L'Amore Del Figlio Meraviglioso -

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    GraficaNino Melewww.imagomultimedia.it 

    © 2011, Edizioni Il MaestraleRedazione: via Monsignor Melas 15 - 08100 Nuoro Telefono e Fax 0784.31830E-mail: [email protected]: www.edizionimaestrale.com

    ISBN 978-88-6429-194-9

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    Bachisio Bandinu 

    L’amore del figliomeraviglioso

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    Capitolo 1

    Il Principe navigava col suo yacht al largo delle coste nord-orientali dellaSardegna. Un pomeriggio di fine estate giunse in vista delle coste della Gallura:una visione mirabile lo affascinò. Cerchi d’acqua smeralda entravano arinchiudersi nel grembo della terra. Le spiaggette ritagliate tra scogliere di graniterano rosa come cerbiatti, anse inondate di luce, colori esaltati dalla trasparenzadel mare e dai riflessi delle rocce. La terra verde cupa della macchia mediterraneaera screziata di bianchi graniti stemperantesi nel rosa. Sulle cime delle colline,

    cupole e castelli di rocce, creste resegate e massi cavi. Disegni, volumi, colori inun’arcaica solitudine. Il paesaggio era il tempo, un corpo geologico disteso nellafissità preistorica. Nessuna presenza dell’uomo. Il cervo, il muflone e l’aquila, la volpe, il cinghiale e il gatto selvatico; alberi di ginepro e di olivastro; arbusti dicorbezzolo e di lentisco, cespugli di erica e rosmarino.

    Quella terra non era abitata dall’uomo. Il Principe volle che fosse sua e lachiamò Costa Smeralda .

    Priamo Solinas non sopportava questa favola turistica, una cantilena

    mormorata dalle sirene del mare, da gente che osserva la terra dalla linea dellacque. – La terra va misurata col piede e col passo, – ripeteva, – per sentire la pietra

    affiorante e l’intrico dei cespugli, per sentire la zolla indurita nel giaciglio dellanotte al seguito del gregge.

    Della terra il capraro conosceva il volto e il grembo, la durezza contorta delginepro che fa nodo per condensare il tempo, le radici del lentisco che siinsinuano nella spaccatura della pietra, la vena d’acqua che s’interra alla primacalura dell’estate.

    Il mare non ha radici né confini, si perde nella sua liquidità. È infido perchénon è di nessuno. Naviganti sbattuti nell’abbraccio dell’insenatura avevanoraccontato dell’inganno delle acque.

     – Sulla terra noi viviamo, – insisteva Priamo Solinas alzando la voce contronemici immaginari, – ed essa è ferma, ha confini e ha un padrone.

    E cos’è quest’altra storia della “terra miracolosamente dimenticata dove iltempo si è fermato”!

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    Non si ferma il tempo, procede col suo ritmo inesorabile e accumula memoriaper dare senso alla vita. Il presente inquieto scruta quel tanto di futuro che toccala famiglia e l’ovile.

     Monti di Mola  si chiama questa terra ed è terra abitata dagli avi e ha la memoria

    della pietra, terra che racconta storie di eredità e conferma lunghe discendenze. – Qui ho conosciuto mio nonno, patriarca di queste cussoggj  che raccontava disuo nonno, compagno di Giuseppe Garibaldi nelle battute di caccia durantel’esilio di Caprera. – Da millenni e ancora oggi il nuraghe Albùcciu sfida il cielo ela violenza della luce. I grandi massi, rivestiti di muschi e licheni, hanno preso icolori del tempo.

    Gli antichi abitanti della Gallura si recavano presso la Tomba dei giganti   di LiLolghi e giacevano ai piedi della stele per i riti di incubazione, per ricevere neisogni i messaggi dei padri e per guarire da mali mortali.

    Non basta incidere su una pietra il nome Costa Smeralda   per cancellare lamemoria di Monti di Mola. Costa Smeralda  è nome d’acqua e viene dal mare, dicedi un colore e di un approdo.

     Monti di Mola  è voce che risuona nell’oralità del tempo, rimbalza sulla crestadelle rocce, sprofonda nell’abisso della valle, s’interra nelle radici dell’olivastro. Ènome di terra, nato dalla qualità della pietra con cui si facevano le mole permacinare il grano e per affilare le lame dei coltelli.

     – Monti di Mola, – ripeteva il capraro rimarcando la sonorità delle sillabe esentendo la parola impastata di materia vibrante: l’eco gli restituiva la voce dagliincavi delle rocce dove fanno il nido le civette e dove si allunga distesa la biscia al

    sole di primavera.

    Priamo Solinas portava le capre al pascolo dei germogli di mirto quando vide veleggiare le barche dai lunghi alberi. Una barca si staccò dal grande veliero equattro uomini approdarono sull’ansa di mare, parlavano in italiano e in unalingua straniera e facevano gesti come per delimitare un arco di costa e indicando verso l’entroterra il rialzo della collina. Il capraro stava nascosto dietro unamacchia di lentisco, ascoltava brandelli di discorso ma senza capire che cosadavvero volessero e che interesse avessero per quelle lande deserte.

    Degli uomini vennero dal mare e approdarono nelle coste della Galluraportando fiori di loto. Fu stravolta la memoria delle persone e delle cose. Quellaterra della più squallida povertà fu scelta per costruire il paradiso turistico.

    Egli aveva ascoltato i racconti delle vendite dei terreni, storie d’ingenuità e diastuzie. Suo cugino Salvatore gli chiedeva consiglio sull’opportunità di vendere iterreni di Capriccioli.

     – Cinquanta milioni di lire mi vogliono offrire, una somma che fa girare il

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    cervello. Tu le conosci bene quelle terre di pietre e cespugli e senza acqua perabbeverare il bestiame.

     – Se te la senti di vendere l’eredità, fallo pure, d’altronde tu non hai figlimaschi e hai una certa età, su quelle terre non c’è futuro di famiglia e poco ti

     verrebbe dagli affitti . – Mi sistemo per tutta la vita, potrei comprare degli appartamenti a Olbia e aSassari, far studiare le due figlie e vivere senza problemi.

     – Salvatò, sei tu a decidere, ma non farti ingannare dal mediatore, se ti offronocinquanta milioni, tu devi chiedere di più, puoi fissare il prezzo in ottanta milionio non se ne fa niente.

     – E se perdo l’occasione! Non posso tirare troppo la corda. – Le terre stanno lì, non si muovono! Sono loro che verranno da te.

    In Arzachena le notizie delle vendite dei terreni si inseguivano in un gioco diinganni e di fortune, chi non aveva saputo attendere, già si pentiva, chi giocavaalrialzo temeva di essere escluso. Si era diffusa la notizia della venditadell’isolotto di Mortorio, quarantotto ettari, per poco meno di quattro milioni dilire, poche lire a metro quadro.

    La gente si chiedeva quanto valesse un ettaro di sterpaglie e di pietre affioranti.Un campione senza valore, eppure l’offerta è di molti milioni: una somma senzamisura per il capraro gallurese che aveva tutta l’economia domestica nelripostiglio di una cassapanca.

    Era nata la metafora dei soldi portati dal vento di levante.

    Il denaro era uno spiritello che percorreva i sentieri di euforbia e artemisia erimbalzava perturbante di stazzo in stazzo gettando una luce abbagliante sullacollina che scende alle spiagge di perla.

    Il paesaggio fu toccato da un incantesimo: le rocce di granito si trasformaronin pietre preziose, gli scogli divennero statue, il mare si fece smeraldo, i cespuglimandavano un profumo di erbe officinali. Un effetto di magia rese il maredolcissimo e il litorale divenne un susseguirsi di calette ritagliate ad arte.

    Per il borgo di Arzachena serpeggiava una parola magica: li milioni , e un’altrache incuteva persino timore, li milialdi . Priamo Solinas aveva sentito queste parolesussurrate per le strade del paese, esorcizzate in chiacchiere sospettose nei bar enei negozi. Poi queste parole attraversarono le soglie delle case creando fantasmidi luce e ombre di invidia.

    Quant’è un miliardo? È una cifra che procura sgomento perché fuori dallastima di una contabilità locale. Tremila anni di differenza separano la pastoriziadella sussistenza dalla raffinata economia del turismo.

    Così lo scambio avvenne nella dimensione del dono. I pastori credevano di

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     vendere pietre, i compratori sapevano di acquistare smeraldi.Il capraro ha chiesto: a che serve questa terra? “A niente,” gli hanno risposto.

    “E allora perché la comprano?” “Per le vacanze di uomini miliardari, pertrascorrervi il loro tempo libero.”

    Priamo Solinas non intendeva il senso di queste parole perché sapeva che iltempo non è mai libero, occupato com’è a logorare persone e cose. E il temponon è leggero perché sopporta il peso del vivere.

    Eppure le parole si diffondevano con l’insensatezza della novità. Si parlava di“natura vergine”, di “terre non toccate dalla storia”, di “paradiso terrestre”.

     – La natura è madre e matrigna, – replicava il capraro, – ogni anno apriamosolchi che si chiudono dietro di noi, nel suo ventre gettiamo semi propiziandospighe con formule d’augurio. E quando l’erba si fa grano, temiamo l’ariasoffocata del sud e coltiviamo speranze con i venti freschi di ponente. Sempre vigili a scrutare il volto enigmatico del tempo.

    Non riusciva a comprendere come potessero esserci uomini padroni deltempo, capaci di sezionarlo, di renderlo libero e offrirlo in dono, di confezionarloe immetterlo nel mercato. Ma anche padroni dei luoghi, capaci come sono ditrasformare la località di L’unfarru , l’inferno, nell’Eterno paradiso. In paese sidiceva: “Patroni di li dinà, di lu tempu e di lu locu.”

    Priamo Solinas aveva ereditato quelle terre da immemorabili generazioni. Lostazzo è il mondo e la vita è il destino. Fare il pastore non è un mestiere, è unmodo di vivere. Un uomo e un gregge in un territorio aspro e avaro. Pochi glioggetti e tutti essenziali. Oggetti di legno e di pelle, di osso e di pietra, modellati

    in lunghe ore senza costo. Sul pianoro liberato dai cisti si semina orzo e granoper le provviste annuali: pane assicurato per un anno. Aveva sposato Grazia Mura, bella come lo è una ragazza di vent’anni, educata

    a essere buona massaia per il governo della casa. Una vita di lavoro dedicata allafamiglia, con l’orgoglio di mantenere agli studi due figli: al primogenito Battistafu chiesto di farsi onore, prima al liceo classico di Olbia, poi, grazieall’interessamento del parroco, all’Università Cattolica di Milano. Anche Andrea,il secondogenito frequentava l’Istituto Ragionieri di Olbia; il padre l’avrebbe voluto con sé nello stazzo per onorare l’eredità delle terre ma la madre volevasottrarlo a una vita dura e incerta. Caterina, come nella tradizione, era destinata

    ad aiutare la madre nella faccende domestiche. Aveva fatto le scuole elementari enell’attesa dell’età di matrimonio, non le sarebbe mancato un buon giovane dipari famiglia.

    Priamo Solinas aveva il dono della poesia, poeta improvvisatore, cantava neipalchi dei paesi della Gallura, apprezzato per la sua voce tenorosa e per la

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    singolarità delle metafore che sapevano giocare con la rima.Nella festa di Santa Maria, patrona di Arzachena, per la gara poetica fu

    sorteggiato il tema Pastorizia e Turismo.Il poeta rivale, Ettore Decandia, nell’ottava di apertura cantava le meraviglie

    del turismo creando la metafora dell’angelo che annunzia la gioia del tempo diavvento, promessa di riscatto e di salvezza. Ma Priamo Solinas ribatteva che il volto del tempo non ci è dato conoscerlo e che le voci più suadenti possonoessere messaggere di inganni, annunci portati dalla furia del vento malo. Decandiacostruiva strofe di lode per la nuova festa del turismo, festa del sole, dell’acqua,festa continua del giorno e della notte e dava ai versi un ritmo concitato peresprimere il precipitare del piacere e per cantare il corpo in gloria dell’estasituristica. Priamo Solinas, scandendo le parole, diceva che la nuova festa è unafesta senza santo, senza preghiera e senza promessa, tempio senza ex voto e chenon si poteva rubare al tempo breve dell’estate il godimento che appartiene alcalendario della vita.

    Decandia incantava gli ascoltatori paragonando il denaro a un ballerino cheinvitava tutti alla danza della felicità ed elaborava la metafora del volo di farfalleche succhiano nettare dai fiori e volteggiano nella gloria dei colori. PriamoSolinas avvertiva che il denaro muove il ballo dell’àrgia, il ballo tarantolato disette donne nubili, sette maritate e sette vedove che roteano, come baccantiscomposte, per far sorridere il malcapitato e liberarlo così dalla cupa malinconiadel male.

     Al rivale che rendeva grazie ai nuovi venuti per i loro doni milionari,

    rispondeva che il dono nasconde spesso la forma dell’inganno perché non si fa intempo a conoscere la verità delle cose, perché è difficile capire quando il filo deltempo fa i nodi e come il ragno tesse la rete della seduzione.

    L’avversario aveva concluso l’ottava con un verso applaudito: «Cu lu dinà poicumparà lu mundu».

    La risposta cantava: «Con lu dinà poi cumparà lu mundu/ ma la felicitai è in lucori/ no è cosa da spaccià in lu malcatu».

    Fu Priamo Solinas a rompere l’incantesimo dello scambio dei doni: il caprarosi rifiutava di vendere le sue terre, essenziali al costituirsi dell’impero turistico. Leterre non le voleva vendere perché ereditate dagli avi: i terreni sono dei vivi ma

    appartengono ai morti.Il borgo di Arzachena era in subbuglio. Correva voce che Karim Aga Khanstesse acquistando le terre sul mare che vanno da Cala Liscia Ruya fino al golfo di Arzachena, una quarantina di chilometri di costa. Già molte famiglie avevano venduto o stavano per vendere i terreni aridi del litorale a prezzi ben più altidelle terre fertili della pianura.

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    La morte di John Kennedy e di Papa Giovanni XXIII erano notizie chearrivavano da fuori, da un mondo lontano.

    La voce delle compere milionarie invece serpeggiava in ogni casa del paese. Imediatori locali erano uccelli rapaci a caccia di pastori possessori di terre sul

    mare, per convincerli a vendere le pietraie della speranza. Anche Priamo Solinas fu contattato per i terreni di Monti di Mola, proprioquelli che scendono nella grande ansa del porto naturale. Ma il capraro chiudevaogni contatto con una risposta secca:

     – Le terre non le vendo perché non sono mie, sono di mio padre, di miononno, dei miei avi.

     Alle ripetute profferte confermava il suo diniego: – Non posso vendere la mia vita, non posso cancellare il tempo della memoria,

    l’eredità è una catena che fa la nostra storia.Sennonché quelle terre erano indispensabili per realizzare il disegno turistico

    della Costa Smeralda perché si estendevano fino a quel lembo di mare in cui sidovevano costruire il porto dei panfili, l’Hotel Cervo e la villa del Principe.

    Battista, rientrato da Milano, proponeva di vendere una parte dello stazzo esfruttare poi la valorizzazione degli altri terreni. Intanto aveva spiegato che cosadavvero stava avvenendo in Gallura con gli investimenti turistici. Raccontava chei capitali dell’ex Congo belga, i finanzieri della Banca mondiale e Karim AgaKhan con un gruppo di industriali avevano deciso di investire ingenti capitalisulla costa nord-orientale della Sardegna. La Costa azzurra era ormaicongestionata, nella ricerca di spiagge deserte, la scelta cadde sulle coste aspre e

    frastagliate del golfo di Arzachena. Si parlava di un investimento di ottocentomiliardi di lire.Priamo Solinas fu contattato una seconda volta. Il mediatore ricorse all’aiuto

    di un cugino del capraro promettendogli un congruo compenso. Entrambi sirecarono a casa di Priamo col proposito di una nuova astuzia e con un’offertaben più invitante.

     – Caro Priamo, i tempi stanno cambiando e ad Arzachena stanno precipitando, – esordì il cugino, Tommaso.

     – A cambiare il tempo ci pensa il tempo stesso, – rispose il capraro. – Ma per te è giunto un tempo amico ed è bene assecondare il vento quando

    soffia a favore. – Il tempo ha due facce, una buona e una cattiva, – sentenziò Priamo Solinas. – E a te offre la faccia buona con i milioni che ti danno per lo stazzo di

     Aggesi, – incalzava il cugino. – Non tocca a noi dire qual è la faccia buona perché la verità del tempo si

    rivela sempre dopo e spesso con amare sorprese.

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     – Lo stazzo di Aggesi non è buono neppure per le capre, – insisteva ilmediatore, – eppure quel terreno te lo coprono di bigliettoni da diecimila lire,quelli che sembrano lenzuola, un tappeto che si distende dalla cresta delle roccefino al mare, anche i cespugli, anche gli scogli ti coprono.

     – Non va bene coprire il terreno con un manto di soldi perché se li mangianole volpi e cinghiali, e poi se tutto il terreno viene coperto, dove si posano letortore e dove fanno i nidi le allodole!

     – Tu, si sa, sei poeta e hai la battuta pronta, eppure tanta gente, avveduta comete, ha saputo cogliere il tempo nuovo…

     – Il tempo non è nuovo né vecchio, il tempo viene da lontano e va lontano e fail suo giro.

    Il cugino, che aveva anche lui una vena poetica, insisteva sulla metafora deisoldi.

     – Un materasso di bigliettoni può farci tua moglie, un materasso più morbidodella lana d’agnello, di soldi potrà riempire il guardaroba e tappezzare le pareti, – mentre parlava le sue braccia facevano ampi gesti e tracciavano nell’ariafigurazioni di soldi che volavano e scendevano a coprire il pavimento e poi sialzavano e fluttuavano nella stanza, turbinavano come farfalle esaltate dalla luce einfine si adagiavano per terra, tutti bigliettoni ben allineati fino ad alzarsicompatti come un muro di mattoni.

     – Vogliono comprare la tua pietraia quasi fosse un campo di smeraldi, queibiglietti rosa adagiati sui cespugli ti appariranno come fiori sconosciuti e i fruttipendenti dagli alberi ti sembreranno cresciuti per incanto, anche le ragnatele dello

    stazzo te le pagano come filigrana d’oro. Lo vuoi capire: una casa piena di soldi, – concluse battendo le braccia sulle ginocchia e fingendo sorpresa e meraviglia, perdare al suo discorso la spinta di una decisione.

     – Se la casa è piena di soldi non c’è posto per me e per la mia famiglia, – rispondeva Priamo Solinas con occhi beffardi, – allora dove andiamo ad abitare?Per fortuna possiedo anche un pagliaio e una stalla per i buoi nella periferia delpaese.

     – Tu difendi il tuo tema come in una gara poetica, ma io ti parlo della vita,della vita vera, e non puoi sfidare la fortuna che bussa alla porta perché la fortunaè vendicativa e se non è bene accolta se ne va lanciando maledizioni.

     – La maledizione è vendere le ter re di mio padre e di mio nonno, le terre dellamia vita.Sulla soglia di casa il mediatore lanciò una sfida: – Dato che sei un uomo

    ostinato, verrà il Principe in persona a convincerti, l’hai visto quel panfilo sulmare di fronte al tuo stazzo? Be’, quella barca è piena di oro e argento.

     – Se verrà a trovarmi vuol dire che ha bisogno di me, ma la visita di un ospite

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    è sempre gradita, gli offriremo dolci e vino moscato. – I dolci te li porta lui, tu non sai quanto siano dolci i milioni, più dolci di

    mandorle e miele. Ti faranno passare l’amaro della vita. Trascorsero appena due giorni. Il Principe, giunto da Parigi all’aeroporto di

     Vena Fiorita di Olbia, si diresse espressamente ad Arzachena per chiudere laquestione delle terre di Aggesi che bloccava la prosecuzione del piano turistico.Priamo Solinas era stato avvisato dal mediatore dell’arrivo del Principe. Lamoglie, Grazia Mura, lo attendeva con apprensione perché le era stato detto che ilPrincipe era re e anche papa e che i suoi fedeli gli corrispondevano in oro il pesodel suo corpo. E le avevano anche specificato che proveniva dall’Asia, viveva aParigi ed era americano.

    La signora Grazia aveva preparato il caffè con i biscotti, i liquori e il vino dimoscato. Sbirciava dalla finestra sulla strada diritta che porta a casa sua. Il maritonon lo dava a vedere ma l’ansia della moglie si rifletteva su di lui e con tonoironico mormorava: – Ah, è proprio così, adesso a casa mia arriva il re e il papanon credevo d’essere così importante!

    Ecco, in fondo alla strada comparire il mediatore che dava la destra a ungiovane in maglietta. Grazia Mura attendeva di scorgere il Principe con il suoseguito ma già i due stavano per giungere alla porta. Al primo battito delmartello, Grazia aprì con sollecitudine e un po’ imbarazzata attendeva di saperechi fosse il giovane che aveva uno sguardo chiaro e un sorriso educato. Ilmediatore presentò il Principe mentre Priamo Solinas attendeva in piedi sullaporta della stanza buona.

     – Sono felice che lei mi accolga in casa sua e mi sento in dovere di ricambiarequando vorrete essere miei ospiti, – disse il Principe con espressione di sinceragentilezza.

     – Da noi l’ospite è sacro, – intervenne Priamo Solinas, mentre la moglieaggiungeva: – Ci fate un grande onore.

    In verità si aspettavano un uomo alto, vestito di lusso, col borsalino dalla piegaaristocratica, un uomo austero e conscio del suo rango e invece avevano davantiun giovanotto in jeans e maglietta, a capo scoperto e con i capelli un po’scarmigliati. Eppure leggevano in quel volto un tratto chiaro di persona perbeneche li mise subito a loro agio.

     – Come sapete, signor Solinas, io vengo per la questione dei vostri terreni, ledebbo dire subito con sincerità che quei terreni sono del tutto essenziali per ilnostro progetto…

     – Anche per me sono essenziali perché sono la storia della nostra famiglia. – Rispetto i vostri sentimenti, – soggiunse il Principe, – sono terre ereditate

    dagli avi, per voi vendere l’eredità è come sconfessare vostro padre e vostro

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    nonno. Non voglio comprare con i soldi i vostri sentimenti ma io ho unaproposta da farvi.

    Priamo Solinas era sorpreso per le parole piene di umanità e si meravigliavaper il discorso che partiva dal cuore e lo confermavano gli occhi chiari, disarmati.

    Ma non capiva, a quel punto, quale potesse essere la sorpresa. – Signor Solinas, – riprese il Principe, – vi sono state proposte diverse cifre daimediatori, io voglio che il prezzo lo stabiliate voi, ma in più mi preme farviun’ulteriore offerta. Voi conoscete certamente le terre fertili della pianura dove cisono gli stazzi di…

     – Dario Azara, – disse prontamente il mediatore. – Signor Solinas voi non state vendendo le ter re dei padri, le state scambiando

    con terreni che i vostri avi hanno sognato per una vita e sarebbero stati ben lietidi fare una permuta così vantaggiosa.

    Il capraro fu preso da un incantesimo, gli si era aperto un orizzonte di luce checolmava un desiderio nascosto: era il sogno di ogni pastore di Arzachenapossedere le terre della piana vicino al paese con uno stazzo a due piani che avevala tinta della cantoniera e due balconi che davano sugli orti e sulla vigna.L’abbondanza di erba manteneva 100 mucche per un anno e l’acqua non siprosciugava neppure d’estate.

    Priamo Solinas si illuminò d’improvviso ma subito oscurò il brillio degli occhie teneva contratto il volto indurito dal sole e dal vento per non mostrare la suaemozione. Corrugava la fronte e accentuava la piega della guancia come se stessesoppesando con cautela la proposta del Principe e stesse meditando una difficile

    risposta. – È uno scambio di doni, voi mi date le terre di Monti di Mola e io vi regalo leterre fertili della pianura, inoltre l’offerta che vi era stata fatta ve la porto aseicento milioni di lire.

     Al capraro sembrò una cifra smisurata ma aveva imparato da una lungatradizione che non si accetta subito nessuna proposta anche se vantaggiosa.Occorre che il tempo confermi la scelta e che la notte assicuri la decisione delgiorno, perché le cose hanno sempre delle pieghe che bisogna stendere per bene.

     – Vi darò una risposta fra qualche settimana… – Una settimana… una settimana è un tempo infinito, fra tre giorni devo

    rientrare a Parigi, domani potremo andare dal notaio oppure domani l’altro perdefinire la compravendita.Il Principe sapeva che il denaro è l’equivalente universale di tutte le merci ma

    si rendeva conto di trattare con una persona che non aveva il concetto né didenaro né di merce. Grazie forse alla sua cultura d’origine, capiva che i sentimentipossono avere un’importanza decisiva anche nella fredda logica della transazione

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    e sapeva che esiste un confine incerto tra dono e mercato.Intervenne con decisione: – Oggi è martedì, giovedì dal notaio, – affermò con

    un atteggiamento che voleva sancire l’accordo anche da parte del capraro, cheinvece rimaneva cauto e disorientato.

    Grazia Mura aveva già levato il telo ricamato dal vassoio e offriva i dolci dimandorle e miele mentre il marito versava il moscatello. Il Principe ringraziavama faceva un gesto gentile di rifiuto. Il vecchio intervenne deciso: – Nessuno va via da casa mia senza accettare l’invito. – Il Principe prese un amaretto dimandorle e fece i complimenti alla signora Grazia.

    Nel corridoio si rinnovarono i convenevoli e quel giovane perbene mostrò lesue buone maniere anche nel commiato sulla soglia di casa. Il portone rimasesocchiuso fino a sentire i passi che si allontanavano poi l’isolamento dal mondoesterno e l’intimità della buona novella.

    Marito e moglie stavano in piedi presi da stupore, l’uno di fronte all’altra, siguardavano, lei teneva le mani giunte sul grembo, lui i pollici inseriti nel corpetto.Incapaci di dire una parola. Solo il silenzio sa esprimere la gioia o un doloreincontenibile. – Santa Maria ci ha fatto questo miracolo, – sussurrava GraziaMura facendosi più volte il segno della croce e sollevando lo sguardo in alto.

    Entrarono nella stanza buona, lei sollevò il vassoio dei dolci che offrì al maritocon i modi gentili degli inviti nella festa di matrimonio e poi versò quel rosoliopaglierino per farsi gli auguri rivolgendo grazie al cielo e bisbigliando: – Ildestino ci è caduto addosso.

    Decisero di tenere il segreto, nulla dovevano sapere i figli e tanto meno il

    paese. – Aspettiamo che le cose si concludano, – disse Priamo Solinas, – a volte lagiornata promette sereno e poi rabbuia in nubi di tempesta.

    La sera, chiacchierando a letto, commentavano l’evento straordinario, sifacevano domande e si davano risposte, si interrogavano su questa montagnaluminosa che si era alzata davanti a loro. La notte suggellò col silenzio il lorofantasticare. Ma nessuno dei due riusciva a prendere sonno. Lui era preso dalsospetto: gli sembrava una pazzia che Dario Azara avesse venduto le miglioriterre di Arzachena, anche se correva voce in paese che il vecchio era ormai ibalia dei figli, studenti falliti , che facevano una vita da fannulloni.

    Grazia Mura combatteva un’altra battaglia: reputava la vendita come un eventomiracoloso e tirava in ballo ora il destino ora la Provvidenza, ed entrambiconfluivano nella grazia benigna di Santa Maria. Recitava formulari di esorcismoperché ogni fatto eccezionale nasconde risvolti enigmatici: – Noi non l’abbiamo voluto ciò che è successo, è avvenuto senza neppure averlo desiderato.

    Dalla sua vita e dalla storia familiare aveva imparato che la gioia non è mai

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    trasparente, porta con sé delle ombre che offuscano anche la luce del sole. Avvertiva con un senso di colpa il mistero del miracolo e ne attribuiva la

    responsabilità al destino. Per attenuare il colpo di fortuna pensava che la sua vitanon sarebbe cambiata di molto e non avrebbe goduto spudoratamente della

    ricchezza improvvisa.In che cosa avrebbe potuto cambiare la propria vita!Certo sarebbe cambiata per i figli e perciò bisognava esorcizzare il malocchio

    della gente. Per questo era pronta ad assumersi quella parte di tragico che sinasconde dietro il miracolo.

    Riaffiorò un ricordo di quando aveva vent’anni, la sorella minore si era spentaconsumata dalla tubercolosi e nel dolore della perdita aveva sentito la frase di un visitatore venuto per le condoglianze, che diceva a un amico: – Adesso Grazia èl’unica ereditiera di terre e case, è davvero un buon partito. – Lei pregava laMadonna negando di aver desiderato l’eredità della sorella e confermando diaverla amata e pianta con grande dolore.

     All’alba Grazia Mura vide il marito che stava indossando l’abito di campagna: – Stai uscendo? – disse.

     – Non vado lontano, – rispose Priamo con un tono di voce che nonammetteva altre domande e affrettandosi a uscire.

    Si diresse verso lo stazzo di Dario Azara, mormorando tra sé e sé versi sullaterra promessa. Scelse un itinerario tortuoso per non essere visto dai pastori delluogo ed evitare domande inopportune. Fece un giro largo per arrivarci dallaparte del boschetto di querce da sughero. Da dietro un grosso albero guardava le

    terre che sarebbero diventate sue. Le conosceva ma ora le ammirava facendocil’amore. Prima inseguì con lo sguardo i confini per abbracciare la terra nella suapienezza: quella terra era un corpo di donna, bello come sua moglie quandoerano sposi novelli. L’erba trascolorava dal verde al rossiccio e al giallo. Non eraquell’erba terriccia di Monti di Mola, era erba per mucche, alta sino al ginocchio,pastosa e nutriente. Ne seguiva il leggero ondulare quasi fosse un campo di granoin attesa della mietitura. Poi seguiva la linea del fiume che scorreva lento sino alcrepaccio dove precipitava nel recinto degli orti e del frutteto. – Tarre cu lu riu inmezu… – mormorava e ascoltava le sue stesse parole, dolci come quelledell’acqua e della terra. Osservava i peri selvatici che segnavano punti e

    tracciavano linee disegnando una geometria che dava ritmo allo spazio dellatanca, alberi che già pensava di innestare a pere, quella camusina di giugno equella tardiva di settembre, da legare in filari per durare sino a Natale e all’annonuovo.

     Aveva visto l’azienda moderna di Samuele Colbu segnata da tubi d’irrigazioneper avere l’erba fresca anche d’estate. Immaginava i terreni della collina gialli di

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    fieno e quelli sul fiume verdi di erba, in un’eterna primavera.Ed ecco la casa di color mattone con la tinta che sfumava in un rosa tenue.

    Poteva fare bella figura anche come casa di paese, a due piani, con i grandibalconi e il tetto con tronchi di ginepro e tegole ben assestate. E già vedeva le

    mucche pascolare, maestose come le chiese di campagna di Sant’Isidoro e diSant’Antonio Abate, con le mammelle che scendevano fino a terra. Col peloriposato e morbido, non come quelle vacchette di Monti di Mola, irsute, con lecostole in rilievo, sempre molestate dalle mosche e coperte nel collo da lentigginigialle, punte dai tafani che le costringevano a movimenti di pazzia e a svirgolarecon le corna l’aria infestata.

    Nello stazzo non c’era nessuno, né vacche né pecore né maiali e neppure quelcavallo dal manto baio in groppa al quale Dario Azara troneggiava passando perla piazza del paese a confermare la sua possanza. In dissolvenza gli sembrava chel’acqua del fiume diventasse latte ed esondasse bagnando tutto il terreno eprecipitasse su grandi recipienti di rame: latte per tutta la Gallura.

    Rientrando a casa aveva preso il sentiero più breve e misurava a passi ladistanza dal paese, ne contò duemila fino alle nuove costruzioni che si snodavanolungo la strada per il mare.

    Contava i passi e dipingeva l’avvenire.

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    Capitolo 2

    Davanti al notaio si diventa ricchi all’improvviso. Nell’ampio studio sipreparava il rito di una strana cerimonia. Il notaio era il sacerdote o meglio il vescovo -pensava Solinas - con quella faccia grassa così simile a quella del vecchioparroco e la testa pelata e le orecchie accartocciate, ma con lo sguardosupponente che dominava la scena.

    Leggeva come fosse distratto e nulla lo riguardasse, leggeva prima lentamentepoi sempre più veloce quasi fosse un racconto che aveva fretta di finire e che

    invece si allungava con toni alti e bassi in cui ogni tanto si udiva il nome diPriamo Solinas che il notaio staccava con un respiro, e subito dopo un altronome che dagli sguardi doveva essere quel distinto signore che gli stava seduto afianco. E intanto attendeva che nel racconto risuonasse chiara e tonda la cifrapattuita, ed ecco finalmente: – …corrispondere al signor Priamo Solinas lireseicento milioni.

    Fu come un boato che assordò la stanza: quella cifra aveva il peso della granderoccia di Monte Moro che gravava sulla collina e che ora sentiva sulle sue spalle.

    Intanto il ritmo più lento del notaio dava a intendere che il racconto stesse per

    concludersi, ma c’era da attendere ancora una conferma importante che infattigiunse subito dopo: – Priamo Solinas rimane proprietario del terreno definito dalmappale n. 13, foglio 3, – e continuava specificando il passaggio di proprietà delleterre di Dario Azara a Priamo Solinas.

    Ora sì, le cose erano a posto. Sentì il corpo rilassarsi e il respiro farsi piùdisteso. Ascoltava la voce del notaio quasi distrattamente sino all ’annuncio finale: – Addì 5 maggio 1963.

     – Firmi qui, Signor Solinas, – fece il notaio con tono imperioso indicando ilpunto esatto del foglio. – Si avvicini, scriva qui per esteso, non sta mica firmandola sua condanna, – aggiunse con un sorriso compiaciuto.

    Priamo Solinas ebbe un momento di sospensione: non era soltanto per lamano incerta chiamata all’impresa della firma, avvertiva confusamente che conquel gesto chiudeva, anzi consumava la parte più importante della sua vita.

    La certezza di essere diventato ricco s’accompagnava a uno strano senso dimancanza e di perdita. E mentre pensava allo stazzo di Monti di Mola apposecon scrittura incerta la sua firma. Tutti si complimentavano con lui: – Siete ricco,

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    siete milionario… – e le parole risuonavano con un’eco deformata in quellostanzone pieno di libri chiusi da vetrate e faldoni segnati dalle letteredell’alfabeto, schierati in un ordine mortuario e con severità intimidatoria.

    Era ricco, da un giorno all’altro, da un’ora all’altra, lì davanti a estranei, in casa

    d’altri. Il suo orologio da tasca segnava mezzogiorno in punto. – Auguri, – disse quel distinto signore che non aveva mai pronunciato parola, – Le auguro altri ottimi investimenti.

    Priamo ringraziò ma in verità non capiva bene cosa volesse dire la parolainvestimenti  anche se intuiva che si trattava di fare altri acquisti, magari comprandoaltri terreni per ampliare i suoi possedimenti.

    Ma di soldi veri, quelli che si toccano con le mani, non ce n’erano, non potevaportarsene a casa neppure un gruzzoletto per farli vedere, per fare festa davanti acose concrete. Immaginava una specie di grotta sempre illuminata e ben serratadove stavano impacchettati mille e mille e altri mille bigliettoni rosa da diecimilalire, tutti ben ordinati, nuovi, stirati e lucenti, ben protetti da lastre di granito. Gliavevano detto che nelle banche le porte che custodiscono i soldi si aprono acomando, a orologeria, e ubbidiscono solo a chi possiede numeri segreti. Nonerano certo luoghi cui si potesse accedere come per rubare il bestiame. Lì erano alsicuro, più al sicuro della spelonca dove nascondeva la carne al fresco, nellegiornate torride di Ferragosto. Eppure sentiva che quei soldi erano lontani comese fossero rinserrati in una grande tomba dentro una montagna sconosciuta.

    La moglie aveva preparato come per una festa di matrimonio: il tavolo era

    apparecchiato con tovaglie e tovaglioli e con i piatti e bicchieri che si usano due otre volte l’anno. Su un tavolino gli amaretti, i biscotti buoni, i papassini, i dolci dimiele e mandorle e persino le bibite della modernità, aranciate e gassose. Incucina bolliva il brodo della zuppa gallurese, i ravioli erano stesi sui teli. Battistagirava lo spiedo col capretto ormai al giusto punto di cottura, Andrea avevastappato le bottiglie di vino nero, Caterina, affacciata alla finestra annunciaval’arrivo dell’automobile che compariva sul fondo della strada.

    Priamo Solinas esce dall’abitacolo con un’energia nuova e tiene stretta unacartella azzurra. Saluta l’autista e sta per battere il martello della porta cheall’improvviso si apre. Grazia Mura gli sta di fronte come una regina, lo guardaper una conferma e un cenno di assenso, prende a braccetto il marito verso lasala, i figli lo attendono e lo abbracciano. Prova disagio per questo affettoinusuale e sbotta: – Non sono né lu re  né lu papa , adesso finitela con questa scena,io sono io e noi siamo noi.

    Ma festa fu: secondo il rito si iniziò con il cumbitu, il caffè con il biscotto e poil’amaretto con il liquore. Una festa in famiglia, ma c’era un ospite che incombeva

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    e occupava tutta la scena e dominava tutta la casa: il miracolo.Il miracolo era un sole splendente ma circonfuso da una lieve corona d’ombra:

    gettava luce sui volti dei figli, sul vassoio dei dolci, sui piatti di ceramica, sullacasa intera, ma lasciava un adombramento fosforescente, un brillio che crepitava e

    mutava in opache sfumature.Grazia Mura voleva attirare su di sé quell’alone nebuloso affinché il solesplendesse pienamente sulla sua famiglia.

    Le capre nulla sapevano del miracolo, più semplicemente attendevano di esseremunte, nelle mammelle pesava il latte di una giornata.

    Il neo-ricco Priamo Solinas non l’aveva scordato. Bisognava recarsi a Monti diMola per accudire al bestiame e decidere a chi affidarlo e anche per stabilire qualioggetti portar via dallo stazzo che sarebbe stato abbattuto.

    Era giunto a casa il nipote Antoniccu che aveva fatto da autista nel viaggio aOlbia per la pratica dal notaio e si prestava di andare lui stesso allo stazzo oavrebbe potuto incaricare Daniele Colbu che si offriva a giornata in casi dinecessità. Ma ricevette un netto rifiuto e allora insinuò con delicata ironia: – Lecapre pascolano per conto loro, non c’è bisogno della vostra presenza e poi…potrebbero non riconoscervi… perché ormai voi siete un’altra persona, sapete…con quegli occhi intelligenti capiscono che non siete più il loro capraro, anzi chenon siete più un capraro.

     – Antonì, non sei stato mai fino nel parlare, è meglio che chiudi la bocca.Ma il nipote amorevolmente insisteva: – E se anche perdete una mungitura,

    non saranno quei pochi litri di latte a impoverirvi.Priamo Solinas gettò uno sguardo di rimprovero alzando il tono di voce: – Lo

    sai bene che le capre soffrono quando hanno le mammelle gonfie di latte e ti vengono vicino per essere munte. Il latte non si butta neppure se sei milionarioperché siamo cresciuti a latte e formaggio, e al latte e al pane lo devi se ti seilevata la fame nella tua vita.

    Stava già sellando il cavallo e metteva pane, formaggio e sale dentro le taschedella bisaccia di orbace, come se stesse ripetendo un rito, il rito della suaesistenza.

    La cavalla si mosse ben sapendo dove dirigersi, lo aveva portato all’ovile anchequando aveva bevuto un po’ troppo in compagnia degli amici nella festa di SantaMaria ed era stato aiutato a montare in groppa, affidato alla sicura guidadell’animale.

    Nel percorso osservava le terre che gli sembravano un cimitero pieno di croci:le chiamava per nome indicandone la proprietà e con un gesto faceva un segno dicroce: Questa già venduta, quella venduta e quell’altra ancora venduta… erano

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    nomi che depennava dalla lunga lista della storia delle famiglie e della comunità. A ogni stazzo venduto attribuiva il prezzo pagato secondo la voce popolare escandiva i milioni di lire aggiungendovi il giudizio sull’ingenuità del proprietarioingannato. Quelle terre che fino ad allora avevano raccontato storie di eredità

    familiari ora echeggiavano nomi stranieri. Nomi nuovi che non si attaccavano allaterra: erano come uccelli di mare che fanno giri di voli senza posarsi mai. I vecchinomi resistevano perché avevano radici e sembravano scritti col fuoco nel corpodella terra stessa, eppure ben presto furono inghiottiti da un unico nome:Consorzio della Costa Smeralda . Il nome nuovo impresse il suo marchio su tremilaettari di terre, cancellando segni e nomi di un’antica storia.

    Intanto Priamo era giunto al suo podere, la cavalla si accostò al muretto, alcancello di rami d’olivastro induriti al fuoco. Sollevò il gancio, passò e lo richiusesenza scendere da cavallo. Giunto all ’ovile tolse la bisaccia e la sella e lasciò liberol’animale al pascolo. Entrò nello stazzo come se fosse ospite ma subito lo trovòancora suo. Si distese sulla stuoia e guardava il soffitto: le tre travi di ginepro, itravicelli e gli assi e il tetto d’argilla con le tegole sconnesse per fare uscire il fumodel focolare. I muri screpolati facevano vedere i cantoni di granito legati con unimpasto di malta. Guardava le assicelle una per una, nei loro punti chiari e oscurie si fermava sull’ultima proprio sopra la porta che mostrava una chiazza brunache sembrava un ornamento, e la penultima che si assottigliava nell’attacco almuro. Una tegola rialzata dal vento e nera dal fumo faceva entrare qualche gocciadi pioggia quando la tempesta infuriava più violenta. Al soffiare dello scirocco,sulle aperture del tetto ristagnavano nuvolette di fumo che aleggiavano chiare e

    scure in un dolce turbinio. Il libeccio ricacciava dentro cerchi di fumo peraffermare il suo dominio. Al maestrale le canne sconnesse fischiavano una musicache si rinforzava disperatamente. A volte il fischio rassomigliava al suo quandodal pianoro richiamava le capre, ma era più variato e dolce. Il muro dalla partedel forno faceva una gobba e presentava una fenditura. Guardava la madia diolivastro e la tinozza di pero selvatico: bisognava portarle via in modo che nessunoggetto morisse e la ruspa trovasse un tempio sconsacrato. Quella madiatrasfigurava l’immagine della madre che lavorava l’ammasso di farina per il pane earrotondava con le mani la pasta di formaggio facendola girare fino a prendere lforma di pera con il picciolo a stella. E lui bambino si specchiava sul paiolo di

    latte come in un cielo. La forma di pera sembrava una mammella palpitante tra lemani della madre che seduta su uno sgabello di sughero faceva arco sulla schienaquasi a proteggere la sua creatura. E vedeva ancora la nonna mentre apriva laporta e compariva con il recipiente d’acqua sopra il capo tenendo con una manoil corno della tinozza, inarcando le braccia e flettendo la schiena per appoggiarlasopra le assi di olivastro. E ancora la madre che adagiava cerchi di pasta nell’olio

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    di lentisco dall’odore aspro.L’alba lo colse quando già finiva di mungere le capre e parlottava con loro. Le

    conosceva una per una e a ciascuna aveva dato un nome. – Ma come ve lo devo dire che domani dovete andar via, be’, non è lunga la

    transumanza, andrete nello stazzo di un mio parente nelle campagne di Palau, per voi che cos’è un’ora di cammino! Non vi posso tenere, queste terre non sono piùmie. Lì, troverete pascoli migliori e avrete persino un ricovero nelle giornate dibufera. Certo che vi verrò a trovare, 20 minuti di cavallo non è il viaggio perCagliari. Davide è un pastore serio, non vi sto affidando ai ladri. Vi verrò atrovare e magari entrerò anche nel recinto per mungere.

     Aveva ormai deciso di non venderle ad estranei, meglio affidarle in custodiaper godersele ancora e bere il loro latte ogni giorno, il latte di Bandulera, la caprapreferita, e avere tre capretti all’anno, per Natale, per Pasqua e per la festa diSanta Maria, e un po’ di formaggio fresco per i ravioli.

    Era contento di affidarle a buone mani e così cercava di ingannare la propriaemozione. Bandulera lo guardava con occhi sghembi, col collo alto e piegato asinistra mostrando le macchie marroni sul manto bianchissimo. Conosceva benequello sguardo interrogante, quando gli ricordava che era ora di farle entrare nelrecinto più ricco di erba o nel chiuso dei virgulti non pascolati o quando era oradi portarle a bere nelle pozze d’acqua della fontana. E intanto Rosina, la capratinta di macchie dorate, gli si avvicinava cercando un ciuffo di rosmarino tra lesue mani: – Oggi non ho nulla da darti, neppure due fave, neppure un ciuffo dipaglia. Oggi sono povero.

     Alcuni giorni dopo, Priamo Solinas era ritornato allo stazzo con la scusa diportar via alcune formelle di legno per fare il formaggio, in verità voleva vedereper l’ultima volta il suo regno. Aveva già fatto portar via le capre e tutti glioggetti. Era l’alba, da poco il sole si era alzato dalla linea del mare, Priamoosservava la sua casa come un tempio sconsacrato, eppure vi erano dentro tutti isentimenti della sua vita. Con lo sguardo abbracciava i confini, si fermava sullafonte, si spostava verso il bosco dei ginepri e sul dirupo gli sembrava di vedereBandulera che gli faceva un cenno con la torsione del collo.

     All’improvviso un rumore sconosciuto proveniente dalla strada sterrata gettavasu Monti di Mola l’allarme di un fenomeno straordinario, come se il silenzio della valle fuggisse verso l’orizzonte del mare.

    I mostri meccanici erano all’opera per trasformare L’unfarru , lo sprofondodell’inferno nella valle dell’eden, rivoltavano la terra, sventravano dirupiappianavano colline, sradicavano alberi. Il grande ragno di ferro squarciava lerocce, pescava nell’acqua e dal fondo tirava su pietre e sabbia: il mare mangiava la

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    terra. Quando le ruspe smettevano di lavorare, la terra, lacerata, sembrava uncapra sventrata.

    Priamo Solinas guardava sgomento l’olivastro sradicato, disteso con le suechiome piangenti, era già scomparso il sentiero che portava alla vecchia

    abitazione: quel terreno che aveva venduto lo sentiva ancora intensamente suo esoffriva per il suo corpo martoriato.Era lì, testimone di una scena drammatica impressa a fuoco nella memoria.

    Intorno al suo stazzo la ruspa creava uno spiazzo spostando pietre e radendocespugli di mirto e lentisco poi si impiantò pesantemente quasi per raccogliere leforze per l’impresa. Di scatto la benna della ruspa a cinque denti si alzòminacciosa al cielo, puntò diritta verso il tetto della casa e vi si abbattésbriciolando malta, canne e tegole.

    Il capraro, preso da sgomento, guardava la casa scoperchiata come i ruderidella chiesa di Sant’Isidoro. Tutto nell’eternità di un istante.

    Impietosi i colpi di benna abbattevano i muri: ogni cantone di granito chepiombava a terra faceva tonfo e sussulto nel petto di Priamo che sentiva nellacarne il conficcarsi sul terreno delle travi di ginepro. Il terriccio che sbriciolava alsuolo richiamava il crepitio del mirto avviluppato dalla fiamma degli incendiestivi.

    Raso al suolo lo stazzo della vita, non fu immediatamente il vuoto, rimase unasagoma d’ombra, come se lo spirito della casa non riuscisse ad abbandonare illuogo. Il capraro lottava affinché non scomparisse la memoria sensoriale di quelcorpo distrutto che ormai sbiadiva in un’immagine inconsistente e informe. Si

    attaccava a un corpo per impedire che diventasse fantasma. Poi lentamente anchela sembianza si dissipò, allora sì, apparve il vuoto, un’assenza muta che puretentava di balbettare qualcosa. Quando anche l’eco della voce scomparve, ilcapraro si ridestò e la solitudine era una nube che oscurava il luogo.

    Priamo Solinas guardava le rovine e voleva che fossero testimoni di memorie eche pietre e travi, sul terreno, continuassero a raccontare la loro storia, e invece imiseri resti, caricati su un camion, erano solo detriti per la discarica.

    Se ne era andato cercando il silenzio per sfuggire a quel rumore assordante deimezzi meccanici che continuavano a percuotere il suolo col ritmo indemoniatodella violenza. Non c’era più il suo mondo. Avvertiva la perdita come una

    mutilazione del proprio corpo. Gli sembrava assurdo che si potesse costruire la valle dell’eden, senza stazzo, senza capre e senza fontana.Risalendo verso la collina, gli si ripresentava lo stazzo, gli compariva davanti e

    la porta si apriva, lui entrava e usciva e girava intorno e poi rientrava perchiudersi nella intimità. Allora la memoria si rifugiava nel forno, custode delmistero. Le donne affondavano le mani sull’ammasso di pasta recitando scongiuri

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    e formule d’augurio. Il fuoco avviava la sua musica col crepitio del cisto secco econ la fiammella a candela del ramo di olivastro e con i sospiri del lentisco ancorafresco. Uscendo dalla bocca del forno, il pane illuminava il mondo.

    Erano squarci del tempo, vicini e lontani, ritmi di litanie ripetute con

    struggente malinconia. La memoria sfumava in filamenti di nebbia poi i fili sirimettevano a tessere per conto loro e inventavano trame nitide. A volte i ricordili inseguiva e, quando ormai erano scomparsi, si riaffacciavano senza chiamarli.

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    Capitolo 3

    Caterina non riusciva a contenere la felicità della sua vita nuova. Lachiamavano la figlia del miracolato. E l’atmosfera del miracolo la prendeva tutta eaveva l’effetto di un incantesimo. Voleva rifarsi la pelle come la biscia inprimavera. Ma il corpo faceva resistenza ai moti del cuore e alla spinta deidesideri.

    La gonna accorciata al ginocchio, le scarpe di colore col tacco alto e lacamicetta sbottonata chiedevano un altro portamento del corpo, un diverso

    modo di atteggiare lo sguardo, le gambe non rispondevano ai balli della moda. Voleva volare ma il corpo era pesantemente ancorato al recinto dello stazzo. – 

    Li hai ben stretti i legacci, – diceva a se stessa, – ma a vent’anni c’è tempo dilibertà.

     Vedeva il fratello Andrea felice della nuova vita, ma lui era un maschio epoteva fare ciò che voleva, e poi aveva studiato e poteva aprire gli occhi almondo. Le ragazze del turismo che Andrea portava a casa non le piacevano maprovava invidia nel vederle libere e spensierate. Un’amica, anche lei neoricca,l’aveva invitata più volte nella villa in Costa Smeralda, e Caterina era rimasta

    affascinata. Si librava sospesa tra la rigidità dello stazzo e la leggerezza della villasmeraldina. La fantasia inventava personaggi e comparse in un teatroimmaginario che la vedeva al centro della scena turistica.

    Non riusciva a frapporre una distanza tra un sentimento e l’altro perché unturbinio di sensazioni e fantasie pungeva il corpo e agitava mente e animo. Lesembrava di combattere una battaglia da vincitrice ma senza avere mai totalmentela meglio, preda di una sensibilità che oscillava in squarci di visioni mutevoli econtrastanti.

    Davanti a lei si apriva la seduzione del dono.Il primo regalo furono gli orecchini in oro e corallo che i movimenti del capo

    facevano ondeggiare luccicanti e liberavano il viso dalla rigidità di una mascheraantica.Un bozzolo che voleva essere farfalla ma aveva paura di volare.Il primo passo da fare era il taglio dei capelli: recidere la lunga treccia che

    scendeva sulle spalle e che avvertiva come una corda che la legava alla vita dellostazzo.

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    Laura bussò alla porta, senza neppure entrare, Caterina era già pronta perl’appuntamento dalla parrucchiera. Da Manuela  recitava il cartello sulla porta. Unadonna di mezza età con un sorriso aperto e con i capelli a onde.

     – Avanti, avanti, eccomi sono tutta per voi, che meraviglia! Non vedevo una

    treccia così bella dalla mia infanzia in Romagna. – Mia cugina Caterina, – disse Laura in atteggiamento di confidenza, – hadeciso di essere moderna!

     – Certo la treccia non si usa più, – acconsentì la parrucchiera, – la tagliamo maè da conservare come ricordo importante.

     – No, non voglio conservarla, – intervenne Caterina, – non ho nulla daricordare.

    L’immagine nello specchio le si presentava ingrandita e come se acquistasseuna certa importanza e le attribuisse una responsabilità. Al di là vedeva riflessa lastanza dilatando gli spazi ed esponendola indifesa in una dimensioneincontrollabile. Avvertì l’insistenza delle forbici sulla treccia che appena recisasciolse i capelli a caschetto. Si senti spoglia, come smarrita, osservò sorpresa ilcollo allungato che staccava la testa dal busto in modo spropositato.

     – Bene, – disse la par rucchiera, – adesso valorizziamo il bel volto asciutto conuna cornice di capelli vaporosi, ed esaltiamo il collo davvero perfetto, – e intantole spostava la testa in su, poi a destra e a sinistra come se studiasse una statua.

    Caterina gettava sguardi sospettosi ma gradualmente prendeva coraggiocompiaciuta dell’acconciatura che a mano a mano si completava in un casco dicapelli mosso da pieghe dorate.

     – Eccoti, sei stupenda, – concluse la parrucchiera, – sei un figurino, apasseggio stasera ti farai ammirare.Caterina si guardava felice eppure con un vago turbamento: i capelli corti

    rivelavano un volto nuovo con qualche sorpresa nel riconoscersi. Una leggeralinea di rossetto dava rilievo alle labbra strette, solo un accento di colore sullesopracciglia.

     Appena fuori dalla sala, si rivolge a Laura con decisa volontà di lotte e con ariadi trionfo: – Questa è la testa, ora tocca al corpo.

     Voleva disfare quella rete di orbace tessuta in venti anni trascorsi nello stazzoche la teneva prigioniera con le sue maglie strette. Disfare è più facile di tessere,

    basta una smagliatura e tirare come per gioco il capo del filo.La nonna ripeteva che per fare le cose ci vuole una vita, per disfarle basta unattimo e faceva l’esempio della morte che spesso non concede neppure il tempodell’agonia. E il nonno a conferma diceva che per crescere un albero di ulivo ci vogliono tanti anni, per abbatterlo basta un colpo di accetta.

    Era con il corpo la battaglia più tenace e il corpo era l’abito. Ci sono voluti

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    cento anni per conquistare pochi centimetri di nudità, dalla gonna della nonnache copriva le caviglie sino alla gonna appena sotto il ginocchio della bellagioventù. E qualche breccia si era aperta sui colori, anche se fece scandalo laprima uscita in piazza di una ragazza con le scarpe rosse. L’abito contadino

    nascondeva il corpo e lo conformava a fogge e a colori obbligati.Per Caterina la rivoluzione avvenne nel più lussuoso negozio di Olbia: ilpassaggio dal rustico al civile.

    Nella boutique  la scelta cadde su un tailleur  verde che brillava di primavera e chele infondeva una sensazione di leggerezza, e su un altro rosso che la illuminava edonava colore a un volto di antiche malarie. Ma il pezzo forte era l’abito da sera:si guardava allo specchio combattuta tra la folle passione della serata di gala el’ombra di antichi tabù. Capiva che quell’abito l’avrebbe spinta oltre i confinidella sua misura ma era più forte la fantasia della comparsa esaltante nel localenotturno.

    La commessa del negozio la guardava con cenni di assenso e l’assicurava chequell’abito le cadeva addosso divinamente e che faceva risaltare la grazia del suocorpo.

    Comprò l’abito della seduzione.Era stato troppo breve il tempo delle prove nella boutique, l’esame sarebbe

    continuato più accuratamente davanti allo specchio della camera da letto.Si apre la scena del monologo nel teatro del corpo e dell’abito.Caterina toglie dalla busta il tailleur rosso, stacca l’etichetta del prezzo, la tiene

    in mano leggendo a voce alta la cifra, compiaciuta. Infila la gonna dalla testa

    contrae il respiro e l’aggancia stringendo il cerchio della vita. Dà uno sguardofrontale poi di profilo con un moto di assenso. Indossa una camicetta ornata dimerletti, ne ammira le trame nere in filigrana e osserva il contrasto seducente colrosso della giacca e la corrispondenza con il nero delle scarpe dal taccoaggressivo. “Eccomi, sono un’altra, sono io,” e si acconcia i capelli con le dita a ventaglio.

    In un primo momento è l’abito a interessarla, la foggia e il colore, ma benpresto l’attenzione è rivolta al corpo, a come l’abito lo conforma. Allora iniziauna lunga battaglia.

    Si avvicina allo specchio, lo sguardo è diretto, punta gli occhi sul volto, sul

    petto, poi si allontana di un passo, più volte lo sguardo scende sino ai piedi erisale fino alla testa. Ha uno scatto, si mette di profilo, fissa un fianco e fa uncenno di disappunto, si assesta il cerchio della gonna, dà un colpo sui fianchi conle mani a coltello e approva contraendo le labbra.

    Esce dal campo visivo e vi rientra a passi lenti, attraversa la luce dello specchioed esce dall’altro lato, rientra ancora osservandosi con sguardo obliquo.

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    Si allontana, appoggia le spalle alla parete di fronte, fa una panoramica, poiprocede con passo sinuoso fino a toccare lo specchio e si pianta immobile.

    Lo sguardo divide il corpo in due parti: sale dalla caviglia fino alla vita, indugiasui fianchi che le sembrano un po’ stretti. È più contenta della parte superiore del

    corpo. La camicetta stringe il seno in rilievo, le trame di pizzo nascondono emostrano. Sbottona un’asola, la riaggancia come se stesse misurando il grado diseduzione. Tiene eretto il collo, atteggiando uno sguardo altero. Fa un gesto diapprovazione. Muove le labbra facendo smorfie e osserva come i capelliincorniciano il volto.

    Ha un momento di distrazione pensando per un attimo alla lunga treccia, acome l’accerchiava sulla nuca guardandosi allo specchietto abraso, un piccolorettangolo con i bordi di latta che serviva al padre per farsi la barba.

    Nello stazzo non c’era bisogno dello specchio. Lo specchio vero era lo sguardodella comunità dove ciascuno riflette la propria identità. Lo specchio era il telaioche rende la donna saggia, come diceva la nonna, e la saggezza si fa bellezza.

    Caterina non aveva mai visto l’immagine del suo corpo per intero.Nell’acqua morta del lavatoio il riflesso annunciava un inquietante presagio,

    l’incantesimo di uno sprofondamento rendeva l’immagine un fantasma cheincuteva timore. Ora lo specchio le restituisce una piena corrispondenza tracorpo e immagine. E tuttavia viene meno l’idea unitaria che aveva del suo corpo,come se lo specchio lo smembrasse in diverse parti: la linea delle gambe, larotondità dei fianchi, il restringimento della vita, l’espressione dominatrice delseno, la mobilità del collo, le fattezze del viso, il casco dei capelli. Sapeva che i

    maschi guardano le parti del corpo e fanno apprezzamenti e fissano una partedimenticando il tutto.Ora lo specchio le permetteva di allargare la scena come se lo sguardo dei

    giovani entrasse nel teatro della stanza, presi dalla visione. Allora prosegue larecita: si mette di profilo, ruota a tre quarti, si blocca in posizione storta. Sirimette frontalmente e dà ordini al corpo intimando al sedere di alzarsi e sollevale natiche con le mani, ordina alla pancia di rientrare dando colpetti di comando,dice al seno di prorompere.

    La compiacenza di sé era la proiezione dello sguardo degli altri: ammirandosisi faceva desiderare. Così il suo corpo era lo specchio dove i giovani, che avrebbe

    incontrato la sera in discoteca, potevano riflettersi. – Svelami tutto prima che mi critichino gli altri, – diceva allo specchio, masubito ribatteva: – Sei testimone contro di me, rimarchi anche la piega chenessuno vede.

    Lo specchio era amico e avversario, ora complice ora traditore. – Dammi luce, – ripeteva, – non gettarmi ombra. – Era come se ogni tanto intervenisse una

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    svista e rischiasse di vedersi diversa.Ben presto avrebbe imparato a scandire l’immagine un po’ spenta del mattino

    con quella riposata del pomeriggio e con quella più brillante della sera.Rideva dell’avvertimento della nonna quando ammoniva che non bisogna

    guardarsi a lungo nello specchio perché il riflesso si fa cangiante, diventa estraneoe allora c’è da temersi.Nello stazzo non c’è il doppio, ogni cosa è unica: il doppio è l’apparizione del

    defunto. L’acqua riposata della tina non ha riflesso: è castità non violata.Nella lunga lotta davanti allo specchio, Caterina aveva domato l’abito

    facendolo aderire al suo corpo: “Ecco, sono io, sono pronta.” Mancava solo iltocco finale nello specchio del bagno dove ci sono gli arnesi della buonaimmagine. Un trucco leggero, una punta di crema, una striscia d’ombretto e dirossetto per realizzare l’immagine del desiderio.

    Da maschera perturbante a maschera di bellezza per riconfermare il volto nelsuo stato di grazia. Un corpo in gloria.

    Di lì a poco sarebbe uscita col tailleur rosso, la camicetta di pizzo e le scarpenere. Immaginava che gli sguardi dei giovani si sarebbero appuntati su di leimentre procedeva in piena visibilità. E le sembrava di ascoltare giudizi diammirata meraviglia.

    Sorrideva nel ricordare quando andava alla fonte pubblica, solo qualche annoprima, tenendo in equilibrio sulla testa la tina di legno, i giovani seduti al latodella strada gettavano sguardi e lei fingeva di respingerli e quando le chiedevanoun sorso d’acqua, tirava diritta, altera, pur avendo il cuore in tumulto.

    Ormai le attenzioni dei giovani del paese non le interessavano più. Queglisguardi li spegneva prima che giungessero al suo corpo. In Costa Smeralda c’erauna nuova gioventù.

    Caterina non si guarda più nello specchio annerito di fuliggine, vuole unriflesso chiaro e lampante, luminoso e corrispondente.

    Ha cancellato la figura di adolescente che si ergeva contro il corso del fiume,battendo i panni sulle pietre di granito.

    Nelle spiagge smeraldine i corpi si abbandonano dolcemente all’onda lievedell’acqua salutare.

     A Porto Cervo non c’è fontana né lavatoio né tinozza, non c’è immagine

    distorta e sfuggente. Lo specchio smeraldo dell’acqua è perfettamente riflettente,nel fondo come nella superficie. Il verde gioca con i suoi toni per incontrarel’azzurro e poi il blu cupo. Lo smeraldo riflette l’immagine ideale.

    Lei era la miracolata e voleva essere smeraldina.Porto Cervo è lo specchio del mondo, il teatro dove avrebbe mostrato i suoi

    abiti perché lì si realizzava la fantasia della sfilata. Ormai era avvenuto un taglio

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    nella sua vita, uno squarcio di cui non si potevano ricucire i bordi.Una pulsione incontenibile sconvolgeva le viscere e invertiva il corso del

    sangue. Eppure ancora persisteva quel velo di pudore che le impediva dicorrispondere chiaramente allo sguardo dell’altro e il rossore sul viso che

    giungeva inaspettato dichiarava un resto del passato difficile da cancellare.Caterina viveva il difficile passaggio dal tempo del telaio al tempo dellospecchio. L’ora del telaio nello stazzo scoccava al crepuscolo quando, concluse lefaccende domestiche, iniziava il lavoro della tessitura. Le ore erano scandite dalbattito sordo del pedale e il movimento della navetta animava le mani al gioco veloce dell’intreccio.

    Faceva da contrappunto la preghiera della nonna che recitava le formule dellaliberazione dal male che terminavano con libera nos domine de morte repente   e adifesa dagli spiriti maligni invocava gli angeli schierati ai quattro angoli del letto.

    La notte era un campo di battaglia tra potenze del bene e potenze del male. IlMaligno appariva più forte di Dio che lasciava campo libero ai demoni, come ilsole catturato dal tramonto lasciava che le tenebre invadessero il mondo.

    La morte repente  era il pericolo più angosciante perché non dava il tempo dellapenitenza per il perdono dei peccati.

    Quando il telaio batteva l’ultimo tocco, nella stanza si avvertiva lo spessore delsilenzio: era l’attimo di raccoglimento prima di recitare la preghiera liberatoria,l’atto di fede e l’atto di dolore. Caterina ripeteva distrattamente l’atto di doloremettendoci dentro nella richiesta di perdono tutte le azioni e pensieri dellagiornata. L’atto di fede invece la impegnava in una testimonianza più grande delle

    sue forze. Certo, credeva in Dio padre onnipotente e in Gesù Cristo suo unicofiglio e nello Spirito Santo ma bisognava credere anche nella Chiesa cattolica,apostolica, romana, mentre lei conosceva soltanto la chiesa di Santa Maria di Arzachena. E poi la impressionava “la resur rezione dei morti” che le suggeriva la visione di tombe scoperchiate, né riusciva a dare un’immagine ferma alla “vita delmondo che verrà”.

    Per fortuna c’era l’amen   conclusivo che sembrava licenziare ogni parola echiudere definitivamente ogni responsabilità ma non allontanava le tenebre e ilmale, l’oscurità e il peccato, il rischio della morte. È di notte che si muore di maleoscuro.

    Il crepuscolo in Costa Smeralda non portava l’angoscia delle tenebre,accendeva invece l’apertura gioiosa della notte che illuminava il palcoscenico deldrink e introduceva il divertimento del ballo sino all’alba.

     Tenera è la notte a Porto Cervo ed è piena di luce. È il giorno a prendere lesembianze della penombra in quelle mattinate che affondano nel sonno sino amezzogiorno. Nel bagliore delle luci notturne avvenivano gli incontri con gli

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    angeli biondi che venivano da terre lontane con i loro volti chiari: hannol’apertura del sorriso che pure a momenti brilla di malignità ma vogliono ilcorpo, non l’anima, come invece i demoni nella notte dello stazzo.

     Appare lontano, quasi cancellato ormai, il tempo vissuto nella fantasia del

    ricamo quando preparava, come tutte le adolescenti, il corredo di futura sposa. Allora l’ago e il filo avviavano l’immaginazione amorosa. Il cerchietto del ricamoera lo specchio del sogno. Tempo di avvento: l’attesa della venuta delpretendente, quando un giovane l’avrebbe chiesta in sposa. Figurava pavoni sullatela intagliata, pavoni che tenevano sul becco fiori di orchidee.

    Il ricamo tracciava l’itinerario del desiderio amoroso: ogni figura portata acompimento sembrava abbreviare il tempo della venuta dell’uomo. Così viveva ilpercorso della profezia, vergine prudente, sempre vigile e accorta affinché non venisse colta impreparata quando il suo cavaliere avrebbe bussato alla porta.

    Chissà cosa le serbava il destino che l’immaginazione colorava di rosa! Ilcammino dei desideri portava verso l’ignoto nell’attesa di uno svelamento. Lasperanza conviveva con il timore che rendeva misteriosa l’attesa.

    Nell’onda dell’immaginazione continuava a ricamare lenzuola per sognid’amore di uno sconosciuto e tesseva coperte per adornare il letto nuziale che sioffriva intatto all’incontro del mistero. E le tende di lino avrebbero filtrato losguardo discreto della notte.

    Ogni ragazza di Gallura conosceva la fiaba rituale della precunta : la richiesta difidanzamento. Il padre del pretendente sarebbe arrivato nella casa della presceltae avrebbe simulato lo smarrimento di una vitella chiedendo se l’avessero in

    custodia; il capo famiglia avrebbe risposto che non avevano visto alcuna vitellasmarrita, ma dopo una delicata insistenza mostrava una delle figlie per chiedere sefosse quella, e, al diniego, mostrava l’altra figlia: era proprio quella la vitella checercavano. Così nasceva il gioco dell’amore.

    Quando le si presentavano questi ricordi, Caterina abbozzava un sorriso discherno: le sembrava un tempo morto quell’attesa vana di un pretendente chepoteva non venire mai. Quelle tele ricamate in giornate senza fine venivanosfilacciate dal vento del nuovo tempo turistico. Nei negozi di Olbia sono esposticorredi di mirabile bellezza con ricami meravigliosi nei più diversi colori.Un’esposizione di biancheria che annulla ogni tempo di attesa e si offre nella

    dimensione del dono per soddisfare prontamente i desideri.L’abbandono dello stazzo le si ripresentava come un rituale cupo, senzanostalgia, una memoria lontana, immersa in un’atmosfera irreale. Teneva in manodue pere di caciocavallo ancora grondanti di siero, appena uno sguardo alla madiadel pane e alla tinozza dell’acqua. L’ultima traccia di memoria era il pavimento interra battuta e il ronzio della porta che si chiudeva.

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    Camminava lungo il sentiero senza voltarsi, per non serbare immagini daricordare. Pensava che una folata di vento sollevasse la porta ed entrassenell’abitazione per renderla spoglia e muta.

    Nel dimenticare il luogo cancellava anche il tempo. Immaginava lo stazzo col

    tetto scoperchiato, con i muri cadenti, inghiottito dalle rovine. Miracolosamenterimaneva intatto il forno sul lato esterno della casa, affinché vi si rifugiassero letortore nel freddo inverno.

    Le pareva che a lato del sentiero apparisse Fiorina, la capretta orfana che avevaallattato col biberon: la guardava con occhi dolci strappandole un sorriso. Attraversò il ponticello sul torrente e appoggiò il cesto sul carro. Il padre assestòle cose con le funi e spronò i buoi verso Arzachena. Lungo il cammino a Caterinasembrava che alle sue spalle spazio e tempo della sua adolescenza sprofondasseronell’abisso.

    Le ruote del carro scricchiolavano sulla roccia affiorane dello sterrato e poaffondavano dolcemente sulla rena della pianura, all’entrata del paese il carrodella vita aveva cancellato tutto il passato.

    La casa del paese ospitava la famiglia per alcuni mesi l’anno, più spesso si stavanello stazzo quando c’era da fare il formaggio e cuocere il pane, zappare il grane accudire al raccolto. Ora la casa, per Caterina, doveva diventare una reggia, eraormai l’estensione del suo corpo. Nuovi gli impianti, gli infissi, gli arredi, glioggetti. Lei ne era la regista. Più volte entrava nel salotto per riempirsi gli occhiammirando i mobili comprati da poco: il buffet e il contro buffet laccato nero egli specchi che rimandavano le immagini dilatando gli spazi. Spostava un

    soprammobile, muoveva le sedie con i bastoncini a croce nella spalliera, guardavala sua immagine riflessa sul grande specchio rettangolare del tavolo da pranzo. Ildivano in pelle scura le mandava un odore di novità, con i braccioli rivestiti ditessuto rosso che ravvivava l’opacità della pelle. Le pareti dipinte di un azzurrotenue erano punteggiate dai tocchi di una spugnetta che disegnava figure diincerta geometria.

    Nell’arredare non era stata guidata da un’intenzione di stile, l’importante è chefosse entrata in casa la modernità.

    I mobili pesanti della tradizione, carichi di memoria, erano stati portati nella vecchia casa della nonna alla periferia del paese. Il guardaroba massiccio fatto dal

    falegname e l’ottomana ereditato da una zia, il tavolo e le sedie più volteaggiustate che raccontavano storie di eredità, tutto viene portato via. Cose vecchie, pesanti, oscure.

    Il brillio del legno laccato splendendo dava gioia. Era la luce ad affascinarla, illeggero, lo splendente, lo specchio.

    I mobili della sala antica non riflettevano nessun immagine, anzi sembrava che

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    inghiottissero la luce nell’opacità del legno e della stoffa. Quel guardarobaracchiudeva e confermava il tempo appesantito del passato. La coperta d’orbacepesava sul letto matrimoniale ereditato dai nonni, sulle pareti le fotografie degliavi, chiuse da cornici cupe, lanciavano sguardi severi.

    Caterina continuava a comprare oggettini per riempire gli spazi vuoti della salache voleva arricchire di piccole storie raccontate dall’atto stesso delle compere: unpiatto di Limoges mostrava i suoi colori e diceva di una misteriosa lontananza, uncristallo di Boemia aveva già nel nome una sua dolcezza suadente, una cupola diSan Pietro chiusa in un globo propiziava un possibile viaggio a Roma per vedereil Papa.

    Non aveva fatto portar via la cassapanca, l’aveva sistemata nel corridoio, se latrovava di fronte ogni volta che passava, gettava uno sguardo inquieto ma non sidecideva mai ad aprirla. Vi era custodito il corredo di futura sposa ma non volevafare i conti con quel tempo di sentimenti amorosi che voleva cancellare. Aveva unmisterioso timore che i ricami di quelle tele, geroglifici di una scritturaperturbante, si mettessero a raccontare desideri e sogni di trepida attesa di unpretendente sconosciuto. Quella cassapanca manteneva segreti e sembravainterrogarla sul pieno e sul vuoto della sua vita.

    La mamma seguiva con dolce apprensione gli slanci della figlia, noncondivideva molte scelte ma non intendeva contrastare il suo volo di farfalla.Certo, rimaneva perplessa davanti a quei mobili leggeri e riflettenti che avevanocacciato il volto riposato della casa e le davano un senso di fragilità eprovvisorietà. Mal sopportava quegli specchi sfacciati che mostravano

    spudoratamente le cose e che nei riflessi animavano un mondo di fantasmi. Mastava zitta e diceva a se stessa che quella era la casa della modernità voluta dallafiglia.

     – E cos’è questa carnevalata, – disse Priamo Solinas entrando nella sala, – checi fanno questi giocattoli in casa mia, li avete presi dal negozietto di Maddalena,la vedova allegra!

    La moglie, premurosa con tono amorevole, lo calmava e gli diceva che a casaera giunta la modernità. Ma lui ribatteva che la pazzia, antica o moderna chefosse, è sempre pazzia e minacciava che nulla fosse toccato nella cantina dovec’erano le provviste di un anno. Quando notò che erano state tolte dalle pareti

    della camera da letto le immagini degli avi, ordinò imperiosamente che fosserosubito rimesse al loro posto.Caterina, la stedda , come la chiamava la madre, era davvero una stella danzante,

    per lei temeva un volo di ali spezzate, ma intanto osservava come l’alba le passavasul volto baciandola.

    Un pomeriggio Caterina era entrata in cucina con aria di sorpresa e di festa

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    tenendo in mano un astuccio ben incartato e col fiocco rosso. – Mamma ti faccio un regalo, l’ho pensato da giorni e non ho saputo resistere:

    è una fede sarda in filigrana! Apre l’astuccio, prende l’anello e lo infila nell’anulare della madre,

    abbracciandola. Lei, presa dall’entusiasmo della figlia, si mostra sorpresa e felice,per non deluderla, in verità come può tenere un anello alla moda, che non è undono del marito e che non dice di una promessa indissolubile!

    Grazia Mura osservava il gioco dei cambiamenti in famiglia con lo sguardosempre rivolto ai figli. Comprendeva con sensibilità materna il giro di giostradella figlia, quella tendenza a girare a vuoto, mossa dalla spinta del nuovo. Le veniva in mente la scena di quei cespugli che il vento solleva facendoli rotolaresulla linea del sentiero. Ma a volte l’immagine era quella dei fiori di mandorlo che volteggiano nell’aria in un turbinio felice.

    Di tutto si dava una ragione: la figlia non aveva difese per potersisalvaguardare dalle cose straordinarie che sono successe. Osservava nei suoi occhitempeste di luce che a volte si spegnevano in oscurità. Le sembrava morsa dallatarantola, come se non riuscisse a realizzare i propri desideri, come se la vita leoffrisse doni che non poteva sfruttare pienamente.

     – Il destino ci ha sbalzato troppo avanti, – diceva a se stessa, – ora bisognatornare indietro per riprendere il nostro passo, ripercorrere a ritroso il camminoper ritornare ai nostri confini.

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    Capitolo 4

    Caterina aveva la sensazione che il mondo intorno a lei girasse come unagiostra. La sua giornata prendeva il ritmo di un tempo accelerato, pur non avendonessuna scadenza, era stimolata da suggestioni e da desideri fluttuanti.

    In famiglia ascoltava i commenti del fratello Battista che paragonava il paese auna pelle di leopardo screziata di macchie oscure della tradizione e di macchiechiare della modernità. Andrea riferiva ogni cambiamento alla nuova divinità cheera il turismo. La fila delle costruzioni si snodava lungo la strada verso il mare.

    Uomini e cose volgevano lo sguardo verso il miracolo della Costa Smeralda. Lepovere casette del paese si alzavano al cielo per allungare lo sguardo. I coloridelle pareti, prima opachi e sbiaditi, esplodevano nelle tonalità di una tavolozzaimpazzita. Ad Andrea che chiedeva di comprare terreni che sarebbero diventatiaree fabbricabili, il padre rispondeva che quelle terre non si sarebbero mossecontinuando a essere campagna.

    Caterina non vedeva nel cambiamento un’apertura per la sua vita nuova.Dietro a quel movimento di soldi, di cose e di persone continuava a resistere unamentalità tradizionale, come se la realtà fosse avvolta in una rete. Le sembrava

    che certe innovazioni producessero per contrappeso più forti resistenze. Il vecchio e il nuovo nell’incontrarsi prendevano una forma ibrida che non mancavadi accenti comici.

     Antoniccu, il neo ricco, indossava i calzoncini color aragosta e calzava i sandalidella farmacia ma gettava le gambe come se stesse andando allo stazzo permungere le capre. Carlo, un giovane miracolato dal turismo, con i capelliimpomatati e con le scarpe alla moda, passeggiando nella piazza, continuava ainciampare sulla lastra sconnessa di granito, tenendo in mano un registratore chegridava canzoni di Sanremo. Stefania scuoteva la testa per far dondolare gliorecchini e con finta noncuranza sollevava la mano per mostrare l’anello di

    zaffiro.I negozi mostrano vetrine nuove e addobbate ma non si può offuscare losguardo rapace di Samuele Soro ritto sulla soglia a giudicare i passanti con lapiega del suo naso. Né si poteva far tacere la lingua maldicente di Agnese Pistische continuava a leggere la vita delle donne con il libro severo e angusto della suamorale, e la signora Claudia, che aveva aperto un negozio di fiori laddove c’era

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    una latteria e continuava a filmare col suo sguardo tutto ciò che accadeva inpiazza per commentare beffardamente con le amiche.

    Caterina non sopportava più questo teatro degli sguardi e delle critiche einsisteva presso la madre per la costruzione della villa al mare nel terreno rimasto

    di proprietà.Battista era rientrato da Milano per prendere tutti insieme la decisione, Andreaaveva preparato una nota di spesa, Caterina, ribadendo che la casa è della donna,aveva già preso contatti con l’architetto che aveva costruito la villa dell’amica.Sulla scelta del sito aveva vinto lei: doveva sorgere proprio sul rialzo della collina,nella piena visibilità, da dove lo sguardo potesse dominare Porto Cervo e l’ansa dimare.

    L’architetto proponeva una villa di stile smeraldino secondo il gioco archetto-scaletta-terrazza e nell’evidente predilezione per gli effetti di colore. Caterinaprendeva confidenza con parole nuove, usava genius loci , en plein air , conl’atteggiamento ostentato di un nuovo sapere.

    Con le amiche parlava di “tegole a canale ocra naturale” e in riferimento alcamino precisava che era “di tipo tradizionale mediterraneo con faccia vista inmattoni” e che bisognava “coniugare il manufatto della villa con il cespuglio econ la roccia, a regola d’arte, in un accostamento di forme e colori”.

    Non le piaceva l’intonaco grezzo che era di moda come raffinatezza turistica eneppure il muro rustico a pietra vista perché le suggerivano l’antico che era il suopassato troppo recente e che voleva cancellare. L’architetto non riuscì aconvincerla neppure a mettere vecchie travi di ginepro a decoro, come effetto

    estetico. Quelle travi le avrebbero ricordato il colore e l’odore annerito dellostazzo. Non ci fu intesa neppure nell’arredo. L’architetto proponeva l’artigianatoartistico sardo, manufatti di ginepro e castagno, di leccio e di ciliegio ma leioptava per i mobili della Brianza. Né era d’accordo che nelle stanze i vuotipredominassero sui pieni sembrandole spoglie e dandole l’idea della mancanza edella povertà. Il pieno invece confermava l’abbondanza e testimoniava laricchezza. Aveva accettato il cespuglio incatenato nel cerchio dell’aiuola, una versione moderna che contrastava col sottobosco selvaggio dello stazzo, cosìcome le era piaciuto il masso di granito come statua nel giardino.

    L’inaugurazione della villa fu la conferma della sua appartenenza alla tribù

    smeraldina. Caterina offriva dolci e spumante di vernaccia, prosciutto con melonee scaglie di formaggio e bottarga. I complimenti brillavano nell’aura della sala. Aveva invitato anche sua cugina Agnese laureatasi a Roma, una ragazza modernache l’aveva aiutata nel periodo di ambientazione dopo l’abbandono dello stazzo,l’aveva accompagnata dalla parrucchiera per il primo taglio dei capelli e l’avevaconsigliata nella scelta dei tailleur nei negozi di Olbia. La presentò alla nuova

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    compagnia e tutti insieme trascorsero la serata in villa e la notte in uno yacht allargo. Rientrando a casa, Caterina era ebbra di gioia ma Agnese stava soprapensiero come se tenesse per sé una preoccupazione. Sollecitata a parlare,espresse un giudizio severo sull’esperienza della giornata dicendo che quella

    compagnia non le era piaciuta e confessava che era molto preoccupata per il tipodi vita che conduceva Caterina. – Tu non sei come loro, quella è una gioventù che vive un tempo di vacanza,

    poi le tue amiche rientreranno nelle loro case, nelle loro famiglie per riprendere laloro vita normale, fatta di regole, di compiti e di responsabilità. Questa che vivono ora è una fuga, per tre settimane succhiano nettare da ogni fiore. Noisiamo stanziali, dobbiamo fare i conti col nostro ambiente, almeno in parte.Certo che possiamo vivere le nostre esperienze amorose ma non sempre in pienaluce, senza farne una bandiera di vita. Le tue amiche qui vivono in un altromondo, tu no, tu sei nel tuo mondo e rischi di bruciarti.

    Caterina capì di averla perduta. Questi consigli la riportavano indietro, nellarealtà paesana. Ormai lei era smeraldina.

    Un tardo pomeriggio prendendo una bibita nella Piazzetta di Porto Cervo ildiscorso cadde sulla sessualità. Valeria, la giornalista di una rivista femminile,difendeva la tesi del libero amore e della libertà della donna nell’espressione deipropri sentimenti. Caterina l’aveva osservata a cena, la sera prima, mentreingoiava i bocconi come se prendesse una medicina preferendo dominare ladiscussione con quella sua voce esile come il suo corpo che pure occultavapassioni nervose.

    Irene, la psicologa di Locarno, rendeva più problematica la discussioneparlando di pulsione e di rimozione, insistendo sui blocchi emotivi e sullagradualità del processo di liberazione della donna.

     Trasmetteva gioia con la sua voce vibrante, col suo volto seducente di luna chepure mostrava qualche linea di ruga.

    Caterina seguiva il filo del discorso che le appariva piuttosto difficile ma cherispondeva confusamente alla sua condizione. A momenti le considerazioni dellapsicologa sembravano fatte apposta per lei, voleva certamente allargare i confinidella sua mentalità paesana ma non condivideva la liberalizzazione sessualedichiarata e pubblicamente accettata.

    Sapeva bene che la sessualità apparteneva al controllo della comunità.Ma Caterina sentiva pulsioni nuove. Il corpo era carne viva e palpitante che voleva ribellarsi a ogni costrizione. In verità nulla sapeva del sesso. La primamestruazione era stato uno shock e nessuna esperienza aveva avuto del corpomaschile.

    Nel ballo sentiva il corpo dell’altro, la pulsione di lasciarsi andare o, come

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    diceva, di scivolare dolcemente, ma antiche resistenze frenavano le sue emozioni. – Hai delle labbra selvagge, – le aveva sussurrato con occhi morbidi un

    giovane veneziano. – Hai una schiena fremente, – le aveva detto un ragazzo di Lugano che nel

    ballo tentava di stringerla a sé.Caterina credeva che nella donna contasse soprattutto il viso e che la bellezzafosse rivelata dalle fattezze del volto e dall’espressione degli occhi, e invece eranole parti del corpo a sedurre l’uomo: era come se le cosce, il sedere, le labbra, ilseno, i capelli fossero calamite di attrazione, fossero carne animata da spirititentatori.

    Le sembrava sconveniente che il sedere potesse essere un punto difascinazione. L’associava a qualcosa di basso e di volgare. Era convinta chel’amore nascesse da un mistero, da uno sguardo inatteso, dall’ascolto di una frasepoetica, come da un improvviso battito di ali, e che il segnale fosse un tuffo alcuore e un blocco del respiro. In Costa Smeralda sperimentava confusamente chei l flirt   era un gioco che si alimentava nei party e nei balli, nelle uscite in barca,nell’osservare corpi e misurarne l’attrazione.

    Le sembrava indecente la frase di Elena, l’estetista, quando affermava che l’arcodella schiena poteva far impazzire un uomo e che un movimento delle natiche edelle cosce procurasse brividi irrefrenabili. Non erano convincenti quelle paroleche uscivano da una bocca larga, sciacquate da labbra che inumidiva con lalingua, labbra spesse che ostentava, convinta che fossero alla moda.

    Le amiche si complimentavano con lei per la tessitura della sua carnagione ma

    dicevano che era da ammorbidire con le creme e le suggerivano un trucco piùmarcato che invece lei usava leggero e con un profumo appena accennato perchéassociava il trucco forte a una donna di malaffare.

    Nelle riviste femminili trovava un mondo di consigli, di problemi e soluzioni.Erano letture che l’aiutavano a capire meglio il suo nuovo mondo e a orientare ilnuovo sentire.

    Ciò che faceva nodo era la questione della verginità. Sentiva dalle amiche cheuna serata poteva concludersi con un atto d’amore e lei proiettava questaeventualità su di sé. Ricordava una frase dell’amica psicologa: bisogna regolarel’istinto ma non reprimerlo.

    Nell’esperienza del ballo e del bacio sentiva il desiderio di abbandonarsi maaveva timore di ciò che poteva succedere dopo. La sensazione di smarrimento eraambivalente: piacere di abbandono e paura di perdersi al di là della sua volontà.

     Avrebbe voluto esporre chiaramente i suoi problemi alla p