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L’ALTARE DELL’ULTIMO SACRIFICIO

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L’ALTAREDELL’ULTIMO

SACRIFICIO

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PAOLO RODARI

L’ALTAREDELL’ULTIMO

SACRIFICIO

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Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi ana-logia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.

Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI)

ISBN 978-88-566-3050-3

I Edizione 2013

© Paolo Rodari 2013

© 2013 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano www.edizpiemme.it

Anno 2013-2014-2015 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

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«L’empio fugge anche se nessuno lo insegue,mentre il giusto è sicuro come un giovane leone.»

Proverbi 28,1

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È notte inoltrata quando Cindy Person si sveglia sdraia-ta a pancia in su. È adagiata sopra qualcosa di morbido. Non riesce a capire dove si trovi. Intorno c’è soltanto buio.

Prova ad alzarsi, ma il corpo non reagisce ai comandi. A poco a poco gli occhi si abituano all’oscurità e riesco-no a scorgere qualcosa. Alle sue spalle c’è un grande altare addossato a una parete. Reclinando non senza fatica la testa all’indietro riesce a scorgervi sopra un’im-magine che non le è sconosciuta. È l’icona della Ma-donna Salus Populi Romani.

Conosce Roma. E anche le sue basiliche. E sa che quell’icona si trova soltanto in un posto: nella cappella Borghese situata nella navata di sinistra della basilica di Santa Maria Maggiore. Venne fatta costruire da papa Paolo V Borghese nel 1611 proprio per custodire l’ico-na della Madonna che la tradizione vuole sia stata di-pinta direttamente dall’evangelista Luca. Un’icona che i romani portano in processione quando qualche cala-mità si abbatte sulla loro città.

Anche la postura della Madonna, quel suo atteggia-mento maestoso e regale, non le è sconosciuto. E così suo figlio, Gesù, che in braccio a sua madre benedice

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con la mano destra mentre con la sinistra sorregge il li-bro della Nuova Alleanza.

Ha visitato tante volte la cappella, tanto che riesce a riconoscere il grande tappeto ai piedi dell’altare che deli-mita il campo d’azione del prete quando deve dire messa. È il tappeto quella cosa morbida sulla quale è sdraiata. Ciò che le sfugge è perché diavolo si trovi lì e perché non riesca a muoversi.

Ha quindici anni e un fisico allenato da tanto sport. Ma ora il suo corpo sembra quello di una vecchia rat-trappita. Sente il sangue pulsare nelle tempie. Un batti-to fastidioso che improvvisamente accelera quando guarda davanti a sé. Non riesce a vedere le panche sulle quali i fedeli la mattina presto ascoltano messa. E nem-meno la grande cancellata che separa la cappella dalla navata laterale della basilica.

Innanzi a sé scorge soltanto una sagoma scura.Un uomo, o almeno così le sembra, è fermo, immo-

bile.Indossa una lunga talare nera.Un cappuccio gli scende fin sulla fronte a celare il

volto nell’oscurità.«Chi sei?»La voce di Cindy è debole, roca. Lei stessa se ne stu-

pisce. Vorrebbe scappare ma non riesce.La sagoma fa un passo in avanti. Le si avvicina. È in

quel momento che lei si guarda e scopre di essere com-pletamente nuda.

L’uomo si inginocchia ai suoi piedi. Tira fuori un lungo abito bianco come quello che le postulanti dei monasteri indossano prima di fare la professione solen-ne, negli anni che precedono lo sposalizio definitivo con Dio. Guida le braccia e le gambe senza forze di Cindy e l’aiuta a indossare l’abito.

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Poi si adagia sopra di lei e inizia ad accarezzarle i lunghi capelli rossi, segno indelebile delle sue origini irlandesi.

Lei chiude con forza i grandi occhi verdi, ma lacrime di paura riescono comunque a bagnarle le guance. E poi, senza che lei riesca a opporre alcuna resistenza, l’uomo si apre la cerniera dei pantaloni e la penetra con violenza.

Cindy sente il sangue uscire a fiotti. Un dolore lanci-nante la invade. I colpi dell’uomo sono continui e vio-lenti. A ogni affondo il dolore aumenta e si fa più acuto, intenso.

Non può muoversi, non può reagire. La sua carne percepisce tutto, ogni minimo movimento dell’uomo sopra di lei, ma non prova piacere, nessun piacere, sol-tanto disgusto. È un sentimento che presto diviene odio; quell’uomo sta scolpendo dentro le sue viscere un marchio indelebile, uno sfregio dal quale, lo sente, non sarà più in grado di liberarsi.

Cerca di allontanare la testa dall’alito pesante dell’uo-mo che continua ad ansimare sopra di lei ma non vi rie-sce. Istintivamente apre gli occhi e guarda dietro di sé. La Madonna e Gesù sono ancora lì. Ma sono immobili. E non la possono aiutare.

Delle spinte più frequenti e poi l’uomo finalmente si ferma ansimando come un cane a fine corsa.

È finita.L’uomo si alza e Cindy prova a respirare. Ora i suoi

capelli non sono più rossi ma neri. È l’effetto del su-dore. È completamente bagnata per la tensione accu-mulata. Una tensione la cui unica valvola di sfogo sono state quelle gocce di liquido ipotonico uscite incontrol-late dai pori e dai follicoli della pelle.

“Adesso vattene, adesso vattene.”

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La supplica rimane chiusa nella sua mente perché ora Cindy non riesce più nemmeno a parlare.

“Vattene, vattene” implora muta.Ma l’uomo non se ne va. Rimane in piedi e, inaspet-

tatamente, solleva il cappuccio che gli copre il volto.Vuole farsi guardare in faccia.«Mia cara Cindy Person, non ti ricordi di me?»La voce sembra venire da un mondo lontano e sco-

nosciuto.Ma lei la riconosce, come riconosce l’uomo che le sta

innanzi. E il terrore la invade come prima. Anzi, molto più di prima.

Vorrebbe gridare aiuto. E, invece, ancora una volta, nessun suono esce dalla sua bocca.

L’uomo le mostra un lungo stiletto d’argento. Ne ap-poggia la punta acuminata e sottile sulla fronte. Poi sor-ride.

“Adesso se ne andrà. Vuole solo spaventarmi. Ades-so se ne andrà. Vuole solo spaventarmi.”

Ma lui rimane lì, non se ne va.La lama penetra con facilità nella fronte di Cindy

che, per qualche istante, riesce a mantenersi cosciente. Appena lo stiletto le buca la pelle e poi l’osso frontale, una scarica di adrenalina la pervade concedendole un ultimo lampo di lucidità. È in quell’istante che capisce che è tutto finito. E un sentimento di pietà per chi la sta uccidendo prende il posto dell’odio. I suoi grandi oc-chi verdi cambiano espressione, tanto che per un atti-mo l’uomo smette di fare forza sullo stiletto. Sembra confuso. Ma tutto non dura che il tempo d’un battito di ciglia.

Un rivolo di sangue le bagna la fronte e poi il collo. L’uomo spinge fino in fondo la punta del suo strumen-to di morte. Nella tasca della giacca ha un altro stiletto.

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Lo tira fuori e perfora la testa della sua vittima una se-conda volta, spingendo la lama per cinque centimetri dentro la massa cerebrale. Qualche minuto dopo la cir-conferenza cranica della ragazza è contornata da dodici stiletti che, conficcati nel capo, formano una sinistra corona.

Cindy muore.L’uomo la guarda. Si rimette il cappuccio e lascia la

cappella. Il sangue esce copioso dalla testa di Cindy per qualche minuto. Impregna il tappeto. Quindi si secca.

Diverse ore dopo, qualcuno apre il grande cancello in fondo alla cappella.

È mattina presto. Padre John Harris è seduto alla scrivania del suo studio adiacente all’appartamento del papa. Al terzo piano del palazzo apostolico il quaranta-cinquenne prete statunitense lavora in appena dieci metri quadrati. Poco oltre il suo studio c’è la segreteria di stato, il ministero dove opera il meglio della diplo-mazia vaticana.

È giovedì grasso e la chiesa cattolica si sta preparan-do alle celebrazioni che aprono la quaresima. Fuori, la città festeggia il carnevale. Harris è assorto nei suoi pensieri.

Da cinque anni lavora in Vaticano. All’inizio il suo incarico era stato tenuto segreto. Poi non era stato più possibile. I giornali avevano iniziato a scrivere qualsiasi cosa intorno a quel sacerdote americano al quale era stato concesso inspiegabilmente un ufficio a pochi me-tri dalle stanze del papa. E così la sala stampa vaticana si era vista costretta a chiarire.

Era stato il portavoce della Santa Sede, padre Ernest Gerard, a dire ai giornalisti che padre Harris era stato chiamato a supervisionare il lavoro degli addetti alla si-

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curezza, gendarmeria e guardie svizzere insieme, per-ché dopo una serie di attentati dei fondamentalisti isla-mici contro i principali paesi occidentali, il Vaticano aveva ritenuto necessario affidare tutta la propria sicu-rezza a un solo uomo.

Il giorno successivo le parole di padre Gerard, i mi-gliori tra i giornalisti italiani e stranieri incaricati di se-guire le vicende vaticane erano usciti sui propri giorna-li con un profilo dettagliato di padre Harris, in cui una notizia spiccava sulle altre: il prete americano, prima di prestare il proprio servizio alle dipendenze del Vatica-no, «era un agente segreto in forza alla cia».

I giornali avevano ricordato la carriera dell’agente Harris, che quindici anni prima era stato incaricato dal-la Central Intelligence Agency di redigere una mappa completa di tutti i casi di pedofilia nel clero verificatisi all’interno delle diocesi americane.

Una mappa simile non era mai esistita, da nessuna parte. Era stato il Vaticano a chiedere a Washington un aiuto. Non tutti i vescovi delle varie diocesi del paese, infatti, fornivano informazioni corrette al governo cen-trale della Chiesa sui preti pedofili. Molti tendevano a minimizzare il problema. Altri addirittura insabbiava-no volutamente i casi per paura di sfigurare agli occhi non soltanto della Santa Sede, ma anche dell’opinione pubblica.

Per il Vaticano questa situazione era diventata anno dopo anno sempre più ingestibile. Gli scandali, che no-nostante il goffo tentativo dei vescovi di coprirli erano divenuti di dominio pubblico, stavano rischiando di in-fangare direttamente il nome del papa e la cosa andava risolta con un intervento esterno.

Harris aveva impiegato parecchi mesi per tessere i rapporti con le fonti giuste dentro le varie diocesi ame-

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ricane. E alla fine aveva offerto ai suoi capi un report dettagliato che il governo americano aveva girato al Vaticano. Harris era venuto in contatto anche con di-versi cardinali e vescovi residenti a Roma. Ma ciò che nessuno, soprattutto nella cia, si sarebbe mai aspetta-to, era che questi contatti avrebbero lasciato un segno profondo nell’animo dell’agente. In poche settimane Harris, invece di prendere le distanze da una Chiesa che accoglieva in seno una tale infamia, era tornato ad avvicinarsi a quella fede che aveva abbandonato appe-na superata l’età adolescenziale. Il ritorno al cattolice-simo lo aveva poi portato a una conversione totale del-la propria esistenza tanto che, qualche tempo dopo, aveva addirittura chiesto di entrare in seminario. Il giorno in cui era stato ordinato sacerdote a Roma ave-va ricevuto una telefonata direttamente da papa Mi-chele, che lo aveva benedetto e gli aveva chiesto se, prima di tornare negli Stati Uniti per celebrare la pri-ma messa nella sua città natale, avesse potuto passare da lui.

Nel suo appartamento il pontefice, senza tanti con-venevoli, gli aveva chiesto di prendere da subito in ma-no le redini della sicurezza vaticana.

«Ma, Santo Padre, io sono appena diventato mini-stro di Dio...»

«Capisco, caro padre John, ma non vedo una con-traddizione in questo... Mi fido di lei. Tutti qui si fidano di lei, eminenze e clero. Ha lavorato tanti anni nell’in-telligence degli Stati Uniti, so che farà bene. La Chiesa ha bisogno del suo talento e delle sue competenze. A volte i sentieri di Dio sono difficili da capire, mi rendo conto. Lei pensava di tornare nel suo paese e di occu-parsi delle anime di Dio. Ma anche qui, in fondo, farà la medesima cosa. Proteggerà il papa, il Vaticano... un

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incarico non meno nobile, ne conviene? Sono io, Mi-chele, il papa, a chiederle di accettare.»

E Harris aveva accettato.Nel suo ufficio al terzo piano del palazzo apostolico,

seduto alla scrivania guarda il ritratto del presidente americano Harry Truman appeso alla parete di fronte. È stato lui, nel 1947, a creare la cia, rivoluzionando l’Office of Strategic Services nato per la Seconda guer-ra mondiale.

Harris si sofferma spesso a guardarlo, soprattutto la mattina, prima che la giornata piena di impegni lo privi di qualunque momento di relax. Ama reclinare indie-tro la poltrona, incrociare le gambe sulla scrivania e, come faceva quando lavorava a Langley, in Virginia, os-serva il ritratto del capo di stato americano sorseggian-do una grande tazza di caffè lungo zuccherato e mac-chiato.

Il telefono suona pochi istanti dopo che si è seduto. Riceve due linee, una che proviene direttamente dall’ap-partamento del papa, l’altra dal centralino del Vaticano. È la seconda a suonare. Per un attimo pensa di non ri-spondere, ma poi solleva la cornetta.

«Padre Harris, la cerca l’arciprete della basilica di Santa Maria Maggiore, monsignor Simone Boschi. Pos-so passarglielo?»

«Certo, grazie.»La voce del monsignore è trafelata, il respiro affan-

noso. Harris intuisce che qualcosa non va.«Padre è meglio che venga subito qui. Manca ancora

un’ora all’apertura della basilica. Se si affretta riesce ad arrivare per tempo.»

«Cos’è successo?»«È terribile, è terribile...»«Si calmi, monsignore, e mi dica cos’è successo.»

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«Nella cappella Borghese, c’è una ragazza morta. Ha delle specie di chiodi conficcati nella testa. C’è tanto sangue...»

«Si calmi. Tenga chiusa la basilica e non faccia entra-re nessuno nella cappella. Arrivo immediatamente. Ah, una cosa...»

«Mi dica, padre.»«Copra la ragazza. Nessuno deve vederla.»

Harris arriva nella basilica di Santa Maria Maggiore alle sei e trenta, mezz’ora prima dell’orario di apertura. Con lui ci sono Andrea Carrera, capo della gendarme-ria vaticana, e Robert Keller, comandante delle guardie svizzere.

Ordina ai due di ispezionare la basilica, pregando l’arciprete Boschi di accompagnarli.

«Alla ragazza» dice «ci penso io. Da solo.»Trova il cancello della cappella Borghese aperto. Pri-

ma di entrare si ferma per qualche istante. Pochi metri davanti a sé, appena sotto l’altare, c’è il corpo di Cindy. L’odore del sangue è nauseabondo.

Intorno al cadavere nulla sembra fuori posto. Le panche sono ben allineate, una dopo l’altra a guardare nella medesima direzione.

La ragazza è sdraiata a terra, supina, con la testa rivol-ta verso l’altare. I piedi spuntano appena sotto la coperta adagiatale addosso da monsignor Boschi, ma s’intuisce che le gambe sono divaricate.

Harris non vuole avvicinarsi subito. Ha imparato nel-la cia che, quando si vuole trovare qualcosa di utile in un luogo dove si è consumato un delitto, occorre anzi-tutto osservare la scena da lontano. E cercare di lasciar-si colpire dall’insieme che emerge al primo sguardo. Non sono i particolari ad aiutare, è il tutto a parlare.

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Ma vista così la cappella non gli suggerisce nulla. Se non un grande ordine nel quale una cosa sola stona: il cadavere della ragazza.

Fa un passo in avanti.Le si avvicina. Senza indugiare troppo solleva la co-

perta.«Mio Dio. Povera sorella...» dice a voce alta.Non è la prima volta che Harris si trova davanti a un

cadavere brutalmente sfigurato. Ma l’orrore del corpo di Cindy supera ogni sua previsione.

Lo osserva bene, questo corpo. Si tratta di una ragaz-za giovane, vestita da suora, anche se a ben vedere è forse troppo giovane per esserlo davvero.

Il viso è coperto di sangue. Gli stiletti le sono stati conficcati lungo tutta la circonferenza cranica.

Harris fa un passo indietro.Vorrebbe scappare.Ma poi pensa: “Coraggio. Eri un agente della cia,

mica un piscialetto!”.Così torna a osservare il cadavere ragionando a voce

alta.«Quando si vuole trovare qualcosa di utile nel luogo

del delitto occorre osservare da lontano. Cosa vedi da lontano, Harris? Cosa vedi? Vedo un corpo in mezzo a una grande cappella. Esattamente nel mezzo. Anzi, perfettamente nel mezzo. È soltanto una coincidenza?»

Harris sa bene che dove si è consumato un omicidio le coincidenze non esistono. Ogni cosa si trova al pro-prio posto per un motivo preciso. Tutto sta nel com-prendere quale sia questo motivo.

«Chiunque sia stato ad ammazzare questa povera ra-gazza ha deciso di servirsi del suo cadavere per comu-nicare qualcosa. Già, ma cosa? La testa di Cindy punta verso l’altare. Forse l’assassino vuole che si guardi lì?»

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Tutto è come dovrebbe essere. Le candele sono ac-cese. Anche l’icona della Madonna è in ordine, pronta per essere venerata dai fedeli.

«Ho guardato anch’io l’altare, ma non c’è niente fuo-ri posto.»

La voce di monsignor Boschi rompe il silenzio all’im-provviso, facendo sobbalzare Harris.

«Mi scusi, padre, non volevo spaventarla. Anche a me è venuto spontaneo guardare verso l’altare. Co-munque non vi ho trovato nulla.»

«Monsignore, le chiedo di perdonarmi se mi permet-to, ma prima di ispezionare la cappella avrebbe dovuto chiamarmi. È stato poco prudente da parte sua...»

«Ma padre, io sono l’arciprete!» dice Boschi inter-rompendolo. «Sono il responsabile della basilica. Gli uscieri mi hanno chiamato appena hanno trovato il cor-po della ragazza. Erano sconvolti. Mi è sembrato dove-roso avvicinarmi.»

«Gli uscieri sono entrati anche qui dentro?» chiede Harris sorvolando sulle parole dell’arciprete.

«Che io sappia no. Mi hanno detto che appena han-no aperto il cancello della cappella e hanno visto il cor-po sono scappati impauriti.»

«Va bene, lasciamo stare. Piuttosto mi dica, monsi-gnore, davvero le sembra tutto a posto?»

«Mi pare di sì.»Harris è attratto dall’icona della Madonna. Si avvici-

na e la osserva con attenzione. È protetta da un vetro molto spesso. Si trova qualche metro al di sopra del piano dell’altare.

Di colpo Harris si gira verso Boschi.«Monsignore, il vetro che copre l’icona è stato aper-

to da poco.»«Come?»

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«Guardi qui. Ai quattro angoli mancano le viti di so-stegno.»

«In effetti è strano, ci sono sempre state.»Harris si avvicina all’icona.«Qualcuno ha tolto il vetro e poi l’ha rimesso al suo

posto. Ora è semplicemente appoggiato. E si è portato via le viti.»

«Che senso ha tutto questo?»«Forse chi ha ucciso la ragazza vuole che apriamo

questo vetro. Presto, faccia portare una scala.»È Harris ad arrampicarsi e a smontare, senza parti-

colari difficoltà, il vetro di protezione. Lo appoggia per terra e poi si avvicina all’icona.

Non gli è difficile notare incisa in alto a destra una frase che lo lascia interdetto.

La prima parte della tua volontà oggi ho fatto, perché sei tu il mio Dio.

Legge le parole ad alta voce.Nella cappella sono arrivati anche Carrera e Keller.

Tutti guardano verso di lui con aria interrogativa.«Purtroppo, signori, non ne so più di voi. Ignoro il

significato di queste parole. Monsignore, quanto man-ca all’apertura della basilica?»

«Dieci minuti.»«Presto, portiamo fuori il corpo della ragazza. Lei,

monsignore, dica agli uscieri di chiudere la cappella. Faccia stendere un telo sul cancello in modo che nessu-no possa guardare dentro. E faccia scrivere fuori: “La-vori di manutenzione in corso”. Lasci un usciere a sor-vegliare che nessuno curiosi. Manderò qualcuno di fidato a ripulire bene ogni cosa. Ricordi agli uscieri che, come dipendenti della Santa Sede, hanno l’obbligo di mantenere il segreto su quanto hanno visto. Pena il li-

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cenziamento immediato. Mi sono spiegato? La ragazza la porto via io. Nessuno deve sapere nulla di quanto avvenuto.»

«Ma padre... non è possibile... dobbiamo chiamare le autorità italiane.»

«Monsignore, come lei sa bene il Santo Padre mi ha affidato la sicurezza di tutto il territorio vaticano, oltre che della sua persona e di coloro che vi lavorano dentro. Così ho deciso. È nei miei poteri e so che lei non obiet-terà. Quanto alle autorità italiane, le informerò certa-mente, ma a tempo debito. Adesso forza, sono quasi le sette. Carrera, Keller, chiamate in Vaticano. E fate veni-re immediatamente qui l’“extra ecclesiam”. Ma non spiegate perché ne avete bisogno. Lo voglio qui entro quindici minuti.»

Lupo Pagani ha trentacinque anni ed è giornalista da quattro. Ha scritto sempre solo e soltanto di vicende vaticane. Come e perché abbia deciso, a trentuno anni, di dedicarsi al vaticanismo resta un mistero. Come un mistero rimane cosa abbia fatto prima di allora.

Si sveglia tutte le mattine prestissimo. Non ama dor-mire. La notte lo agita. Si tranquillizza soltanto quando il sole torna a sorgere con la sua potente carica di luce.

I 155 cavalli della sua Ducati Streetfighter mangia-no l’asfalto della capitale. Sta puntando verso il cen-tro. È abituato a sedersi con la mazzetta di giornali freschi di stampa alla caffetteria di piazza di Pietra, prima che venga presa d’assalto. E lì decidere quale pezzo proporre, poco dopo, al suo direttore. È un rito, quello della lettura dei quotidiani al bar nelle prime ore del giorno, che gli hanno insegnato in famiglia quando era piccolo e che nulla ha a che vedere col fatto che è diventato giornalista.

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«Un uomo la mattina presto legge i giornali» gli dice-va sempre suo padre. «Se non lo fa, non è un uomo ma un ignorante.»

Alla fine di via Merulana la Streetfighter piega bru-scamente a destra e poi a sinistra, seguendo le due cur-ve a novanta della strada che costeggia il sagrato della basilica di Santa Maria Maggiore. Quindi si raddrizza, pronta, dopo una leggera curva a sinistra, a lanciarsi a tutto gas nel breve rettilineo in discesa che arriva a in-crociare via Cavour.

Quando passa a fianco della porta della sagrestia del-la basilica, Lupo nota con la coda dell’occhio qualcuno che gli pare di conoscere. Prosegue oltre. Cerca di fo-calizzare il volto che ha attirato la sua attenzione. Quan-do vi riesce non fa altro che girare intorno alla basilica e tornare più in fretta che può all’ingresso della sagre-stia.

“Cosa diavolo ci fa lo sceriffo qui a quest’ora?” si domanda.

Lo sceriffo, così i vaticanisti usano chiamare l’ex agente della cia, è padre Harris.

Lupo si ferma poco distante. Osserva Harris. È solo. Ma a un certo punto il cancello a fianco alla sagrestia si apre. Esce un pulmino nero. Riconosce alla guida Car-rera. Al suo fianco, nel posto del passeggero, c’è Kel-ler.

Harris fa cenno a Carrera di avanzare lentamente. Si guarda intorno e poi, aperto il vano posteriore, sparisce dentro il furgoncino che, con evidente fretta, lascia la basilica.

Lupo apre il gas della Ducati. Protetto dal casco in-tegrale che lo rende irriconoscibile si mette a seguire i tre uomini, mantenendosi a debita distanza. Al semafo-ro di via Cavour, riesce a leggere la targa del furgoncino.

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Una sigla che conosce bene: scv, ovvero Stato della Cit-tà del Vaticano.

Ciò che non sa è che il furgoncino è un mezzo in dotazione esclusiva degli uomini della sicurezza vati-cana. Secondo un accordo stipulato con le autorità ita-liane, può circolare in tutta Roma senza limitazioni. Può entrare nel centro storico, transitare all’interno delle corsie riservate ai mezzi pubblici. Perfino par-cheggiare dove è vietato. Gli uomini della sicurezza lo chiamano “extra ecclesiam” perché serve loro princi-palmente per i servizi più delicati da svolgere fuori le mura leonine.

Lupo ignora tutto questo. Ma sa benissimo che Har-ris, Carrera e Keller che escono alle sette e quindici del mattino dal retro della basilica di Santa Maria Maggio-re nascondono qualcosa che potrebbe anche suonare come una notizia, se non, chissà, addirittura uno scoop.

È questo il suo principale interesse da mattina a sera: trovare uno scoop degno di questo nome. Scoprire pri-ma degli altri una grande notizia da scrivere, da sbatte-re in prima pagina con tanto di titolo a effetto.

Via Cavour è ancora deserta. Il furgoncino non ha modificato la sua lenta andatura. Supera i fori romani e piazza Venezia. Imbocca corso Vittorio Emanuele per poi puntare, almeno così sembra, verso il Vaticano. Ma all’altezza di Ponte Vittorio gira a destra e percorre il Lungo Tevere. All’altezza di Ponte Umberto I attraversa il Tevere girando poi di nuovo a sinistra in direzione di Castel Sant’Angelo. Qui rallenta, entra in piazza Adria-na e si ferma davanti a un cancello laterale del castello.

Lupo si mantiene a distanza. Un gendarme vaticano è sul posto. Sembra aspettare il furgoncino. Saluta Car-rera e Keller e apre il cancello. Lupo fa in tempo a ve-dere che l’“extra ecclesiam”, invece di parcheggiare,

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affronta una discesa che entra direttamente nei sotter-ranei del castello.

È indeciso. Il motore della Ducati ruggisce pronto a esplodere. Ma Lupo lo fa tacere. Infila le chiavi della moto in tasca. Si toglie il casco che assicura alla sella e si allontana. Inizialmente cammina lentamente, come pensieroso. Poi aumenta il passo fino a correre.

Corre oltre piazza Adriana, verso ponte Sant’Angelo. Corre con disinvoltura, allenato dalle massacranti se-dute di jogging alle quali con masochismo si sottopone soprattutto di sera. Corre finché non incrocia alla sua sinistra il ponte. Alla sua destra, invece, c’è la porta principale del castello, alta e maestosa.

La osserva per qualche istante in silenzio. I battenti chiusi a doppia mandata sembrano ricambiare il suo sguardo. “Mi state respingendo o al contrario invitan-do a entrare?”

Per il carnevale il Comune di Roma ha deciso un’apertura straordinaria dei suoi musei e dei suoi principali monumenti, tra questi Castel Sant’Angelo. Accolgono i turisti dalle sette e trenta del mattino fino alle ventidue della sera, senza interruzioni.

Lupo arriva alla porta del castello giusto alle sette e trenta quando, in coda alla biglietteria, ci sono soltanto dieci persone. Quando è il suo turno, tira fuori il tesse-rino da giornalista che gli permette di entrare senza pa-gare.

Appena varcata la soglia due occhi lo scrutano. Qualcuno lo sta fissando da pochi metri di distanza. Un brivido gli sale lungo la schiena quando si volta.

Gli occhi del busto marmoreo del xv secolo raffigu-rante Cristo Salvatore lo stanno osservando con aria ine-spressiva. Da secoli, questi occhi osservano tutti coloro

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che accedono al castello. Lupo tira un sospiro di sol-lievo. Ma al posto di procedere oltre, si ferma. Il busto, infatti, sembra volerlo interrogare.

“E adesso cosa pensi di fare, giornalista?”Lupo osserva la scultura e a quel punto si rende con-

to di non avere un piano. Pochi istanti prima ha corso come un pazzo fino all’ingresso, ma un conto è entra-re, un altro scendere nei sotterranei e scoprire cosa dia-volo siano andati a fare lì sotto lo sceriffo e i suoi sot-toposti.

Si sente uno stupido. Non sa dove andare. Non sa cosa fare. È consapevole di quanto questi edifici siano protetti e vigilati. Impossibile entrare dove non è di-chiaratamente consentito. Castel Sant’Angelo poi ha un’amministrazione particolare. Su di esso vigilano non soltanto le autorità locali ma anche gli uomini della si-curezza vaticana. E non è un dettaglio da poco.

Ricorda bene quella volta che aveva provato a supe-rare dei gendarmi che stavano facendo da scudo al pa-pa mentre saliva in macchina nel cortile di San Damaso. Gli era arrivato un montante in faccia che gli aveva fat-to sanguinare il naso per venti minuti. Ricorda che avrebbe voluto reagire e lanciarsi addosso alla guardia che l’aveva colpito senza pietà, ma un collega lo aveva trascinato via di forza: il gendarme era grosso tre volte lui. «Sei matto? Questi t’ammazzano» gli aveva detto.

Lupo sente ancora su di sé gli occhi di Cristo che lo guardano e lo interrogano.

“Dove pensi di andare, giornalista? Non hai nemme-no un piano, sei ridicolo.”

“Non vado da nessuna parte. Da nessuna parte.”E con un lungo sospiro che suona come una resa, fa

per tornare sui propri passi.Ma in quell’istante un ricordo si fa spazio nella sua

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mente. Aveva dodici anni. Suo nonno, archeologo di discreta fama, lo aveva portato a visitare Castel Sant’An-gelo, con quella galleria elicoidale che poco oltre l’en-trata del castello compie, salendo fino al primo piano, un intero giro delle mura cilindriche della fortezza. La rampa s’interrompe quando un’altra rampa, questa volta rettilinea, conduce fino alla Sala delle Urne. Qui, dove sono conservate le ceneri dell’imperatore Adria-no, di sua moglie Sabina e del loro figlio Elio Cesare, c’è una lapide incassata in una delle nicchie laterali che riporta le parole rivolte da Adriano alla sua stessa anima.

Piccola anima smarrita e soave,compagna e ospite del corpo,ora t’appresti ad ascendere in luoghiincolori, ardui e spogli,ove non avrai più gli svaghi consueti.Un istante ancoraguardiamo insieme le rive familiari,le cose che certamente non rivedremo mai più.Cerchiamo di entrare nella morte a occhi aperti.

Il nonno amava stupire il nipote. Così cercava sem-pre di avvicinare Lupo al gusto della scoperta, della ri-cerca, al mistero che le cose antiche portano con sé.

«Pensa Lupo,» gli aveva detto «qui dentro circa due-mila anni fa venne seppellito l’imperatore Adriano. Sua moglie e suo figlio lo seguirono fin qui per l’ultimo sa-luto. Questa sala ha tanti segreti, lo sai? Guarda qui.»

Il nonno si era piegato sulle ginocchia e si era guar-dato attorno con aria circospetta. Non c’era nessuno nella sala oltre loro due. In basso, sulla parete davanti alla lapide, c’era un’apertura chiusa da una grata. Ave-va tirato fuori un cacciavite. Aveva sfilato le quattro

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viti di fissaggio e senza dire una parola era sparito nel buio.

«Lupo, non temere.»La voce del nonno era sembrata arrivare da lontano.«È un tunnel segreto che porta giù nei sotterranei del

castello. Non si sa perché l’imperatore lo abbia fatto costruire. Una leggenda vuole che avesse nascosto nei sotterranei un tesoro per i propri familiari e che soltan-to a loro avesse confidato l’esistenza del tunnel. Ma è solo una leggenda, il tesoro non è mai stato trovato.»

Lupo aveva ascoltato la voce del nonno a bocca aperta.

«Nonno, dove sei?»«Non temere figliolo, eccomi.»E come un’anguilla era riemerso dall’apertura.«Tu non entrare, sei ancora troppo piccolo» gli ave-

va detto.Da quel giorno Lupo non era più tornato nella Sala

delle Urne. Ma ora, proprio mentre sta per lasciare il castello, il ricordo di quell’episodio lo blocca sulla so-glia e lo spinge a tornare indietro, a salire lungo la ram-pa elicoidale, e poi oltre, fino a quel luogo di cui gli è rimasto il ricordo.

Ora sa dove andare. Ora sa cosa fare.La Sala delle Urne è vuota. Non c’è nessun turista. È

solo. Nessuno è di guardia. E come il nonno anni pri-ma, si inginocchia per terra guardandosi in giro con fare circospetto, prima che il buio lo inghiottisca.

Lara Simoni si sveglia in un grande letto che non ri-conosce immediatamente. Poi riesce a ricordare. Si tro-va a casa di Lupo Pagani, il giornalista del settimanale «La Nuova Opinione» al quale per mesi ha fatto, senza successo, una corte soffocante. Bigliettini lasciati sul

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manubrio della moto, sms, mail, appostamenti sempre finiti in un nulla di fatto.

La sera prima, invece, tutto è di colpo cambiato. Lu-po è uscito dalla redazione del suo settimanale verso le nove di sera. Ha parcheggiato la Ducati vicino a piazza Barberini ed è entrato nella libreria di via Veneto, tanto per curiosare un po’ tra le novità. Lara passava di lì per caso. L’ha visto entrare in libreria e l’ha seguito. Nono-stante pensasse di non avere alcuna chance l’ha invitato a bere una cosa in un bar lì vicino.

Detesta corteggiare, inseguire, fare il primo passo. È abituata a essere inseguita, non il contrario. Il solo pen-siero di dover fare lei la prima mossa la fa rabbrividire di vergogna e, insieme, la irrita. Ma con Lupo è diverso. Lui è molto più grande di lei. È riservato, timido, spesso sta da solo. È come se fosse distaccato da tutto e da tutti, e questo suo continuo isolarsi è divenuto per lei un’at-trazione alla quale non sa resistere. “Qual è il tuo miste-ro, Lupo Pagani? Perché non ti lasci mai catturare?”

Lara sogna di fare la giornalista. È nata e vissuta ne-gli Stati Uniti, figlia di un diplomatico italiano per di-versi anni di stanza a Washington. Quando suo padre si è trasferito a Roma lei lo ha seguito e, appena finita l’università, ha iniziato a mandare dei pezzi dall’Italia per il «Washington Post» il cui direttore è un caro ami-co di famiglia.

«Perché non mi mandi qualcosa sul Vaticano? Prova a intervistare un cardinale importante che abbia voglia di parlare del rapporto sempre problematico della fede rispetto alla contemporaneità. Qualcuno che accetti di parlare dei problemi dei divorziati risposati, dei gay che si professano cattolici e che chiedono il riconoscimento delle proprie unioni, dei tanti che pensano che la Chie-sa sia indietro di un secolo rispetto alla vita reale... In-

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somma, trovami qualcosa di forte, qualcosa che faccia notizia» le ha detto un giorno il direttore.

È per questa richiesta che si era avvicinata la prima volta a Lupo, all’interno della sala stampa vaticana. Aveva provato a chiedergli un aiuto per contattare un cardinale che gli sembrava degno di un’intervista.

«Proprio non so come aiutarti, mi spiace» era stata la risposta di Lupo, che era uscito dalla sala stampa senza aggiungere altro.

Da quel momento lei ha iniziato a tenerlo d’occhio. Da lui non ha voluto più nessun aiuto. Lo ha pedinato soltanto per un motivo. Era attratta da lui. Senza cono-scerlo, senza sapere nulla di lui, senza praticamente es-sere mai riuscita a parlargli. È strano, non le era mai capitato con questa violenza.

Nella libreria di via Veneto Lupo l’ha guardata a lun-go in silenzio.

«Perché mi pedini?» le ha chiesto.«Perché mi piaci» le ha detto Lara stupendosi lei

stessa di una risposta tanto ridicola. Con Lupo, senza volerlo, è sfacciata. Quasi grossolana.

«E poi perché voglio invitarti a bere una cosa con me.»

«Cosa bevi?» le ha chiesto Lupo mentre lei già pen-sava di vederlo andare via senza aggiungere altro.

«Quello che bevi tu» gli ha risposto, maledicendo ancora una volta quel suo essere così banale.

«Andiamo» è stato l’invito di Lupo che, avvicinan-dosi alla sua Ducati, le ha offerto un casco.

Per lei è stato uno shock. Si era talmente assuefatta al corteggiamento senza risultati che questa risposta l’ha spiazzata. Ha barcollato, ma non si è lasciata sfuggire la preda.

Lui non ha detto più nulla. Ha fatto sedere Lara die-

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tro di sé e ha guidato la moto fino a piazza del Popolo. Lei si è aggrappata ai suoi fianchi e lui l’ha lasciata fare. In piazza ha parcheggiato e ha fatto accomodare Lara in un bar coi tavolini sul marciapiede. Il bar era come sempre pieno di turisti pronti a farsi spennare per una bibita bevuta con vista sulle antichità di Roma. Ma Lu-po ci ha nemmeno fatto caso. Ha ordinato due bicchie-ri di vino bianco ghiacciato, uno dei migliori.

La serata è proseguita a piedi per le strade del cen-tro, con soste in altri locali a bere e a mangiare. Ovun-que ha offerto Lupo, ribaltando le carte in tavola. È stato lui a portare in giro lei, non viceversa.

Hanno parlato di Roma, degli Stati Uniti e Lara si è soffermata molto a raccontare come sia diverso vivere a New York piuttosto che a Roma. Lupo non le ha chie-sto nulla in merito né ha mostrato d’essere interessato all’argomento, ma lei ha parlato per ore senza quasi mai prendere fiato. Nessuno dei due si è sbilanciato con do-mande troppo personali.

Poi sono tornati alla moto. Lupo le ha offerto ancora una volta il casco. L’ha portata a casa sua, un bilocale con un grande letto matrimoniale. Lara è salita in casa piuttosto brilla. Non è abituata, infatti, a bere così tan-to e quella sera ci ha dato dentro.

«Arrivo subito» le ha detto Lupo, prima di andare in cucina a prepararle un ultimo cocktail.

Ma lei, su quel letto soffice e confortevole, si è lascia-ta andare addormentandosi in pochi istanti contro la propria volontà.

Lupo l’ha guardata a lungo prima di decidere cosa fare. È stato quasi tentato di svegliarla, ma poi ha deci-so di agire diversamente: l’ha coperta, si è sdraiato sul divano e di lì a pochi minuti ha ceduto anche lui alle lusinghe di Morfeo.