa sui piedi scopandomi uno degli sfigati del buco in cui sono nata.

Non dico niente e fisso il cortile vuoto.«Lo abbiamo fatto una volta sola, ma è stato sufficiente. Subito dopo tutto ha

cominciato ad andare a rotoli.»«Quando è successo?» chiedo.«Non so... Fine novembre. Perché?»Tutto torna. La mail in cui Meg alludeva all’avvertimento di Tricia era arrivata prima

delle vacanze del Ringraziamento. Ma i gattini? Quelli li aveva trovati dopo le vacanze. Ela disavventura con il signor Purdue risaliva a febbraio, poche settimane prima che Megsi togliesse la vita. «Se i rapporti fra voi si erano incrinati da un pezzo, come fai a saperetutte queste cose recenti sui gatti e su di me?»

«Pensavo che avessi letto le mail.»«Solo un paio.»Ben fa una smorfia. «Quindi non hai letto tutto quello che mi ha scritto?»«No. E comunque manca buona parte della corrispondenza. Più o meno da gennaio

alla settimana prima che morisse.»

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Sul viso gli passa un’espressione di sconcerto. «Hai un computer con te?»«Quello di Meg. È in camera sua.»Ben resta in silenzio per alcuni secondi, come se stesse soppesando la questione. Poi

accartoccia gli imballi vuoti del cibo. «Andiamo.»

Torniamo nella stanza di Meg. Ben entra nel suo account di posta elettronica, impostauna ricerca per nome e sullo schermo appare una sfilza di mail di Meg. Si alza di scatto emi lascia il posto sulla sedia davanti al computer. Ridillo entra balzelloni dalla portaaperta e si mette a farsi le unghie sugli scatoloni.

Scorro i primi messaggi. I motteggi, lo scambio su Keith Moon e i Rolling Stones.Guardo Ben.

«Vai avanti.»Faccio come mi dice. Il flirt prosegue, le mail sono sempre più lunghe. Poi vanno a

letto insieme. Ed è come un frego nero nello spazio. Le mail di Ben si fanno distaccate,quelle di Meg hanno dapprima un tono disperato, poi demenziale. Forse se le avessescritte a me non sarebbero sembrate così strane, ma erano indirizzate a uno con cui eraandata a letto una sola volta. Gli scriveva pagine e pagine a proposito dei gatti, della suavita, di me; si sarebbe detto un diario dettagliato delle sue giornate. Più lui cercava diallontanarla, più lei gli intasava la casella di posta. Non era andata completamente fuoridi testa, però.

È evidente che era consapevole della stranezza del proprio comportamento: alla fine didiverse mail, lunghe anche otto, dieci pagine, manifestava la volontà di essere rassicurata– “Siamo sempre amici, vero?” –, come per chiedere il permesso di continuare aconfidarsi. Mi imbarazza leggerle e mi vergogno un po’ anche per lei. Sarà per questo chele ha cancellate dalla posta inviata?

Le mail a Ben, tutte dello stesso tenore, si susseguono a cadenza di due, tre giorni, persettimane e settimane. È impossibile leggerle tutte, non solo per la loro lunghezza, maanche perché mi provocano un’angosciante stretta allo stomaco. Alcune fannoriferimento a S MS o telefonate che Meg gli aveva fatto. Chiedo a Ben con quale frequenzalo chiamasse, ma lui non risponde. Poi vedo uno degli ultimi messaggi che lui le hamandato: “Trovati qualcun altro con cui parlare”. E pochi giorni dopo: “Lasciami inpace”. Ripenso all’ultima mail che gli ha scritto Meg: “Non devi più preoccuparti perme”.

Basta. Devo fermarmi. Ben mi sta guardando con un’espressione che non mi piace.Preferisco il fighetto gasato che ho incontrato la prima sera. Io voglio odiare BenMcCallister. Non sopporto che mi guardi con quegli occhi miti, che abbia quell’ariavulnerabile, quasi supplice, come se avesse bisogno di conforto. E men che meno miaspetto da lui uno slancio di generosità, tipo offrirsi di pensare ai gattini. Ma èesattamente quello che fa.

Resto a fissarlo come a dire: “Ma chi sei?”.«Li posso lasciare da mia madre la prossima volta che torno in Oregon. Casa sua è una

specie di zoo, due gatti in più non saranno certo un problema.»«E nel frattempo?» chiedo.

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«Divido un appartamento a Seattle con altra gente. C’è un giardino, e i miei coinquilinisono tutti vegani e animalisti convinti. Non possono rifiutarsi se non vogliono passareper ipocriti.»

«Per quale motivo faresti una cosa del genere?» Non so perché lo stuzzico. Ho bisognodi trovare una sistemazione per i gatti, e Ben è stato l’unico a farsi avanti. Sarei dovutastare zitta.

«Mi sembrava di avertelo appena spiegato» ribatte. È un sollievo sentire di nuovo queltono ringhioso.

Tuttavia, dal modo in cui fa vagare lo sguardo per la stanza evitando di incrociare ilmio, direi che si rende conto di non avere spiegato un bel niente. E dal modo in cui iofaccio vagare lo sguardo per la stanza evitando di incrociare il suo, direi che non c’èbisogno di spiegazioni.

L’indomani mattina Ben passa da casa a prendere i gatti mentre sto finendo di sigillaregli ultimi scatoloni. Metto Dillo e Ridillo nel trasportino, raccolgo i loro giochi e gliconsegno il tutto.

«Dove sei diretta?» mi chiede.«Prima al deposito dell’UPS e poi alla stazione dei pullman.»«Posso darti uno strappo.»«Non disturbarti. Chiamerò un taxi.»Dal trasportino proviene un miagolio. «Non fare la stupida» dice Ben. «Ti toccherà

pagarne due.»Per un attimo mi viene il sospetto che si sia offerto di darmi un passaggio perché ha

intenzione di rimangiarsi la parola riguardo ai gatti. Ma ha già cominciato a caricare leborse nel bagagliaio e ha sistemato il trasportino sul sedile posteriore.

La macchina è un casino: ci sono lattine vuote di Red Bull ovunque e puzza disigaretta. Un cardigan con una decorazione di perline è appallottolato sul posto di dietro.

Il coinquilino misterioso, Harry Kang, ci aiuta a caricare gli scatoloni. Poi, benchédurante il mio soggiorno non ci siamo scambiati nemmeno una parola, mi stringe lamano e dice: «Per favore, di’ ai genitori di Meg che la mia famiglia prega per loro ognigiorno». Si sofferma un istante a guardarmi e poi aggiunge: «Chiederò ai miei di pregareanche per te».

Nonostante dopo la morte di Meg le persone continuino a ripetere stronzate delgenere, quelle parole inaspettate da parte di Harry mi fanno venire un groppo in gola.

Dillo e Ridillo miagolano per tutto il tragitto fino al deposito dell’UPS . Ben aspetta inmacchina mentre mi occupo della spedizione, dopodiché mi accompagna alla stazionedei pullman. Farò in tempo a prendere la corriera dell’una. Sarò a casa per cena. Non chemi aspetti di trovare qualcosa di pronto.

Dillo e Ridillo non hanno ancora smesso di miagolare, e adesso si sente odore dipiscio. Ormai ho la certezza che Ben mi dirà di avere cambiato idea, di avermi fattocredere che avrebbe tenuto i gatti solo per vendicarsi della mia mail a proposito dellamaglietta.

Invece no. Quando apro la portiera, si limita a dire in tono sommesso: «Stammi bene,

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Cody».Mi viene la tentazione di riprendermi i cuccioli. Il pensiero di tornare a casa da sola mi

getta nello sconforto. Per quanto non desiderassi altro che mettere chilometri di distanzatra me e Ben McCallister, ora che sta per succedere mi rendo conto che è stato un sollievodividere questo peso con qualcuno.

«Anche tu. Tante buone cose.»Non è quello che volevo dire. Troppo frivolo. Ma forse è il meglio che si possa augurare

a una persona.

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A causa di una foratura in mezzo alle montagne perdo la coincidenza a Ellensburg earrivo a casa a mezzanotte passata. Dormo fino alle otto, vado a fare le pulizie daiThomas e verso sera mi trascino dietro i due borsoni dai Garcia.

Suono il campanello, cosa che prima facevo raramente. Viene Scottie ad aprire la porta.Gli domando come va, ma non c’è nemmeno bisogno di chiederlo. Dall’interno arriva unafragranza burrosa.

«Cupcake» risponde.«Deliziosi!» dico ostentando allegria.Lui scuote la testa. «Non avrei mai immaginato di poter dire una cosa simile, ma in

questo momento avrei voglia di broccoli.»Joe e Sue mi accolgono con una certa titubanza, come se avessi riportato loro indietro

Meg in carne e ossa e non semplicemente libri e vestiti. Poi mi abbracciano e miringraziano. Sue piange sommessamente. È una scena straziante.

So che i Garcia mi vogliono bene. Sue ha sempre detto di amarmi come una figlia ma èdiverso adesso che non ce l’ha più, una figlia.

Mi rivolgo a Scottie. Se è dura per me, per lui è ancora peggio. Neanche fossi BabboNatale con il suo sacco di doni, gli dico: «Allora, guardiamo un po’ che cosa c’è?».

Dal momento che nessuno sembra interessato, tiro fuori il computer di Meg dallozainetto e lo tendo a Joe e Sue. Si scambiano un’occhiata e scuotono la testa.

«Ne abbiamo discusso» dice Joe. «Vogliamo che lo prenda tu.»«Io?» So quanti sacrifici hanno fatto per comprarlo. «No, non posso.»«Per favore. Ci teniamo davvero» interviene Sue.«E Scottie?»«Scottie ha dieci anni» osserva Joe. «Può usare il computer di casa. Avrà tutto il tempo

per averne uno suo.»Sue contrae il viso, come se stentasse a fare affidamento sul tempo. Ma si riprende

subito e dice: «E poi ti servirà quando tornerai all’università».Annuisco, e fingiamo tutti di crederci.«È troppo» obietto.«Cody, prendilo» insiste Joe, quasi bruscamente. Allora capisco che forse il vero regalo

non sta tanto nel computer in sé ma nel fatto che io lo accetti.

Prima che me ne vada Sue mi impacchetta una decina di cupcake da portare a casa. Laglassa è rosa e bianca, colori che comunicano tenerezza e allegria. Anche il cibo mente.

Scottie porta Samson a fare una passeggiata e mi accompagna per un pezzo di strada.«Mi dispiace per il computer, Tappetto.»

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«Non fa niente. Posso usare la PlayStation.»«Potresti venire a trovarmi e insegnarmi a giocare a uno dei tuoi videogiochi.»«Va bene» dice tutto serio. «A patto però che non mi lasci vincere. Ho la sensazione

che gli altri mi lascino vincere perché mia sorella è morta.»Annuisco. «Io sono la migliore amica della morta. Quindi siamo perfettamente pari. Il

che mi autorizza a farti nero.»È la prima volta da un bel pezzo che lo vedo sorridere.

A casa trovo Tricia intenta a scaldare nel microonde un piatto pronto. «Vuoi favorire?» michiede. Questo è il massimo della sua concezione del ruolo materno.

Ci sediamo a tavola davanti a un pollo alla cinese e le mostro il computer. Loaccarezza, impressionata. Chissà se le dà fastidio che i Garcia abbiano provveduto asoddisfare l’ennesima esigenza che lei invece ha ignorato, in aggiunta alle cene, allevacanze in campeggio e a tutto quello che hanno fatto per me mentre mia madre eraimpegnata al lavoro o usciva con uno dei suoi fidanzati.

«Mi sono sempre chiesta come funzionino questi affari» dice.«È davvero pazzesco che tu non sappia ancora usare un computer.»Tricia fa spallucce. «Finora me la sono cavata. Però ho imparato a mandare i

messaggini. Me lo ha insegnato Raymond.»Non le chiedo chi sia Raymond. Non ho bisogno di sapere che è il suo attuale

fidanzato. Mia madre non si prende mai la briga di portarli a casa o di presentarmeli, ameno che non capiti di incontrarci per caso. Poco male. Di solito spariscono dallacircolazione prima che io abbia il tempo di memorizzare il loro nome.

Finiamo di mangiare. Tricia non vuole assaggiare i cupcake di Sue, dice che fannoingrassare. Dato che non vanno nemmeno a me, rovista nel freezer e tira fuori un paio dicremini al cacao magro incrostati da una lieve patina di ghiaccio.

«Cos’era quella storia dei gatti?» mi domanda.«Eh?»«Mi hai chiesto se potevamo tenere dei gatti. Cos’è, cerchi di compensare l’assenza di

Meg con un animale da compagnia?»Mi va di traverso il gelato. «No.» Sono quasi tentata di dirle tutto, di raccontarle dei

gatti e della vita di Meg a Tacoma di cui ignoravo tutto. Ma sono abbastanza sicura chenon ne siano informati nemmeno i Garcia. La nostra è una piccola città, e se parlassi diqueste cose a Tricia, di sicuro lei le riferirebbe a qualcun altro e finirebbero per arrivarealle orecchie di Joe e Sue. «C’era da sistemare un paio di gattini randagi.»

Mia madre scuote la testa. «Non puoi mica dare un tetto a ogni vagabondo che incontriper strada.»

Parla come se la gente non facesse altro che bussare alla nostra porta in cerca di unricovero caldo e asciutto, quando in realtà le derelitte siamo noi.

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In segreteria trovo il messaggio di un consulente didattico dell’università che dichiara diessere consapevole delle mie “particolari circostanze” e mi invita a presentarmi a unappuntamento per definire insieme il mio piano di studi. Madison, un’ex compagna discuola, mi ha cercato per sapere come sto.

Non richiamo nessuno dei due. Cerco di tenermi impegnata, accetto un altro paio dilavoretti di pulizie, arrivando a sei alla settimana: un guadagno discreto. Il computer diMeg se ne sta sulla mia scrivania a coprirsi di polvere insieme ai libri. Finché unpomeriggio qualcuno suona alla porta di casa. Scottie. Samson è legato alla ringhiera delportico. «Sono qui per accettare la tua proposta di farmi nero» dice.

«Su, entra.»Accendiamo il computer.«A che cosa giochiamo?» domando.«Pensavo di cominciare con Soldier of Solitude.»«Che roba è?»«Ora ti faccio vedere.» Clicca sul browser. «Mmh...» Smanetta un po’ sulla tastiera.

«Non vedo nessuna connessione. Forse bisogna resettare il router.»Scuoto la testa. «Non c’è nessun router, Scottie. Niente internet.»Mi fissa, poi si guarda intorno come per rammentare a se stesso chi sono, chi è Tricia.

«Okay, non fa niente. Possiamo giocare direttamente sul computer.» Si riappropria delportatile. «Che giochi hai?»

«Non lo so. Dipende da quello che ci ha messo Meg.»Ci scambiamo un’occhiata trattenendo un sorriso. Meg odiava i videogiochi. Diceva

che prosciugano le cellule cerebrali. E infatti sul suo computer non c’è niente oltre alpacchetto di giochi preinstallati.

«Possiamo fare un solitario» propongo.«Non si può giocarci in due» obietta Scottie. «C’è una ragione se si chiama “solitario”.»Ho la sensazione di averlo deluso. Faccio per chiudere il portatile, ma lui mi blocca.«È con questo che ha mandato l’ultimo messaggio?»Scottie ha dieci anni. Non mi sembra il caso che affronti simili argomenti. Almeno non

con me. Chiudo il computer.«Cody, nessuno mi dice niente.»Ha un tono così patetico! Ripenso al messaggio di addio che gli ha mandato Meg. «Sì, è

questo il computer.»«Posso vedere?»«Scottie...»«Lo so che tutti vogliono proteggermi, salvaguardare la mia innocenza e via dicendo,

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ma mia sorella si è avvelenata. È un po’ tardi, no?»Sospiro. Conservo una stampata del suo messaggio di addio nella scatola sotto il letto,

ma sono sicura che non è quello che interessa a Scottie. So che ne conosce il contenuto,forse l’ha addirittura letto, o comunque gliene hanno parlato. Lui vuole vedere l’origine.Apro la cartella della posta inviata e gli mostro la mail. Socchiude gli occhi e legge.

«“Mi assumo tutta la responsabilità.” Non ti sembra strana come frase?» mi chiede.Scuoto la testa. No, per niente.«È solo che, quando venivamo beccati a combinare qualcosa, per tenermi fuori dai guai

lei diceva sempre così a mamma e papà: “Scottie non c’entra niente. Me ne assumo tuttala responsabilità”. Lo faceva per proteggermi.»

Meg aveva l’abitudine di coinvolgere Scottie nei suoi piani e poi doveva aiutarlo atogliersi dai pasticci. Prendeva sempre le sue parti. E di solito a ragione. Dato che non hoancora capito bene dove vuole andare a parare, il ragazzino di dieci anni me lo dicechiaro e tondo.

«È come se volesse proteggere qualcuno.»

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Dopo che Scottie se n’è andato mi metto a scorrere per l’ennesima volta le mail di Meg.Non riesco a capire che cosa possa averla indotta a cancellare i messaggi inviati. Forse haeliminato anche buona parte della posta in entrata, non sono in grado di dirlo concertezza. Ma perché proprio quelle sei settimane? Esiste un modo per recuperare imessaggi cancellati o sono perduti per sempre? Non ne ho idea e non saprei proprio achi rivolgermi.

A un tratto mi viene in mente Harry Kang, il compagno d’appartamento di Meg chestudia informatica. Frugo nelle tasche in cerca del foglietto con il numero di cellulare diAlice e la chiamo. Dal momento che non risponde, le lascio un messaggio in segreteriapregandola di dire a Harry di telefonarmi.

Il mattino dopo, alle sette e quarantacinque, mi sveglia il trillo del cellulare.«Pronto» dico con voce impastata.«Sono Harry Kang.»Mi metto a sedere sul letto. «Ciao, Harry. Sono Cody.»«Lo so. Ti ho chiamato io.»«Giusto. Grazie. Senti, non so se puoi aiutarmi, ma vorrei sapere se è possibile

recuperare dei messaggi cancellati da un computer.»«Intendi dire che mi hai cercato perché ti è andato in crash il computer?»«Non si tratta del mio, ma di quello di Meg. Sto cercando di recuperare dei dati che lei

deve avere cancellato.»Harry resta un attimo in silenzio, come se stesse riflettendo. «Che tipo di dati?»Gli spiego qual è il mio problema e che vorrei, se possibile, recuperare tutti i messaggi

cancellati.«Credo che si possa fare usando un programma specifico. Ma se Meg ha cancellato

quelle mail forse dovremmo rispettare la sua privacy.»«Lo so. Ma una frase della sua lettera di addio mi fa pensare che non abbia agito da

sola. È strano che abbia eliminato tutti quei messaggi. C’è qualcosa che non torna.»Silenzio dall’altra parte del filo. «Vuoi dire che qualcuno potrebbe averla costretta con

la forza?» chiede Harry alla fine.Puoi costringere qualcuno a bere del veleno? «Non lo so che cosa voglio dire. Appunto

per questo ho bisogno di vedere quelle mail. Magari sono in una cartella che ho trovatonel cestino ma che non riesco ad aprire.»

«Che cosa succede se ci provi?»«Aspetta.»Accendo il computer e trascino la cartella sul desktop. Ci clicco sopra e appare il

messaggio che avverte che il file è crittato. Lo leggo a Harry.

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«Prova così.» Mi detta una complicata serie di combinazioni di tasti. Niente da fare. Ilfile rimane crittato.

«Mmh.»Anche dopo diversi altri tentativi, non otteniamo alcun risultato.«Si direbbe un sistema di crittografia piuttosto sofisticato» osserva Harry. «Chi l’ha

usato sapeva il fatto suo.»«Quindi è impossibile sbloccarlo?»Harry scoppia a ridere. «No. Non esiste niente di inattaccabile. Con il computer sotto

mano probabilmente riuscirei a entrarci. Se vuoi, puoi spedirmelo, ma devi sbrigartiperché tra due settimane finiscono le lezioni.»

Porto il computer giù al drugstore, dove offrono un servizio di spedizioni. Dietro ilbancone ritrovo Troy Boggins, un tipo che era un anno avanti a me alle superiori.

«Ehilà, Cody! Dov’eri sparita?»«Non sono sparita» rispondo. «Ho solo avuto molto lavoro.»«Ah, già» biascica. «E dove lavori ultimamente?»Non c’è niente di cui vergognarsi nel fare le pulizie. È un mestiere onesto, e

probabilmente guadagno più di lui. Troy, però, non ha passato gli ultimi quattro anni aripetere che aspettava solo di avere il diploma in tasca per tagliare la corda. Nemmeno io,se è per questo. Ma Meg sì. E, come al solito, i suoi progetti diventavano anche i miei.Solo che alla fine lei se n’è andata per davvero e io, invece, sono rimasta.

Dato che non rispondo, Troy mi informa che la spedizione mi costerà quaranta dollaria tratta. «Qualcosa di più se vuoi anche l’assicurazione.»

Ottanta dollari? Praticamente quanto il biglietto del pullman. Il fine settimana siavvicina e ho un po’ di risparmi da parte, grazie alle ore di lavoro supplementari. Porteròdi persona il computer a Tacoma, così almeno avrò subito le risposte che cerco.

Dico a Troy che ci ho ripensato.«Nessun problema.»Sto per andarmene quando lui aggiunge: «Ti va di uscire una di queste sere? Ci

prendiamo una birretta insieme?».Se avesse quindici o vent’anni in più, Troy Boggins sarebbe il genere di uomo con cui

uscirebbe Tricia. A scuola non mi aveva mai degnato di uno sguardo. Questo improvvisointeresse da parte sua dovrebbe lusingarmi, invece lo avverto come una minaccia. Quasiche, senza più Meg accanto, mi rivelassi per quella che sono. Quella che sono semprestata.

Tricia mi lancia uno strano sguardo quando le annuncio che ho intenzione di tornare aTacoma nel fine settimana. Non che abbia qualcosa in contrario. Ho diciotto anni, ecomunque lei non è mai stata quel tipo di madre.

«Per caso c’è di mezzo un ragazzo?» mi chiede.«Come? No! È per la roba di Meg. Cosa ti viene in mente?»Socchiude gli occhi e tira su con il naso, come se cercasse di fiutare qualcosa. Poi mi

allunga venti dollari per il viaggio.

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Scrivo un SMS ad Alice per dirle che sono in arrivo e chiederle se mi ospita per lanotte. Mi risponde con una sfilza di punti esclamativi, nemmeno fossimo amicone.Sabato sarà occupata tutto il giorno con il tirocinio, ma domenica potremo fare qualcosainsieme. Avverto anche Harry, il quale non vede l’ora di mettere le mani sul computer diMeg.

Arrivo tardi, trovo il divano già preparato per la notte e mi addormento di schianto.L’indomani mattina seguo Harry in camera sua, dove ci sono cinque computer accesi eronzanti. Avviamo il portatile di Meg. Per prima cosa Harry entra nel programma di postaelettronica.

«Non sono sicuro che sia possibile recuperare i messaggi» mi informa dopo averesmanettato un po’. «Il suo programma di posta è configurato con IMAP perciò, una voltacancellate le mail, non ne resta traccia sul server.»

Annuisco come se quello che ha detto avesse senso per me.Clicca sul documento crittato. «Probabilmente voleva eliminare anche questo, ma per

qualche motivo il file si è corrotto, impedendo così alla macchina di cancellarlo.»«Che cosa significa?»«L’hai trovato nel cestino, giusto?»Annuisco di nuovo.«Deve aver cercato di svuotarlo, ma guarda...» Apre il menu e seleziona VUOTA IL

CES TINO.«Non farlo!» strillo.Con la mano mi fa segno di stare tranquilla. Alcuni file spariscono, ma poi appare un

messaggio di errore: “L’operazione non può essere completata perché l’elemento‘Cartella senza nome’ è in uso”.

«Ho fatto una prova buttando alcune cartelle vuote per vedere se riuscivo a eliminarle.Si sono cancellate tutte meno questa. Non preoccuparti, l’ho già copiata sul miocomputer. A ogni modo, direi che Meg voleva sbarazzarsene ma non c’è riuscita.»

«Ah.»«Di qualsiasi cosa si tratti, non voleva che altri la leggessero. Sicura che vuoi andare

avanti?»Scuoto la testa. No che non sono sicura. «La questione non è cosa voglio io.»«D’accordo. Questo pomeriggio ho da fare, ma ci lavorerò prima di uscire e poi stasera.

Bisognerà trafficarci un po’.»Faccio per scusarmi della seccatura quando mi accorgo che gli brillano gli occhi

dall’eccitazione, come se gli avessi appena dato da risolvere il rompicapo più difficile delmondo. Allora lo ringrazio.

Harry annuisce. «Come stanno i gattini?»«Non lo so. Li ha presi quel ragazzo, Ben.»«Vive a Seattle, vero?»Mi stringo nelle spalle. Così ha detto.«Nel pomeriggio vado a Seattle con il gruppo della parrocchia per tinteggiare un

centro giovanile. Possiamo darti un passaggio se hai voglia di andare a trovarli.»

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«Sono gatti, Harry, mica bambini. E poi non è sicuro che siano ancora a Seattle. Dovevaportarli da sua madre.» Anche se, da come parla, Ben non mi ha dato l’impressione diessere uno che va a trovare la madre tutte le settimane. «In ogni caso, non sono più affarmio.»

Harry alza le mani in segno di resa. «Come non detto. Mi sembrava che ci tenessi. Meggli era molto affezionata.»

«Io non sono Meg.»Lui annuisce di nuovo. «E ora, al lavoro!»

La mattinata si trascina stancamente. Alice e lo Scoppiato non sono a casa e Harry non hamesso il naso fuori dalla sua camera. Io me ne sto seduta nel portico a guardare lapioggia cadere. In un angolo scorgo uno di quei topolini di flanella imbottiti di erba gattacon cui Dillo e Ridillo giocavano per ore. Ho l’impressione che stia fissando proprio me.

«E va bene.» Afferro il cellulare e scrivo un S MS a Ben.

Come stanno i gattini?

La risposta è immediata.

Sono fuori. Cercano di acchiappare la pioggia.

Mi manda una foto dei mici che zampettano in cortile.

Ottimo passatempo per i gatti di Seattle.

Meglio che mordersi la coda.

Tu dovresti saperlo.

Ah ah! Dove sei?

A Tacoma.

Passano svariati secondi prima del messaggio successivo.

Fai un salto a trovarli? Crescono così in fretta.

Non so bene perché avverto un tuffo al cuore, ma so che il pensiero di rivedere BenMcCallister mi ripugna e mi attrae allo stesso tempo. Senza starci a pensare troppo glirispondo.

Okay.

Tre secondi dopo mi arriva un altro S MS .

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Ti serve un passaggio?

Sono a posto.

Mi scrive l’indirizzo di casa sua e mi dice di avvisarlo strada facendo.

C’è una vagonata di gente della parrocchia di Harry diretta a Seattle e resto allibita nelloscorgere lo Scoppiato in fondo al pulmino.

«Ciao, Cody» mi saluta.«Ciao, Richard. Non ti facevo...»«Un fervente cristiano?» Ride. «Mi sono unito solo per sniffare la vernice. Ho finito

l’erba.»Una delle ragazze sedute nel mezzo gli tira un rullo da pittura. «Piantala, Richard.

Perché devi sempre dire un sacco di stronzate?»Una banda di buoni samaritani sboccati e fumati. Okaaay...«Suo padre è un pastore della chiesa di Boise» mi spiega la ragazza. «Tu vai in chiesa?»«Solo per le messe commemorative.»Richard, Harry e la tipa si scambiano un’occhiata. Anche se non credo che sia una

studentessa del campus di Cascades, è evidente che ha colto l’allusione.Qualcuno spara a tutto volume Sufjan Stevens, e Richard, Harry e il resto della

compagnia cantano in coro per tutta la strada fino alla periferia di Seattle. Mando un S MSa Ben per avvertirlo che sono nelle vicinanze. Lui mi risponde:

Ridillo ha appena usato la lettiera. Te la tengo in caldo.

Sorrido, mio malgrado.«Sta’ attenta.» A dirlo è lo Scoppiato. Scavalca la fila di sedili in fondo mentre

imbocchiamo la rampa d’uscita.«Sei tu quello che fa surf su un veicolo in movimento.»Si lascia scivolare accanto a me. «Conosco i tipi come quello. Ho visto come si è

comportato con Meg. Fuori, tutto moine e carinerie, dentro, un pezzo di merda.»A questo punto mi succede una cosa pazzesca. Per un attimo sono lì lì per prendere le

difese di Ben. Poi, però, torno in me e mi rendo conto con orrore che Richard ha ragione.Ben è uno stronzo. È andato a letto con Meg e poi l’ha scaricata. E adesso che lei è mortasi sente in colpa e cerca di essere carino con me per rimediare.

Non so per quale ragione sono venuta qui, a Tacoma, a riaprire ferite che sarebbemeglio lasciar rimarginare, né cosa mi ha indotto a farmi dare un passaggio fino a unmalconcio cottage in stile rustico nel quartiere di Queen Anne a Seattle. Ma è come seuna forza superiore mi sospingesse perché, prima che abbia il tempo di cambiare idea eaggregarmi ai buoni samaritani per trascorrere il pomeriggio tra vernici e pennelli, Harrymi comunica che passeranno a riprendermi alle cinque e Richard mi rivolge un’occhiatache non esiterei a definire paterna, se solo sapessi che cosa questa parola significa.Dopodiché il pulmino riparte a tutta birra.

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Indugio di fronte alla casa azzurro stinto, con lo spiazzo circostante disseminato dilattine di birra e mozziconi di sigarette. Chiamo a raccolta un po’ della rabbia e delrancore che provo nei confronti di Ben per trovare la forza di avanzare.

La porta si schiude con uno scricchiolio e schizza fuori una palla di pelo grigio. Laseguo con lo sguardo. Dillo. Ben aveva ragione: è diventato più grande.

Poi la porta si spalanca e Ben gli corre dietro. È scalzo e ha i capelli bagnati. «Cazzo!»«Che c’è?»«Non li lasciamo mai uscire davanti!» Si infila sotto un cespuglio e riemerge tenendo

Dillo per la collottola. «C’è troppo traffico.»«Ah.»Mi consegna il piccolo scavezzacollo. Gli do un bacio sulla testolina lanuginosa e lui

ricambia allungandomi una zampata sotto l’orecchio.«Ahia!»«È un po’ pestifero.»«Lo vedo.» Restituisco il gattino a Ben.«Su, entriamo in casa.»All’interno il parquet è rigato, ma le pareti sono tappezzate di mensole di legno nuove

di zecca piene di libri, dischi e lumini votivi con la fiammella vacillante. Ben accende laluce e si china verso di me. Per un attimo ho l’impressione che voglia baciarmi o robasimile e stringo i pugni. Invece mi scosta i capelli e mi esamina il collo. «Non ha unbell’aspetto» dice.

Mi tocco il graffio: inizia a gonfiarsi. «Non è niente.»«Sarebbe meglio disinfettarlo con dell’acqua ossigenata.»«Sto bene.»Lui scuote la testa. «Rischi di beccarti un’infezione.»«Ma dài, è solo un’unghiata.»«Non c’è da scherzare. Ti si ingrossano le ghiandole.»«Come mai sei così informato sui gatti?»«Sono cresciuto in mezzo a loro. Mia madre era contraria alla sterilizzazione e alla

castrazione. Sia riguardo agli animali sia riguardo agli esseri umani.»Lo seguo in un bagnetto rosa anni Sessanta ancora umido di condensa per la doccia

recente. Rovista nell’armadietto dei medicinali e tira fuori un flacone di acqua ossigenata.Ne versa un po’ su un batuffolo di cotone e si china verso di me.

«Mi arrangio da sola» dico afferrando il batuffolo. La ferita sbianca e sfrigola, e avvertoun lieve bruciore. A posto. Restiamo a guardarci in quel bagno umido, caldo e angusto.

Esco per prima, Ben mi segue e mi fa fare il giro della casa: il soggiorno arredato senzaalcun criterio, il seminterrato zeppo di strumenti musicali. Mi mostra camera sua: paretinere, futon scuro, chitarra acustica in un angolo e scaffalature nuove identiche a quelledel soggiorno. Rimango sulla soglia.

Dato che ha smesso di piovere, scendiamo una lunga scala fino al giardino sul retro.«Qui è dove stanno la maggior parte del tempo» dice descrivendo un cerchio con ilbraccio.

«Chi?» chiedo. Poi mi ricordo il motivo per cui sono venuta. «Ah, già, i ragazzi.»

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«A proposito...»«Li hai fatti castrare?»«Ci aveva già pensato Meg.» Farfuglia il suo nome ma si riprende subito. «Comunque

non sono due maschi. Ridillo è una femmina. Credevo che fossero fratelli...»«Di sicuro fanno parte della stessa cucciolata. E comunque funziona ugualmente.»«Che cosa?»«La freddura.» Ben mi guarda perplesso, così glielo spiego. «Dillo e Ridillo vanno al

mare. Dillo affoga, chi rimane?»«Rid...» Si blocca a metà. «Ah, ho capito.» Si gratta la nuca e riflette un istante. «Però

non funziona perché la femmina non si è salvata.»Siamo arrivati al dunque. Alla vera ragione per cui sono qui. Non per vedere i gattini,

bensì per quello che è successo. Volenti o nolenti, questo fatto ci lega. Ed eccoci qui, inquesto pomeriggio fradicio di pioggia. Ben si siede sui gradini e si accende una sigaretta.Me ne offre una.

Scuoto la testa. «Non bevo. Non fumo» dico facendo il verso al testo di una canzonedegli anni Ottanta che io e Meg avevamo scoperto ascoltando una vecchia cassetta di Sue.

«Che cosa fai?» chiede Ben riprendendo il testo della canzone.Mi siedo al suo fianco. «Bella domanda.» Mi volto verso di lui. «E tu?»«Faccio qualche lavoretto di edilizia e falegnameria e ogni tanto suono in una band.»«Giusto. Gli Scarps.»«Già. Ieri c’è stato un concerto e stasera suoniamo di nuovo.»«Una maratona.»«Puoi dirlo forte. Non perderti lo spettacolo di stasera. È a Belltown.»«Sto a Tacoma.»«Ti do io un passaggio. Magari non stasera, ma ti riaccompagno domattina. Puoi

fermarti a dormire qui.»Parla sul serio?Alla mia occhiata indignata scrolla le spalle. «Oppure no» soggiunge, dando un tiro

alla sigaretta. «E comunque che cosa sei venuta a fare qui?»«A trovare i gatti» rispondo, sulla difensiva. «Mi hai invitato tu, te lo ricordi?» Dopo

che io che gli ho mandato un SMS . Che cosa mi è venuto in mente?«No, intendo a Tacoma.»Gli racconto del computer di Meg, delle mail cancellate, della cartella crittata e di

quello smanettone di Harry.Fa una faccia strana. «Non mi pare una buona idea leggere la sua posta.»«Perché, hai qualcosa da nascondere?»«Anche se fosse, le mie mail le hai già lette.»«Appunto. È cominciato tutto da lì.»Si rigira la sigaretta fra le dita. «Sì, ma quelle erano indirizzate a me. Ero autorizzato a

mostrartele. Invece non mi pare giusto frugare tra le cose private di una persona.»«Una volta che sei morto, la questione della privacy diventa irrilevante.»Ben pare a disagio. «Che cosa ti aspetti di trovare?»Scrollo la testa. «Non ne sono sicura. Ma c’è qualcosa di sospetto.»

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«Sospetto? In che senso? Tipo che potrebbe essere stata uccisa?»«Non ne ho idea. Però è tutto un po’ strano, losco. A cominciare dal fatto che Meg non

era tipo da suicidarsi. Ci ho riflettuto parecchio. Anche se non sapevo niente di quelloche faceva qui, la conoscevo da una vita. E in tutti questi anni non aveva mai, dico mai,accennato o anche lontanamente pensato a una cosa del genere. Perciò dev’esseresuccesso qualcosa che l’ha sconvolta.»

«Qualcosa che l’ha sconvolta» ripete Ben. Si accende un’altra sigaretta con ilmozzicone della precedente. «Di che si tratta, esattamente?»

«Non ne sono sicura. Nella lettera di addio ha scritto che si assumeva tutta laresponsabilità della sua decisione. Che bisogno c’era di sottolinearlo?»

Ben ha un’aria stanca. Resta in silenzio per un po’, poi osserva: «Forse non voleva chetu ti colpevolizzassi».

Sostengo il suo sguardo qualche istante più a lungo del necessario. «Be’, non hafunzionato.»

Ricomincia a piovere, perciò rientriamo in casa. Ben prepara un paio di burritos con unafarcitura di seitan e fagioli neri che tira fuori dal frigo e ci grattugia sopra un po’ diformaggio della sua riserva segreta, custodita in un contenitore sottovuoto. Quandofiniamo di mangiare, è trascorsa un’ora. I ragazzi passeranno a prendermi alle cinque e ilpomeriggio si allunga davanti a noi come uno sbadiglio. Ben si offre di portarmi in giroper Seattle, a vedere lo Space Needle o qualcos’altro, ma con questo freddo fuori stagionenon ne ho voglia.

«Cosa ti va di fare?» mi domanda.In soggiorno c’è un piccolo televisore. All’improvviso, l’idea di fare qualcosa di

assolutamente normale, come passare il pomeriggio davanti alla tivù, esercita su di meun’attrattiva irresistibile. Basta assistere a funzioni commemorative o ficcare il naso neicomputer altrui. «Potremmo guardare la tivù» propongo.

Ben sembra sorpreso, ma accende il televisore e mi passa il telecomando. Mentreguardiamo la replica di un programma di satira, i gatti vengono ad accoccolarsi suldivano con noi. Il cellulare di Ben continua a squillare e a vibrare per gli SMS in arrivo. Vanell’altra stanza per rispondere a un paio di chiamate. Mi arriva il mormorio sommessodella sua parte della conversazione: «È successa una cosa. Facciamo domani sera» dice aqualcuno. Non posso fare a meno di origliare una telefonata incredibilmente lunga in cuinon fa che ripetere a una certa Bethany, a quanto pare un po’ dura di comprendonio, chenon può passare a trovarla. Che venga pure lei, se vuole. Insomma, Bethany, svegliati!Persino io avverto il suo scarso entusiasmo.

Nel frattempo ho girato su MTV. Quando Ben torna, stanno trasmettendo unamaratona di episodi di “16 anni e incinta”. Dato che non l’ha mai visto, gli spiegobrevemente come funziona il programma.

«Mi sembra fin troppo realistico.»«Puoi dirlo forte.»Il suo cellulare trilla per un nuovo messaggio in arrivo.«Sei vuoi un po’ di privacy, posso andarmene» dico.

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«In effetti, un po’ di privacy sarebbe gradita» replica lui.Faccio per raccogliere la mia roba, preparandomi a passare le prossime ore in un bar.

Ma lui spegne il telefono.Continuiamo a guardare il programma e dopo un paio di episodi Ben comincia ad

appassionarsi, mettendosi a sbraitare contro la tivù come facevamo io e Meg. «Èun’ottima pubblicità alla contraccezione obbligatoria» commenta.

«Hai mai messo incinta una ragazza?» gli chiedo.Ben strabuzza gli occhi. Adesso hanno una lieve sfumatura blu elettrico, ma forse è

dovuto solo al riflesso dello schermo. «È una domanda molto personale.»«Non credi che sia il caso di lasciar perdere i convenevoli?»«Una volta, al liceo, mi sono preso una strizza tremenda, ma era un falso allarme. Da

allora ho imparato la lezione. Uso sempre il preservativo. A differenza di quegli idioti»aggiunge indicando la tivù. «Certe volte penso che farei meglio a farmi castrare, comeDillo e Ridillo.»

«Come Dillo. Ridillo è una femmina, perciò le avranno tolto le ovaie, o qualcosa delgenere.»

«Giusto. Come Dillo.»«Non vuoi avere figli in futuro?»«In teoria. Ma non riesco proprio a immaginarmelo, il mio futuro.»«Vivi al massimo, muori giovane.» Tutti idealizzano quel motto. Lo trovano romantico.

Io lo detesto. Ho visto la foto di Meg nel rapporto di polizia. Non c’è proprio niente diromantico nel morire giovani.

«No, non è che mi vedo morto o roba simile. È che non riesco proprio a vedermi...inserito nella società.»

«A me sembra che tu abbia una vita sociale piuttosto attiva» osservo indicando il suocellulare.

«Così pare.»«Così pare? Dimmi un po’, c’è stata una ragazza qui ieri notte?»Il leggero rossore alle orecchie è sufficiente come risposta.«E stanotte ce ne sarà un’altra?»«Dipende...»«Da cosa?»«Se tu ti fermi o no.»«Per la miseria, Ben! Sei un maniaco o che? Non ce la fai proprio a trattenerti?»Alza le mani in segno di resa. «Calma, Cody. Era una battuta. Se decidi di fermarti a

dormire, sul divano o da qualche altra parte, tecnicamente ci sarà una ragazza in casa...»«Mettiamo subito in chiaro una cosa, così sgombriamo il campo da malintesi. Non ho

nessuna intenzione di venire a letto con te o di dormire sotto il tuo stesso tetto.»«Okay, ti depenno dalla lista.»«Immagino sia bella lunga.»Almeno ha la decenza di sentirsi in imbarazzo.Guardiamo ancora un po’ di tivù.«Posso farti un’altra domanda?»

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«Se ti rispondo di no, rinunci?» mi dice.«Perché ti comporti così? Insomma, capisco che i ragazzi vogliano fare sesso. So che

siete sempre arrapati. Ma perché ogni notte con una diversa?»«Non è vero che ogni notte è con una diversa.»«Be’, ma poco ci manca, no?»Ben tira fuori il pacchetto di sigarette, ne prende una e si mette a giocarci senza

accenderla. Si vede benissimo che ha una gran voglia di farlo, ma credo che non siapermesso fumare in casa. Alla fine la rimette nel pacchetto. «Sai quel che sai» dice.

«Che cosa vuol dire?»«Che diventare un uomo... non è qualcosa che si impara per istinto...» Lascia la frase in

sospeso.«Ti prego! Non ho mai conosciuto mio padre e non si può dire che mia madre sia stata

un modello per me. Ma non per questo do la colpa a loro per le mie sfighe. Allora,sentiamo, non hai avuto un padre? Avanti, piangimi sulla spalla.»

Ben mi guarda con un’espressione dura. La stessa che aveva sul palco e la prima voltain camera di Meg. «Oh, eccome se ce l’ho avuto, un padre. Da chi credi che abbiaimparato?»

Alle quattro e mezzo un S MS di Harry mi avverte che sono in partenza e passeranno aprendermi tra poco. Raccolgo la mia roba ed esco con Ben ad aspettarli.

«Ti rivedrò?» mi chiede.Chissà perché quella domanda mi coglie alla sprovvista.«Perché c’è una cosa che devo dirti» aggiunge.«Ah. Okay.» Ecco perché voleva che venissi. I gatti erano un pretesto. In realtà aveva

una confessione da farmi. «Avanti, spara.»Tira una lunga boccata dalla sigaretta, ma quando espira esce un esile filo di fumo. È

come se avesse trattenuto dentro di sé quella sostanza tossica. «Si è messa a piangere.Dopo aver fatto sesso è scoppiata in lacrime. Stava bene, e poi, così, a un tratto,singhiozzava.»

«Aveva bevuto?» chiedo. «Insomma, era ubriaca?»«Secondo te me la sarei scopata mentre era incosciente? Maledizione, Cody, non sono

stronzo fino a questo punto!»«Non immagini quanti ce ne siano in giro, di simili stronzi.»Gli racconto della precedente esperienza di Meg, a una festa al secondo anno di liceo.

Si era scolata una sfilza di bicchierini di Jägermeister prima di mettersi a pomiciare conClint Randhurst. Poi le cose erano precipitate. Non che lei avesse opposto resistenza, manon era proprio lucida. Ciliegina sulla torta, probabilmente era stato Clint a passarle lamononucleosi, perché poco dopo si era ammalata.

Dopo quell’esperienza aveva giurato che non l’avrebbe più fatto se non con il ragazzogiusto. Per questo so che doveva tenere a Ben, anche se forse si è sbagliata.

«Perciò non era per te che piangeva. Oppure è stato un pianto di gioia. O magari disollievo. Tu le piacevi sul serio. Forse è proprio per questo che è scoppiata in lacrime.» Lodico per alleviargli il peso, o forse per alleviare il mio. Meg mi aveva fatto giurare di non

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parlare di Clint con nessuno. Se possibile, Ben sembra ancora più sconfortato. Scuote latesta e tiene gli occhi bassi, senza parlare.

Quando il pulmino dei buoni samaritani accosta, l’atteggiamento mesto di Ben nonsfugge a Richard.

«E adesso che farà?» si informa lo Scoppiato mentre salgo.«Niente» rispondo.«Se trovi qualcos’altro nel suo computer mi avverti?» chiede Ben.«D’accordo.»Richiude la portiera alle mie spalle e dà un paio di colpetti con le nocche. Dopodiché il

pulmino parte.

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13

La notte Harry lavora sul computer. Quando mi sveglio, all’alba, la luce in camera sua èaccesa e ho la conferma che non è andato a letto.

«Ci sono quasi» dice con gli occhi che gli brillano dall’eccitazione. «È una crittazionemolto insolita. L’ha fatta Meg?»

Scuoto la testa stringendomi nelle spalle.«Se è stata lei, mi dispiace ancora di più che ci abbia lasciato.» Adesso è il suo turno di

scuotere la testa. «Ci saremmo divertiti un bel po’ a smanettare insieme.»Gli sorrido educatamente.«Non si conoscono mai le persone, vero?»No, infatti.

Alice si sveglia qualche ora dopo e mi abbraccia come se fossimo amiche per la pelle.«Dov’eri finita ieri?» mi chiede.«Qui non c’era nessuno, così sono andata a Seattle con i ragazzi.»«Ti ho aspettato per un po’, poi non vedendoti arrivare sono andata al cinema. Non

importa. Adesso sei qui. Preparerò pane fritto per tutti!» annuncia. «Pane fatto in casa!»La seguo in cucina. Quando prova a tagliare la pagnotta, il coltello scivola perché è

troppo dura. Propongo di fare colazione fuori.Andiamo nella tavola calda dove ho passato la prima notte la volta scorsa. Alice è

contrariata dal fatto che non usano uova da allevamento a terra, a me invece piace perchéservono una colazione completa a due dollari e novantanove. Mi parla a ruota libera deicorsi, degli esami imminenti e del successivo rientro a Eugene, in Oregon: con il beltempo è un autentico paradiso terrestre, dice. Mi invita ad andarla a trovare prima che sitrasferisca nel Montana, dove ha trovato un lavoretto per l’estate. Mi stampo in faccia unsorriso. Tutta questa espansività mi imbarazza. Si comporta come se fossimo intime, maavevamo semplicemente un’amica in comune, che adesso non c’è più.

«Come mai sei andata a Seattle ieri?» mi domanda a un certo punto.«Sono stata a trovare i gattini.»«E hai visto Ben McCallister?»«Sì, c’era anche lui.»I suoi occhi hanno un guizzo. «È molto carino, eh?»«Credo di sì.»«Credi di sì? Lui e Meg avevano una storia, vero?»Ripenso al commento triviale di Ben. “Me la sono scopata” ha detto, pieno di disgusto

per Meg, per l’atto e per se stesso. Allora perché darsi tanto da fare? «Non la definirei“una storia”.»

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«Be’, a me non dispiacerebbe avere una storia con lui.»Alice sembra una ragazza così dolce, così giovane, così candida. Cosa proverebbe se

venisse usata e buttata via da Ben? Non è una bella prospettiva. «Oh, sì che tidispiacerebbe.»

Abbiamo quasi finito di fare colazione quando arriva un S MS di Harry.

Fatto!

Pago per tutte e due e ci affrettiamo a tornare a casa. Harry ci sta aspettando nelportico, con il portatile di Meg sulle ginocchia. «Guarda» mi dice.

Sullo schermo c’è un documento aperto con l’intestazione IMPRES A DI PULIZIEINDUSTRIALI HI-WATT e vari numeri di telefono.

«Che roba è?»«Una licenza professionale.»«E che cavolo se ne faceva Meg?»«Ti serve una licenza per comprare questo» spiega Harry cliccando su un altro file.

Appare una lista di agenti chimici letali, con le indicazioni di dove e come procurarseli, ladescrizione dei loro effetti sull’organismo e i relativi “tassi di successo”. La sostanzatossica ingerita da Meg è nell’elenco e ha la percentuale di successo più elevata.

Mi si chiude lo stomaco.«E c’è dell’altro» continua Harry. Apre un terzo documento. Sembrerebbe un’agenda

settimanale, una specie di tabella con gli orari delle lezioni. Guardando più da vicino,però, mi accorgo che le annotazioni nella colonna di sinistra corrispondono a una lucidaprogrammazione del suicidio: “Ordinare veleno”; “Scegliere il giorno”; “Scriverebiglietto d’addio”; “Cancellare mail e cronologia”; “Impostare l’invio posticipato”.

«Oddio...»«Cody...» mi avverte Harry. «Non è finita qui.»Apre un semplice documento di testo. In tono quasi brioso, nelle prime righe l’autore

si congratula con chi sta leggendo per aver compiuto “il supremo e coraggioso passoverso l’autodeterminazione”. Il testo continua: “Non abbiamo voce in capitolo sullanostra nascita e in genere possiamo decidere ben poco riguardo alla nostra morte. Ilsuicidio è l’unica eccezione. Ci vuole coraggio per intraprendere questo cammino. Ilsuicidio può essere un sacro rito di passaggio”. Seguono un agghiacciante elencodettagliato dei luoghi e della tempistica migliore per uccidersi e suggerimenti per tenerei propri cari all’oscuro. Ci sono persino esempi di testi di biglietti d’addio. Alcunicorrispondono testualmente alle frasi usate da Meg.

Mi sporgo dalla ringhiera del portico a vomitare fra gli arbusti di ortensia selvaticacolor lavanda. Alice scoppia a piangere. Harry ha l’aria di chi non sa che pesci pigliare.

«Chi è così demente da scrivere queste cose?» mormoro.Harry si stringe nelle spalle. «Ho fatto qualche ricerca supplementare digitando su

Google alcune frasi tratte dalla brochure e ho scoperto che esistono diversi gruppi disostegno al suicidio.»

«Gruppi di sostegno al suicidio?» chiede Alice confusa.

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«Per incoraggiarlo, non per prevenirlo» le spiego.Harry annuisce. «Una volta erano molto attivi in internet, ma adesso ne sono rimasti

pochi, cosa che spiega la segretezza e la crittazione dei dati. A quanto pare, questi testiprovengono da un gruppo in particolare, chiamato Soluzione finale. Bel nome, non c’èche dire» commenta scuotendo la testa con sdegno. «Chiunque sia l’autore di questidocumenti, chiaramente non voleva farsi rintracciare.» Gli sfugge un sorrisetto disoddisfazione, ma subito si dà un contegno. «L’ironia della sorte è che se Meg non avessecrittato i file e si fosse limitata a buttarli via, il disco fisso non ne avrebbe tenuto traccia.»

«Come fai a essere sicuro che si tratta proprio del gruppo Soluzione finale?» vuolesapere Alice.

«Meg ha cancellato la cronologia dal browser ma non ha vuotato la cache.» Harryguarda me e poi il computer. «Ecco come sono risalito al gruppo.»

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14

Tricia, il gazzettino della città, ha strombazzato a destra e a manca che sono tornata aTacoma. Ovviamente anche Joe e Sue l’hanno saputo, ma me ne rendo conto solo quando,dopo avermi invitato a cena, mi accolgono chiedendomi a bruciapelo il motivo del miosecondo viaggio.

«L’altra volta sono partita di corsa e volevo assicurarmi di non aver dimenticatoniente.»

«Oh, Cody, non era necessario» dice Sue scuotendo la testa mentre mi riempie il piattodi una sbobba – forse pasta precotta – molto simile a quella che potrebbe cucinare Tricia.«Sei così buona con noi.»

Il mio segreto – il segreto di Meg – brucia. All’inizio non avevo intenzione di teneretutto per me. Durante il viaggio di ritorno in pullman mi ero chiesta se fosse il caso diparlarne ai suoi genitori. Avrebbe fatto qualche differenza? Li avrebbe fatti soffrireancora di più? Non essendo riuscita a prendere una decisione, al mio ritorno hoaccuratamente evitato i Garcia. Ma adesso, trascorsi tre giorni, la questione sembraessersi risolta da sola.

Sue sparecchia. Sbircia nella mia direzione senza fare commenti sul fatto che ho amalapena toccato cibo. Del resto anche lei ha cincischiato nel piatto. «Vuoi fermarti adormire?» mi domanda. «Finalmente Joe ha trovato il coraggio di entrare in camera diMeg.»

La stanza della mia amica. Scottie mi aveva detto che nessuno ci aveva più messopiede. Aveva dato una sbirciatina un paio di volte e tutto era esattamente come al solito,quasi Meg dovesse tornare da un momento all’altro. Non facevo fatica a immaginarmela:un mucchio disordinato di cavi e pistole saldatrici sulla scrivania, la bacheca di sugherotappezzata di copertine di vecchi album, disegni a carboncino e fotografie. E la parete deimurales, quella di fronte alle finestre. Un giorno, presa da un’improvvisa ispirazione,Meg strappò l’orrenda carta da parati a fiori che la ricopriva e cominciò a scrivere versi dicanzoni e le sue citazioni preferite a pennarello sull’intonaco. Sue andò su tutte le furie,primo perché era uno scempio, secondo perché certe scritte avevano scandalizzato alcunimembri della loro chiesa. “Sai com’è fatta la gente, Joe” la sentì dire Meg. Ma il padreprese le sue difese. Chi se ne importava delle chiacchiere? Se Meg voleva sfogarsi su quelmuro, che facesse pure. Lo avrebbero ritinteggiato una volta che se ne fosse andata dicasa. In realtà non lo hanno ancora fatto. E dubito che lo faranno.

«Abbiamo trovato alcune cose tue» mi informa Joe. «E altre di Meg che forse ti faràpiacere avere.»

«La prossima volta» replico. «Domattina devo alzarmi presto per andare al lavoro.»È così che funzionano le bugie? La prima ti esce a fatica, la seconda è un po’ più facile,

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e alla fine ti ritrovi a snocciolarle in tutta naturalezza. Forse perché mentire è più facileche dire la verità. Mi congedo dai Garcia ma, prima che la porta si richiuda alle miespalle, spunta Scottie con Samson al guinzaglio.

«Passeggiatina?» mi chiede.«Vado di fretta.»«Non fa niente. A Samson piace correre. Vero, bello?»Mi avvio ad andatura sostenuta. Scottie mi tiene dietro facilmente perché ha dieci anni

e due gambe che gli arrivano all’altezza dei gomiti. Samson ci trotterella accanto,fiutando in giro e segnando il territorio.

Arrivati in fondo all’isolato, Scottie mi domanda perché sono tornata a Tacoma.«Volevo assicurarmi di non aver dimenticato niente.»Non so se mentire ai bambini sia effettivamente più difficile, o se loro abbiano

antenne più sensibili per captare le stronzate, fatto sta che l’amarezza del suo sguardo mitrapassa il cuore. «Qual è il vero motivo?» insiste.

«Possiamo lasciar perdere?»«Dimmi solo perché ci sei andata. Hai scoperto qualcosa, vero?»Scottie è uno spilungone con i capelli biondi come quelli di Meg, anche se si stanno

scurendo. So che lui pensa di aver perso definitivamente ogni candore infantile, ma hasolo dieci anni. Ha ancora l’innocenza di un bambino e, anche se l’avesse perduta,potrebbe sempre recuperarla. Ma non accadrà mai se gli racconto la verità. Come faccio adirgli che sua sorella ha finto di essere la responsabile acquisti di una ditta di pulizie perordinare un detergente per moquette particolarmente aggressivo? Che si è impegnata unsacco, non solo perché era nella sua natura, ma anche perché, a quanto pare, era cosìdeterminata a togliersi la vita da volersi procurare la sostanza chimica con le maggiorigaranzie di successo? Che Meg ha pianificato la sua morte con la meticolosità che lacontraddistingueva, come avrebbe fatto per cercare di ottenere un pass d’accesso albackstage di un concerto? “Prima proviamo con gli addetti stampa. Se non funziona,tentiamo con la stazione radio. Male che vada, possiamo sempre chiedere a qualcunodelle band con cui siamo in contatto di mettere una buona parola per noi.” Così simuoveva Meg. I suoi piani funzionavano sempre.

Non aveva incluso Scottie fra i destinatari della mail di addio, ma gli aveva scritto unbiglietto affettuoso per salutarlo. Voleva che suo fratello serbasse di lei quell’ultimoricordo. Se gli dico quello che ho scoperto, rischio di rovinare tutto. Di rovinargli la vita. Equest’anno abbiamo già perso una Garcia. Scuoto la testa. «Non c’è niente da scoprire,Scottie. Ho soltanto raccolto le ultime cose.»

Mi allontano lasciandolo all’angolo. All’oscuro.

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15

Quando comunicai la mia decisione di non andare a Seattle e di iscrivermi all’universitàdel posto, Tricia pretese che mi trovassi un lavoro. Al Dairy Queen cercavano personale,perciò feci domanda e consegnai il modulo alla direttrice in persona, Tamara Henthoff.

“Sei un’amica della Garcia?” mi chiese sbirciando la mia pratica.“Meg? Sì, è la mia migliore amica” risposi. “Adesso è all’università a Tacoma, con una

borsa di studio” aggiunsi. Ero molto fiera di Meg.“Mmh.” Tamara non sembrò per niente impressionata. Oppure era semplicemente

sulla difensiva. Da quando era scappata con Matt Parner, aveva dovuto ingoiare non pochirospi. Aveva perso l’impiego alla concessionaria di auto dove lavorava anche il marito emi era giunta voce che Melissa, l’ex moglie di Matt, di quando in quando passava inmacchina davanti al Dairy Queen con la sua combriccola di amiche urlando improperidal finestrino. Non dico che Tamara non se lo meritasse, però Matt continuava a lavorarealla Jiffy Lube e nessuno gli passava davanti in auto urlandogli “puttana”.

Nel bel mezzo del colloquio entrò un gruppo di liceali. Il Dairy Queen era un luogo diritrovo, e solo in quel momento mi resi conto che lavorare lì avrebbe significato servirehamburger alla gente che negli ultimi quattro anni avevo praticamente cercato di evitare.Meg conosceva tutti e forse aveva anche qualche ammiratore, ma non era in confidenzacon molte persone. C’erano la sua famiglia, le persone con cui chattava online e io. Allemedie i professori ci avevano soprannominato “le Gemelline” e da quel momento tuttiavevano cominciato a chiamarci così. Formavamo una coppia inscindibile. Persino TamaraHenthoff, che aveva sette anni più di noi, era al corrente della faccenda. Lavorare lìsarebbe stato un supplizio quotidiano. “Non sei l’amica di Meg?” E la domandasottintesa: “Se è così, che ci fai ancora qui?”.

Nello stesso periodo, la direttrice del ristorante in cui lavorava Tricia stava cercandouna persona di fiducia che facesse le pulizie a casa sua. Mia madre me ne accennò, piùche altro per provocarmi, dal momento che sapeva quanto detestassi le faccendedomestiche. Ma si può essere bravi a fare le cose che si odiano. Accettai, e poco dopo aquel primo lavoro se ne aggiunse un altro, poi altri due, fino ad arrivare ai sei attuali.

Un paio di settimane fa fui convocata per un posto da sorvegliante al Pioneer Park.Tricia conosce la responsabile del Dipartimento di manutenzione dei parchi e, chissàcome, aveva messo una buona parola per me.

Si trattava di un buon impiego, con una paga decente e persino un’indennità extra. Ilgiorno del colloquio, tuttavia, mentre attraversavo il parco, a un certo punto vidi il razzospaziale.

Io e Meg avevamo imparato ad andare in bicicletta a Pioneer Park. Ci divertivamo acorrere in mezzo agli spruzzatori e sognavamo di nuotare nella piscina che

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l’amministrazione locale diceva ogni tanto di voler costruire (non l’hanno poi mai fatto,come al solito). Pioneer Park era un luogo dove potevamo starcene per conto nostro insanta pace.

La capsula in cima al razzo era il nostro magico circolo privato. Ogni volta che ciarrampicavamo su per la scaletta traballante e approdavamo in quello spazio cisentivamo le uniche persone al mondo, nonostante la quantità di scritte sovrapposte leune sulle altre testimoniasse che non eravamo certo le sole ad andare lì.

Leggere le scritte ad alta voce era uno dei nostri passatempi preferiti. C’erano i cuoriintrecciati di coppie che si erano lasciate da un pezzo e parole di canzoni che nessunoormai ricordava più. Le scritte nuove coprivano le vecchie, tutte tranne la frase preferitadi Meg, incisa nel metallo: “Sono stata qui”. La adorava. “Non c’è bisogno di aggiungerealtro, no?” era solita dire. L’aveva riportata sulla parete in camera sua e minacciava difarsela tatuare quando le fosse passata la fobia per gli aghi.

Sarebbe stato il caso di chiudere quella baracca pericolante anni fa, invece era ancoraaccessibile. Era il punto più alto della città e, nelle belle giornate, si poteva godere ilpanorama a perdita d’occhio. Meg diceva che da lassù riuscivi a vedere il futuro.

Il giorno del colloquio, non appena vidi il razzo girai i tacchi, senza nemmenoprendermi la briga di chiamare la responsabile per annullare l’appuntamento.

Così continuo a fare le pulizie nelle case della gente. Forse è meglio così. I gabinettisono anonimi. Non hanno storie da raccontare né recriminazioni da ostentare. Silimitano a ricevere la merda e a sciacquarla via.

Al rientro dal secondo viaggio a Tacoma mi sono praticamente buttata nel lavoro.Sfregare, ripetere gli stessi gesti all’infinito, trovarsi davanti un lavandino incrostato,attaccarlo a suon di candeggina e spazzola di ferro fino a farlo risplendere... Nella vita, ilprima e il dopo non sono mai così netti.

Oggi pulisco due case di fila: sollevo mucchi di biancheria, stiro federe e tiro a lucidole piastrelle della cucina con un tergivetro, malgrado siano di linoleum. Ordini dellasignora Chandler: chi sono io per mettermi a discutere?

Nei giorni che seguono, quando non lavoro riverso il mio zelo sul minuscoloappartamento che divido con Tricia. Armata di candeggina e di un vecchio spazzolino dadenti, gratto via le incrostazioni annerite dalle piastrelle della doccia. Mia madre rimanetalmente di stucco nel vedere la ceramica grigia tornare all’originario colore bianco eazzurro che non trova niente di sarcastico da dire.

Mi do parecchio da fare tra un lavoretto e l’altro, finché il nostro appartamento non èlustro come quando ci siamo trasferite. Seduta sul letto, divido per taglio le banconoteche ho guadagnato: in una settimana ho portato a casa duecentoquaranta dollari. Tolti icento che devo a Tricia per la mia parte delle bollette, mi resta un bel gruzzolo che non socome spendere. In teoria dovrei risparmiare per quando mi trasferirò a Seattle. Semprerestando nell’ambito della teoria, pare che l’universo si espanda al ritmo di unasettantina di chilometri al secondo, ma col cavolo che te accorgi se stai immobile!

Butto i soldi nella scatola di metallo sotto il letto. Se li lascio in giro, rischio di indurremia madre in tentazione. La casa è immersa nel silenzio, l’aria è soffocante, piùclaustrofobica del solito. Mi infilo le infradito ed esco a fare due passi. Fuori dal Dairy

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Queen, seduta sulle panchine all’ombra dei pioppi, c’è un po’ di gente: ex compagni discuola, tra cui Troy Boggins. Mi salutano con un cenno della mano e io ricambio. Non miinvitano a sedermi con loro né io accenno a fermarmi.

Vado in biblioteca. Ora che, insieme a Meg, ho perso anche la mia seconda casa, èdiventata il mio santuario. E poi c’è l’aria condizionata.

La signora Banks è seduta dietro al bancone. Non appena mi vede mi fa segno diavvicinarmi. «Dov’eri finita, Cody? Stavo per rimandarli indietro.» Tira fuori una pila dilibri tenuti insieme con un elastico. Altri romanzi di autori mitteleuropei: La guerra dellesalamandre, di Karel Čapek; Una solitudine troppo rumorosa, di Bohumil Hrabal; unaraccolta di racconti di Kafka.

«Grazie» dico. È vero che sono a corto di letture, ma non appena entro al fresco dellabiblioteca mi rendo conto che non è quello il motivo per cui sono venuta.

Mi dirigo verso i computer a disposizione del pubblico. Digito “Soluzione finale” e“suicidio” nel campo del motore di ricerca. Saltano fuori soprattutto riferimenti a Hitler ea siti neonazisti. Un link sembra promettente, ma quando ci clicco sopra non si apre.Provo con altre pagine, ma non si caricano nemmeno quelle.

«Ci sono problemi di connessione a internet?» chiedo alla signora Banks.«Non mi pare. Perché?»«Non si caricano le pagine.»«Stai cercando per caso di entrare in siti vietati?»Scherza, ma arrossisco lo stesso. «Sto facendo alcune ricerche.»«Su cosa?»«Gruppi neonazisti.» Un’altra bugia che mi è uscita di bocca in tutta naturalezza.«Ah, allora è normale. Vuoi che tolga i filtri?» chiede la signora Banks.«No» mi affretto a rispondere. Nessuno deve saperne niente. Subito dopo mi viene in

mente che ho un portatile e che in biblioteca c’è un accesso wi-fi libero. «Adesso non hotempo. Magari domani?»

«Quando vuoi, Cody.»

Il giorno seguente torno in biblioteca con il portatile di Meg. Mi faccio spiegare dallasignora Banks come togliere i filtri, dopodiché mi metto al lavoro. Soluzione finale non èun vero e proprio sito bensì un portale di accesso. Bisogna cliccare su un bottone perconfermare di avere più di diciotto anni. Lo faccio e un attimo dopo vengo reindirizzata aun indice con un elenco di vari argomenti. Apro qualche messaggio. La maggior parte èspam. Altri sono farneticanti. Scorro diverse pagine, mi sembra solo una perdita ditempo. Poi incappo in un oggetto che attira la mia attenzione: “Che ne sarà di miamoglie?”.

Il post è di un tizio che afferma di volersi suicidare ma si chiede che conseguenze avràil suo gesto sull’amatissima consorte. “Le rovinerò la vita?” scrive.

Segue una sfilza di risposte. I più sostengono che probabilmente per sua moglie saràun sollievo, perché anche lei deve essere infelice, e che uccidendosi lui farà un favore aentrambi. “Le donne si riprendono più facilmente degli uomini in situazioni del genere”commenta qualcuno. “Tra qualche anno si risposerà e vivrà molto meglio.”

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Chi sono queste persone? È con loro che Meg parlava?Rileggo le varie risposte: il tono è talmente disinvolto che si direbbe che stiano dando

consigli su come aggiustare un carburatore rotto. A mano a mano che procedo, avvertouna sensazione di calore alla nuca e un bruciore allo stomaco. Non so se questa genteabbia a che fare con la morte di Meg, non so se quel tizio avesse davvero intenzione disuicidarsi né se l’abbia fatto o no. Ma una cosa la so: non è così facile riprendersi.

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Dopo la scoperta del forum di Soluzione finale, nel tempo libero mi metto a passare alsetaccio gli archivi.

In città non c’è una rete wi-fi libera, perciò la maggior parte delle ricerche devo farlagiocoforza in biblioteca, i cui orari di apertura purtroppo spesso coincidono con i mieiturni di lavoro. Una connessione internet a casa mi faciliterebbe molto la vita ma,nonostante mi sia offerta di accollarmi le spese, Tricia non vuole sentire ragione: “A che ciserve?”.

Una volta avrei approfittato del computer dei Garcia. Adesso, però, anche se nondovessi fare ricerche che riguardano il suicidio di Meg, non me la sentirei comunque diandare da loro. Non mi resta che la biblioteca.

«Allora, ti piacciono i cechi?» mi chiede un pomeriggio la signora Banks. Per un attimoresto interdetta, poi mi ricordo degli ultimi libri che mi ha dato. Non ne ho ancora apertouno.

«Interessanti» mento. Di solito ne divoro due o tre alla settimana e ho sempre qualchecommento da fare sulla trama o sui personaggi.

«Vuoi che ti rinnovi il prestito?»«Grazie, mi farebbe un gran favore» rispondo e mi rimetto al computer.«Sei ancora impegnata con le tue ricerche?»«Già.»«Ti serve una mano?» mi chiede chinandosi a sbirciare lo schermo del computer.«No!» esclamo a voce un po’ troppo alta, mentre mi affretto a ridurre la finestra a

icona.La signora Banks ha un moto di sorpresa. «Scusami. È che mi sembravi molto presa e

pensavo che magari ti avrebbe fatto comodo un aiuto.»«La ringrazio, posso cavarmela da sola. Il fatto è che non so bene cosa cercare.»Almeno questo è vero. Ogni giorno si aggiungono nuovi post: persone che chiedono

consigli o suggerimenti su come fare un nodo scorsoio, altre che vogliono aiutare uncongiunto o un amico malato terminale a morire con dignità. E poi ci sono messaggitotalmente farneticanti su Israele, il costo del gas o il vincitore dell’ultima edizione di“American Idol”. Per riferirsi al suicidio questa gente usa un linguaggio tutto suo, fattodi espressioni gergali ed eufemismi, tipo “fare il grande salto”.

La signora Banks annuisce con aria complice. «Ho fatto parecchie ricerchebibliografiche. Quando l’argomento è sfuggente, il trucco sta nel restringere il campo.Meglio circoscrivere la ricerca, invece di lanciare una rete a maglie troppo larghe. Perchénon provi con un elemento specifico del movimento neonazista?»

«Lo farò, grazie.»

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Una volta che la bibliotecaria si è allontanata, rifletto sul suo suggerimento. C’è unafunzione di ricerca negli archivi, ma se digito qualcosa di specifico sul caso di Meg, comela sostanza tossica che ha ingerito, il motel in cui è stata o il campus di Cascades, nonsalta fuori niente.

Guardando meglio i post, però, mi accorgo che tutti fanno ricorso a un qualcheidentificativo. Ovviamente Meg non avrebbe mai usato il suo vero nome, così vado pertentativi. “Tappetto”: niente. “Luisa”, il suo secondo nome: niente. Provo con i suoigruppi preferiti, quindi con le rockstar donna che ammirava di più. Niente di niente. Stoper darmi per vinta, poi provo con “Lucciola”.

Appare un’intera schermata di messaggi. Alcuni contengono riferimenti alle lucciole,e almeno una decina di username sono una variazione sulla lucciola. A quanto parequesti insetti vanno per la maggiore: sarà forse perché hanno una vita breve?

Mentre rifletto sul rapporto fra le lucciole e le persone con tendenze suicide, mi saltaall’occhio Lucciola2110. 21/10: 21 ottobre, il compleanno di Scottie. Con dita tremanticlicco sul messaggio più vecchio, che risale all’inizio dell’anno. L’oggetto è: “A piccolipassi”.

Ci penso da moltissimo tempo e non so se sono pronta a fare il grande salto, però sono pronta adammettere che ci sto pensando. Anche se mi piace credere di essere come Buffy l’ammazzavampiri, unatipa tosta, una con le palle, non so se ho abbastanza palle per farlo. Qualcuno di voi sì?

Adesso so che cosa prova un archeologo nel disseppellire le vestigia di un’anticaciviltà. O il tizio che ha rinvenuto il relitto del Titanic. Il ritrovamento di qualcosa cheritenevi perduto per sempre.

Eccola. Ho ritrovato Meg.Scorro le risposte. Ce n’è più di una decina. Calorosi messaggi di benvenuto di gente

che si congratula con lei perché ha avuto il coraggio di farsi avanti e ammettere quelloche prova, che le dice che la vita è sua e ha il diritto di farne ciò che vuole.

La cosa assurda è che, pur essendo consapevole della ragione per cui queste persone lastanno elogiando, la mia prima reazione è di orgoglio. Perché loro hanno conosciuto lamia Meg, hanno visto che ragazza straordinaria era.

Vado avanti. Un bel po’ di messaggi, pieni di errori grammaticali, sembrano scritti dadodicenni. In fondo, però, ce n’è uno che spicca, di un certo Tutto1_BLF:

A piccoli passi? Esiste qualcosa del genere? Laozi ha detto: “Un viaggio di mille miglia comincia semprecon il primo passo”. E ha anche detto: “La vita e la morte sono un filo unico, la stessa linea vista da capiopposti”. Non è verso la morte che hai fatto il primo passo, ma verso un modo diverso di vivere la tuaesistenza. Questa è la definizione stessa del coraggio.

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Non appena leggo questa risposta al post di Meg mi precipito fuori dalla biblioteca inpreda al terrore, giurando che non entrerò mai più in quel forum. Passano due giorniprima che ritorni sui miei passi. E non certo per un atto di coraggio, no. Lo faccio per lostesso motivo per cui sono rimasta a dormire tra le lenzuola di Meg a Tacoma. Persentirla vicina. Quando leggo i suoi messaggi, anche se parlano di morte, è come se fossequi con me.

Lucciola2110Dalla padella alla brace

C’è una questione su cui mi arrovello: la vita ultraterrena. E se esistesse davvero una vita dopo la morte efosse altrettanto di merda? E se uno sfuggisse allo strazio di questa esistenza per finire in un postopeggiore? Penso alla morte come a una liberazione, a un sollievo dalla sofferenza. Ma vengo da unafamiglia cattolica, in cui l’esistenza dell’inferno si dà per scontata. Pur non credendo alla versione delladannazione con tanto di fiamme, diavoli e quant’altro, non posso fare a meno di chiedermi se non ci siaqualcos’altro dopo. E se fosse appunto questo l’inferno?FLG_3: L’inferno è una stronzata che i cristiani si sono inventati per farti rigare dritto. Non lasciartiabbindolare. Se soffri, fai quello che è necessario per porre fine al dolore. Gli animali arrivano a strapparsile zampe a morsi. Gli esseri umani sono più evoluti e hanno altri mezzi a disposizione.

Sassafrass: L’inferno sono gli altri.

Sobilla: Se la vita ultraterrena fa schifo, suicidati di nuovo.

Tutto1_BLF: Soffrivi forse prima di nascere? Eri infelice prima di venire in questo mondo? A volte il doloreè sopportabile finché non lo tocchi, come quando sfiori un livido. La sofferenza è causata dallevicissitudini della vita. “Non la morte o il dolore sono da temere, ma il timore del dolore e della morte”disse Epitteto. Cessa di avere timore. Cessa di avere paura. Il dolore se ne andrà e sarai libera.

Tutto1_BLF. Il tipo che scrive frasi compiute e cita filosofi morti. L’unico che fa undiscorso sensato, seppure con una logica contorta.

Rileggo l’ultimo messaggio e nella mia testa sento una voce che urla: “Smettila diparlarle. Lasciala in pace”.

Come se potessi fermarlo. Come se non fosse già troppo tardi.

Lucciola2110Curare o non curare?

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Qualcuno mi ha consigliato di rivolgermi all’ambulatorio del campus per farmi prescrivere unantidepressivo. Così ho parlato con un’infermiera, senza dirle tutto quanto, come faccio qui. Lei mi hafatto un discorsetto sulla difficoltà dei primi anni al college, sull’effetto del Nordovest, insomma hascodellato una pappardella preconfezionata. Mi ha dato un paio di opuscoli e qualche campioneomaggio e mi ha fissato un appuntamento fra due settimane, ma non credo che mi presenterò. Hosempre pensato che è preferibile essere odiati che ignorati. E forse è meglio provare quello che stoprovando piuttosto che non sentire niente.

Un conto è scrivere messaggi nell’etere, ma in questo caso sembra quasi che Meg sirivolgesse a qualcuno nel mondo reale. Qualcuno che non sono io. Mi vergogno dellavampata di gelosia che mi assale. È davvero patetico. Sono impegnata in un tiro alla funesenza che ci sia nessuno all’altra estremità della corda.

Scorro le risposte. Alcuni mettono in guardia Meg dal complotto delle industriefarmaceutiche, che mirano al controllo della mente attraverso gli antidepressivi. Altrisostengono che l’assunzione di questi medicinali ottunde lo spirito. Altri ancoraribattono che l’umanità ha sempre fatto ricorso a sostanze per alterare gli stati mentali eche gli antidepressivi sono solo il ritrovato più recente.

E poi c’è questo messaggio:

Tutto1_BLF: Una cosa è assumere una sostanza naturale, come per esempio il peyote, per sperimentare unampliamento dello stato di coscienza, un’altra è affidarsi a un mucchio di automi in camice bianco chemanipolano la chimica del cervello per tenere sotto controllo pensieri e sensazioni. Hai letto Il mondonuovo di Aldous Huxley? Questi nuovi farmaci miracolosi non sono altro che il Soma, un narcoticoconcepito dal governo per sopprimere ogni forma di individualità e di dissenso. Rivendicare le propriepulsioni è un atto di coraggio, Lucciola.

Oh, questo sarà piaciuto moltissimo a Meg: rivendicare le proprie pulsioni, anche sesono pulsioni di morte, è un atto di coraggio.

Di nuovo, non posso fare a meno di chiedermi: perché Meg non si è confidata con me?Perché non è venuta a chiedermi aiuto?

Mi è forse sfuggito qualcosa nelle sue mail? Accedo al mio account di posta elettronicae controllo se ci sono suoi messaggi risalenti a gennaio, quando scriveva queste cose nelforum. Ma in quel periodo non ci siamo scritte.

Non si può dire che avessimo litigato. Più che altro, avevamo avuto uno screzio. Datoche aveva un lavoretto part-time, Meg era rimasta a Tacoma per una parte delle vacanzeinvernali, ma sarebbe tornata a casa per una decina di giorni nel periodo di Natale eCapodanno. Io non vedevo l’ora di rivederla, però all’ultimo minuto mi comunicò uncambio di programma: non ci sarebbe stata perché andava con i suoi a trovare dei parentidi Joe che abitano nel Sud dell’Oregon. Normalmente sarei stata invitata a unirmi a loro,ma non quella volta. Almeno fino alla vigilia di Capodanno, quando ricevetti unatelefonata di Meg che mi implorava di raggiungerla.

“Ti prego, salvami dalle vacanze familiari” disse, stremata. “I miei mi stanno facendoimpazzire.”

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“Ah, sì?” replicai. “Io invece ho passato il Natale con Tricia mangiando un tacchino daotto dollari alla tavola calda. È stato davvero magico.” Un tempo ci saremmo fatte unarisata su quell’immagine patetica. Stavolta, però, non c’era niente da ridere.

“Oh, poverina, mi dispiace” fu il commento di Meg.Benché fossi in cerca di compassione, quelle parole sortirono l’effetto di aumentare la

mia stizza. Così le risposi che non potevo andare perché ero impegnata e riattaccai. Perun po’ non ci sentimmo più, nemmeno per farci gli auguri di buon anno. Non sapevobene come fare per rompere il ghiaccio, dato che in fondo non si poteva dire cheavessimo litigato. Poi, quando il signor Purdue mi palpò il sedere, ne approfittai perrifarmi viva e raccontarle dello spiacevole incidente come se niente fosse.

Scorro indietro l’archivio dei messaggi fino a settembre, quando Meg era partita per ilcampus. Ritrovo le sue prime mail, con le varie descrizioni dei coinquilini e, in allegato, lescansioni dei suoi disegni. Ricordo di averle lette e rilette, malgrado la sofferenza fisicache mi causavano. Meg mi mancava da morire e avrei dato qualsiasi cosa per essere là conlei, per realizzare i nostri progetti. Ma questo non gliel’ho mai detto.

Ci sono un sacco di cose che non le ho detto. E molte altre che lei non ha detto a me.

Lucciola2110Senso di colpa

Continuo a pensare alla mia famiglia, non tanto ai miei genitori, quanto al mio fratellino. Come laprenderebbe?

Tutto1_BLF: James Baldwin ha scritto che la libertà non è una cosa che si possa dare; la libertà uno se laprende, ciascuno è libero quanto vuole esserlo. Devi decidere se prenderti la tua libertà e, così facendo,liberare inavvertitamente gli altri. Chi può dire quale impatto avrà la tua decisione sulla vita di tuofratello? Magari, una volta libero dalla tua ombra, libero di essere se stesso, sarà in grado di realizzareappieno un potenziale che altrimenti rimarrebbe inespresso.

Lucciola2110: Tutto1_BLF, sei incredibilmente perspicace. Ho sempre avuto l’impressione che mio fratellosi senta limitato da me e da mia madre. Sarebbe una persona diversa se non ci avesse intorno. Ma questesono cose che non si possono dire.

Tutto1_BLF: Eppure ne stiamo parlando.

Lucciola2110: Appunto. Ecco perché adoro questo forum. Qui si può dire tutto. Si può parlare di tutto.Anche dell’indicibile.

Tutto1_BLF: Ci sono così tanti argomenti tabù nella nostra cultura, a cominciare dalla morte. Non è così inaltre, che la considerano parte di un ciclo continuo: nascita, vita, morte. Analogamente, in certe culture ilsuicidio è visto come un passaggio coraggioso e onorevole verso la vita. Il samurai Yamamoto Tsunetomoha scritto: “La via del guerriero è la morte. Questo significa scegliere la morte anziché la vita. Nient’altroche questo. Significa andare fino in fondo, essere risoluti”. In te alberga un guerriero, Lucciola.

Lucciola2110: Un guerriero? Non so nemmeno come si impugna una spada.

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Tutto1_BLF: Non è una questione di spade. È lo spirito che conta. Devi attingere alla forza che è in te.

Lucciola2110: E come? Come si fa a trovare il coraggio per farlo?

Tutto1_BLF: Stringi le corde del tuo coraggio.

Lucciola2110: Stringi le corde del tuo coraggio. Bello! Dici sempre cose illuminanti! Potrei stare tutto ilgiorno a parlare con te.

Tutto1_BLF: La frase non è mia, però. È di Shakespeare. Però ci sarebbe un modo per comunicare tra noi inmaniera più diretta e confidenziale. Apri un nuovo account e posta l’indirizzo. Ti invierò le istruzioni permail e potremo continuare il nostro discorso in privato.

Sento di nuovo in bocca il sapore amaro della gelosia. Non so se sia per la complicitàche avverto tra Meg e Tutto1_BLF, o perché nell’elenco di persone che lei si preoccupavadi far soffrire per le conseguenze del suo gesto ha citato i suoi genitori, suo fratello, manon me.

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Ho una nuova cliente: la signora Driggs. Mentre mi fa fare il giro della casa, entrambe cicomportiamo come se fosse la prima volta che ci metto piede. La cosa strana è che,quando cominci a fingere, ti rendi conto che lo fanno anche tutti gli altri.

La casa non è grande, ha tre camere su un solo piano, e sembra piuttosto pulita, datoche la signora Driggs vive sola. Deve essere vedova o divorziata, o forse non si è maisposata. La volta che sono stata qui c’erano soltanto lei e il figlio Jeremy che, come tuttisanno, sta scontando tre anni per spaccio nel penitenziario di Coyote Ridge. Benché siastato rinchiuso un anno fa, la signora Driggs mi mostra la sua stanza e mi dàdisposizione di cambiare le lenzuola e di passare l’aspirapolvere sul tappeto ognisettimana.

La camera di Jeremy è praticamente uguale a quando venni assieme a Meg ai tempidel liceo, con i poster di cantanti reggae alle pareti e la tappezzeria a motivi psichedelici.Meg aveva saputo che Jeremy possedeva un serpente e voleva assolutamente assistere almomento del pasto. Così, nonostante lui fosse all’ultimo anno e noi solo al primo, riuscìa farci invitare a casa sua.

Il grande terrario con la rigogliosa vegetazione equatoriale non c’è più. Lo stesso valeper il serpente. Che ne è stato di Hendrix? È morto, oppure la signora Driggs se ne èsbarazzata non appena suo figlio è finito in prigione?

Entrando provo una stretta allo stomaco, esattamente come quattro anni fa, quandoJeremy tirò fuori un topolino da un sacchetto e lo mise nella teca. Un topolino che facevatenerezza, tutto rosa e bianco, quasi diafano. Se ne stava immobile, tranne il musettofremente, e si capiva che presentiva quale destino lo attendeva. Il serpente era arrotolatoin un angolo. Per un po’ nessuno dei due si mosse. Poi Hendrix entrò in azione e, con unamossa fluida, soffocò il topolino tra le spire. Dopodiché spalancò le fauci e cominciò ainghiottire lentamente la preda. Disgustata dalla scena, andai a rifugiarmi in cucina, dovela signora Driggs era intenta a fare i conti di casa. “Brutta faccenda, eh?” commentò. Lìper lì pensai che si riferisse alle bollette, ma poi mi resi conto che alludeva al serpente.

Meg mi raccontò di avere visto il rigonfiamento del topo nello stomaco del rettile. Ilgiorno dopo, quando ritornò, c’era ancora, solo un po’ più piccolo. Era completamenteaffascinata da quello spettacolo e andò altre volte ad assistere al pasto di Hendrix. Io no.Una mi era bastata.

Circa tre settimane dopo la mia visita a Seattle ricevo una telefonata da Ben.«Non scrivi, non chiami» esordisce in tono scherzoso. «Non ti importa più niente dei

gattini?»«Stanno bene?» chiedo, atterrita dall’idea che mi abbia cercato per dirmi che sono

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finiti sotto un camion, o qualcosa del genere.«Benissimo. Se ne occupano i miei coinquilini.»«Come mai non ci pensi tu?» Sento un frastuono in sottofondo: gente che parla, un

tintinnio di bicchieri. «Dove sei?»«A Missoula, nel Montana. Ci hanno chiesto di fare da gruppo spalla a Shug in una

minitournée, perché la bassista dei Fifteen Seconds of Juliet si è rotta un braccio. E tucosa combini di bello?»

Cosa combino di bello? Pulisco le case degli altri e mi accanisco sulla mia, oltre aleggere e rileggere fino alla nausea i messaggi tra Meg e Tutto1_BLF per cercare diraccapezzarmi. Dopo l’ultimo scambio nel forum, i post si diradano. È evidente chehanno ripreso la conversazione da un’altra parte. Ma dove? Non riesco a trovare nientenel computer di Meg. Ho provato a scrivere al nuovo account che lei ha postato nel forumper Tutto1_BLF, ma le mail mi tornano subito indietro. Ho chiesto a Harry di controllare:l’indirizzo è stato attivato e disattivato nel giro di tre giorni. È probabile che Meg lo abbiaaperto al solo scopo di permettere a Tutto1_BLF di comunicarle le istruzioni per uncontatto diretto. “A quanto pare hanno agito con molta cautela” mi ha scritto Harry. “Eanche tu faresti bene a essere prudente.”

Cautela. Forse questo spiega tutte quelle mail cancellate. Meg ha cercatosistematicamente di far sparire ogni traccia.

Vorrei tanto sapere qual è l’amico che le ha consigliato di farsi prescrivere degliantidepressivi. Chi può essere stato? Qualcuno con cui era in confidenza? Se fosse così,gli avrà parlato anche del forum di Soluzione finale?

Ho chiesto ad Alice se avesse suggerito lei a Meg di assumere qualche farmaco, ma harisposto di no, di non avere nemmeno mai visto ricette o pillole in giro per casa. Lei a suavolta ha fatto la stessa domanda allo Scoppiato, il quale mi ha chiamato per dirmi chenon ne sapeva niente e che avrei dovuto sentire qualcuno degli amici di Meg a Seattle.Avevo già pensato a Ben, e le parole di Richard mi hanno indotto a credere che in effettipossa trattarsi di lui. Ma non al punto di chiamarlo.

«Come al solito, niente di nuovo» rispondo.«Che cosa fai domani sera?»«Niente. Non lo so. Perché?»«Abiti vicino a Spokane, vero?»«“Vicino” è un termine relativo da queste parti. Saranno centocinquanta chilometri.»«Ah, pensavo meno.»«Perché?»«Suoniamo a Spokane domani sera. È l’ultima tappa del tour prima di tornare a casa.

Pensavo che magari ti avrebbe fatto piacere venire.»Apro la cartellina con le stampate dei post di Meg. Per quanto li abbia letti e riletti un

sacco di volte, non ho la minima idea di chi possa essere Tutto1_BLF. Sospetto che sia unragazzo un po’ più grande di Meg. Ma è solo una sensazione di pancia. Magari Ben è ingrado di far luce su quell’amico misterioso. Magari è proprio lui a nascondersi dietro quelpersonaggio.

Non ho voglia di vedere Ben. O forse non mi va di avere voglia di vederlo. Ma ne ho

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bisogno, perciò gli dico di sì.

Oltre a essere costoso, andare a Spokane in corriera è una sfacchinata, dato che l’ultimacorsa di ritorno parte troppo presto e non mi va di restare là per la notte. Perciò chiedo aTricia se mi presta la macchina.

«Mi serve. Ho intenzione di raggranellare un po’ di soldini extra.» Fa il gesto diabbassare una leva e imita il suono di una vincita alle slot-machine. «Vuoi venire conme?»

Le piace il gioco d’azzardo, forse perché è l’unico ambito in cui ha un po’ di fortuna.Quando ero più piccola, qualche volta mi portava con lei al casinò indiano a Wenatchee.

«No, grazie» rispondo.Non mi resta che prendere il pullman per Spokane. Avrò il tempo di parlare con Ben e,

se non troverò un passaggio, salterò lo spettacolo, in modo da poter prendere l’ultimacorsa. Durante il tragitto alterno agitazione e nausea, ma ultimamente è abbastanzanormale che mi senta così. Passare il tempo a cercare di capire cosa sia successo tra Meg eTutto1_BLF mi ha messo in uno stato di ansia perenne. Ho difficoltà a mangiare edormire e negli ultimi tempi sono dimagrita molto. Tricia dice che ho messo su un fisicoda supermodella.

Dalla stazione dei pullman alla taqueria dove Ben mi ha dato appuntamento sono duepassi. Il clima è caldo e secco, l’aria polverosa. Quest’anno siamo passati direttamentedall’inverno all’estate, senza soluzione di continuità. Mi sembra giusto: da un estremoall’altro, niente transizioni morbide.

Ben mi sta aspettando nel ristorante mezzo vuoto, seduto su un divanetto in fondo.Schizza in piedi non appena mi vede: ha l’aria stanca, forse per colpa della tournée, maanche raggiante, probabilmente per lo stesso motivo.

Lo raggiungo al tavolo e per un attimo restiamo in piedi a guardarci, incerti sul dafarsi. Dopo questa pausa un po’ imbarazzante propongo: «Ci sediamo?».

Lui annuisce. «Sì, si sta meglio seduti.» Sul tavolo c’è una confezione di birra da sei. «Èun posto dove devi portarti da bere» mi spiega. «Ne vuoi una?»

Prendo una lattina. La cameriera lascia sul tavolo un cestino di patatine e una ciotoladi salsa. Intingo una patatina: non è male.

Io e Ben chiacchieriamo per un po’ bevendo birra. Mi racconta della tournée, dellenotti trascorse nel sacco a pelo sul pavimento, del fatto che ha dovuto condividere lospazzolino da denti con il batterista perché aveva perso il suo. Gli faccio notare, schifata,che è possibile comprarne uno in un supermercato qualsiasi, ma lui ribatte che così nonsarebbe una storia divertente, e a quel punto mi ricordo che ho davanti Ben McCallister, ilre della messinscena.

Parliamo dei gatti e mi mostra le fotografie che ha sul telefonino: una quantitàdecisamente ridicola per un ragazzo. Ci portano da mangiare, poi la conversazioneprosegue su altri argomenti futili. Dopo un po’ diventa chiaro che sto tergiversando perevitare di affrontare l’unico tema che mi preme. La vera ragione per cui sono venuta qui.

Faccio un respiro profondo. «Dunque, è saltato fuori qualcosa.»Ben mi guarda. Quegli occhi... Devo distogliere lo sguardo. «Che cosa?»

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«Della roba sul computer di Meg. E da lì sono andata avanti.» Gli racconto deidocumenti decrittati da Harry e ho intenzione di mostrargli i messaggi che Meg hascambiato con Tutto1_BLF – mi sono portata dietro le stampate –, ma Ben non me nelascia il tempo.

«Avevi detto che mi avresti informato se avessi trovato qualcosa» salta su, inviperito.«Ti sto informando ora.»«Sì, però sono stato io a chiamarti. E se non mi fossi fatto vivo?»«Scusa, non mi sembrava che avesse molto senso.»Non intendevo offenderlo, ma Ben si abbandona contro lo schienale del divanetto con

un’aria decisamente seccata. «Cowgirl Cody cavalca solitaria, eh?» commenta facendo lavoce roca.

«Non è sempre stato così» ribatto allontanando il piatto. Mi è passato di nuovol’appetito. «Per questo non mi arrendo.»

Resta in silenzio per alcuni secondi. «Scusami. Lo so.»Mi premo le dita sulle palpebre finché non diventa tutto nero. «Senti, Meg ha scritto

che qualcuno le aveva consigliato di farsi prescrivere degli antidepressivi. Ho pensato chepotessi essere stato tu.»

Sbuffa. «Certo, come no.»«Che ci sarebbe di strano? Era in confidenza con te. Ti ha scritto tutte quelle mail.»«Non ha mai parlato di antidepressivi» afferma Ben aprendo un’altra birra. «Le hai

lette, no? Il suo era una specie di flusso di coscienza. Più che scrivermi, mi vomitavaaddosso i suoi pensieri.»

«Già, in effetti...»«Per questo le ho chiesto di lasciarmi in pace, Cody. Ti ricordi?» Giocherella con il

pacchetto di sigarette. «Non gliel’ho consigliato io. Forse uno dei suoi coinquilini.»«Non sono stati né Alice né Richard né nessun altro del campus. Ma non ho idea di chi

frequentasse. Secondo Richard è più probabile che sia stato qualche suo amico diSeattle.»

Ben si stringe nelle spalle. «Può darsi. Ma non io. E comunque che importanza haormai?»

Importa eccome: magari la stessa persona a cui Meg ha confidato la sua depressione saqualcosa anche del forum di aspiranti suicidi. Tuttavia non parlo a Ben di Soluzionefinale. Ho paura che se la prenda di nuovo, anche se non ha alcun diritto di risentirsi.«Ho bisogno di risposte» dico, tenendomi sul vago.

«Perché non chiedi direttamente all’ambulatorio del campus?»Scuoto la testa. «Non posso. Hanno l’obbligo della riservatezza.»«Sì, ma il paziente è morto» replica Ben. Si blocca di colpo, come se si fosse lasciato

sfuggire chissà quale notizia.«Non importa, sono irremovibili. Ci ho provato.»«Magari, se si facessero avanti i suoi genitori...»Faccio segno di no con la testa.«Perché no?»«Perché non ne sanno niente.»

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«Non gliel’hai detto?»No, non ho detto niente di niente a Sue e Joe. Il mistero che avvolge la morte di Meg si

è infittito, si è ingrossato come un tumore. In questo momento non posso assolutamenteparlarne con i Garcia. Rischierei di affliggerli ancora di più. Se trovassi qualcheinformazione in più sull’identità di Tutto1_BLF, qualcosa di concreto che possa essere diaiuto, allora sì che riuscirei ad affrontare l’argomento. Non mi faccio viva da diversesettimane. Sue continua a lasciarmi messaggi in segreteria per invitarmi a cena, ma alpensiero di trovarmi nella stessa stanza con loro due... «Davvero non posso» ammettoaffondando la testa fra le braccia incrociate sul tavolo.

Ben mi sfiora la mano con la sua, un gesto inaspettato che mi sorprende e allo stessotempo mi conforta. «D’accordo» dice. «Faremo il giro di tutti i locali di Seattle perscoprire se Meg ha parlato con qualcuno.»

«Hai usato il plurale.» L’idea di non essere sola mi rincuora.Ben annuisce. «Domattina rientriamo a Seattle, e tu verrai con noi. È sabato, la sera

usciranno tutti. Batteremo a tappeto i locali. Rileggeremo tutte le sue mail. Troveremodelle risposte.»

Quella sera osservo con attenzione Ben sul palco. La band non è male: niente dieccezionale, ma abbastanza valida. Ben canta con quella voce roca, gutturale, sensuale, ecapisco il carisma che emana. Vedo come reagiscono le ragazze e riesco a perdonare unpochino Meg. Non doveva essere facile resistergli.

A un certo punto, lui si scherma gli occhi con la mano e scruta fra il pubblico,esattamente come aveva fatto la prima volta che l’ho visto suonare. Stavolta, però, ho lanetta sensazione che stia guardando proprio me.

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19

Dopo il concerto ci sistemiamo a casa di qualcuno per la notte. Io divido la stanza conLorraine, una studentessa universitaria piena di piercing; è piuttosto simpatica, anche senon la finisce più di parlare dei ragazzi della band. Ben e gli altri si piazzano chi suldivano, chi in un sacco a pelo nel seminterrato.

L’indomani mattina, dopo una colazione a base di bagel raffermi, siamo pronti apartire.

«Preparati» mi dice Ben.«A cosa?»«Al tanfo. Siamo in giro da otto giorni. Rischi di prenderti la scabbia solo a salire sul

furgone.»Il resto del gruppo mi scruta con diffidenza. Qualcuno li ha informati che sono l’amica

della ragazza usa e getta morta?Mi sistemo su un sedile di fortuna, una tavola di legno appoggiata sopra un paio di

amplificatori. Ben si siede vicino a me. Non appena imbocchiamo l’interstatale 90, iragazzi si mettono a battibeccare sulla musica da ascoltare. Nessuno mi rivolge la parola.Alla prima sosta per fare benzina, mentre gli altri vanno a comprare qualche schifezza damangiare, chiedo a Ben qual è il problema.

«Ho infranto le regole.»«Quali regole?»«Niente ragazze sul furgone.»«Ah.»«Ma tu non sei una ragazza» mi spiega con un certo imbarazzo. «Cioè, non quel genere

di ragazza.»«E di che genere sarei?»Scuote la testa. «Ancora non lo so. Di una specie precedentemente sconosciuta.»Mi addormento dalle parti di Moses Lake e poi mi sveglio di soprassalto, addossata a

Ben, con le orecchie che mi si stappano mentre scendiamo per il passo di Snoqualmie.«Oddio, scusa.»«Non fa niente.» Abbozza un sorriso.«Ti ho sbavato addosso?»«Non lo dirò a nessuno.» Continua a sorridere.«Cosa c’è di tanto divertente?»«È solo che avevi giurato che non avresti mai dormito con me.»Mi scosto di scatto. «Tecnicamente, ho infranto il giuramento la scorsa notte

dormendo sotto il tuo stesso tetto. Segna pure un punto a tuo favore. Tanto sarà l’unico,per quanto mi riguarda.»

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Un lampo gli attraversa gli occhi, e per un attimo riecco Ben lo stronzo. In un certosenso mi fa piacere che sia tornato. Ma poi si scansa mugugnando qualcosa fra i denti.

«Be’, che ti succede?»«Non c’è bisogno che mi tratti male.»«Oh, scusami tanto. Ti sei offeso?» chiedo con una punta di sarcasmo. Non so

spiegarmi la ragione di questa stizza improvvisa.Ben si scosta ancora più in là e con una certa sorpresa mi rendo conto che devo averlo

effettivamente ferito.«Senti, ti chiedo scusa... Sono stanca e tutta questa storia mi rende nervosa.»«Non fa niente.»«Non voglio passare per una testa di cazzo.»Sorride di nuovo.«E adesso che c’è?»«Non sono molte le ragazze che si definirebbero delle teste di cazzo.»«Preferisci che mi definisca una tr...»«No!» mi interrompe. «Non usare quella parola. La odio!»«Sul serio? Per molti tipi che conosco è praticamente un sinonimo di “ragazza”.»«Già. Mio padre è uno di quelli. Chiamava sempre così mia madre.»«Che schifo!»«Fa ancora più schifo il fatto che mia madre non reagisse.»Malgrado tutti i difetti che si possono imputare a Tricia, e non sono pochi, se non altro

si fa le sue storie lontano da casa. Non è mai successo che uno dei suoi fidanzatidormisse da noi. È lei che va da loro. Almeno così mi risparmio l’imbarazzo.

«E come mai tua madre non si è ribellata?» gli domando.Ben fa spallucce. «È rimasta incinta di mio fratello a diciassette anni. Ha sposato mio

padre e ha avuto altri tre figli, per cui a ventitré si è ritrovata praticamente incastrata. Nelfrattempo, mio padre ha continuato a darsi da fare allegramente. Ha avuto due figli conun’altra donna. Non era un segreto per nessuno, nemmeno per mia madre, che però nonl’ha lasciato. Hanno divorziato solo quando l’altra ha minacciato di trascinare mio padrein tribunale per rivendicare il mantenimento dei figli. Era molto più facile e convenientemollare la moglie e risposarsi con la nuova donna. Sapeva che mia madre non era tipo dafargli causa.»

«Che storia tremenda!»«E non finisce qui. Mia madre si libera finalmente di quel bastardo, noi figli siamo già

grandicelli e abbastanza indipendenti. Le cose sembrano mettersi per il meglio. E lei cosati combina? Resta di nuovo incinta.»

«Quanti siete in tutto?»«Mia madre ha avuto cinque figli, quattro con mio padre e una con lo stronzo con cui

sta adesso. E mio padre ne ha altri due, per quanto ne so. Ma non mi stupirebbe chefossero di più. Per lui è la donna a doversi preoccupare della contraccezione.»

«La tua storia familiare sembra una telenovela.»Ben scoppia a ridere. «E la tua?»«La mia?»

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Mi guarda accigliato come a dire: “Io ho vuotato il sacco, adesso tocca a te”.«Non c’è granché da raccontare. Per certi versi ricorda un po’ la tua, ma è anche il

contrario. Siamo solo io e mia madre Tricia. Niente padre.»«Hanno divorziato?»«Mai stati sposati. Mia madre lo chiama “il donatore di sperma”. Ma questo non vuol

dire che abbia desiderato avermi.» Tricia è sempre stata evasiva a proposito di mio padre,tanto che alla fine mi sono convinta che dovesse essere un uomo sposato. Qualche voltame lo immagino in una bella casa, con una bella mogliettina e dei bei bambini... Da unaparte ce l’ho a morte con lui, ma in fondo lo capisco. Deve essere una vita gradevole. Alsuo posto non vorrei mai che una come me gliela rovinasse. «Tricia dice di avermi tiratosu da sola» continuo. «Ma in realtà sono stati i Garcia a farmi da genitori.»

«I genitori di Meg?»«Sì. Sono una vera famiglia: madre, padre, due figli...» Faccio per correggermi, ma

guardo Ben e capisco che non ce n’è bisogno. «A tavola tutti insieme, partite a Scarabeo,cose così. Certe volte penso che se non avessi conosciuto Meg non avrei avuto idea dicosa sia una famiglia normale.»

Mi interrompo un attimo. Mi assale la nostalgia al ricordo di tutto il tempo passato daiGarcia, a guardare la tivù sul divano logoro, a inventarci commedie e costringere Scottie ainterpretare un ruolo, a stare alzati fino a tardi davanti a un falò al campeggio. Ma... c’èsempre un “ma”.

Ben mi guarda, in attesa che aggiunga qualcos’altro.«Se questo è ciò che succede nella normalità, noi che speranze abbiamo?» gli chiedo.Scuote la testa. A quanto pare nemmeno lui è in grado di rispondere.

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20

Una volta a casa, dopo che Ben ha disfatto i bagagli, passiamo una buona mezz’ora agiocare con i gatti, osservandoli correre dietro il fascio di luce di una torcia. Non midivertivo così da mesi. Poi lui stila un elenco dei locali che Meg frequentava di solito.Nessuno si anima prima delle undici e la movida va avanti almeno fino alle quattro delmattino. Ci fermiamo al caffè all’angolo a farci un paio di espressi, quindi saliamo inauto.

Il primo locale è quello a Fremont dove ci siamo incontrati. Ben mi fa conoscere ungruppetto di strafighe tutte in tiro, il genere di gente che frequentava Meg. Hanno più omeno una decina di anni più di noi, ma questo non era un problema per lei. Quando Benmi presenta, una di loro mi abbraccia di slancio. Poi si scosta e, tenendo la manoappoggiata sulla mia spalla, dice: «Ne uscirai, vedrai. Lo so che ti sembra impossibile, mati riprenderai». Non ho bisogno di chiederle altro per capire che anche lei ci è passata.Questo mi fa sentire un po’ meno sola.

Nessuna ha mai parlato di antidepressivi con Meg; la maggior parte non sapevaneanche che frequentasse l’università. Se non ha detto loro nemmeno questo, dubito cheabbia accennato a Soluzione finale, per cui lascio perdere.

Andiamo in un altro locale. Siamo appena entrati quando una biondina dal caschettospettinato si fionda letteralmente tra le braccia di Ben. «Dov’eri finito?» gli chiede. «Ti homandato tipo cento messaggini.»

Lui non ricambia l’abbraccio, limitandosi a darle qualche pacca imbarazzata sullaspalla. Dopo qualche istante la ragazza si ritrae simulando un broncio. In quel momentosi accorge della mia presenza.

«Ciao, Clem» dice Ben con aria stanca. «Sono stato impegnato in una tournée.»«Una tournée, eh? È così che si chiama adesso?» ribatte lei continuando a fissarmi.«Ciao, sono Cody.»«Cody è un’amica di Meg» interviene Ben. «Hai conosciuto Meg Garcia?»Clem si volta di scatto verso di lui. «Sul serio? Cos’è, stai mettendo insieme una

confraternita di ex? Potremmo vestirci tutte uguali, che ne dici?» Alza gli occhi al cielo estavolta si rabbuia per davvero. Fa un verso schifato e si allontana stizzita mostrando ildito medio a Ben.

«Scusa...» dice lui guardandosi le scarpe.«Di cosa?»«È stata... un po’ di tempo fa...» comincia a spiegare, ma agito subito le mani per

fermarlo.«Non devi giustificarti con me.»Fa per ribattere ma poi nota un tipo con un paio di occhiali dalla montatura in osso e

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la pettinatura rockabilly più elaborata che abbia mai visto. È insieme a una ragazza con lafrangetta e le labbra rosso acceso. «Quello è Hidecki» dice. «Conosceva Meg piuttostobene.»

Ci presenta e parliamo per un po’, ma né Hidecki né la tizia che è con lui sanno nientedella faccenda degli antidepressivi. Alla fine esaurisco le domande e Hidecki mi chiededei gatti.

«Sai dei gatti?»La ragazza mi spiega che Hidecki ha contribuito con cento dollari al fondo destinato

alle loro cure. «Perciò si sente coinvolto.»«Cento dollari» ripeto. «Devono piacerti proprio tanto i gatti.»«Mi piaceva Meg» mi corregge lui. «E poi è più o meno quello che mi ha fatto

risparmiare aggiustandomi l’amplificatore.»«Ti ha aggiustato l’amplificatore?»Hidecki annuisce. «Ha invertito i collegamenti del potenziometro del volume e mi ha

mostrato come si fa. Ero scettico, ma accidenti se sapeva come usare una pistolasaldatrice!»

«Eccome!» esclamo. «I mici stanno bene. Ben li ha praticamente adottati.»«Ben?» Hidecki gli rivolge un’occhiata non troppo amichevole.«Proprio così. Ha anche delle foto sul cellulare. Mostragliele, Ben.»«Un’altra volta» taglia corto lui. «Dobbiamo continuare il giro dei locali.»Andiamo in altri tre posti. Incontro un sacco di gente che conosceva Meg. Sono tutti

tristi per quello che è successo, ma nessuno è al corrente della faccenda degliantidepressivi. Mi annoto nomi e indirizzi di posta elettronica di altre persone che Megfrequentava. Facciamo le quattro del mattino senza ottenere altro che una serie dinominativi di gente da contattare. Sono esausta e mi sento le gambe molli. Ben ha gliocchi più arrossati di quelli di Richard lo Scoppiato dopo un paio di canne. Propongo dilasciar perdere e andarcene a dormire.

Una volta a casa, mi fa strada verso la sua stanza. Io mi blocco fuori dalla porta, comese l’interno fosse radioattivo. Lui mi guarda. «Tu dormi qui. Io userò il divano.»

«Non è necessario. Ci starò io sul divano.»«Ma qui è più comodo. E silenzioso.»«Scusa, Ben» obietto «ma tra le tue lenzuola ci saranno tracce organiche della

popolazione femminile di mezza Seattle.»«Non è come pensi, Cody.»«Ah, no?» faccio, sarcastica.«Con Clem è stato un bel po’... Oh, lascia stare. Ti cambio le lenzuola.»«Mi va benissimo il divano.»«Ci metto un attimo a cambiare queste cazzo di lenzuola, Cody.» Posso capire la sua

irritazione. Sono le cinque di mattina ed è appena rientrato dopo una settimana passatain giro a dormire per terra o nel furgone. Ciò nonostante, rifà il letto, sprimaccia i cuscinie ripiega un angolo della coperta, rendendo il tutto molto invitante.

Affondo tra i cuscini. I gatti arrivano di corsa e si accoccolano ai piedi del letto.Evidentemente sono abituati a dormire lì.

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Sento Ben lavarsi i denti e poi il pavimento che scricchiola sotto i suoi passi. Si fermasulla soglia della stanza. Per una frazione di secondo mi inquieta l’idea che possa entrare,per una frazione di secondo mi inquieta il fatto di desiderare che lo faccia. Ma non entra.

«Buonanotte, Cody.»«Buonanotte, Ben.»

Dormo fino a mezzogiorno e mi sveglio riposata. La spossatezza che mi trascino addossoda giorni sembra essere svanita. Ben è già alzato e sta facendo colazione in cucina mentrechiacchiera con i suoi coinquilini. Me li presenta e si offre di prepararmi una ciotola dimuesli.

«Faccio da sola» dico. Prendo una tazza dallo scolapiatti e la scatola di mueslidall’armadietto, stupendomi della naturalezza dei miei gesti.

Ben mi rivolge un sorrisone, come se anche lui avesse notato quella disinvoltura, eriprende a raccontare della tournée agli altri: gente alla mano, studenti universitari elavoratori, niente a che vedere con il genere rockettaro che mi sarei aspettata. Uno deiragazzi è cresciuto in una cittadina a una trentina di chilometri da dove abito io:deploriamo la situazione di arretratezza culturale della parte orientale dello Stato diWashington, dove il tempo sembra essersi arrestato.

Il sole splende e il monte Rainier sovrasta la città. È una di quelle giornate chetendono a farti dimenticare il tempaccio che fa tra ottobre e aprile. Dopo colazione, io eBen scendiamo la scala che porta nel cortile sul retro. Da un lato c’è una catasta di legnacoperta da una tela cerata.

«Che cos’è?» chiedo.Si stringe nelle spalle. «Solo un hobby a cui mi dedico nel mio infinito tempo libero.»Alzo il telone: sotto ci sono delle scaffalature semilavorate, uguali a quelle che ho visto

in casa. «Le hai costruite tu?»Fa di nuovo spallucce.«Sono davvero belle.»«Sembri esterrefatta.»«Più che altro stupita.»Ci sediamo sui gradini e restiamo a guardare Dillo e Ridillo rincorrersi e giocare con le

foglie.«Loro sì che sanno divertirsi» osserva Ben.«Come? Facendo la lotta?»«Godendosi l’esistenza.»«Forse dovrei reincarnarmi in un gatto.»Mi lancia un’occhiata di sguincio.«Oppure in un pesce rosso, o qualche altro stupido animale.»«Ehi!» protesta, fingendosi offeso a nome dei gattini.«Guarda com’è facile per loro! A che cosa serve essere tanto intelligenti se poi andiamo

fuori di testa? Gli animali non si suicidano, no?»Ben osserva i mici che giocherellano con un rametto. «Questo non lo sappiamo con

certezza. Certo, gli animali non si avvelenano volontariamente, ma magari smettono di

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mangiare, oppure si allontanano dal branco, sapendo che così diventeranno una facilepreda per gli altri.»

«Può darsi.» Indico i gatti. «Fatto sta che mi piacerebbe tornare a essere altrettantospensierata. Anzi, comincio a dubitare di esserlo mai stata. E tu? Sei mai statospensierato?»

Annuisce. «Da piccolo. Dopo che mio padre se n’è andato e prima che mia madrerestasse di nuovo incinta di mia sorella, io e i miei fratelli ci divertivamo a esplorare ilmondo. Andavamo a nuotare nel fiume e costruivamo fortini nel bosco dietro casa.Eravamo come Tom Sawyer.»

Lo scruto, cercando di immaginarmelo bambino scanzonato.«Perché mi guardi così?» chiede. «Non credi che abbia letto Le avventure di Tom

Sawyer?»Scoppio a ridere. Un suono a cui non ero più abituata.«Se è per questo ho letto anche Le avventure di Huckleberry Finn. Sono un tipo molto

intellettuale.»«Non so se sei un intellettuale, ma so che sei in gamba. Altrimenti Meg non avrebbe

perso tempo con te. Non importa quanto tu sia carino...» Mi sento avvampareleggermente le guance e giro la testa dall’altra parte.

«Anche tu non sei niente male, Cody Reynolds» ribatte. «Insomma, per essere unatesta di cazzo.»

Mi volto di nuovo verso di lui e per un attimo dimentico tutto. Poi, però, mi ricordoperché sono lì. «C’è un’altra cosa che devo dirti.»

I suoi occhi cambiano istantaneamente colore, come un semaforo che passa dal verdeal giallo.

«Ho trovato dell’altro su Meg. Messaggi che ha postato in un forum di sostegno agliaspiranti suicidi.»

Ben inclina la testa di lato.«Non il tipo di sostegno che ti aspetteresti.»Il colore dei suoi occhi cambia di nuovo. Dal giallo al rosso. Stop. Ma non posso

fermarmi.«È meglio se li leggi direttamente. Ho portato le stampate. Sono tra la mia roba, in

camera tua.»Lo seguo di sopra nel silenzio più assoluto. Nonostante il sole continui a brillare, un

gelo improvviso ha stemperato il calore del giorno.Tiro fuori il malloppo di fogli. «Ti conviene cominciare dall’inizio.»Lo guardo mentre legge, ed è come osservare la formazione di una valanga. Prima

l’avvisaglia di qualche folata sferzante, poi un’ondata che lo travolge completamente. Ilsenso di nausea torna, amplificato centinaia di volte dallo strazio che si dipinge sulla suafaccia.

Dopo aver posato l’ultimo foglio, alza lo sguardo su di me. Ha un’espressione terribile.Rabbia mista a senso di colpa – e questo lo capisco, ci sono abituata –, ma anchesgomento e paura, bombe che mi esplodono nello stomaco. «Cazzo!» esclama.

«È così, vero?» dico. «Quel tizio c’entra qualcosa con la sua morte.»

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Invece di rispondere, Ben si alza, prende il computer e se lo appoggia sulle ginocchia.Apre il programma di posta elettronica e si mette a scorrere le mail di Meg finché nontrova quella che sta cercando. È stata scritta due settimane prima che lei morisse.

«Leggi» dice con voce alterata puntando il dito sullo schermo.

Come forse avrai notato, ultimamente non mi sono fatta vedere spesso a Seattle. All’inizio, lo ammetto,era perché mi sentivo un po’ in imbarazzo dopo quello che era successo tra noi. Ancora non riesco acredere di essermi comportata così. Ma adesso è cambiato tutto. Ricordi che mi avevi detto di rivolgermia qualcun altro? Be’, ho seguito il tuo consiglio. E ho trovato un sacco di persone con cui parlare. Gentedavvero in gamba che la pensa in modo completamente diverso dalla massa, e sai bene che mi hasempre affascinato andare contro corrente. Credo che sia per questo che sono sempre stata attirata dallascena musicale, dai gruppi punk e tutto il resto; ma voi musicisti non avete il monopolio della ribellione.Ci sono molte altre strade, molti altri modi di vivere, di prendere in mano la propria esistenza e capirne ilvero significato. Siamo talmente condizionati nel nostro modo di pensare... Ma una volta che te ne seireso conto, una volta che hai deciso di non piegarti ai condizionamenti artificiali, allora sei finalmentelibero. Questo, almeno, è quello che ho imparato frequentando il nuovo gruppo. Mi è di grande aiuto.Non dubito che molti rimarrebbero sorpresi dalla direzione che ho preso, ma è così che funzionano lecose nel mondo del punk rock, no? A ogni modo, ti saluto. Mi aspetta il grande salto.

Finito di leggere, alzo gli occhi. Ben è rannicchiato in un angolo del letto. «Me lo stavadicendo» mormora. «Stava parlando di quel maledetto forum.»

«Non potevi immaginarlo.»«Ha cercato di dirmelo» ribadisce Ben. «Non ha fatto altro in tutte le mail che mi ha

scritto. E io le ho risposto di lasciarmi in pace.» Colpisce la parete con un pugno.L’intonaco si crepa. Molla un altro pugno e le nocche cominciano a sanguinargli.

«Smettila, Ben!» Mi lancio verso di lui e lo afferro per i polsi prima che possa rifarlo.«Smettila! Non è stata colpa tua! Non è stata colpa tua! Non è stata colpa tua!»

Ripeto come un mantra le parole che vorrei sentirmi dire. E all’improvviso ci baciamo.Sento il sapore del suo strazio e della sua impotenza, delle sue lacrime e delle mie.

«Cody.» La tenerezza con cui mormora il mio nome mi riporta di colpo alla realtà.Salto giù dal letto, con una mano sulle labbra. Mi risistemo la maglietta nei jeans.

«Devo andare» dico.«Cody.»«Devo tornare subito a casa. Domattina ho del lavoro che mi aspetta.»«Cody» mi implora.Esco dalla stanza sbattendomi la porta alle spalle, senza lasciargli il tempo di ripetere

un’altra volta il mio nome.

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Tricia è di buonumore. Il fine settimana che per me si è rivelato disastroso a Seattle, perlei è stato fruttuoso al casinò indiano: tolte le spese del cibo, dell’albergo e della benzina,è tornata a casa con duecento dollari in più in tasca. La sera a cena mi sventaglia sotto ilnaso le banconote da venti e si sbilancia proponendo di concederci un lusso. In generesignifica comprare qualcosa di costoso e inutile che ha visto in qualche televendita, tipouna gelatiera che verrà usata un paio di volte prima di diventare un contenitore per altrociarpame.

«Che cosa ti piacerebbe?» mi chiede.«Un abbonamento annuale a internet.»«Si può sapere perché ci tieni tanto?»Non rispondo.«C’è di mezzo un ragazzo» dice con un sorrisetto beffardo. «Lo sapevo. Vedi di non

restare incinta.»Se c’è un insegnamento che Tricia ha cercato di inculcarmi in tutti questi anni è quello

di non commettere il suo stesso errore.«Quante volte sei stata a Tacoma ultimamente? Tre? E adesso vuoi internet per

collegarti a qualche chat room e continuare a fare i tuoi comodi. Non dirmi che nonc’entra un ragazzo.»

Dopo la mia reazione al bacio che ci siamo scambiati, Ben ha cercato di calmarmi, maio ho raccolto la mia roba e mi sono incamminata verso la stazione degli autobus. A quelpunto è stato costretto a darmi un passaggio.

“È tutto a posto, Cody” mi ha detto in macchina.“Non è vero” ho ribattuto. “Non so se lei ci possa vedere, da lassù o da laggiù.

Ovunque sia, se ci sta vedendo, sarà schifata. Te ne rendi conto, vero?”Ben si è stretto nelle spalle. “Forse. Chi lo sa?”“Io lo so. E comunque non importa, perché sono io a essere schifata.”Non ha più aperto bocca. Scendendo dall’auto l’ho pregato di inoltrarmi le lunghe

mail che Meg gli aveva scritto e di non farsi più sentire.«Non c’è nessun ragazzo» rispondo a Tricia.«Se lo dici tu.»Finisce per comprare un braciere ornamentale.

Ormai ho letto i post di Tutto1_BLF dal primo all’ultimo. Non è uno assiduo, ma scrivecomunque quanto basta perché si capisca che c’è ed è vigile. E il nickname cosa significa?Che quel forum è tutto un bluff, oppure che è la vita a esserlo?

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Un giorno, tornando dalla biblioteca, incontro Sue mentre esce in macchina dalparcheggio di un take-away di pollo fritto. Il mio primo impulso è di svicolare.

«Vuoi un passaggio?» mi chiede accostando.Sbircio all’interno dell’auto. Non c’è traccia di Joe né di Scottie.Sue sposta il cartoccio di pollo unto sul sedile posteriore e mi apre la portiera. «Dove

stai andando?» chiede, come se ci fossero varie opzioni.«A casa» rispondo. È la verità. «Tricia mi sta aspettando.» Questo non è vero, ma ho

paura che mi proponga di cenare da loro e proprio non me la sento, soprattutto nonadesso che ho in mano la cartellina con le stampate dei post del forum di Soluzionefinale.

«Non ti abbiamo visto molto ultimamente. Ti ho lasciato vari messaggi.»«Scusami, ho avuto da fare.»«Non devi scusarti. Vogliamo che continui ad andare avanti con la tua vita.»«È quello che sto facendo.» Ormai le bugie mi escono di bocca con una tale facilità che

quasi non mi accorgo di dirle.«Bene, bene.» Lo sguardo le cade sulla cartellina. Comincio a sudare al pensiero che

stia per chiedermi qualcosa, ma sta zitta.Il silenzio tra noi cresce, si espande, tremolando come il calore sull’asfalto deserto.La città è piccola e in cinque minuti siamo arrivate. Noto con sollievo la macchina di

Tricia sul vialetto. Se non altro, corrobora la mia scusa.«Magari vieni a cena da noi la settimana prossima» dice Sue. Sbircia il cartoccio posato

sul sedile posteriore: l’odore di fritto ha già impestato l’abitacolo. «Potrei fare il chili cheti piace tanto. Ho ripreso a cucinare.»

«Sarebbe fantastico» replico spalancando la portiera. Mentre la richiudo, scorgo disfuggita l’espressione di Sue riflessa nello specchietto retrovisore e capisco che non sonola sola a essere diventata una bugiarda.

L’indomani faccio le pulizie a casa della signora Driggs. È uno dei miei compiti più facili,dato che da lei è sempre tutto immacolato. Cambio le lenzuola che hanno l’odore tipicodelle persone anziane, anche se la signora Driggs avrà al massimo dieci anni più di Tricia.Do una pulita alla vasca da bagno, passo un panno nel forno autopulente e tiro a lucido ivetri. La stanza di Jeremy la lascio per ultima. Mi fa un po’ impressione quell’ambientespettrale, passare l’aspirapolvere sul tappeto a pelo lungo che conserva ancora le traccedel passaggio della settimana precedente.

Spingo l’aspirapolvere nell’angolo dove una volta c’era il terrario. Un rumore metallicomi induce a spegnere il motore. Mi accovaccio per controllare di che cosa si tratta: unaforcina, di quelle che la signora Driggs usa per puntarsi lo chignon. Quindi entra inquesta stanza, vaga per la casa vuota. Dovrebbe prendersi un animale da compagnia, unpaio di gatti magari. Molto meglio di un serpente. Certo, anche loro cacciano i topi, maalmeno i giochi non sono già fatti, come quando Jeremy dava da mangiare a Hendrix, convittima e carnefice già stabiliti in partenza. Quel povero topolino...

A un tratto, mentre me ne sto seduta lì per terra con la forcina tra le dita, houn’illuminazione. So come trovare Tutto1_BLF. Lui è il serpente. Per stanarlo devo fare il

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topo.

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Da che cosa è attratto uno come Tutto1_BLF? Perché ha scelto di aiutare Meg e nonSassafrass, per esempio, oppure il tizio che continua a chiedere informazioni sul velenoper topi? E come faccio a spacciarmi per una di loro?

Rileggo tutti i suoi post, nel tentativo di individuare un modello di comportamento.Tende a rispondere più spesso a messaggi scritti da donne, preferibilmente brillanti. Nonprende nemmeno in considerazione quelli sgrammaticati o farneticanti. Inoltre sembrainteressarsi in particolare ai nuovi arrivati, alla gente all’inizio del percorso che cominciaa pensare di fare il grande salto. Inoltre, a giudicare dalle numerose citazioni, si interessadi filosofia e predilige gli interlocutori che condividono la sua passione. Non mi stupisceche Meg gli sia piaciuta.

Il primo passo è ovvio. Devo postare qualcosa nel forum. Fare una mossa d’apertura,come quella di Meg. Un messaggio per presentarmi al gruppo e annunciare la miaintenzione di uccidermi, ma in forma dubitativa. Se avessi già deciso, se chiedessiinformazioni precise sui topicidi, non sembrerei un topo.

Mi ci vuole qualche giorno per escogitare la formula giusta, però non riesco a trovareuno username. Tutti quelli che mi vengono in mente hanno a che fare con Meg, e non soquanto lui sappia di lei. Non posso rischiare di farmi scoprire. Scruto la pila di libri dellabiblioteca ancora da restituire in cerca di ispirazione.

KafkianaPrima mossa

È da un po’ che penso al grande salto. Credo di essere pronta, ma ho bisogno di un po’ diincoraggiamento. Sono preoccupata per la mia famiglia, nel caso il mio tentativo fallisse. E, a esseresincera, anche nel caso avesse successo. Qualsiasi osservazione intelligente è gradita.

Mi pento di quello che ho scritto nel momento stesso in cui posto il messaggio. Sa difalso, non sono io e tanto meno sembro un’aspirante suicida. Di sicuro verrò smascheratasubito. Il giorno dopo, però, appare una serie di risposte. Com’era successo per Meg, lamaggior parte dei messaggi è calorosa e incoraggiante – “Benvenuta!”“Congratulazioni!” –, cosa che, in un certo senso, mi gratifica. Tutto1_BLF, però, latita.Sarò anche riuscita a infinocchiare questa gente, ma non l’unico che mi interessa.Ripenso al post di Meg a proposito di Scottie e ci riprovo cambiando username.

CR0308Sopravvivenza

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Sono già diversi mesi che penso seriamente di farla finita, ma quello che mi frena è mia madre. Siamo noidue sole e non so come la prenderà se me ne vado. Non sopporto più di vivere. Troverò il coraggio diandare fino in fondo?

Anche questo messaggio puzza di bruciato. Non posso dire che Tricia non mi volesse,perché alla fine mi ha tenuto. La verità, credo, è che non desiderava avere figli. Qualemadre pretende che la sua bambina di due anni la chiami per nome perché si consideratroppo giovane per essere chiamata “mamma”? Probabilmente ci rimarrebbe male se miammazzassi, ma so anche che non vede l’ora che mi tolga dai piedi. Non fa altro cheripetermelo.

Ricevo varie risposte. Alcuni esprimono solidarietà per la sciagura di avere a che farecon una madre single. Altri suggeriscono di aspettare che si risposi o che abbia unrapporto stabile. Mi viene da ridere. Per risposarsi, Tricia dovrebbe essere stata sposata, ecomunque, dal momento che la durata delle sue relazioni non supera in media i tre mesi,mi sembra un’eventualità molto improbabile.

Ancora niente da Tutto1_BLF. Ho la strana sensazione che finché continuerò a mentirenon otterrò nessun segnale da parte sua. Ma è un cane che si morde la coda: come faccioa tenere in piedi questa messinscena senza mentire?

Scelgo un altro username, vagamente collegato a Meg ma abbastanza ambiguo da nontradirmi. Invece di impersonare lei, metto in gioco me stessa.

RidilloLa verità

Di recente ho perso qualcuno. Una persona che era una parte integrante di me, e adesso mi sembra divivere a metà: non so più chi sono, non so nemmeno se sono in grado di esistere senza di lei. Era il miosole, e il mio sole si è spento. Immaginate che il sole si spenga tutt’a un tratto. Se anche vivere sulla Terrafosse ancora possibile, chi vorrebbe continuare a farlo, immerso nel buio? Io lo voglio?

Il giorno dopo c’è una sfilza di risposte. Ma nessuna di Tutto1_BLF. Alcuniargomentano con affermazioni pseudoscientifiche che è altamente improbabile che ilsole si spenga. Altri manifestano comprensione per la mia perdita. Altri ancorasostengono che morire mi permetterebbe di riunirmi alla persona amata. Ne sono cosìconvinti che si direbbe che abbiano visitato il regno dei morti, abbiano preso appunti esiano tornati indietro per riferire i particolari. Il fatto è che per molti di loro Soluzionefinale è un puro passatempo.

A ogni modo, comincio a capire il fascino che esercitano forum del genere. Ieri, dopoavere scritto il messaggio, ho provato un enorme senso di sollievo. Questa storia saràanche una farsa, ma per la prima volta da un sacco di tempo sto dicendo la verità.

Qualche giorno dopo, mentre faccio le pulizie a casa dei Thomas, sono immersa a talpunto nei miei pensieri – come posso fare uscire allo scoperto Tutto1_BLF? – che nonsento Mindy entrare in camera sua mentre la sto rassettando. Se me ne fossi accorta in

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tempo, avrei subito tagliato la corda con la scusa di andare a pulire il garage o qualchealtra stanza.

«Ehilà, Cody» dice con voce cantilenante. «Come va?»«Alla grande!» esclamo con tutto l’entusiasmo che riesco a ostentare brandendo un

piumino per la polvere.Mindy è insieme alla sua banda di amiche, tutte ragazze di un anno più piccole di me

che non ho più rivisto dopo essermi diplomata. Sharon Devonne mi saluta con la mano.Era una delle fedelissime di Meg. Nutriva una vera e propria adorazione per lei e laseguiva come se fosse una diva del cinema. Meg fingeva di essere infastidita da un simileatteggiamento, ma sapevo che sotto sotto la considerava una cara ragazza, in particolareperché era sempre molto affettuosa con il suo fratellino. Faceva l’accompagnatrice aicampi estivi, e Scottie aveva una cotta tremenda per lei.

«Ciao, Cody» mi dice timidamente.«Ciao, Sharon. Come va la scuola?»«Manca poco alla fine.»«Hai già pensato a cosa fare dopo il diploma?»«Dormire.»«Già, ho sentito che...»«Sapete una cosa?» Mindy ci interrompe battendo le mani. «Ho un’idea fantastica!

Cody, vieni anche tu alla festa! Il prossimo fine settimana. I miei sono via, ho invitato unsacco di gente!» Prima che abbia il tempo di inventarmi una scusa, aggiunge: «Sarebbeperfetto, così dopo pensi a pulire!». Esce dalla stanza lasciandosi dietro la scia di unarisata argentina.

Me ne resto lì allibita, senza parole. Mindy Thomas? Una volta andavamo a danzainsieme. Lei sfoggiava sempre delle mise impeccabili: body, scaldamuscoli, ballerine,tutto coordinato. Tricia non poteva nemmeno permettersi di pagarmi le lezioni –l’insegnante, una sua amica, mi consentiva di seguirle gratuitamente – e io mi arrangiavocome potevo: pantacollant smagliati, una canottiera qualsiasi e scaldamuscoli spaiati,scovati in un mercatino dell’usato. Un giorno Mindy si presentò con una tenuta similealla mia. Pensavo che lo facesse per sfottermi, ma quando lo dissi a Tricia lei scoppiò aridere. “Ma no, ti sta copiando!” Io avevo i miei dubbi. Una cosa, però, è certa: un anno faMindy Thomas non mi avrebbe mai parlato in questo modo.

Le altre se ne vanno e Sharon resta indietro. «Si diverte a fare la stronza» sussurra.«Vieni alla festa e fregatene.»

«Grazie, Sharon.» Le mostro il piumino per farle capire che devo rimettermi al lavoro.Ha un attimo di esitazione, come se volesse aggiungere qualcos’altro. Ma poi Mindy lachiama e trotterella via.

Più tardi, in biblioteca, non riesco a smettere di pensare a Sharon, all’adorazione chenutriva per Meg. Meg, pur essendo uno strano personaggio, aveva indubbiamente unacerchia di ammiratori. In lei c’era un certo non so che che attraeva le persone, almenoquelle intelligenti: compagni di scuola, musicisti con cui entrava in contatto online,Tutto1_BLF...

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Come faccio a conquistare uno come Tutto1_BLF? Io non ho la verve di Meg. Anche seci chiamavano “le Gemelline”, non eravamo uguali. Prima veniva lei, io le andavosemplicemente dietro.

Adesso, però, non posso più farlo. Per scovare Tutto1_BLF devo essere me stessa.Faccio un respiro profondo e compongo un nuovo messaggio.

RidilloRidillo

Non sono mai stata una con il pensiero fisso della morte, una di quelle persone che passano il tempo aimmaginare di morire e progettano la propria uscita di scena. Almeno finora. Ma nell’ultimo anno tutto èdiventato un tale strazio che mi chiedo se ho davvero una vita, oppure se quella che chiamavo vita non èaltro che un’illusione, o addirittura un abbaglio. Perché questo non è vivere, è semplicemente tirare avanti,come se non restasse altro da fare. Non sono vecchia, eppure mi sento già stanca. Persino alzarmi lamattina mi costa una fatica enorme. Vivere è diventato una questione di resistenza, non un piacere, unagioia. Che senso ha tutto questo? Se potessi tornare indietro e non venire al mondo, penso che lo farei.Sul serio. È lo stesso che desiderare di morire? E, se è così, cosa significa?

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23

Una sera sono davanti allo schermo del computer a fissare tutti i messaggi che ho postatonel forum di Soluzione finale e le varie risposte ricevute. Non posso stamparli senzainsospettire la signora Banks, perché sono parecchie pagine, perciò li ho salvati in un file.

Quando la porta della mia camera si spalanca, chiudo di colpo il portatile. «Non sibussa prima di entrare?» dico a Tricia.

«Se vivessi in casa tua, allora potrei anche bussare» risponde.Sto per farle notare che pago la mia parte di affitto e quindi tecnicamente è anche casa

mia, ma poi penso al gruzzoletto nascosto nella scatola sotto il letto e decido che èmeglio non parlare di soldi.

Mia madre batte la mano sul computer surriscaldato. «Da qualche parte c’era scrittoche la percentuale di tumori è maggiore nelle persone che stanno tutto il giorno davanti aun monitor.»

«Qualsiasi cosa è cancerogena» ribatto. «Anche il sole.»«Ho letto che il computer fa malissimo. Tutte quelle radiazioni sono nocive per la

salute.»«E dove lo avresti letto? In una delle tante riviste scientifiche a cui sei abbonata?»Ignora la frecciatina e si siede sulla sponda del letto. «E tu? Cosa stai leggendo

ultimamente?»«Io?»«Sì, tu. Una volta avevi sempre il naso in un libro, mentre adesso stai incollata a quel

computer.»Ho restituito l’ultima infornata di romanzi alla signora Banks fingendo di averli letti

tutti, ma in realtà non ne ho finito nemmeno uno.Una volta andavo avanti a leggere fino a notte fonda, mentre adesso non riesco a

smettere di esaminare il materiale sempre più voluminoso su Meg, che ho raccolto in unacartella denominata “Università”. Ancora nessuna risposta da parte di Tutto1_BLF.Continuo a riguardare i vari messaggi cercando di escogitare la mia prossima mossa.

Tricia indica il portatile. «Cosa c’è di tanto interessante lì dentro? Un mondoparallelo?»

«Nessun mondo parallelo, solo un linguaggio binario fatto di zeri e uno. L’informaticaè semplicemente questo.» Ma non è vero. Da qualche parte c’è anche Tutto1_BLF. E Meg.

Tricia rimane in silenzio. Si guarda intorno, osserva le pareti della stanza, le fotografieappiccicate con lo scotch: io in campeggio con i Garcia sul monte Sant’Elena; io e Meg aun concerto; sempre noi il giorno della consegna dei diplomi, lei raggiante, io con unsorriso tirato. Ci sono anche alcune foto di me e Tricia, ma quelle con i Garcia sono lamaggioranza.

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«Voi due eravate come il giorno e la notte» commenta mia madre osservando lafotografia del diploma.

«Non sembriamo tanto diverse. O, per lo meno, non lo sembravamo.» Io ho gli occhigrigioverdi, Meg nocciola scuro, ma era castana come me. Lei aveva la carnagione colorcaffè di Joe, mentre io sono più olivastra, però da abbronzata potevo passare per suasorella. Ciò nonostante non ero una Garcia, e insistere sulla nostra somiglianza adessomi mette a disagio. È forse un tentativo per ribadire il mio legame con lei?

«Non intendo fisicamente» precisa Tricia. «Parlo della personalità. Tu non sei perniente come lei.»

Non faccio commenti.«Per fortuna.»«Non è una cosa carina da dire.»Continua a fissare la foto del diploma. «Lei aveva tutto. Un gran cervello. Una borsa di

studio per l’università. E persino un computer costoso da cui tu fai fatica a staccarti.»Torna a guardarmi negli occhi. «Tu avevi solo me. Sei intelligente ma, intendiamoci, noncome Meg. Hai finito per iscriverti alla merdosa università di qua per poi mollare anchequella, mi sembra di capire.»

Mi arrotolo un filo della coperta intorno al dito fino a fermare la circolazione. “Grazie,Tricia, per questo accurato quadro della mia inferiorità.”

«Eppure, nonostante tutte le carte a sfavore, hai sempre tenuto duro» prosegue Tricia.«Come la volta che hai continuato a frequentare quelle maledette lezioni di danza anchedopo esserti distorta la caviglia.»

«Non potevo tirarmi indietro. Avevo un assolo nello spettacolo All That Jazz» le faccionotare. Mi ero dimenticata di quella storia. Mindy Thomas c’era rimasta malissimoquando la parte era stata assegnata a me. Non sono sicura che Tricia se ne ricordi. Nonera potuta venire a vedermi perché doveva lavorare. I Garcia invece non erano mancati.

«Giusto» riprende Tricia. «A scuola, hai sempre odiato la matematica, però non hai maimollato e sei arrivata fino in fondo a quel maledetto programma di trigonastica.»

«Trigonometria» la correggo.Liquida la mia precisazione con un gesto della mano. «Ti sei messa d’impegno perché

avevi in mente di andare all’università. Quello che voglio dire è che non ti sei mai arresa,anche quando avresti avuto tutte le ragioni per gettare la spugna. Ti sei fabbricata unacollana con un mucchietto di sassi. Meg aveva dei gioielli veri e ci si è impiccata.»

So che dovrei difenderla. Si tratta della mia migliore amica. E Tricia si sbaglia. Nonconosce tutta la storia. Chissà, forse è gelosa del fatto che i Garcia siano stati per me lefigure di genitori che lei non ha saputo essere.

Invece non prendo le difese di Meg. Non sarò figlia di Joe, ma in questo momento misento in tutto e per tutto figlia di Tricia.

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24

Il giorno dopo c’è un messaggio di Tutto1_BLF. “Chi hai perso?” dice semplicemente.Impiego qualche secondo per rendermi conto che si riferisce a un vecchio post. Ciò

significa che mi ha studiato per tutto questo tempo. Passo un’ora a pensare a che cosascrivere, alla storia più efficace da raccontare.

Alla fine torno al punto di partenza. La strategia migliore è dire la verità.

Ridillo: La mia metà migliore.

Venti minuti dopo torna alla carica.

Tutto1_BLF: “Niente è più auspicabile che guarire da un’afflizione, ma non c’è nulla di più spaventoso cheessere privati di una stampella” James Baldwin.

Ridillo: Che cosa significa?

La biblioteca chiude prima che lui abbia il tempo di rispondere. Per tutta la sera nonfaccio altro che riflettere sul significato di quella citazione. L’indomani mattina daiChandler mi porto dietro il computer. Per fortuna la loro rete wi-fi non è protetta. Michiudo in bagno a controllare se c’è un nuovo messaggio di Tutto1_BLF.

Eccolo:

Tutto1_BLF: Forse la tua metà migliore, come l’hai definita, era solo una stampella. E trovarsi a camminaresenza un sostegno dopo tanto tempo può far paura. Magari adesso stai attraversando questa fase.

Tutto qui. Nessuna istigazione al suicidio né allusioni alla vita come afflizione. Solo laconsiderazione che Meg era la mia stampella.

La cosa spaventosa è che ha ragione: Meg era il mio sostegno. Senza di lei vacillo.

Ridillo: Quindi mi stai dicendo che è una situazione passeggera? Che sto semplicemente soffrendo per leconseguenze della mia perdita e non dovrei pensare al grande salto?

Sento la signora Chandler muoversi nella stanza accanto, posto il messaggio eabbandono il computer in un angolo. Per il resto della mattinata rimango in predaall’agitazione. Ho paura di averlo spiazzato. Mi precipito letteralmente in biblioteca. Consollievo trovo un nuovo messaggio:

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Tutto1_BLF: Mai detto niente del genere.

Ridillo: Allora cosa intendi?

Dev’essere ancora online, perché risponde all’istante.

Tutto1_BLF: Cosa intendi TU?

Rifletto bene prima di scrivere:

Ridillo: Non lo so. Non so cosa sto facendo. Ecco perché lo chiedo a te.

Tutto1_BLF: Brava. Ecco perché lo chiedi a me.

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25

Verso la metà di giugno ricevo una chiamata da Alice. Non l’ho più sentita dopo il mioritorno da Tacoma, ma non appena rispondo attacca a parlare come se ci vedessimo tutti igiorni.

«Ho controllato sulla cartina. Tu abiti nella parte orientale dello Stato di Washington,giusto?» mi chiede dopo avermi aggiornato su svariati argomenti di scarsa rilevanza. «TraSpokane e Yakima?»

Spokane e Yakima distano più di trecento chilometri. Non esattamente unapasseggiata. Ma non la correggo. «Più o meno.»

«Fantastico! Devo accompagnare un gruppo di ragazzini a Mountain Bound. Saròvicino a Missoula. E mi pare proprio che l’interstatale 90 arrivi dalle vostre parti.»

«In effetti non è molto lontano.»«Perfetto! Sono tipo sette ore di macchina da Eugene a Spokane, o dove cavolo abiti. E

il giorno dopo posso raggiungere Missoula.»Ci metto alcuni secondi a capire lo scopo della sua telefonata. «Vuoi fermarti da me?»«Se per te va bene.»Praticamente non abbiamo mai ospiti. Persino Meg è rimasta a dormire qui tre o

quattro volte al massimo. Sto già pensando a come parlare a Tricia di Alice. Dove lametterò a dormire? A giudicare dal numero di notti che mia madre sta passando fuoricasa si direbbe che la storia con Raymond funzioni. Magari non rientrerà nemmenoquella notte, ma se le accenno qualcosa è garantito che non si schioderà. «Quandoarriveresti?»

«Dopodomani. Dammi l’indirizzo.»Non mi resta altra scelta. La sera avviso Tricia che avremo un’ospite.«Il tuo ragazzo?» chiede subito, in tono d’accusa.«Non c’è nessun ragazzo» rispondo. Poi penso a Ben e mi do della pazza, ma alla fine

mi giustifico perché era lui l’oggetto della conversazione l’ultima volta che Tricia hasollevato l’argomento.

«Allora con chi è che parli al computer?»«Non parlo proprio con nessuno, dato che non abbiamo una connessione a internet.»«Ma la vorresti! E sei diventata tutta rossa! Tu nascondi qualcosa!»Stavolta ha ragione, anche se non è quello che pensa lei. Io e Tutto1_BLF adesso

comunichiamo regolarmente al di fuori del forum. Purtroppo, però, i nostri scambi sonolimitati agli orari di apertura della biblioteca.

Inoltre per il momento non abbiamo affrontato il tema del suicidio. Per lo meno, nonin modo specifico. Parliamo un po’ di tutto, tanto che a volte mi dimentico chi è il miointerlocutore. La settimana scorsa ho accennato al fatto che stavo covando un raffreddore

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e lui mi ha mandato la ricetta di una tisana a base di zenzero e succo di mela. Hafunzionato, e non ho potuto fare a meno di trovare ironico che sia stato proprio lui acurarmi. “Fa piacere sapere che c’è qualcuno a cui importa qualcosa di me” gli ho scritto.Quando lui mi ha chiesto che cosa volessi dire, ho cominciato a comporre un messaggiosu Tricia prima di rendermi conto di quello che stavo facendo e cancellare tutto.

Devo stare attenta, evitare di rispondergli di getto, altrimenti rischio di tradirmi. Così,quando sono in biblioteca, salvo le sue mail nella cartella in cui tengo il materiale suMeg, scrivo le risposte a casa e le invio quando mi ricollego. È un sistema scomodo efrustrante, ma la dilazione va a beneficio della cautela.

«La persona che si ferma a dormire si chiama Alice» dico a Tricia. «L’ho conosciuta aTacoma. È diretta nel Montana e ha bisogno di fare una tappa.» Ecco. La verità. O, per lomeno, una parte. Una cosa che ho imparato da quando sono entrata in contatto conTutto1_BLF è che mentire è molto più facile se non ti discosti troppo dalla realtà.

«Non può andare in un motel?» obietta Tricia.«Le lascio la mia stanza. Io dormirò sul divano.»Sospira. «Non serve. Puoi usare il mio letto. Io mi fermerò da Raymond.»Annuisco come se l’idea non mi avesse nemmeno sfiorato.

L’indomani sera, alle sei in punto, Alice arriva strombazzando lungo la strada, nemmenofosse la festa dell’Indipendenza. Qualche vicino esce per vedere qual è il motivo di queltrambusto. Alice saluta tutti e sorride raggiante.

«Quindi è qui che vivi?»Faccio segno di sì.«Non è come mi aspettavo... È un posto talmente... piccolo.» Si interrompe. «Non

intendo la casa. Casa tua è grande. La cittadina, voglio dire...»Io e Tricia abitiamo in un cubo in calcestruzzo composto da due minuscole camere da

letto più i servizi. Definirlo “casetta” sarebbe già un’esagerazione.«Insomma, non me lo aspettavo» continua Alice, un po’ in imbarazzo. «Hai un’aria

talmente scafata, credevo che fossi cresciuta in un posto diverso.»«Invece no. Sono nata qui.»Entriamo e le faccio vedere la mia camera. Ho messo delle lenzuola pulite per lei. Si

lascia cadere sul letto e perlustra con lo sguardo i poster e le foto di me e Meg appese allepareti.

«Quindi anche Meg è cresciuta qui?»Annuisco.«Da quanto tempo vi conoscevate?»«Un bel po’.»In una foto ci siamo noi due a un rodeo. Avremo avuto undici anni. In piena fase

dentoni da coniglio. «Sei tu?» domanda Alice chinandosi a guardare.Dovrei fare piazza pulita di questa roba. «Già.»«Avrai un sacco di ricordi qui.»Penso al Dairy Queen. Al razzo spaziale. Alla casa dei Garcia. «Non proprio» rispondo.Restiamo in silenzio per un po’. Poi Alice annuncia di volermi portare fuori a cena.

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«Non si discute!»«E va bene. Dove vorresti andare?»«Quali sono le opzioni?»«Il nostro solito fast food. Il bar dove lavora mia madre, ma fidati, è meglio di no. Una

tavola calda e un paio di ristoranti messicani.»«Ce n’è uno buono?»Joe dice sempre che la cucina di Sue è meglio di quella di sua madre e di gran lunga

superiore a qualunque ristorante in città. Non uscivamo quasi mai per mangiaremessicano. «Non particolarmente.»

«Sono passata davanti a un Dairy Queen venendo qui. Potremmo andarci.»Mi figuro già Tamara Henthoff e la solita gente che ciondola davanti al locale.

«Andiamo al messicano.»Ci dirigiamo verso Casa Mexicana, un locale con i caratteristici divanetti rossi e alle

pareti ritratti su velluto di toreri. Il nostro cameriere è Bill, un tizio che una volta uscivacon Tricia (è inevitabile in una città piccola come la nostra). Ordiniamo da mangiare eAlice chiede un margarita alla fragola e un bicchierino di tequila. Bill vuole vedere undocumento di identità e lei glielo mostra.

«Un analcolico per te, Cody?» dice il cameriere con un sogghigno.Odio questa città. Non posso nemmeno uscire a cena in santa pace. «Una Dr Pepper.»«Hai ventun anni?» chiedo ad Alice dopo che Bill se n’è andato.«Io no, ma Priscilla Watkins sì» risponde mostrandomi una carta di identità falsa.Sono colpita. Non mi aspettavo che fosse il tipo da fare una cosa simile.Mentre aspettiamo da bere, fa il suo ingresso la famiglia Thomas al completo. La

signora Thomas mi saluta con un cenno della mano. Mindy, impegnata in unadiscussione con la sorella a proposito di un arricciacapelli, mi ignora. Io scuoto la testa.

«Che c’è?» domanda Alice.Come si fa a spiegare cosa significa vivere in questo buco a qualcuno che paragona la

sua città natale a un paradiso terrestre?Bill torna per servirci. Non appena volta le spalle, afferro il bicchierino di tequila e lo

butto giù d’un fiato. «Ordinane un altro.»Continuiamo a bere. Alice diventa sentimentale e loquace. Si mette a parlare a voce

alta di Meg, dice che le dispiace di non averla conosciuta meglio e che è contenta diconoscere me. In qualche modo mi rendo conto che sta dicendo cose affettuose, mapreferirei che stesse zitta, visto che Mindy Thomas è seduta poco lontano.

Finalmente arriva da mangiare e Alice comincia a ingozzarsi. «Che buono! A Eugenenon c’è un ristorante messicano decente.»

«Mmh» faccio, smuovendo con la forchetta una massa di formaggio dalla miaenchilada. La tortilla si sfalda come pelle dopo una scottatura. Lascio perdere e assaggioil riso.

«Allora, hai sentito Ben McCallister?» mi chiede Alice di punto in bianco.Per fortuna la luce soffusa del ristorante maschera il mio improvviso rossore. «No.»«Per niente?»«Perché dovrei?»

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«Non so... Sembrava che tra voi fosse... scattata la scintilla.»“Poca favilla gran fiamma seconda”: all’inizio della nostra corrispondenza, Tutto1_BLF

ha citato questa frase. È di Dante, a quanto pare. Credo che intendesse suggerire che dasemplici riflessioni possono scaturire grandi decisioni che ti cambiano la vita. Era il suomodo per incoraggiarmi, ma ho dovuto ricordare a me stessa che in realtà c’era ben pocodi rassicurante, dato che la decisione che caldeggiava era il suicidio.

«Non c’è nessuna scintilla» ribatto spingendo via il mio piatto.«Forse è meglio così.»«Perché?» Avverto una nota di protesta nella mia voce.«Tanto per cominciare, Meg era completamente persa per lui.»«Mi sembrava che avessi detto di non conoscerla bene.»«È vero. Ma lei parlava sempre di Ben. Ci aveva persino invitato a sentirlo suonare.

Doveva essere proprio cotta.»«Ben non c’entra. Meg era fatta così: viveva per quel mondo.»Per un po’ Alice tracanna il suo cocktail in silenzio. «Ah, a proposito: hai scoperto chi

era la persona che le ha consigliato di farsi prescrivere gli antidepressivi?»«No.»«Forse lo so io.»«Ah, sì?» Ormai non mi interessa più. Il mio scopo era risalire a Tutto1_BLF, e ci sono

riuscita.«Non ne sono sicurissima, ma ho il sospetto che sia stata Tree.»«Tree? Come no!»«Per me è stata lei» dice Alice, offesa.«È ovvio che non sai un accidente di Meg.»«Mi sembra che questo lo abbiamo già appurato» ribatte, sulla difensiva. «Ciò non

toglie che potrebbe essere stata lei.»Impossibile. Meg avrebbe trovato insopportabile una come Tree e, del resto, nemmeno

Tree sembrava averla in simpatia. «No, non lei» borbotto. All’improvviso mi sento stancae ho le gambe molli. A scoppio ritardato, mi ricordo perché non mi piace ubriacarmi.

«Okay, okay» fa Alice agitando le mani. «Ma Tree ha detto qualcosa che mi ha fattopensare che poteva essere stata lei. Non ricordo più bene cosa. Comunque dovrestichiamarla.»

L’indomani mattina, mentre Alice si prepara a partire per la sua meravigliosa avventuraestiva, io mi preparo a pulire gabinetti. Risento ancora dei postumi di ieri sera, non tantoper la tequila che mi sono scolata, quanto per il mio comportamento. Perché sono statasgarbata con Alice? Lei è sempre così carina con me. E mi sta pure simpatica. Vorrei dirlequalcosa per rimediare, ma prima che riesca a trovare le parole giuste lei sale in macchinae si allontana strombazzando.

La saluto con la mano finché non sparisce dietro l’angolo. Me ne sto lì a guardareun’altra persona che se ne va per raggiungere un posto migliore e capisco perfettamenteperché sono stata sgradevole.

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I Purdue sono in vacanza, perciò il giorno dopo la partenza di Alice ho la giornata libera.Vado dritta in biblioteca, più presto del solito. Il consueto silenzio rilassante ha lasciato ilposto alle risate e ai gridolini dei bambini. È l’ora del laboratorio di lettura.

Mentre mi dirigo verso i tavoli in fondo, nel gruppo di lettura scorgo Alexis Bray chetiene per mano la figlia. Non ricordo come si chiama, ma era presente a quasi tutte lecerimonie in memoria di Meg, seduta buona buona sulle ginocchia della madre. A unodei vari rinfreschi Alexis mi propose di incontrarci per un caffè e io le promisi che l’avreichiamata ma non l’ho mai fatto. Tanto per cominciare, non capisco per quale motivodovremmo vederci. Ha quattro anni più di me e Meg, e non so molto di lei se non che unavolta usciva con Jeremy Driggs. Ma non è lui il padre della bambina. A quanto pare è unsoldato.

Alexis mi saluta con un cenno della mano. La signora Banks mi fa segno di andare asedermi in una delle postazioni più defilate, dove potrò avere un po’ di tranquillità. Si faper dire. Il laboratorio di lettura è abbastanza chiassoso. La bibliotecaria sta leggendo lastoria di un coniglietto che minaccia in continuazione la madre di volere scappare via. Maovviamente scherza. Quando fai sul serio, ti guardi bene dal raccontarlo in giro.

Un bambino si stacca dal gruppo e mi si avvicina. Il pannolino rigonfio gli arrivaall’altezza delle ginocchia e sulla maglietta della Disney spicca una grossa chiazza: pipì?O peggio? Che schifo! I bambini sono come parassiti. Sospetto che Tricia pensasse lastessa cosa di me. Chissà se anche Meg era di quell’idea.

La bibliotecaria passa a un altro libro, una storia di palloncini scomparsi, se possibileancora più stupida: cosa che forse spiega il motivo per cui il mio piccolo amico dalpannolino puzzolente non sembra minimamente intenzionato a tornare fra il pubblico eresta a fissarmi con gli occhioni sgranati.

Cerco di distogliere lo sguardo, ma è difficile far finta di niente quando qualcuno ti stasquadrando. Per la tensione mi sento rimescolare lo stomaco come il cestello di unalavatrice. Gira, gira, gira. Vedo Alice tra le montagne del Montana, circondata da altrepersone allegre come lei. Gira, gira, gira. Vedo Hendrix che ingoia il topolino. Gira, gira,gira. Vedo Meg che scrive al computer il messaggio di addio e programma l’invioposticipato. Gira, gira, gira. Vedo me stessa in questa biblioteca mentre clicco sulla suaultima mail: “Mi rincresce informarvi...”.

Il marmocchio è ancora lì, con le manine sporche e appiccicose a pochi centimetridalla tastiera del computer. «Non ti conviene avvicinarti» gli intimo fulminandolo con losguardo, in caso non bastasse il tono di minaccia nella mia voce.

Il mento gli si increspa e scoppia a piangere. La madre si affretta a recuperarlo,scusandosi con me. Non deve aver sentito quello che ho detto, al contrario di Alexis chemi rivolge una strana occhiata.

Ecco cosa sono diventata: una che attacca briga con i marmocchi.Torno a rivolgere la mia attenzione al computer e rileggo le varie citazioni di

Tutto1_BLF: “Poca favilla gran fiamma seconda”; “Stringi le corde del tuo coraggio”. Ilbimbetto continua a singhiozzare, al sicuro sulle ginocchia della madre. Mi sento un po’in colpa, ma l’incidente mi è servito per schiarirmi le idee: o continuo con le scaramucce,oppure decido di affrontare la battaglia a viso aperto.

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È ora di mostrarsi coraggiosi. O di soccombere combattendo.Spedisco due messaggi in rapida successione. Il primo a Harry Kang, per chiedergli

come si fa a risalire all’identità di qualcuno. È inutile avere stretto amicizia conTutto1_BLF se continuo a ignorare chi sia.

Il secondo messaggio è per Tutto1_BLF.

Sono pronta. Voglio fare il passo successivo. Mi aiuti?

Non appena premo il tasto INVIO tutta l’angoscia e l’autocommiserazione svanisconodi colpo lasciandomi una sensazione di placida e ferrea determinazione. Chissà se ancheMeg si è sentita così.

Il bimbetto ha smesso di piangere e mi guarda con il faccino imbronciato e rigato dilacrime. Gli sorrido.

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La risposta di Tutto1_BLF non tarda ad arrivare, anche se non è quella che mi aspettavo.Invece di mandarmi la documentazione che di sicuro inviò a Meg, cita Martin LutherKing: “Aver fede significa fare il primo passo anche senza vedere l’intera scalinata”. Eaggiunge: “Il primo passo lo hai già fatto prendendo una decisione”. Segue un link cherimanda a una pagina in cui sono presentate le varie opzioni: barbiturici, avvelenamento,armi da fuoco, asfissia, strangolamento, affogamento, monossido di carbonio, salto nelvuoto, impiccagione. Cliccando su ciascuna di esse si ottiene un elenco incredibilmentedettagliato dei pro e dei contro, oltre alle percentuali di successo per ogni metodo. È undocumento molto simile a quello crittato che ho trovato nel cestino del computer di Meg.

Nel corso della settimana ricevo altri messaggi.

“Una volta che ti sei reso conto che tutto cambia, ogni attaccamento è vano. Se non hai paura di morirenon c’è nulla che tu non possa ottenere” Laozi.Capisci che cosa significa abbandonare le proprie paure? La morte non è la fine, bensì l’inizio. Mi hacolpito il tuo nomignolo: Ridillo. Suppongo che tu non l’abbia scelto a caso. Un invito a dire di nuovo, aripetere. È esattamente quello che stai facendo. Solo quando decidi di compiere un gesto coraggioso,fuori dagli schemi, allora la tua vita cambia veramente.

Dalle sue parole comprendo che è fiero di me. E di conseguenza mi sento fiera di mestessa. Non dovrei, eppure è così.

Prima o poi vorrà conoscere le mie intenzioni. Ho passato ore a studiare le opzioni e,senza volerlo, ho praticamente pianificato il mio suicidio; o, meglio, mi sono calata neipanni di Meg e ho seguito i suoi passi. Ho contraffatto la lettera intestata di un’azienda.Ho ordinato il veleno fornendo una casella postale come indirizzo di consegna. Ho fattotestamento. Ho riordinato la mia stanza. Sono andata in banca a ritirare una banconotada cinquanta dollari da lasciare alla donna delle pulizie. Ho scritto la lettera di addioimpostando l’invio posticipato. Ho prenotato una stanza in un motel.

Grazie alle accurate informazioni fornite sui siti a cui mi ha rinviato Tutto1_BLF sonoperfettamente consapevole di quello che mi succederà una volta ingerito il veleno.Dapprima avvertirò un bruciore in gola, quindi allo stomaco, poi il formicolio ai piedisarà il segnale che sta facendo effetto, e infine seguiranno i crampi e una sensazione difreddo via via che la cianosi si diffonde in tutto il corpo.

Me lo sono immaginata tante di quelle volte, prima immedesimandomi in Meg, poi inme stessa. E mi succede come un tempo, quando non sapevo né volevo distinguere l’unadall’altra.

Non vedo l’ora che lui mi chieda quale metodo ho scelto, perché sono in grado di

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dirglielo e credo che ne sarà compiaciuto.Lui, però, non me lo chiede.Perciò continuo a perfezionare il piano.

Un pomeriggio, finito il lavoro, sto per farmi la doccia quando, rovistando nell’armadiettodei medicinali alla ricerca di un rasoio nuovo per depilarmi, mi cade l’occhio su unenorme flacone di antidolorifici di cui Tricia fa incetta. Grazie alle mie ricerche so che ilparacetamolo è un modo terribilmente doloroso ma economico per farla finita. Chiudo ilrubinetto, vado in camera mia e verso il contenuto del flacone sul copriletto. Quantebisogna prenderne? Quante è possibile mandarne giù in una sola volta? Come evitare didare di stomaco?

A guardare quelle pasticche bianche sembra così facile. Potrei farlo anche adesso.Inghiottire una manciata di pastiglie. Buttarmi da un cavalcavia. Procurarmi una pistola.“Tu non vuoi morire” devo ricordare a me stessa. “Ma se volessi” aggiunge una vocina“pensa quanto sarebbe facile...”

Il trillo del campanello mi fa sobbalzare e arrossisco istantaneamente per la vergogna.Rimetto alla svelta le pasticche nel flacone e vado a riporlo nell’armadietto. Suonano dinuovo.

È Scottie con Samson al guinzaglio. Calcia via alcune foglie secche che si sono infilatesotto lo zerbino e indugia con lo sguardo sulla mia maglietta stropicciata e sudata. «Stavidormendo?» mi chiede.

«No.» Ultimamente non dormo molto, per cui ho sempre l’aria di una che si è appenaalzata dal letto. Sono ancora un po’ scossa dalla faccenda del paracetamolo, perciòquando Scottie mi invita a fare una passeggiata praticamente mi precipito fuori.

Ci avviamo nella luce crepuscolare del tardo pomeriggio. In preda a una sorta diesagitazione, mi metto a parlare a macchinetta. Quando gli chiedo come va la scuola, mifa notare che è appena finita. Allora mi informo sui suoi progetti per le vacanze e lui miricorda che andrà al campo estivo. Dovrei saperlo, dal momento che ci va ogni anno,come faceva Meg quando era più piccola. Non so quante volte ho implorato Tricia diiscrivermi ma, siccome lei di giorno non lavorava, si rifiutava di sborsare soldi permandarmici. Di conseguenza per me l’estate significava restare a casa a contare le ore inattesa che tornassero i Garcia.

Scottie continua a camminare e io continuo a fare domande insensate. Una voltaesaurite anche quelle, sono tentata di chiedergli se si è inventato qualche nuova freddura.Lui e Meg si divertivano a raccontarsi storielle assurde del tipo: “Toc toc. Chi è? Fico. Ficochi? Ficodindia del Mediterraneo e non dell’India”. E giù a ridere come matti finché unodei due non si metteva a urlare o a scoreggiare. Quando scuotevo la testa manifestando lamia perplessità, loro mi rispondevano che mi mancava il gene della “stupidera” deiGarcia. Sapevo che scherzavano, ma ci rimanevo male lo stesso.

Decido di lasciar perdere e resto in silenzio. Nel frattempo, abbiamo fatto il giro dellacittà e Samson ha lasciato un paio di ricordini, che Scottie ha stoicamente raccolto in unsacchetto di plastica.

«Stai ancora cercando?» mi domanda.

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«Di cosa parli?»«Della persona che ha aiutato Meg.»Non so perché mi meraviglio tanto. È stato lui a farmelo notare.L’espressione sulla mia faccia deve avermi tradita, perché Scottie annuisce piano, con

fare comprensivo. «Bene» dice. All’angolo della strada di casa sua, sgancia il guinzaglio aSamson e aggiunge: «Prendilo». Lì per lì penso che stia parlando al cane, ma poi mirendo conto che si sta rivolgendo a me.

Una volta a casa, prelevo il flacone di antidolorifici dall’armadietto, rovescio lepasticche nel water e butto il contenitore nel secchio della spazzatura. Qualche giornodopo, quando Tricia le cerca disperatamente per alleviare i dolori mestruali, faccio la fintatonta.

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La volta seguente che vado in biblioteca la trovo chiusa. Strano. Conosco gli orari amemoria. Giorni di riposo: domenica e lunedì. Il martedì è aperta dall’una alle sei.Controllo sul cellulare. Sono le tre e mezzo di martedì. Scuoto la porta e, per l’irritazione,tiro un calcio.

Torno l’indomani. La biblioteca dovrebbe essere aperta tutto il giorno, invece si ripetela stessa storia. Vedendo la signora Banks dietro il vetro, busso.

«Cosa succede?» le chiedo quando viene ad aprirmi.«Nel fine settimana c’è stato un cortocircuito. Bisogna rifare l’impianto elettrico e per

ora non abbiamo la corrente. Sono anni che facciamo presente il problema.» Sospirascuotendo la testa. «Tagli di bilancio.»

«E adesso come faccio?» sbotto. La biblioteca è la mia ancora di salvezza, il mio unicocanale di comunicazione con Tutto1_BLF. Sono passati quattro giorni dall’ultima voltache ci siamo sentiti e ho i nervi a fior di pelle.

La signora Banks sorride. «Tranquilla, ci ho già pensato.» Sparisce all’interno e tornacon una sporta piena di libri. «Puoi tenerli finché non riapriamo. Questione di un paio disettimane al massimo. Questi sono sotto banco, per così dire» soggiunge facendomil’occhiolino. «È un prestito sulla parola. Ma di te posso fidarmi.»

Devo aspettare venerdì per avere un accesso a internet, dalla signora Chandler. Ma conlei in casa non c’è modo di approfittarne. Ho un bisogno talmente disperato di collegarmiche finisco per parlarle dell’inconveniente della biblioteca e le chiedo il permesso ditrattenermi dopo il lavoro per controllare la posta elettronica sfruttando il suo wi-fi.Dopo avermi rivolto una lunga occhiata mi chiede: «Non hai internet a casa?».

Scuoto la testa, imbarazzata.«Ma certo» dice. «Fai pure.»Quando finalmente mi connetto, sono in preda all’ansia. E se Tutto1_BLF si fosse

stancato di me? Ma poi vedo la sfilza di mail non lette che mi ha inviato. Il silenzio hagiocato in mio favore. Essendo abituato a sentirmi ogni giorno, tranne la domenica e illunedì, Tutto1_BLF è chiaramente preoccupato di non aver ricevuto nessun messaggioper quasi un’intera settimana. Il suo tono tradisce un’inquietudine crescente. Difficiledire se teme che mi sia tolta la vita senza dirglielo o che, al contrario, abbia cambiatoidea.

Tricia ama ripetere che gli uomini ti desiderano di più se credono di non poterti avere.Lo rassicuro spiegandogli che si è trattato di un problema di connessione. Poi,

ripensando all’espressione perplessa della signora Chandler, mi viene un’idea.

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Temo di non poter contare per un po’ su un accesso regolare a internet e non sono sicura di farcela senzail tuo aiuto. Ho già scelto la strada da percorrere, ma se non faccio adesso il grande salto potrei nonaverne più il coraggio. C’è un altro modo per comunicare? Al telefono, per esempio?

Mi sembra che la sua risposta ci metta un’eternità ad arrivare, invece passano solocinque minuti.

Non è prudente.

Mi sforzo di aspettarne altri dieci prima di replicare:

Non vedo alternative.

Digito il mio numero di cellulare e aggiungo:

Chiama se puoi.

Non arriva nessuna telefonata. E, senza internet, non possiamo nemmeno comunicare viamail. Mi secca ammetterlo, ma mi manca quello scambio. Il che, in realtà, equivale adammettere che mi manca lui.

Il lavoro è noioso. Per quanto mi dia da fare a strofinare e lucidare, mi sembra sempreche rimanga una patina opaca. Una mattina arrivo dai Purdue e, vedendo la macchina delmarito parcheggiata nel vialetto di casa, il mio primo impulso è di girare i tacchi. Madove altro posso andare? Cosicché mi faccio forza e apro la porta con la chiave che lamoglie lascia per me sotto la finta pietra.

Mentre sono in cucina a tirare fuori i prodotti per la pulizia da sotto il lavandino, ilsignor Purdue entra con aria disinvolta. «Ho preso un giorno di malattia» mi informa,rispondendo a una domanda che non ho formulato.

«Spero che si senta un po’ meglio.»«Oh, sto benissimo. Più che altro mi serviva un giorno di riposo.»Non faccio commenti e mi dirigo in bagno. Mi chiudo dentro, anche se così le

esalazioni saranno più forti. Sono china sulla vasca, intenta a spruzzare candeggina,quando sento la porta aprirsi alle mie spalle. In casa ci sono due bagni: il signor Purduepuò benissimo usare l’altro. Mi aspetto che vedendomi se ne vada, invece entra. Sento loscalpiccio dei suoi piedi nudi sulle piastrelle.

Mi raddrizzo e mi giro, brandendo lo spray alla candeggina. Lui fa un passo verso dime. Poi, anche se la distanza tra noi è minima, si avvicina ulteriormente.

Allora gli allungo il flacone sotto il naso e premo leggermente l’erogatore in segno diavvertimento. «Mi dia una ragione» dico. «Una sola.» Mi sforzo di fare la dura, ma ho untono quasi implorante.

Lui indietreggia con le mani alzate in segno di resa. Quando sento la macchinaallontanarsi sgommando, la rabbia è sbollita. Ma, a differenza dell’altra volta, non provonessun sentimento di trionfo, nessuna soddisfazione alla Buffy l’ammazzavampiri.

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Nonostante lo avessi già avvisato, lui mi ha mollato dieci dollari in più e poi è tornato allacarica.

Serata deprimente. Tricia è fuori con Raymond e i vicini danno una festa. Malgrado ladoccia, so ancora di candeggina, anche se in realtà ho l’impressione che, più di quella, siala libidine del signor Purdue a non lasciarsi sciacquare via.

Non me la sento di riguardare il materiale di Soluzione finale, perciò mi sforzo di farealtro. Scorro le pagine di un paio di libri della biblioteca, ma le parole mi ballano davantiagli occhi. Quando accendo il computer di Meg per fare una partita a solitario, finisco perentrare di nuovo nel programma di posta elettronica. Per la centesima volta resto afissare la voragine temporale delle mail cancellate, come se potessero magicamentematerializzarsi e rispondere a tutti i miei interrogativi. Torno indietro e rileggo tutta lacorrispondenza tra Meg e Ben.

“Lasciami in pace.” Come mi aveva fatto incavolare quella frase! Adesso però mi riescepiù difficile prendermela con lui. In fondo non ho fatto la stessa cosa anch’io con Meg?

Ce l’aveva con me? Perché le stavo troppo attaccata? O perché mi ero allontanata e nonl’avevo raggiunta in Oregon durante le vacanze di Natale? Riguardo le mail che mi hascritto dopo che io avevo rotto il silenzio di settimane raccontandole l’episodio del signorPurdue.

Quel vecchio porco schifoso! Come vorrei avere assistito alla scena! So che sarai sempre forte, saraisempre la mia Buffy l’ammazzavampiri.

Tiro fuori il cellulare dalla tasca. Ci sono ancora memorizzati gli SMS che Ben mi hascritto prima che gli dicessi di non farsi più sentire. Resto con il dito sospeso sul tasto dichiamata. Immagino di parlare con lui, di raccontargli quello che mi è successo oggi conil signor Purdue, di aggiornarlo su tutto quello che è accaduto nelle ultime settimane.

Solo quando sento il primo squillo mi rendo conto di avere effettivamente premuto iltasto. Al secondo ripenso a tutte le telefonate che aveva ricevuto quel giorno mentreguardavamo la tivù sul divano. Mi immagino di interrompere il suo tête-à-tête con unaragazza e, tutt’a un tratto, inorridisco al pensiero di essere diventata io l’altra. Riattaccoprima del terzo squillo.

Ritrovo anche un messaggio di Alice con il numero di Tree. “Chiamala” si eraraccomandata. Non l’ho ancora fatto. Non mi interessa più sapere chi fosse l’amicomisterioso di Meg. Ma in questo momento lo spirito caustico di Tree è quel che ci vuole.

La fricchettona più scontrosa del mondo risponde: «Si?».«Parlo con Tree?» chiedo, anche se sono sicura che è lei.«Chi è?»«Sono Cody.» Poi preciso: «L’amica di Meg».Dall’altra parte del filo avverto un silenzio ostile. Se non ha intenzione di parlare,

continuerò io.«Sai... ho visto Alice un paio di settimane fa.»«Congratulazioni.»

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Cara, vecchia Tree. Non si smentisce mai.«Mi ha detto che forse Meg si era confidata con te e che tu le avresti consigliato di

prendere degli antidepressivi.»«Confidarsi con me?» Il tono è una via di mezzo tra una risata e un ringhio. «E perché

avrebbe dovuto? Non è che ci spazzolassimo i capelli a vicenda.»L’immagine quasi mi strappa un sorriso. «Anche a me pare improbabile. Ma Alice

sostiene che tu le abbia accennato qualcosa in proposito, anche se non si ricordaesattamente cosa.»

«Con me non si è mai confidata. Ma le avrebbe fatto bene ingozzarsi di antidepressivi.Ne aveva un gran bisogno.»

Il mezzo sorriso svanisce immediatamente dalle mie labbra. «Come sarebbe a dire?»«Non ho mai conosciuto nessuno che dormisse così tanto. Tranne mia madre quando

cade in depressione.»«Tua madre?»«Soffre di disturbo bipolare. Non so se anche Meg avesse lo stesso problema: non l’ho

mai vista euforica, ma depressa sì. Fidati, so di che cosa parlo.»Sono lì lì per spiegarle che da quando aveva avuto la mononucleosi Meg era spesso

molto stanca; se dormiva per cinque persone era perché consumava energie per dieci.“Ha bisogno di riposare per rinvigorirsi” mi diceva Sue mandandomi a casa.

Poi però Tree aggiunge: «E poi una persona equilibrata non parla di suicidio in quelmodo».

Mi sento rizzare i capelli in testa. «Cosa?»«Seguivamo lo stesso corso di letteratura femminista. Una sera, mentre stavamo

studiando in un caffè, Meg ha cominciato a chiedere a tutte quale sistema avremmoscelto per toglierci la vita. Stavamo leggendo Virginia Woolf, perciò all’inizio ho pensatoche fosse per quello. Le risposte sono state banalmente un colpo di pistola, barbiturici,buttarsi giù da un ponte. Lei, invece, è stata molto specifica. Ha annunciato: “Io miavvelenerò in una camera d’albergo e lascerò una grossa mancia per la donna dellepulizie”.»

Restiamo in silenzio. Sappiamo tutte e due che è esattamente quello che Meg ha fatto.«Allora le ho detto di smetterla di piangersi addosso e di andare all’ambulatorio del

campus per farsi dare del Prozac.»“Qualcuno mi ha consigliato di rivolgermi all’ambulatorio del campus per farmi

prescrivere un antidepressivo” aveva scritto nel forum.«Quindi sei stata tu» mormoro al telefono.Avverto la sua sorpresa. «Io?»«Meg ha accennato a una persona che le avrebbe consigliato di rivolgersi

all’ambulatorio del campus per farsi dare degli antidepressivi. Ho chiesto a decine di suoiamici, ma nessuno ne sapeva niente. Tu sei l’unica ad averne parlato.»

«Non eravamo amiche.»«Be’, noi due sì. Meg era la mia migliore amica e non solo non le ho mai consigliato

niente del genere, ma nemmeno immaginavo che cosa le stava succedendo.»«In tal caso tutte e due l’abbiamo abbandonata a se stessa» ribatte Tree in tono astioso.

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Ora capisco la ragione di quel rancore, di quella rabbia. È Meg. Il suo suicidio brucia, siriverbera anche sulle persone che la conoscevano a malapena.

«Scusami» mormora in un soffio.«Meg ti ha dato ascolto. Si è rivolta all’ambulatorio per farsi prescrivere gli

antidepressivi.»«E allora cos’è successo?» domanda Tree. «Non hanno funzionato?»«Per quanto ne so, bisogna prenderli perché facciano effetto.»«E lei non li ha presi?»«Qualcuno l’ha dissuasa.»«Ma perché? Mia madre si è salvata grazie agli psicofarmaci.»Ripenso ai vari commenti nel forum sui farmaci che obnubilano la coscienza. Ma non è

stato per quello. Qualcuno ha convinto Meg che la vita non valeva la pena di esserevissuta. Che la morte era l’opzione migliore. Ed è successo perché, nel momento delbisogno, invece di starle accanto e sussurrarle all’orecchio quanto fosse fantastica e chefuturo meraviglioso l’aspettasse, ho lasciato che Tutto1_BLF la irretisse.

Tree ha ragione a dire che Meg è stata abbandonata a se stessa. Ma lei non ne ha colpa.Io sì. L’ho abbandonata quando era viva. Ma non l’abbandono adesso che è morta.

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L’indomani sto passando l’aspirapolvere a casa della signora Driggs quando sento ilcellulare vibrarmi in tasca. Lo tiro fuori e faccio in tempo a riconoscere il prefisso diSeattle prima che scatti la segreteria. Pochi secondi dopo una suoneria mi avverte che c’èun messaggio vocale.

Resto a fissare il telefono sul palmo della mia mano; in sottofondo, l’aspirapolvereronza sommessamente. Perché mi ha richiamato? Ha riconosciuto il mio numero? Chissàse lo ha memorizzato tra i contatti. A ogni modo, ho provveduto a ripristinare ilmessaggio standard della segreteria, nel caso Tutto1_BLF mi contattasse.

Qualunque sia la ragione per cui si è fatto vivo – fosse anche per sapere chi lo hachiamato – non voglio sentirlo. Mentre sto per cancellare il messaggio vocale, ho unattimo di esitazione. In quel momento il telefono squilla di nuovo. Provo un senso disollievo e allo stesso tempo di vergogna.

«Ehilà» dico con il cuore in tumulto.Una breve pausa, poi: «Ridillo?» chiede una voce.L’aspirapolvere è ancora acceso e mi ci vogliono alcuni secondi per capire che non si

tratta di Ben. Guardo il display per vedere il numero, ma è sconosciuto.«Ridillo?» ripete la voce.A quel punto capisco di chi si tratta. «Sì.»«Sai chi sono?»«Sì.»«Cos’è questo rumore?»«Oh, sono al lavoro.»«Anch’io.» Ridacchia.La sua voce è diversa da come me l’aspettavo. Gioviale, confortante. Sembra quasi che

siamo vecchi amici.L’aspirapolvere sta ancora ronzando. Lo spengo. «Ecco. Così va meglio?»«Sì.» Ridacchia di nuovo. «Peccato che dove lavoro io non sia così facile avere un po’ di

silenzio. Ma ho trovato un angolino tranquillo. Scusa il ritardo.»Ascolto meglio: in sottofondo si sente una specie di tintinnio elettrico. Registratori di

cassa?«Bisogna sapere dosare i rischi che si sceglie di correre.»«Già.»«A proposito, hai deciso?»«Sì.»«È molto coraggioso da parte tua.»«Ho paura» mi scappa detto. È la pura verità. Con Tutto1_BLF non riesco a non essere

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sincera. Il che è abbastanza ironico, a pensarci bene.«Sai che cos’ha detto una volta il generale Patton? “Un uomo intelligente ha paura. Più

è intelligente e più ne ha.” Direi che lo stesso vale per le donne.»Non faccio commenti.«Hai scelto il metodo?»«Sì. Ho intenzione di...»«Non voglio saperlo» mi interrompe. «È una decisione personale.»«Oh, scusa.» Altro che scuse. Sono sconvolta. Vorrei urlarglielo in faccia.«Hai provveduto a sistemare le faccende pratiche?»“Sistemare le faccende pratiche.” È questa l’espressione che ho letto su uno dei siti che

mi ha consigliato, assieme a tutte le debite istruzioni in merito alla lettera di addio e allastesura di un testamento legalmente valido.

«Sì» rispondo. Mi gira la testa.«Ricorda che il contrario del coraggio non è la codardia, bensì il conformismo.

Scegliendo la tua strada dimostri di sfidarlo.»Qualcosa mi dice che questa frase dev’essere piaciuta a Meg, se l’ha detta anche a lei.

Se c’era una ragazza pronta a sfidare il conformismo a ogni costo, quella era Meg.«E adesso, come per tutte le cose, non resta che andare fino in fondo. Stringi le

corde...»«... del tuo coraggio» mi viene spontaneo concludere al posto suo.Dall’altra parte della linea cala un silenzio perplesso. Ho fatto un passo falso.All’improvviso c’è un gran trambusto e il rumore di sottofondo esplode nel microfono

del telefono. Odo una musichetta elettronica e uno scroscio di monete. Il suono delleslot-machine, un sacco di slot-machine. Lo so riconoscere, sono stata nei casinò indiani.

«Avevo chiuso a chiave» sento sbraitare Tutto1_BLF. La sua voce ora è diversa.«Scusa, Brian. La serratura è rotta da settimane.»Si sente sbattere una porta e poi torna il silenzio.«Bene, possiamo considerare chiusa la faccenda» dice in tono formale. «In bocca al

lupo.»«Aspetta!» Voglio farmi mandare il materiale che ho trovato nel cestino del computer

di Meg: i documenti crittati, l’elenco delle cose da fare, qualche elemento in più, qualcheprova ulteriore per inchiodarlo. Ma ha già riattaccato.

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Più tardi chiamo Harry Kang.«Harry? Sono Cody.»«Cody... ciao!»Mi giungono uno strombazzare di clacson e una cacofonia di voci strepitanti. «Dove

sei?» gli chiedo.«In Corea, a trovare mia nonna. Aspetta un attimo.» Sento un fruscio, lo scampanellio

di una porta e poi un silenzio ovattato. «Ecco. Sono entrato in una sala da tè. Seul è undelirio. Cosa succede?»

«Credo di aver raccolto abbastanza informazioni. O comunque tutte quelle che hopotuto.» Mi tornano in mente le parole di Tutto1_BLF: “In bocca al lupo”. Come se mistesse facendo gli auguri per un esame. O come se avesse saputo che non ci saremmo piùsentiti.

«Cos’hai scoperto?»«A dire il vero non ho nessuna certezza. Ma una cosa la so: sono abbastanza sicura che

si trovi sulla costa occidentale. Il fuso orario sembra lo stesso.»«Questo restringe il campo a qualche milione di persone.»«C’è dell’altro. Credo che lavori in un casinò. Potrebbe essere Las Vegas?»«Las Vegas ha una popolazione di... quanto... un milione di abitanti? Ammesso che sia

proprio a Las Vegas. Potrebbe essere ovunque in Nevada» osserva Harry. «Il giocod’azzardo è legale in tutto lo Stato.»

«Oppure potrebbe lavorare in un qualsiasi casinò indiano» aggiungo.«Esatto. Che altre informazioni hai?»«Il suo nome è Brian. Ho sentito che qualcuno l’ha chiamato così.»«È già qualcosa.» Fa una pausa. «Altro?»«No. La nostra telefonata si è interrotta bruscamente.»«Ti ha chiamato?»«Sì.»«Da un telefono fisso o da un cellulare?»«Non lo so. Il numero era sconosciuto. Ma, dato che mi ha chiamato dal lavoro, penso

che fosse un cellulare.»«E il tuo era un fisso o un cellulare?»«Cellulare. Anch’io ero al lavoro, e poi abbiamo disdetto il contratto del telefono di

casa.»«Quando?»«Quando abbiamo dato la disdetta?»«No, Cody, quando ti ha chiamato il tipo.»

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«Stamattina.»«Sul serio?» esclama Harry alzando la voce di un’ottava.«Sì. Perché, è un male?»«Un’imprudenza, piuttosto.»«Quindi un male per lui, un bene per noi?»«Può darsi.» Nonostante non possa vederlo, capisco che Harry sta sorridendo. «Devi

farmi accedere al tuo account telefonico.»«D’accordo.»«E mandami tutte le informazioni che hai trovato su questo Brian: username, indirizzi

di posta elettronica, tutto quello che hai su di lui. Insomma, tutti i suoi dati elettronici.»Lo farò, a costo di piazzarmi di fronte alla casa dei Chandler per beccare il segnale del

wi-fi. Anche se la signora Banks sostiene che la biblioteca riaprirà a giorni. «Consideralofatto.»

«Renditi conto che sto per compiere un’azione non del tutto legale.»«Per una buona causa» gli ricordo.«Eccome! Sto sclerando un po’ da mia nonna, quindi sono contento di avere qualcosa

per le mani. Mi faccio sentire non appena trovo qualcosa.»

Nel pomeriggio mi apposto davanti alla casa deserta dei Chandler per captare il segnalewi-fi e spedisco tutto quanto a Harry. Il giorno dopo la biblioteca riapre. Mi porto dietro ilcomputer di Meg e controllo se ci sono altre mail di Tutto1_BLF. Niente. Entro nel forumdi Soluzione finale, ma nemmeno lì ci sono tracce di lui. Sono quasi certa che non si faràpiù sentire. Ma forse non ha importanza, perché ormai da topo mi sono trasformata inserpente.

Tre giorni dopo mi chiama Harry. «Non è stata un’impresa facile» dice. Sembra piuttostoelettrizzato.

«Lo hai trovato?»Invece di rispondere, mi fa un resoconto dettagliato di come Tutto1_BLF mi abbia

chiamato via Skype sfruttando un particolare protocollo internet, il Voice Over IP, non daun telefono ma da un tablet. Se è difficile rintracciare un numero telefonico, è più facilerintracciare l’utente di un’applicazione. «È così che riescono a beccare anche i criminalipiù in gamba» spiega. «Perfino i migliori prima o poi commettono un’imprudenza.»

«Insomma, lo hai trovato?»«Come ho detto, non è stata un’impresa semplice. Il tablet era registrato a nome di un

certo Allen DeForrest.»«Quindi è lui?»«Non lo so. Scavando un po’ più a fondo ho scoperto che questo DeForrest è

onnipresente in internet. È su Facebook, Instagram e ha postato un sacco di foto eaggiornamenti sulla propria attività online. Mi sarei aspettato che il nostro uomo fosseun tipo più riservato. Ma avevo una strana sensazione, così ho continuato a indagare ed èvenuto fuori che lavora come pit boss al Continental Casino.»

«Cosa fa un pit boss?»

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«È una specie di supervisore, ma non è questo il punto, Cody. Lavora in un casinò.Avevi visto giusto! Non a Las Vegas, ma a Laughlin, sempre in Nevada. Una specie di LasVegas dei poveri.»

«Però hai detto di non essere convinto che DeForrest sia il nostro uomo.»«Infatti. Tanto per cominciare, uno che ricorre a sistemi di cifratura così sofisticati non

commetterebbe l’imprudenza di usare il proprio dispositivo. E poi stiamo cercando untale Brian, no? Sono riuscito ad accedere al database dei dipendenti del ContinentalCasino e ho cercato le persone di nome Brian. Ce ne sono tre. Uno di questi è BrianLaForet.»

«LaForet?»«Tutto1_BLF.»«Pensavo stesse per “Tutto un bluff”.»«Anch’io. E forse è così. Ma a volte questi tizi così bravi a nascondere le proprie

malefatte si divertono a lasciare una firma. Così ho pensato che BLF potessero essere lesue iniziali, sapendo che faceva Brian di nome.» Harry fa una pausa, poi aggiunge: «Cosìho spulciato nel database del casinò: Brian LaForet. Cinquantadue anni. E non finisce qui.Ho indagato sui suoi movimenti in internet e ho scoperto che ha un abbonamento allabanda larga e, al contrario di Allen DeForrest – evidentemente un alias – sta moltoattento a non lasciare una sola traccia digitale. Il profilo corrisponde in pieno».

«Quindi è lui?»«Potrebbe essere.»«Come facciamo ad assicurarcene?»«Riconosceresti la sua voce?»C’è stata quell’unica telefonata tra noi. Breve ma indelebile. «Credo di sì.»«Bene. Sono riuscito ad avere il suo numero di cellulare. Posso chiamarlo da una linea

non rintracciabile e metterti in ascolto. Se risponde la segreteria telefonica, ascolti ilmessaggio. Se risponde, fingerò di essere l’operatore di un call center e tu starai insilenzio. In entrambi i casi potrai confermare se è la sua voce.»

«Tutto qui?»«Sì. Adesso riattacca. Ti richiamo e ti inserisco nella conversazione.»«Ora? Non rischiamo di insospettirlo?»«Chi vuoi che si insospettisca per la chiamata da un call center?»«Giusto.»«Bene. Quale articolo inutile possiamo proporre?» domanda Harry.«Si dà il caso che abbia lavorato come operatrice di telemarketing. A quanto pare

nessuno è interessato a un’assicurazione integrativa sulla vita, e nel suo caso mi parequanto mai calzante.» Propino a Harry la pappardella di rito.

«Okay. Ti richiamo e lo facciamo.»Quando Harry mi richiama, la linea sta già squillando. «Sst» mi fa.Risponde una voce roca. «Pronto?»«Buongiorno. La chiamo per conto della compagnia di assicurazioni Good Faith»

esordisce Harry in tono suadente, come se non avesse fatto altro nella vita. «Ci tenevo ainformarla che abbiamo introdotto delle agevolazioni sulle nostre polizze a Laughlin.

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Gradiremmo offrirle una revisione della sua assicurazione sulla vita senza obblighi daparte sua e fornirle un nuovo preventivo. Se non ha ancora stipulato una polizza, sareilieto di discutere con lei di questo saggio investimento sul suo futuro.»

«Vi ho già detto che non sono interessato» dice. E riattacca.Per un attimo restiamo sospesi in quel triangolo di silenzio: io, Harry Kang e l’eco della

voce di Brian LaForet.

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30

Sono di nuovo in biblioteca per fare ricerche. Stavolta, però, è molto più facile: devo solocapire come raggiungere Laughlin. La parte più complicata ormai è alle spalle.

Stento ancora a crederci. Ho cercato Tutto1_BLF per settimane e, a volte, ho avutol’impressione di dare la caccia a un fantasma. Adesso però ho le prove della suaesistenza. Ho il suo indirizzo.

Ieri sera Harry mi ha chiamato di nuovo per fornirmi ulteriori informazioni suTutto1_BLF, alias Brian LaForet.

“Sei un cazzo di genio, Harry!” gli ho detto.“Grazie” ha risposto, e si capiva che stava di nuovo sorridendo.“Grazie a te, Harry, di cuore.”“Non devi ringraziarmi” ha affermato in tono pacato. “È stato divertente. E poi mi

sono sentito utile. Mi sembra di aver fatto qualcosa per Meg.” Dopo una pausa haaggiunto: “Hai intenzione di rivolgerti alla polizia?”.

“Non sono sicura. Pensavo di andare prima a fare un salto di persona.”Silenzio. “Stai attenta, Cody” si è raccomandato poi. “Un conto è entrare in contatto

con qualcuno in rete, un altro incontrarlo di persona. Certi possono rivelarsi pocogradevoli, non il genere di gente con cui vorresti trovarti nella stessa stanza.”

A volte non c’è nemmeno bisogno di essere nella stessa stanza per fare del male aqualcuno. “Sì, starò attenta” gli ho promesso. “Grazie ancora.”

“Come ho detto, mi ha fatto piacere rendermi utile. E poi non è così difficilerintracciare qualcuno.”

“Ah, davvero?”Harry ha riso. “Be’, non per quanto mi riguarda.”In quell’istante mi è venuta un’idea. “Mi faresti un altro favore? Cercheresti un’altra

persona per me?”

Il viaggio in corriera fino a Laughlin dura trenta ore, con tre cambi, e il biglietto di andatae ritorno costa trecento dollari. I soldi li ho, e posso permettermi di stare via per tutto iltempo che mi serve, ma all’idea di trascorrere sessanta ore in pullman senza parlare connessuno comincio già ad avvertire una vaga nausea e un senso di oppressione. Non possoaffrontare quest’impresa da sola, con solo Brian e Meg a tenermi compagnia.

Passo mentalmente in rassegna le persone a cui potrei chiedere di accompagnarmi.Certo non Tricia, e men che meno i Garcia. A scuola non mi sono mai fatta vere e proprieamicizie e comunque ho perso i contatti con tutti. Chi altro resta? Sharon Devonne?

Forse qualcuno del campus di Cascades. Alice, però, sta ancora lavorando a MountainBound e Harry si fermerà in Corea fino a metà agosto. Resta Richard lo Scoppiato. Tutto

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sommato non è una cattiva idea. Per l’estate è tornato a casa, a Boise, che è di strada.Potrei prendere un pullman per raggiungerlo lì e poi proseguire con lui in macchina.

Ci sarebbe un’altra persona. Non appena ci penso, mi rendo conto che è l’unica adatta.Nessuno, a parte me, è più coinvolto in questa faccenda.

Il messaggio che mi ha lasciato è ancora registrato sulla segreteria. Non l’hocancellato, pur essendomi rifiutata di ascoltarlo. Lo faccio adesso. Dice solo: “Mi haicercato, Cody?”.

Quelle parole possono avere svariati significati, sottintendere esasperazione,irritazione, senso di colpa o arrendevolezza.

Ascolto di nuovo il messaggio. Stavolta, dietro le parole, avverto un misto di ansia,preoccupazione e tenerezza.

“Mi hai cercato, Cody?”Sì. E gli spiegherò per quale motivo.

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Ben si offre di passare a prendermi a casa, ma non voglio farlo venire fin qui. Ciaccordiamo per incontrarci il sabato a mezzogiorno a Yakima, davanti alla stazione deipullman. Poi chiamo Richard.

«Ehilà, Cody! Quanto tempo! Come ti vanno le cose?»«Cosa fai sabato sera?»«Mi stai chiedendo di uscire con te?» scherza.«A dire il vero ti sto chiedendo di dormire da te» rispondo a tono. Gli spiego che sto

per partire e che mi farebbe comodo fermarmi a Boise sabato sera.«Casa Zeller è sempre aperta ai pellegrini di passaggio. Però, preparati: se arrivi di

sabato sera, il reverendo Jerry potrebbe incastrarti in qualche attività la domenicamattina.»

«D’accordo» acconsento. Non capisco bene a cosa alluda, ma non importa. «C’è solouna piccola complicazione.»

«E quando mai va tutto liscio?»«Con me ci sarà Ben McCallister.»Sento Richard prendere fiato, forse per lo sgomento; oppure sta fumando una canna.

«Voi due... siete...»«No, no. Niente del genere. Non lo sento da più di un mese. Mi sta solo dando una

mano.»«Una mano? Ci scommetto!»«Non è come pensi. C’entra Meg.»«Ah.» Improvvisamente il tono di Richard si fa serio.«Ci puoi sistemare tutti e due? Partiremo verso mezzogiorno, per cui saremo da te

verso le sei o le sette.»«Hai voglia. Sull’interstatale 84 il limite di velocità è di centoventi, ma nessuno fa mai

meno di centrotrenta. Si fila che è una meraviglia.»«Allora va bene se ci fermiamo da te tutti e due?»«C’è sempre posto nella stalla del reverendo Jerry» risponde in tono ironico. «Siamo

abituati ad avere pecorelle smarrite che dormono sul pavimento. Per voi potremo persinorimediare un divano.»

«A me il pavimento va benissimo.»«Basta che non sia lo stesso pavimento su cui dorme Ben McCallister.»

Aspetto fino a venerdì sera per avvertire Tricia della mia partenza. Ho già annullato gliimpegni di lavoro di lunedì e martedì. Conto di essere di ritorno martedì sera, al piùtardi. Non so perché, ma il fatto di parlare di questo a mia madre mi rende nervosa.

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Lei mi rivolge una lunga occhiata. «Dove vai?»Non è certo tipo da tenermi al guinzaglio, ma se le dico la verità andrà a finire che ne

verranno a conoscenza anche i Garcia, e non voglio che sappiano nulla finché non avròqualcosa di solido in mano. Inoltre ho anche paura che non mi permetta di andare se lerivelo le mie vere intenzioni. «A Tacoma» rispondo.

«Di nuovo?»«Alice mi ha invitato a fare un salto.»«Credevo fosse andata nel Montana.»Avrei dovuto imparare la lezione dopo la storia con Tutto1_BLF. Le menzogne più

credibili sono quelle che non si allontanano troppo dalla verità.«Infatti è così. Ma torna a casa per il fine settimana.» Spero che non si ricordi che Alice

è di Eugene.Tricia mi scruta di nuovo.«Rientrerò martedì sera al più tardi» aggiungo.«C’è bisogno che vada a fare le pulizie da qualche parte al posto tuo?»Scuoto la testa. Le faccende domestiche possono aspettare.

Quella notte non chiudo occhio. Sabato mattina presto raccolgo le mie cose – il cofanettocontenente i soldi, che al momento ammontano a cinquecentosessanta dollari, ilcomputer e le carte stradali – e prendo il primo pullman per Yakima. Arrivo alle nove emezzo e mi piazzo in uno squallido caffè vicino all’autostazione, con le cartine spianatesul tavolo. Da qui a Laughlin è una tirata di oltre millesettecento chilometri. Bisognaattraversare un pezzetto di Oregon e uno di Idaho e poi scendere lungo la parte orientaledel Nevada.

La cameriera mi riempie regolarmente la tazza di caffè e io continuo a berlo, anche sequesta brodaglia amara mi sta facendo venire una terribile acidità di stomaco, per nonparlare del pessimo effetto che ha sui miei nervi già logori. Nelle ultime ventiquattr ’orenon ho mai smesso di chiedermi se coinvolgere Ben sia stata una buona idea.

Lo scampanellio della porta mi fa alzare gli occhi distrattamente e mi stupiscovedendolo entrare. Sono solo le dieci e trenta. L’appuntamento sarebbe tra un’ora emezzo. Da Seattle ci vogliono due o tre ore di macchina per arrivare qui, perciò dev’esserepartito all’alba, oppure ha corso. O entrambe le cose.

Il mio primo impulso è quello di rannicchiarmi sul divanetto in modo da guadagnarealtro tempo. Ma devo passare due giorni in auto con lui, quindi tanto vale affrontare lasituazione di petto. Mi schiarisco la voce e lo chiamo. «Ehilà, Ben.»

Fa un’espressione perplessa e si guarda intorno finché non mi scorge nel mio angolo,con le cartine aperte sul tavolo. Sembra sollevato e nervoso allo stesso tempo. Ancorauna volta la sua faccia riflette come uno specchio i miei sentimenti: è esattamente cosìche mi sento anch’io.

Si siede di fronte a me. «Sei in anticipo» osserva.«Anche tu» replico allungandogli il mio caffè. «Ne vuoi un po’? È appena fatto. O, per

lo meno, me l’hanno appena versato.»Stringe le dita intorno alla tazza di caffè nero senza zucchero, come piace anche a lui,

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adesso che ci penso. Lo scruto. Stamattina ha gli occhi di un colore violetto che siarmonizza con l’ombra violacea delle occhiaie. «Non riuscivo a dormire» dice.

«A quanto pare è contagioso.»Ben annuisce. «Allora, quali sono i piani?»«Arrivare fino a Boise in giornata. Ci fermiamo a dormire dallo Scoppiato... ehm,

voglio dire, da Richard Zeller. Hai presente il coinquilino di Meg?»«Ho presente.»«Ha detto che ci può ospitare a casa dei suoi. A meno che tu non voglia stare da

qualche altra parte.» Ben avrà sicuramente un sacco di posti migliori dove passare lanotte.

«Ti seguo ovunque tu vada.»Quella semplice affermazione mi conforta come una coperta.«Si può sapere che cosa ci aspetta?» mi chiede.Quando l’ho chiamato, gli ho detto semplicemente che avevo trovato una persona

collegata alla morte di Meg e che avevo bisogno di un accompagnatore. Non ho aggiuntoaltro. Ritenevo che non fosse necessario aggiornarlo e immaginavo che non gliinteressasse sapere cosa era successo nelle ultime settimane di latitanza. Adesso, però, difronte alla sua domanda diretta, sono un po’ intimorita. Harry mi ha messo in guardiamandandomi i link a svariati articoli sui fatti terribili accaduti a ragazze che avevanoincontrato tizi conosciuti online. La sua preoccupazione mi ha commosso, ma nel miocaso è diverso. Quelle ragazze si facevano illusioni romantiche e sono finite tra le grinfiedi depravati. Non è così che stanno le cose tra me e Brian.

Ma se Ben non la vedesse allo stesso modo? Se, una volta appresi i dettagli del miopiano, si spaventasse e si tirasse indietro?

Siccome la mia risposta tarda ad arrivare, Ben mi incalza. «Sono tenuto a sapere solo lostretto necessario?»

«No. È solo che...» Scuoto la testa. «Il viaggio è lungo.»«E allora?»«Abbiamo un sacco di tempo. Ti dirò tutto strada facendo. Promesso.» Dopo una

pausa gli chiedo: «Come stanno i ragazzi?».«Ho qui delle foto» risponde. Mi aspetto che me le mostri sul cellulare, invece tira

fuori una busta e la fa scivolare sulla cartina verso di me. Dentro c’è una serie diistantanee: Dillo e Ridillo che giocano con un pezzo di spago, che si puliscono il muso,che dormono acciambellati ai piedi del letto di Ben.

«Quanto sono cresciuti!»Annuisce. «Praticamente sono due adolescenti. Dillo mi ha portato un topolino morto.

Sono sicuro che si tratta di un rito di passaggio. Tra poco cominceranno a portare a casaanimali di ogni genere.»

«Uccelli. Ratti.»«Non escluderei opossum e pony.»Scoppio a ridere. Mi sembra che siano trascorsi secoli dall’ultima volta che mi è

successo. Gli restituisco le foto.Ben fa un cenno di diniego. «Sono per te.»

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«Oh, grazie. Vuoi mangiare qualcosa prima che ci mettiamo in viaggio?»«No. Sono venuto qui solo per ammazzare il tempo mentre ti aspettavo.»«Ed eccomi qui.»«Ed eccoti qui.»Il silenzio che segue non promette niente di buono per i due giorni che dovremo

passare insieme.«Che dici, partiamo?»«D’accordo. Sappi, però, che la presa dell’accendisigari per caricare l’iPod fa le bizze,

perciò sul versante musica siamo messi male.»«Me ne farò una ragione.»«Un’altra cosa, meno importante per me ma forse non per te: l’aria condizionata è

fuori uso. Sarà un’esperienza piuttosto interessante attraversare il deserto del Nevada inpieno luglio.»

«Vuol dire che ci fermeremo a ogni stazione di servizio per bagnarci e viaggeremo coni finestrini aperti. Io e Meg facevamo così.» Mi blocco. Tutto quanto, ogni dettaglio dellamia storia personale sembra ricondurre a Meg.

«Ottima idea.»Usciamo. Ben apre l’auto. È decisamente più in ordine rispetto all’ultima volta.«Vuoi che guidi io?» chiedo. «O alle ragazze non è consentito guidare la tua

macchina?»«Di solito non permetto a nessuno di farlo» risponde lanciandomi un’occhiata di

sguincio. «E comunque tu non sei una ragazza.»«Ah, giusto. Sei riuscito a capire a che genere appartengo?»«Non ancora.» Mi lancia le chiavi. «Ma puoi guidare.»

Non appena imboccata l’interstatale comincio a rilassarmi. Ho preso la patente a sedicianni, ma mi capita così raramente di andare da qualche parte che tendo a dimenticarmila sensazione di libertà della strada che ti si srotola davanti e del vento che ti scompiglia icapelli. Con i finestrini abbassati e la musica a tutto volume non si riesce a parlaregranché. Meglio: Ben non potrà chiedermi di Brian né di ciò che ho fatto nell’ultimomese. O accennare al bacio che ci siamo scambiati.

Ci fermiamo a mangiare nei pressi di Baker City, in un posto che conosce Ben. Hoqualche riserva su un ristorante cinese nel bel mezzo del grezzo Oregon orientale, ma luisostiene che lì fanno i migliori ravioli che abbia mai assaggiato. Si direbbe un clienteassiduo. È evidente che la giovane cameriera lo conosce e che con una scusa o con l’altracontinua ad avvicinarsi al nostro tavolo, per versarci del tè e scambiare due parole conlui. A un certo punto, però, la madre severa esce dalla cucina e la manda via.

«Accidenti! Conosci tutti sull’interstatale 84?» gli chiedo.«Solo nei ristoranti cinesi. Anche in quelli sull’interstatale 5.»Indico con un cenno la cameriera, che continua a sorridergli. «È una tua ammiratrice?

Sei venuto qui con qualche band?»Ben mi scocca un’occhiata. «Mai stato qui con nessun musicista. Ci sono venuto con

mia sorella Bethany.»

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Quel nome mi è familiare. Poi mi ricordo che si tratta di una delle ragazze con cui Benaveva parlato al telefono la prima volta che ero andata a trovarlo a Seattle.

«Bethany è tua sorella?»Annuisce. «Già. Quando vivevo a Portland, ospite di alcuni amici, Bethany stava

passando un brutto periodo a casa. Così il suo eroico fratellone è corso a prenderla e l’haportata a fare un giro. Volevo arrivare fino al parco di Zion, nello Utah. Ho sempredesiderato visitarlo.» Beve tutto d’un fiato il suo tè. «Ma la macchina ci ha lasciato perstrada da queste parti. Quel catorcio di Pontiac!»

«E come avete proseguito il viaggio? In autostop?»«No. Bethany aveva solo undici anni» spiega Ben scuotendo la testa. «Ho dovuto

chiamare il mio patrigno perché venisse a prenderla, e nell’attesa ci siamo rifugiati qui.Lui era così incazzato che non voleva saperne di darmi un passaggio fino a Bend. Datoche non avevo niente che mi trattenesse a Portland, sono andato a Seattle in autostop. Eho finito per restarci.»

«Ah.» Non è esattamente la storia del ragazzo che sogna di diventare una rockstar. «Eadesso Bethany dov’è?»

La luce nel suo sguardo si spegne. «Là.»Non so dove sia, ma a giudicare dal modo in cui l’ha detto non dev’essere un bel

posto.«Finiamo di mangiare e rimettiamoci in viaggio» suggerisce Ben. «Tra poco avremo di

nuovo fame. La cucina cinese non riempie molto.»«Ci vogliono solo due ore di macchina fino a Boise. E Richard mi ha mandato un S MS

per avvertire che stasera c’è in programma una grigliata.»Ben drizza la testa. «Una grigliata? Di carne vera? Niente tofu?»Scrivo un messaggio a Richard per chiedergli del tofu e lui mi risponde con una

faccina schifata. «Sei salvo» rassicuro Ben.Dopo aver fatto benzina ripartiamo. Si è messo alla guida. Solo una volta imboccata

l’interstatale mi rendo conto che non ha fumato dopo pranzo. Anzi, non ha fumato pertutto il viaggio.

«Se non fumi per non darmi fastidio, non farti problemi» gli dico. In effetti, però, lamacchina non puzza di sigaretta come l’altra volta.

Ben sfodera un sorriso timido e si tira su la manica della camicia per mostrarmi uncerotto color carne. «Ho smesso.»

«Quando?»«Da un paio di settimane.»«Come mai?»«A parte il fatto che fumare fa male ed è un vizio costoso?» ribatte.«Sì. A parte questo?»Mi scocca un’occhiata fulminea prima di tornare a rivolgere l’attenzione alla strada

davanti a sé. «Sentivo il bisogno di un cambiamento.»

Arriviamo alla periferia di Boise verso le sei di sera, mentre il sole al tramonto accende dirosso le colline circostanti. Recupero le indicazioni che mi ha mandato Richard e guido

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Ben attraverso la città, oltre la zona militare, finché raggiungiamo una graziosa stradaalberata costeggiata da case basse. Ci fermiamo davanti a una villetta con una rigogliosabuganvillea arancione e un furgone bianco parcheggiato sul vialetto. «Siamo arrivati»annuncio.

Mentre bussiamo, mi mordo la lingua: avremmo dovuto pensare a portare qualcosa;non ci si presenta a casa della gente a mani vuote. Ormai è troppo tardi.

Non risponde nessuno. Suoniamo il campanello. Niente. C’è un televisore acceso e sisente un rumore di voci all’interno. Bussiamo di nuovo, ma invano. Faccio per scrivere unS MS a Richard quando Ben apre la porta e sbircia all’interno. «Salve!» esclama.

Una bambina sorridente, con la faccia deturpata da una specie di labbro leporino,arriva trotterellando.

«Forse abbiamo sbagliato casa» bisbiglio.Ma a quel punto la piccola grida: «Vichavd, sono avvivati i tuoi amici!».Cinque secondi dopo appare lui, che la prende in braccio e dice: «Vi presento CeCe».

La bimba emette gridolini divertiti mentre suo fratello le fa il solletico. Con un gesto delbraccio Richard indica altri tre ragazzini spaparanzati su vari cuscini a guardare un film.«E quelli sono Jack, Pedro e Tally.»

«Ciao» faccio io.«Ciao» fa Ben. «Toy Story?»«Tre» precisa Pedro.Ben annuisce con l’aria di intendersene.«Chi sono?» domando sottovoce a Richard mentre posa a terra CeCe.«Famiglia 2.0» risponde.«Eh?»«Sono i miei fratelli e le mie sorelle, la seconda infornata. Anche se in realtà è come se

fosse la prima. Mio fratello maggiore, Gary, è fuori in giardino. E mia sorella Lisa almomento è in Uganda a occuparsi di orfani o di qualche altra nobile causa.» Fa scorrerela porta a vetri che dà nel patio e soltanto adesso sembra accorgersi che non sono sola.«Ben» saluta guardingo.

«Rich» risponde Ben. «Grazie dell’ospitalità.»«L’ospitalità è per lei. Tu sei semplicemente al traino.»Nel cortile sul retro due uomini stanno discutendo davanti al barbecue. Una donna in

pantaloncini di jeans e un grazioso top li osserva perplessa, con i piedi a mollo nellapiscinetta dei bambini.

«Avvertitemi quando devo andare a prendere le pannocchie!» esclama. Poi si accorgedi noi. «Jerry, sono arrivati gli amici di Richard.» Scavalca la piscinetta e ci viene incontro.«Io sono Sylvia. Tu devi essere Cody. E tu Ben.»

«Grazie mille per l’ospitalità» dico.«E per la grigliata» aggiunge Ben lanciando un’occhiata avida verso il barbecue.«Bisogna solo sperare che quei due testoni si decidano sulla legna da usare» osserva

Sylvia.«Papà» chiama Richard.Il padre è uno spilungone dalle spalle un po’ curve, come se avesse passato la vita

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chinato ad ascoltare gli altri. «Salve» dice in tono pacato. «Sono felice che stasera vi siateuniti a noi.»

«Speriamo di non essere di troppo.»Sylvia scoppia a ridere. «Come potete vedere, in questa casa il concetto di

sovraffollamento è abbastanza relativo.»«Siamo convinti che papà punti a un totale di dodici figli, in modo da crearsi la sua

cerchia di discepoli» commenta il fratello di Richard.«Il termine “discepolo” presuppone una certa disciplina e obbedienza. Ben lungi da

come vanno le cose qui» scherza il padre di Richard. Poi, rivolto a me e Ben, soggiunge:«Stasera ci sono costolette. Io e i ragazzi stiamo discutendo se sia meglio usare legno dinoce o di acacia per il barbecue. Voi che cosa ne pensate?».

«Una o l’altra...» faccio per rispondere.«Acacia» afferma Ben, perentorio.Gary e Richard battono i pugni nocche contro nocche. «È la cosa più sensata che abbia

mai sentito uscire dalla tua bocca» dice Richard a Ben.«Richard!» lo riprende Sylvia.«E acacia sia» concede Jerry alzando bonariamente le mani in segno di resa. «Il

barbecue sarà pronto tra un paio d’ore. Nel frattempo perché non offri qualcosa da bereai tuoi ospiti, Richard? Saranno stanchi per il viaggio.»

Richard fa un’espressione accigliata.«Una gazzosa, o un’acqua tonica» specifica suo padre.«C’è anche della limonata» interviene Sylvia.«Se la sono scolata tutta i mostri» dice Richard.«Preparane dell’altra. I limoni non mancano.»«Se la vita ti dà limoni...» comincia Richard. Poi, però, mi guarda per un secondo e si

blocca, come se gli sembrasse una battuta inappropriata da fare in mia presenza.Non capisco perché tutt’a un tratto si debba sentire in imbarazzo nei miei confronti.

Così finisco la frase per lui: «... fatti una bella limonata».

Mangiamo sul tardi. La cena è caotica e squisita. Siamo in dieci attorno a un tavolo dapicnic, sotto il cielo terso dell’Idaho. Ben divora tante di quelle costolette daimpressionare persino Richard. Quando spiega che i suoi coinquilini sono vegani, Sylviamette sulla griglia due hot dog solo per lui. Lo guardo chiedendomi come farà questoragazzo smunto a mandare giù dell’altro cibo. Invece, dopo i due hot dog, fa fuori ancheun paio di gelati con biscotto confezionati.

Sono le nove passate quando Sylvia e Jerry affrontano l’epica impresa di mettere aletto i piccoli sovreccitati. Gary esce per incontrarsi con degli amici, Richard mette unpaio di ciocchi ad ardere in fondo al cortile e sgattaiola in garage a prendere qualchebirra.

Attraverso la finestra vedo suo padre leggere un libro illustrato a una masnada diragazzini sistemati in letti a castello. Sylvia è in cucina a lavare i piatti. Oltre la fiammatremolante del fuoco, incrocio lo sguardo di Ben. Potrei scommettere che stiamopensando entrambi la stessa cosa: “Certa gente è proprio fortunata”.

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All’improvviso mi sento assalire da una dolorosa ondata di nostalgia. Mi manca tuttoquesto. Ma com’è possibile avvertire la mancanza di qualcosa che non si è mai avuto? Nelmio caso, l’ho vissuto di riflesso attraverso Meg. Come la gran parte delle cose della miavita.

Il fuoco scoppietta. Richard finisce di bere la sua birra e nasconde la bottiglia vuota frai cespugli. «Ne volete un’altra?» ci chiede.

Ben scuote la testa. «Meglio di no. Domani ci aspetta una lunga tirata in macchina.» Mirivolge un’occhiata e io annuisco.

«Dove siete diretti esattamente?» si informa Richard.Ben mi guarda, con la stessa tacita domanda negli occhi. Ancora non gli ho raccontato

tutta la storia.«A Laughlin, in Nevada.»«Questo l’avevo capito» replica Richard. Va a prendere dal contenitore termico un’altra

birra e un paio di Dr Pepper per me e Ben.Provo un tuffo al cuore. Che assurdità intenerirsi soltanto perché qualcuno si è

ricordato della tua bibita preferita!«Quello che mi interessa è perché andate a Laughlin» aggiunge.Io non rispondo. E nemmeno Ben.«Cos’è, un segreto?» insiste lui.Ben mi lancia un’altra occhiata. «A quanto pare.»«Ehi! Non dirmi che non lo sai nemmeno tu!» esclama Richard.«Io sono semplicemente al traino» ribatte Ben in tono caustico.Si fissano in cagnesco per un secondo, poi rivolgono entrambi lo sguardo su di me.Dentro casa, Jerry e i bambini recitano le preghiere, elencando una lunga sfilza di

persone da benedire.«Che resti fra noi tre» dico.«Un cerchio sacro» scherza Richard. «O un triangolo.»Lo guardo storto. A quel punto assume un’espressione solenne e promette di

mantenere il segreto.«Hai presente quando sono venuta da voi e Harry mi ha aiutato con il computer?»Richard annuisce.«Abbiamo trovato un file crittato nel computer di Meg. È saltato fuori che si trattava di

istruzioni per il suicidio. A quanto pare esistono gruppi di sostegno che ti assistono nelladecisione di mettere fine alla tua vita. Ho fatto qualche ricerca ulteriore e ho scoperto cheMeg postava messaggi in un forum di questo tipo. Un tizio conosciuto lì le ha fatto damentore. L’ha incoraggiata a togliersi la vita.»

«Un bel casino» commenta Richard.«Già.»«Non riesco a capacitarmi che Meg si sia lasciata irretire» obietta lui.«Lo so» dico. Ma, al contrario di Richard, dopo avere avuto a che fare con Brian LaForet

non faccio fatica a crederlo. «Be’, ho trovato il tizio e adesso sto andando da lui.»«Che cosa?» salta su Ben.«Sto andando da lui» ripeto, stavolta però in tono più fiacco.

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«Pensavo che dovessi incontrare qualcuno che sa qualcosa della sua morte. Come aSeattle» esclama Ben. Ha una faccia contrariata, come se si sentisse ingannato.

Faccio un respiro profondo per mantenere la voce ferma. «Parlo della persona che haprovocato la morte di Meg.»

«Trattandosi di suicidio, è stata lei stessa a provocare la propria morte» puntualizzaRichard.

Stavolta siamo io e lui a fulminarci reciprocamente con lo sguardo.«Brian l’ha istigata» ribatto.«E andare a trovarlo mi pare proprio un’ottima idea» sbotta Ben.«Sapevi benissimo che lo stavo cercando.»«Non so un cazzo, Cody. Nelle ultime sei settimane ti sei rifiutata di parlarmi.»«Lo sto facendo adesso. Ho passato le ultime sei settimane a tentare di snidare questo

tizio.»«E come ci sei riuscita?» domanda Richard, guardando ora me, ora Ben.«Harry mi ha dato una mano, ma per il resto me la sono sbrigata da sola. Mi sono finta

un’aspirante suicida. Insomma, ho fatto la parte del topolino che attira il serpente...»«Cristo santo, Cody!» esclama Ben. «Ma sei fuori di testa?»«Intendi come Meg?»Questo basta a tappargli la bocca.«Ma è assurdo! Come si fa a fingere di essere un aspirante suicida?» interviene

Richard. «In genere semmai è l’opposto: un aspirante suicida che si comporta come unapersona normale.»

Potrei mentire, dire che ho sparato cazzate, che mi sono inventata tutto. Invece sonosincera. «Ho fatto appello alla parte di me che è stufa di vivere» ammetto pacatamente.«Ho tirato fuori quella Cody e l’ho fatta parlare.» Abbasso la testa, incapace di sostenereil loro sguardo. Scioccato? Indignato? Nauseato? «Immagino che questo faccia di me unafuori di testa.» Do un’occhiata a Ben, che però sta fissando il fuoco.

«Ma no» dice Richard. «Capita a chiunque. Tutti abbiamo certi pensieri a volte. Saiperché secondo mio padre il suicidio è un peccato?» Rivolge il pollice in direzione dellacasa. In questo momento Jerry è in cucina e sta aiutando Sylvia a rigovernare.

«Perché in realtà è un omicidio, dato che solo Dio può decidere quando è arrivata latua ora. Perché rubare una vita è rubare a Dio.» Sto ripetendo a pappagallo tutte le coseorribili che ho sentito dire a proposito del gesto di Meg.

«No.» Richard scuote la testa. «Perché uccide ogni speranza. Questo è il peccato.Qualunque atto uccida la speranza è contro Dio.»

Rimugino su quelle parole per un po’.«Adesso che hai trovato questo tizio, cosa ti aspetti di ottenere?» mi chiede Ben in

tono stranamente formale.«Che venga ritenuto in qualche modo responsabile, come istigatore o qualcosa del

genere.»«Quindi hai intenzione di rivolgerti alla polizia» insiste Ben.«Non è così semplice.»«Lo hai detto ai genitori di Meg?»

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«Non è questo il punto.»«Non puoi fare più niente per riportarla indietro» interviene Richard. «Questo lo sai,

vero?»Certo che lo so. Il mio obiettivo, però, è un altro, per quanto confuso. Non posso

rivolgermi alla polizia o alla famiglia di Meg. Devo fare qualcosa da sola. Per Meg.E per me stessa.

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32

L’indomani mattina vengo svegliata dall’intero comitato dei bambini Zeller, che ha presod’assalto il divano. Mi alzo e mi vesto. Sono in cucina ad aiutare Sylvia a preparare lacolazione quando arriva Ben stropicciandosi gli occhi.

«Vuoi che ci fermiamo a bere un caffè lungo la strada?» gli chiedo.«Siete già in partenza?» si informa Sylvia.«È ora di togliere il disturbo» dico.«Nessun disturbo» ribatte. «E poi è domenica.»«La funzione è alle dieci» annuncia Richard presentandosi con un paio di jeans

incredibilmente puliti e una maglietta senza nessun riferimento a droghe. «Sicuri chedovete proprio andarvene? Il reverendo ci resterà malissimo.»

Lancio un’occhiata a Ben, che dalla scorsa notte non mi ha più rivolto la parola. Luirisponde con una scrollata di spalle. Guardo Richard, poi Sylvia e capisco che nonimporta se mi sono presentata a mani vuote. Sono altre le cose che contano.

Abbasso lo sguardo sui calzoncini sfrangiati e il top che indosso. «Meglio che vada acambiarmi.»

«Se vuoi» dice Sylvia. «Ma la nostra è una congregazione molto informale.»La carovana parte alle nove e mezzo. Richard sale in macchina con me e Ben, il resto

della famiglia è stipato in un furgoncino con appiccicato sul paraurti uno di quegliadesivi con la scritta COEXIST composta da vari simboli religiosi e politici.

Arrivati davanti alla chiesa, diversi membri della congregazione si occupano deipiccoli Zeller mentre Sylvia e Jerry fanno il giro dei saluti. Richard svicola in chiesainsieme a me e Ben.

Prendiamo posto. I banchi sono un po’ consunti e nell’aria c’è odore di olio perfriggere. È la chiesa più scalcinata in cui sia mai stata, e sì che quest’anno ne hofrequentate parecchie. Prima non andavo molto in chiesa, giusto una volta per lacomunione di Meg e ogni anno per la messa di mezzanotte a Natale. Tricia lavora semprefino a tardi il sabato sera e la domenica mattina è consacrata al riposo.

Qui la messa si svolge in modo molto particolare. Non c’è un coro: le persone si alzanoa turno per cantare accompagnandosi con la chitarra o al piano, e chi vuole si aggiunge.Non tutti sono inni religiosi. Ben si illumina nel sentire un tizio barbuto intonare unastruggente canzone intitolata I Feel Like Going Home. Mi bisbiglia all’orecchio che è unpezzo di Charlie Rich, uno dei suoi musicisti preferiti. È la prima volta che mi si rivolgein tono normale dopo la discussione della scorsa notte. Lo interpreto come un segno diapertura da parte sua.

«È bella» dico.Jerry si tiene in disparte, delegando l’ufficio a un giovane a capo del ministero

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pastorale. Solo al termine dei canti e dei vari annunci si alza dal posto in cui era rimasto asedere in silenzio e, raggiunto il pulpito, attacca a parlare con voce pacata ma allo stessotempo imperiosa.

«Alcune settimane fa CeCe si è ammalata. Aveva la febbre alta ed era spossata per viadi un virus che sta girando da un po’. Molti di noi ci sono passati.» Un mormorio sidiffonde nella sala e qualcuno fa schioccare la lingua. «Quel giorno Pedro non avevascuola, così è dovuto venire con noi dal dottore. A CeCe non piacciono gli ambulatorimedici: ne ha visti troppi in vita sua. Perciò era nervosa e piangeva. Più aspettavamo e piùsi agitava. E abbiamo aspettato un bel po’. È passata un’ora, un’ora e mezzo, e CeCecontinuava a piangere e alla fine ha persino vomitato. Soprattutto addosso a me.»

La sala è percorsa da una risata solidale.«Non so se sia stato per il virus o per l’attesa stressante, poco importa. A quel punto

una signora che era lì con la figlia è visibilmente trasalita per la reazione di CeCe e mi harimproverato per il rischio che facevo correre agli altri bambini. Da una parte, possocapirla. Tutti vogliamo evitare che nostro figlio si ammali. Ma in quanto padre erofuribondo. Dentro di me ho inveito poco cristianamente contro quella donna. Citrovavamo in un ambulatorio pediatrico proprio perché CeCe stava male e il suo era unatteggiamento assai poco caritatevole. Le infermiere avevano troppo da fare peroccuparsi di noi, a parte allungarci qualche fazzolettino e del disinfettante. E nelfrattempo CeCe non la smetteva di piangere. Dopo che l’ho ripulita, alla fine si èaddormentata. Pedro aveva trovato un puzzle con cui giocare. Per passare il tempo, hopreso una rivista, anche se era vecchia di due anni. Ho aperto una pagina a caso e misono imbattuto in un articolo sul perdono. Non si trattava di una pubblicazione religiosa,bensì di una rivista medica. Il pezzo in questione illustrava uno studio in cui sianalizzavano gli effetti benefici sulla salute di un atteggiamento indulgente. A quantopare contribuisce a combattere l’ipertensione, a placare l’ansia e a migliorare gli statidepressivi. Allora ho capito che quell’articolo non mi era capitato sotto mano per caso.Leggendolo, mi sono tornate in mente le parole della Lettera ai Colossesi, capitolo 3,versetto 13: “Sopportatevi a vicenda: se avete motivo di lamentarvi degli altri, siate prontia perdonare, come il Signore ha perdonato voi”. Così ho perdonato tutti in quella stanza:la donna per la sua villania, le infermiere troppo indaffarate, il medico per la lunga attesae anche CeCe per le sue scenate. Infine, ho perdonato me stesso. E immediatamente lamia ansia per mia figlia si è alleviata. Mi sono sentito calmo, tranquillo e pieno d’amore.In quel momento ho compreso appieno perché Dio vuole che ci perdoniamo a vicenda.Non solo perché il perdono è la chiave per un mondo migliore, ma per il bene che fa anoi stessi. Esso è il dono che il Signore ci ha fatto. Cristo ci ha perdonato. Ha perdonato inostri peccati. Questo è il dono di Dio agli uomini. Concedendoci di perdonarci l’unl’altro, ci ha elevato all’amore divino. Quell’articolo aveva ragione: il perdono è unfarmaco miracoloso. È il farmaco miracoloso di Dio.»

Jerry continua il suo sermone citando altri passi delle Sacre Scritture a proposito delperdono. In questo momento, però, non riesco proprio a seguirlo. L’altra notte me nesono andata a letto per prima, lasciando Ben e Richard da soli davanti al fuoco. Dato chequei due si sopportano a stento, ero convinta che avessero seguito il mio esempio subito

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dopo. Adesso, però, sentendo parlare il padre di Richard, ho dei seri dubbi che sia andatacosì. Devono avere spettegolato. Alla faccia del cerchio sacro.

Jerry continua: «Dopo la visita, al momento di pagare mi sono imbattuto di nuovo inquella donna. Tutto il mio rancore nei suoi confronti era svanito. Non ho dovuto faresforzi per trattenermi. Non provavo più nessun astio. Le ho detto che mi auguravo chesua figlia stesse meglio. Lei si è voltata a guardarmi, e in quel momento sul suo viso horiconosciuto i segni di stanchezza tipici dei genitori. “Si rimetterà” mi ha risposto.“Secondo il dottore è in via di guarigione.” Ho guardato la bambina e ho notato unapiccola piaga rossa ancora fresca sul mento. Poi, tornando a guardare la madre, ho coltolo strazio sul suo viso. Stavo per chiederle che cos’avesse la figlia, ma Pedro e CeCescalpitavano per andarsene e comunque non volevo essere invadente. Ma credo che leiavesse bisogno di sfogarsi perché, di sua spontanea volontà, mi ha raccontato chequalche settimana prima, uscendo di corsa al mattino, aveva afferrato per mano labambina che, distratta dalle api sui fiori in giardino, era andata a sbattere contro ilcancello. Ecco come si era procurata quella brutta ferita. Le sarebbe rimasta per semprela cicatrice, mi ha confessato con la voce incrinata dall’angoscia. Allora ho capito larabbia di quella madre e il motivo della sua frustrazione.

«“La ferita della bambina guarirà solo se lei permette che guarisca anche la sua” le hodetto. Lei mi ha guardato. Sapevo che quello che le stavo chiedendo, quello che Dio cichiede di fare e che io chiedo a tutti voi, non è un compito facile. Permettere alle ferite dicicatrizzarsi. Perdonare. A volte, il compito più difficile di tutti è perdonare noi stessi. Manon possiamo sprecare uno dei doni più preziosi che Dio ci ha elargito: la sua curamiracolosa.»

Al termine del sermone Richard si rivolge verso di me quasi raggiante. Sembra cosìorgoglioso di suo padre e di se stesso, per aver orchestrato quel pubblico ammonimento.«Che te ne pare?»

Mi alzo e mi allontano bruscamente dal banco senza rispondere.«Che succede?» chiede Ben.Succede che Richard Zeller e suo padre non hanno la benché minima idea di quello di

cui stanno parlando. Loro ignorano che certe mattine la rabbia è l’unica cosa che mipermette di dare un senso alla giornata. Tolta quella, non sono altro che una ferita aperta,una voragine. Senza la rabbia a sostenermi sarei completamente spacciata.

Mi dirigo verso l’uscita, trattenendo lacrime di stizza. Richard mi segue.«Non reggi più il sermone?» scherza, ma ha uno sguardo preoccupato.«Glielo hai detto. Avevi promesso di non farne parola con nessuno, invece hai

mentito.»«Non ho rivisto mio padre prima di colazione. E c’eri anche tu.»«Allora come faceva a saperlo? Come faceva ad avere pronto un sermone così

appropriato?»Richard lancia un’occhiata verso l’interno della chiesa, dove nel frattempo sono ripresi

i canti. «Per la cronaca, Cody, mio padre prepara i sermoni con settimane di anticipo,mica li fabbrica al momento. E poi non credere di essere l’unica a provare risentimento e

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ad avere qualcosa da perdonare agli altri o a te stessa. Se, come dice il reverendo, lapagina si apre al punto giusto...»

«Sei fumato, per caso?» lo interrompo.A quelle parole scoppia a ridere. «Non ho detto un bel niente a mio padre del tuo

viaggio. Anzi, se proprio vuoi saperlo, ho dovuto convincere McCallister a tenere la boccachiusa. Non che la cosa mi stupisca. Hai più palle tu di lui.» I canti terminano. Richard facenno con il mento verso il pulpito. «Dài, rientriamo. Manca poco alla fine... Ti prego.»

Lo seguo e riprendiamo posto nel banco. Jerry sta distribuendo benedizioni allacongregazione, ai malati e ai sofferenti, ai futuri sposi e alle mamme in dolce attesa. Allafine aggiunge: «Il Signore benedica e guidi Cody e Ben, affinché possano trovare non soloquello che cercano, ma anche quello di cui hanno bisogno».

Guardo di nuovo Richard. Non sono del tutto sicura che sia stato sincero, ma quellabenedizione stempera il suo tradimento, ammesso che ci sia stato.

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Una volta fuori dalla chiesa, Ben mi lancia le chiavi della macchina, come se avesse capitoche ho bisogno di guidare. All’altezza di Twin Falls lasciamo l’interstatale 90 eimbocchiamo l’autostrada 93. Lui comincia a sbadigliare, gli si chiudono gli occhi. Hadormito sul pavimento della stanza di Richard e Gary e, tra il primo che russava e ilsecondo che parlava nel sonno, non ha riposato granché.

«Perché non ti fai un pisolino?» gli propongo.Scuote la testa. «È contrario alle regole.»«Quali regole?»«Quelle di viaggio. Accanto al guidatore dev’esserci sempre qualcuno sveglio.»«Ha senso se si è in gruppo. Ma siamo solo in due, e tu sei stanco.»Mi guarda con un’espressione pensosa.«Senti» aggiungo «possiamo sempre cambiare le regole.»Continua a fissarmi, ma alla fine si arrende. Gira la testa verso il finestrino e si

addormenta. Resta in quella posizione per le successive tre ore.Guardarlo dormire è corroborante. Sarà per il sole, o forse è solo il frutto della mia

immaginazione, fatto sta che l’ombra livida sotto i suoi occhi sembra essersi leggermenteridotta. Non si sveglia fin quando non esco dall’autostrada e mi fermo in una stazione diservizio a fare benzina. All’interno del negozio è appesa una grande cartina con uncerchietto rosso a indicare il punto in cui ci troviamo: il raccordo tra l’autostrada 93 el’interstatale 80. Per arrivare a Laughlin bisogna proseguire in direzione est sull’80 e poiimboccare la 15 verso sud all’altezza di Salt Lake City. In direzione ovest, l’interstatale ciporterebbe in California, passando sopra il lago Tahoe.

Dopo che Harry ha trovato l’indirizzo, sono rimasta ore ad ammirarlo. La cittadinadove abita lui non è sul lago, ma è poco distante. Quel posto è talmente bello, con l’acquacosì tersa e azzurra...

«Quanto dista Truckee da qui?» domando al tizio dietro il bancone.Quello alza le spalle, ma un camionista con un cappellino della Peterbilt mi dice che

sono all’incirca cinquecento chilometri.«Sa dirmi quanta strada c’è da Truckee a Laughlin, in Nevada? Insomma, quanto è

lunga la deviazione?»Il camionista si gratta la barba con fare riflessivo. «Probabilmente allungheresti la

strada di cinquecento chilometri circa. Da Truckee a Laughlin saranno quasi novecentochilometri, da qui sono ottocento. Comunque sia, c’è un bel pezzo di strada da fare.»

Lo ringrazio, pago quaranta dollari di benzina e compro una cartina della California,due burritos e un litro di Dr Pepper. In macchina, Ben sta cercando affannosamente i suoiocchiali da sole.

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«Secondo te ce la faremo ad arrivare a Laughlin in serata?» mi chiede.«Bisognerà andare a tavoletta. Siamo in ritardo sulla tabella di marcia, perciò non

credo che saremo là prima di mezzanotte.» Inserisco la pompa nel serbatoio e facciobenzina.

Ben scende dalla macchina e si mette a pulire i finestrini. «Per me possiamo fare tuttauna tirata. Ormai ho recuperato il sonno. Quanto ho dormito?»

«Quattrocento chilometri.»«Allora ce la facciamo entro stanotte. Prendo io il volante.»Lascio andare la leva della pompa. La benzina smette di scorrere.«Be’?» esclama Ben vedendo che ho in mano la cartina della California. «Hai cambiato

idea?»Scuoto la testa. No. Non ho cambiato idea. Voglio ancora andare fino in fondo. Ma

siamo così vicini. In realtà, non proprio, dato che mancano quasi cinquecento chilometri.Inoltre, l’indirizzo che ho potrebbe non essere più valido. Harry ha detto che ha cambiatospesso residenza. Ma mai come in questo momento mi sembra di essergli arrivata tantovicina.

«Per quando devi essere di ritorno?» gli chiedo.Ben gratta via un moscerino dal parabrezza e si stringe nelle spalle.«Mi piacerebbe fare una deviazione.»«Una deviazione? Per dove?»«Truckee, in California. Vicino a Reno.»«Cosa c’è a Truckee?»Se c’è qualcuno che può capirmi, quello è Ben. «Mio padre.»

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Alle dieci stiamo attraversando le montagne della Sierra Nevada, rallentati da camper epick-up con enormi motoscafi al traino. Ben ha guidato per sei ore di fila. Dobbiamo faredi nuovo benzina e trovare un posto dove passare la notte. Io però voglio tirare dritto finoa destinazione.

«Sarebbe il caso di fermarci appena possibile» suggerisce Ben.«Ma non siamo ancora arrivati.»«Truckee è vicina al lago Tahoe. Siamo in estate, tutti gli alberghi saranno pieni. Meglio

fare sosta dalle parti di Reno. Le tariffe sono più basse negli hotel con annesso il casinò.»«Ah, giusto.» Un hotel. La notte scorsa non ci siamo dovuti preoccupare di trovare una

sistemazione.Il centro di Reno è un tripudio di luci e colori sgargianti. Via via che passiamo davanti

ai grandi casinò, con le insegne che pubblicizzano band in voga ai tempi di Tricia, ilpanorama si fa più deprimente. Una sfilza di motel fatiscenti attira la clientela con slot-machine e colazione completa a tre dollari e novantanove.

Ne scegliamo uno. «Quant’è per una stanza?» domanda Ben.Il tizio dagli occhi lacrimosi dietro il bancone mi ricorda il signor Purdue. «Sessanta

dollari. La camera va lasciata libera entro le undici.»«Facciamo ottanta dollari per due stanze, partenza alle nove.» Sbatto le banconote da

venti sul bancone. Il tipo mi sbircia il seno. Ben aggrotta la fronte. L’uomo accartoccia isoldi tra le mani da ragno e fa scivolare due chiavi sul bancone.

Ben si sfila il portafogli di tasca e fa per tendermi alcune banconote, ma io lo liquidocon un cenno della mano. «Offro io.»

Torniamo in silenzio verso la macchina. Il motore ticchetta ancora per il lungo viaggiodi oggi. E domani ci aspetta un’altra tirata. Recupero la borsa e indico la mia stanza, dallaparte opposta del complesso rispetto alla sua. «Ci rivediamo qui alle nove.»

«Domani è lunedì» osserva Ben. «Forse è meglio partire un po’ prima, in caso escapresto per andare al lavoro. Non vorrai sprecare la giornata.»

In effetti non ci avevo pensato. Ho perso la nozione del tempo. Siamo in viaggio dadue giorni. «Facciamo le otto?» propongo.

«Meglio le sette. Ci vuole mezz’ora per arrivare a Truckee.»«Okay, le sette.»Restiamo fermi a guardarci. Dietro di noi un pick-up fa stridere gli pneumatici

entrando nel parcheggio. «Buonanotte, Cody.»«Buonanotte.»Una volta in camera, accarezzo l’idea di farmi un bagno ma, dopo aver visto la vasca

scrostata e il segno di sporcizia lungo il bordo, opto per una doccia e mi ficco sotto il

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debole getto. Quando esco, mi asciugo con le salviette di carta e faccio vagare lo sguardonella stanza.

“La morte è il rito di passaggio finale e può trasformarsi in un rituale sacro. A volte,per renderlo un gesto personale, bisogna farlo diventare anonimo”: questo è il consiglioche ho trovato nei file crittati di Meg. È Brian l’autore di quei testi? Può essere benissimofarina del suo sacco. Mi guardo intorno. È esattamente il genere di posto in cui Meg si ètolta la vita.

Immagino i suoi gesti: chiude la porta a chiave, con il cartellino NON DIS TURBAREappeso fuori, lascia la lettera di addio e la mancia per la cameriera sul cuscino. Poi va inbagno a preparare la miscela fatale, arieggiando per evitare che le esalazioni allertino glioccupanti delle altre camere.

Mi siedo sulla sponda del letto. Mi figuro Meg in attesa che il veleno entri in circolo. Siè sdraiata subito o ha aspettato di avvertire il formicolio? Ha vomitato? Ha avuto paura?Ha provato sollievo? C’è stato un momento in cui si è resa conto che non poteva piùtornare indietro?

Mi sdraio sul copriletto ruvido e immagino gli ultimi istanti di vita di Meg. Il bruciore,il formicolio, l’intorpidimento generale. Odo la voce di Brian sussurrare parole diincoraggiamento: “Nasciamo soli, moriamo soli”. Comincio a vedere puntini neri davantiagli occhi. Sento il veleno che comincia a fare effetto. Sta succedendo per davvero.

Ma non voglio! Mi tiro su di scatto dal letto. Mi premo la mano sul cuore che martellaall’impazzata, come se protestasse contro i miei pensieri. “Non sta succedendo” mi dico.“Non hai preso il veleno. Non lo prenderai mai.”

Afferro il cellulare con mani tremanti. Ben risponde al primo squillo. «È tutto okay?»mi chiede.

Sentire la sua voce mi fa stare subito bene. O, per lo meno, meglio. Il senso di panicosi placa. Non sono Meg che si prepara a compiere il grande salto mentre la voce di unosconosciuto le sussurra all’orecchio. Io sono viva. E non sono sola.

«È tutto okay?» ripete. Ed è una voce reale. Concreta. Se avessi bisogno di lui,accorrerebbe subito al mio fianco.

«Sì» lo rassicuro.Ben tace. Io rimango in ascolto, confortata dalla sua presenza, cullata dal suono del

suo respiro. Restiamo così per un po’, finché non mi tranquillizzo e mi metto a dormire.

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Alle sette mi presento all’appuntamento con una scatola di ciambelle e due caffè.«Be’? Cosa siamo, poliziotti?» fa Ben.«In fondo ci prepariamo a un appostamento.»Sventola un foglietto. «Ho fatto benzina. E ho le indicazioni per arrivare a casa di tuo

padre a Truckee.»“Tuo padre. Casa di tuo padre”: un concetto che mi è totalmente sconosciuto. È come

se fossimo diretti sulla luna. «Grazie.»Mi tende l’appunto e per un istante tentenno. So da Harry che mio padre negli ultimi

dieci anni ha cambiato residenza sei volte. La notizia mi ha trasmesso una sensazionespiacevole, non saprei dire se per la paura di non riuscire a trovarlo o per lapreoccupazione di quello che potrei trovare.

Alla fine prendo il foglietto dalle mani di Ben.«Vuoi guidare tu?» mi chiede.Faccio segno di no con la testa. Sono troppo nervosa.Evidentemente Ben avverte la mia agitazione, perché non appena ci mettiamo in

viaggio comincia a chiacchierare a ruota libera. Mi racconta dell’infanzia trascorsa aBend, la mecca dello snowboard. Dato che non avevano i soldi per permettersil’attrezzatura adatta, lui e i suoi fratelli si arrangiavano come potevano, lanciandosi giùper le chine innevate con gli skateboard modificati da loro. «Una volta, mio fratellomaggiore Jamie si è rotto entrambe le braccia.»

«Ahia!»«Bend somiglia molto a Truckee: un posto di bifolchi fricchettoni amanti delle attività

all’aria aperta.»Annuisco.«Ecco, siamo usciti dall’autostrada. Guidami tu.»Alcuni minuti dopo passiamo davanti a un cottage di legno fatiscente. Il giardino

antistante è disseminato di ciarpame: un tosaerba arrugginito, un mucchio di giocattolidi plastica, un vecchio divano sfondato.

«È qui?»«Questo è l’indirizzo che mi ha dato Harry.»«Vuoi entrare?»Guardo il giardino squallido. Non è certo la graziosa casetta di un brav’uomo con una

bella famigliola che mi ero immaginata. Chissà, magari l’indirizzo che mi ha dato Harrynon è aggiornato.

«Oppure possiamo stare qui e aspettare di vedere chi esce» propone Ben.Sì, meglio. Annuisco.

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Parcheggiamo dall’altra parte della strada. Mentre Ben sorseggia il suo caffè e divorasei ciambelle, io osservo la casa risvegliarsi. Le luci si accendono. Vengono tirate su letende.

Finalmente, dopo circa un’ora, si apre la porta ed esce una ragazza. È più giovane dime, avrà quattordici anni. Sembra imbronciata mentre raccoglie svogliatamente qualcheoggetto disseminato sul prato. Poco dopo la porta si apre di nuovo ed esce un bimbettoin maglietta e pannolino. La ragazza lo prende in braccio. Sono confusa. Quella è suafiglia? E il bambino? Anche quello è suo? O la ragazza è la madre del piccolo? Oppure èla casa sbagliata?

«Vuoi che vada io?» si offre Ben.«A che titolo?»«Non so... Potrei spacciarmi per un piazzista.»«Per vendere cosa?»«Una cosa qualunque. Abbonamento alla tivù via cavo. Cosmetici. Dio.»«Non sei vestito nel modo adatto per propagandare l’Onnipotente.»Mentre consideriamo il da farsi, un rombo sordo cresce in sottofondo fino a

trasformarsi in un frastuono scoppiettante: il rumore inconfondibile di una Harley-Davidson. Tutti e due ci rannicchiamo istintivamente sul sedile. Il chopper ci oltrepassa,imbocca il vialetto della casa e dà un paio di sgasate spaventando a morte il bimbo, chescoppia in singhiozzi. La ragazza lo riprende in braccio e sbraita contro il motociclista. Ilcentauro spegne finalmente il chiassoso motore e si toglie il casco. È un uomo. Non lovedo in faccia perché è di spalle, ma riesco a scorgere l’espressione di astio riflessa sulviso della ragazza. La porta di casa si spalanca di colpo e sulla soglia appare una donnadai capelli neri tagliati corti. Ha una sigaretta in una mano e nell’altra un bicchiere perbambini, di quelli con il beccuccio. Spegne la sigaretta, prende in braccio il bambino eaggredisce verbalmente l’uomo.

Io guardo la scena come se fosse un film. I due continuano a discutere animatamente.La donna gli passa il bambino, che scoppia di nuovo a piangere. L’uomo allora lo rifilaalla ragazza. La donna dice qualcosa e lui batte rabbiosamente la mano sul sedile e gira latesta di scatto nella mia direzione, senza vedermi. Io invece ho il tempo di osservarlo:capelli castani, come me, occhi grigioverdi leggermente a mandorla, come me, e pelleolivastra, come me.

Esattamente come me.Altre urla. La ragazza posa a terra il bambino e scoppia a piangere a sua volta. Il

piccolo ricomincia a frignare. La donna lo riprende in braccio ed entra in casa sbattendola porta. Subito dopo l’uomo fa lo stesso con quella del garage.

Ben guarda me, poi la casa, poi di nuovo me. E scuote la testa.«Che c’è?» chiedo.«È pazzesco.»«Che cosa?»Lancia un’altra occhiata alla casa e poi mi scruta. «È il tuo ritratto, ma potrebbe essere

mio padre.»Io non dico niente.

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«Tutto bene?» si informa dopo un po’.Faccio cenno di sì.«Vuoi andare a bussare? O forse è meglio aspettare che si calmino le acque e tornare

più tardi?»Da piccola mi divertivo a immaginare che mio padre fosse un uomo d’affari, un pilota

d’aereo, un dentista, insomma una persona diversa. Ma purtroppo non è così. Mio padreè esattamente come mi aspettavo che fosse. La cosa non dovrebbe sorprendermi. Tricia siè sempre riferita a lui chiamandolo “il donatore di sperma”. È probabile che io sia ilrisultato accidentale dell’avventura di una notte. Inutile raccontarsi favole sul perché nonè mai venuto a trovarmi né mi ha mai mandato un biglietto di auguri. Scommetto chenon sa nemmeno quand’è il mio compleanno. Perché dovrebbe? Questo significherebbeche gli importa qualcosa di me.

«Andiamocene» dico a Ben.«Sicura? Siamo qui...»«Andiamocene» ripeto seccamente.Senza aggiungere altro, Ben fa inversione di marcia e ripartiamo.

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Una volta ripresa l’autostrada, mi sento come se l’anima mi fosse stata risucchiata via.Ben continua a lanciarmi occhiate ansiose. Io faccio finta di niente, evito di guardaredalla sua parte. Appallottolo la felpa contro il finestrino e alla fine mi addormento.

Al mio risveglio, alcune ore dopo, l’aria fredda della Sierra Nevada ha ceduto il postoal caldo secco del deserto del Nevada. Quasi non ricordo la deviazione.

Il caldo mi dà alla testa, ho in bocca un sapore metallico e sulle labbra un residuosecco di quella che ho il terrore sia bava. Ben mi sta osservando. Se mi piaceva guardarlodormire, trovarmi a parti invertite mi fa sentire inerme. «Dove cavolo siamo?» domando.

«Letteralmente nel bel mezzo del nulla. Abbiamo oltrepassato un posto di nomeHawthorne un po’ di tempo fa, e poi più niente. Non abbiamo incrociato nemmeno unamacchina. Di buono c’è che si può tirare come matti.»

Sbircio il tachimetro. Stiamo facendo i centotrenta. La strada deserta si srotola drittadavanti a noi, luccicando per i miraggi, piccole oasi d’acqua all’orizzonte che sono soloillusioni ottiche. Non facciamo in tempo ad avvicinarci che l’immagine ingannevole sidissolve nell’asfalto e un’altra spunta più avanti.

«Di questo passo dovremmo arrivare a Las Vegas per le cinque e a Laughlin per lesette» dice Ben.

«Ah.»«Ti senti bene?»«Perché continui a chiedermelo?» Afferro la bottiglia ormai tiepida di Dr Pepper.

«Bleah! È imbevibile!»«Quando vedi un minimarket fammi un fischio.» Sembra seccato ma nel guardarmi si

addolcisce un po’. Fa per dire qualcosa, poi ci ripensa e tace.Sospiro. «Che c’è?»«Non sei tu. È lui.»Mi sento vulnerabile di fronte a Ben. «È questo che dici alle ragazze quando le pianti?

Non sei tu, sono io?» ribatto.Si volta verso di me, poi torna a guardare la strada. «Potrei, se mai le cose arrivassero a

quel punto» osserva gelido. «Comunque mi riferivo a tuo padre.»Taccio. Non voglio parlare di mio padre, o chiunque fosse quell’uomo a Truckee.«È una testa di cazzo» continua Ben. «E tu non c’entri un bel niente.»Continuo a stare zitta.«Insomma, non ho la minima idea di quello che stai passando, però mia madre mi

diceva sempre questo a proposito di mio padre: che non ero io il problema, ma lui. E ionon le ho mai creduto. Ho sempre pensato che cercasse semplicemente di consolarmi.

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Perché di chi poteva essere la colpa se non mia? Ma dopo aver visto quello stronzo e dopoaver conosciuto te, forse potrei cambiare idea.»

«Che cosa vuoi dire?»Ben tiene gli occhi incollati alla strada, come se dovesse fare uno sforzo tremendo per

concentrarsi sulla guida. «Se tuo padre si è comportato da stronzo fin dal principio, se hafinto che tu non esistessi fin dal primo momento, non è perché tu hai fatto qualcosa disbagliato. È lui a essere dalla parte del torto.» Le parole gli si riversano fuori dalla boccacome un fiume in piena. Poi aggiunge: «Forse non sono affari miei, ma è una cosa chevolevo dirti da almeno quattrocento chilometri».

Lo guardo e mi chiedo come sia possibile essere tanto diversi eppure provareesattamente le stesse cose.

«Ti sentivi in colpa perché tuo padre non ti voleva bene?» gli chiedo.Ben si limita ad annuire.«Perché?»Sospira. «Ero un bambino molto sensibile. Un frignone. Un mammone. E lui non lo

sopportava. Diceva che dovevo comportarmi da uomo. Io ci ho provato. Ho tentato di fareil duro, di essere come lui.» Fa una smorfia. «Ma continuava a non potermi soffrire.»

Non so proprio cosa dire se non che mi dispiace.Ben molla il volante e alza le mani in aria come a lasciare intendere: “Cosa vuoi farci?”.Devo reprimere l’impulso di fargli una carezza. Non oso immaginare come debba

essere stato avere un padre con una simile concezione della mascolinità e passare la vitaa cercare di imitare un modello da cui si rifugge allo stesso tempo. Penso a Tricia, alle suecontinue assenze, alla sfilza di amanti che non durano mai più di tre mesi; al suo rifiutodi farmi conoscere mio padre; alla sua sostanziale abdicazione al ruolo di madre,delegando ai Garcia il compito di farmi da genitori. Ce l’ho sempre avuta con lei perquesto, ma adesso mi chiedo se non dovrei invece ringraziarla.

Intorno a Las Vegas il traffico si intensifica. All’improvviso ci ritroviamo fagocitati dallagrande città, ed è una sensazione strana e frastornante. Un’ora dopo siamo di nuovo inmezzo al deserto e dopo un’altra ora eccoci a Laughlin.

Laughlin è una specie di strano ibrido: la classica cittadina nel bel mezzo del desertoma piena di hotel mastodontici che svettano sulle rive del Colorado. Risaliamo ladeprimente via principale che attraversa il centro città verso una zona di alberghi ecasinò più modesti. Ci fermiamo davanti a un motel che promette stanze aquarantacinque dollari a notte.

Entriamo e suoniamo il campanello. Subito un’affabile signora con le trecce compare achiederci in che cosa può esserci utile.

«Avete due stanze?» domanda Ben.I soldi si stanno esaurendo più rapidamente del previsto. Penso all’attacco di panico di

stanotte nella mia stanza d’albergo, alla voce rassicurante di Ben al telefono, a quello chemi ha detto in macchina. «Una stanza con due letti singoli» rettifico.

Dopo aver pagato la camera andiamo a prendere la nostra roba in macchina. Quandosiamo partiti era linda e ordinata, invece adesso è disseminata di rifiuti. Cerco di dare

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una pulita sommaria mentre Ben porta dentro i bagagli.Quando entro, sta scorrendo un fascio di fogli. «Ci sono vari menu da asporto. Vuoi

uscire a mangiare qualcosa o ordiniamo una pizza?»Mi torna in mente il pomeriggio di qualche mese fa passato con Ben a guardare la tivù

sul divano mangiando burritos.«Pizza.»«Salame piccante? Salsiccia? Tutt’e due?»Scoppio a ridere. «O salame o salsiccia.»Fa una telefonata e mezz’ora dopo apriamo la porta a pizza, nodini di pane all’aglio e

un paio di bottiglie di Pepsi e Dr Pepper. Sistemiamo il tutto sopra un asciugamano stesosu uno dei letti e ci sediamo a gambe incrociate a consumare il nostro picnic.

«Che sollievo essere scesi dalla macchina!» esclamo.«Già. Certe volte, al ritorno da una tournée, continuo a sentirmi vibrare le chiappe per

giorni.»«Peccato che questo motel non abbia quei letti che vibrano, sennò avresti potuto

goderti la sensazione più a lungo.»«Non credo di averne mai visto uno» dice Ben.«Nemmeno io. Ma non ho frequentato molti alberghi in vita mia.» Le volte che ho

dormito in un hotel o in un motel si possono contare sulle dita di una mano. Con Tricianon si andava molto in giro. La maggior parte dei miei viaggi li ho fatti con i Garcia, e disolito stavamo in campeggio o dormivamo da qualche parente.

«Quindi non ti è capitato spesso di dividere una stanza d’albergo con un ragazzo?»domanda lui con fare disinvolto, scrutando con eccessiva attenzione la crosta della pizza.

«No.»«Dunque non l’hai mai fatto prima?» Sembra stranamente timoroso.«Finora non ho mai diviso un bel niente con un ragazzo.»Ben alza gli occhi dalla pizza e mi fissa, come se stesse valutando la portata esatta

della mia affermazione. Sostengo il suo sguardo, lasciandogli leggere la risposta nei mieiocchi. I suoi, azzurri come la piscina del motel, si spalancano per la sorpresa.

«Niente di niente?»«No.»«Nemmeno... una pizza?»«Be’, mi è capitato di mangiare la pizza con un ragazzo. Ma non di condividerla. C’è una

bella differenza.»«Ah, sì?»Annuisco.«E adesso?»«Adesso cosa?»Mi guarda.«Tu che dici?» gli chiedo.Aggrotta la fronte in un’espressione perplessa, quasi si chiedesse se stiamo parlando

della pizza o di altro. Dopo avere gettato un’occhiata agli avanzi osserva: «Dico che haimangiato due fette e io quattro, e che non sei un’amante del salame piccante come me».

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Annuisco valutando il mucchietto di fettine unte che ho lasciato da parte.«E condividiamo la stanza di un motel» continua.Annuisco di nuovo. Mi torna in mente il mio rifiuto perentorio di dormire sotto lo

stesso tetto con lui. Forse è a questo che sta pensando anche Ben. Ovviamente stanottesono venuta meno al mio proposito, ma in realtà dentro di me l’ho lasciato perdere da unpezzo. E comunque mi sembra che ormai non abbia più alcun senso.

«Che cosa significa tutto questo?» mi domanda. Per quanto si sforzi di assumere untono spensierato, in realtà si capisce che è sulle spine.

«Significa che stiamo condividendo qualcosa.» È tutto quello che sono disposta aconcedergli, anche se, a dire il vero, mi sembra già molto. A un tratto, però, mi ricordouna frase che ho detto ieri per convincerlo a fare un riposino in macchina: “Possiamosempre cambiare le regole”.

E credo proprio che sia quello che stiamo facendo.

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37

Il mattino dopo, quando mi sveglio, la stanza è in penombra. I raggi del sole filtranoattraverso le tende oscuranti. L’orologio indica le dieci e mezzo. Sono crollata intorno amezzanotte.

Nel letto accanto Ben dorme ancora. Fa tenerezza, così rannicchiato contro il cuscino.Mi stiracchio con calma, tendendo i muscoli ancora rattrappiti dopo ventiquattr ’ore dimacchina.

«Ehilà» mi saluta con la voce ancora impastata dal sonno. «Che ore sono?»«Le dieci e mezzo.»«Sei pronta per oggi?»Il cartone della pizza è ancora sul cassettone. È pazzesco che ieri sera – in una di

quelle stanze d’albergo che potrebbe raccomandare Brian, praticamente a due passi dacasa sua – sia riuscita a dimenticarmi del motivo per cui mi trovo qui. Adesso, però, nonho più scuse. Non posso tirarmi indietro. Sono combattuta, mi si chiude lo stomaco. Noche non sono pronta. Non lo sarò mai.

«Pronta» rispondo.Mi fissa a lungo, si toglie il cerotto antifumo e se ne applica uno nuovo, senza

staccarmi gli occhi di dosso. «Non devi farlo per forza» dice alla fine. «Per me è lo stessose raccogliamo le nostre cose e torniamo indietro.»

È carino da parte sua parlare così. Ma abbiamo già rinunciato a una missione. Quella,però, non era importante. Questa sì. Scuoto la testa.

Si infila una maglietta. «Qual è il piano d’attacco?»«Pensavo che potremmo appostarci davanti a casa sua per tutto il giorno, come

abbiamo fatto...» Non c’è bisogno di finire la frase. Ben mi ha capito.«Però hai detto che lavora in un casinò» obietta. «Lì non hanno orari regolari. Magari

fa il turno di notte.»A questo non avevo pensato. «Potrebbe toccarci un lungo appostamento.»Indugia un istante a guardarmi. «Come si chiama il posto dove lavora?»«Continental.» Ci siamo passati davanti ieri. L’idea di essergli così vicino mi ha fatto

rabbrividire nonostante il caldo. Se è riuscito a fare colpo su di me a distanza e dietro lamaschera di una falsa identità, che cosa proverò incontrandolo di persona?

Ben apre l’elenco telefonico e si mette a sfogliare le pagine.«Cosa fai?» Non ho ancora finito di chiederglielo che sta già telefonando. Quando

qualcuno risponde, attacca a parlare con un finto accento da bifolco: «Salve, il mio amicoBrian LaForet lavora lì da voi. Non vorrei disturbarlo, ma sono rimasto chiuso fuori casa elui ha un paio di chiavi di riserva. Potrebbe dirmi che orario fa oggi, così passo arecuperarle?».

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C’è una breve pausa mentre viene messo in attesa. Mi guarda e mi fa l’occhiolino. Lavoce risuona di nuovo nel telefono.

«Ah, certo. Ho capito. Sa dirmi a che ora stacca? Così passo a prendere le chiaviquando esce.» Altro silenzio. «Le cinque? Ottimo. Vedrò di arrangiarmi fino a quell’ora.Grazie. Ci conti. Anche a lei.»

Ben riattacca. «Finisce il turno alle cinque.»«Le cinque» ripeto.«Quindi, presumendo che vada dritto a casa, direi le cinque e mezzo, sei.»«Niente male come investigatore.» Gli sorrido.Ben invece è serissimo. «Forse è meglio andare là un po’ prima, in modo da sondare il

terreno. E poi tu fai il tuo numero.»«Il mio numero?»«Ti sarai preparata un discorsetto, no?»«Ovviamente.» In macchina, ho passato tutto il tempo a pensare a cosa dirgli

esattamente. Ho studiato le battute come a teatro. Dovrò continuare a fingere. Fingere diessere Meg. Fingere di volermi suicidare. Fingere di avere la forza di farlo.

«Bene. Ci restano...» Guarda l’orologio. «Sei ore.»Annuisco. Sei ore.«Cosa ti va di fare nel frattempo?»Vomitare. Scappare. Nascondermi. «Non so. Che attrattive offre questo posto?»«Potremmo approfittare della piscina. Ieri sera ho sentito la temperatura dell’acqua ed

è praticamente un brodo.»«Peccato aver lasciato a casa il costume da bagno.»«Che cosa ne diresti di andare a riempirci la pancia in uno di quei ristoranti a buffet

per nove dollari e novantanove?»«Scommetto che riusciresti a spazzolarti un sacco di roba.»«In questo momento ucciderei per un caffè freddo. Ci saranno cento gradi! Immagino

che non servano solo le birre ghiacciate. Potremmo fare colazione in un casinò e mettercia giocare d’azzardo.»

«Mi basta e avanza l’azzardo di questo viaggio. E poi non ho soldi da buttare. Quelloche mi serve davvero è un po’ di distrazione. Tipo un cinema o qualcosa del genere.»

«Okay. Colazione e cinema. Evvai!» Si blocca di colpo e arrossisce leggermente. «Cioè,non intendevo un appuntamento...»

«Sì, Ben» gli dico. «Lo so.»

Niente caffè freddo, ma in compenso troviamo un posto con la colazione a buffet, doveBen riesce a trangugiare un’incredibile quantità di uova, pancetta, salsicce e vari altriderivati animali. Si direbbe che cerchi disperatamente di rifarsi della dieta vegana a cui ècostretto a casa. Io riesco a mandare giù mezzo waffle. Poi ci infiliamo in un multisala aguardare uno di quei ridicoli film dove le macchine si trasformano in umanoidi.Dev’essere il terzo o il quarto sequel di una saga che nessuno di noi due ha mai visto, manon fa niente. Brontoliamo per l’idiozia della trama sgranocchiando popcorn presi dallo

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stesso bicchiere, e per interi minuti mi dimentico completamente di me stessa. Quandolo spettacolo finisce, sono quasi le tre.

Torno al motel a cambiarmi. Non so perché, ma ho portato uno dei completi più carinidel mio guardaroba, gonna e maglietta coordinate che ho indossato a una delle tantefunzioni in memoria di Meg. Di comune accordo decidiamo di fermarci una secondanotte, in modo da partire all’alba e spararci il viaggio di ritorno tutto in una tirata,guidando a turno.

Dopo avere pagato per la notte supplementare, chiediamo indicazioni alla receptionper arrivare a casa di Brian. Non è molto distante: meno di un chilometro.

«Andiamoci a piedi» dico. È ancora presto e sono troppo nervosa per starmene sedutaad aspettare in macchina.

Così percorriamo le strade polverose finché giungiamo davanti a una costruzionedall’intonaco sbiadito, circondata da un prato bruciato dal sole con una piscina dicemento tutta crepata.

Siamo in anticipo. Sono solo le cinque. «Meglio non restarcene a ciondolare quidavanti» osservo. Torniamo indietro di un paio di isolati, verso un negozio di liquori.

«A che ora vuoi che andiamo là?» mi chiede Ben.«Alle cinque e mezzo. Solo io, però.»«E io a che ora vengo?»«È una cosa che devo fare da sola.»Ben socchiude gli occhi. «Non credo proprio.»«Ti ringrazio, davvero. Ma occorre che gli parli a quattr ’occhi.»«Quindi io dovrei restarmene nascosto tra i cespugli?» Non sembra molto contento di

quell’opzione.«Brian è molto circospetto. Se gli venisse il dubbio che c’è qualcuno con me, non

accetterebbe mai di parlarmi.» Non che io non abbia paura di lui. Eccome se ne ho. Madevo affrontarlo da sola. «Preferisco che tu resti ad aspettarmi qui.»

«Qui?» Ben è incredulo.«Qui» ripeto implorante.«Quindi io sono solo al traino, è così?»«Sai benissimo che non è vero.»«Allora perché sono qui?»“Perché ho bisogno di te.” È la verità. Questa consapevolezza mi fa paura almeno

quanto quello che mi aspetta in fondo alla strada. Ma non è ciò che gli dico. «Perchéanche tu sei coinvolto in questa storia.»

Si ritrae di scatto. «Dunque è di questo che si tratta?» Il tono della sua voce è duro,secco, rabbioso, come quando si è presentato per riprendersi la maglietta. «In tal caso,non ci penso nemmeno a lasciarti incontrare da sola quel tizio. Ho già la morte di Megsulla coscienza. Non ho intenzione di aggiungere anche te alla lista.»

«Lui non mi ucciderà.»«Perché no? Ha già ucciso Meg. Non è quello che continui a ripetere?»«Sì, ma non in quel senso. Non è che cercherà di pugnalarmi o chissà cosa.»«Come fai a esserne sicura? Chi ti dice che non abbia un arsenale in casa? La faccenda

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del suicidio potrebbe essere un diversivo. Che ne sai che non abbia decine di cadaverisepolti in giardino?»

Lo so perché Brian LaForet si avvale di un genere diverso di armi e lascia che sia l’altroa fare il lavoro sporco. «Lo so e basta» rispondo pacatamente.

«Ma che cosa vuoi saperne, Cody? Non sai un cazzo di niente.»Non so un cazzo di niente? Guardo Ben e non posso fare a meno di pensare: “Chi cavolo

ti credi di essere? Sei convinto che non sappia da dove vieni? Sguazziamo nella stessamelma, Ben McCallister”. Adesso sono furiosa. Ma è un bene. Meglio la rabbia dellapaura. «Aspettami qui» ribadisco.

«Non esiste. Vuoi comportarti come la tua amica e finire dritta in trappola? Ti dico dinon farlo. Ti dico che questo tizio è pericoloso e incontrarlo è una cazzata. Non sonoriuscito ad avvisare Meg, ma adesso sto avvisando te. È questa la differenza tra noi due:io imparo dai miei errori.»

«Ben, si potrebbe riempire un libro intero con le differenze tra noi due.» Chissà come,queste parole mi sembrano vere e false allo stesso tempo.

Mi rivolge un’ultima occhiata, poi scuote la testa e si allontana.

Non c’è tempo per riflettere sulla defezione di Ben. In fondo me l’aspettavo. Ora siamosolo io e Brian. Com’è giusto che sia.

Brian LaForet abita nell’unità J di un complesso del tutto anonimo. Porta bianca. Lafinestra oscurata da una veneziana non permette di vedere all’interno. Nella casa accantouna coppia sorseggia della birra sotto il portico. Non fanno caso a me, ma la loropresenza è rassicurante.

Suono alla porta.Viene ad aprire un uomo barbuto con i capelli bianchi. Indossa un paio di bermuda e

una camicia larga a fantasia hawaiana che penzola sulla pancia sporgente. In mano ha unenorme bicchiere pieno di ghiaccio fino all’orlo. Non so se provare sollievo o delusione.Questa specie di Babbo Natale in ciabatte non può essere Brian.

«Sì? Che c’è?» dice. Quella voce: sommessa, cauta, familiare.Mi ci vogliono alcuni secondi per ritrovare la mia, di voce: «Cerco Brian LaForet».Vedo un’ombra passargli sulla faccia: sospetto, tattica? «A che proposito?»A che proposito? Mi ero preparata un bel discorsetto, un preambolo per rompere il

ghiaccio. Ma di colpo ho la testa vuota e non riesco a pensare ad altro che a dire la verità.Questa persona, a cui ho mentito sin dall’inizio, ha il potere di farmi quell’effetto. «Aproposito di te.»

Socchiude gli occhi. «Ci conosciamo?»Il cuore mi batte talmente forte che giurerei che lui lo veda martellare sotto la

maglietta. «Mi chiamo Cody.» Pausa. «Ma forse mi conosci come Ridillo.»Lui non parla.«Devo ripetertelo?»«No, ho capito. Non dovevi venire qui.»Fa per chiudere la porta e in quel momento riesco solo a pensare: “Cosa? Io ti chiedo

di aiutarmi a morire e tu mi sbatti la porta in faccia?”. Vado su tutte le furie. Meglio così.

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È proprio quello che mi ci vuole.Blocco la porta con il piede. «Eccome se dovevo venirci! Si dà il caso che fossi amica di

Meg Garcia. Probabilmente tu la conoscevi come Lucciola. Sapevi qual era il suo veronome e che la sua amica del cuore si chiamava Cody? Che aveva una madre? E un padre?E un fratello?» Il discorso che mi ero preparata strada facendo mi sta tornando allamemoria.

Ora che ho messo le carte in tavola, mi aspetto quasi che mi sbatta la porta in faccia.Invece esce. Dalla casa vicina si sente l’acciottolio di una bottiglia vuota gettata nelbidone della spazzatura. Brian analizza i vicini con lo sguardo, a labbra increspate. Poi milancia un’occhiata e spalanca la porta alle sue spalle. «Forse è meglio se entri.»

Per una frazione di secondo mi tornano in mente le parole di Ben: l’arsenale nascosto, icadaveri sepolti nel giardino. Ma entro lo stesso.

L’ambiente è spartano e persino più pulito di come lascio le case in cui lavoro. Mitremano le gambe. Se mi sedessi, si vedrebbero le ginocchia sbatacchiare l’una control’altra, ma restando in piedi rischio che cedano. Per ovviare al problema mi appoggiocontro il divano a quadrettoni.

«E così la conoscevi» mi dice.In faccia ha una strana espressione. Non è affatto sinistra, anzi. Sembra quasi

incuriosito. Mi rendo conto che non è al corrente dei particolari cruenti ed è impazientedi sapere. Io, però, non dico niente. Non voglio dargli questa soddisfazione.

«Dunque l’ha fatto» soggiunge. Ovviamente adesso lo sa. La mia presenza tradiscequanto è accaduto. Alla fine gliel’ho data, la soddisfazione.

«Per colpa tua. Sei stato tu a ucciderla.»«E come avrei potuto?» obietta. «Non l’ho mai incontrata, non sapevo nemmeno come

si chiamasse fino a un attimo fa.»«Non l’avrai fatto con le tue mani... ma l’hai uccisa lo stesso. Nella maniera più

subdola. Cos’è che le hai scritto? “Il contrario del coraggio non è la codardia, ma ilconformismo.”» Cito la frase mimando le virgolette con le dita. Anche questa parte mel’ero preparata. «Direi piuttosto che uno come te è l’esatto contrario del coraggio.»

Sembro così spavalda mentre lo dico. Nessuno sospetterebbe che ho le gambe molli eme la sto facendo sotto.

Storce la bocca, come se avesse sentito un sapore sgradevole, ma poi si ricompone e faun sorriso quasi benevolo. Mi fischiano le orecchie e comincio a sudare freddo.

Adesso mi scruta, strofinando il pollice sui polpastrelli delle altre dita. Le sue unghiesono perfettamente curate, al contrario delle mie, tutte rovinate a forza di sfregarelavandini e gabinetti.

«Hai scritto di avere perso la metà migliore di te stessa» afferma. «Quindi era lei, Meg,quella metà. E adesso stai cercando di riscattarti perché ti ha tenuto fuori dalla suadecisione.»

Questo tipo mi legge dentro come se fossi trasparente. È stato così sin dall’inizio.Anche quando comunicavamo via mail, riusciva sempre a cogliere nel segno. Sentocrollare di colpo il mio assurdo piano per “smascherarlo” assieme alle ultime forze che

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mi restano nelle gambe. Sprofondo sul divano. «’Fanculo.» Ormai nessuna delle frasi chemi ero preparata ha più senso.

Brian continua in tono quasi bonario: «Ma forse, più che la metà migliore di te, lei eral’altra metà di te». Beve un sorso. «A volte capita di incontrare qualcuno con cui siamotalmente in simbiosi che è come se fossimo un’unica persona, con una sola mente e lostesso destino.»

Prende il discorso alla larga, come faceva nel forum. Ci metto alcuni secondi per capirea che cosa vuole alludere.

«Stai dicendo che anch’io, come Meg, voglio morire?»«Mi limito a ripetere le tue parole.»«No! Mi stai mettendo in bocca le tue parole! Tu vuoi che io muoia! Come hai voluto

che Meg morisse!»«Come facevo a “volere” che Meg morisse?» Stavolta è lui a virgolettare la parola con

le dita.«Vediamo un po’: le hai fornito le istruzioni per procurarsi il veleno; le hai suggerito

cosa scrivere nel biglietto d’addio; le hai detto come fare per evitare di insospettire igenitori, come avvertire la polizia, come cancellare le mail compromettenti. Le haisconsigliato di prendere gli antidepressivi, l’hai convinta a togliersi la vita.»

«Io non ho mai detto niente di tutto questo.»«Sì che l’hai detto! Sono le stesse cose che hai detto a me!»Mi fissa. «Cody... Ti chiami, Cody, vero? Che cosa ti ho detto esattamente?»Mi scervello per cercare di rammentare i dettagli, ma mi vengono in mente solo un

mucchio di stupide citazioni.«Adesso ricordo... La Terra senza sole... Eri sempre tu, vero?» mi domanda.Sì. Ero io.Si siede accomodandosi per bene, come se si apprestasse a guardare uno dei suoi film

preferiti. «L’ho trovata una metafora molto interessante. “Se anche vivere sulla Terrafosse ancora possibile, chi vorrebbe continuare a farlo immerso nel buio?” Ma, Cody, losai che cosa succederebbe se il sole si spegnesse per davvero?»

«No» squittisco. Come un topo.«Nel giro di una settimana la temperatura scenderebbe sotto zero. Nel giro di un anno

precipiterebbe a meno ottanta gradi. Gli oceani si ricoprirebbero di una lastra dighiaccio. Ovviamente i raccolti andrebbero distrutti, tutto il bestiame morirebbe. Lepersone sopravvissute al freddo morirebbero di stenti. Un pianeta senza sole, come ti seidefinita, è già un pianeta morto. Anche se continui ad andare avanti per forza d’inerzia.»

Sono un pianeta senza sole. Sono già un pezzo di ghiaccio senza vita. Questo mi stadicendo. Non mi resta che rendermene conto e agire di conseguenza.

Allora per quale ragione avverto un calore attraversarmi tutto il corpo, come unacorrente elettrica? Calore. Il contrario del gelo. Il contrario della morte.

La porta si apre con uno scatto ed entra in casa un ragazzino con i brufoli, lo zaino inspalla e la fronte aggrottata. Penso subito che si tratti di un’altra delle vittime attirate daTutto1_BLF. Stavolta, però, ci sono anch’io. Posso salvarlo. Sono ancora in tempo.

Ma poi Brian chiede: «Che ci fai qui?».

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E il ragazzino risponde: «Mamma dice che hai fatto di nuovo confusione con i giorni.Si è incavolata molto». Non appena si accorge di me fa una faccia perplessa.

«Vai in camera tua. Ne discutiamo tra un attimo» replica Brian in tono burbero.«Posso usare il tuo computer?»Brian acconsente con un secco cenno del capo. Il ragazzino scompare lungo un

corridoio. Mentre lo guardo allontanarsi, non posso fare a meno di notare quanto siascialba questa casa: un tavolo di legno con un mucchietto di tovaglioli al centro; stampeanonime appese alle pareti; una libreria scheggiata in cui non ci sono volumi di filosofiama tascabili dozzinali, del tipo di quelli che si trovano nel retrobottega del bar in cuilavora Tricia. Un librone intitolato Citazioni familiari di Bartlett, appoggiato di piatto, èricoperto di Post-it. È da lì che pesca le citazioni?

Sento il motivetto di avvio del computer ed è come se mi scattasse qualcosa nelcervello.

Quartiere squallido, lavoro schifoso, città deprimente. L’esistenza di Brian non è moltodiversa dalla mia. Salvo che lui, ogni sera, accende il computer e gioca a fare Dio.

«È il caso che tu te ne vada adesso» mi dice. Il tono pacato, irridente, è svanito. Haassunto di nuovo la voce fredda di quando era stato disturbato al telefono.

Dal fondo del corridoio arriva la voce del figlio, che chiede un panino. Non dev’esseremolto più piccolo di me: avrà forse tredici o quattordici anni.

Brian risponde seccamente che gliene preparerà uno al tacchino e formaggio, poi miguarda. «È il caso che tu te ne vada» ripete.

«Che cosa faresti se qualcuno si comportasse con lui come tu ti sei comportato conMeg?» gli domando. Per un attimo immagino la scena di suo figlio morto mentre lui sidispera come si sono disperati i Garcia.

Brian scatta in piedi. Anche lui ha visualizzato l’immagine evocata dalle mie parole.Mi viene incontro con la vena del collo pulsante. Dovrei avere paura. Invece no.

Perché io non voglio che suo figlio muoia. Non servirebbe a pareggiare i conti. Sarebbesolo un altro ragazzino morto. Quel pensiero mi dà la forza di alzarmi, passargli accantoe uscire di casa.

Mantengo un contegno mentre esco, risalgo il vialetto di ghiaia e supero i vicini, cheadesso hanno messo della musica rock ad alto volume. Va tutto bene finché non mi voltoa guardare la casa e immagino l’uomo responsabile della morte di Meg – un mostro, unpadre – che prepara al figlio un sandwich al tacchino.

Il singhiozzo che mi sale in gola viene dal profondo, ed è come se lo tenessi dentro dagiorni, settimane, mesi, o forse da molto prima. Non riesco a soffocarlo e rischio di esserevicino a lui quando esploderà. È questo il vero pericolo.

Allora mi metto a correre.Corro lungo la strada polverosa, sollevando nuvole di sabbia che mi entra nel naso.

Qualcuno mi viene incontro. All’inizio penso che sia un miraggio, ne ho visti talmentetanti ultimamente. Lui, però, non svanisce a mano a mano che mi avvicino. Anzi, nonappena si accorge che sto piangendo, mi corre incontro a sua volta.

«Cos’è successo?» continua a ripetere, con gli occhi che tradiscono ansia ma anche

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paura. «Ti ha fatto del male?»Anche se riuscissi a parlare, non saprei cosa dire. Ho incontrato un mostro, che però è

anche una persona. Lui ha ucciso Meg, ma Meg si è uccisa. Ho trovato Brian, eppure nonho scoperto nulla. Mi sento soffocare per la sabbia, il muco e lo strazio. Ben continua achiedermi se mi ha fatto del male. Mi piacerebbe rassicurarlo, rispondergli che non mi hatoccato, non mi ha messo le mani addosso, invece riesco solo a farfugliare: «Ha un figlio».

Vorrei spiegarmi: l’uomo che ha convinto Meg a togliersi la vita e ha tentato di fare lostesso con me è un padre amorevole, protettivo. Ma non riesco a trovare le parole. Ben,però, era con me ieri a Truckee. Forse è per questo che capisce lo stesso. O forse la veritàè che tra noi due non c’è mai stato bisogno di parole.

«Oh, al diavolo, Cody!» esclama. Spalanca automaticamente le braccia, come seabbracciarmi fosse la cosa più naturale del mondo. Io mi ci getto, come se farmiabbracciare fosse la cosa più naturale del mondo. Stretta a lui, piango. Piango per Meg,che ho perduto per sempre. Piango per i Garcia, anche loro forse persi per sempre.Piango per il padre che non ho mai avuto e per la madre che ho. Piango per Richard e lafamiglia che l’ha cresciuto. Piango per Ben e la famiglia che gli è mancata. E piango perme.

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Dopo che mi sono calmata, ci mettiamo a passeggiare lungo il fiume. Nonostante siascesa la sera, motoscafi e acquascooter continuano a sfrecciare. Più che un fiumemaestoso, il Colorado sembra un’autostrada sull’acqua. Come tutto in questo viaggio,non è ciò che mi aspettavo. «Non posso credere che questo sia il grande fiume Colorado»osservo.

«Vieni con me» dice Ben. Lo seguo giù per una rampa per le barche, fino all’argine.«Da piccolo avevo una grande cartina geografica appesa sopra il letto» spiegaaccucciandosi sulla riva. «Il Colorado nasce dalle Montagne Rocciose, attraversa il GrandCanyon e va a gettarsi nel golfo nel Messico. In questo punto può sembrare un fiume dapoco» aggiunge protendendosi per raccogliere un po’ d’acqua nelle mani a coppa «ma quidentro c’è un pezzo delle Montagne Rocciose e del Grand Canyon.»

Si volta verso di me e io allungo le mani. Ben apre le sue e l’acqua di quel fiume, cheproviene da luoghi sconosciuti e racchiude dentro di sé chissà quali storie, fluisce da lui ame.

«Trovi sempre le parole giuste per confortarmi» mormoro in tono talmente flebile chetemo non sia riuscito a udirmi nel frastuono degli scooter.

Invece ha sentito. «Non la pensavi così la prima volta che ci siamo incontrati.»In realtà si sbaglia. Malgrado l’astio che provavo nei suoi confronti, in Ben McCallister

c’è sempre stato un non so che di consolante. Forse è proprio per questo che lo detestavo.Io non posso trovare conforto. E di certo non con lui. «Ti chiedo scusa» dico.

Mi afferra per i polsi e io afferro i suoi, con le mani ancora umide dell’acqua di quelfiume misterioso.

Così allacciati, risaliamo lungo l’argine verso il motel. Una volta nella stanzasoffocante, cominciamo a baciarci in modo famelico, come avevamo fatto a casa suatempo fa. Stavolta, però, è diverso, quasi ci stessimo aprendo a qualcosa. La miamaglietta scivola sul pavimento, quella di Ben anche. La sensazione della sua pelle nudacontro la mia è stupefacente. Voglio di più. Gli sfilo i jeans. Mi tiro giù la cerniera dellagonna.

Ben smette di baciarmi. «Sei sicura?» mi chiede. Adesso i suoi occhi sono blu scuro,come quelli dei neonati.

Sono sicura.Ci avviciniamo al letto in un groviglio di braccia e gambe. Il suo corpo è caldo ed

eccitato contro il mio, ma allo stesso tempo controllato.«Hai un preservativo?»Lui si china e sfila una bustina lucida dal portafoglio.«Sei sicura?» mi chiede di nuovo.

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Lo tiro su di me.Quando succede, comincio a piangere.«Vuoi che mi fermi?»Non voglio. Fa male – più di quanto mi aspettassi –, ma non piango per il dolore.

Piango per l’intensità di quello che sento.

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39

Dopo, Ben si addormenta tenendomi tra le braccia. Nella stanza ci saranno quasi trentagradi – il povero condizionatore che sfrigola alla finestra non ce la fa a tenere testa all’ariabollente del deserto – e il suo corpo emana calore come una fornace. Io, però, accaldata eappiccicaticcia di sudore, non mi muovo. Non voglio muovermi. Alla fine scivolo nelsonno. Durante la notte mi sveglio ripetutamente, ma ogni volta mi ritrovo stretta a Ben.

La mattina, quando apro gli occhi, le sue braccia non sono più attorno a me.Nonostante la stanza non si sia rinfrescata sento freddo. Mi metto a sedere sul letto. Nonc’è traccia di lui. La sua roba giace in un mucchietto ordinato in un angolo.

Mi infilo sotto la doccia. Un lieve bruciore tra le gambe conferma che ho appena persola verginità. L’idea che una ragazza sexy e tosta come me fosse ancora vergine divertivamolto Meg. Be’, adesso non lo sono più. Se fosse qui, le racconterei tutto della mia primavolta.

Mi sento raggelare sotto la doccia, ma non c’entra con la temperatura dell’acqua. Laquestione è che non potrei mai dirglielo. Perché l’ho fatto con lui. Con Ben. E, anche se èsuccesso solo una volta, anche per Meg lui è stato il primo amore.

“Me la sono scopata” mi disse Ben.Con me è stato diverso, però. Noi due eravamo amici.Di colpo mi torna in mente il resto della nostra conversazione: “Prima che tutto

andasse a puttane eravamo amici... Il sesso rovina l’amicizia”.No. Nel mio caso è diverso. «Io sono diversa» dico ad alta voce. Ma poi mi scappa da

ridere: quante povere illuse si saranno ripetute questa frase sotto la doccia dopo averpassato la notte con Ben McCallister?

Davanti agli occhi mi sfila una successione di facce: quella di mio padre; l’espressioneastiosa della ragazza; lo sguardo furioso di Brian quando l’ho provocato parlandogli disuo figlio; le svariate sfumature di avversione che ho colto sul viso di Ben, senza dubbioriflesse anche nella mia.

Ripenso a una delle sue prime mail che ho letto. Quella da cui tutto ha avuto inizio:“Lasciami in pace”.

Attraverso le pareti sottili sento il rumore della porta. Mi affretto a chiudere irubinetti. Ho lasciato i vestiti in camera e a un tratto mi imbarazza essere nuda in bagno.Mi avvolgo in tutti gli asciugamani che trovo e mi dirigo in punta di piedi verso la miaborsa.

«Ciao» dice Ben.Sbirciando con la coda dell’occhio mi accorgo che nemmeno lui ha il coraggio di

guardarmi. «Ciao» rispondo fissando il mucchio dei miei vestiti.Ben fa per parlare, ma lo blocco. «Aspetta, dammi il tempo di vestirmi.»

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«D’accordo.»In bagno mi infilo una maglietta e i pantaloncini di jeans sfrangiati, lerci anche per i

miei standard. La tiro per le lunghe ad asciugarmi, cercando di non pensare che lui,nell’altra stanza, non riesce a guardarmi.

Faccio un respiro profondo e apro la porta del bagno. Ben è occupato a preparare nonso quale intruglio. Sempre senza alzare gli occhi, si mette a parlare a macchinetta. «Sonopartito in missione per trovare del caffè freddo. A quanto pare ci sono degli Starbucksqui, ma sono tutti nei casinò. Il caffè freddo non si trova da nessun’altra parte, nemmenonei coffee shop. Così alla fine ho deciso di arrangiarmi da solo e mi sono procurato delcaffè caldo e del ghiaccio.»

Poi aggiunge qualcosa a proposito del contenuto di caffeina del caffè freddo, discorsiche ho sentito fare solo ad Alice. E continua a non guardarmi.

«Ho preso della panna liquida» continua. «Non so perché, ma il caffè freddo mi piacemacchiato. Ricorda un po’ il gelato.»

“Smettila di parlare di caffè!” vorrei urlare. Invece, mi limito ad annuire.«Vuoi fare colazione in uno di quei posti a buffet prima di metterci in viaggio, o

preferisci mantenerti a una certa distanza da loro?»Ieri Ben ha detto che la differenza tra noi due sta nel fatto che lui impara dai suoi

errori. Aveva ragione. E io sono una stupida. «Voto per la distanza» rispondo.Alza lo sguardo per un secondo, poi lo fa scivolare via, come se approvasse la mia

decisione. «Benissimo. Tutto quello che vuoi.»“Io voglio te.” Voglio sdraiarmi sul letto e sentire le sue braccia stringermi. Ma so bene

che non è così che funzionano le cose. Se vai a letto con il barista, scordati di bere gratis.L’ho imparato da Tricia. E da Meg. E adesso lo sperimento sulla mia pelle. Non si puòdire che lui non mi abbia avvertita. «Voglio tornare a casa» dico.

«È lì che siamo diretti» replica lui piegando una maglietta.«Intendo subito.»Ben fissa la coperta del letto praticamente intatto in cui stanotte non ha dormito

nessuno. «Dobbiamo fare benzina e probabilmente aggiungere olio.» C’è una nota didurezza nella sua voce, tornata a essere una specie di grugnito. «Se hai tanta fretta,potresti pensarci tu mentre finisco di fare i bagagli.»

«Mi pare un’ottima idea.» Le sue braccia, la sensazione di conforto che mitrasmettevano... è tutto così lontano. «Ci vediamo alla macchina?»

Mi lancia le chiavi, che afferro al volo. Fa per dire qualcosa ma poi ci ripensa. Raccolgola mia roba e me ne vado. Mentre sto facendo il pieno, mi squilla il cellulare. Ben. Cheidiozia. Siamo due idioti.

«Cody! Dove accidenti sei? Dovevi tornare due giorni fa!»Non è Ben. È Tricia. Non appena sento la sua voce mi si chiude la gola.«Cosa succede?» mi chiede.«Mamma?»«Dove sei, Cody?» Avverto una nota d’angoscia nella sua voce. Non la chiamo mai

mamma.«Stai male?»

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«No. Ma ho bisogno di tornare subito a casa.»«Dove sei?»«A Laughlin.»«E dove diavolo è?»«In Nevada. Ti prego... Voglio tornare a casa.» Sono sull’orlo di una crisi isterica.«D’accordo, tesoro. Non piangere. Adesso ci penso io. Laughlin, Nevada. Resisti, Cody.

Troverò un modo. Tieni il cellulare acceso.»Non ho la minima idea di come farà. Non ha un soldo, non è capace di usare un

computer e probabilmente non sa nemmeno dove sia il Nevada, figuriamoci Laughlin.Ma mi sento comunque meglio.

Quando torno, Ben mi sta aspettando fuori dalla porta della camera. Mi affretto anascondere gli occhi rossi di pianto dietro gli occhiali da sole. Gli apro il bagagliaio e luicarica tutto dentro. «Guido io» annuncio.

Forse non è un’idea molto saggia, scossa come sono. Ma almeno così avrò qualcosa sucui focalizzare l’attenzione.

«Okay» bofonchia.«Avvertimi quando vuoi fermarti a mangiare» dico cerimoniosamente.Ben si limita a fare un cenno del capo.In macchina si concentra sulla musica, ma l’iPod è scarico, perciò si deve accontentare

della radio. Dopo avere armeggiato per un po’ si sintonizza su una stazione che trasmetteSweet Child O’ Mine dei Guns N’ Roses. Questa canzone una volta mi piaceva, ma adesso,come tutto il resto, mi scava un cratere nello stomaco.

«Mia madre la adorava» osserva lui.Annuisco.«Senti, Cody...» Il tono è identico a quello con cui ultimamente mi si rivolgono i Garcia.Prima che possa dire qualcosa mi squilla il cellulare. Faccio per sfilarlo dalla tasca, ma

mi scivola per terra. Sbandiamo.«Fai attenzione!» strilla Ben.«Rispondi!» grido di rimando.Raccoglie il telefono a tentoni. «Pronto.» Si volta verso di me. «È tua madre.»«Tricia» puntualizzo afferrando il cellulare.«Non dovresti parlare al telefono mentre guidi» mi rimprovera Ben.Gli lancio un’occhiataccia, ma appoggio il cellulare contro la spalla e rimetto la mano

sul volante.«Dove sei adesso?» Tricia non mi chiede chi ha risposto né che cosa ci faccio in

Nevada. Non è tipo da soffermarsi sui dettagli.«Non lo so. Una trentina di chilometri fuori Laughlin. Sull’autostrada 95.»«Hai già oltrepassato Las Vegas?»«No. Mancherà ancora una sessantina di chilometri.»Fa un sospiro di sollievo. «Bene. All’una e mezzo c’è un volo diretto della Southwest

da Las Vegas a Spokane. Pensi di farcela?»«Credo di sì.»

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Sento Tricia dire qualcosa e un gran vociare in sottofondo. «Okay, ti prenotiamo unposto su quello. Se lo perdi, ce n’è un altro, ma fa scalo a Portland e dovresti cambiare.»La ascolto parlare come se fosse una specie di agente di viaggio e prenotarmi un aereofosse qualcosa di assolutamente normale. In realtà non ho mai volato in vita mia.

«Chiamami quando sei sull’aereo, così mi organizzo per venirti a prendere. A quantopare non lasciano più entrare al gate, perciò ti aspetterò di sotto, al ritiro bagagli.»

«Okay» dico come se la cosa avesse senso.«Ti mando un SMS con le informazioni del volo» continua Tricia.Avverto un moto di gratitudine per Raymond, che l’ha iniziata a quella tecnologia.«Ci vediamo più tardi. Ti riporto a casa.»«Grazie.»«Che ci stanno a fare le mamme?»Riattacco e guardo Ben. Lui mi rivolge un’occhiata perplessa, anche se gli leggo in

faccia che ha sentito l’intera conversazione.«Cosa sta succedendo?»«Io mi fermo a Las Vegas e torno a casa in aereo.»«Perché?»«È più comodo e rapido per te, non sarai costretto a fare una deviazione.» La strada da

qui fino a Seattle attraversa la parte orientale dello Stato di Washington. Dovrà farsi unavalanga di chilometri da solo. Ma gli sto rendendo le cose più facili, questo non si puònegarlo. Nella successiva ora di viaggio restiamo in silenzio. Arriviamo all’aeroporto diLas Vegas verso mezzogiorno. Mi fermo in un’area di carico dove le auto sonoparcheggiate in doppia fila. Dietro di noi è tutto uno strombazzare e un tramestio dipersone che corrono da ogni parte, come bestiame sospinto da cowboy. Afferro la miaroba, Ben scende dalla macchina e mi guarda.

Mi volto. Lui resta lì, appoggiato contro la fiancata. So che dovrei dire qualcosa. Perringraziarlo. Per lasciarlo libero. Forse lasciarlo libero è il modo migliore per ringraziarlo.Ma, prima che riesca a trovare le parole, lui chiede: «Cosa stai facendo, Cody?».

Fa male. Fa così male. Ma è sbagliato, per svariate ragioni. Perciò gli dico quello che hodetto mesi fa, senza la minima cattiveria. Forse è il meglio che si possa augurare a unapersona.

«Tante buone cose.» E sbatto la portiera alle mie spalle.

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Come promesso, Tricia viene a prendermi all’aeroporto e mi scorta alla macchina. Iltempo di allacciarmi la cintura di sicurezza e mi dice: «Spara».

Stranamente, non è la questione di Ben a preoccuparmi. Confessarle che sonoscappata in Nevada con un ragazzo con il quale ho perso la verginità è la parte più facile.Tricia non fa certo i salti di gioia ma, una volta appurato che abbiamo preso leprecauzioni del caso e non c’è da temere nessuna gravidanza indesiderata, la faccendaviene archiviata.

«Ma cosa ci facevi a Laughlin?»È questa la parte difficile, e non per la ragione che mi ero detta, cioè per paura che lo

racconti a mezza città.Anche se Tricia, con il suo bel tubino nero e gli occhi umidi di commozione, è

intervenuta alla maggior parte delle funzioni in memoria di Meg, non abbiamopraticamente mai parlato della sua morte, della sua scelta deliberata di togliersi la vita, aparte un’unica volta, un paio di settimane fa, quando è venuta in camera mia. È chiaroche per lei si tratta di un argomento tabù. Malgrado si ostini a sottolineare che io e Megeravamo diverse, sotto sotto è preoccupata che non lo fossimo poi tanto.

Quando alla fine le racconto di Brian e del forum, non sembra troppo sorpresa. «Lasignora Banks mi aveva detto che ti stavi dando parecchio da fare davanti a quelcomputer.»

«La signora Banks? Quando le hai parlato?»«Chi credi che mi abbia aiutato a fare la prenotazione dell’aereo?»Dunque Tricia ha già parlato di me in giro. In fondo non mi dispiace, però. Anzi, così

mi sembra di avere degli alleati.«A proposito, com’è andato il tuo primo volo?»Sono rimasta per tutto il tempo a guardare il riarso paesaggio sottostante,

ripercorrendo il tragitto fatto con Ben all’andata e cercando di non pensare al suo viaggiodi ritorno in solitaria. «Bene.»

Ci immettiamo nell’interstatale 90 e comincio a parlarle di Brian. Del mio piano di fareda esca. Le dico della sua sottile arte della persuasione, di come riuscisse a irretirmi conle parole. Le racconto tutto quanto, tranne la deviazione a Truckee. Non so nemmeno ioperché. Forse per risparmiarle la pena, ma non penso che sia questo il motivo. Ho giàperso un bel po’ di cose ultimamente. E un padre... In fondo non puoi perdere quello chenon hai mai avuto.

Le riferisco alcune frasi di Brian e mi aspetto di vederla andare su tutte le furie, inveceè atterrita.

«E hai avuto il coraggio di andare ad affrontarlo?» mi chiede.

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Annuisco.«Non riesco a crederci...» Lascia la frase in sospeso. «Sono contenta che tu ne sia uscita

indenne.»«Anch’io. Mi dispiace. Sono stata una stupida.»«Puoi dirlo forte.» Mi allunga una carezza sulla guancia. «Ma anche molto coraggiosa.»Abbozzo un sorriso. «Forse.»Tricia schiaccia l’acceleratore e ci spostiamo sulla corsia di sorpasso. Dopo un po’ dice:

«Devi parlarne ai Garcia. Lo sai questo, vero?».La tristezza e il senso di colpa mi calano addosso con la rapidità di un tramonto

invernale. «Gli spezzerò il cuore.»«Hanno già il cuore spezzato. Ma forse aiuterà a consolare il tuo. E per adesso ci basta

questo.»

Arrivate in città, Tricia passa davanti a casa senza fermarsi. Anche se sono esausta e misento cadere a pezzi, mi lascio scarrozzare senza fare obiezioni.

«Devo correre al lavoro» mi informa frenando sul vialetto di accesso dei Garcia. «Adopo.»

«Grazie.» Mi allungo oltre il cambio ad abbracciarla. Poi afferro la cartellina con ilmateriale su Meg, Brian e Soluzione finale e mi avvio verso la porta di casa.

Viene Scottie ad aprire.«Ciao, Tappetto.»«Ciao, Cody.» Sembra imbarazzato, o forse è compiaciuto di sentire di nuovo il suo

soprannome. «È Cody!» annuncia voltandosi.Compare Sue, asciugandosi le mani nel grembiule. «Cody! Finalmente! Ti preparo

qualcosa per cena?»«Magari più tardi. Prima devo parlarvi di una cosa.»Assume un’espressione incerta. «Entra. Joe! C’è Cody. Scottie, vai a giocare di sopra.»Lui mi lancia un’occhiata. Io rispondo con un’alzata di spalle.Seguo Joe e Sue nella sala da pranzo in penombra dove campeggia il bel tavolo di

legno attorno al quale facevamo i pranzi di famiglia. Adesso è ingombro di carte e oggettivari, che testimoniano del suo stato di abbandono.

«Cosa c’è, Cody?» chiede Joe.«Devo dirvi alcune cose su Meg. A proposito della sua morte.»Entrambi annuiscono, prendendosi per mano.«So che si è uccisa, non voglio dire il contrario» esordisco. «Ma dovete sapere che si era

messa a frequentare un certo forum... Un gruppo di discussione di sostegno agli aspirantisuicidi. Incoraggiano le persone a togliersi la vita. Ecco perché l’ha fatto.»

Scruto le loro facce aspettandomi di vederli inorridire. Invece restano calmi, pacati, inattesa che continui. A un tratto mi colpisce un pensiero: non è una novità.

«Lo sapevate?»«Lo sapevamo» ammette Sue pacatamente. «Era nel rapporto della polizia.»«Davvero?»Sue annuisce. «Questo ha spiegato come sia riuscita a procurarsi quel veleno. È una

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prassi comune da parte di quei gruppi.»«Soluzione finale.» Joe pronuncia le parole con sprezzo. «È così che i nazisti

chiamavano l’Olocausto. Meg lo sapeva. Non riesco a credere che si sia lasciata irretire daun gruppo con un nome del genere.»

«Joe.» Sue gli posa una mano sul braccio.«Quindi la polizia ha trovato i file crittati? Sanno di Brian?» Sono confusa. Avevo avuto

l’impressione che Brian fosse all’oscuro della morte di Meg.Anche Joe e Sue fanno una faccia perplessa. «Quali file?»«Quelli nel computer di Meg. Erano nel cestino.»«Non ne so niente» replica Sue. «Ci hanno detto solo che dalle ricerche che aveva fatto

in internet risultava che era entrata in contatto con questi gruppi.»«Chi è Brian?»«Brian LaForet.»Mi guardano allibiti.«È il tizio con cui chattava sul forum. Ma non avete appena detto che la polizia ne era a

conoscenza?»«Ci hanno detto che Meg aveva avuto rapporti con questi psicopatici che plagiano le

persone fragili incoraggiandole a suicidarsi» spiega Joe.«Ma non sapete niente di Brian?» Scuotono la testa. «Brian LaForet? Il suo nickname

nel forum era Tutto1_BLF.» Niente. «È stato lui ad aiutarla, a spingerla. È statopraticamente il suo angelo della morte. L’ha incitata, le ha offerto il suo aiuto.»

Sue annuisce. «È così che funziona in questi gruppi.»«Ma non è stato il gruppo. È stato lui.»«Come fai a sapere queste cose, Cody?» mi chiede Joe.Faccio un rapido riepilogo. Dai file crittati al forum di Soluzione finale, al nickname

Lucciola2110, fino a Tutto1_BLF. «Ho passato settimane a scrivere nel forum nellasperanza di snidarlo. Ci è voluto del tempo, ma alla fine ce l’ho fatta. L’ho convinto cheero come Meg per indurlo a telefonarmi. È stato molto prudente, ha utilizzato un tabletvia Skype, ma sono riuscita a rintracciare la chiamata e a risalire al posto dove lavora einfine alla città dove vive.»

Sue e Joe mi fissano sbalorditi. «Hai fatto tutto da sola?» mi chiede lei.«Non proprio. Harry Kang, uno dei coinquilini di Meg, si è occupato del lato tecnico, e

un’altra persona mi ha accompagnato a Laughlin da Brian...»«Sei andata a casa sua?» mi interrompe Joe.«È appunto di questo che volevo parlarvi. Sono appena tornata.»«Cody!» Sue ha lo stesso tono di rimprovero che usava con me e Meg quando

rientravamo tardi la sera o guidavamo troppo veloce. «Hai corso un bel rischio.»Adesso Joe e Sue hanno la tipica espressione da genitori preoccupati. Dio, quanto mi è

mancato! Però non voglio che mi guardino così. Devono vedermi non come una figlia macome il loro angelo vendicatore!

«Non capite? È Brian il responsabile! Se non fosse stato per lui, Meg non sarebbemorta!»

«Le ha detto di uccidersi?» chiede Joe. «L’ha aiutata a togliersi la vita?»

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«Sì! E ha cercato di fare lo stesso con me! Guardate.»Apro la cartella e mostro loro le mail. Tuttavia, rileggendo quello che ha scritto a me e

a Meg, mi rendo conto che sono solo un mucchio di citazioni e link a vari siti. Si è tenutoa debita distanza. Non ha mai consigliato a Meg di usare il veleno. Non gliel’haprocurato. A parte un buon rimedio per curare il raffreddore, a me non ha mai datonessun suggerimento esplicito. Niente del tipo: “Faresti meglio a ucciderti”.

Ricordo la sua giustificazione: “Io non ho mai detto niente di tutto questo”. Nonaspettavo altro che mi chiedesse quale metodo avessi scelto, ma se ne è guardato bene.

Non fa niente. È comunque responsabile.«È stato lui» insisto. «Meg non si sarebbe uccisa se non fosse stata istigata. È lui la

causa della sua morte.»Joe e Sue si scambiano un’occhiata e tornano a guardarmi. Dopodiché Sue mi ripete

quello che Tricia mi ha detto qualche settimana fa, solo che io non sono stata adascoltarla. Da quanto tempo faccio finta di non sentire?

«Meg soffriva di depressione, Cody. Ha avuto il primo episodio clinico a quindici annie una ricaduta grave l’anno scorso.»

A quindici anni. Quando era rimasta praticamente sempre a letto. «La mononucleosi?»Sue annuisce, poi scuote la testa. «Non era mononucleosi, Cody.»«Perché?» esclamo. «Per quale motivo non mi ha mai detto niente?»Sue si batte la mano sul petto. «Combatto questa battaglia da così tanto tempo, non

solo contro la depressione, ma contro la sua stigmatizzazione in una cittadina piccolacome la nostra. Non volevo che Meg fosse bollata come depressa a quindici anni.» Fa unapausa. «A essere onesta, non volevo che Meg venisse marchiata per un disturbo che haereditato da me. Così non lo abbiamo detto a nessuno.»

Joe abbassa gli occhi. «Ci è sembrata la decisione più giusta.»«Ovviamente era in cura con gli antidepressivi» continua Sue. «E funzionavano. La

facevano stare meglio. Al punto che, dopo il diploma, aveva deciso di smettere diprenderli. Noi abbiamo cercato di dissuaderla. Conosco bene la depressione, non è che tiviene una volta e poi se ne va.»

Gli sbalzi di umore di Sue. I vari odori in casa. “Depressione. Vuol dire questo?”«Abbiamo capito che c’era qualcosa che non andava non appena si è trasferita a

Tacoma» interviene Joe. «Passava tutto il tempo a dormire, saltava le lezioni.»«Abbiamo cercato di aiutarla a rimettersi in carreggiata» prosegue Sue. «Volevamo

convincerla a prendersi un periodo di pausa. Ne abbiamo parlato, abbiamo avutoparecchie discussioni durante le vacanze di Natale.»

«Per questo non ti abbiamo chiesto di venire con noi» spiega Joe.Le vacanze di Natale. “I miei mi stanno facendo impazzire.”«Eravamo pronti a intervenire se lei avesse continuato a rifiutare di prendere

provvedimenti. Saremmo arrivati a riportarla a casa, anche se questo avrebbe significatoperdere la borsa di studio. Poi, però, con l’inizio dell’anno nuovo sembrava che le cosefossero un po’ migliorate. Ma era solo una facciata. In realtà stava pianificando la suafuga.»

«Non ne sapevo niente.»

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«Nessuno se lo immaginava» dice Sue e scoppia a piangere.Era la mia migliore amica. Se le fossi stata vicina durante le vacanze di Natale, o

durante l’anno scolastico, mi sarei accorta del suo malessere. Avrei capito quanto stavamale. Avrei potuto salvarla. Meg potrebbe essere ancora qui.

«Non ne sapevo niente» ripeto, stavolta con voce strozzata, un gemito acuto. Il dolore miscoppia nella testa come un aneurisma.

I Garcia mi guardano mentre sanguino dentro e finalmente sembrano capire.Joe mi prende una mano e Sue dice le parole che ho sempre avuto bisogno di sentire:

«Oh, no, no, tesoro. Tu non c’entri. Non è colpa tua».«Dovevo trasferirmi a Seattle» replico tra i singhiozzi. «Avevamo grandi progetti

insieme ma...» Non so come finire la frase. Non avevo i soldi. Ho avuto paura. Mi sonoimpantanata. E alla fine lei è partita, e io sono rimasta.

«No!» obietta Joe. «Non è così! Tu eri tutto per lei. Eri la sua roccia.»«Appunto! Ma non capite?» esclamo. «Quando se n’è andata, ero furiosa. Ce l’avevo

soprattutto con me stessa, ma me la sono presa con lei. Io non c’ero nel momento delbisogno. Se fossi stata presente, si sarebbe aperta con me, non avrebbe chiesto aiuto aquello.»

«No, Cody» dice Sue. «Non si sarebbe aperta.»La perentorietà del suo tono è devastante. Non si sarebbe aperta. Meg l’avrebbe tenuto

nascosto, come ha sempre fatto.Joe si schiarisce la voce, è il suo modo per ricacciare indietro le lacrime. «Capisco il

motivo che ti ha spinto ad affrontare quel tizio. Dare la colpa a questo Briansignificherebbe che qualcuno l’ha uccisa. Qualcun altro. Non lei stessa. E allora, forse,saremmo in grado di piangere la sua scomparsa spiegando i nostri cuori spezzati.»

Guardo Joe. Meg mi manca da morire. Ma sono anche così arrabbiata con lei! Se nonsono capace di perdonarla, come posso perdonare me stessa?

«Meg non sarebbe mai caduta tra le grinfie di quell’uomo se non fosse stata cosìfragile» dice Sue rivolgendo uno sguardo implorante al marito. «Lui non avrebbe avutoalcun potere su di lei. Guarda Cody. Si è messa in contatto con quell’uomo, si è espostaalla sua influenza. Abbiamo letto i messaggi che si sono scambiati.» Si volta verso di me.«E sei ancora qui.»

No! Loro non capiscono. Non sanno quanto sia abile a insinuarsi nella tua mente, agiocare pericolosamente con le tue insicurezze, a toccare i tuoi punti deboli. Avrebbepotuto benissimo tirare dentro anche me.

Ma poi mi guardo intorno. Sono seduta allo stesso tavolo su cui ho mangiatotantissime volte nel corso degli anni. Meg non c’è più. Gli ultimi mesi sono stati uninferno. Sue ha ragione: io sono ancora qui.

La cartella è aperta, i fogli sono sparsi sul piano. Tutti gli sforzi per ottenere questorisultato, il tunnel in cui mi sono infilata per arrivare a Brian... Ero convinta che fosse unadimostrazione della sua forza, ma forse è stata una prova della mia.

Sono ancora qui.Riordino i documenti nella cartelletta e la spingo verso Joe facendola scivolare sul

tavolo. «La faccenda si chiude qui per me» dichiaro. «Voi fate come meglio credete.»

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Joe la afferra. «Consegneremo il materiale alla polizia domattina stessa.»Dopo un attimo di silenzio Sue dice: «E, Cody...». Ormai non mi spaventa più come un

tempo. «Grazie» conclude.A quel punto si alzano e vengono ad abbracciarmi. Ci teniamo stretti per tantissimo

tempo, tra le lacrime. Poi Sue osserva: «Sei pelle e ossa. Ti prego, Cody, mangia qualcosa».Mi abbandono contro lo schienale imbottito. Non ho fame ma accetto lo stesso. Sue va

in cucina. Joe resta con me.«Avresti dovuto avvertirci» dice battendo la mano sulla cartelletta.«Anche voi» ribatto.Annuisce.«Dovete dirlo a Scottie. Tanto lo sa già. Cioè, non conosce i dettagli, ma sospetta che

qualcuno abbia aiutato Meg. È stato lui a mettermi la pulce nell’orecchio.»Joe si accarezza il mento con fare stupito. «I bambini hanno le antenne. Per quanto tu

cerchi di proteggerli, non puoi tenergli nascosto niente.» Sospira. «Abbiamo cominciatoa incontrare le famiglie di altri adolescenti suicidi. Parlarne apertamente sembra aiutareun po’.» Mi stringe la mano così forte da lasciarmi sulla pelle il segno della fede. «Parleròcon Scottie» promette.

Sue ritorna dalla cucina e mi posa davanti un piatto ricolmo di una specie dispezzatino.

Ne assaggio un boccone.«L’ho cucinato io» dice Sue. E sorride. Forse il sorriso più timido che abbia mai visto.

Ma c’è.Prendo un’altra forchettata. Dopo tutto ho fame.

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La sera crollo alle nove, completamente vestita. Mi sveglio alle cinque del mattino. TrovoTricia addormentata seduta al tavolo della cucina.

Le do un colpetto al gomito. «Sei tornata da poco?» chiedo.Alza le spalle; ha gli occhi annebbiati e l’aria intontita.«Aspettavi me?»«Più o meno.»«Puoi andare a dormire adesso. È tutto a posto.»«Davvero?» Sbadiglia. «Com’è andata con Joe e Sue?»«Bene. Ne parliamo dopo, quando sarai più lucida.»«Lucida» ripete. Quindi, seria, soggiunge: «Ma tu stai bene?».Annuisco. «Sto bene.» Continuo a ripeterlo da un sacco di tempo, ma solo adesso

capisco che è la verità.«Ci vediamo tra qualche ora. Che ne dici di fare colazione fuori?»«Mi pare un’ottima idea.»Tricia si trascina a letto. Io disfo i bagagli e ammucchio la roba sporca in un angolo.

Più tardi dovrò fare un salto alla lavanderia a gettoni, o magari chiedere alla signoraChandler se la prossima volta che vado a pulirle la casa posso fare una lavatrice da lei. Hosempre trovato persone disposte ad aiutarmi nel momento del bisogno. Metto su il caffèed esco sul portico, in attesa che sia pronto.

Sta per spuntare il sole. Le colline si tingono di rosa alle prime luci del mattino,malgrado un velo di foschia aleggi ancora sul paesaggio. A quest’ora non c’è quasinessuno in giro. A parte il pick-up del ragazzo che consegna i giornali, le strade sonodeserte.

Sento un’altra macchina in lontananza. Il rombo del motore mi è familiare. Non è ilSUV dei Garcia, e la vecchia Toyota di Tricia è parcheggiata sul vialetto. La scorgo passareveloce, diretta all’isolato successivo. No. Non è possibile...

Poi torna indietro e rallenta, come se non sapesse dove andare. Mi alzo e scendo instrada. La macchina si ferma di colpo in mezzo alla carreggiata, con il motore acceso.Quindi fa retromarcia, imbocca la mia via e accosta davanti al marciapiede dove mi trovo.

Ha un aspetto orribile, con la barba sfatta e le occhiaie scure come se non dormisse damesi. Forse si è ridotto così durante il viaggio e io non me ne sono accorta perché èsuccesso per gradi, ma quando Ben scende dall’auto è quasi irriconoscibile. Non haniente a che spartire col bel ragazzo sprezzante che ho visto sul palco solo pochi mesi fa.

«Che ci fai qui?» gli chiedo.«Secondo te?» Il tono estenuato con cui lo dice è straziante. «Tante buone cose?»«Come hai fatto ad arrivare qui? Saranno ventiquattr ’ore di macchina.» Calcolo il

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tempo che è trascorso da quando ci siamo separati a Las Vegas ieri: poco più didiciassette ore.

«Sono ventiquattr ’ore se conti anche le soste.»Questo spiega tutto. Guidare per una notte intera senza fermarsi ti può fare

invecchiare di colpo di un anno.«Come sapevi dove abito?»Si stropiccia gli occhi con i polsi. «Me lo aveva detto Meg. E questo posto è davvero

piccolo.» Fa una pausa. «Ho sempre saputo dove abiti, Cody.»Ha un’aria talmente esausta che vorrei portarlo in casa, farlo sdraiare sul mio letto,

rimboccargli le coperte e sfiorargli le palpebre prima che si addormenti.«Perché sei scappata via così?»Non so cosa rispondere. Per la felicità. Per la paura. Per la troppa emozione. Mi premo

le mani sul cuore sperando che quel gesto spieghi tutto.Restiamo così per un attimo. «Ho visto i genitori di Meg» dico alla fine. «Ho parlato

loro di Brian. Ed è saltato fuori che la polizia li aveva già informati del coinvolgimento diMeg con il gruppo di Soluzione finale.»

Ben sgrana gli occhi stanchi per la sorpresa.«Mi hanno anche detto che Meg soffriva di depressione. Ha avuto la prima avvisaglia a

quindici anni. E io, la sua migliore amica, non mi sono mai accorta di niente. Poi ha avutoun’altra crisi, dopo essersi trasferita a Tacoma. Poco prima di incontrare te.» Lo guardo. Isuoi occhi sembrano pesti come la pelle violacea che li cerchia. «Quindi, a quanto pare,non è colpa tua. E nemmeno mia.» Mi sforzo di pronunciare l’ultima parte conspensieratezza, ma mi si strozza leggermente la voce.

«Non ho mai pensato che fosse colpa tua» replica sommessamente. «E ho capito chenemmeno io sono responsabile per la sua morte.»

«Però dicevi di averla sulla coscienza.»«È vero, e questo non cambierà mai. Ma non credo di essere stato così importante da

averla spinta a un gesto simile. E poi...» Lascia la frase in sospeso.«Cosa?»«Non posso fare a meno di pensare che se fosse stata colpa mia tu non saresti mai

entrata nella mia vita.»Mi salgono le lacrime agli occhi.«Sono innamorato di te, Cody. Lo so che è tutto complicato e confuso, incasinato a

livelli pazzeschi. La morte di Meg è stata una tragedia, lo spreco peggiore che si possaimmaginare. Ma non voglio perdere te per il modo assurdo in cui ti ho trovato.»

Mi metto a singhiozzare. «’Fanculo, Ben McCallister!» esclamo. «Riesci a farmipiangere come quasi nessun altro al mondo!» Faccio un passo verso di lui.

«Ho versato anch’io qualche lacrima stanotte.» Fa un passo verso di me.«Ci credo. Sono lunghi più di mille chilometri senza iPod.»«Già. Sentivo la mancanza della musica.» Avanza ancora. «Non avrei dovuto lasciarti

andare. Avrei dovuto dire qualcosa ieri. Ma quello che è successo è stato troppo intensoper me. Mi hai spaventato, Cody. Mi hai spaventato a morte.»

«Perché sei uno stronzetto di città» ribatto. «Gli stronzetti di città sono dei gran

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fifoni.»«Così si dice.»«Be’, comunque anche tu mi fai paura.»Spalanco le braccia. E, come mi succede sempre quando sono con lui, quello che dico è

esattamente l’opposto di quello che provo.Restiamo abbracciati, nella luce del primo mattino. Ben mi scosta una ciocca di capelli

dagli occhi e mi bacia sulla tempia.«In questo momento sono molto vulnerabile» lo avverto. «È successo tutto così in

fretta.»Annuisce. Lo stesso vale per lui.«E può essere pericoloso. Complicato e confuso, incasinato a livelli pazzeschi, come

hai detto tu.»«Lo so. Cavalcheremo insieme, cowgirl.»«Insieme» ripeto affondando la testa nella sua spalla. Ha un fremito in tutto il corpo.«Vuoi entrare?» gli chiedo. «Riposarti un po’?»Scuote la testa. «Magari più tardi.»Il sole ormai splende e la foschia mattutina si è dissipata. Lo prendo per mano.

«Vieni.»«Dove andiamo?»«A fare due passi. Voglio mostrarti una cosa. Al parco c’è un razzo spaziale da cui si

gode una vista incredibile.»Intreccio le mie dita alle sue e ci incamminiamo. Verso il mio passato. E il mio futuro.

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EPILOGO

A un anno dalla sua morte, Meg può finalmente riposare in pace.Ci ritroviamo per l’ultimo rito. Stavolta non ci sono candele né Amazing Grace né preti.

Ma ci sarà Meg. Joe e Sue l’hanno fatta cremare e adesso le sue ceneri saranno dispersenei vari luoghi che ha amato. Le è stata concessa una tomba nel cimitero cattolico, a pattoche il suo corpo non vi fosse sepolto.

Oggi spargeremo parte dei suoi resti sulla collina di Pioneer Park. Saranno presenti isuoi amici del posto e qualcuno di Seattle, oltre, naturalmente, alla gente di Cascades.

Ieri Alice è passata a prendermi allo studentato e siamo venute qui in macchina. Triciami ha accolto facendomi festa come se fossi stata via due anni e non due mesi.

Da quando sono partita per l’università non c’è stato praticamente giorno in cui nonmi abbia scritto un SMS (Raymond ormai è acqua passata, ma il suo insegnamento resta).Però sembra contenta che mi sia decisa a fare domanda di ammissione (praticamente unasupplica) al secondo semestre all’università di Washington, a Seattle.

“Non posso contare su una borsa di studio e le esenzioni saranno minime. Dovròchiedere un prestito” l’ho avvertita.

“Lo chiederemo tutte e due” mi ha detto. “Ci sono cose ben peggiori di un debito.”

Alice si agita perché non sa cosa indossare: è pentita di non aver portato niente di nero,nonostante continui a ripeterle che non stiamo andando a un funerale. Ci siamo vestite alutto abbastanza a lungo. Persino Tricia sfoggia un abitino nuovo scovato a una svendita:è turchese.

«Tu cosa ti metti?» mi chiede.«Probabilmente i jeans.»«Ma non puoi venire in jeans!»«Perché no?»Alice non sa rispondere. «Quando arrivano gli altri?»«Richard è arrivato stanotte. Ben è partito stamattina presto. Ci aspetta al parco. C’è

anche Harry con lui.»«È un pezzo che non vedo Harry. Sta facendo uno stage alla Microsoft e non bazzica

più il campus.»«Lo so. Ci siamo sentiti la settimana scorsa.» Mi ha chiamato per comunicarmi che, in

seguito a varie indagini, il forum di Soluzione finale è stato chiuso. Almeno un risultatoconcreto sono riuscita a ottenerlo. La polizia ha interrogato Brian LaForet e requisito ilsuo computer. Chissà lo sdegno e la paura che deve aver provato quando le forzedell’ordine hanno bussato alla sua porta e si sono portate via le prove delle sue azioni. Di

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sicuro avrà immaginato che dietro ci fossi io, il pianeta senza sole che alla fine hascoperto di avere in sé un barlume di luce.

Ma non è stata formalizzata nessuna accusa. Brian agiva con molta prudenza, senzainfrangere la legge. Si limitava a usare le parole di qualcun altro e a rinviare ai link di sitiweb anonimi. Non c’erano gli estremi per ritenerlo responsabile.

Prima che il forum venisse chiuso sono tornata a controllare se c’era ancora attività daparte di Tutto1_BLF, ma non ho trovato nuovi messaggi. Certo, può avere cambiatousername o essersi iscritto a un altro forum. Ma ne dubito. Almeno per il momento sonoriuscita a ridurlo al silenzio.

Secondo gli avvocati ai quali si sono rivolti Joe e Sue, il materiale che ho messoinsieme potrebbe essere sufficiente per intentare una causa civile. Stanno ancoravalutando il da farsi, ma Sue non se la sente di affrontare una battaglia simile. Nonservirebbe a riportare in vita Meg e in questo momento, dice, non bisogna seguire lastrada della vendetta ma quella del perdono. Ultimamente ho ripensato molto alsermone del padre di Richard e ritengo che lei abbia ragione. Anche se uno come BrianLaForet non si merita il perdono di nessuno.

Tricia viene a bussare alla mia porta, tutta in ghingheri con il vestito nuovo in cuimorirà di freddo e i tacchi alti che si inzacchereranno di fango. È in gran forma. GuardaAlice, poi me, infine sposta lo sguardo sulla foto di me e Meg bambine al rodeo, chetengo ancora appesa al muro. «Coraggio, andiamo» dice.

Risaliamo il sentiero di Pioneer Park fino alla piccola radura in mezzo al bosco. Riconoscol’abbaio di Samson in lontananza. Svoltato l’angolo, vedo Joe e Sue che parlano conalcune persone del loro gruppo di sostegno. La band di Seattle sta accordando glistrumenti. Scottie si diverte a tirare calci a una pallina con Richard e Harry. SharonDevonne e altri compagni di scuola di Meg chiacchierano con la signora Banks e suomarito. Alexis e il suo fidanzato Ryan, appena tornato dall’Afghanistan, tengono permano la piccola Felicity. Sono un po’ sorpresa di vedere Tamara Henthoff sola soletta.Quando i nostri sguardi si incrociano, ci salutiamo con un cenno del capo.

Ben, in disparte, sta scrutando verso valle, in direzione del razzo spaziale. Ci giriamo aguardarci nello stesso momento. Non so come una sola occhiata possa comunicare cosìtanto, eppure ci riesce. “Complicato e confuso, incasinato a livelli pazzeschi.” È unamaniera efficace per descrivere quello che sta succedendo. Ma forse l’amore è proprioquesto.

“Pronta?” mi chiede muovendo solo le labbra.Annuisco. Sono pronta. Tra poco attaccheranno a suonare la canzone dei Bishop Allen

sulle lucciole e il perdono. Io pronuncerò un discorso di elogio per la mia amica espargeremo un po’ di lei al vento. Poi scenderemo a valle, passando davanti al razzospaziale, per raggiungere il cimitero dove, sulla sua tomba, una lapide recita:

MEGAN LUI SA GARCI A

SONO STATA QUI

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NOTA DELL’AUTRICE

Molti anni fa ho affrontato il tema del suicidio in un articolo in cui intervistavo gli amici ei familiari di alcune ragazze che si erano tolte la vita. Fu in quell’occasione che “conobbi”Suzy Gonzales, anche se non personalmente, dato che era morta già da alcuni anni.Ascoltando i suoi cari parlare di lei, continuavo a dimenticare che stavo scrivendo unpezzo sul suicidio. Il ritratto che veniva fuori dalle loro parole era quello di unadiciannovenne intelligente, creativa, carismatica, anticonformista, il genere di ragazzache avrei potuto intervistare in occasione della pubblicazione del suo romanzo d’esordio,dell’uscita del suo primo album o di un brillante film indipendente.

Mai e poi mai avrei immaginato – e, del resto, lo stesso valeva per le persone chel’avevano conosciuta – che potesse essere il tipo da togliersi da vita.

Tranne per un particolare. Come tutte le altre ragazze del mio articolo, Suzy soffriva didepressione. Alla prima insorgenza di pensieri suicidi si era rivolta all’ambulatoriomedico dell’università, ma poi era finita nella rete di un gruppo di “sostegno al suicidio”,che aveva assecondato le sue pulsioni di morte fornendole addirittura consigli sullemodalità di esecuzione.

Da allora non ho mai smesso di pensare a Suzy, a cosa avrei potuto dire di lei nel mioarticolo – ai libri che avrebbe potuto scrivere, ai dischi che avrebbe potuto incidere o aifilm che avrebbe potuto dirigere – se solo avesse ricevuto le cure adeguate per alleviare lasofferenza che la tormentava al punto di spingerla a togliersi la vita.

A distanza di oltre dieci anni, Suzy mi ha fornito l’ispirazione per il personaggio diMeg. Da Meg è nata Cody, la protagonista di Sono stata qui. Cody è una diciottenne che lamorte della sua migliore amica ha gettato in uno stato di prostrazione, lasciandolasgomenta e dolente, piena di tristezza, di rabbia e di sensi di colpa, di domande che nontroveranno mai una risposta. Benché Cody e Meg siano personaggi fittizi, non posso farea meno di chiedermi se Meg, sapendo quali conseguenze avrebbe avuto il suo gesto sullasua migliore amica e sulla sua famiglia, lo avrebbe compiuto lo stesso. O se, dall’abissodella sua depressione, fosse in grado di immaginare gli effetti a catena che avrebbeprovocato.

Secondo la Fondazione americana per la prevenzione del suicidio è ampiamentedimostrato che la stragrande maggioranza delle persone che si tolgono la vita – siamonell’ordine di oltre il novanta per cento – soffre di un disturbo mentale. Tra i suicidi,quello più comune è la depressione, ma anche il disturbo bipolare e l’abuso di sostanzestupefacenti costituiscono un fattore di rischio. Spesso si tratta di malattie che non sonostate diagnosticate o curate adeguatamente.

Faccio notare che le definisco “malattie”, come la polmonite. Per i disturbi psichici, laquestione si fa spinosa perché si tratta di qualcosa che “è dentro la testa”. Invece non è

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così. Vari studi hanno dimostrato l’esistenza di una correlazione tra il rischio di suicidio euno squilibrio nelle sostanze chimiche rilasciate dalle cellule nervose, detteneurotrasmettitori, come la serotonina. Questa condizione fisiologica causa una reazionementale (e fisica) in grado di gettare una persona in uno stato di terribile prostrazioneche, se non viene curato, in casi estremi può, al pari della polmonite, risultare fatale.

Fortunatamente esistono trattamenti, di solito una combinazione di terapia e farmacistabilizzatori dell’umore. Rifiutarsi di sottoporsi a una cura per la depressione o per undisturbo dell’umore è come rifiutare di assumere antibiotici e di mettersi a riposoassoluto dopo la diagnosi di una polmonite. Comportarsi come hanno fatto Meg e Suzy ècome sapere di avere la polmonite e cercare aiuto in rete, ascoltando chi suggerisce difumare un pacchetto di sigarette al giorno e fare jogging sotto la pioggia. Seguirestesimili consigli?

Non tutti quelli che soffrono di depressione hanno tendenze suicide. La maggior partenon arriva a tanto. E non tutti quelli che hanno pensieri di morte si suicidano. QuandoRichard dice: “Tutti abbiamo certi pensieri a volte” credo che abbia ragione. Capita achiunque di passare giorni o settimane in cui sarebbe molto più semplice smettere diesistere. È una cosa molto diversa dall’essere ossessionati da pensieri suicidi, tradurli inun piano e tentare effettivamente di metterlo in pratica.

Come Cody e Richard, anche a me è capitato. Come loro, ho avuto i miei periodi bui.Ma non ho mai preso in considerazione l’ipotesi del suicidio. Ciò non significa che nonsia mai stata sfiorata da questa tragedia. Alcuni anni fa una persona a me molto cara hatentato di uccidersi. Ha ricevuto l’aiuto di cui aveva bisogno e ha continuato a viverefelicemente. Quando il suicidio segna un punto di non ritorno o una possibilità mairealizzata, come nel caso di Suzy e Meg, vedo il fantasma delle loro vite non vissute;nell’altro caso, vedo il rovescio della medaglia: un’esistenza piena e felice che ha rischiatodi non essere vissuta.

La vita può essere dura, bellissima e incasinata ma, si spera, anche lunga! Abbastanzaper scoprire quanto sia imprevedibile: i periodi bui prima o poi finiscono – a volte graziea un bel po’ di aiuto – e allora il tunnel si allarga e la luce del sole torna a splendere. Se visentite sprofondare nelle tenebre, avete l’impressione che non riuscirete mai a uscirne.Brancolate nell’oscurità. Da soli. Ma non siete soli. Là fuori ci sono persone in grado diaiutarvi a ritrovare la luce. Non rinchiudetevi in voi stessi.

Se state male e avete bisogno di aiuto, il primo passo è parlarne con qualcuno:genitori, fratelli o sorelle maggiori, zie, zii... Confidatevi con un adulto di cui vi fidate: unprete, un professore, un medico, un’infermiera, un amico di famiglia. Attenzione, però,questo è solo il primo passo. Non basta aprirsi con qualcuno: questa persona vi aiuterà atrovare il sostegno professionale di cui avete bisogno.

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RINGRAZIAMENTI

È consuetudine che l’autore ringrazi tutte le persone che hanno contribuito allarealizzazione di un libro. Ma c’è una bella differenza tra ringraziare – esprimeregratitudine – e riconoscere effettivamente il contributo ricevuto. Stavolta, perciò,desidero riconoscere il mio debito nei confronti delle persone responsabili della nascitadi questo libro.

Sono riconoscente a Michael Bourret, il cui sostegno, conforto, franchezza e amiciziami infondono coraggio e mi incitano a non accontentarmi mai.

Sono riconoscente all’intera squadra della redazione della Penguin Young ReadersGroup. Questo è il quinto libro e il settimo anno che condividiamo. Praticamente unmatrimonio, sebbene tra moltissime mogli (e anche qualche marito): Erin Berger, NancyBrennan, Danielle Calotta, Kristin Gilson, Anna Jarzab, Eileen Kreit, Jen Loja, ElyseMarshall, Janet Pascal, Emily Romero, Leila Sales, Kaitlin Severini, Alex Ulyett, DonWeisberg e da ultimo, ma non certo da meno, il mio editore e amico, il meraviglioso KenWright.

Sono riconoscente a Tamara Glenny, Marjorie Ingall, Stephanie Perkins e MaggieStiefvater per aver letto il libro nelle sue varie fasi e per la generosità dei loro consigliassennati e premurosi.

Sono riconoscente alle amiche della Brooklyn Lady Writer TM con le quali lavoro, bevo(soprattutto caffè), invento e fantastico: Libba Bray, E. Lockhart e Robin Wasserman.Tanto di cappello a Sandy London, anche se è un uomo, e a Rainbow Rowell, Nova RenSuma e Margaret Stohl, anche se non sono di Brooklyn.

Sono riconoscente a tutti gli amici di Brooklyn che mi hanno aiutato a tenere duro:Ann Marie, Brian e Mary Clarke, Kathy Kline, Isabel Kyriacou e Cameron e Jackie Wilson.

Sono riconoscente a Jonathan Steuer per avermi fornito i rudimenti necessari perdestreggiarmi nel mondo dell’informatica.

Sono riconoscente a Justin Rice, Christian Rudder e Corin Tucker per avermi ispiratodapprima con la loro musica e successivamente con la loro generosità.

Sono riconoscente a Lauren Abramo, Deb Shapiro e Dana Spector per avermi aiutatoad ampliare la platea dei miei lettori.

Sono riconoscente a Tori Hill, magico folletto che risolve i guai nottetempo.Sono riconoscente a tutta la comunità che gravita intorno al mondo dei giovani adulti:

autori, bibliotecari, librai. Per citare la grande Lorde: “Siamo nella stessa squadra”.Sono riconoscente a Mike e Mary Gonzales per il loro garbo e la loro generosità.Sono riconoscente a Suzy Gonzales, la scintilla da cui ha preso avvio questo libro.

Avrei preferito conoscere lei di persona, invece del personaggio fittizio che mi ha

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ispirato. I suoi genitori mi hanno detto che quando era viva cercava sempre di aiutare glialtri. Forse continua a farlo anche adesso che non c’è più.

Sono riconoscente a tutte le donne e gli uomini che hanno lottato contro ladepressione, i disturbi dell’umore o altri disturbi psichici e il suicidio, ma hanno trovatoun modo per superare il loro disagio e, ancora meglio, per ritrovare la serenità.

Sono riconoscente a tutte le donne e gli uomini che hanno lottato contro ladepressione, i disturbi dell’umore o altri disturbi psichici e il suicidio, ma non sonoriusciti a trovare un modo per superare il loro disagio e ne sono stati sopraffatti.

Sono riconoscente alla Fondazione americana per la prevenzione del suicidio per il suooperato in favore della guarigione e per aver aiutato tutti noi a comprendere meglioquesta condizione complicata.

Sono riconoscente ai miei genitori e a tutta la mia famiglia – mio fratello e mia sorella,i miei cognati e le mie nuore, le mie nipoti e mio nipote – per il sostegno che mi hannodato in mille modi diversi.

Sono riconoscente a Willa e Denbele per la loro grinta e il loro affetto.Sono riconoscente a Nick per essermi sempre accanto.

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Laggiù mi hanno detto che c’è il soledi Gayle FormanCopyright © 2015 by Gayle Forman, Inc.Italian language rights handled by Agenzia Letteraria Internazionale , Milano, Italy, in cooperation withDystel & Goderich Literary Management© 2015 Mondadori Libri S.p.A., MilanoTitolo dell’opera originale : I Was HereEbook ISBN 9788852069086

COPERTINA || GRAPHIC DESIGNER: SUSANNA TOSATTI | ELABORAZIONE DA FOTO © GETTY IMAGES E © SHUTTERSTOCK

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Indice

Il libroL’autriceFrontespizioLAGGIÙ MI HANNO DETTO CHE C’È IL SOLE1234567891011121314151617181920212223242526272829303132333435363738394041EPILOGONOTA DELL’AUTRICERINGRAZIAMENTI

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