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progetto LAVORO per una sinistra del XXI secolo 16 novembre dicembre 2012 6 Euro Alessandro Bramucci John Bellamy Foster Rosaria Rita Canale Emilio Carnevali Marco Canesi Robert W. McChesney Ugo Marani Sergio Marotta Fabrizio Mastromartino Andrea Montagni Antonio Morandi Nicola Nicolosi Antonio Olivieri Gian Paolo Patta Bruno Steri Evelyne Ternant Yuezhi Zhao COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge. (Art. 54) Registrazione Tribunale di Milano n. 650 del 03-12-2010

LAVORO - puntorosso · innovazione di processo e di prodotto. Come osserva acutamente il profes-sor Alberto Quadrio Curzio, qualsiasi impiego di capitale ha bisogno di più fattori

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progetto

LAVOROper una sinistra del XXI secolo

1166nnoovveemmbbrreeddiicceemmbbrree 22001122

66 Euro

Alessandro BramucciJohn Bellamy FosterRosaria Rita Canale

Emilio CarnevaliMarco Canesi

Robert W. McChesneyUgo Marani

Sergio MarottaFabrizio Mastromartino

Andrea MontagniAntonio MorandiNicola NicolosiAntonio OlivieriGian Paolo Patta

Bruno SteriEvelyne Ternant

Yuezhi Zhao

COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANATutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sonoaffidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dallalegge. (Art. 54)

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... RINNOVA L’ABBONAMENTO PER IL 2013 !

Nicola NicolosiIl patto sulla produttività

Franco Calamida, Paolo RepettoReferendum Art. 18 e Art. 8

Gian Paolo PattaRispondere alla crisi

Andrea MontagniCgil di classe

Luigi VinciFiscal compact: babau e cantonate “di sinistra”

Rosaria Rita Canale, Ugo MaraniI due debiti gemelli dell’Eurozona

Alessandro BramucciGli squilibri europei e la lezione di Keynes

Sergio MarottaI beni comuni tra diritto e società

Marco CanesiI porti del Mezzogiorno

Fabrizio MastromartinoBasic income. Argomenti per una società più equa

Evelyne TernantDal Reddito minimo di inserimento (RMI) alReddito di solidarietà attiva (RSA)

Emilio Carnevali Obama, poco keynesismo è sempre meglio ditanta austerità

Antonio MorandiMoldavia, paese in bilico

John Bellamy Foster, Robert W. McChesneyLa stagnazione globale e la Cina

Bruno SteriUna singolare entità: il socialismo alla cinese

Giancarlo SaccomanPCC a congresso: quale cambiamento

Yuezhi Zhao La lotta per il socialismo in Cina. La saga di Bo Xilai e oltre

Matteo GaddiLa crisi Mac

Antonio OlivieriImportiamo schiavi

Foto del numero: “Cina, settembre-ottobre 2012” Foto di Bepi Tissi

RIVISTA MENSILE PROMOSSADALL’ASSOCIAZIONE PUNTO ROSSO E DALMOVIMENTO PER IL PARTITO DEL LAVORO

ESSA RITIENE CENTRALE NELLA CRISISISTEMICA IN CORSO LA RICOSTITUZIONEDEL VERSANTE POLITICO DI MASSA DELMOVIMENTO OPERAIO

Registrazione presso il Tribunale diMilano n. 650 del 03/12/2010

Edizioni Punto Rosso

DIRETTORE RESPONSABILEGiancarlo Saccoman

CONDIRETTORELuigi Vinci

DIREZIONE EDITORIALESilvana Cappuccio, Anna Cotone,Matteo Gaddi, Silvia Garambois,Roberto Mapelli, Maria Rosaria Marella,Giorgio Mele, Andrea Montagni, AntonioMorandi, Corrado Morgia, Luca Nivarra,Roberto Passini, Gian Paolo Patta,Paolo Repetto, Giorgio Riolo, VittorioRieser, Giancarlo Saccoman, AlbertoScanzi, Luigi Vinci.

COLLABORATORIMario Agostinelli, Anna Belligero, Paola Bentivegna, Elio Bonfanti,Giacinto Botti, Franco Calamida,Antonio Califano, Giovanna Capelli,Tatiana Cazzaniga, Bruno Ceccarelli,Leo Ceglia, Luca Ciabatti, Paolo Ciofi,Saverio Ferrari, Erminia EmprinGilardini, Marcello Graziosi, PaoloHlacia, Igor Kocijancic, Gian LucaLombardi, Emilio Molinari, RaulMordenti, Gianni Naggi, Nicola Nicolosi,Giuliano Pennacchio, Roberto Polillo,Mimmo Porcaro, Roberto Romano,Stefano Squarcina, Gianni Tamino,Leopoldo Tartaglia, Mauro Tosi.

SEGRETERIA DI REDAZIONE PRODUZIONE EDITORIALE E AMMINISTRAZIONE c/o Associazione Culturale Punto Rosso Via G. Pepe 14, 20159 Milano Tel. 02/874324 [email protected]

PREZZO e ABBONAMENTIPrezzo a numero 6 euro, abbonamentoannuo ordinario 50 euro, abbonamentosostenitore 100 euro, da versare sulconto corrente postale numero 7328171intestato a Ass. Cult. Punto Rosso -Rivista Progetto LavoroPer bonifico bancario IBAN IT78J0760101600000007328171

TIPOGRAFIADigitalandcopy, Milano

INTERNETwww.rivistaprogettolavoro.itabbonamenti@rivistaprogettolavoro.it

Sul sito della rivista approfondimenti,tutti i numeri in pdf, news

Questo numero della rivista è statochiuso il 4 dicembre 2012

NOTE DI POLITICA

CRISI

TEMI DELLA CRISI - ITALIA

ESTERI

DOSSIER:LA CINA NELLA CRISI

INCHIESTE E RICERCHE

SUL LAVORO

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L’ACCORDO SULLAPRODUTTIVITÀ cioè il manifesto dell’ipocrisia

L’accordo sulla produttività rappresental'ennesimo, gravissimo attacco ai dirittidelle lavoratrici e dei lavoratori: scarica

solo su di essi i costi di uscita dalla crisi.

La Cgil non ha firmato l'intesaproprio perché essa si collocasulla scia di quanto accaduto

negli ultimi vent’anni, dove ad esserecarente non è stata certo la produttivi-tà dei lavoratori, bensì lo scarso (onullo) investimento delle imprese,soprattutto in ricerca e sviluppo e ininnovazione di processo e di prodotto.

Come osserva acutamente il profes-sor Alberto Quadrio Curzio, qualsiasiimpiego di capitale ha bisogno di piùfattori per diventare produttivo, quindianche in tema di formazione e di orga-nizzazione del lavoro, per fare dueesempi. Ma dalla fine degli anni '80l’unica strategia d’azione attuata è stataquella del sistematico attacco alle con-dizioni materiali di chi lavora: dallacancellazione della scala mobile al pac-chetto Treu, che ha reso il lavoro iper-flessibile e nei fatti precario, fino allepolitiche del governo Berlusconi, inparticolare del ministro Sacconi, chehanno ulteriormente colpito quantorestava dei diritti dei lavoratori. Nelsuo anno di vita, il governo Monti haripercorso la stessa strada, utilizzandola fiscalità generale per promettererisorse soltanto ad alcuni, e finendoper mettere in competizione fra lorolavoratori e pensionati.

Il colmo dell’ipocrisia del governosta nell'aver definito l'accordo sullaproduttività come figlio della concerta-zione. In realtà ci troviamo di fronte aun patto neocorporativo con le impre-se con l'avallo di Cisl e Uil, orientato adapplicare in materia di produttività l'ar-ticolo 8 della manovra di agosto 2011targata Berlusconi. Un articolo controcui si stanno raccogliendo le firme perarrivare a un referendum. L’accordomina alla sue fondamenta il contrattonazionale di lavoro, nel solco dellapiena concezione liberista sancita dalpatto Europlus siglato nel marzo 2011dal Consiglio Europeo, disponendoche siano dirottate verso la contratta-

cono elementi gravi: viene forzata laseconda parte dell'articolo 39 dellaCostituzione, che definisce il ruolo deisindacati proprio guardando alla lororappresentanza. Infine, là dove si parladell'impiego di nuove tecnologie perfacilitare l’attivazione di strumentiinformatici ordinari, si intende dare ilvia libera a controlli televisivi nei luo-ghi di lavoro: che sono vietati dalloStatuto dei lavoratori.

La Cgil deciderà dunque rispostesindacali specifiche, tramite assembleesui territori: informeremo i lavoratorisul contenuto dell’accordo, e la posi-zione assunta nella trattativa dal segre-tario generale della Cgil è la posizioneche sosterremo durante tutte le fasi delconfronto che già si sta sviluppandonei luoghi di lavoro.

Invochiamo però anche una mobili-tazione delle coscienze: le forze politi-che, a partire da quelle che si candida-no a dirigere il Paese, hanno il precisocompito di fornire risposte immediaterispetto ad un fatto così grave. Lodevono alle lavoratrici, ai lavoratori e aipensionati che sono stanchi di ricopri-re il ruolo di “soliti noti” a cui sonochiesti sacrifici (ormai intollerabili); malo devono anche ai tanti, tantissimidisillusi dalla politica, che non si riavvi-cineranno certo ad essa se i partiti (acominciare ovviamente da quelli delfronte progressista e della sinistra) nonfacessero la loro parte in difesa degliinteressi materiali delle persone incarne ed ossa.

zione aziendale – che riguarda non piùdi due milioni di lavoratori dipendentisu sedici – le risorse che servirebberoinvece ad aumentare i minimi contrat-tuali nazionali.

Aver firmato una simile intesa senzail consenso del più grande sindacatoitaliano darà il via a inevitabili conflittisindacali a partire dai luoghi di lavoro,tenendo conto del fatto che la Cgildifenderà il contratto nazionale, postodi lavoro per posto di lavoro.

Consideriamo, insomma, scelleratae ipocrita la scelta del governo, in lineacon le politiche economiche degli ulti-mi vent'anni incarnate da Berlusconi,aggravate dal fatto di aver messo sulpiatto risorse pagate dalla fiscalitàgenerale, che è costituita per l'80% dalavoratori e pensionati. Sono stati cosìcreati i presupposti per mettere i lavo-ratori l’uno contro l’altro, determinan-do logiche attraverso la distribuzionedi risorse economiche che non vengo-no nemmeno pagate dalle imprese.

Il governo e le imprese, con l’avval-lo di Cisl e Uil, si sono concentratiancora una volta sulla produttività delsolo fattore lavoro, e non sulla produt-tività di tutti i fattori che determinanola riuscita dell’impresa. Oltre a dividereil sindacato e i lavoratori questa sceltaprima di tutto significa, infatti, l'abbas-samento delle retribuzioni. A ciò siaggiungono ulteriori elementi: controequivalenza delle mansioni e integra-zione delle competenze l'accordo san-cisce il demansionamento. E’ previstapoi la redistribuzione degli orari dilavoro anche utilizzando modelli flessi-bili. Modelli che, se mal articolati, pos-sono portare ad una flessibilità chepuò costringere il lavoratore a doverconcedere dodici ore di disponibilitàper lavorarne sei, mettendo in discus-sione l’organizzazione su più turni.Anche sulla rappresentanza e la demo-crazia sindacale con l’intesa si introdu-

di NICOLA NICOLOSI

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Idue referendum sono lo stru-mento concreto, il solo a dispo-sizione, per il ripristino del-

l’art.18 e la cancellazione dell’art.8 oquantomeno per limitare i danni. Maancora non c’è quella ampiezza dimobilitazione, di slancio e determina-zione che sarebbe necessaria, non c’èquell’idea del referendum strumento didialogo sociale, che incide sul sentirecomune, costruisce un fronte estesonella società, che è la condizione perl’efficacia della campagna. Pesanol’inadeguato coordinamento dei pro-motori; le scarse o nulle disponibilitàfinanziarie, il silenzio dei mass-media,il tramonto della cultura politica dellavoro, la frantumazione sociale sotto icolpi della crisi. Insomma i referen-dum sono clandestini. Così almenopensano quelli che ci lavorano, giornoper giorno.

E clandestini sono pure i contenuti:qualcuno conosce l’art. 18 ma pochi,pochissimi l’art.8. Di che si tratta? Aseguito di “specifiche intese”, traazienda e sindacati, ogni movimentosul lavoro potrà essere controllato daun impianto audiovisivo. L'orario dilavoro per particolari mansioni puòsalire a 65 ore e però in qualche mesescendere a 20. Un operaio specializza-to può esser retrocesso alla qualifica digenerico. Il contratto di lavoro a tempoindeterminato può essere convertito inun contratto da collaboratore a proget-to, rinnovabile di tre mesi in tre mesi,perdendo il beneficio delle le ferieretribuite. Potrebbero essere abolite lepause alla catena. E altro ancora. E'terribile, così come era impensabilesolo pochi anni addietro.

Scrive Luciano Gallino: l’art, 8“costituisce un mostro giuridico qualela Repubblica italiana non aveva maivisto concepire dai suoi legislatori…

ha cercato di coordinarne i lavori. Varicordato che il coordinamento nazio-nale che sovrintende alla campagna(composto da Idv, Sel, Prc, Pdci, Verdi,Fiom, Lavoro Società Cgil, La Cgil cheVogliamo, Alba, Articolo 21) hadenunciato a più riprese il bavaglio del-l'informazione pubblica sul tema e haorganizzato anche un flash-mobdavanti alla sede della dirigenza Rai, inviale Mazzini a Roma. Dopo la prote-sta qualcosa si è mosso, ma sostenereche la sostanza sia cambiata dopo quelpresidio sarebbe miope e propagandi-stico.

“I referendum – hanno spiegato ipromotori davanti alla Rai – sonooscurati da tutti i mezzi di comunica-zione e dal servizio pubblico radiotele-visivo, perché estranei ai diktat politicidi chi comanda in Rai. Messi insieme,questi e molti altri, sono i tasselli di unagigantesca operazione di rimozione deidiritti dal nostro sistema dell’informa-zione. I talk show, non tutti, ma moltidi essi, sono ridotti a veri e propri pol-lai – hanno denunciato i referendari –dove si azzuffano galli senza che siapprofondisca mai nulla. Il movimentoper la libertà d’informazione, insiemead alcuni partiti, ad alcune importantiaree sindacali e alle associazioni dellasocietà civile, ha voluto alzare la vocecontro la censura e i soprusi: ancheall’ombra del governo tecnico si starealizzando un grave e insidioso attac-co ai diritti”.

Eppure “i referendum rappresenta-no un argine alla disaffezione verso lapolitica, offrono un’occasione di parte-cipazione a tanti cittadini che altrimen-ti troverebbero solo la strada della rab-bia e della contrapposizione verso leistituzioni”. Alla Rai evidentementenon interessa

La formulazione dell'articolo 8 nonlascia dubbi: esso mira a stabilire perlegge che è realmente possibile deroga-re allo Statuto dei Lavoratori del1970… e alle centinaia di disposizionilegislative introdotte dagli anni 60 inpoi, che si trovano citate in calce a ognimanuale di diritto del lavoro. Oltre cheignorare… gli articoli 3 e 39 dellaCostituzione… Simile mostruosità, senon si vuole far fare un salto indietrodi mezzo secolo alla nostra civiltà dellavoro, va cancellata”.

A questo punto possiamo chiederci:quali sono le prospettive per i due refe-rendum? Nonostante non siano dispo-nibili dati certi sulle firme raccolte, ilnostro giudizio, a seguito di molti con-tatti, è che con un rinnovato impegnoe un grande sforzo finale è possibileraggiungere l’obiettivo. Si voterà nel2014. Ma ancor prima un dato, impor-tantissimo, è certo: l’estensione dellacampagna, il numero di firme raccolte,l’impatto politico generale inciderannosulle scelte di governo in tema di lavo-ro e diritti del lavoro, soprattutto se leelezioni politiche vedranno il successodel centrosinistra. E sarà una primabuona risposta, se ben gestita, a quan-ti, ai banchetti, firmano e dicono:“meno male che ci siete voi”.

Ma la radiotelevisione pubblicaoscura la raccolta firme

La battaglia del comitato referenda-rio contro l'oscuramento della raccoltadi firme su art. 8 e 18 è stata sostanzial-mente persa. La constatazione è tantovera quanto grave e presenta un unico(positivo) rovescio della medaglia: qua-lora vengano raccolte entro l'Epifaniale 500mila firme valide per poter vota-re il referendum nel 2014, il meritosarà attribuibile esclusivamente agliinstancabili comitati territoriali e a chi

ART. 18 E ART. 8:due mostri giuridici daabbattere

Siamo oltre la metà della campagna referen-daria su articolo 8 e articolo 18: importantissi-

ma. Conquiste di decenni di lotte sono statecancellate, i colpi più duri sono stati inferti, di

recente, dal governo Berlusconi prima e daquello Monti poi. E la loro “soluzione finale”: la

posta in gioco sono le prospettive stesse delmovimento operaio nel nostro Paese, e della

qualità della democrazia, non essendocidemocrazia politica se non c’è democrazia

sui luoghi di lavoro. di FRANCO CALAMIDA E PAOLO REPETTO

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Terminate le primarie perdecidere il candidato del cen-tro-sinistra a guidare il pros-

simo governo comincia l’ultimo pezzodella tortuosissima strada che iniziatacon il crollo di Berlusconi ci porteràfinalmente alle elezioni politiche.Mentre scrivo non è ancora nota lalegge elettorale con cui si voterà.Speriamo che sia l’ultima anomalia diun anno anomalo e disastroso. Come ifatti ormai testimoniano, si sarebbepotuto votare tranquillamente la scorsaprimavera, risparmiando al Paesel’opera di un governo di “unità nazio-nale” che ha aggravato la recessione eprivato il Paese di un'opposizione poli-tica, causa questa non ultima del-l’esplosione del grillismo, che appenala scorsa primavera non avrebbeappunto raccolto la massa di consensicui alludono le recenti elezioni inSicilia.

Le ragioni del permanere del com-missariamento del Paese ad opera diMonti non vanno ricercate nella neces-sità di provvedimenti anti-crisi ma inun progetto politico ambizioso: varareuna terza repubblica che chiuda defini-tivamente la stagione iniziata dopo laseconda guerra mondiale, con laResistenza e la nascita dei partiti dimassa.

I partiti che approvarono laCostituzione subirono nella preceden-te crisi del 1992-93 un primo violentourto: scomparvero la DC, il PCI, il PSIe nacquero i nuovi partiti che abbiamoconosciuto fino ad oggi. Partiti che sisono trasformati, con il contributo dileggi elettorali mirate, da organizzatorid'interessi di massa in partiti personalio, comunque, a gestione personale,mentre a livello locale si sono concen-trati i poteri in singole persone (sinda-ci, governatori) a discapito delleassemblee elettive. Prevalgono così suipartiti e i loro organi di direzionequanti ricoprano ruoli istituzionali,

no. Questa lunga stagnazione è allabase della crisi della politica che nonpuò, a causa sua, disporre di nuova ric-chezza da redistribuire e mette in crisiil ruolo redistributivo del conflittosociale e dei sindacati. La redistribuzio-ne avviene ormai solo verso l’alto, pergarantire prioritariamente margini diprofitto alle imprese, ridotti dalla duracompetizione internazionale. Infatti èdal 1978 (riforma sanitaria) che nonvengono varate riforme favorevoli ailavoratori mentre i governi hanno mol-tiplicato gli interventi per trasferire, dalsalario diretto e indiretto e dal fisco,reddito a favore dei profitti.

E’ chiaramente in via di smantella-mento il sistema sociale di tipo euro-peo com'è stato costruito dal dopo-guerra in conformità a costituzionifortemente sociali ed egualitarie, e conesso viene smantellato il sistema politi-co che lo costruì.

Nel biennio 2011-2012 i progressiin questa direzione sono stati enormi:a lavoratori ricattati dalla crisi è dato il"potere", per sopravvivere, di derogareleggi e contratti nazionali; è reso facileil licenziamento e viene permesso l’uti-lizzo dei lavoratori in mansioni inferio-ri; la pensione, soprattutto per gli ope-rai, diventa un miraggio; si aumental’orario di lavoro, i sindacati che nonsottoscrivono gli accordi perdono iloro diritti e i lavoratori perdono ildiritto a scegliere liberamente il pro-prio sindacato. Non è solo lo smantel-lamento delle conquiste del 1968-1970(pensioni, statuto dei lavoratori, mag-giore eguaglianza nella distribuzionedei redditi), è peggio: la libertà sindaca-le formale e il valore delle leggi e deicontratti non furono mai messi indiscussione neppure negli anni 50.Soprattutto, a differenza di alloraanche in quanto l'economia galoppava,siamo e resteremo in stagnazione peranni, e non ci sono i robusti partiticlassisti degli anni 50 e 60. Oggi, infat-

anzi l'assumere un ruolo di direzionenei partiti è considerato trampolino dilancio per ruoli istituzionali: vedi il rap-porto mortale tra Veltroni e Prodidurante l'ultimo governo diretto daquest'ultimo. Questa trasformazionedella politica era ed è funzionale all'ab-bandono delle ideologie del 900, quel-le espresse dalle diverse classi sociali eche alludevano a diversi modelli gene-rali di società: comunista, socialdemo-cratica e popolare. Si è così spianata lastrada all'affermazione del pensierounico, quello secondo il quale il capita-lismo è il sistema migliore possibile el’individuo, non la classe, è il protago-nista centrale della vita economica,sociale e politica.

Su questa politica già debole si èabbattuta una globalizzazione intesacome sola libera circolazione di mercie di capitali e che, non accompagnatada regole e da strutture politiche sovra-nazionali, ha messo in posizione didominus la finanza globale e l’impresarispetto agli Stati, ridimensionandocosì ulteriormente il potere della politi-ca in senso largo. La competizione sisviluppa non più tra paesi ma traimprese localizzate in sistemi diversis-simi tra loro per legislazione, libertà edemocrazia. La competizione così, ine-vitabilmente, si sviluppa sul costo dellavoro, sottoposto a pressioni fortissi-me e già sceso, anche in Italia, permilioni di lavoratori poveri sotto diquello che era considerato essere illivello di sussistenza. Un quarto del-l’apparato industriale italiano è statoinoltre delocalizzato, soprattuttodurante gli ultimi dieci anni, in paesi abasso costo del lavoro. Il risultato èstato un ritorno delle crisi tipiche peracutezza e frequenza dei periodi prece-denti l’intervento pubblico in econo-mia e la regolazione del mercato (conleggi, contratti nazionali, diritti e tute-le, welfare state). L’Italia liberista è instagnazione da venti anni mentre le sueimprese internazionalizzate prospera-

RISPONDEREPOLITICAMENTEDAVVERO ALLACRISI

Una risposta adeguata di sinistra alla crisirichiede la costruzione di una trincea;

più in là, la ricostituzione della rappresentanza politica del lavoro

di GIAN PAOLO PATTA

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ti, dobbiamo affrontare queste provedurissime senza partiti di massa forma-ti dai lavoratori. Lo stato della sinistraè tragico: lontana dai lavoratori è for-mata da partiti di opinione e la stessaSel deve la sua situazione relativamen-te migliore più a Vendola che a un pro-prio radicamento.

La sinistra radicale non solo non harappresentato un'alternativa ma è partedella crisi del sistema politico, priva dirappresentanza reale, lontana dai lavo-ratori e soprattutto dagli operai, inprimo luogo in quanto è stata un colla-ge senza anima di posizioni radicalimutuate dai diversi fenomeni politici esociali degli ultimi venti anni. E’ unasinistra esterna alla classe, che non haidentificato se stessa con i lavoratori,che ha cavalcato tutte le proteste ecambiato linea politica all'apparire diogni fenomeno di protesta di qualcherilievo, invece di perseguire un proprioprogetto di radicamente, di rappresen-tanza e di società.

Il tentativo di costruire, dopo loscioglimento del Pci, attraversoRifondazione Comunista un nuovopartito dei lavoratori è cioè fallito, nau-fragato in scissioni e nella cristallizza-zione di correnti identitarie e settarie.L’idea di Sergio Garavini di costruireun partito che rivedesse criticamente ilpensiero comunista e fosse contempo-raneamente un partito “dei” e non“per” i lavoratori, entrò in crisi adappena due anni dalla sua fondazione.Non essendo un partito di classe equindi non affrontando la lotta politicain funzione delle richieste e degli inte-ressi della classe ma della propria coe-renza con il proprio impianto valoriale,astratto dal conflitto reale, non potevache entrare in crisi ad ogni relazionecon altri soggetti e soprattutto con lamaggiore forza politica del centrosini-stra.

Il rapporto con il Pd oggi e il Pdsieri non è mai stato considerato daRifondazione come ineludibile tra par-titi che insistono sullo stesso bloccosociale, sia ai fini della competizionetra di loro e per l’egemonia in esso, siaai fini di risultati ( di avanzamento, didifesa o di arretramento ordinato) pertale blocco sociale. Di qui rotture con-tinue, sempre punite dai lavoratori esoprattutto da coloro che più di altrihanno bisogno di un loro partito: glioperai. Il tentativo di riunificare parte

per i lavoratori sarebbe importanteattestarsi su una linea del Piave doveresistere e riorganizzarsi socialmente epoliticamente. E questa linea del Piavedovrebbe essere la difesa dellaCostituzione, della democrazia sinda-cale e della libertà nei luoghi di lavoro,la difesa dello stato sociale, l'equità nel-l'intervento del fisco e il rilancio del-l'intervento pubblico nei settori che ilPaese rischia di perdere.

Un programma certo difensivo, sulquale può esserci però la maggioranzadel paese e sul quale concorda unaparte estesa del Pd e molte organizza-zioni sociali tra le quali la Cgil.

Certo questo programma avrebbepotuto essere più forte se sostenuto daun patto tra FdS, Sel e Idv, come abbia-mo chiesto, per anni, noi delMovimento per il Partito del Lavoro.Purtroppo Rifondazione ha posto pre-giudiziali invalicabili a un accordo conil Pd (stranamente solo a livello nazio-nale), Di Pietro si è fatto isolare facil-mente da chi ha lavorato in quest'annoperché il centro-sinistra non ce lafacesse a vincere le prossime elezioni,Sel ha aperto per conto proprio il rap-porto con il Pd, forse riponendoeccessive attese nelle primarie del cen-tro-sinistra.

Il Movimento per il Partito delLavoro ha deciso, considerato il qua-dro generale, di collocarsi nel centrosi-nistra e di sostenere nelle primarie nonil candidato più vicino, Vendola, maBersani, in quanto unico in grado direalizzare uno schieramento di centro-sinistra, l'unica possibilità in campoper provare ad attuare un programmadifensivo e l’unica alternativa ad unMonti bis e al commissariamento delPaese da parte europea. La forma con-creta della nostra partecipazione alleelezioni nell'ambito del centro-sinistrala decideremo quando sarà approvatala nuova legge elettorale e sarannonote le soglie per premi e sbarramentisulle quali si discute da mesi.

Superate le elezioni occorrerà lavo-rare a rifondare totalmente la sinistrasu basi classiste, cercando di ricompor-re le culture storiche del mondo dellavoro, partendo dalle sue organizza-zioni di massa e non da schegge setta-rie.

della sinistra attraverso la FdS è nau-fragato per le stesse ragioni che causa-rono nel passato le scissioni diRifondazione.

Quello che resta di questo partitorischia oggi, infine, di scomparire defi-nitivamente, mentre il suo gruppo diri-gente cerca affannosamente ciambelledi salvataggio anche grazie a forze chenon si dichiarano né di destra né disinistra ma che si sono puramente col-locate all'opposizione del governoMonti. Sel a sua volta non manifestanessuna intenzione di rifondare la sini-stra su basi nuove e procede affidandole proprie fortune al successo diVendola. Eppure ci sarebbero tutte leragioni per un grande protagonismodella sinistra, giacché la critica al siste-ma capitalistico avanzata storicamentedalla sinistra di origine marxista(comunista e socialdemocratica) trovariscontro nella crisi prolungata di unsistema che avviene mentre le poten-zialità dei fattori della produzione sonoal loro massimo e sarebbero in gradodi superare la povertà diffusa nelmondo e di riorganizzare la vita socia-le dedicando meno tempo al lavoro.

Questa miscela di debolezza genera-le della politica e di crisi economica dilungo periodo rischia di far implodereil sistema verso sbocchi ignoti e moltodifficilmente di sinistra, considerato lostato disastroso in cui questa si trova,per di più per responsabilità proprie.L'inesistenza di una forza politica ouno schieramento capace di ottenere lamaggioranza assoluta dei voti deglielettori e il conseguente ricorso adalchimie elettorali per garantire ungoverno al Paese è l'indice dell'avanza-to stato di decomposizione del siste-ma.

Che fare allora in vista delle elezio-ni? Se ci limitassimo a considerareesclusivamente le distanze politiche eprogrammatiche tra la sinistra e il Pd,anche limitandoci a quelle serissimeemerse nell'ultimo anno, dovremmoconcludere che non esistono le condi-zioni per un accordo elettorale. Seinvece riflettiamo, valutati i reali rap-porti di forza tra le classi, su ciò chepuò essere ancora utile e possibile otte-nere per i lavoratori e il Paese, allora ildiscorso cambia. A fronte dell'attaccoa conquiste storiche e al rischio d'im-plosione del sistema democratico nelpopulismo inconcludente, credo che

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crisi

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LA CGIL NON HAFIRMATO SULLAPRODUTTIVITÀ, perché è un sindacato di classe

La Cgil ha deciso di sottrarsi alla firma di unaccordo sulla produttività che ammazza

ruolo e funzioni del contratto collettivo nazio-nale di lavoro, poiché l’accordo distrugge

qualsiasi certezza su diritti, inquadramenti esalari dei lavoratori, dando piena attuazione

– sia pure senza nominarlo direttamente –all’art. 8 della Legge Sacconi, inoltre si

rimangia l’accordo unitario del 28 giugno siasulla contrattazione, sia sulla

rappresentatività.

La firma dell’accordo – che ilgoverno Monti ha sponsoriz-zato pur non risultando tra i

contraenti – realizza una pesantissimaipoteca sul futuro del sindacalismo ita-liano e mira a condizionare le sceltepolitiche anche del governo che succe-derà al governo Monti. E’ un modo,uno dei molti, ma certo significativo, didettare l’agenda politica del paese insintonia con gli orientamenti dellaBCE e della Commissione europea.

La decisione della Cgil ha destatomeraviglia in larga parte della sinistraradicale italiana, quasi che una cosagiusta a farsi non fosse nelle cordedella Cgil, dal momento che la vulgataprincipale per i frequentatori dei circo-li di partito e per i lettori de ilManifesto è che questo sindacato sia“succube” e infeudato al partito demo-cratico e quindi incapace di decisioniche non corrispondano nella sostanzaai desiderata e agli equilibri interni diquel partito. Secondo questa logica lacosa era ancora più impossibile allavigilia delle primarie del centro-sini-stra, perché una posizione di rotturadella Cgil avrebbe messo in difficoltà ilsegretario del Pd Bersani che poi leprimarie ha vinto lo stesso. Questa èuna lettura totalmente politicista.

L’altra lettura anch’essa di granmoda è che, poiché la Cgil sarebbeormai totalmente subalterna al quadroeconomico capitalistico e la sua praticacontrattuale subalterna al punto divista delle imprese, giocoforza ne deri-verebbe, sotto la pressione dello stessoPd, di rompere gli indugi ed accettarequello che con i governi Berlusconi erastato respinto. Questo modo di ragio-nare, come cercherò di argomentare,

non riesce a nascondere la mancanzadi risultati contrattuali. Tutti oggi par-lano e vedono la realtà del settoremetalmeccanico nella quale la FIOM èstata esclusa dai tavoli contrattuali ed èvittima di intese separate. Ci si bea a“sinistra” di contrapporre questa diffi-coltà – quasi fosse il bene – alle realtàdi tenuta unitaria degli altri settoriindustriali. Quasi nessuno parla dell’in-tesa separata del commercio e dellepiattaforme separate con le quali sonostati aperti tutti i rinnovi dei settori deiservizi o il blocco totale della contrat-tazione del settore pubblico.

In questa situazione, il terreno dellarivendicazione generale, intercatego-riale torna centrale. Ma la crisi econo-mica frustra questa centralità, perchécostringe il sindacato sulla difensiva sututti i fronti. E la capacità di presa emobilitazione diminuisce, come dimo-strano i dati sull’adesione agli scioperiin tutti i settori. Infatti urge ormaianche una riflessione su forme di lottaadeguate da affiancare lo sciopero eatte a permettere la continuità al movi-mento. La politica torna ad essere deci-siva.

Quando più è necessaria la spondapolitica, proprio allora il movimentooperaio italiano perde il suo riferimen-to con il progressivo passaggio dal Pcial Pds al Pd, che oltre al cambiamentodi sigla corrisponde ad un cambiamen-to di paradigmi concettuali e di legamisociali. I legami con il sindacato e coilavoratori divengono sempre piùlaschi, non solo sul terreno ideologicoe formale, ma anche su quello sostan-ziale, caratterizzato da un marcatointerclassismo e dall’adesione alla cul-tura liberale. E’ dalla segreteria

non coglie la sostanza della situazionesociale in cui opera il principale sinda-cato italiano, sottovaluta la sua compo-sizione sociale e la tenuta del suo grup-po dirigente, non solo del suo quadrointermedio, e dimostra una scarsaattenzione alle sue dinamiche stesseinterne.

L’anno di svolta della Cgil è rappre-sentato dal secondo governoBerlusconi. La crisi della rappresentan-za politica della sinistra riformista ita-liana, il fallimento della nuova sinistraradicale rappresentata da Rifondazionespingono la Cgil sulla strada di un’au-tonomia fortissima e alla ricerca delleproprie ragioni nel radicamento socia-le. Agli inizi del nuovo secolo vieneanche a maturazione una crisi di rap-presentatività verso le nuove forme dilavoro povero e precario che si affian-cano in modo inedito a quelle classiche(bracciantato agricolo, settore dell’edi-lizia, scuola) che il sindacato avevaimparato a governare e organizzare inuna esperienza davvero secolare. Il sin-dacato categoriale e aziendale venutoprepotentemente alla ribalta nellaseconda metà degli anni 60 nonrisponde più. Nell’aria c’è qualcosa dinuovo, anzi di antico. Il territorio, lecamere del lavoro tornano al centrodell’attenzione, ma sono ormai mac-chine burocratiche e i problemi balza-no agli occhi.

La precarietà segna anche l’indeboli-mento della capacità rivendicativa. Icontratti divengono via via sempre piùstrumenti difensivi in un arretramentogenerale delle condizioni salariali enormative. L’accordo del 1993 disvelatutto il suo potenziale negativo e l’af-fermazione di “regole” contrattuali

di ANDREA MONTAGNI

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Cofferati che, con alti e bassi, conavanzamenti e passi indietro, in modocontorto, che la Cgil marca via via lasua distanza dalla politica e “doman-da” (non sempre in forma esplicita)una risposta politica di sinistra.

In questo, un ruolo decisivo haavuto –anche se a sinistra viene sotto-valutato – la sinistra interna alla Cgil.Un ruolo decisivo sul piano del dibat-tito interno, rendendo trasparente eintelligibile il confronto programmati-co; un ruolo importante sul piano teo-rico, portando nell’organizzazione itemi dell’altermondialismo e della criti-ca della globalizzazione neoliberista;sul piano ideologico mantenendo illegame ideale con il socialismo; sulpiano organizzativo dando vita adun’esperienza collettiva che neimomenti di arretramento ha semprerimarcato un punto di vista critico,pronto ad aprirsi e a veleggiare in mareaperto nei momenti di tenuta e di svol-ta.

La Cgil si è anche logorata in questodecennio. Incidono la crisi di tenuta sulpiano dei risultati, l’irrompere delletematiche e dei settori nuovi del lavo-ro, le spinte corporative che sono pre-senti e i diversi orientamenti in ungruppo dirigente non più omogeneosul piano politico, culturale e organiz-zativo e infine le crescenti difficoltà sulpiano economico, legate anche allespese sostenute per mantenere unapparato all’altezza e grandiose mani-festazioni di massa. Eh se incidono!

sinistra (Fassina), rendono chiaro chela Cgil e le sue categorie restano perdavvero l’unica organizzazione dimassa del movimento dei lavoratori ingrado di agire collettivamente e politi-camente. Una sinistra che aspiri adessere rappresentativa e maggioritariasi deve rapportare e confrontare conquesto sindacato come tale. In questosindacato deve spingere i suoi attivistiad operare. Il sostegno alla Cgil per lasinistra di classe è un dovere politico,perché dalle sorti della Cgil dipendonoin larga parte le sorti della sinistra stes-sa. Al tempo stesso, la Cgil deveriprendere, prima che sia troppo tardi,la strada che era stata intrapresa nellaprima metà di questo decennio chie-dendo risposte alla politica e favoren-do esplicitamente l’organizzazione diquesta risposta. In autonomia, certo,ma non indifferente.

Insomma, a sinistra invece di dare ivoti si deve agire. A sua volta il gruppodirigente sindacale invece di indicare,come alla primarie del Pd, quello chenon va, deve cominciare a dire in espli-cito al centro-sinistra quello che vuoleper i lavoratori, per la democrazia e peril paese. Parimenti la Cgil deve metterela richiesta di un cambio della politicaeconomica e sociale, la centralità dellavoro e del reddito, la lotta alla preca-rietà e i diritti al centro della sua inizia-tiva. Deve chiederlo alle forze politi-che, deve pretenderlo dal governo delpaese, deve agire per ottenerlo.

Loro volta la struttura piramidale el’intreccio tra categorie e confederazio-ne hanno creato un policentrismo deipunti di dibattito e di direzione e unapersonalizzazione leaderistica del con-fronto che impediscono una letturalineare del dibattito interno.

Tutto questo, se complica la vitadegli analisti, non annulla l’elementostraordinario di novità rappresentato– al contrario della vulgata prevalente– dalla crescente autonomia della Cgil,persino nel posizionamento interno,come dimostra l’ultimo Congresso ecome dimostra anche il dibattito chesta accompagnando la decisione dellaCgil di sottrarsi all’abbraccio mortaledell’accordo sulla produttività. Infatti,spiazzando quelli che san tutto, anchestavolta “destra” e “sinistra” si sonomescolate. E la decisione su ciò che èdi destra e di sinistra è di nuovodemandata al merito sindacale – comeal Congresso ultimo quando nelle duemozioni si mescolarono storie e per-corsi di “destra” e di “sinistra”.

E sul merito sindacale, ancora unavolta, gioca la sua partita la sinistra sin-dacale di Lavoro Società, tirata per lagiacchetta in una coazione a ripeteredalla sinistra cosiddetta radicale e bendeterminata a difendere autonomia ecoerenza del sindacato. Le parole conle quali Susanna Camusso, segretariagenerale, esponente di tradizione rifor-mista, ha chiosato il giudizio sul gover-no Monti in contrapposizione esplicitaal giudizio del Pd, perfino della sua ala

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Il PD, viene aggiunto, come hadimostrato con l’appoggio par-lamentare al governo Monti,

condivide questi vincoli e, anche se ciavesse ripensato, non ce la farà a cor-reggerli, in quanto condivide quellacultura liberista monetarista che orien-ta l’UE fin dalla nascita, ne informa iTrattati costitutivi, ha attaccato afondo lavoro e stato sociale fruendodella crisi, ecc., e, soprattutto, in quan-to il fiscal compact non può esseretolto di mezzo, e neppure emendato oaggirato. UE e suoi Trattati, per comesono concretamente fatti, costituisco-no un potere sostanzialmente assoluto;solo una radicale crisi politica e socialepotrebbe toglierli di mezzo. Quindi èalla determinazione sociale delle suecondizioni che occorre applicarsi, e nelfrattempo occorre resistere politica-mente.

La condizione attuale vera del cen-tro-sinistra italiano e dei suoi omo-loghi europei: un tentativo in corsodi uscire dal liberismo con moltielementi di precarietà

La questione delle possibilità politi-che in questo momento va discussacon attenzione: la posizione di questaparte della sinistra fa capo ad alcunidati di realtà. Essa ignora però altridati. Intanto, non è vero che il centro-sinistra sia oggi organico a quella cul-tura, non solo perché non le sono perniente organiche, anzi la respingono, leformazioni minori, ma anche perchénon le è più organico il PD stesso.Questo partito risulta oggi fratto trauna posizione prevalente critica delliberismo, anche se si presenta spessocon molte incertezze, e una posizioneminoritaria corriva, i fautoridell’“agenda Monti” e, più confusa-

zione si è progressivamente dissoltadentro al vertice stesso del PD, dinan-zi al complesso degli effetti tutti nega-tivi e spesso disastrosi dell’azione, odell’inazione, del governo Monti, nonriducibili, per di più, a quelli che riguar-dano la condizione di vita delle classipopolari, la condizione lavorativa, l’an-damento dell’economia, quello dello“spread”, il rifiuto di politiche indu-striali, ecc., ma comprendenti anche lecondizioni della democrazia e il rap-porto alla politica organizzata e alleistituzioni della rappresentanza daparte popolare.

E’ quindi vero che il PD, appoggian-do il governo Monti, altro non ha fattoche sbattere, facendosi male (perdendoconsenso, favorendo odio alla politicae alla democrazia, astensione e populi-smi nella sua base elettorale popolare),contro ciò che realmente è il liberismo:una politica economica orientata allospostamento di reddito dal “basso”della società verso l’“alto” (nella suatotalità, non solo cioè nella forma delrialzo del saggio del profitto capitalisti-co) e per la quale, dunque, gli obiettividi politica economica dichiarati sonospesso un pretesto, o, se si preferisce,una variabile “dipendente” e d’ordineminore.

La conseguenza, in breve, oggi inseno al PD di questa, per esso, sor-prendente scoperta è che la posizioneche prevale nel suo stesso vertice risul-ta un mix di residui di condivisionedella necessità economica del “rigore”e di recuperi più o meno ampi di poli-tiche, obiettivamente il contrario del“rigore”, cosiddette keynesiane; piùprecisamente, di elementi che furonodella cultura e dell’esperienza del PCI.Basta sfogliare “l’Unità” per renderse-

mente, i “rottamatori” del sindacoRenzi.

E’ vero che un’organicità semitotaledel PD e dei suoi antecedenti al liberi-smo c’è stata lungo l’intero tragittodell’Unione Europea fino alla crisi,come bene hanno mostrato i duegoverni Prodi o la candidatura a pre-mier di Rutelli nel 2001. E’ vero chenella prima parte della crisi il PD hamanifestato posizioni largamentesubalterne a questa cultura, pur assie-me a una serie di incoerenze. E’ veroche tra i motivi della decisione diappoggio al governo Monti non c’èstata solo la convinzione (errata) cheessa fosse l’unica possibilità di impedi-re quel collasso finanziario al quale ilgoverno Berlusconi stava portandol’Italia (si poteva andare velocementealle elezioni). E’ anche vero, cioè, chela pressione del presidente Napolitanoe quella dei liberisti interni (sovrab-bondanti al centro del PD e nei suoigruppi parlamentari), intenzionati aimpedire un rapido seguito elettoralealla caduta del governo Berlusconi, cheavrebbe visto il centro-sinistra vincen-te, ed esso poi a impedire il collassofinanziario, hanno trovato un imme-diato ampio consenso al vertice delpartito.

E’ dunque vero che c’è stata anche,e molto, l’illusione che l’ultraliberistaMonti davvero potesse “risanare” iconti pubblici e portare l’Italia sullastrada della ripresa, inoltre che questopotesse avvenire (secondo le tipicheillusioni del liberismo di centro-sini-stra) tramite politiche fiscali e tagli allaspesa “eque”, che non colpissero fero-cemente le classi popolari e non si limi-tassero a fare il solletico a quelle ricche.Tuttavia è anche vero che questa posi-

FISCAL COMPACT:BABAU E CANTONATE “DI SINISTRA”

Una parte della sinistra italiana, tra cui, nellasua espressione ufficiale, Rifondazione

Comunista, esclude, guardando alle elezionipolitiche, ogni possibilità di accordi con lo

schieramento di centro-sinistra. La motivazio-ne è che il governo dello stato, quale che

sarà, risulterà rigidamente vincolatodall’Unione Europea a politiche ultrarestrittivedi bilancio e a micidiali tagli alla spesa pubbli-

ca per conto del Trattato europeo cosiddettofiscal compact, per un lunghissimo periodo.

di LUIGI VINCI

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ne conto. Niente di strano: moltesocialdemocrazie europee, ciascunalungo percorsi e recuperi suoi, sono suuna strada analoga da qualche tempo,avendo constatato come il liberismoeuropeo stia recando danno alle lorobasi sociali così come alle economieeuropee ormai nella loro interezza, eavendo constatato come la reazionedella società stia animando quasi ovun-que ondate populiste di destra perico-lose per la democrazia parlamentare e isuoi storici sistemi politici.

E ancor meno strano è che potenta-ti finanziari-industriali, (loro) mass-media e politici liberisti più seri abbia-no dato vita a una campagna potente,che non è più soltanto la propagandasull’“agenda Monti”, non è più soltan-to giocherellare con il sindaco Renzi,troppo precario culturalmente e trop-po post-berlusconiano, ma è un’entra-ta in campo diretta di ministri, grandiindustriali, fondazioni bancarie, inoltrel’intenzione di un “Monti dopoMonti” però con alla testa Monti, nona caso da qualche tempo disponibile afare ancora il premier: si tratta per tuttequeste forze, infatti, di evitare che unafutura maggioranza parlamentare dicentro-sinistra e il suo governo sfugga-no al controllo ovvero intervengano acorrezione significativa degli elementisocialmente ed economicamente piùnegativi dell’“agenda Monti” e piùlucrativi per lorsignori. Altrimenti, per-ché mai? Tanto più in quanto la crisi,anche ipotizzando la realizzazione neiprossimi tempi di effettive politicheorientate alla ripresa, continuerà amacinare per un periodo tutt’altro chebreve: radicalizzando ulteriormente ilconflitto sociale, grazie a quell’allarga-mento della mobilitazione popolareche cominciamo a vedere. Non sotto-valuterei, in questa prospettiva, la novi-tà data dalla “Giornata di lotta europeacontro le politiche di austerità” indettadalla CES, trasformata in molti paesi inscioperi generali accompagnati a un’or-mai poderosa mobilitazione giovanile:essa oltre a dirci che in Europa sta tor-nando la lotta di classe al suo livello piùalto, quello politico, e che ciò sta avve-nendo su scala transnazionale, l’unicache possa ribaltare le cose, ci diceanche della precarietà obiettiva sempremaggiore dell’orientamento politicoattuale del PD e, in ciò, della possibili-tà concreta di una sua superiore insta-bilità aperta a sinistra (altrove ciòriguarda le socialdemocrazie). In altre

forza e la debolezza assieme, dei“vincoli europei”

Ma, appunto, una parte della sinistraitaliana obietta: ci sono i vincoli euro-pei, uno dei quali, il “Patto di stabilitàe crescita”, cioè il fiscal compact, èstato addirittura costituzionalizzato, equesto anche tramite il voto parlamen-tare del PD. E’ vero. Parimenti, però, acorollario dell’esistenza di questi vin-coli ne è posta una “forza” giuridica eistituzionale assoluta, insormontabile,come quella di uno stato autoritario:un corollario irrealistico, per quanto“ademocratico” sia l’attuale assettodell’Unione Europea. E a supportopolitico di questa forza, si aggiunge, c’èil legame totale e organico delle fonda-mentali famiglie politiche europee allacultura liberista e monetarista: maabbiamo appena visto che non è piùesattamente così, riguardo a socialde-mocrazie e affini (e anche a verdi).

L’errore di questa parte della sini-stra, inoltre, non ha solo queste pre-messe istituzionali e politiche irreale:avviene anche perché (e per dei “leni-nisti” è davvero grossa) essa non ècapace di vedere (o non ha nessunavoglia di ammettere) l’esistenza di frat-ture ormai di grande ampiezza dentroallo stesso effettivo schieramentoorganicamente liberista europeo, quel-lo cioè delle destre popolari, conserva-trici e liberali. Esso inoltre risulta frat-to nella stessa Germania, parimenticonstata come le richieste del governotedesco in sede di politiche di “rigore”siano sostanzialmente criticate, arenateo contrastate dal grosso degli altrigoverni, dalla Commissione Europea,dalla Banca Centrale Europea (“fuori”Europa, dall’FMI, dall’OCSE, dagliStati Uniti, dalla Cina, ecc.). Tutto que-sto concretamente fa sì, dunque, chel’intero processo decisionaledell’Unione Europea risulti ormaidisorganizzato e semiparalizzato; il rin-vio delle decisioni è quindi il risultatodi ogni “vertice” europeo. L’erroreparimenti avviene perché questa partedella sinistra non è capace di vedere (onon ha nessuna voglia di ammettere)che sono bastati i risultati delle elezio-ni francesi perché tutto al verticedell’UE si disorganizzasse, e moltorapidamente. Insomma che è bastatauna modesta, quanto a contenuti, vit-toria socialdemocratica in un paeseimportante dell’UE perché la macchi-na europea antisociale mostrasse di

parole, non sottovaluterei la portataobiettiva della radicalizzazione delgrosso dei grandi sindacati europei, trai quali la CGIL nella sua quasi interez-za, così come quella della loro tenden-za a svolgere funzioni in parte sostitu-tive in parte di condizionamento e ditraino “a sinistra” dei loro partiti stori-ci di riferimento, le socialdemocrazie,o, in Italia, del partito che più gli asso-miglia. Né sottovaluterei l’effetto aoggi più importante di questa tenden-za, l’adesione dell’espressione maggio-ritaria del PD alle richieste poste dallaCGIL e dalla FIOM in materia di lavo-ro.

Mi permetto un riferimento storicolegato alla mia personale cultura politi-ca, fatta, data l’età, di molte sedimenta-zioni. Lenin nella primavera del perio-do che separa le due rivoluzioni russedel 1917 indicò come nelle grandi crisisistemiche le classi dominanti non rie-scano più a governare con i mezzi tra-dizionali e come questa difficoltà portila crisi al loro stesso interno, disaggre-gando sia l’unità dei loro interessi chequella delle posizioni delle forze politi-che loro organiche o loro subalterne.Parimenti sottolineò come ciò in modospeciale riguardasse, guardando all’uni-verso politico, le sinistre “moderate”od oscillanti, tendendo a posizionarnea sinistra forze più o meno congrue. Invista della stessa rivoluzione dell’otto-bre, in tempi feroci, in cui la lotta diclasse avveniva sparando, Lenin portòcosì il partito bolscevico, l’unico orien-tato a una rivoluzione socialista, adaprire alla cooperazione con forze ditale tipo, con le quali si era per anniazzuffato, il gruppo di Trockij, i men-scevichi “internazionalisti”, la sinistradei socialisti-rivoluzionari, perché sta-vano passando a sinistra. La ragione difondo di questo passaggio di questeforze è molto semplice: a differenzadelle formazioni propriamente bor-ghesi, quelle di sinistra moderata odoscillante tendono a unire capra ecavoli, e le grandi crisi tendono, caprae cavoli, a contrapporli. L’Italia di oggiè molto diversa dalla Russia di allora,tuttavia alcune analogie non mancano,che suggeriscono che una “tattica”analoga sarebbe utile da parte del com-plesso della sinistra cosiddetta “radica-le”, consentirebbe di fare importantirisultati, probabilmente decisivi riguar-do alla rotta generale del nostro paese.

Il carattere e la portata veri, cioè la

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avere d’argilla non solo i piedi maanche le gambe.

Perché i vincoli europei pur essendomolto forti sono anche molto fragili.Intanto perché l’Unione Europea nonè uno stato, è invece un’unione di statiche restano sovrani non solo formal-mente ma anche sostanzialmente, ciòche fa sì che per quanto i Trattati sianodotati di una loro forza giuridica pos-sano essere violati piuttosto facilmen-te. La storia dell’UE è infatti anche unastoria di continue violazioni deiTrattati: per esempio il vincolo cheimpedisce al debito pubblico di unpaese membro di superare il 60% inrapporto al PIL è stato semplicementeignorato fino addirittura alla crisi.Inoltre Francia e Germania hanno apiù riprese violato il vincolo del 3%massimo di deficit annuo (e così quasitutti gli altri paesi). Ovviamente perfare fino in fondo i tuoi comodi deviessere un paese che non sta collassan-do, come la Grecia o il Portogallo ol’Irlanda, cioè un paese che, oltre aessere piccolo e politicamente debole,dipende rigidamente dall’aiuto finan-ziario dell’UE e, tramite l’UE, deglialtri paesi membri. Insomma occorreuna certa forza politica, e occorreanche avere alleati, o quanto menoappoggi, oppure occorre che a dare lastura alla violazione dei Trattati sianopaesi forti. Giova aggiungere che nellecondizioni di dissesto politico genera-le, determinatesi nell’UE a un certomomento della crisi, la possibilità diviolare i Trattati è solo aumentata:quindi che essa dipende, terra terra, dalraddoppio della posizione assunta daparte francese.

Giova però precisare pure, percapirsi, come si ponga storicamentenell’UE la forma delle violazioni: nonè mai smaccata, dichiarata, bensì ènell’“interpretazione” dei Trattati,nella loro “rinegoziazione” per questoo quel motivo, nella specificazione adhoc delle generiche possibilità, presen-ti nei loro stessi testi, di deroghe alleloro disposizioni, nella ridefinizione diciò che compone una voce o le dero-ghe rispetto a ciò che questa voce sta-bilisce, ecc., insomma è nell’“incre-mento del diritto comunitario”. Senzacontare, infine, che ai Trattati in vigorene vengono periodicamente aggiunti dinuovi. D’altra parte, l’UE è appuntoun’unione di stati sovrani; d’altra parte,gli orientamenti politici di questi stati

to primario dei titoli di questi paesi e afinanziare direttamente gli istituti ban-cari “sofferenti”, attingendo alla BCE.In questa materia ora lo scontro (conGermania, Olanda e Finlandia) è pas-sato dall’opportunità di disporre di untale fondo (inizialmente contestato daquesti paesi) ai termini di tempo delsuo finanziamento, ai termini delfinanziamento dei versamenti dellaBCE (se da parte dei paesi membri ocon eurobonds), alle condizionalitàinfine del ricorso a esso da parte dipaesi membri e banche. In linea gene-rale, queste proposte e questa primaparziale decisione rappresentano, deltutto o in parte, forme diverse (alcuneanche alternative) di “mutualizzazionedel debito” (anche bancario) a livelloeuropeo e, al tempo stesso, di suagestione tramite il ricorso al mercatofinanziario (in analogia a quanto fannonormalmente gli stati), anziché tramiteil finanziamento da parte dei paesimembri.

Quindi esse, oltre a rappresentare,data la potente garanzia, diretta o indi-retta, fornita dalla BCE, un possibilemodo per alcuni paesi (tra cui l’Italia)per non essere più salassati dalla spe-culazione finanziaria, porrebberoanche fine a una serie di cose, una piùridicola e disastrosa dell’altra: primo, alfatto di “fondi” che vanno a soccorsodei paesi messi peggio ma che vengo-no finanziati dal complesso dei paesimembri, incrementandone così il debi-to; secondo, al fatto di acquisti dei tito-li dei paesi membri solo sul “mercatosecondario”, come è avvenuto finorada parte della BCE, perciò ai prezzidefiniti dalla speculazione, che in talmodo continua a ingrassare; terzo, alfatto del finanziamento della BCE daparte dei paesi membri ogni qualvoltaessa effettui prestiti a banche o acqui-sti titoli di tali paesi (la BCE è l’unicabanca centrale al mondo che se spendeva in passivo e deve essere rifinanziatadai paesi proprietari, cioè dal grossodelle banche centrali della zona europiù quelle di Svezia e Inghilterra, ovve-ro che non può battere moneta con-teggiando così immediatamente in atti-vo ciò che poi spenderà). Ancora, sonoparte del dibattito politico dentro allesedi centrali europee una tassa europeasulle transazioni finanziarie (in speciesu quelle “ad alta frequenza” ovverooperate automaticamente tramite algo-ritmi e via computer), il finanziamentodi investimenti industriali e di infra-

sono continuamente sottoposti a pos-sibilità di cambiamento, ciò che poi “siscarica” sull’UE. D’altra parte, l’appe-al, già largamente maggioritario, delliberismo e del monetarismo è entratoin crisi, benché caoticamente, negliorientamenti delle popolazioni euro-pee, ed esso è contrastato da sindacatie mobilitazioni giovanili, è in discussio-ne e anche criticato, più o meno consi-stentemente, nelle socialdemocrazie,ecc.

Anzi la preparazione nelle sedi UEdi “incrementi del diritto comuni-tario” orientati ad aggirare il fiscalcompact è già in corso

Inoltre nello stesso dibattito politicoe negli stessi processi decisionali den-tro alle sedi centrali europee non man-cano già oggi prese di posizione cherompono rispetto agli indirizzi adotta-ti all’inizio della crisi, prima di tuttocontestando in radice gli elementi piùbalordi e iniqui del monetarismo euro-peo, imposti all’Unione Europea dalladestra tedesca di governo e da essa esa-sperati nel corso della crisi. In questodibattito, intanto, c’è la proposta di un“Fondo di redenzione” nel quale collo-care la quota di debito pubblico deivari paesi superiore al 60% del PIL(essa si sosterrebbe tramite l’emissionedi eurobonds, cioè di titoli pubblici, daparte del fondo stesso); c’è la propostadi un’“Agenzia europea del debito”coperta dalla BCE (in questa propostasarebbe la BCE a sostenere il passivoeccedente dei paesi membri tramitel’emissione di propri eurobonds); c’è,ancora, la proposta della concessionedella “licenza bancaria”, da parte dellaBCE, al fondo denominatoMeccanismo Europeo di Stabilità,orientato al soccorso dei paesi dellazona euro messi peggio (questo fondoemetterebbe “stability bonds” avvallatidalla BCE: che si dichiara già pronta adavviare l’operazione, attende “solo”l’ok del Consiglio Europeo, alias dellaGermania); e c’è, ultima, la propostadella BCE di un’“Unione bancaria”,che significherebbe la vigilanza dellaBCE (contro il ritorno a pratiche spe-culative rischiose) sul complesso dellebanche della zona euro (anche quimanca “solo” l’ok della Germania).Recentemente, inoltre, c’è stata l’auto-rizzazione del Consiglio Europeo al“Fondo europeo di stabilizzazionefinanziaria” (creato per l’aiuto ai paesimessi peggio) a intervenire sul merca-

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strutture tramite project bonds dellaBanca Europea di Investimenti, la rea-lizzazione di un’agenzia europea dirating (onde bloccare la dipendenzadei tassi di rendimento dei titoli pub-blici dei paesi europei dalle valutazionidelle agenzie USA, in mano alla specu-lazione). Giova rammentare come ilcomplesso di queste proposte siasostenuto persino dal governo Monti,certo nell’UE uno dei più liberisti.

Infine, e soprattutto, rispetto agliindirizzi ultraliberisti iniziali sono giàstate operate, per fare fronte all’aggra-vamento della crisi, una paio di pode-rosa rotture di fondo rispetto alle sche-matizzazioni liberiste monetariste deglistessi Trattati, proprio da parte dellastatutariamente ultramonetarista BCE:il finanziamento illimitato a tassi infimialle banche “sofferenti” e in difficoltàdi ricapitalizzazione e l’acquisto pari-menti illimitato su decisione autonomadei titoli sovrani di alcuni paesi in gravidifficoltà finanziarie. Certo, quanto aquest’ultima cosa, solo sul “mercatosecondario”, per contenere la pesanteopposizione tedesca, e certo con il vin-colo di condizionalità pesantissime,vedi il massacro insensato della Grecia.La prima “rottura” ha aperto un per-corso suscettibile di conseguire, attra-verso una nuova probabile massicciaondata di finanziamenti, una larga

Si tratta della prima iniziativa orientatadavvero alla crescita dall’inizio dellacrisi.

Il fiscal compact non è affatto partedi vincolanti impegni comunitari,bensì è realtà solo in alcuni paesiUE. Inoltre, non tutto è stato effet-tivamente costituzionalizzato inItalia

Non è raro leggere o ascoltare dallato di una parte della sinistra italianache il fiscal compact costituzionalizza-to imponga per vent’anni abbattimentiin forma di tagli alla spesa pubblicadell’ordine di 45 miliardi annui. Non èesattamente così. Primo, infatti, solouna parte del fiscal compact è statocostituzionalizzato. Vedremo tra pocoche cosa. Secondo, le cifre degli abbat-timenti sono diverse e i tagli non nesono affatto la conseguenza immediatama solo una possibile.

Partiamo da quest’ultimo punto.Sarebbero 45 miliardi solo all’inizio,per poi decrescere progressivamente, aseguito dell’effetto di riduzione deldebito pubblico. Inoltre, come accen-nato, i tagli non sono necessariamenteil mezzo dell’abbattimento: possonoessere sostituiti, senza assassinare lanostra popolazione e la nostra econo-mia, in più modi, per esempio grazie a

capacità di intervento delle banche asostegno delle richieste degli apparatiproduttivi e delle famiglie.Naturalmente nelle banche, data lacrisi, prevarrà potentemente l’attitudi-ne alla tesaurizzazione anziché all’inve-stimento: ma la politica disporrà dellecondizioni per una forzatura. La politi-ca, quindi, non è vero che non potràcambiare le cose: la questione è invecedi quali orientamenti vi prevarranno.

Infatti, guardando alla fattibilitàstentata e alla qualità pesantementecontraddittoria dell’insieme di quantosta qui sopra, ciò che manca alla realiz-zazione di un avanzamento sostanzialeè la coalizione politica di almeno unpaio di paesi forti dotata della determi-nazione necessaria, anche in quantoportatrice di una visione significativa-mente diversa, per quanto possanoesservi interne debolezze e ambiguità:cioè una visione privilegiante la difesadelle condizioni di vita popolari, l’oc-cupazione, la crescita economica, latutela stessa della democrazia, anzichéil “rigore”. E questa è tutt’altro cheun’ipotesi velleitaria: tra le correzionidi fondo di questi ultimi tempi rispettoagli indirizzi ultramonetaristi va anchesegnalato come a fine giugno l’UnioneEuropea abbia accolto la propostafrancese di un “Piano per la crescita”per 120 miliardi di euro in cinque anni.

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una patrimoniale ordinaria, al prelievofiscale sui denari imboscati in Svizzeradai grandi evasori, alla vendita di beniimmobiliari pubblici, oppure (meglio)all’emissione di obbligazioni pubblichegarantite da questi immobili, inoltrealla vendita di parte delle riserve in orodella Banca d’Italia (l’Italia è la quartaistituzione mondiale quanto a tali riser-ve, preceduta solo da USA, Germaniae FMI), ecc. I tagli possono esseresostituiti, ancora, da introiti fiscaliaccresciuti da una ripresa economica.Beninteso, la costituzionalizzazione delfiscal compact costituisce in ogni casoun atto molto grave su molti piani, cioèper i danni pesantissimi che esso starecando, praticato dal governo Monti,e per quelli che può continuare a reca-re avvenire, intanto alle condizioni divita popolari, alle possibilità effettive diuna forte ripresa economica, alle pos-sibilità stesse di riduzione del debito odi abbattimento dello spread ecc., pari-menti alla tenuta democratica e allacredibilità sociale della politica. A ognipié sospinto classi dominanti, loro for-mazioni politiche e loro servi strapaga-ti nei mass-media rimprovereranno ifuturi governi in carica, anche i peggio-ri, di non “fare abbastanza” per l’eco-nomia, l’Europa o le future generazio-ni, ciò che, in un sistema politico debo-le, è l’equivalente di un ricatto. Tuttaviaquando da sinistra si criticano nemicidi classe o avversari politici è beneprendere le misure e criticare quel cheè vero anziché sparare cavolate dilet-tantesche, che servono solo a fare figu-re ridicole.

Cosa dice davvero, poi, il testocostituzionale emendato (riporto solol’essenziale). All’art. 81 c’è scritto che“lo Stato assicura l’equilibrio tra leentrate e le spese del proprio bilancio,tenendo conto delle fasi avverse e dellefasi favorevoli del ciclo economico”, e,subito dopo, che “il ricorso all’indebi-tamento è consentito solo al fine diconsiderare gli effetti del ciclo econo-mico e… al verificarsi di eventi ecce-zionali”. Inoltre agli art. 97 e 119 c’èscritto, riassumendo, che ciò valeanche per le altre pubbliche ammini-strazioni, di ogni natura. Il testo per-ciò, come si vede, si presta a nonpoche “interpretazioni”, connesse allaqualità e quindi alle necessità delle“fasi” (di quelle “avverse” soprattutto)e anche a ciò che si intende per“spese”. Si badi, non c’è scritto “usci-te”: c’è scritto “spese”: e, tenendo

“mercati protetti”, investimenti pub-blici in sede di istruzione, ricerca e svi-luppo, innovazione, infrastrutture, pic-cole e medie imprese. Nessuna illusio-ne: sono tutti pretesti per premere sucondizioni di lavoro e stato sociale. Aquesto minestrone, in fatto diEuroplus anche un bel po’ di aria frit-ta, potrebbe infine aggiungersi un TwoPack, ben più utile, del cui contenutoin fatto di eurobonds, stability bonds,project bonds ecc. ho già riferito.

Ma, attenzione! Il fiscal compactcome trattato non è in vigore (ancormeno lo sono i relativi accompagna-menti): questo per via della fratturazio-ne, della disorganizzazione e dellasostanziale paralisi degli assetti europeidi vertice, ed esattamente come unodei loro frutti principali. Il fiscal com-pact fu a suo tempo siglato dalla mag-gioranza dei paesi dell’UnioneEuropea (dichiararono fin dall’inizio dinon condividerlo per nulla e quindinon vollero siglarlo Regno Unito eRepubblica Ceca: ultraliberisti! A direappunto che nell’UE liberista ciascunotende a farsi i fatti suoi), poi, a oggi, lohanno adottato, in forma di legge oaddirittura costituzionalizzandolo, 8paesi (su 17) della zona euro e 4 fuorida questa zona. Ma perché esso possaentrare in vigore e dunque valere perl’intera zona euro, alla data prevista del1° gennaio 2013, occorre che i paesi diquesta “zona” siano almeno 12 (i paesifuori zona potranno continuare a rego-larsi come ritengono: e a oggi 6 di essi,su 11, risultano così orientati). Percolmo del ridicolo, in due distinte sen-tenze la Corte Costituzionale tedescaha stabilito che nessuna istituzioneeuropea possa intervenire sulle proce-dure e sulle leggi di bilancio dellaGermania e che essa non possa darsiprocedure di bilancio a carattere per-manente derivanti dalla volontà di altristati. Il paese che vuole imporre all’UEil fiscal compact si riserva così di prati-carlo come gli parrà! Inoltre il fiscalcompact, stando ai termini dell’accor-do tra i paesi che l’hanno siglato, è pre-visto che entri a far parte del dirittocomunitario non automaticamente,bensì entro quattro anni a partire dal1° gennaio 2013, beninteso alla condi-zione che a questa data l’abbianoaccolto almeno 12 paesi della zonaeuro, cosa però non avvenuta.Conclusione: a oggi, primo, il fiscalcompact è solamente di facoltà dei sin-goli stati; secondo, nessuna istanza

conto di come funzionano le cosenell’Unione Europea, non è una diffe-renza solo lessicale. Le “uscite” cioèsono tutto ciò che immediatamente“esce”: mentre cosa siano le “spese”dipende dall’“interpretazione”, datoche, grazie a essa, gli investimenti pub-blici, siano essi produttivi oppure incapitale sociale fisso (infrastrutture) o“umano” (scuola, università, ricerca dibase), possono essere considerati qual-cosa di diverso, poiché producono a uncerto momento un reddito (diretta-mente o indirettamente), di conse-guenza possono non essere calcolati insede di debito pubblico. Non è unamia fantasia: è una richiesta di distin-zione che lo stesso presidente del con-siglio Monti ha presentato a più ripre-se nelle discussioni in ConsiglioEuropeo, e che vi ha trovato largo con-senso. Naturalmente essa è stata rifiu-tata dalla cancelliera Merkel, quindi èstata rinviata a dopo la realizzazionedell’unificazione fiscale dell’UE, assie-me a ogni altra cosa in stallo sin quiaccennata (leggi: tale “distinzione” èstata rinviata a una discussione dopo leelezioni tedesche dell’autunno prossi-mo).

Il fiscal compact nella sua forma ditrattato prevede però anche impegniben più ampi e dettagliati. Esso cioèprevede anche una “convergenza dimedio termine” dei paesi firmataricaratterizzata, fatte salve circostanzeeccezionali, dalla possibilità di deficitper lo 0,5% massimo del PIL per quel-li il cui debito pubblico ne superi il60% (invece per l’1% per quelli,pochissimi, il cui debito sia sotto il60%). Il fiscal compact inoltre risultaaccompagnato da un cosiddetto SixPact, essenzialmente orientato allacostituzione di un sistema di “gover-nance rafforzata” ovvero di “sorve-glianza”, tramite la CommissioneEuropea, riguardo alle politiche dibilancio dei paesi membri, che prevedeanche interventi preventivi o correttivisulle loro leggi di bilancio, in presenzadi rischi di deficit eccessivo. Inoltreesso è accompagnato da un pattocosiddetto Europlus, che pone tra iparametri valutativi della situazioneeconomica dei paesi membri dell’UEanche i tassi di disoccupazione dilungo periodo e di quella giovanile e itassi di attività delle strutture produtti-ve, e dà indicazioni in fatto di “compe-titività” e di “produttività” di tali paesi,riguardanti l’“apertura” di eventuali

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europea potrà intervenire nei confron-ti dell’Italia se essa, usando, per esem-pio, le vaghezze dell’inserimento costi-tuzionale, derogherà rispetto al fiscalcompact sia per quanto attieneall’obiettivo dello 0,5% massimo dideficit che per quanto attiene all’obiet-tivo in vent’anni del 60% del debitopubblico; terzo, è molto difficile chenei prossimi tempi un trattato cosìinsensato, ammesso e non concessoche la scadenza per le adesioni vengaspostata in avanti nel tempo e riescacosì a raggiungere i 12 firmatari dellazona euro, possa reggere senza “aggi-ramenti” concordati o unilaterali; quar-to, quindi formalmente nell’UE sonoin vigore le regole di bilancio fissatedal primo trattato, quello di Maastricht(vietato superare il 3% del deficit e il60% del debito rispetto al PIL, salvocircostanze particolari, come catastrofio recessioni, cioè arretramenti del PILdurati almeno due trimestri consecuti-vi, stop); quinto, ciò che nel futuroprossimo e in quello di medio termineaccadrà sul terreno normato dal fiscalcompact sarà a seguito di decisionipolitiche, ergo a seguito dell’andamen-to concreto della battaglia politica, inprimo luogo nei vari paesi, in certa

anche del suo livello politico; e mi paredi averlo dimostrato. Concretamentequesto significa l’esistenza di varchi edi possibilità di cambiamenti positividell’indirizzo di queste politiche. Intutte le grandi crisi ciò che ne determi-na gli sbocchi è il livello della politica,sono i rapporti di forza sul suo terreno,in ultima analisi determinati dai rap-porti di forza tra le varie classi. E, poi-ché le grandi crisi evolvono ancheattraverso precipitazioni, poiché il ter-reno sociale da esse determinato risul-ta sistematicamente mutevole, ciò chevale oggi può non valere più entrobreve termine di tempo.

Ancora, c’è che le grandi crisi sele-zionano le forze politiche: annullano ipasticcioni e velleitari, quelli che comi-ziano nelle loro sedi agitando frasiscarlatte, che stanno in attesa di eventimiracolosi, che delle crisi si guardanodal capire la complessità, che nonsanno combinarci niente sul pianodella politica, nel quadruplice senso disaperla fare, di saper usare ogni mini-ma opportunità, di effettivamentemuoversi in sintonia con le forze socia-li di proprio riferimento anziché conloro frazioni minuscole, di aiutare que-ste forze a capire, ad agire, a modifica-re il quadro globale a proprio favore.Che non capiscono che nell’odiernofrangente occorre realizzare un primoargine fatto di alcuni obiettivi imme-diati, non tirare palle di carta alla luna,poiché il primo obiettivo politico èrimotivare alla lotta le classi popolari(ricordo che gli scioperi generali dellaCGIL sono partecipati mediamentesolo dal 15% dei lavoratori interessati)e il secondo è una possibilità realisticadi rilancio della sinistra, in questomomento in condizioni pietose. Chenon capiscono l’elementare e l’ovvio,che oggi solo operando per un argineassumono possibilità obiettivi ambi-ziosi di controffensiva e di cambia-mento.

Milano 20 novembre 2012

misura anche a livello europeo, sottol’effetto di conflitti politici e di insor-genze sociali.

Non si tratta, va da sé, di farla faci-le: ripeto, il fiscal compact pesacomunque come un macigno, e inItalia, giuridicamente, più che altrove,essendo essa l’unico paese (sottolinea-to tre volte) che non solo lo ha adotta-to ma che ne ha inserito una parte nellapropria Costituzione. Ma ciò cheavverrà in Italia sul terreno normatodal fiscal compact dipenderà in primoluogo da ciò che accadrà in Italia, nellapolitica e nella società, in altre parolenella lotta di classe. Ben altro occorre,quindi, che stare a guardare quel cheaccade nella politica, come intendeRifondazione Comunista, vedendofuori da se stessa solo nero salvo qual-che cosetta, e concentrare tutto quantoil proprio sforzo sul cosiddetto “socia-le”.

Concludendo

Ciò che, prima di tutto sotto il pro-filo delle politiche di bilancio, caratte-rizza oggi davvero l’Unione Europea èil disordine, determinato dalla crisi

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L’opinione prevalente, e inprimo luogo quella delle isti-tuzioni comunitarie, ha teso,

in base a un discutibile criterio di cau-salità, a mettere in relazione fragilitànazionali e dissipatezza delle finanzepubbliche e a individuare il “fiscalretrenchment” quale condizionenecessaria per il ripristino della credibi-lità nazionale e della sopravvivenzadella valuta unica.

Man mano che la crisi si acutizzava,un più rilevante elemento di squilibriosi evidenziava: un “external imbalan-ce”, ovvero la presenza, e in taluni casila compresenza, di deficit delle partitecorrenti e di deflusso dei capitali abreve termine. Si tratta di uno squili-brio decisivo che merita un’attentavalutazione, ma che, dalla governanceeuropea è stato celermente assorbitonell’interpretazione consueta, in ragio-ne delle relazioni che si presume esista-no tra “external imbalance” e “fiscalimbalance”. Una sintesi lucida di que-sto approccio è contenuta nell’ultimoRapporto dello European EconomyAdvisory Group (EEAG 2012): unincremento del disavanzo e del debitopubblico agisce negativamente suentrambe le componenti della bilanciadei pagamenti, aumentando il livello diimportazioni di beni e minando la cre-dibilità dei titoli pubblici. La crisi deipaesi fragili dell’Eurozona è dunque lacrisi di due debiti gemelli, quello inter-no e quello estero, che devono essereridimensionati tramite manovre simul-tanee di “fiscal retrenchment”, di con-tenimento dei salari e di riforma delmercato del lavoro (Kumhof e Laxton2009; Sinn e Wollmershauser 2011).

Ma il ruolo degli squilibri esternipuò essere analizzato in un contestodiverso e meno convenzionale(Alessandrini et al.2012; Cesaratto2012, De Grauwe 2011, De Grauwe eYuemey 2012; Gros 2012), evidenzian-do come le relazioni commerciali euro-

costituisce un ulteriore elemento diinstabilità, deprimendo la domandainterna, la capacità di ripagare il debitoe indebolire, a lungo andare, la stessaprosperità dei paesi in surplus.Meccanismi di riequilibrio delle inade-guatezze su cui l’Euro è sorto paiono,secondo alcuni (De Grauwe 2008),ovviabili solo con un potenziamentopolitico-federale dell’Unione Europea,riproponendo, con un percorso diver-so ma con argomentazioni non dissi-mili, le analisi di chi considera statutodemocratico, sovranità nazionale e glo-balizzazione finanziaria un “trilemmaincompatibile” (Rodrik 2011).

Una maggiore attenzione, da partedel filone alternativo alle ricostruzioniufficiali, dovrebbe, tuttavia, essere pre-stata alle modalità di comportamentodei flussi di capitali a breve termine ealle relazioni con l’andamento dei tassidi interesse nazionali. A voler esseresintetici è come se i paesi fragili del-l’area Euro ereditassero molte dellecaratteristiche dei paesi coinvolti, allafine del decennio scorso, nella CrisiAsiatica (Calvo 1998; Cole e Kehoe1998). E’ da ricordare che allora la cre-scita del disavanzo delle partite corren-ti dei paesi interessati innescò il “sud-den stop” dei prestiti in valuta estera abreve termine (Becker e Noone 2008)e un disavanzo del conto capitale dellabilancia dei pagamenti (Forbes eWarnock 2012). Si tratta di un fenome-no oramai consolidato nell’economiaeuropea (Merler e Pisany-Ferry 2012) eche potrebbe essere etichettato comeuna “Curva di Laffer dei RendimentiRischiosi”: l’incremento dei tassi diinteresse nazionali per incentivare l’af-flusso di capitali che bilancino i disa-vanzi delle partite correnti, producono,secondo un perverso paradosso, unamaggiore fuoriuscita di capitali (Pakko1999). I maggiori tassi di interesse, inquesto caso, non rappresentano unsegnale di maggiore rendimento delportafoglio dell’investitore, quanto un

pee, sin dalla nascita dell’areadell’Euro, sono state caratterizzate dascompensi crescenti e persistenti(Berger e Nitsch, 2010). In particolaretali squilibri si sono manifestati inmaniera eterogenea: i paesi perifericihanno aggravato disavanzi già esistentialla nascita dell’Euro; un secondogruppo, Italia, Francia e Belgio, hannovisto convertire avanzi contenuti insaldi negativi; un terzo gruppo, infine,ha progressivamente incrementato ipropri surplus (Deutsche Bundesbank2010). Secondo questo approccio,dunque, l’andamento delle partite cor-renti gioca un ruolo rilevante, poiché lazona Euro è stata edificata su di unequilibrio precario sorretto da afflussidi capitale a breve termine, difficili damantenere dopo lo scoppio della crisifinanziaria, ma privo di meccanismicompensativi delle variazioni struttura-li del tasso di cambio reale. Infatti, aseguito della propagazione in Europadella recessione, i mercati finanziari sisono rivelati del tutto indisponibili afinanziare la crescita del debito nazio-nale, pubblico o privato, nonostante lacrescita dei rendimenti all’emissione.

Secondo una tale ricostruzione,dunque, la crisi dell’Euro nasce da pro-fondi squilibri reali, quelli degli scambicommerciali, e dall’andamento deiflussi di capitale; l’“imbalance” internadel settore pubblico è da considerarsipiù l’effetto che la causa. Quel che èpiù grave è che, una volta che l’intera-zione tra squilibri si innesca, la spiralesi trasforma in un processo che siautoalimenta (De Grauwe, 2012): glisquilibri reali esterni, che in definitivasintetizzano la capacità di uno stato diripagare il proprio debito, innescandoincrementi degli spread sui titoli deldebito pubblico, che, a loro volta,incentivano un’ulteriore fuoriuscita dicapitali (Gros 2011). In questo conte-sto il contenimento del disavanzo pub-blico e dei salari, e cioè “il vecchio vinoin nuove bottiglie” (Fratzcher 2011),

I DUE DEBITIGEMELLI dell’Eurozona

A seguito della crisi finanziaria del 2007, ipaesi dell’Eurozona hanno teso a separarsi

in due grossi blocchi a seconda della lorocapacità di rispettare i vincoli comunitari

dei parametri relativi al disavanzo e al debito pubblico.

di ROSARIA RITA CANALE E UGO MARANI

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indicatore di maggiore rischiosità delpaese emittente e, dunque, la loro evo-luzione sfugge a qualunque considera-zione relativa al mercato dei titoli inquanto tale.

Se tali meccanismi sono trascurati èpossibile delineare traiettorie che inne-scano spirali di instabilità tendenzial-mente esplosive (Canale e Marani2012). Immaginiamo, ad esempio, cheuno shock negativo della domandaaggregata necessiti di politiche fiscalidi stabilizzazione, ma che i mercatifinanziari internazionali chiedano, incondizioni di elevati disavanzi dellepartite correnti, per finanziare il deficitaggiuntivo tassi d’interesse più elevatidi quelli che uno stato può sopportarequando è costretto ad utilizzare la poli-tica fiscale come strumento di stabiliz-zazione”. In questo caso non è possi-bile individuare un livello di equilibriodel disavanzo pubblico: esso si autoali-menta per il livello dei tassi richiesti alcollocamento dei titoli. L’esercizioanalitico, sia pur astratto, indica quantosia sterile e semplicistico soffermarsisull’evoluzione della politica fiscale tra-lasciando di considerare la connessio-ne tra andamento delle partite corren-ti, movimenti di capitale e tassi di inte-

so i bilanci delle banche (Irlanda eSpagna) e attraverso gli effetti realisulla domanda aggregata (Italia eGrecia).

I mercati finanziari a fronte di unapresunta incapacità di onorare i debiticontratti hanno spostato i loro capitaliall’estero determinando un continuo esempre crescente innalzamento deitassi d’interesse. In un normale sistemaa cambi fissi questa situazione sarebbestata sostenibile fino a quando lanecessità di mantenere il pareggio deiconti con l’estero (attraverso tassi piùalti) non avesse determinato un costosull’equilibrio interno troppo elevato.

La crisi dello SME del 1992 haimpartito ben pochi insegnamenti.Nella situazione attuale, l’impossibilitàdi agire con strumenti di politicamonetaria per porre fine alla fuga dicapitali costringe i paesi in difficoltà aeffettuare restrizioni fiscali. E la spira-le viziosa è l’unico risultato probabile.

da www.economiaepolitica.it

resse. I tempi cambiano, e non inmeglio. Sino alla crisi finanziaria del2008 l’adesione all’Unione Monetariaera fonte di garanzia per gli squilibridelle partite correnti e per il rimborsodel debito. La crisi, paradossalmente,ripropone il principio di responsabilitànazionale e della loro adeguatezzarispetto all’incremento dei tassi di inte-resse e del deflusso di capitali.

L’unione Monetaria si nazionalizzaproprio nella fase in cui avrebbe avutopiù bisogno di politiche “federali”.L’esito di tale inviluppo è un mix dipolitiche, “fiscal retrenchment” e“internal real devaluation”, tantopotenzialmente recessivo sulla doman-da interna e sulla capacità di ripagare ildebito, quanto incapace di affrontare ilvero nodo dell’Unione Monetariacome fin qui concepita: l’“externalimbalance” dei disavanzi correnti e deiflussi volatili di capitali.

La fragilità di alcuni paesi e le asim-metrie all’interno dell’UME derivanodunque dal fatto che la crisidell’Eurozona non è stata identificatacome crisi delle relazioni commercialie finanziarie. Gli shock derivanti dallacrisi si sono trasmessi ai paesi attraver-

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La deregolamentazione del set-tore bancario, prima negliStati Uniti e poi in Europa, ha

permesso la trattazione di prodottifinanziari altamente rischiosi il cui fal-limento, scatenato dal default deimutui sub-prime e dal collasso deiprezzi nel settore immobiliare america-no, ha aperto enormi voragini neibilanci delle più grandi banche d’affaridel mondo.

Tuttavia in Europa la crisi finanzia-ria si è presto evoluta in crisi del debi-to sovrano. Tra il 2010 ed il 2011 molteeconomie dell’Euro zona hanno vistoil carico del debito pubblico aumenta-re consistentemente come conseguen-za sia dei piani di salvataggio per il set-tore bancario, sia per l’ausilio di politi-che fiscali espansive per far fronte allarecessione nell’economia reale.L’aumento eccessivo del debito ha poiinnescato la speculazione finanziaria.Gli stati periferici dell’area Euro comeGrecia, Spagna, Portogallo e Italia, sisono trovati nella condizione di doverpagare tassi di interesse insostenibilisull’emissione del debito sovrano perpotersi finanziare sul mercato dei capi-tali privati. Soltanto l’aiuto congiuntodi Banca Centrale Europea,Commissione, Fondo Monetario ed unfondo europeo, oggi dopo alcunicambi di nome noto come MES (mec-canismo europeo di stabilità) finanzia-to in maggioranza dalla Germania, haimpedito il default della Grecia nel2010. Ma gli aiuti ricevuti dal paeseellenico, come quelli ricevuti in seguitoda Spagna e Portogallo, sono stati vin-colati all’adozione di pesanti misure diausterità consistenti in tagli ingentinella spesa pubblica che hanno spro-fondato le economie nella recessione.Il debito eccessivo accumulato da que-sti stati, infelicemente accomunatiinsieme ad Italia ed Irlanda dall’acroni-mo PIIGS, è stato addebitato allagestione sconsiderata delle risorsefinanziarie pubbliche nazionali, all’op-posto dell’uso virtuoso che ne hannofatto paesi come la Germania. Ma daun esame più attento della zona Euro è

Ma da cosa derivano surplus cosìconsistenti, come in particolare quellodella Germania? Senza dubbio l’eco-nomia tedesca è caratterizzata da untessuto industriale solido e competiti-vo, nell’industria automobilistica e deitrasporti, della meccanica industriale edella chimica farmaceutica. Ma nonsolo. Sono due i fattori economici chehanno mantenuto competitivi i prezzidei beni tedeschi, permettendo di con-seguenza all’export di crescere adispetto dei competitori europei: lamoneta unica e la mancata crescita delsalario reale.

In presenza di valute nazionali, l’au-mento dell’export tedesco avrebbeportato a un apprezzamento dellavaluta nazionale contro le altre valuteeuropee. Con la moneta unica questomeccanismo è stato annullato.L’apprezzamento della valuta naziona-le tedesca avrebbe da un lato scorag-giato le esportazioni tedesche in favoredei paesi concorrenti, dall’altro graziealla svalutazione delle valute europeenei confronti della divisa tedescaavrebbe incoraggiato le importazioni

possibile trarre altre conclusioni. Dal2000 ad oggi sono stati registrati cre-scenti squilibri commerciali all’internodell’area della valuta comune, da unlato da quei paesi che oggi soffronoper la crisi del debito sovrano, dall’al-tro dalle economie più forti dell’area,tra cui per l’appunto la Germania.

Costo del lavoro e squilibri com-merciali

Già dal 2010 l’opinione pubblicainternazionale ha iniziato a consideraregli enormi surplus commerciali accu-mulati dalla Germania come una dellacause degli squilibri della zona Euro,quando l’allora Ministro dell’economiafrancese Christine Lagarde dichiaròpubblicamente come il continuo sur-plus dell’export tedesco rappresentasseuna minaccia alla stabilità economicadell’intera area. Se da un lato laGermania, ma anche l’Austria, i PaesiBassi e la Finlandia, hanno registratoconsistenti avanzi commerciali, dall’al-tro Spagna, Italia e Grecia, hanno vistoi propri disavanzi commerciali crescerespecularmente (Fig.1).

GLI SQUILIBRIEUROPEI e la lezione di Keynes

La crisi economica mondiale esplosa nel2007 negli Stati Uniti con lo scoppio della

bolla immobiliare e il fallimento della bancad’affari Lehman Brothers nel Settembre del

2008 affonda le sue radici nella finanza.

di ALESSANDRO BRAMUCCI

Fig. 1Saldi dei conti correnti di alcuni paesi dell’area dell’euro

(fonte: Memorandum 2011 in Troost/Hersel 2011)

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della Germania. In secondo luogo, dal2000 a oggi i salari reali tedeschi sonosostanzialmente rimasti invariati nono-stante l’aumento di produttività. Incontrasto ai concorrenti europei, ilcosto unitario del lavoro tedesco è pro-gressivamente diminuito, dando così aibeni tedeschi un vantaggio comparatonel mercato europeo. All’opposto, neipaesi periferici dell’area euro il salarioreale è aumentato più della produttivi-tà, aumentando il costo unitario dellavoro e diminuendo la competitivitàdei prodotti nel mercato dei beni euro-peo (Fig. 2).

Il vantaggio competitivo rappresen-tato dal minor costo unitario del lavo-ro in Germania ha operato una redi-stribuzione della ricchezza dai salari aiprofitti, e ha reso la crescita economi-ca tedesca dipendente dal raggiungi-mento di export commerciali. Moltieconomisti concordano nel valutareche i salari tedeschi non sono cresciutinegli ultimi anni a causa delle riformedel mercato del lavoro (come il taglioai sussidi di disoccupazione) realizzatenel 2010 con l’Agenda di riformenazionali e, negli anni precedenti, perle misure della coalizione rosso-verdeguidata da Gerard Shröder. Tuttavia inun’unione economica e monetaria,dove l’export di una nazione rappre-senta l’import di un’altra, le politicheneo-mercantiliste operate dallaGermania si sono rivelate estrema-mente dannose per le economie piùdeboli della stessa area valutaria comu-ne, configurandosi come vera e propriamancata domanda aggregata nell’area.

In conseguenza, le politiche diausterità fortemente volute dal gover-no di Berlino e dalla Commissioneeuropea non rappresentano la giustamedicina per la cura dei malati europei.

to International Clearing Union (ICU)con potere di controllo sui tassi dicambio e sul commercio internaziona-le. Il funzionamento del sistema, defi-nito da Keynes stesso simile a quello diuna banca, offriva una cornice all’inter-no della quale gli stati membri sarebbe-ro stati in grado di correggere gli squi-libri commerciali, siano essi surplus odeficit, in maniera tale da mantenere illivello della domanda aggregata inter-nazionale vicino al suo potenziale.

Il piano Keynes prevedeva innanzi-tutto l’entrata in funzione di un siste-ma multilaterale di cambi fissi maaggiustabili, ancorati ad una valuta uti-lizzabile solo per gli scambi internazio-nali chiamata bancor, a sua volta anco-rata ad una quantità fissa ma non inal-terabile di oro. Le nazioni avrebberoquindi detenuto presso l’ICU un credi-to o un debito, a seconda dei casi,denominato in bancor. Compitodell’ICU sarebbe stato quello di gestireuna efficiente allocazione internazio-nale del credito tra nazioni debitrici ecreditrici, nonché prevenire l’accumu-lazione di crediti o debiti eccessivi conmisure adeguate a riportare il commer-cio internazionale in equilibrio. Adogni nazione sarebbe data la possibili-tà di incorrere in deficit o surplus(denominato in bancor) presso laClearing Union stesso in rispetto adelle “quote” assegnate da unGoverning Board centrale, stabilitesulle base del volume medio del com-mercio degli anni precedenti masuscettibili di aggiustamenti. In caso dideficit superiore di un quarto allaquota prestabilita, in accordo con ilGoverning Board, la nazione avrebbeproceduto alla svalutazione della pro-pria valuta. In caso di deficit superiorealla metà della quota, il Board avrebbepotuto richiedere l’adozione di una opiù delle seguenti misure: svalutazionedella divisa nazionale, controllo deicapitali in uscita, saldo del debito contrasferimento di oro o altre riserve. Incaso di superamento di tre quarti dellaquota, qualora considerato insostenibi-le, il Board avrebbe dichiarato il paesein default, subordinando di fatto l’ac-cesso al credito della Clearing Unionalla discrezione del Board stesso. Incaso di surplus invece il paese avrebbedeciso in accordo con il GoverningBoard per una delle seguenti misure:l’espansione del credito e della doman-da nazionale, la rivalutazione nei con-fronti del bancor della propria divisa,la riduzione di tariffe o dazi che potes-

La crisi del debito pubblico deriva dallascarsa capacità delle economie piùdeboli dell’Euro zona di produrre red-dito e può essere affrontata soltantocon un maggiore coordinamento dellepolitiche dei salari e delle politichefiscali. Per le prime occorre, come giàindicato da Andrew Watt nel dibattitoLa rotta d’Europa, un sistema di con-trattazione salariale a livello comunita-rio che rispetti una regola aurea per lacrescita dei salari, in accordo alla qualei salari nominali in ogni paese crescanoad un tasso uguale alla crescita nazio-nale della produttività nel medio perio-do, più il tasso di inflazione stabilito

dalla banca centrale. Per le politichefiscali occorre un maggior coordina-mento

delle politiche nazionali e serve unnuovo meccanismo di governancemacroeconomica europea. Questa èl’idea di Axel Troost, economista edeputato della Linke nel Bundestag diBerlino che propone, in un testorecente dal titolo SolidarischesMiteinander statt rüinose Wettbewerb(“Solidali gli uni con gli altri, inveceche in pericolosa concorrenza”) unnuovo meccanismo europeo di com-pensazione degli squilibri commerciali,riprendendo l’idea che John MaynardKeynes propose alla conferenza diBretton Woods come progetto perl’organizzazione internazionale delcommercio nel secondo dopoguerra.

Keynes e l’International ClearingUnion

Il testo scritto da Keynes nel 1943,dal titolo Proposal for an InternationalClearing Union rappresentò la posizio-ne della Gran Bretagna alla conferenzache ridisegnò la governance economi-ca mondiale nel secondo dopoguerra.Il piano consisteva nell’istituzione diun organismo sovranazionale chiama-

Fig. 2 – Variazioni di salario nominale, produttività, costo unitario del lavoro e prezzi, 2000-2007 (percentuali) (fonte: Ocse)

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crisi

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sero scoraggiare le importazioni, pre-stiti internazionali mirati. Keynes stes-so dedicò particolare attenzione a chia-rire come il funzionamento dellaClearing Union non rappresentasse unostacolo all’espansione dell’economiepiù forti. Al contrario, grazie allagestione multilaterale di debiti e creditioperata dall’ICU, un paese sarebbestato in grado di accumulare un sur-plus di bancor, nei limiti stabiliti dal-l’istituzione, senza che alcun paese cre-ditore avesse visto la propria domandadi export diminuire. In assenza di taleistituzione i paesi debitori avrebberoprima o dopo esaurito i mezzi di paga-mento delle loro importazioni, ridu-cendo così la domanda di beni dallenazioni creditrici.

In sostanza, la forza dell’ICU risie-deva nella capacità di mantenere unapressione espansionista sul commerciomondiale grazie alla condivisione tragli stati membri degli oneri e dei rischidel sistema di scambi internazionali.Come scrisse lo stesso Keynes: “Lasostituzione di un meccanismo di cre-dito con uno di accumulazione,potrebbe ripetere in campo internazio-nale lo stesso miracolo già compiuto alivello nazionale, trasformare la pietrain pane”.

Seguendo questo esempio Troostelabora una proposta che combinaalcuni aspetti storici dell’InternationalClearing Union di Keynes alla corren-

donando l’idea dell’austerità e riguada-gnando così stima e fiducia tra i par-tner europei. Oggi la politica moneta-ria non è più uno strumento di politicaeconomica efficace; soltanto un mag-gior coordinamento delle politichefiscali europee si potrà salvare il pro-getto della moneta unica, dell’Europacomune e del messaggio di pace cherappresenta, come riconosciuto dal-l’assegnazione del Premio Nobel per laPace 2012. Sta quindi alla Germaniariconoscere il proprio ruolo nella crisieuropea e lanciare l’iniziativa per quel-le riforme che possano dare a questoprogetto un nuovo futuro.

Riferimenti citati - Evans, Trevor (2011) The crisis in theEuro area. International Journal ofLabor Research, ILO. Geneva. Vol. 3Issue 1.- Keynes, John Maynard, Proposal for aninternational Clearing Union in TheInternational Monetary Fund 1945-1965.Twenty years of International MonetaryCooperation.- Troost Axel, Hersel Phillip,Solidarisches Miteinander statt ruinöserWettbewerb Europäische Ausgleichsunion,Sozialismus 12/2011 - Watt, Andrew (2012) La crisi europea ela dinamica dei salari. La rotta d’Europa, 1.L’economia. Sbilanciamoci!, sbilibri, 2.

da www.sbilanciamoci.info

te situazione europea. Innanzi tutto èfondamentale riconoscere come laresponsabilità verso il futuro dellamoneta unica spetta alla nazioni condeficit tanto a quelle con surplus com-merciale. Piuttosto che il Patto di stabi-lità e crescita e delle norme per conte-nimento della spesa pubblica occorredefinire dei limiti per gli squilibri diconto corrente, ad esempio nel breveperiodo una soglia del 3 per cento delPIL di ciascun paese, sia esso in avan-zo o disavanzo. Nel lungo periodoinoltre dovrebbero essere impostedella sanzioni, seppur minime, che col-piscano proporzionalmente gli accu-muli eccessivi di avanzi commerciali. Isoldi così raccolti dovrebbero finanzia-re un fondo per il mantenimento degliequilibri commerciali senza tuttaviaconfigurarsi come un sistema repressi-vo o penalizzante. Le nazioni con sur-plus dovrebbero inoltre presentareentro un tempo massimo al Consiglioe al Parlamento europeo il programmadi policy che intendono attuare peraumentare la domanda aggregatanazionale e correggere gli squilibricommerciali. Questo è il caso dellaGermania oggi. Per difendere gli inte-ressi dell’area comunitaria, laRepubblica federale – Troost conclude– dovrebbe riorientare la propria stra-tegia di sviluppo dal quella basata sulleesportazioni a un modello di crescitabasato sulla domanda interna, abban-

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Il movimento di studi che haavuto origine dagli studi diPosner [1], denominato “Law

and Economics”, ha operato in dire-zione dell’applicazione generalizzatadel cosiddetto teorema di Coase, basa-to sulla nozione di costi di transazione,sia al diritto privato sia al diritto pub-blico che si occupa di comportamentidettati da principi di equità e redistri-buzione del reddito tradizionalmentelontani dai criteri di mercato[2].

Alla metà degli anni Novanta GaryMinda aveva rilevato come, con la finedella certezza del diritto, molti giuristiavevano guardato ad altri settori scien-tifici per recuperare la certezza perdu-ta, identificando proprio nell’economia«il candidato più promettente ad offri-re soluzioni corrette ai problemi giuri-dici»[3]. Mentre nel vecchio continenteil giurista Alain Supiot aveva stigmatiz-zato il successo dell’analisi economicanel diritto sostenendo che «il movi-mento “Law and Economics” è sulpunto di convertire i giuristi a un’ideadi cui Marx non era stato in grado diconvincerli: la necessità di far poggiareil diritto sulle sue “vere” basi, vale adire quelle economiche»[4].

Con la recente e generalizzata sco-perta – o meglio riscoperta – dei cosid-detti «beni comuni», considerati comerisorse di uso collettivo sulla scortadegli studi del premio Nobel per l’eco-nomia Elinor Ostrom, sembra che leteorie giuridiche improntate al metododell’analisi economica siano destinate atrovare applicazione anche relativa-mente al regime giuridico dei «benipubblici», cioè dei beni caratterizzatidalla non rivalità (l’uso da parte di unsoggetto non impedisce l’uso da partedi altri) e dalla non escludibilità (ognu-no ha diritto di accesso all’utilizzo delbene). Finora tali caratteristiche, perquesto tipo di beni, avevano richiesto

del diritto ai beni pubblici, si arriva adaffermare che «la proprietà pubblica diun bene privato è tipicamente il risulta-to di una sua scorretta allocazione,intendendo con ciò che il bene vieneusato o consumato da qualcuno diver-so da colui che lo valuta di più»[6].

In sintesi, l’inefficienza generalizza-ta nell’utilizzo economico dei benipubblici – molto spesso effettiva, tal-volta soltanto presunta – in un paesecome l’Italia, dotato fra l’altro di uninestimabile patrimonio culturale,diventa la leva per introdurre l’applica-zione di regimi proprietari diversi daquello della proprietà pubblica – e ciòin funzione del recupero della possibi-lità di una loro valorizzazione finaliz-zata a una riconsiderazione in terminidi risorse collettive.

Se, da un lato, c’è chi propone l’uti-lizzazione per i beni pubblici trasfor-mati in «beni comuni», l’utilizzo diregimi giuridici a vocazione pubblici-stica diversi dalla proprietà statale,considerata altrettanto perniciosa diquella privata imprenditoriale per ilcorretto uso delle risorse[7], dall’altroc’è chi, a proposito dei «beni comuni»,propone una loro «proprietizzazionesenza privatizzazione» attraverso l’uso,per la loro gestione, dell’istituto del“trust”, una forma di amministrazionefiduciaria diretta alla conservazione,tutela e valorizzazione diversa dallaproprietà pubblica.

Il trust, secondo Peter Barnes, ha lacapacità di preservare la risorsa e diutilizzarla al meglio conservandola perle generazioni future. La caratteristicafondamentale del trust è data dal rap-porto di natura fiduciaria e non politi-ca – come avviene per la proprietàpubblica – con gli amministratori deibeni comuni, che porta a un’equa eparitaria distribuzione delle diverse uti-

l’applicazione del regime giuridicodella proprietà pubblica che, attraversogli istituti del demanio e del patrimo-nio indisponibile, li aveva tenuti fuoridal contesto del mercato attribuendoad essi l’ulteriore caratteristica della«non commerciabilità», che richiamaimmediatamente alla memoria l’anticacategoria romanistica delle “res extracommercium”.

In questo modo l’aria, l’acqua, ilmare, i ghiacciai, tutti i beni offerti inabbondanza dalla natura, e anche beni,materiali e immateriali, creati dall’atti-vità dell’uomo come le strade, le ferro-vie, il patrimonio storico, artistico earcheologico, la conoscenza, l’illumina-zione pubblica, l’amministrazione dellagiustizia erano stati offerti all’utilizzodi tutti ponendo a carico della fiscalitàgenerale le spese necessarie alla loroproduzione, tutela e valorizzazione.

La crisi finanziaria mondiale e leconseguenti tensioni sui bilanci degliStati nazionali, finiscono per metterein dubbio l’efficiente allocazione deibeni dotati delle caratteristiche sopradescritte all’interno della proprietàpubblica e suscitano sempre maggioripressioni dirette alla loro inclusione nelnovero delle risorse quantificabili intermini economici[5]. In altre parole,l’effetto della crisi dei debiti sovraniinduce a indicare nelle poste dei bilan-ci statali anche il valore di quei beniche, essendo esclusi dalla commercia-bilità, sono privi di un effettivo valoredi scambio.

A ben riflettere, dunque, l’inclusio-ne dei beni pubblici all’interno del cir-cuito economico è un ulteriore aspettodella tendenza a ritenere i contenutieconomici dei regimi proprietari comedominanti rispetto a quelli consideratidalle altre scienze sociali. Così, appli-cando i principi dell’analisi economica

I BENI COMUNITRA DIRITTO ESOCIETÀ

Negli ultimi trent’anni si è andato consolidandonel settore degli studi giuridici il primato del

“common law” sulle teorie continentali di “civillaw”. Tale primato si è basato soprattutto sul-

l’applicazione, pressoché generalizzata a tutti isettori del diritto, del metodo proprio dell’analisi

economica, il cui testo fondamentale rimaneancora oggi quello di Richard Posner pubblicato

per la prima volta nel 1972.

di SERGIO MAROTTA

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lità prodotte dalla risorsa comune[8]. Iltrust appare insomma come una terzavia fra proprietà pubblica e proprietàprivata: un regime proprietario e digestione più adatto alla conservazionee alla valorizzazione delle risorse col-lettive.

L’attuale dibattito intorno ai «benicomuni» è però caratterizzato anche daprofili e suggestioni di natura filosofi-ca molto spesso legati al modo diaffrontare il tema spinoso della pro-prietà, di nuovo al centro dell’attenzio-ne dopo che la caduta del muro diBerlino e il ritorno della proprietà pri-vata nelle repubbliche dell’ex UnioneSovietica hanno riaperto il dibattitointorno alle caratteristiche dei regimiproprietari e al ruolo da essi svoltonella corretta allocazione delle risorse.

Le nuove teorie intorno al tema del«comune», tendono a descriverlo comecomprendente non solo i beni comunitradizionali come l’acqua, l’aria, i fruttidella terra, ma «tutto ciò che si ricavadalla produzione sociale, che è neces-sario per l’interazione sociale e per laprosecuzione della produzione, comele conoscenze, i linguaggi, i codici, l’in-formazione, gli affetti e così via»[9].Secondo queste teorie, la «valorizza-zione economica è possibile solo sullabase dell’appropriazione sociale deibeni comuni», mentre «la riproduzionedel mondo della vita e dell’ambientefisico è possibile solo a condizione chele tecnologie siano sotto il diretto con-trollo del progetto di costituzione delcomune»; e «la razionalità opera comestrumento della libertà comune dellamoltitudine, come un dispositivo perl’istituzione del comune»[10]. Questavisione dinamica del comune forniscenumerosi elementi di riflessione aldibattito relativo alla possibilità diapplicare un nuovo regime proprieta-rio specifico per i beni comuni.

Così tra i giuristi c’è chi ritiene dipoter descrivere il comune come «unaltro genere, radicalmente antagonistarispetto alla declinazione esaustiva delrapporto pubblico/privato oStato/mercato. Il comune, infatti,rifiuta la concentrazione del potere afavore della sua diffusione»[11].

Nell’ampio dibattito che si va svol-gendo intorno al tema dei beni comu-ni sia per coloro che sostengono lanecessità di una forma istituzionale

sul mercato siano pari a zero, l’asse-gnazione iniziale dei diritti di proprietàe di uso è irrilevante dal punto di vistadell’efficienza perché, ove tale assegna-zione iniziale risulti inefficiente, leparti la modificheranno concludendoun accordo correttivo» (p. 24).[3] G. Minda, Teorie postmoderne del dirit-to, Bologna, Il Mulino, 2001 [ed. or.Postmodern Legal Movements. Lawand Jurisprudence at Century’s End,New York and London, New YorkUniversity Press, 1995], p. 141.[4] A. Supiot, Homo juridicus. Saggio sullafunzione antropologica del diritto, Milano,Bruno Mondadori, 2006, p. 110.[5] Per quanto attiene ai beni artistici,storici e archeologici un primo tassellonella direzione di un’efficiente utilizza-zione è stato posto con la distinzionetra tutela e valorizzazione entrata nellalegislazione italiana alla metà degli anniNovanta e che cominciava a porre lebasi per l’ingresso dei privati. Comedenunciato da Salvatore Settis nel2002, il patrimonio culturale «diventa-va insensibilmente, senza che nessunolo avesse progettato, un corpo morto[…] da affidare alla sapienza imprendi-toriale dei privati o magari da utilizzareal ministero dell’Economia, all’occor-renza vendendo come generatore diintroiti» (Italia s.p.a. l’assalto al patrimonioculturale, Torino, Einaudi, 2002, p. 83).[6] R. Cooter-U. Mattei-P.G. Monateri-R. Pardolesi-T. Ulen, Il mercato delle rego-le. Analisi economica del diritto civile, vol. I,Fondamenti, Bologna, Il Mulino, 2006(I ed. 1999), p. 121.[7] Cfr. U. Mattei, Beni comuni. Un mani-festo, Roma-Bari, Laterza, 2011.[8] Cfr. P. Barnes, Capitalismo 3.0. Il pia-neta patrimonio di tutti, Egea, Milano,2007.[9] M. Hardt-A. Negri, Comune. Oltre ilprivato e il pubblico, Mondadori, Milano,2010, p. 8.[10] Ivi, p. 131.[11] U. Mattei, Beni comuni, cit., p. 81.[12] E. Ostrom, Governare i beni colletti-vi, a cura di G. Vetritto e F. Velo,Venezia, Marsilio, 2006, Tabella 3.1., p.134 s.

da www.economiaepolitica.it

minima per l’uso di una risorsa nonindividuale, sia per coloro che sosten-gono l’assoluta imprevedibilità degliesiti dei processi in corso, sarebbeopportuno tenere in massimo conto leconclusioni cui è arrivata ElinorOstrom nel corso delle sue approfon-dite e pluridecennali ricerche. Tali con-clusioni portano alla luce le «analogietra istituzioni autogovernate e duraturenell’uso di risorse collettive» riscontra-te nei vari luoghi del mondo dove sisono sviluppate esperienze di gestionedi risorse collettive: 1. chiara definizio-ne dei confini; 2. congruenza tra leregole di appropriazione, fornitura e lecondizioni locali; 3. metodi di decisio-ne collettiva; 4. controllo sulle condi-zioni d’uso della risorsa; 5. sanzioniprogressive; 6. meccanismi di risolu-zione dei conflitti; 7. un minimo livellodi riconoscimento dei diritti di orga-nizzarsi; 8. organizzazione articolate supiù livelli (per i soli sistemi di gestionedi risorse collettive che fanno parte disistemi più grandi)[12].

Probabilmente i tempi sono maturiperché si proceda a una distinzione trai beni comuni materiali tradizionali,quelli offerti dalla natura, in cui sembraormai configurarsi un generalizzato eirrimediabile regime di scarsità, e benicomuni – materiali o immateriali –creati attraverso l’attività dell’uomo incui è del tutto assente il parametrodella scarsità per i quali potrebbe esse-re possibile ipotizzare nuove forme diinterazione sociale che escludano qual-siasi forma di regime disciplinare.

Di fatto, le regole evidenziate daElinor Ostrom, sia che rispondano aeccessive preoccupazioni di istituzio-nalizzazione diretta a creare stabilitànel medio/lungo periodo, sia che pre-figurino regimi disciplinari giudicatiormai insopportabili, hanno consenti-to nel corso della storia il corretto uti-lizzo delle risorse e il loro trasferimen-to alle generazioni successive.

Note

[1] R.A. Posner, Economic Analysis ofLaw, New York, Wolters Kluwer Law,2007 (VII ed.).[2] Cfr. G. Napolitano-M. Abbrescia,Analisi economica del diritto pubblico,Bologna, Il Mulino, 2009, p. 22.Riporto qui di seguito la esposizionedel teorema di Coase di Napolitano eAbbrescia: «laddove i costi di scambio

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La struttura produttiva, a parti-re dai primi anni Settanta, conla fine del fordismo ( e l’affer-

mazione del nuovo modo di sviluppoimposto dagli oligopoli generalizzati,mondializzati e finanziarizzati, è entra-ta in progressiva sofferenza, fino aimboccare la spirale di un’inquietanteregressione, con un accelerato aggra-varsi degli squilibri economici e delledisuguaglianze sociali.

Un’alternativa al declino nazionale

Le grandi imprese hanno cercato diadeguarsi al mutato quadro strutturale,ma sempre con scarsi risultati. Persauna buona parte della propria forzacompetitiva, sono state costrette ad unforte ridimensionamento.

Le piccole e medie imprese, caratte-rizzate da una speciale duttilità/dispo-nibilità verso i clienti, sono invece riu-scite a dare una risposta estranea allanuova logica capitalistica, puntando suprodotti molto personalizzati, che sod-disfacessero le specifiche esigenze chela domanda esprimeva. Queste ultime,tuttavia, non hanno mai trovato laforza di assumere un ruolo sufficiente-mente traente.

Del resto, non sono state neanche ingrado di valorizzare appieno i requisitidella propria offerta. A causa di unadimensione aziendale eccessivamentemodesta, sono rimaste prive di strate-giche funzioni terziarie che, per com-plessità e sofisticazione, pretendevanoelevate economie di scala e di agglo-merazione.

Intanto, soprattutto con la recessio-ne mondiale, si è allargata la domandalow cost, consentendo alla concorren-za estera, specializzata in prodotti stan-dardizzati o apparentemente persona-lizzati ma a basso costo, di estendere lapropria offerta a crescenti quote diclientela che in precedenza optava per

go delle forze produttive nazionali, acominciare da quelle del Mezzogiorno.D’altro canto, anche se fossero ingrado di crearla, non sarebbe auspica-bile. La struttura produttiva finirebbeper essere ancor più caratterizzata dioggi da una eccessiva specializzazionein settori a bassa intensità di capitale ea bassa produttività quali moda, arre-do, alimentare, con un inevitabileincremento della sua fragilità rispettoal mercato estero e, nello stesso tempo,con una crescente incapacità di soddi-sfare la domanda sociale interna alPaese. Per evitare una prospettiva cosìrischiosa sarebbe preferibile che si pro-muovesse al suo interno un’adeguatadiversificazione settoriale, a favore diuno sviluppo nazionale più autocentra-to.

Una nuova centralità degli scambitra Oriente ed Occidente sulla rottadell’Atlantico

Tale scelta strategica appare tutt’al-tro che astratta. L’Italia, oggi, ha difronte a sé una straordinaria opportu-nità: far emergere dalla propria struttu-ra produttiva, accanto alla meccanicastrumentale e al cluster dei beni di con-sumo per la persona/per la casa, unsecondo cluster incentrato sui traspor-ti e sulla logistica, la cui rilevanzasarebbe di livello mondiale e il cui bari-centro coinciderebbe con ilMezzogiorno.

E’ noto che la crescita produttivanell’Asia orientale ha determinato unforte allargamento dei flussi di traffico:ai fronti portuali del Nord America(sulla costa del Pacifico, Los Angeles e,sulla costa dell'Atlantico, New York) edel Nord Europa (Anversa,Rotterdam, Brema, Amburgo) si èaggiunto il fronte portuale diSingapore-Oriente. Il traffico contai-ner tra Estremo Oriente e NordAmerica (circa 240 linee) avviene peroltre tre quarti (circa 180 linee) attra-

prodotti made in Italy di media qualità.

Il rischio che l’Italia esca dal gruppodei Paesi economicamente più avanza-ti e diventi un Paese semiperiferico ètutt’altro che remoto. Eppure le picco-le e medie imprese, prime fra tuttequelle della meccanica strumentale,sono ancora oggi il cuore della struttu-ra produttiva nazionale. Il loro rilanciosi impone come prioritaria necessità.

Il cruciale problema del cronico sot-todimensionamento da cui esse sonocaratterizzate potrebbe avere una solu-zione con possibili effetti di granderilevanza a livello nazionale e interna-zionale: promuovere una nuova formadi governo aziendale, rete stretta,ovvero la costituzione di aggregazioniaziendali in cui vi sia un coordinamen-to molto speciale, strategico e paritario,sicché ciascuna impresa possa condivi-dere con le altre imprese del propriogruppo, le funzioni di cui manca, senzarinunciare alla propria identità e allapropria autonomia.

A questa condizione, l’imprendito-ria del made in Italy esprimerebbe almeglio la propria esclusiva cultura pro-duttiva e, supportata da una accortapolitica economica, potrebbe lanciareun’audace sfida ai grandi oligopoli ealle loro reti transnazionali, creando ipresupposti di una nuova offerta pro-duttiva, sempre più appropriata rispet-to agli autentici bisogni del Nord e delSud del mondo. Però, se si ritenesseche il conseguimento di tale obiettivofosse oltre che necessario anche suffi-ciente per garantire all’Italia una ade-guata struttura produttiva, si incorre-rebbe in un notevole errore.

Sembra molto difficile che le picco-le e medie imprese, pur attrezzate perla conquista di una posizione egemoni-ca nel mercato globale, riescano a crea-re una base produttiva tanto largaquanto lo richiederebbe il pieno impie-

I PORTI DELMEZZOGIORNO:chiave di un nuovo sviluppo

L’Italia appare stremata, prossima ad un lun-ghissimo periodo di depressione: il prodotto

interno lordo non cresce, il saldo commercialeè diventato negativo, mentre la disoccupazio-

ne, oltre al precariato e al lavoro nero, èaumentata in modo impressionante, superan-

do largamente i due milioni di unità.

di MARCO CANESI

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verso il Pacifico. Il traffico containertra Estremo Oriente ed Europa (circa60 linee) passa dal Mediterraneo eaccede ai più importanti mercati euro-pei mediante i porti del Nord Europa.

Il nuovo quadro delle relazioni,insieme alla diffusione del container eall’intensificazione degli scambi com-merciali, hanno consentito un radicalemutamento nelle modalità del traspor-to su acqua di gran parte delle mercimanifatturiere, con l’affermazione delmodello hub and spokes. Le mercisono soggette a due fasi di trasportonella prima fase sono imbarcate sunavi grandi (navi mother) e sbarcate inpochi grandi porti (hub) situati lungorotte pendulum, cioè itinerari di direttaconnessione tra i sistemi portuali dellemaggiori aree economiche; nellaseconda fase sono reimbarcate su navidi minori dimensioni (navi feeder) erecapitate alle loro specifiche destina-zioni (spokes).

L’incremento dei costi di trasporto,determinato da un maggior numero dirotture di carico e da un maggior ricor-so all’intermodalità acqua-ferro, risultapiù che compensato dal minor costonella movimentazione delle merci (gra-zie ai container) e dalle maggiori eco-nomie di scala (grazie a navi più gran-di e con la più produttiva utilizzazio-ne). Gli armatori hanno cominciato adutilizzare navi di grandezza sempresuperiore, mettendo in scena una verae propria corsa al gigantismo: nell’arcodell’ultimo decennio la soglia dimen-sionale maggiore è salita da 3-4mila teua 13-14mila teu; con Maersk, la com-pagnia di navigazione più grande, si staaddirittura spostando a 18mila teu.Tuttavia, dato che il mantenimentodella clientela e il suo allargamento liobbliga a garantire un servizio semprefrequente e costante, indipendente-mente dai carichi volta a volta realizza-ti, cresce il rischio di operare con navisottoutilizzate. Dunque, privilegiare iporti meglio situati rispetto ai mercati èdiventata una scelta ineludibile. Solo laquantità e la molteplicità delle oppor-tunità transazionali possono consenti-re navi sempre cariche, ovvero massi-me economie stocastiche. Ma allora,perché i porti del Nord Europadovrebbero essere ancora gli scali digran parte delle merci destinate inEuropa? Perché le linee di navigazionetra l’Estremo Oriente e la costa orien-tale del Nord America dovrebbero

attrarre le grandi navi, con costosiinterventi di ristrutturazione e la com-promissione di preziosi spazi urbani. Sipotrebbero cioè specializzare nell’ac-coglienza di navi feeder con merci pro-venienti dai porti meridionali e desti-nate nel Nord Italia o in Europa cen-tromeridionale-centrorientale, consoli-dando le relazioni con i loro storiciretroterra commerciali.

L’Italia, in questo modo, avrebbe ilcontrollo di buona parte del trafficoinerente l’emisfero orientale del piane-ta. Il Sud, grazie ai porti di Taranto,Gioia Tauro e Crotone (con Genova eTrieste), avrebbe la possibilità di essereil centro esclusivo e totalizzante degliscambi commerciali tra Oriente eOccidente lungo la rotta dell’Atlanticoe proporsi come base logistica per lacostruzione di una nuova area delMediterraneo (alternativa adun’Unione Europea subordinata allaGermania e ad un mondo arabo sottoil totale dominio degli Usa). Il Nord,grazie all’incrocio delle linee ferrovia-rie da Lisbona a Kiev e dai porti delMezzogiorno ai porti del NordEuropa, diventerebbe il luogo di smi-stamento di tutti i flussi commercialitra Europa e Mediterraneo.

La struttura produttiva nazionale,nonostante oggi appaia inevitabilmen-te destinata ad un’inquietante involu-zione, avrebbe la possibilità di assume-re una posizione di grande potere nelladivisione internazionale del lavoro,proponendosi a tutti i Paesi del mondocome fornitore di assetti produttivi(beni strumentali) e assetti organizzati-vi (soluzioni logistiche) con caratteri-stiche sempre appropriate alle loronecessità.

Il Mezzogiorno: una risorsa strate-gica

Tuttavia, perché la prospettiva deli-neata sia realmente possibile, ilMezzogiorno dovrebbe cogliere appie-no la necessità/opportunità che ilnuovo sistema portuale creerebbe: unadeguato retroterra produttivo e infra-strutturale. Il valore aggiunto della suaindustria, affinché possa essere pro-porzionalmente simile a quello delNord Italia o dei più importanti Paesieuropei, si dovrebbe incrementarealmeno del 50%. Nonostante la cresci-ta di diversi distretti industriali, leimprese - oltre a mancare, come quelle

preferire in larga misura l’itinerario delPacifico anziché quello dell’Atlantico?

I porti di Taranto, Gioia Tauro eCrotone, in virtù della loro posizionegeografica, sono gli unici porti chegarantiscono simultaneamente quattromercati: Centro Europa, Nord Africa,Medio Oriente e America nordorienta-le. Come porti commerciali al serviziodel Centro Europa, sarebbero piùcompetitivi di quelli olandesi e tede-schi, non solo nei tempi (dai 5 ai 7giorni in meno) ma anche nei costi ditrasporto. Il doppio vantaggio di un iti-nerario marittimo alquanto più breve el’impiego di navi mediamente piùgrandi sarebbe superiore allo svantag-gio di tratte su ferro più lunghe. Ilrisparmio, a seconda della lunghezzadei treni utilizzati e dei porti di origine,risulterebbe nullo o tra l’11% e il 14%rispetto al nodo di Francoforte e tra il2% e il 7% o tra il 14% e il 17% rispet-to al nodo di Norimberga.

Dato tale loro nuovo ruolo, il traffi-co tra Estremo Oriente e Americaorientale sarebbe soggetto ad unadiversa distribuzione. La rotta pendu-lum via Atlantico diverrebbe in genera-le la più conveniente: le grandi naviprovenienti da est, toccato uno dei treporti meridionali privilegiati e compiu-to il carico/scarico delle merci con ori-gine-destinazione nei Paesi del CentroEuropa o del Mediterraneo, prosegui-rebbero per i porti lungo la costaorientale dell’America con il minorcosto di trasporto e il maggior carico.

Taranto, Gioia Tauro, Crotone e illoro retroterra si rivelerebbero luoghiideali in cui attuare la gestione dei flus-si di traffico internazionale: vi si allo-cherebbero - insieme alle attività discomposizione-ricomposizione deicontainer e alle attività di assemblag-gio, confezionamento, imballaggio - iquartieri generali della logistica mon-diale. Inoltre, i loro porti sarebberoimportantissime esternalità per molteattività di produzione, sia quelle dellacantieristica sia quelle della meccanicapesante, dedicate a tutti i beni stru-mentali necessari all’industria di base(siderurgia, petrolchimica eccetera),all’industria delle costruzioni e allamovimentazione delle merci negli scaliportuali e ferroviari. I porti di Genovae Trieste li affiancherebbero in unruolo complementare ma ugualmenteimportante, evitando la necessità di

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del Nord e del Centro, di certe funzio-ni terziarie strategiche - non hannopotuto operare entro filiere produttiveintegrate e complete, senza un soddi-sfacente controllo su fasi di processoindispensabili per un posizionamentodi qualità nel mercato.

E’ essenziale la formazione di unbacino produttivo autoinnescante, siaper cicli di produzione sia per innova-zione tecnologica. Il progresso delleforze produttive storicamente necessa-rio implica relazioni altamente interat-tive, spesso faccia a faccia, sicché laloro piena affermazione non può avve-nire se non all’interno di assetti territo-riali che permettano da luogo a luogotempi di percorrenza contenuti entrola giornata, con la possibilità di effet-tuare, ogni volta che occorra, sposta-menti frequenti e tempestivi.

Per garantire una simile accessibilità,la linea ferroviaria Napoli-Palermo èdeterminante. Dovrebbe però avereuna reinterpretazione funzionale: nonAlta Velocità ma Alta Capacità. Il per-corso, se venisse realizzato - come èstato nelle intenzioni dei governi pre-gressi e attuale - lungo la costa tirreni-ca o, in alternativa, lungo la costa ioni-ca, scavalcherebbe il territorio meridio-nale, senza alcuna utilità per le attività

territorio: la creazione di tre nuovecittà policentriche, ovvero il recuperodel patrimonio abitativo esistente in trearticolati sistemi insediativi al cui inter-no qualunque spostamento avverrebbein tempi urbani, cioè mai superiori ai60 minuti.

Due di esse potrebbero essere inBasilicata-Puglia (Potenza, Tricarico,Ferrandina, Matera, Altamura,Gravina, Genzano) e in Calabria(Cosenza, Scigliano, Soveria Mannelli,Serrastretta, Catanzaro): avrebbero250mila abitanti, più un numero di abi-tanti ancora maggiore nei loro intorniinterurbani. La terza città potrebbeavere proprio il baricentro nel bipoloReggio Calabria-Messina e contare suuna popolazione di circa 500milaunità, più alcune centinaia di migliaia diunità lungo i vicini tratti delle sue diret-trici costiere.

Lo scenario che ne potrebbe emer-gere

Nord e Sud del Paese entrerebberoin grande sintonia, esaltando le propriecomplementarietà in funzione di ununico indivisibile ruolo: essere epicen-tro di un’offerta produttiva sempre piùappropriata alle specifiche esigenzeespresse, o esprimibili, dai lavoratori edai popoli di ogni luogo del mondo.

Le loro imprenditorie, forza motricedi una nuova area economica nelMediterraneo, potrebbero porsi inradicale alternativa alle oligarchie plu-tocratiche e alla globalizzazione neoli-beristica da esse imposta, tracciandouna radicale discriminante per la rico-struzione di una Europa, che sia un’au-tentica espressione delle aspettative deisuoi popoli e delle sue nazioni.

Ne conseguirebbe un quadro strut-turale entro cui tutte le forze progres-siste avrebbero grandi possibilità nel-l’affermare un nuovo modo di svilup-po, fondato non tanto su reti transna-zionali a livello planetario quanto sureti strette e bacini produttivi autoin-nescanti entro grandi aree economicheautocentrate, continentali o interconti-nentali.

locali. Al contrario, se passasse nell’en-troterra, dove ancora oggi è situatalarga parte degli insediamenti, potreb-be essere la spina dorsale dell’interosistema dei trasporti meridionali, con-sentendo la realizzazione di un bacinoproduttivo che permetta proprio lerelazioni occorrenti. Gli stessi binari,utilizzati dai treni internazionali (AltaCapacità), potrebbero essere sfruttatianche dai treni regionali (ServizioFerroviario Regionale), garantendo incerte aree, con l’accorciamento deitempi di spostamento e la formazionedi città policentriche, quelle economiedi scala e di agglomerazione indispen-sabili perché le filiere produttive -prime fra tutte quelle del made in Italy- possano superare la propria fram-mentazione e configurare organici rap-porti intersettoriali, con una crescenteapertura ai Paesi rivieraschi delMediterraneo. L’Alta Capacità potreb-be toccare Potenza, Cosenza,Catanzaro, Reggio Calabria, Messina e,infine, Palermo.

Il tempo di percorrenza di tale itine-rario, nell’ipotesi di quattro stazioni disosta, non supererebbe le tre ore. Ilcosto dell’opera, tra 25 e 30 miliardi dieuro, sarebbe simile a quello degli altritracciati, ma, in più, vi sarebbe un’im-portante innovazione nell’assetto del

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Diversamente dal sistema deitrasferimenti selettivi – dicui si contano in Europa,

ma non solo, numerosi esempi, tra cuiil più noto è il “Revenu minimum d’in-sertion” francese istituito nel 1988 – ilreddito di base è contrassegnato dadue caratteristiche: l’universalità e l’in-condizionatezza; mentre il sistemaconvenzionale riserva i trasferimenti aisoli individui sprovvisti di mezzi, ero-gandoli a condizione della disponibili-tà dei beneficiari a ricercare e ad accet-tare un lavoro, il reddito di base si indi-rizza a tutti senza alcuna previa verifi-ca di requisiti e condizioni.

L’introduzione di un reddito di baseuniversale e incondizionato – realizza-tasi ad oggi solo in Alaska, nel 1980,secondo un modello tuttavia nongeneralizzabile, e in Brasile, in formagraduale a partire dal 2005 – è conce-pita dai suoi fautori come un interven-to pubblico volto ad integrare una piùampia riforma del welfare state, nel-l’ambito del quale il reddito di baseandrebbe ad affiancarsi alla gran partedelle misure assistenziali già esistentiassorbendo eventualmente quelleespressamente finalizzate a ridurre lapovertà e l’esclusione sociale. La suasostenibilità economica – questionesulla quale generalmente si appuntanole critiche dei suoi detrattori – apparepertanto valutabile solo in rapportoalla specifica situazione di ciascun sin-golo Paese in cui si cerchi di realizzar-la. Assai meno contingenti e contro-verse si presentano invece le moltepli-ci ragioni di equità che ne motivanol’introduzione, nonché le considerazio-ni in ordine all’efficienza che, a con-fronto con il sistema dei trasferimentiselettivi, il reddito di base potrebbeassicurare.

Per quanto siano concepiti per unobiettivo comune – la lotta contro lapovertà, la disoccupazione e l’esclusio-ne sociale – i due sistemi agiscono in

gnarsi la vita col lavoro” (E. Vigorelli,“L’offensiva contro la miseria. Idee edesperienze per un piano di sicurezzasociale”, Mondadori, Milano, 1948, p.6. ). Garantirebbe inoltre livelli minimidi eguaglianza sostanziale, in attuazio-ne del secondo comma dell’art. 3 dellaCostituzione italiana, presentandosicome “uno strumento funzionale perpermettere a ognuno di coprire la basedi bisogni comuni a tutti” (P. VanParijs, “Il reddito minimo universale”,Università Bocconi editore, Milano,2006, p. 93.).

Sullo sfondo di questa concezionevi è un’idea di società giusta che sup-pone una gerarchia dei bisogni, per laquale, a fronte di interessi più o menopressanti comuni a tutti gli esseriumani, la soddisfazione di quelli tra diessi più urgenti gode di una prioritàmorale. In questa prospettiva, il reddi-to di base potrebbe rappresentare untassello (di per sé certo non sufficien-te) di una politica pubblica intesa a rea-lizzare un modello di società in cui ilprincipio dell’eguaglianza di opportu-nità costituisca un valore ideale, unobbiettivo ineludibile. Il reddito dibase, per esempio, andrebbe a vantag-gio dei soggetti socialmente più debolie vulnerabili, come le donne impegna-te in attività, domestiche o di cura, nonretribuite, evitando, in virtù della suauniversalità, gli effetti perversi diun’eventuale misura selettiva, la qualeirrigidirebbe la divisione dei compititra i sessi e aggraverebbe la trappoladell’inattività femminile al di fuori del-l’ambito domestico.

Altrettanto rilevanti sono poi leconsiderazioni in rapporto all’efficien-za che il reddito di base potrebbe rea-lizzare rispetto allo scopo desiderato.In primo luogo, eliminirebbe la possi-bilità che non accedano al trasferimen-to proprio i soggetti più bisognosi, iquali, in un sistema selettivo, rischianodi esserne esclusi per il timore dello

modo differente. Il reddito di base sipone infatti in netto contrasto con lasoluzione escludente e discriminatoriaofferta dal sistema convenzionale: èescludente poiché di fatto emargina estigmatizza coloro che lo Stato buro-cratizzato colloca in una situazione dibisogno, riproducendo una concezionecaritatevole dell’assistenza sociale chesi realizza per mezzo del dispiegamen-to di un apparato amministrativo inevi-tabilmente invadente in rapporto allaprivacy dei potenziali beneficiari; inol-tre è discriminatorio perché, riservan-do il suo intervento alle fasce di popo-lazione più disagiate, esclude coloroche si trovano immediatamente soprauna soglia arbitrariamente predetermi-nata, stabilendo una differenziazionedifficilmente giustificabile sul pianoetico.

Sotto il profilo dell’equità, il redditodi base costituisce la più coerente tec-nica di garanzia del diritto alla sussi-stenza, “quella che meglio si accordacon l’universalismo dei diritti fonda-mentali” (L. Ferrajoli, “Principia iuris.Teoria del diritto e della democrazia”,Laterza, Roma-Bari, 2007, vol. II, p.407.). Realizzerebbe un’espansionesignificativa del garantismo in ambitosociale a tutela – secondo quanto affer-mato nel 1992 in unaRaccomandazione del Consiglio euro-peo (92/441/CEE) – del “diritto fon-damentale della persona a risorse e aprestazioni sufficienti per vivere con-formemente alla dignità umana”: unagaranzia strutturalmente indipendentedal reddito da lavoro, e anzi ad essoalternativa e compensativa, come indi-cato dall’art. 38 della Costituzione ita-liana, il quale, secondo una letturaancorché risalente ma ancora attualissi-ma, consacra “l’obbligo dello Stato diintervenire tutte le volte che per qual-siasi causa, individuale o sociale, con-tingente o permanente, un membro opiù membri della collettività siano inpericolo per la impossibilità di guada-

BASIC INCOME.Argomenti per una società più equa

Il basic income – che qui si preferiscetradurre con l’espressione italiana “reddi-to di base” – consiste in un trasferimentomonetario erogato dallo Stato, o da altro

ente pubblico, a tutti gli individui, indipen-dentemente dalla loro condizione econo-

mica e senza che sia loro richiesta alcuna contropartita.

di FABRIZIO MASTROMARTINO

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stigma sociale o per la fisiologica inef-ficienza delle istituzioni pubbliche,causata dall’assenza di un’informazio-ne adeguata. In secondo luogo, elimi-nirebbe i disincentivi al lavoro derivan-ti dall’azione di uno Stato che concen-tra risorse sulle persone inattive, man-tenendole, per mezzo di aiuti assisten-ziali, in una condizione di inattività: ilreddito di base libererebbe dalla retedei sussidi selettivi, incentivando indi-rettamente l’occupazione – volontariae non coartata – degli individui, cheattraverso l’impiego retribuito potreb-bero soltanto migliorare la propriacondizione di partenza. In terzo luogo,bilancerebbe gli effetti sociali negatividella flessibilità del lavoro poiché, sot-traendo gli individui al ricatto del biso-gno, appresterebbe le risorse per con-trastare la precarizzazione della vita,aumentando il potere di negoziazionedi ciascuno nel mercato del lavoro.Infine, ma non meno importante, rea-lizzerebbe una semplificazione dell’in-tervento pubblico riducendo al mini-mo l’esigenza di differenziare i trasferi-menti secondo le condizioni individua-li ed eliminando al contempo la neces-sità di predisporre costosi sistemi diaccertamento amministrativo per l’in-dividuazione degli aventi diritto (E.Granaglia, “La redistribuzione”, in J.E.Stiglitz, “In un mondo imperfetto”,Donzelli, Roma, 2001, p. 69). A que-sto ingente fronte di argomenti asostegno dell’introduzione del redditodi base, si contrappone usualmenteun’obiezione generale di natura eticache contesta la sua sostenibilità non giàeconomica ma sociale. L’accusa è divoler edificare una società in cui si isti-tuzionalizzi una modalità di sfrutta-mento sociale per la quale coloro che,poiché sprovvisti di mezzi, non contri-buiscono a finanziare l’erogazione delreddito di base, comunque benefician-done, trarrebbero iniquo vantaggio daiprodotti del lavoro altrui (C. Del Bò,“Un reddito per tutti. Un’introduzioneal basic income”, Ibis, Como-Pavia,2004, pp. 88-89 e 98). Un’accusa che aben vedere manca il bersaglio.

Questo modo di rappresentare ipossibili (ma non necessari) effetti del-l’introduzione del reddito di base sup-pone, a me pare, un’idea di societàmassimamente statica, in cui il ruolo ela posizione sociale degli individuirimangono inalterati nel corso dellavita di ciascuno, non potendo subirené miglioramenti né peggioramenti

glianze che non possiamo accettare. Laloro rimozione, realizzata tramite lasoddisfazione dei bisogni fondamenta-li, è imposta dal riconoscimento libera-le e insieme egualitario della nostracomune condizione umana. Ma è oggialtresì raccomandata dalle più autore-voli istituzioni europee e imposta daidocumenti normativi dell’Unione cheintegrano il faticoso processo di costi-tuzionalizzazione europea. Il parla-mento europeo, nella Risoluzione del 9ottobre 2008 (sulla promozione del-l’inclusione sociale e la lotta contro lapovertà, inclusa la povertà infantile,nell’Unione europea), ha invitato gliStati membri a definire “i meccanismidi reddito garantito” in modo da assi-curare a tutti “un reddito sufficienteche permetta di condurre una vitadignitosa”. E’ poi già la Carta di Nizza(del 2000) a sancire sul piano normati-vo, al terzo comma dell’art. 34, “il dirit-to all’assistenza sociale e all’assistenzaabitativa volte a garantire un’esistenzadignitosa”: una disposizione che, attra-verso la forza normativa riconosciutaledal Trattato di Lisbona (art. 6), stabili-sce inequivocabilmente il diritto allasussistenza come diritto sociale dirango europeo (Cfr. G. Bronzini, “Ilreddito di cittadinanza”, EdizioniGruppo Abele, Torino, 2011).

Ebbene, la stessa coesione e lamedesima sollecitudine che hannocontrassegnato la risposta dell’attualeparlamento italiano all’invito europeodi inserire in Costituzione il vincolodel pareggio di bilancio – un principio,vincolante a partire dal 2014, che moltihanno giudicato negativamente per ilsostanziale azzeramento dell’autono-mia delle regioni e delle autonomie ter-ritoriali che si prevede il provvedimen-to genererà – dovrebbero realizzarsiattorno alla proposta del reddito dibase: per dare concreta attuazione a unprincipio ormai consolidato nel qua-dro normativo europeo, una garanziaadeguata del diritto alla sussistenzadovrebbe essere introdotta inCostituzione e corredata da un vincoloeconomico che obblighi lo Stato aindicizzare annualmente il reddito dibase al costo della vita. E’ un interven-to dovuto che si presenta particolar-mente urgente nel caso italiano, dove laspesa sociale, pur essendo in linea conla media UE, non prevede, a differen-za della grandissima parte delle realtàeuropee, alcuna forma di sostegno alreddito.

significativi: una società dove la mobi-lità sociale è nulla, o irrilevante, e dovei percorsi individuali sono vincolatiineluttabilmente alle diseguali condi-zioni di partenza. Ebbene, proprio ilreddito di base, in virtù della sua natu-ra universale e incondizionata, potreb-be iniettare nelle nostre società tenden-zialmente immobili un importante ele-mento di dinamicità, determinando –oltre a una maggiore fluidità tra lavoro,attività familiari e percorsi formativi –un sostanziale riequilibrio nei rapportidi forza e una ricomposizione degliassetti sociali esistenti. D’altronde, purassumendo come possibile l’instaura-zione di una dinamica dello sfrutta-mento per effetto della sua introduzio-ne nel sistema di welfare, occorre altre-sì ipotizzare che la neutralità rispetto aidifferenti piani di vita, assicurata dalreddito di base, comporterebbe pureche in qualsiasi momento chi è sfrutta-tore decida di divenire sfruttato, e vice-versa.

Ma ben più complesse, bisognaaggiungere, si presentano le problema-tiche collegate alla realizzabilità praticadel reddito di base. E’ sufficiente con-siderare, a questo proposito, la quanti-tà di elementi che occorre valutarenella preliminare determinazione deibisogni fondamentali, a fronte dell’irri-ducibile eterogeneità delle condizioninaturali, sociali, economiche e patri-moniali di ciascuno, sulla cui differen-ziazione spesso incidono circostanzelocali, dipendenti dal luogo in cui ci sitrova a vivere: si pensi alle personeinvalide, o malate, ai soggetti social-mente emarginati, o comunque privi dilegami familiari, e infine al peso che,nella misurazione della ricchezza (edella povertà), assume la proprietàdella casa, soprattutto in alcune areemetropolitane. La complessità dellarealtà sociale si riflette, insomma, inuna domanda sociale di equità, che sipresenta altrettanto complessa, erispetto alla quale nessuna risposta isti-tuzionale univoca può essere sufficien-te. L’arbitrio e la sorte influenzano inmisura tale la disparità nella disponibi-lità delle risorse economiche e cultura-li, nella distribuzione degli impieghi,dei redditi e del tempo libero, che nonci si può illudere che il reddito di basesia in grado, da solo, di realizzare lepari opportunità per tutti. Ciò che peròda esso dovremmo aspettarci è checontribuisca a delineare una società incui non trovino più posto le disugua-

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Così, nel 1803, Malthus soste-neva l'abolizione delle leggiche proteggevano i poveri.

Gli argomenti invocati allora sugli"effetti perversi" della protezione deipoveri hanno attraversato la storiadegli ultimi due secoli per essere ripro-posti, ancora una volta ma in manierameno brutale, in seguito alla creazionedel Reddito Minimo d'Inserimento(d’ora in avanti, RMI).

Introdotto nel 1988, con un gover-no di sinistra al potere e in un climapolitico molto favorevole, dopo 20anni di esperienze a livello locale, ilRMI è diventato una prestazione socia-le sui generis, riconosciuto in ragionedel diritto fondamentale della personaa vivere con dignità in una società soli-dale. Ma nel corso del tempo la cresci-ta della disoccupazione, le critichesempre maggiori nei confrontidell’"assistenzialismo" dello Statosociale e, infine, l'arrivo della destra alpotere nel 2002, hanno spinto a rifor-mare questo istituto che si è così tra-sformato nel « reddito di solidarietàattiva » (RSA), il cui obiettivo è quellodi dare un mero supporto economicocomplementare ad uno stipendio trop-po basso.

Alla fine degli anni sessanta, la mag-gioranza dei poveri era composto dapersone anziane e da disabili. Le loropensioni erano troppo basse e veniva-no integrate da vouchers emessi daiComuni: questa forma di assistenzasociale, tuttavia, stigmatizzava i poverinei negozi. In diverse città dellaFrancia, allora, i politici locali, rispetto-si della dignità di queste persone, sosti-tuirono il sostegno indiretto al redditocon l’erogazione di un sussidio indenaro.

aumentava costantemente in queglianni, risultava estremamente difficilerinunciare al RMI per trovare un’occu-pazione di propria iniziativa.

E’ in questo contesto che aumenta-rono progressivamente le critiche neiconfronti del RMI in quanto misuraassistenzialista. Per i critici dell’istituto,infatti, il differenziale tra la retribuzio-ne salariale delle diverse tipologie dilavoro precario ed il reddito minimoera troppo basso per favorire il ritornoal lavoro spontaneamente. La flessibili-tà del lavoro diventava così sempre piùincompatibile con la "sicurezza" garan-tita dal RMI. Due teorie economicheliberali erano sottese a queste critiche:la prima, una visione del mercato dellavoro come se fosse un mercato «normale ». Per ridurre la disoccupazio-ne, infatti, i salari devono essere bassi,come se fossero dei titoli azionari ineccesso sul mercato dei cambi. La fles-sibilità del mercato del lavoro, quindi,può creare nuovi posti di lavoro: seperò la protezione sociale dei disoccu-pati impedisce ai salari di abbassarsifino al loro livello "naturale", allora ladisoccupazione volontaria aumentainevitabilmente.

La seconda teoria è quella che studiail comportamento dei disoccupati : sitratta della c. d. teoria del « job search». In pratica, bisogna fare un calcolotra i benefici strettamente economiciche derivano dal tornare al lavoro e lasituazione attuale del disoccupato chepercepisce il RMI. Il lavoratore sareb-be spinto a scegliere un impiego per luisoddisfacente e a rimanere disoccupa-to: infatti, maggiore è la protezione chegli deriva dal RMI, maggiore sarà que-sto « lusso di prender tempo » e, diconseguenza, maggiore sarà il costoper lo Stato. In questo modo, la disoc-

Un passo decisivo, al riguardo, èstato compiuto nel 1967 nella città diBesançon - sotto l’impulso determi-nante dell’assessore agli affari sociali diallora, Henri Hout - , quando si decisedi unificare tutte le forme di sostegnoindiretto al reddito con un’unica pre-stazione in denaro. L'obiettivo inizialeera quello di corrispondere un salariominimo in più fasi, attraverso il paga-mento di un differenziale in denaroche tenesse conto della situazione eco-nomica personale. In sostanza, un red-dito garantito pari al 70% del salariominimo che venne poi esteso, perragioni di equità, oltre agli anzianianche alle donne singles e ai lavoratoriprecari.

Così è nato a Besançon - e successi-vamente anche a Rennes e a Nîmes - ilminimo sociale garantito (MSG), undiritto di ogni cittadino a percepire unreddito calcolato sulla base del salariominimo lavorativo. L’esperienza diBesançon diventerà, nel corso deglianni, un modello per l'introduzione delRMI a livello nazionale.

E’ il primo dicembre del 1988, algoverno c’è una coalizione rosso-verdeguidata da Michel Rocard, quandoviene votata a larga maggioranza lalegge che istituisce il Reddito Minimod'Inserimento (RMI). Del MSG, ilRMI utilizza il principio del vantaggiodifferenziale, pur senza mantenere ilriferimento al salario minimo: l'impor-to, fissato dallo Stato in funzione delnumero dei componenti del nucleofamigliare, sarà ben al di sotto del 70%del salario minimo di Besancon. Uncontratto di inserimento lavorativo èlegato all’erogazione del RMI: infatti,la maggior parte dei beneficiari delRMI non ha nessun contratto di lavo-ro e siccome il tasso di disoccupazione

DAL REDDITO DIINSERIMENTO ALREDDITO DI SOLIDARIETÀ ATTIVA: un semplice cambio di nomeo una diversa idea di basic income?

«Dobbiamo pubblicamente denunciare ildiritto del povero ad essere mantenuto aspese della società. […] Un uomo che ènato in un mondo già occupato [...] non

ha alcun diritto di reclamare cibo poichéegli è di troppo. Al grande banchetto

della natura, infatti, non vi è alcun posto a tavola per lui».

di EVELYNE TERNANT*

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cupazione diventa volontaria. Questeteorie economiche erano egemoninelle classi dirigenti liberiste francesi,soprattutto negli anni ottanta: i politici,infatti, tanto quelli di destra quantoquelli della sinistra moderata, riteneva-no necessario adottare il salario mini-mo sociale ma soltanto per promuove-re l'occupazione in un mercato dellavoro flessibile.

Il governo di Lionel Jospin, adesempio, nel 2001 ha istituito il PrimePour l'Emploi (PPE), il sostegno alreddito per lavoratori dipendenti consalari bassi. Questa sorta di "tassanegativa" – teorizzata soprattutto daglieconomisti liberisti, come MiltonFriedman -, aveva come obiettivo quel-lo di non alterare il "gioco del liberomercato del lavoro", facendo scendereil salario al suo "naturale" livello egarantendo nel contempo ai lavoratoriuna retribuzione di sussistenza, a fron-te di una bassa pressione fiscale. Così,in maniera un pò incoerente, nel corsodel 2001, convivono una redistribuzio-ne del reddito di tipo keynesiano(RMI) e uno strumento di flessibilizza-zione liberista del mercato del lavoro(PPE): ma quando la destra ritorna alpotere nel 2002, decide di nuovo diaccellerare in direzione del liberismo.

Viene istituito innanzitutto ilRevenu Minimum d’Activité (RMA) -entrato in vigore il 1 ° gennaio 2004 -,ed annunciato come una delle riformepiù importanti del nuovo governo, mache verrà presto abrogato. Il RMAviene creato sulla falsariga del RMI :viene erogato a livello locale, per con-sentire un migliore controllo del re-inserimento nel mondo del lavoro. IlRMA è destinato a tutti coloro chelavorano da oltre due anni con un con-tratto part-time per il quale il datore dilavoro riceve il RMI e con il quale inte-gra il reddito del dipendente. Un istitu-to questo fortemente criticato dai sin-dacati e dalle organizzazioni dei disoc-cupati che denunciano "la sovvenzionepubblica del lavoro privato", una vera epropria manna per le aziende che, inquesto modo, possono impiegare forzalavoro a basso costo.

All’inizio del 2005 una commissionemista – composta anche da esponentipolitici di sinistra –, viene istituita dalgoverno per riflettere sulla possibilitàdi introdurre il Revenu de SolidaritéActive (RSA), al fine così di semplifica-

sociale ad essere cambiate. Gli ideatoridel salario minimo garantito considera-vano questo come un aiuto per le per-sone in difficoltà, "… perché nessunopuò essere disponibile a sostenere ipropri problemi se la sua mente ècostantemente catturata dalla precarie-tà della sua situazione di vita" (cosìrecitava il documento del Comune diBesançon che introduceva, negli annisessanta, il RMI).

La filosofia del RMA e del RSA sibasa sul principio che gli esclusipotrebbero sprofondare in questasituazione e sentirsi in colpa. Questa èuna vera e propria inversione dei dirit-ti in doveri : l'obbligo di solidarietàdella società verso i suoi membri e ildiritto fondamentale di ciascuno avivere con dignità, infatti, vengonopercepiti dai singoli come un debitonei confronti delle istituzioni pubbli-che che, in questo modo, esercitanouna pretesa su di loro al fine di ottene-re la restituzione del denaro erogato.

Siamo tornati così alla violenza sim-bolica e politica contro i poveri che iprecursori del salario minimo socialeavevano provato ad eliminare. Di quil'osservazione del sociologo Jean-Francois Lae: "… ogni settimana, i cit-tadini hanno a che fare con questi «contatori » del benessere e sonocostretti ad affrontare questa sorta dipiccoli tribunali e cioé degli incontri[con i funzionari dell’amministrazionepubblica] in cui vengono valutati,insieme alle loro famiglie, sin dallanascita. Per loro, lo Stato, non è nien-t’altro che questo".

* Università di Besançon (traduzio-ne italiana di Antonello Ciervo)

re il sistema di erogazione degliammortizzatori sociali. Questa riformasi è votata il 1 ° dicembre 2008, a ventianni esatti dall’istituzione del RMI, inun clima molto meno conflittualerispetto a quello in cui nasceva il RMA:i critici dell’assistenzialismo statalehanno così convinto anche la sinistramoderata.

Il RSA, pari a circa il 40 % del sala-rio minimo, viene erogato ai nucleifamigliari, in tutto o in parte, a secon-da che sia combinato o meno con unreddito da lavoro. In questo caso, unacomplicata formula stima ciò che restaa chi percepisce il RSA, una voltadedotte le spese di alloggio: l'indennitàversata consiste nel differenziale tra ilRSA ed il reddito del nucleo famiglia-re.

Le pressioni esercitate nei confrontidi coloro che percepiscono il RSAsono aumentate : costoro, infatti,hanno "l'obbligo di cercare lavoro,ovvero di definire e seguire un piano dicarriera per migliorare la loro situazio-ne economica", ha detto NicolasSarkozy, nel corso della recente campa-gna elettorale per le presidenziali. Ilcontrollo del "buon comportamento"del percettore del RSA diventa allorauno strumento di coercizione: è neces-sario che egli venga seguito, in partico-lar modo a livello locale, affinché sisottoponga a stringenti criteri di com-portamento. La paura degli « approfit-tatori » è giunta al punto tale da punirecoloro che risparmiano parte del RSAcon una tassa speciale: i poveri nonhanno diritto al risparmio, anche seesso consiste in poche centinaia dieuro versate su un conto corrente ban-cario.

Il bilancio del RSA oggi ? Il denaroeffettivamente erogato è talmentepoco che non riesce a far fronte allapovertà dilagante, mentre la complessi-tà del sistema delle prestazioni minimesociali è ben lungi dall'essere risolto.Per alcuni economisti, il RSA è unanuova forma di sovvenzione parzialeche ben presto sarà utilizzata anche daidatori di lavoro, in quanto consente diassumere lavoratori poveri.

Dal salario minimo garantito, intro-dotto per porre fine all'umiliazionequotidiana dei poveri, fino al RSA, si èregistrato più di un cambio di nome,ma sono le modalità della esclusione

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Per molti liberal ed esponentidella sinistra, invece, Obamaè un presidente troppo centri-

sta, troppo moderato, troppo accondi-scendente nei confronti dei poteri fortidell’economia e della finanza; fin dalprincipio, infatti, il nuovo presidenteha cercato l’appoggio del mondo delBig Business, delle élites tradizionali edei circoli della burocrazia politica dasempre al potere a Washington.

Lo proverebbero, innanzitutto, lebiografie della squadra scelta per lanuova amministrazione: persone comel’attuale segretario al Tesoro TimothyGeithner, già sottosegretario delTesoro ai tempi dei Bill Clinton, diret-tore del Dipartimento delle politiche disviluppo del Fondo MonetarioInternazionale (2001-2003) e presiden-te della Federal Reserve Bank di NewYork (dal 2003). Oppure come LarrySummers: anch’egli con un passatonell’amministrazione Clinton (segreta-rio al Tesoro dal 1999 al 2001),Summers era già stato consigliere eco-nomico di Reagan (dal 1982 al 1983) ecapo economista della BancaMondiale. Di quella stagione moltiricordano il “memo” in cui definiva«impeccabile» la logica economica inbase alla quale i rifiuti tossici vengonoscaricati nei paesi a più basso reddito.Divenne poi presidente dell’Universitàdi Harvard, carica dalla quale si èdimesso nel 2006 anche a seguito delleviolente polemiche scoppiate per dellesue affermazioni sulla minore predi-sposizione delle donne allo studio dellematerie scientifiche e ingegneristiche.

Entrambi, Geithner e Summers,erano i “pupilli” di Robert Rubin, giàco-presidente di Goldman Sachs primadi entrare nell’amministrazioneClinton. Rubin è stato il principalesponsor sulla sponda democratica delGramm-Leach-Bliley Act, la legge che

prima della sua elezione? Innanzituttonon ha fatto cose radicalmente oppo-ste a quelle che andavano fatte.Proprio le risposte sbagliate attuate dalpresidente Herbert Hoover nel 1929hanno condotto alla GrandeDepressione degli anni Trenta.

Ottant’anni dopo le stesse ricettefallimentari sembravano tornate agodere di largo consenso. Nel gennaiodel 2009 oltre duecento economistidelle università statunitensi hannopubblicato un appello a pagamento sulNew York Times e sul WashingtonPost per prendere posizione contro lostimolo fiscale annunciato dal neoelet-to presidente (le pagine sono stateacquistate dal think thank ultraliberistaCato Institute). Fra loro anche trepremi Nobel per l’economia comeJames Buchanan, Vernon L. Smith,Edward Prescott, oltre agli italianiMichele Boldrin (docente allaWashington University di St. Louis ededitorialista del Fatto Quotidiano) eAlberto Bisin (docente alla New YorkUniversity ed editorialista dellaRepubblica). «Non crediamo che piùspesa pubblica sia la via per migliorarela situazione economica», si leggevanel testo. «Più spesa pubblica non hatirato fuori gli Usa dalla GrandeDepressione negli Anni ‘30 e non hasalvato il Giappone dal decennio per-duto negli Anni ‘90. Perciò, è un trion-fo della speranza sull’esperienza [ilriferimento sarcastico allude ovvia-mente al libro di Obama “L’audaciadella speranza”, ndr] il credere che piùspesa governativa aiuterà gli Stati Unitioggi. Per migliorare l’economia la poli-tica dovrebbe concentrarsi sulle rifor-me che rimuovono gli ostacoli a lavo-rare, risparmiare, investire, produrre».L’appello si concludeva con l’esorta-zione ad abbassare le tasse e ridurre laspesa governativa.

nel 1999 ha di fatto abrogato il Glass-Stegall Act, cioè la normativa approva-ta all’epoca di Roosevelt per separareattività bancaria tradizionale e attivitàbancaria di investimento. Il Gramm-Leach-Bliley Act fu la punta di diaman-te delle misure di deregolamentazionefinanziaria varate nel corso degli anniNovanta: permise, fra le altre cose, lalegalizzazione retroattiva della fusionefra Citicorp (la holding della bancacommerciale Citibank) e TravelersGroup (compagnia di assicurazioni cheaveva acquisito due banche di investi-mento, Smith Barney e ShearsonLehman). Ne nacque il colossoCitigroup, per il quale andrà a lavorare,pagato a peso d’oro, lo stesso Rubin.

Perché, allora, Obama ha scelto pro-prio queste figure per il suo staff ?Essenzialmente per tre ragioni: prossi-mità politica (quello era il “cervelloeconomico” del Partito Democratico),voglia di rassicurare l’establishment el’opposizione, e urgenza di avere adisposizione un personale rodato,capace di mettere le mani subito sullamacchina amministrativa, visto l’incal-zare della crisi e il suo devastantepotenziale. Alla luce di scelte simili, perqualcuno l’amministrazione Obamapuò addirittura essere giudicata insostanziale continuità con quella diGeorge W. Bush: tanto nella politicaestera, dove è intervenuta una sempli-ce, e ipocrita, “cosmesi retorica”,quanto nella politica interna. La distan-za fra i due ritratti – quello dell’estre-mista di sinistra e quello del politicanteostaggio delle lobby – è enorme. Percolmarla, e per avvicinarsi ad unaimmagine più veritiera ma anche piùcomplessa, è necessario passare all’esa-me dei fatti. L’analisi non può che par-tire dall’economia.

Che cosa ha fatto Obama per farfronte alla grande crisi deflagrata poco

BARAK OBAMA,poco keynesismo è sempre meglio di tanta austerità

Per molti esponenti della destra Obama èun estremista di sinistra che ha approfit-tato della crisi per realizzare il sogno di

un Big Government, ovvero di un gigan-tesco apparato burocratico capace di

insinuarsi in tutti i gangli vitali dell’econo-mia e soffocare, così, lo spirito di intra-

presa individuale che ha plasmato lanazione americana.

di EMILIO CARNEVALI

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Secondo John Cochranedell’Università di Chicago, anch’eglifirmatario del documento, lo stimolopubblico «non faceva più parte di ciòche è stato insegnato agli studenti uni-versitari fin dagli anni Sessanta. [Leidee keynesiane] sono favole che sisono dimostrate false. Nei momenti dicrisi è molto consolante rileggere lefavole che ci raccontavano da bambini,ma questo non le rende meno false».

Barack Obama non ha dato retta atutti costoro e ha attuato la più classicadelle politiche keynesiane, con uno sti-molo fiscale da circa 800 miliardi didollari, il più grande nella storia degliStati Uniti. Il piano (AmericanRecovery and Reconstruction Act) èconsistito in spese per infrastrutture,educazione, sanità, energie rinnovabili,espansione delle tutele ai disoccupati esgravi fiscali diretti al ceto medio. Èstata una misura approvata immediata-mente, tre settimane dopo l’insedia-mento alla Casa Bianca. Ma, oltre aiprevedibili anatemi da parte dell’oppo-sizione repubblicana, non sono man-cati giudizi critici provenienti anchedalla sinistra liberal. L’economista epremio Nobel Paul Krugman, adesempio, giudicò il piano «utile ma ina-deguato» per le dimensioni della crisi.Lo stesso parere fu espresso da unaltro premio Nobel orientato a sinistracome Joseph Stiglitz: lo stimolo«dovrebbe compensare il calo delladomanda di beni e servizi formulata daun sistema economico nel suo com-plesso, ma è troppo limitato per riu-scirci».

Occorre tuttavia ricordare cheObama è riuscito a conquistare i 60voti necessari al Senato per approvareil pacchetto, superando così l’ostruzio-nismo dell’opposizione, solo portandodalla sua parte tre senatori repubblica-ni “moderati”. In cambio questi ultimihanno chiesto un taglio dell’entitàdello stimolo pari a 100 miliardi di dol-lari, in gran parte destinati al sostegnodelle amministrazioni statali e locali.

C’era un altro modo per far passarequel provvedimento, magari di portataancora maggiore degli 800/900 miliar-di preventivati? Sì. Obama potevaricorrere alla procedura di riconcilia-zione (reconciliation), uno strumentolegislativo che permette di sottrarreall’ostruzionismo dell’opposizione lemodifiche di bilancio, limitando il

rapporto sulle prospettive dell’econo-mia mondiale in cui si invitava conforza il governo americano a ridurredrasticamente la spesa pubblica e sug-geriva alla Federal Reserve di alzare itassi di interesse. Nessuno di questidue consigli sono stati seguiti, ma ilmutato clima politico, favorito daldispiegarsi del Tea Party, portò altrionfo repubblicano alle elezioni di“midterm” nel novembre del 2010. Dalì in poi l’iniziativa di governo sarebbestata irrimediabilmente compromessa.Nel settembre del 2011 il Congressoha bocciato – come da previsioni – ilpiano per l’occupazione da 447 miliar-di di dollari presentato dal presidente.Ha inoltre vincolato la propria autoriz-zazione all’aumento del tetto legale deldebito pubblico, scongiurando ildefault tecnico che in caso contrariosarebbe scattato nell’estate del 2011, aduna manovra di tagli e aumenti fiscaliautomatici finalizzata a riportare il rap-porto deficit/Pil al 4%. In assenza diaccordi bipartisan per evitarla – tutti itentativi si sono rivelati fino ad ora fal-limentari – l’“austerity automatica”dovrebbe diventare operativa dal 2013.Ma molto dipenderà dall’esito delleelezioni di novembre e dagli equilibripolitici che si determineranno tantoalla Casa Bianca quanto al Congresso.

Nonostante gli errori compiuti conl’American Recovery andReconstruction Act, Obama è statol’unico leader Occidentale a mettere incampo una vera politica espansiva. Enegli Usa la situazione non è precipita-ta proprio grazie allo stimolo dell’ini-zio del 2009, per poi mostrare i segnidi una (lenta) ripresa.

Il livello della disoccupazione, però,è rimasto sempre elevato, arrivando alambire il 10%: ma qui subentranoanche fattori legati alla struttura delmercato del lavoro Usa. Lo si evincecon un esempio molto concreto, colle-gato al periodo immediatamente suc-cessivo allo scoppio della crisi: nel2009 nella zona euro si è registrato uncalo del Pil del 4,4%, per poi avere unpiccola risalita del 2% nel 2010. Il Pildegli Usa è invece sceso del 3,5% nel2009 ed è cresciuto del 3% nel 2010. Afronte di questi dati – più positivi pergli Stati Uniti che per l’Europa – ladisoccupazione è passata nella zonaeuro dal 7,5% (nel 2007, prima dellacrisi) al 10% (nel 2010) mentre negliUsa l’incremento è stato assai maggio-

dibattito e la possibilità di emendare iltesto della legge. Tramite quella viasarebbe stata sufficiente una maggio-ranza semplice. Era per altro lo stessodispositivo utilizzato da George W.Bush per i tagli fiscali approvati nel2001 e nel 2003.

Perché non lo ha fatto? Certamente,almeno in parte, per un errore di valu-tazione politica intorno alla possibilitàdi coinvolgere l’agguerrita opposizionerepubblicana nelle iniziative di soste-gno all’economia. Ma anche per la scel-ta deliberata di non inaugurare la suapresidenza con uno strappo, con unamisura “unilaterale”. Lui, il presidenteche si proponeva di unire una «terra difazioni in guerra e odi tribali», nonvoleva dare l’impressione di avermesso da parte così presto il suo pro-filo “post-ideologico” e moderato peringaggiare un violento scontro parla-mentare in un momento di massimaemergenza nazionale. Ai suoi elettoriaveva promesso una «Casa Biancadiversa» da quella dei tempi di Bush,«una Casa Bianca che avesse conside-rato una vittoria 51 a 48 come unrichiamo all’umiltà e al compromessopiuttosto che come un mandato incon-futabile».

La strategia allora adottata è statachiarita anche grazie alla pubblicazionedel memorandum di politica economi-ca preparato da Lerry Summers per ilnuovo presidente nel dicembre del2008. Nel documento di 57 pagine –reso pubblico nel gennaio del 2012 dalgiornalista del New Yorker Ryan Lizza– si spiegava che era più facile interve-nire in un secondo momento con ulte-riori stimoli – nel caso in cui quello ori-ginario si fosse rivelato insufficiente –che ridurre un pacchetto eccessivo. Daqui la scelta di non “forzare troppo lamano” all’inizio del 2009.

Il problema è che dopo la treguadettata dall’emergenza non si sarebbe-ro più ripresentate occasioni così favo-revoli all’intervento. Alla fine del 2009,dopo che la discesa dell’economia erastata arrestata, il dibattito pubblico sispostò bruscamente sull’eccessivodeficit del bilancio federale e comincia-rono a montare prepotentemente leinvocazioni di tagli e di smobilitazionedelle misure di stimolo. Nella primave-ra del 2010, ad esempio, l’Ocse(Organizzazione per la cooperazione elo sviluppo economico) pubblicò un

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re: dal 4,6% (2007) al 9,6% (2010).Negli Stati Uniti il mercato del lavoromolto più “flessibile” – di fatto si pos-sono assumere e licenziare liberamentei lavoratori – ha permesso alle aziendedi approfittare della crisi per compiererobuste riorganizzazioni interne, conun ridimensionamento degli organiciassai più accentuato di quello verifica-tosi nello stesso periodo in Europa.

Obama, inoltre, si è ripetutamentespeso per convincere Angela Merkelad ammorbidire la linea del rigoreimposta dal governo tedesco a tutti gliStati del Vecchio Continente dopo loscoppio della crisi dei debiti sovrani.

Mentre negli Usa la politica riscopri-va, pur fra molte contraddizioni, ilpensiero di John Maynard Keynes, inEuropa imperversava la tesidell’”austerità espansionistica”, mutua-ta da uno studio originario del 1998 diAlberto Alesina e Silvia Ardagna.Secondo quella ricerca – intitolata“Tales of Fiscal Adjustment” e succes-sivamente aggiornata (“Large Changesin fiscal Policy: Taxes versusSpending”, 2010) – i tagli al deficit sta-tale provocherebbero un effetto fidu-cia così potente da poter favorirel’espansione dell’economia nonostantela riduzione della spesa governativa.Un pensiero ben esemplificato dall’al-lora presidente della Banca centrale

questi Paesi saranno probabilmente inrecessione anche nel 2013. Per gli StatiUniti le stime sono di +2,0% per il2012 e +2,3% per il 2013.

Tutto resta appeso, comunque,all’incognita di come evolverà la crisifinanziaria in corso nella zona euro:molti analisti ormai non escludonoscenari ben peggiori di quelli appenatratteggiati, legati ad esempio ad unaeventuale deflagrazione della monetaunica.

La stessa corsa di Obama per unsecondo mandato dovrà fare i conticon un quadro economico assai pro-blematico, dato dal rallentamento delritmo di crescita del Pil Usa dall’iniziodell’anno e da una disoccupazioneancora inchiodata sopra l’8%.

La sua rielezione è tuttavia caldeg-giata anche da molti di coloro che nongli hanno risparmiato critiche assaisevere. «Il trionfo elettorale diObama», ha scritto Paul Krugman nelsuo libro “Fuori da questa crisi, ades-so!” (2012), «rende naturalmente piùprobabile che l’America faccia ciò cheè necessario per tornare alla pienaoccupazione».

da “In difesa di Barack Obama”, e-book edito da MicroMega online

europea Jean-Claude Trichet in unaintervista rilasciata alla Repubblica(giugno 2010): «L’idea che le misure diausterità possano innescare la stagna-zione è sbagliata». «Sbagliata?»,domandò dubbioso il giornalista. «Sì.In queste circostanze, tutto ciò cheaiuta ad aumentare la fiducia dellefamiglie, delle imprese e degli investi-tori nella sostenibilità delle finanzepubbliche giova al consolidamentodella crescita e alla creazione di posti dilavoro».

Il modello è stato però confutato dauno studio pubblicato nel 2011 dalFondo monetario internazionale, cheprende in esame 173 casi di austeritàfiscale in 17 paesi avanzati fra il 1978 eil 2009: le politiche di austerità provo-cano infatti la contrazione del prodot-to interno lordo e l’incremento delladisoccupazione. Ed è proprio ciò chesta avvenendo in Europa: dopo unatimida ripresa nel 2012 è tornata larecessione.

Sempre secondo il Fmi, alla fine del-l’anno il prodotto interno lordo nelVecchio Continente dovrebbe contrar-si dello 0,3%; dietro questo numero cisono, tuttavia, i cali ben più pronuncia-ti di grandi Paesi come l’Italia (-1,9%)o la Spagna (-1,5%), per non parlaredella situazione drammatica di Grecia(-4,7%) e Portogallo (-3,2%). Tutti

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MOLDAVIA, UN PAESE IN BILICO

“La povertà non è stata superata, il nostro Paeserimane tra i più poveri paesi in Europa, con i più bassisalari dell'intera regione”. A parlare così è Oleg Buzda,

presidente della Confederazione nazionale dei sinda-cati di Moldavia (che raggruppa 28 federazioni nazio-nali di categoria). “Le condizioni economiche e sociali

sono a livelli molto bassi”, aggiunge, precisando come“la crescita dei prezzi e delle tariffe imposte dai mono-poli continuino a erodere il reddito reale delle personee questo conduca a un deterioramento sostanziale del

loro potere d'acquisto e alla diminuzione dei consumi individuali.”

In questo quadro anche le altrecondizioni del mondo del lavo-ro diventano drammatiche: si

registra infatti una sostanziale riduzio-ne degli occupati, una crescita costantedella disoccupazione (particolarmentequella giovanile), mentre continua inin-terrotto il processo della migrazione dimigliaia di persone in altri paesi.

Basta entrare all'aeroporto diChisinau per toccare con mano quantosia robusta la fuga all'estero di giovani,donne e uomini moldavi. Emigrarediventa una necessità, emigrare diventaun affare: in Moldavia il salario di unlavoratore con 10 anni di anzianità diaggira sui 20mila lev moldavi, vale adire qualcosa come centoventi euro almese, con un costo della vita che nonè certo rapportato a queste cifre, anchese l’85 % dei moldavi è proprietario dicasa. Nella capitale vivere costa moltodi più che nelle campagne e nelle citta-dine periferiche, ma ovunque la vita èdifficilissima.

Solo una minima parte della societàmoldava vive bene, con la forbice delledifferenze sociali che si allarga conti-nuamente. Pochi ricchi sempre più ric-chi, molti indigenti che vivono semprepiù ai margini e faticano a soddisfare ibisogni primari.

A differenza dei dieci Paesi dell'estche oggi aderiscono all'UnioneEuropea, la Moldavia è un mondo cherisente solo lontanamente delle politi-che europee. Insieme a Bielorussia eUcraina appartiene a quella area a estconfinante con l'Unione Europea,fuori dai processi comunitari.

Con una popolazione di 4,5 milionidi abitanti i dati parlano di una disoc-cupazione al 14 %, ma i dati reali ci

prevalentemente slavi, che ha dichiara-to unilateralmente la propria indipen-denza nel settembre 1990 (ma non èriconosciuta da nessuno Stato). Ilclima, che risente della relativa vicinan-za del Mar Nero, fa della Moldavia unterritorio ideale per l'agricoltura e l'in-dustria alimentare, che rappresentanoil 40% del Pil. Viene coltivato un po’ ditutto, l’eccellenza è data dai vini, espor-tati principalmente in Russia.

La mancanza di altre risorse e ladipendenza per le fonti energetichedalla Russia collocano il Pil dellaMoldavia tra i più bassi d’Europa,nonostante l’arrivo di industrie mani-fatturiere delocalizzate dall’Ovest, pro-cesso che però negli ultimi anni harisentito della crisi finanziaria interna-zionale.

Proprio la velocità dei cambiamentieconomici e l’ingresso dei capitali stra-nieri ha comportato quello che da piùpersone ci è stato indicato come ilprincipale problema: la corruzione.Girando per le vie di Chisinau balzaagli occhi come la consueta, vecchiavita di una città che conserva ritmi,palazzi, strade, botteghe dell’era sovie-tica, venga interrotta da sporadicinegozi elegantissimi con marchi fran-cesi, italiani, americani, nelle cui vetri-ne brillano prodotti che nemmeno lostipendio di un mese potrebbe aggiudi-carsi. Per una semplice maglietta diBenetton, che in Italia puoi pagare 20,25 euro, qui ne devi sganciare almeno30, ed in rapporto ai salari è semplice-mente una follia.

Speculare alla corruzione è la buro-crazia pubblica, altro ostacolo per unpaese che dispone di infrastruttureottocentesche, con strade impercorri-bili e uno sviluppo ferroviario poco

dicono che essa supera il 20 % e cheoltre 1,5 milioni di moldavi sono emi-grati altrove. L'America del nord,Mosca e la Russia, la Romania el’Europa sono le mete di questo enor-me esodo. In Italia, secondo i dati resinoti dall'Istat, al 31 dicembre del 2011i cittadini moldavi erano al settimoposto tra le nazionalità di stranieri pre-senti in Italia: centotrentamila, con unincremento del 244% negli ultimi seianni. Ma questi sono dati ufficiali chenon tengono conto di chi vive e lavorain Italia senza permesso, clandestina-mente, cifra impossibile da verificarema che realisticamente è significativa,come il fenomeno delle “badanti”moldave certifica.

Poter spedire a casa 500, 600 euro almese diventa la salvezza per migliaia difamiglie che vivono grazie alle rimessedi qualche parente che lavora all'ovest.Un esempio? Tutti i giorni la compa-gnia aerea Meridiana compie un voloda Verona a Chisinau ( e viceversa).Utenti le migliaia di badanti che lavora-no nel nord-est italiano. La presenza inItalia è anche facilitata dalla linguamoldava, di ceppo neo-latino e varian-te della lingua rumena.

L’economia da sempre è basata sul-l’agricoltura, fin da quando ilPrincipato di Moldavia nel 1812 entròa far parte dell'Impero Russo. In segui-to alla dissoluzione di questo stato nel1918 il territorio della Moldavia entrò afar parte della Romania, ricostituendola Moldavia storica. Venne successiva-mente annessa dall'Unione Sovieticanel 1940 e fino al 1991 fu una delle 15Repubbliche dell’URSS. Il 27 agosto1991 l’l'indipendenza. Ancora oggirestano difficoltà con la regione inter-na delle Transnistria, un territorio di4000 kmq con circa 400.000 abitanti

di ANTONIO MORANDI

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più che simbolico, 1000 chilometri ditracciato. In queste condizioni anche illavoro sommerso è in espansione.

Sul fronte delle protezioni sociali viè da dire che le opache, burocraticheed obsolete reti che caratterizzavano ilrecente passato, quando la Moldaviaera una delle 15 Repubbliche dell'Urss,sono ricordate come un buon passato.La realtà di oggi è fatta da un sistemadelle pensioni che prevede importiinsufficienti a coprire persino i più ele-mentari bisogni, come l'acquisto delcibo. Per non parlare di sanità o diistruzione, settori disastrati e che per dipiù subiscono un progressivo degrado.

Si tratta anche di un paese in bilicotra passato e presente, tra Europa eRussia, tra un'economia potenzialmen-te ricca di possibilità e condizioni dimarginalità estrema. Qualche giorno faè stata data la notizia che la Moldavia èentrata finalmente nello spazio comu-ne europeo, che è stato firmato l’accor-do con la Commissione Europea checonsente di dare il via ai voli low-costgrazie all’abolizione dei vincoli relativial numero massimo di voli, alle desti-nazioni e al numero di passeggeri.Questo consentirà di far partire i primivoli a basso costo di Blue Air eAirMoldova.

Un’apertura verso la strada dell'inte-grazione con l'Europa o una manieraancora più veloce per scappare? Nel

sbloccare la situazione. In Moldavias'era già votato ad aprile 2009, dopootto anni di governo dei comunisti, mal'assemblea era stata sciolta proprio perl'impasse istituzionale. Si era tornati alvoto a luglio, con la vittoria della coali-zione guidata da Vilad Filat, ma, anco-ra una volta, senza raggiungere esitirisolutivi. La coalizione ha anche pro-vato a cambiare la Costituzione, perconsentire l'elezione diretta del capodello stato. Il referendum di modificacostituzionale, tuttavia, non è passatopoiché non è stato raggiunto il quo-rum. Qualche settimana fa infine l'ele-zione di Timofti.

Il Presidente della Commissioneeuropea Barroso si è congratulato conTimofti, come Martin Schulz,Presidente del Parlamento, affermandoche era "felice che il popolo moldavoavesse finalmente un presidente dopodue anni e mezzo di paralisi istituzio-nale". L'inviato permanente delParlamento europeo in Moldavia,Graham Watson, ha commentato: "IlParlamento moldavo e il nuovoPresidente Nicolae Timofti meritanole nostre congratulazioni. Il bloccopolitico di tre anni si è infine risolto.Mi compiaccio dell'enfasi che ilPresidente Timofti ha posto sull'inte-grazione europea."

La Moldavia, considerata il paesepiù povero d'Europa, si trova peròancora in piena paralisi politica. Con2,6 milioni di elettori, 4,5 milioni diabitanti, è un paese diviso tra leinfluenze della Romania e della Russia,ed ospita il conflitto ancora irrisoltodella autoproclamata indipendenzadella regione Transnistria. Propriosulla vicenda della Transnistria ilPresidente neoeletto ha chiesto larimozione da essa di tutte le truppe dipacificazione russe, dichiarando divoler cercare una soluzione pacifica alconflitto attraverso negoziati che coin-volgano la Russia, l'Ucraina, l'OCSE,l'Unione Europea e gli Usa. Così comesi è impegnato per una revisione dellacarta costituzionale che contempli ilprincipio della separazione dei poteridello stato .

frattempo sembra finita la paralisi isti-tuzionale. Dopo tre anni di presidenzead interim, il 16 marzo di quest'anno ilParlamento della Moldavia ha elettoNicolae Timofti alla Presidenza dellarepubblica. Questo dopo vari falli-menti nei tentativi di elezione (peressere eletti è necessario il voto del 60per cento dei parlamentari). Si chiudecosì un periodo di instabilità che le ele-zioni politiche del novembre 2010 nonavevano risolto: l’esito non avevasbloccato l’impasse istituzionale nécambiato il panorama politico, inquanto nessun partito o coalizione erariuscito a ottenere la maggioranzanecessaria ad eleggere il presidente.L’Organizzazione per la sicurezza e lacooperazione in Europa (Osce) avevadichiarato regolari le elezioni inMoldavia, con una campagna elettora-le svoltasi in condizioni di pluralismoe senza incidenti. I risultati hanno datoai comunisti il 41 per cento dei suffra-gi, 44 seggi su 101 in Parlamento:diciassette in meno per esprimere ilpresidente. I numeri dei tre partiti dellacoalizione governativa pro-Europa diVlad Filat (il partito liberaldemocratico28,1 %, il partito democratico 13,3 % eil partito liberale 8,6 %), pur maggiori-tari, sono stati anch’essi insufficienti. Ilprimo partito quindi è quello comuni-sta, ma la coalizione pro-europea èmaggioranza. La coalizione dei tre par-titi pro-europei ha ottenuto una mag-gioranza per esprimere un governo,ma non ha avuto voti a sufficienza per

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John Bellamy Foster, Robert W. McChesney*LA STAGNAZIONE GLOBALE E LA CINA

Cinque anni dopo l’inizio della grande crisi finanziariadel 2007-09 non si vede ancora alcun segno di una effettivaripresa dell’economia mondiale. Di conseguenza, la preoc-cupazione si è sempre più spostata dal terreno della crisifinanziaria e della recessione a quello della crescita lenta edella stagnazione, facendo sorgere il timore di una ripetizio-ne odierna della Grande Stagnazione degli anni 30.Stagnazione e crisi finanziaria sono ora viste come fenome-ni che si alimentano a vicenda. Per questo la Direttrice delFondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, in unsuo discorso tenuto in Cina il 9 novembre 2011, ha chiestoun riequilibrio dell’economia cinese.

A dire il vero, alcune economie emergenti sembranomuoversi in controtendenza rispetto all’andamento genera-le, continuando a crescere rapidamente, e in particolarmodo la Cina, divenuta la seconda maggiore economia delmondo dopo gli Stati Uniti. Eppure, come Lagarde hadetto, “l’Asia non è immune” dal rallentamento economicogenerale. L’avvertimento del Fmi, incontrandosi con i dif-fusi timori di un forte rallentamento economico cinese, èstato così incisivo che la stessa Lagarde è stata costretta, afine novembre, a rassicurare il mondo degli affari, dichia-rando che la stagnazione non era probabilmente imminen-te in Cina.

Tuttavia le preoccupazioni sul futuro dell’economia cine-se sono ora diffuse. Solo pochi fra gli osservatori economi-ci ben informati ritengono che l’attuale tendenza della cre-scita cinese sia sostenibile, mentre molti credono che se laCina non cambierà rapidamente rotta, andrà incontro a unagrave crisi. Per evitare il disastro incombente, l’attuale “con-senso” economico suggerisce che l’economia cinese ha

bisogno di riequilibrare le sue quote delle esportazioninette, degli investimenti, dei consumi e del Pil, allontanan-dosi da un’economia che è pericolosamente sbilanciatasugli investimenti e le esportazioni, con una estrema caren-za di domanda di consumo interno e sta sempre piùmostrando segni di una bolla immobiliare e finanziaria. Mala stessa idea di un tale riequilibrio fondamentale, data lascala gigantesca che esso richiede, solleva la questione dellecontraddizioni che stanno al centro di un modello di accu-mulazione fondato sui bassi salari, che ha finito per carat-terizzare l’attuale capitalismo cinese, che affonda le sueradici nella frattura fra città e campagna.

A dare vita a queste realtà, finora astratte, è la crescenteprotesta pubblica in Cina, che ora consiste in centinaia dimigliaia di “incidenti di massa” che si verificano ogni annoe minacciano di arrestare o addirittura rovesciare l’interomodello fondato su di una estrema “riforma di mercato”.Per gran parte della sua produzione destinata all’esporta-zione la Cina fa affidamento sulla sua “popolazione flut-tuante” dei migranti interni a basso costo, che costituisceuna fonte di profonde fratture in una società sempre piùpolarizzata. Connessa a queste contraddizioni economichee sociali - che includono le enormi quantità di terreni con-fiscati ai contadini - è la crescente crisi ecologica del paese,che evidenzia l’insostenibilità dell’attuale sentiero di svilup-po.

Le contraddizioni della Cina non sono semplicementeinterne. Il complesso sistema delle catene globali di approv-vigionamento che ha fatto della Cina la “fabbrica delmondo” l’ha resa anche sempre più dipendente dai capitalie dai mercati esteri, rendendo allo stesso tempo questi mer-cati vulnerabili a qualsiasi perturbazione dell’economiacinese. Se si dovesse verificare una grave crisi cinese si apri-rebbe un’enorme voragine nel sistema capitalistico nel suo

LA CINA NELLA CRISIdossier

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complesso. Come ha osservato lo stesso New York Timesnel maggio 2011.

Le contraddizioni capitalistiche con caratteristichecinesi

A molti l’idea che l’economia cinese sia piena di contrad-dizioni può apparire come una sorpresa dal momento chela strombazzatura giornalistica sulla crescita cinese s’è dif-fusa più rapidamente dell’economia cinese stessa. Coma s’èsardonicamente interrogato il Wall Street Journal nel luglio2011, “quando esattamente la Cina prenderà il controllo delmondo? Il momento della verità sembra avvicinarsi diminuto in minuto”.

Questa prospettiva è generalmente vista con disagio neivecchi centri del potere mondiale, ma allo stesso tempo ilnuovo commercio cinese costituisce un’enorme fonte diprofitti per la Triade costituita da Stati Uniti, Europa eGiappone. L’ultimo periodo di rapida crescita che ha valo-rizzato il ruolo globale della Cina è stato un fattore essen-ziale per la ripresa del capitalismo finanziarizzato globaledalla grave crisi del 2007-09, e peserà anche in futuro. Cisono chiaramente alcuni che fantasticano, nelle attuali con-dizioni disperate, immaginando che la Cina possa portarel’economia mondiale sulle sue spalle e trarre le nazioni svi-luppate da quella che appare essere una generazione di sta-gnazione e d’intense lotte politiche sulle politiche d’austeri-tà. La speranza è senza dubbio che la Cina possa offrire alcapitalismo qualche decennio di crescita adeguata e guada-gnare tempo per il sistema, in modo simile al ruolo svoltonel corso degli ultimi trent’anni dall’economia del debitostatunitense e dall’espansione finanziaria. Ma una tale “alli-neamento delle stelle” per l’economia capitalistica mondia-le odierna, basato sul proseguimento della crescita fulmineadella Cina, risulta altamente improbabile.

“Non lasciamoci trasportare dall’entusiasmo - ci avverteil Wall Street Journal - c’è un bel po’ di turbolenza cheribolle sotto la superficie del miracolo cinese”. Le contrad-dizioni che intende evidenziare includono le proteste dimassa (cresciute fino a 280.000 nel 2010), il sovrainvesti-mento, la capacità produttiva inutilizzata, la debolezza deiconsumi, le bolle finanziarie, la crescita dei salari e dei prez-zi delle materie prime e dei prodotti alimentari, il declinonel lungo periodo delle eccedenze di manodopera e la mas-siccia devastazione ambientale. Conclude dicendo: “Se nonaltro, le sfide colossali che attendono la Cina fornisconoun’abbondanza di buone ragioni per dubitare delle proie-zioni a lungo termine sulla supremazia economica e ildominio globale del paese”.

L’immediato futuro della Cina è quindi incerto, gettandoun’ulteriore incertezza sull’intera economia globale. Comevedremo, non solo la Cina potrebbe, allo stato attuale, nonsalvare il capitalismo globale, ma si può addirittura sostene-re che essa costituisca il singolo anello più debole dellacatena del capitalismo globale. L’interrogativo riguarda lostraordinario tasso dell’espansione cinese, soprattutto seconfrontato con le economie della Triade. La Cina è riusci-ta ad uscire dalla Grande Crisi Finanziaria sostanzialmenteinalterata, con una crescita a due cifre, proprio mentre quel-lo che The Economist ha definito “il mondo moribondo

dei ricchi”, stava lavorando alacremente per raggiungereuna qualsiasi crescita positiva.

Il rallentamento nelle economie sviluppate è di lungadata, associato a crescenti problemi di assorbimento delsurplus di capitali o sovraccumulazione. Ma i problemidelle economie mature sono complicate oggi da due ulte-riori fattori: (1) la forte dipendenza dalla finanziarizzazioneper sollevare l’economia fuori dalla stagnazione, ma con laconseguenza che le bolle finanziarie alla fine scoppiano, e(2) il trasferimento della produzione verso il Sud delmondo. La crescita economica mondiale negli ultimi decen-ni ha gravitato su una manciata di economie emergentidella periferia, anche se la parte del leone dei profitti deri-vanti dalla produzione mondiale sono concentrati all’inter-no del nucleo capitalistico, dove vanno ad aggravare i pro-blemi di maturità e stagnazione nelle economie ricche dicapitali.

Mentre la crisi strutturale all’interno del centro si èapprofondita, alcuni hanno auspicato che la Cina possacontrobilanciare la tendenza alla stagnazione a livello glo-bale. Tuttavia, anche se questa speranza è cresciuta, è rapi-damente scomparsa, essendo divenuto sempre più eviden-te che le contraddizioni stanno pervadendo l’attuale model-lo cinese producendo un crescente panico nel mondo degliaffari.

Per ironia della sorte, i timori odierni rispetto all’econo-mia cinese derivano in parte dal modo in cui la Cina ha pro-gettato la sua uscita dalla recessione globale causata dallaGrande Crisi finanziaria, una prodezza che è stata inizial-mente considerata da alcuni la prova conclusiva che la Cinas’era “sganciata” dal destino dell’Occidente. Di fronte allacrisi mondiale e al calo del commercio estero, il governocinese ha varato, nel novembre 2008, un imponente pianodi stimolo da 585 miliardi di dollari, e ha imposto in modoaggressivo alle banche statali di concedere nuovi prestiti. Inparticolare i governi locali hanno accumulato enormi debi-ti connessi all’espansione urbana e alla speculazione immo-biliare. Come risultato, l’economia cinese è rimbalzata quasiistantaneamente dalla crisi (in una ripresa a V). Il tasso dicrescita è stato del 7,1% nel primo semestre del 2009 conun contributo a tale crescita degli investimenti diretti delloStato stimati in 6,2 punti percentuali. I mezzi per realizzaretale crescita sono stati uno straordinario aumento degliinvestimenti fissi, che sono serviti a colmare il vuoto lascia-to dal calo delle esportazioni.

Il forte incremento degli investimenti in percentuale sulPil, che è salito di 7 punti percentuali tra il 2007-10, harispecchiato il forte calo della quota sia delle esportazioniche dei consumi interni nello stesso periodo, che ha elimi-nato rispettivamente 5 e 2 punti percentuali. Nel frattempo,la quota di spesa pubblica sul Pil è rimasta costante. I soliinvestimenti costituiscono ormai il 46% del Pil, mentre lasomma di investimenti ed esportazioni raggiunge il 52%.

Come ha spiegato Michael Pettis, professore alla diGuanghua School of Management dell’Università diPechino e specialista dei mercati finanziari, il forte calo delsurplus commerciale nella crisi “ha ridotto quasi a zero iltasso di crescita del Pil”. Tuttavia “l’improvvisa e violenta

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espansione degli investimenti è servita da contrappeso permantenere tassi di crescita elevati”. Naturalmente dietrol’ascesa drammatica della quota di investimenti del Pil, increscita di 10 punti percentuali nel corso degli anni 2002-10, stava la discesa non meno drammatica della quota deiconsumi, che è caduta di 10 punti percentuali nello stessoperiodo, dal 44% al 34% per cento, la quota più bassa diogni grande economia.

Con una spesa per investimenti che sfiorava il 50% inquesto periodo l’economia cinese si trova ad affrontare cre-scenti problemi di sovraccumulazione. Per l’economistaNouriel Roubini, della New York University, “il problema,naturalmente, è che nessun paese può essere abbastanzaproduttivo da reinvestire il 50% del Pil in nuovo capitalesenza dover affrontare un’immensa sovraccapacità eimpressionanti problemi di prestiti non performanti. LaCina è piena di sovrainvestimenti in capitale fisico, infra-strutture e proprietà. Per un visitatore, questo è evidentenegli aeroporti, eleganti ma vuoti, e nei treni-proiettile (cheridurranno la necessità dei 45 aeroporti previsti), autostra-de verso il nulla, migliaia di nuovi edifici colossali delleamministrazioni centrali e provinciali, città fantasma, e fon-derie di alluminio nuove di zecca tenute chiuse per evitareuna caduta dei prezzi mondiali. Gli investimenti residenzia-li commerciali e di lusso sono stati eccessivi, la capacitàproduttiva delle autovetture ha superato anche il recenteaumento delle vendite, e la sovraccapacità produttiva diacciaio, cemento e altri settori manifatturieri sta crescendoulteriormente. L’eccesso di capacità porterà inevitabilmen-te a gravi pressioni deflazionistiche, a partire dai settorimanifatturieri e immobiliari. Alla fine, molto probabilmen-te dopo il 2013, la Cina subirà un atterraggio duro. Tutti gliepisodi storici di investimenti eccessivi - inclusa l’Asiaorientale negli anni ’90 – si sono conclusi con una crisifinanziaria e / o un lungo periodo di bassa crescita”.

Il sovrainvestimento è stato accompagnato da una cre-scente fragilità finanziaria, sollevando la questione di una“bolla cinese”. Lo stimolo governativo degli investimentifissi ha operato in parte attraverso la sollecitazione di mas-sicci prestiti bancari statali e una sbornia di prestiti locali,con un conseguente ulteriore boom speculativo concentra-to soprattutto sull’immobiliare urbano. L’espansione urba-na della Cina consuma attualmente la metà della produzio-ne totale di acciaio e calcestruzzo mondiale, nonché granparte delle attrezzature pesanti da costruzione. Le costru-zioni ammontano a circa il 13% del Pil cinese. Pur insisten-do sul fatto che l’esplosione della “grande bolla rossa” dellaCina è ancora “davanti a noi”, nel 2011 la rivista Forbes hamesso in guardia i suoi lettori sul fatto che “la bolla immo-biliare cinese si sta moltiplicando come una malattia conta-giosa”, chiedendo “quando esploderà il mercato immobilia-re cinese e quanto rumore farà l’esplosione?” ma haaggiunto la frase rassicurante che “la bolla immobiliarecinese è diversa, perché è tutto sotto gli occhi attenti dellebanche statali che funzionano come estensioni dei diparti-menti governativi”.

Questa idea di un visionario e saggio Stato cinese ingrado di abbattere tutti gli ostacoli posti dinanzi al percor-so attuale dell’economia, è il corollario della convinzioneche l’economia cinese, come esiste oggi, crescerà a tassi

annui a due cifre anche in futuro. Si tratta di un’illusione. Ilmodello cinese di integrazione nel capitalismo globale con-tiene contraddizioni che ostacoleranno la sua crescita.

Mentre Forbes è fiducioso, il Financial Times riportaqualcosa di molto diverso. Banche statali, presumibilmenteal centro del sistema finanziario, hanno subito negli ultimianni una emorragia a causa della perdita dei depositi banca-ri verso un sistema bancario ombra non regolamentato, cheora fornisce più credito all’economia di quanto non faccia-no le istituzioni bancarie ufficiali. Nell’agosto 2011 è inizia-ta una grave recessione immobiliare, quando dieci promo-tori immobiliari cinesi hanno riferito di aver scorte inven-dute del valore di 50 miliardi di dollari, con un incrementodel 46 per cento rispetto all’anno precedente. I costruttoriimmobiliari sono fortemente indebitati e sono diventatisempre più dipendenti dalla finanza non ufficiale (ombra),che chiede i loro soldi. Come risultato, i prezzi dei nuoviappartamenti sono calati del 25% o più, riducendo il valo-re degli appartamenti esistenti. Alla fine del 2011 la Cinastava vivendo una significativa flessione dei prezzi delleproprietà, con un drastico calo dei prezzi delle case, cheerano aumentati del 70 per cento dal 2000.

Un attento osservatore del settore, Jim Antos, analistabancario della Mizuho Securities Asia, ha stimato nel luglio2011 che i prestiti bancari sono raddoppiati tra il dicembre2007 e il maggio 2011, e sebbene il tasso di crescita siadiminuito rispetto allo scorso anno, rimane di gran lungasuperiore alla crescita del Pil. Come risultato, Antos calco-la che i prestiti bancari si attestano a 6.500 dollari pro capi-te nel 2010 rispetto a un Pil pro capite di 4.400 dollari, e chela sproporzione continua ad aumentare: una situazione cheegli definisce “insostenibile”. Antos e altri osservatorihanno notato che la capitalizzazione delle banche era ina-deguata già prima del blocco dei prezzi degli immobili.Nonostante le vaste risorse finanziarie che il governo cine-se impiega nel suo ruolo di prestatore di ultima istanza, unnetto calo dei prezzi immobiliari e della nuove costruzione,e quindi del Pil, produrrebbe una vera e propria crisi difiducia del mercato in una situazione caratterizzata da gran-de incertezza e paura.

Già nel 2007 il premier cinese Wen Jiabao ha dichiaratoche il modello economico della Cina era “instabile, sbilan-ciato, scoordinato e, infine, insostenibile..” Cinque annidopo tutto ciò è più evidente che mai. Il problema più inge-stibile, la causa principale di instabilità, è la quota bassa e incalo ulteriore del Pil destinata al consumo delle famiglie,che è diminuita di circa 11 punti percentuali in un decen-nio, dal 45,3% del Pil nel 2001 al 33,8% nel 2010. Per que-sto tutte le richieste di riequilibrio si riconducono allanecessità di un massiccio aumento della quota dei consuminell’economia.

Tale riequilibrio è stato uno degli obiettivi principali delgoverno cinese dal 2005 e non mancano le proposte sucome realizzarlo, ma tutti naufragano di fronte alla realtàsottostante. Tra i fattori più rilevanti c’è il (super)sfrutta-mento dei lavoratori nei nuovi settori di esportazione, dovei salari crescono lentamente mentre la produttività salerapidamente con la tecnologia avanzata. L’aumento deisalari necessario per determinare un aumento dei consumi

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in percentuale sul Pil indurrebbe le grandi proprietà stra-niere a trasferire gli impianti di assemblaggio in paesi consalari più bassi e anche il circostante decentramento diimpianti di piccole e medie dimensioni, gestiti da capitalisticinesi comincia a scomparire, schiacciato dalla stretta credi-tizia e è da sempre incline alla appropriazione indebita e allafuga.

La riduzione della quota dei consumi sul Pil viene spes-so attribuita all’elevato tasso di risparmio cinese, in granparte associato alla tendenza delle persone a mettere daparte dei fondi per salvaguardare il proprio futuro a causadella mancanza di una rete di sicurezza nazionale. Tra il1993 e il 2008 sono stati persi oltre 60 milioni di posti dilavoro nel settore statale, la maggior parte attraverso licen-ziamenti conseguenti alla ristrutturazione delle imprese sta-tali a partire dal 1990. Questo ha rappresentato uno sfon-damento della “ciotola di ferro del riso” del sistema “dan-wei” delle unità lavorative socialiste che avevano fornito legaranzie necessarie per i lavoratori delle imprese statali. Laprotezione sociale in tale area, come indennità di disoccu-pazione, previdenza sociale, pensioni, assistenza sanitaria eistruzione sono stati drasticamente ridotti. Come ha scrittoMinxin Pei, senior associate nel programma Cina alCarnegie Endowment for International Peace: “I dati uffi-ciali indicano che la quota di spesa governativa per la sani-tà e l’istruzione ha iniziato a declinare negli anni ‘90. Nel1986, ad esempio, lo stato ha versato una quota prossima al39% di tutta la spesa sanitaria. Entro il 2005 tale quota èscesa al 18%. Sulla base di un sondaggio condotto dalMinistero della Salute nel 2003, circa la metà delle personemalate, non essendo in grado di pagare per la sanità, scegliedi non andare dal medico. Lo stesso slittamento verso ilbasso si è verificato nella spesa per l’istruzione: nel 1991 ilgoverno ha pagato l’84,5% del totale, ma nel 2004, ha paga-to solo il 61,7%. Mentre nel 1980 nelle campagne quasi il25% dei diplomati delle scuole medie ha continuato glistudi a liceo, nel 2003 lo ha fatto solo il 9%. Anche nellecittà la percentuale di diplomati delle scuole medie che sisono iscritti al liceo è scesa dall’86 al 56% nello stessoperiodo”.

La crescente insicurezza derivante da tali condizioni hacostretto a effettuare maggiori risparmi da parte della pro-porzione relativamente piccola della popolazione in gradodi farlo. Tuttavia, la causa più fondamentale per il rapidoindebolimento dei consumi è la crescente disuguaglianza,evidenziata da un calo della quota di reddito dei salari e daldeclino della quota di reddito nella maggior parte dellefamiglie. Come ha spiegato la rivista Economist nell’otto-bre 2007, “il declino del rapporto tra consumi e Pil nonriflette la crescita del risparmio; invece è in gran parte spie-gato dal forte calo della quota di reddito nazionale che vaalle famiglie (sotto forma di i salari, trasferimenti statali eredditi da capitale). Più drammatica è stata la caduta dellaquota dei salari sul Pil, che, secondo la Banca Mondiale èscesa dal 53% del 1998 al 41% nel 2005”.

La contraddizione principale risiede quindi nella formaestrema di sfruttamento di classe che caratterizza l’attualemodello di produzione, con l’enorme crescita della disu-guaglianza in quella che era una delle società più egualitariedel mondo. Ufficialmente il decile più elevato dei cinesi

delle città riceve oggi circa 23 volte ciò che va al decile piùbasso. Ma se i si includono i redditi occulti (che ammonta-no a circa 1400 miliardi di dollari all’anno), il decile più ele-vato di reddito riceve ben 65 volte ciò che va al decile piùbasso.

La Cina è una società che rimane ancora in gran partecontadina, con redditi rurali inferiori a un terzo di quellidelle città. La maggior parte dei lavoratori nel settore mani-fatturiero di esportazione sono migranti interni clandestini,ancora vincolati alle aree rurali di provenienza, che ricevo-no salari nettamente inferiori a quelli dei lavoratori residen-ti in città.

L’apertura della Cina e la catena di rifornimento glo-bale

L’odierna economia cinese è un prodotto sia della rivo-luzione cinese del 1949 e di ciò che William Hinton ha chia-mato “Il grande rivolgimento”, o ciò che è più spesso defi-nito come il “periodo della riforma”, che è iniziato nel 1978con Deng Xiaoping, due anni dopo la morte di Mao. Larivoluzione cinese ha introdotto una riforma imponentedella terra, la più grande della storia, espropriando la classedei proprietari terrieri e creando un sistema di agricolturacollettiva. Nel frattempo l’industria è stata dominata dalleimprese statali. Si è determinato un duplice sistema di dirit-ti dei lavoratori. Nelle campagne ha assunto la forma di ciòche Hinton ha definito la “ciotola del riso di argilla”, chegarantiva ai contadini, organizzati sotto forma di agricoltu-ra collettiva, una relazione permanente con la terra, mentrei lavoratori delle imprese statali hanno beneficiato della“ciotola del riso di ferro” con un sistema di posti di lavorogarantito a vita e relativi benefici. (C’era poi ciò che è statodefinito un “ciotola del riso d’oro”, che rappresenta i privi-legi dei burocrati statali).

La crescita economica nel periodo di Mao è stata impres-sionante, nonostante le periodiche battute d’arresto e lalotta che si è sviluppata all’interno dello stesso partito (cheè sfociata nella Rivoluzione Culturale). Ha raggiunto,durante l’intero periodo 1966-1976, secondo i dati dellaBanca Mondiale, un tasso medio annuo del 6%, mentre laproduzione industriale è cresciuta a un tasso medio annuodi circa il 10%. In questi anni è stata creata praticamente dazero un’immensa infrastruttura industriale, sia pesante cheleggera, con una rete di trasporto e d’energia, che entro lafine del periodo di Mao ha impiegato fino a 100 milioni dipersone. Tutto questo è stato sfruttato nel successivoperiodo della riforma di mercato. La produzione dell’agri-coltura cinese è migliorata durante il periodo dellaRivoluzione culturale e la produttività ha raggiunto livellinotevoli.

Le riforme del mercato associate al GrandeRivolgimento erano volte a eliminare o espropriare lecomuni agricole e le imprese statali, proletarizzando lapopolazione, con l’indebolimento sia della “ciotola del risodi ferro” che della “ciotola del riso di terracotta”. Nellacampagne le fattorie collettive sono state eliminate e sosti-tuite con un sistema contrattuale famigliare. La terra è statadivisa in appezzamenti a strisce (assegnati ancora dalla col-lettività) su cui i contadini hanno diritti d’uso. Ogni appez-zamento è piccolo e la coltivazione è resa meno efficiente,

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fornendo un’esistenza marginale per le famiglie contadine.Come ha scritto Hinton, “questa non è più la terra a fran-cobollo come quella di sussistenza prima della riformaagraria, ma una terra a nastro, spaghetti di terra, fatta di stri-sce talmente strette, che spesso anche la ruota destra di uncarro poteva viaggiare solo con la ruota sinistra che invade-va il terreno d’un altro”.

Anche se alcuni analisti di sinistra dello sviluppo cinese,come il teorico del sistema-mondo Giovanni Arrighi,hanno definito la Cina un caso di “accumulazione senzaespropriazione”, il periodo della riforma del mercato èstato in realtà caratterizzato sin dall’inizio da una massicciaaccumulazione attraverso l’esproprio (accumulazione origi-naria) e centinaia di milioni di persone sono state proleta-rizzate, come hanno succintamente spiegato i geografiRichard Walker e Daniel Buck alla New Left Review nel2007. Ci sono tre strade principali per la proletarizzazionein Cina: dall’agricoltura nelle campagne, dal collasso delleimprese statali nelle città e attraverso la dissoluzione delleimprese dei villaggi. Prendendo in considerazione la prima,la migrazione rurale verso le periferie cittadine è stataimponente, con circa 120 milioni di persone dal 1980: l’eso-do più vasto della storia del mondo. L’abolizione dellecomuni e l’istigazione verso il sistema di responsabilitàfamiliare ha permesso ad alcuni agricoltori nelle zone piùricche di prosperare, ma ha sempre più esposto i produtto-ri marginali a bassi prezzi di vendita, suoli poveri, appezza-menti troppo piccoli, il tutto aggravato dalla corruzione deiquadri di partito, veri e propri predatori locali. Nelle città, icontadini emigrati non hanno diritto di residenza e diven-tano precari permanenti. Ciò è dovuto al sistema “hukou”di registrazione delle famiglie, creato in epoca maoista alfine di limitare la migrazione rurale. Un secondo percorsodella nuova classe del lavoro salariato proviene dalle impre-se statali (SOE).

Queste erano il fulcro dell’industrializzazione maoista, erappresentano quasi i quattro quinti della produzione extra-agricola. La maggior parte stava nelle città, dove venivanoimpiegate 70 milioni di persone nel 1980. Questa forma dioccupazione è stata costantemente smantellata, a partire dauna legge che ha permesso il noleggio temporaneo deilavoratori senza protezione sociale [ovvero meno della cio-tola del riso di ferro] e dal diritto fallimentare del 1988 cheha eliminato la garanzia del posto di lavoro. Ancora piùdecisivi sono stato i licenziamenti di massa alla fine deglianni 90 per cui l’occupazione nelle imprese statali si èdimezzata già nei primi anni dal 2000, scendendo dal 70%al 33% della forza lavoro urbana complessiva, con circa 30-40 milioni di lavoratori sfollati. Infine, un ultimo passaggioal lavoro salariato è stato determinato dal crollo della bor-gate rurali e delle imprese di villaggio (TVE), che eranonate a seguito dello scioglimento delle comuni, con la primafase della liberalizzazione dei primi anni 80, specialmentenel Guangdong, nel Fujian e intorno a Tianjin e Shanghai.All’inizio degli anni 90 si erano moltiplicate fino a raggiun-gere i 25 milioni di imprese, con oltre 100 milioni di occu-pati e ben il 40 per cento della produzione totale dell’indu-stria manifatturiera. Erano di proprietà e venivano gestitedai governi locali, con l’obbligo socialista di fornire posti dilavoro, salari e benefici sociali agli abitanti dei villaggi, e disostenere l’agricoltura e le infrastrutture rurali. Molte lavo-

ravano in subappalto per le imprese statali urbane. Per que-sto, quando molte grandi imprese SOE hanno dichiaratofallimento nel 1990 o hanno trovato fornitori più efficien-ti, migliaia di TVE sono state lasciate allo sbando. A segui-to dell’implosione di queste piccole imprese, milioni dilavoratori sono stati abbandonati.

Il risultato si è articolato in due fasi: prima con una pro-letarizzazione dei contadini come lavoratori TVE, nominal-mente protetti dalle tutele del governo locale, e poi comeproletari interamente sottoposti alla pressione del mercato;ovvero il passaggio, come direbbe Marx dalla sussunzione“formale” a quella “reale” del lavoro. Più di recente, comevedremo, il furto perpetrato ai danni di molti contadini(anzi d’interi villaggi) dei piccoli appezzamenti che eranostati loro assegnati al momento della frammentazione dellecomuni nei primi anni 80, è sfociata in una lotta nazionale,con imponenti proteste contadine.

La privatizzazione dei beni dello Stato e il furto delleimprese statali hanno prodotto enormi ricchezze nei verti-ci cinesi e qui i capitalisti più importanti hanno costruito leloro fortune e il loro clientelismo. Più del 90% delle 20.000persone più ricche della Cina vengono definite come “lega-te ai vertici amministrativi o ai funzionari del Partito comu-nista”, con la creazione di un’intera classe di miliardari“principini”, ovvero di grandi notabili. Per di più l’espro-prio delle terre ai contadini per venderle agli “sviluppatori”,ha arricchito un numero imprecisabile di funzionari locali.

Le riforme del mercato, incluso ciò che Deng ha defini-to le “porte aperte” della politica, ha dato il benvenuto alleimprese multinazionali, in netto contrasto con le altrenazioni asiatiche, come la Corea del Sud, che in un equiva-lente stadio del suo sviluppo, ha sottoposto gli investimen-ti esteri diretti nel settore industriale a pesanti misurerestrittive. La produzione cinese è stata sempre più orienta-ta verso le esportazioni di manufatti legate alle catene dirifornimento delle multinazionali dei paesi della Triade. Nel2009 la Cina è stata il secondo maggiore beneficiario degliinvestimenti diretti esteri mondiali, dopo gli Stati Uniti.Secondo un rapporto del 2006 del Centro di Ricerca per loSviluppo del Consiglio di Stato (ovvero del governo cine-se), i capitali esteri (concentrati nel settore delle esportazio-ni), controllano l’82% del mercato nel settore delle comu-nicazioni e i quelli ad esso connessi (computer ed elettroni-ca), il 72% nei prodotti strumentali, culturali e delle mac-chine per ufficio, il 48% nel tessile-abbigliamento, calzatu-re e cappelli, il 49% nel settore delle pelli, pellicce, piume eindustrie connesse, il 51% nei mobili, il 60% nei prodottieducativi e sportivi; il 41% nella plastica e il 42 nei mezzi ditrasporto. Come indicato da Shaun Breslin, professore dipolitica e studi internazionali presso l’Università diWarwick, esaminando la fatturazione delle riesportazionidirette o attraverso Hong Kong, circa il 30% di tutte leesportazioni dalla Cina nel periodo 1996-2005 è finito negliStati Uniti, il 26% in Giappone e il 16% nell’Unione euro-pea.

Nelle complesse linee di rifornimento globali delle mul-tinazionali, la Cina occupa in primo luogo il ruolo di assem-blatore finale di manufatti da vendere nelle economie ric-che. L’esportazione di manufatti non deriva dalla produzio-

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ne effettiva di beni, ma solo dalla fase di assemblaggio uti-lizzando pezzi e componenti prodotti altrove e importati inCina, dalla quale viene poi spedito il prodotto finale versole economie sviluppate.

La Cina è il più grande fornitore mondiale di prodottifinali tecnologici, informatici e delle comunicazioni, e lemultinazionali gestivano circa l’87% delle esportazioni tec-nologiche cinesi all’inizio del 2006, ma i componenti di talibeni ad alta tecnologia sono stati quasi tutti importati inCina da parte delle multinazionali per l’assemblaggio primadella loro esportazione, sempre da parte delle stesse multi-nazionali, verso i mercati interni della Triade; per cui laquota maggiore del prezzo dei beni esportati dalla Cinacorrisponde al valore effettivamente catturato dalla econo-mia cinese. Secondo la Federal Reserve Bank di SanFrancisco, “nel 2009, il costo di produzione d’un iPhone inCina è stato di circa 179 dollari ed è stato venduto al detta-glio negli Stati Uniti a circa 500, di cui 179 erano il prezzodell’importazione dalla Cina, ma di questi solo 6,50 dollariderivavano dai costi di assemblaggio in Cina, mentre glialtri 172,50 dollari derivavano dal costo dei pezzi prodottiin altri paesi.

All’interno dell’Asia orientale nel suo complesso, la Cinacostituisce la piattaforma di montaggio finale, mentre altripaesi, come il Giappone, la Corea del Sud e Singapore pro-ducono i componenti. L’importazione di componenti daparte della Cina è aumentato di quasi 24 volte nel periodo1992-2008, mentre i suoi beni finali esportati sono aumen-tati solo di circa dodici volte nello stesso periodo. Nel 2009,il 17% dei componenti importati proveniva dal Giappone,il 17% dalla Corea del Sud, il 15% per cento dall’Asean(Brunei, Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore eTailandia), il 10% dall’Europa e il 7% dal Nord America.Pertanto il produttore di prodotti tecnologici, elettronici einformatici mondiali non è tanto la Cina, ma piuttostol’Asia orientale nel suo complesso, all’interno di una catenadi rifornimento globale ancora dominato dalle multinazio-nali della Triade.

L’economia cinese è oggi così strutturata attorno alle esi-genze di esternalizzazione (offshoring) delle multinazionalivolte ad ottenere bassi costi unitari del lavoro; un processonoto come “arbitraggio globale del lavoro”. Dunque inquesto contesto globale della catena di rifornimento mon-diale più che essere la “fabbrica del mondo”, la Cina rap-presenta lo snodo di assemblaggio mondiale.

In un articolo scritto nel 1997, Jin Bei, capo del Gruppodi Ricerca dell’Accademia delle Scienze cinese per uno stu-dio comparativo della competitività internazionale dellemerci prodotte in Cina, ha sostenuto che la maggior partedelle merci esportate dalla Cina non erano merci fabbrica-te nel mercato interno cinese, ma piuttosto andrebberoclassificate come “merci para-domestiche” che riflettonouna catena di approvvigionamento sotto il controllo dimultinazionali straniere. “tali beni – ha scritto - non riguar-dano principalmente la realizzazione delle forze produttivedella Cina, ma quella delle forze produttive straniere inCina, o la sottomissione economica delle risorse cinesi alleforze produttive soggette al controllo straniero... Per esem-pio, sette delle dieci migliori marche di camicie in tutto il

mondo, sono prodotte dalla Fabbrica di Camicie diPechino, ma per la produzione di una camicia con il mar-chio Pierre Cardin, che viene venduta a 300 yuan, la fabbri-ca riceve solo i tre o quattro yuan delle spese di amministra-zione. Come possono essere identificate in modo convin-cente come prodotte in Cina?”

Al fine di illustrare gli effetti delle catene di rifornimen-to globali è utile considerare il famoso esempio della Barbiee l’economia mondiale. Una bambola Barbie (“My FirstBarbie Tea Party”) commercializzata in California nel 1996e venduta a 9.99 dollari è stata etichettata come “Made inCina”. Quasi tutte le materie prime e le parti che compone-vano la bambola sono state però importate, mentre i lavo-ratori cinesi hanno assemblato la Barbie finale (a queltempo c’erano due fabbriche di Barbie in Cina e una ciascu-no in Indonesia e Malesia). Ogni fabbrica in Cina ha impie-gato circa 5.500 lavoratori. La maggior parte della resina diplastica in forma di pellets o “chips” è stata probabilmenteimportato tramite la cinese Petroleum Corporation, impor-tatrice statale di petrolio di Taiwan. I capelli di nylon pro-vengono dal Giappone. Gli imballaggi in cartone e moltipigmenti per vernici e gli oli utilizzati per decorare le bam-bole provengono dagli Stati Uniti. Solo il panno di cotoneper il vestito di Barbie proviene dalla Cina, che per il restos’è limitata a fornire manodopera per assemblare le bambo-le. I lavoratori hanno gestito le macchine per l’iniezionedella plastica negli stampi, dipinto i dettagli sulla bambola(che richiede quindici diverse stazioni di verniciatura), ecucito i vestiti. Sono stati pagati circa 40 dollari al mese. Ilcosto del lavoro totale per ogni Barbie era di soli 35 cente-simi, pari al 3,5% del prezzo finale.

Nel 2008 gli operai delle fabbriche cinesi hanno ricevu-to in media, secondo l’US Bureau of Labor Statistics, soloil 4% della retribuzione salariale degli operai degli StatiUniti. Di conseguenza, il margine di profitto aggiuntivoconseguito mediante la produzione in Cina (con la stessatecnologia), anziché negli Stati Uniti o in altri paesi svilup-pati, possono essere enormi. I salari degli operai cinesi cheassemblano gli iPhone per Foxconn, che subappalta perApple, rappresentano solo il 3,6 per cento del costo finalecomplessivo di produzione (prezzo alla spedizione), for-nendo ad Apple l’enorme margine del 64% di profittolordo, secondo la Asian Development Bank.

Lavorare in queste condizioni, soprattutto se si tratta diforza lavoro migrante, spesso assume la forma del super-sfruttamento, dato che la remunerazione dei lavoratori èinferiore al valore della forza-lavoro (ovvero ai costi diriproduzione del lavoratore). La fabbrica di KYE in Cinaproduce manufatti per Microsoft e altre imprese degli StatiUniti, impiegando fino a 1.000 lavoratori-studenti con 16-17 anni di età, con un turno tipo dalle 7.45 alle 22.55.Assieme agli “studenti”, la fabbrica assume donne con 18-25 anni di età. I lavoratori hanno raccontato di passare 97ore alla settimana in fabbrica prima della recessione, lavo-randone più di ottanta alla linea di produzione. Nel 2009, aseguito del rallentamento economico, i lavoratori stavanoin fabbrica 83 ore alla settimana, e 68 sulla linea di produ-zione. I lavoratori corrono per raggiungere la produzionerichiesta di 2.000 mouse Microsoft per turno. Le fabbrichesono estremamente affollate; un’officina da 105 metri per

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105, contiene circa 1.000 lavoratori e lavoratrici. Sonopagati 65 centesimi l’ora, ma ne portano a casa solo 52, per-ché viene detratto il costo esorbitante del cibo in fabbrica.Quattordici lavoratori condividono ogni stanza del dormi-torio, usando stretti letti a castello. Fanno la “doccia” pren-dendo l’acqua calda in un secchio di plastica e strofinando-si con una spugna.

Condizioni simili esistono alla Meitai Plastics andElectronics Factory di Dongguan nel Guangdong. Duemilalavoratori, soprattutto donne, assemblano tastiere e attrez-zature informatiche per Microsoft, IBM, Hewlett-Packarde Dell. I lavoratori, per lo più giovani sotto i trent’anni, fati-cano seduti su degli sgabelli duri come le tastiere dei com-puter, intervengono lungo la catena di montaggio, ogni 7,2secondi, con 500 interventi all’ora. All’operaio viene datosolo 1,1 secondo per far scattare ogni tasto nella sua posi-zione specifica, ripetendo l’operazione 3.250 volte all’ora,35.750 volte al giorno, 250.250 volte a settimana, e più diun milione di volte al mese. Lavorano dodici ore al giorno,sette giorni alla settimana, con due giorni di riposo al mesein media. Restano in fabbrica 81 ore alla settimana, mentrestanno alla catena per 74 ore. Sono pagati 64 centesimil’ora, che si riducono a 41 al netto di cibo e dormitorio.Parlare con gli altri lavoratori durante l’orario di lavoro puòcausare la perdita di un giorno e mezzo di paga. I lavorato-ri di Meitai sono bloccati dentro il recinto della fabbricaquattro giorni alla settimana e non sono autorizzati neppu-re a fare una passeggiata. Il cibo è costituito da una sottilee acquosa pappa di riso al mattino, mentre al venerdì vienedato loro, come trattamento speciale, una coscia e un piededi pollo. Le camerate sono simili a quelle della fabbricaKYE con i letti a castello allineati lungo le pareti e piccolisecchi di plastica per trasportare acqua calda per fare un“bagno con la spugna”. Fanno un turno obbligatorio nonretribuito per la pulizia periodica della fabbrica e del dormi-torio. Se un lavoratore passa sull’erba nella strada per il dor-mitorio viene multato. I lavoratori vengono regolarmentetruffati per un importo dal 14 al 19% del salario loro spet-tante. Vien detto loro che “economizzare sul capitale è ilrequisito fondamentale dell’attività della fabbrica”.

La Yuwei Plastics and Hardware Products Company diDongguan paga i suoi lavoratori 80 centesimi all’ora perturni di quattordici ore, sette giorni alla settimana, produ-cendo ricambi auto, l’80% dei quali viene venduto allaFord. In alta stagione i lavoratori sono costretti a lavorare30 giorni al mese. Nel marzo 2009 un lavoratore a cui èstato chiesto di stampare 3600 “RT Tubes” in un giorno,uno ogni dodici secondi, ha perso tre dita quando la dire-zione ha ordinato di spegnere i monitor di sicurezza a raggiinfrarossi per far lavorare i lavoratori più velocemente. Èstato risarcito con 7.430 dollari, poco meno di 2.500 dolla-ri a dito.

Cosa spinge l’arbitraggio globale del lavoro e il super-sfruttamento del lavoro cinese? Naturalmente è la ricerca dimaggiori profitti, di cui beneficiano essenzialmente leimprese multinazionali.

Lo si può vedere chiaramente inj uno studio condottodal National Labor Committee e dalla Cina Labor Watch diPou Yuen, stabilimento F di Dongguan (di proprietà dellataiwanese Pou Chen Group). La maggior parte della produ-

zione della fabbrica è realizzata per conto della societàsportiva tedesca lifestyle PUMA. Nel 2004 la fabbrica avevacirca 3.000 lavoratori con un’età media dai 20 ai 22 anni. Ilsalario base era di 31 centesimi l’ora, 12,56 Euro a settima-na. Hanno lavorato da 13,5 a16,5 ore al giorno, dalle 7.30alle 22/23, o mezzanotte, con uno, tre o quattro giorni almassimo di riposo al mese. Dodici lavoratori dovevanocondividere una stanza affollata del dormitorio. La relazio-ne ha rilevato che:

• Il costo totale del lavoro per fare un paio di sneakersPUMA in Cina è di soli 1,16 dollari. I salari dei lavoratoriammontano a solo l’1,66% del prezzo dello sneakers (70dollari) al dettaglio. Occorrono 2,96 ore per fare un paio discarpe da ginnastica.

• Il profitto lordo PUMA su un paio di scarpe da ginna-stica da 70 dollari è di 34 dollari. Il profitto orario PUMAsu ogni paio di scarpe è più di 28 volte il salario dei lavora-tori che l’hanno prodotto.

• PUMA realizza un utile netto di 12,24 dollari all’ora perogni addetto alla produzione in Cina, con un profittoannuale di 38.188,80 dollari per lavoratore. Nel solo stabili-mento F la PUMA ha guadagnato un utile netto per oltre92 milioni di dollari.

• Anche dopo il pagamento di tutte le spese aziendalicoinvolte nella gestione - in cui il costo dei lavoratori cine-si è uno dei meno rilevanti – il profitto netto di PUMA suogni paio di sneakers da 70 dollari, è ancora di 7,42 dollari,ovvero 6,4 volte il salario pagato ai lavoratori per produrli.

• Nei primi cinque giorni e due ore dell’anno, prima dellafine della prima settimana i lavoratori cinesi hanno già pro-dotto abbastanza sneakers PUMA per pagare il loro interosalario annuale.

Nel 2010 diciotto lavoratori, di età compresa tra 18 e 25anni, che lavoravano nella fabbrica Foxconn a Shenzhen,che produce iPhone e iPad per Apple, ha tentato il suicidio:14 ci sono riusciti e gli altri hanno riportato menomazionipermanenti. Ne è derivato uno scandalo nazionale e inter-nazionale, che ha portato all’attenzione del mondo questecondizioni di estremo supersfruttamento.

Sebbene la Cina abbia una legislazione sul salario mini-mo e diverse normative del lavoro, un numero sempremaggiore di lavoratori (soprattutto immigrati) lavorano inun settore informale e non regolamentato, in cui non siapplicano i salari minimi e una parte del salario viene trat-tenuta.

Secondo quanto descrive Anita Chan nel suo libro del2001, “I lavoratori della Cina sotto attacco: lo sfruttamen-to del lavoro in un’economia sempre più globalizzata”, ilivelli salariali minimi sono stabiliti “al prezzo più bassopossibile mantenendo i lavoratori al limite della sopravvi-venza fisica”, anche se a molti lavoratori viene negatoanche questo. “I salari dei lavoratori sono erosi da una mol-titudine di detrazioni” per cose come dimenticarsi di spe-gnere le luci, camminare sull’erba, disordine nei dormitori,e per aver parlato con gli altri operai sul posto di lavoro. Inun’indagine svolta dal sindacato del commercio diGuangdong, è stato rivelato che il 32% dei lavoratori sonostati pagati al di sotto del salario minimo legale.L’arbitraggio globale del lavoro che sta dietro questo siste-ma di estremo sfruttamento è in realtà un sistema di estra-

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zione di una rendita imperialistica che alimenta i profitti delcapitale monopolistico finanziario globale. La straordinariacrescita della Cina è quindi il prodotto di un sistema globa-le di sfruttamento e di accumulazione, i cui vantaggi princi-pali sono stati colti dalle imprese situate nel centro dell’eco-nomia mondiale.

La popolazione fluttuante

Per comprendere l’estremo sfruttamento del lavoro inCina e le contraddizioni di classe ad esso associate, occor-re considerare il ruolo della sua “popolazione fluttuante”.Nel sistema di registrazione familiare (hukou), istituito nel1955-58, a ogni individuo è stata data una particolare regi-strazione familiare nella sua località di nascita, ponendodelle limitazioni in materia di migrazione interna al paese.La “popolazione fluttuante” è formata da coloro che vivo-no fuori del proprio luogo di registrazione familiare, e com-prende attualmente 221 milioni di persone, 160 dei quali siritiene che siano i migranti rurali al di fuori della loro con-tea d’origine. Questa popolazione rurale di lavoratorimigranti costituisce quasi il 70% dei lavoratori in produzio-ne e l’80% nel settore delle costruzioni. Occupano i gradi-ni più bassi dell’occupazione urbana, ricevono un salario digran lunga inferiore alla media nazionale urbana e lavoranospesso fino a un 50% di ore in più. A Pechino circa il 40%della popolazione nel 2011 era composta da lavoratorimigranti con residenza temporanea. Nella città diShenzhen circa 12 milioni su un totale di 14 milioni di abi-tanti sono migranti dalle zone rurali. Oltre a ricevere retri-buzioni molto più basse, i migranti rurali sono privi dell’as-sistenza offerta ai lavoratori residenti nelle città, e spessovivono e lavorano in fabbrica in condizioni di dormitorio.La stragrande maggioranza dei lavoratori migranti ruralihanno un’età media di 35 anni, mentre nel 2004 era di 28.Lavorano in centri industriali in condizioni di supersfrutta-mento (ad esempio, ricevono un salario inferiore al norma-le costo di riproduzione dei lavoratori) per alcuni anni perpoi tornare alla terra e alle loro origini contadine.

Il numero enormemente lungo di ore lavorate in condi-zioni pericolose in Cina, in particolare dai lavoratorimigranti rurali, esige il suo tributo in termini di incidentiindustriali. Secondo i dati ufficiali, ci sono stati 363.383gravi infortuni sul lavoro nel 2010, che includevano 79.552morti, ma ciò ha rappresentato un netto miglioramentorispetto al 2003, che ha visto 700.000 infortuni sul lavoro e130.000 decessi. La maggior parte delle vittime sonomigranti.

Sebbene gli studiosi occidentali abbiano spesso conside-rato i lavoratori migranti in Cina secondo il modello stan-dard del pluslavoro, attratti dalle città (in base al modello disviluppo presente nelle opere di W. Arthur Lewis e all’ana-lisi di Marx sull’esercito di riserva) le condizioni di ecceden-za del lavoro in Cina sono per molti versi uniche. La popo-lazione fluttuante della Cina può essere interpretata comeun esercito di riserva del lavoro di Marx, ma con una nettadifferenza. La sua peculiarità consiste nella natura tempora-nea e parziale della proletarizzazione e nel collegamentopermanente dei migranti alla terra, un prodotto della rivo-luzione cinese e della “ciotola del riso d’argilla”. I contadi-ni mantengono i diritti d’uso del suolo (una forma di equi-

tà in quella terra), che periodicamente vengono riassegnatida collettivi di villaggio su una base relativamente egualita-ria, tenendo conto della loro occupazione e della coltivazio-ne della terra. Ciò fornisce un incentivo che induce imigranti rurali a mantenere un forte legame con le lorofamiglie e la terra. Le minuscole dotazioni di terra dei con-tadini con una media di 1,2 acri, ma anche piccoli come unottavo di acro, offrono una nuda esistenza ridotta all’osso:una fattoria con un tetto sopra la testa e il cibo per mangia-re. Anche se i riformatori del mercato hanno cercato dispezzare questa situazione, ben poche famiglie sono dispo-ste a rinunciare alla loro “ciotola del riso d’argilla”, ovveroai loro diritti di utilizzo della terra. Tuttavia, al fine disopravvivere in queste condizioni, le famiglie contadinedevono cercare periodicamente del lavoro non agricolo perintegrare i loro magri guadagni. Ciò dà luogo al fenomenodel lavoro migrante che è crescente delle zone rurali e siintensifica a causa della riduzione del sostegno statale nellearee rurali, durante il periodo della riforma del mercato.

I migranti rurali inviano rimesse alle loro famiglie e ten-tano di risparmiare una parte del loro reddito da riportarecon sé. È del tutto evidente che - al di là degli enormi osta-coli esistenti per ottenere lo status di residenza permanen-te nelle città - i migranti rurali hanno un forte desiderio ditornare nelle campagne perché mantengono il legame conil territorio, che fornisce loro una certa sicurezza. La terraè considerata come una attività permanente che può esseretrasmesso alle generazioni future. Così, in un sondaggiostatale del 2006 solo l’8% dei migranti rurali, ha detto divoler vivere a lungo termine nella città di destinazione. Unsondaggio del 2002 ha rivelato che solo il 5% degli immi-grati non sarebbe tornato a casa in quello stesso anno,mentre il 60% ha spesso trascorso meno di nove mesi diassenza dalla propria contea. La migrazione di ritorno serveper attutire gli effetti della recessione economica. Durantela Grande crisi finanziaria del 2007-09, che ha provocato unnetto calo delle esportazioni cinesi, c’è stato un calo signi-ficativo (14-18 milioni) del numero di lavoratori migrantirurali che, non essendo riusciti a trovare un lavoro sonotornati alla terra, e la nuova emigrazione è diminuita. Ilrisultato di questa migrazione inversa è stato quello di tene-re basso il tasso di disoccupazione, al punto che i salarisono addirittura aumentati durante la crisi a causa dellacarenza di manodopera nel settore industriale (indotto inparte dalla rapida correzione di tendenza economica dellaCina) e in risposta all’inflazione dei prezzi dei generi ali-mentari.

Alcuni analisti hanno commentato come le caratteristi-che strutturali della migrazione rurale consentano un’altaqualità della riproduzione del lavoro nelle zone rurali, difatto al di fuori dell’economia di mercato capitalistica, chediventa poi disponibile su una base fluttuante ad un suointenso supersfruttamento nelle città, senza che l’industriaurbana si debba accollare i costi reali della riproduzione dellavoro.

In tal modo i costi sono mantenuti bassi e la produttivi-tà molto elevata, perché la produzione viene effettuata dagiovani lavoratori, che possono lavorare in modo estrema-mente intenso, solo per tornare in campagna ed esseresostituiti da un nuovo afflusso di migranti. La settimana

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che supera le 80 ore di lavoro, il ritmo estremo della produ-zione, il cibo scadente e le condizioni di vita brutali, ecc,costituiscono condizioni di lavoro e un livello di ricompen-sa che non si può mantenere per molti anni, ed è perciòeffettuata da giovani lavoratori che ritornano poi sulla terrain cui hanno i diritti di utilizzo, che costituisce la più impor-tante eredità residuale della Rivoluzione cinese per la mag-gior parte della popolazione.

Tuttavia, le forti divergenze tra i redditi urbani e rurali,l’incapacità della maggior parte delle famiglie a prosperaresemplicemente lavorando la terra, e la mancanza di suffi-cienti possibilità di occupazione commerciali in campagna,contribuisce al perdurare della popolazione fluttuante, conil deflusso continuo di nuovi immigrati.

Terra, lavoro e lotte ambientali

Sebbene un certo numero di analisti di sinistra, comeabbiamo visto, continuino a considerare la Cina un caso di“accumulazione senza espropriazione”, principalmente acausa del mantenimento dei diritti di uso del suolo da partedei contadini, a nostro avviso, l’evidenza suggerisce che laCina non rappresenta una eccezione dal modello standard.

Un tale estremo e rapido sviluppo di un’economia capi-talistica di mercato è impossibile senza una accumulazioneprimitiva, cioè senza espropriare la popolazione delle sueattività e relazioni diretta con i mezzi di produzione. Inrisposta a ciò, come pure al forte sfruttamento dei lavora-tori e alla crescente disuguaglianza, le proteste dei lavorato-ri e dei contadini sono aumentati a passi da gigante.

Il numero dei grandi “incidenti di massa” (petizioni,manifestazioni, scioperi e sommosse) in Cina è passato da87.000 nel 2005 a 280.000 nel 2010, secondo le fonti uffi-ciali cinesi. Le due principali fonti di conflitto sono: (1)conflitti sulla terra, in particolare in risposta alle requisizio-ni illegali dei terreni, considerate attentati illegittimi alla“ciotola del riso di terracotta”, e (2) le controversie di lavo-ro, in particolare per la resistenza dei lavoratori delle impre-se statali alla implacabile privatizzazione, alla distruzionedella “ciotola del riso di ferro”. A queste vanno poi aggiun-te le lotte, in rapida crescita, dei lavoratori e dei contadinicontro la distruzione ambientale.

Nel 2002-05 migliaia di contadini hanno partecipato nelvillaggio di Dongzhou nel Guangdong alle proteste controla costruzione di una centrale elettrica che aveva portato auna requisizione di terreni per i quali non sono stati equa-mente risarciti. I lavoratori hanno ostruito dei capannonifuori dello stabilimento e hanno tentato di bloccare la suacostruzione. Il conflitto con le autorità ha portato unaparte importante dell’impianto ad essere spazzato via conesplosivi e l’apertura del fuoco da parte della polizia suimanifestanti nel dicembre 2005, ha causato un elevatonumero di morti. Nel dicembre 2011, una rivolta è iniziataa Wukan, un villaggio costiero di circa 20.000 abitanti nelGuangdong. Gli abitanti hanno istituito posti di blocco,cacciato i rappresentanti del governo, e iniziato a dotarsi diarmi fatte in casa, per protestare contro una requisizione diterre. Dopo dieci giorni di stallo con il governo locale, gliabitanti hanno deciso di porre fine alla loro protesta e ria-

prire il villaggio, quando un certo numero delle loro richie-ste sono state soddisfatte.

Questi casi riflettono le lotte in corso in tutta la Cina,sempre più minacciose, come afferma BloombergBusinessweek, “l’inversione di uno dei principi fondamen-tali della rivoluzione comunista. Mao Zedong ha conquista-to i cuori delle masse ridistribuendo la terra dai ricchi pro-prietari terrieri ai contadini senza un soldo. Ora, potentifunzionari locali la stanno strappando di nuovo, a volte vio-lentemente, per far posto a condomini di lusso, centri com-merciali, complessi sportivi con spese pazzesche che ali-mentano il debito”. I governi locali, provinciali, di contea ecittà hanno accumulato debiti per 2.790 miliardi di yuan(412 miliardi di dollari) entro la fine del 2009, spinti daglistimoli fiscali del governo in risposta alla Grande CrisiFinanziaria. I governi locali hanno utilizzato i terreni appar-tenenti agli abitanti dei villaggi per garantire il debito neiloro territori, promettendo la vendita dei terreni. Di conse-guenza, le città stanno appropriandosi dei terreni per finan-ziare i loro debiti che crescono come funghi.

La caduta dei prezzi immobiliari ha accelerato tale pro-cesso, costringendo i governi locali che dispongono di basiimponibili inadeguate a progettare maggiori vendite dellaterra. Le compravendita di terreni attualmente rappresenta-no circa il 30% del totale delle entrate pubbliche locali, e inalcune città ne coprono più della metà. Il terreno viene ven-duto senza il consenso e a spese degli abitanti del villaggio,che hanno diritti di utilizzo di terreni che sono proprietàcollettiva, mentre i proventi delle vendite va a riempire letasche dei funzionari locali. Non solo i contadini perdonola loro relazione permanente con la terra (e la “ciotola delriso di terracotta”), ma vengono anche compensati a tassidi gran lunga inferiori al valore per il quale il terreno vienevenduto agli sviluppatori da parte delle autorità locali. Circa50 milioni di contadini hanno perso le loro case nel corsodegli ultimi tre decenni, mentre si ritiene che almeno altri60 milioni di agricoltori saranno sradicati nei prossimi duedecenni.

Le controversie di lavoro restano ancora la forma piùcomune di “incidenti di massa”, che rappresentano, secon-do una stima, circa il 45% del totale. Nell’estate del 2010 inCina le industrie leader nei settori auto, elettronica e tessu-ti sono stati colpiti da decine di scioperi. Anche se il ruolodi imprese statali (SOE) in Cina è sceso sotto la spinta delleprivatizzazioni, rimangono ancora circa 60 milioni didipendenti delle aziende di Stato nelle aree urbane. “Inepoca maoista socialista”, come Minqi Li ha scritto, “ icinesi lavoratori dello Stato hanno goduto di un livello dipotere di classe e di dignità inimmaginabile per un lavora-tore medio in uno Stato capitalista (soprattutto nei contestiperiferici e semiperiferici). “Nel periodo delle riforme dimercato questi lavoratori sono stati sempre più ridotti a unproletariato del settore statale, ma con i resti della “ciotoladel riso di ferro” (o almeno con la sua memoria spettrale)che permangono dove i lavoratori sono più forti. Ciò haportato a lotte di classe intense. Nel 2009 i lavoratori dellaTonghua Iron and e Steel Company, nella provincia di Jilin,si sono ribellati contro la privatizzazione e i licenziamentidi massa, effettuando uno sciopero generale sotto la guidadi un operaio dell’era maoista, conosciuto come “Maestro

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Wu.” Quando il direttore generale di una potente societàprivata che intendeva acquisire l’azienda ha minacciato dilicenziare tutti i lavoratori, questi lo hanno picchiato amorte. Il governo ha fatto marcia indietro e ha annullato laprivatizzazione.

Dopo i conflitti per la terra e il lavoro, il maggior nume-ro di “incidenti di massa” in Cina sono associati a fattoriambientali, in particolare le lotte contro l’inquinamento. Iproblemi ambientali della Cina sono enormi e crescenti.Attualmente ben 16 delle 20 città più inquinate del mondosono cinesi. Due terzi degli abitanti delle città respirano ariagravemente inquinata. Il cancro al polmone è aumentato inCina del 60% negli ultimi dieci anni, anche se il tasso difumatori è rimasto invariato. La desertificazione sta portan-do alla perdita di circa 6.000 chilometri quadrati di praterieogni anno, circa la dimensione del Connecticut. Ciò favori-sce le tempeste di sabbia, con le conseguenti nuvole di pol-vere che rappresentano un terzo del problema dell’inquina-mento dell’aria in Cina. La carenza d’acqua, soprattutto nelnord della Cina, e il suo inquinamento, sono entrambi increscita. La Cina possiede solo il 6% di acqua dolce delmondo, ma più di tre volte la corrispondente quota dellapopolazione mondiale. L’approvvigionamento di acqua perabitante è sceso a un quarto della media mondiale, mentreil 70% dei fiumi e dei laghi del paese sono gravementeinquinati. Circa 300 milioni di persone nelle zone ruralibevono acqua non sicura, mentre un quinto delle fonti diacqua potabile nelle grandi città sono al di sotto dello stan-dard. Enormi progetti di dighe destinate a fornire energiaelettrica stanno causando la perdita di terreni agricoli, danniecologici, e la migrazione forzata di milioni di persone. Nel2008 la Cina ha superato gli Stati Uniti come il principaleemettitore di gas serra (anche se molto al di sotto di que-st’ultimo nelle emissioni pro capite). Tali condizioni hannoportato a una recrudescenza delle proteste ambientali dimassa. Le denunce alle autorità aumentato di circa il 30%nel periodo 2002-04, raggiungendo le 600.000 ogni anno,mentre il bilancio ufficiale delle controversie in materia diinquinamento ambientale ha raggiunto il numero di 50.000nel 2005.

La maggior parte della forza produttiva della Cina, comeabbiamo visto, è costituita da una popolazione fluttuanteche rimane legata alla terra e ai propri diritti, e allo stessotempo sperimenta uno sfruttamento estremo e il degradodelle condizioni ambientali nelle città. Detto questo, le lotteper la terra, il lavoro, e l’ambiente si sposano fra loro comein nessun altro luogo, al punto che possiamo essere testi-moni della nascita di un proletariato ambientale, insieme auna classe contadina proletarizzata, relativamente indipen-dente ed egualitaria. Come sostiene Samir Amin, la Cinaurbana non è in grado di assorbire le centinaia di milioni dilavoratori rurali del paese (un dilemma che esiste a varilivelli in tutto il Sud del mondo). Quindi, circa il 50% dellapopolazione cinese dovrà rimanere rurale. La Cina non hala possibilità di uno sbocco esterno per il suo surplus dipopolazione che è stato a disposizione dell’Europa in via diindustrializzazione durante il periodo di espansione colo-niale. Nel caso della Cina, l’eredità della sua rivoluzione hacreato una classe di contadini indipendenti che alimenta il22% ella popolazione mondiale con il 7% dei terreni colti-vabili del mondo, con una equa distribuzione della terra.

Piuttosto che vedere questo come una debolezza arcaicadella società, per essere sottoposti a incessante accumula-zione primitiva, dovrebbe essere visto come un punto diforza della società cinese, che riflette la necessità reale perl’accesso alla terra da parte di metà dell’umanità.

La Cina e la crisi mondiale

Con la Triade economica di Stati Uniti (con il Canada),Europa e Giappone, sprofondati in una continua stagna-zione economica, resa più evidente in seguito alla Grandecrisi finanziaria, l’attenzione si è sempre più spostata versola Cina, come un mezzo per risollevare l’economia mondia-le. Così il numero della rivista “L’economia internazionale”dell’inverno 2010 ha riportato le risposte date da più di cin-quanta economisti ortodossi, provenienti da vari paesi, alladomanda: la Cina potrà diventare il motore per la crescitamondiale? Le risposte variavano notevolmente, ma la mag-gior parte degli intervistati ha sottolineato le contraddizio-ni interne dell’economia cinese, la sua tendenza verso inve-stimenti eccessivi e la dipendenza dalle esportazioni, il suobasso livello di consumo, e la sua necessità di riequilibrarsi.Recentemente il timore che le contraddizioni dell’economiacinese possano mettere ulteriormente a repentaglio l’interoprocesso di accumulazione mondiale, se la Cina non saràcapace di riequilibrare la sua economia verso un maggioreconsumo interno, un minor indebitamento e un a rivaluta-zione dello yuan, sono espresse quotidianamente dal capi-tale internazionale.

Sono oggi prevalenti le preoccupazioni sul fatto che igiorni del miracolo economico della Cina siano contati, eche si stia dirigendo verso un forte rallentamento della cre-scita e una crisi finanziaria. Come ha scritto Paul Krugmanin una colonna del New York Times dal titolo “La Cinacrolla?”, il 18 dicembre 2011: “Si consideri il seguente qua-dro: la crescita recente ha fatto affidamento su un boomenorme delle costruzioni alimentata dalla crescita dei prez-zi degli immobili, e mostra tutti i segni classici di una bolla.C’era una rapida crescita del credito - con gran parte di que-sta crescita che non passa attraverso il sistema bancario tra-dizionale, ma attraverso il sistema bancario ombra nonregolato, non soggetto al controllo governativo, né assistitida una garanzia pubblica. Ora la bolla sta scoppiando, e cisono validi motivi per temere una crisi finanziaria ed eco-nomica. Sto descrivendo il Giappone alla fine degli anni1980? O sto descrivendo l’America nel 2007? Potrebbeessere. Ma in questo momento sto parlando della Cina, chesta emergendo come un altro punto di pericolo in un’eco-nomia mondiale che davvero non ha bisogno di questo ora... di un nuovo potenziale epicentro di crisi”.

Ma pochi analisti ortodossi, Krugman compreso, rico-noscono la vera intensità delle contraddizioni economiche,sociali e ambientali della Cina, che rendono il suo modellodi sviluppo insostenibile sotto ogni aspetto. Queste con-traddizioni stanno ora dando origine a centinaia di migliaiadi proteste di massa ogni anno, come abbiamo visto prima.

La storia, presentata solitamente nei media americani diuna competizione fra stati-nazione (e collaborazione occa-sionale) tra gli Stati Uniti e la Cina, nasconde la profonda ecrescente disuguaglianza di classe in un paese dove la “cio-

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tola del riso d’oro” dei burocrati statali è stata così amplia-ta che le famiglie dei membri del partito più potenti con-trollano miliardi di dollari di ricchezza. Ad esempio, lafamiglia del premier cinese Wen Jiabao ha un patrimoniostimato in 4,3 miliardi dollari in un paese dove il redditosalariale è tra i più bassi al mondo, e dove la disuguaglianzaè alle stelle.

Le esportazioni cinesi a basso costo di manodoperasono state quasi interamente costituite da beni di consumodurevoli (settore II negli schemi di riproduzione marxiani,in contrapposizione al settore I, dei beni di investimento),in particolare nei settori delle tecnologie dell’informazione,della comunicazione e dell’elettronica, ma comprendeanche abbigliamento, arredamento, giocattoli e prodottivari per la casa. Nel 2010 i beni “made in Cina” rappresen-tano il 20% dei mobili e elettrodomestici venduti negli StatiUniti, il 12% di altri beni durevoli e il 36% di abbigliamen-to e scarpe. Tali prodotti cinesi importati sono descritticome merci “deflazionistiche” nel gergo aziendale, in quan-to riducono i costi di molti beni di solito acquistati con isalari, controbilanciando i prezzi più elevati di altri oggettidi consumo di massa, come la benzina. Wal-Mart, che dasolo rappresenta il 12% delle merci spedite dalla Cina negliStati Uniti, è stato anche definito il più grande amico dellaclasse operaia degli Stati Uniti. Tuttavia proprio questemerci importate a basso prezzo, che Wal-Mart esemplifica,rendono possibile il ristagno per i livelli dei salari reali negliStati Uniti e in altri paesi ricchi, come pure lo spostamentorelativo degli occupati del settore nel Sud del mondo,abbatte, direttamente e indirettamente, i salari (e quelli cheerano lavori ben pagati scompaiono).

La crescita delle importazioni a buon mercato ha spessoportato a richieste di protezionismo da parte dei gruppi dilavoratori degli Stati Uniti. Tuttavia, c’è scarsa consapevo-lezza del fatto che queste importazioni sono prodotte da oper le multinazionali con sede nella Triade. La vera lotta,quindi, è quella di creare la solidarietà internazionale tra ilavoratori cinesi, che sono affetti da forme estreme di sfrut-tamento (anche di supersfruttamento), e i lavoratori delmondo sviluppato, che attualmente perdono terreno in unacorsa verso il basso. Oggi gran parte della base di una talesolidarietà internazionale del mondo del lavoro può esseretrovata nelle lotte dei lavoratori e dei contadini in Cina; che,concettualmente, potrebbe essere ulteriormente rafforzataattraverso la risurrezione del processo rivoluzionario inCina (con una svolta a sinistra).

Per il New York Times, null’altro che “la resurrezione diMao o un cataclisma nucleare” sarebbe in grado di arresta-re il presente corso cinese. Ma, se ciò che si intende per“resurrezione di Mao” è il rinnovamento in qualche mododella Rivoluzione cinese stessa, che dovrebbe assumerenecessariamente nuove forme a causa delle mutate condi-zioni storiche, tale possibilità rimane, e data sempre più cre-scendo nelle condizioni attuali.

Nel 1853, Karl Marx ha sostenuto che la rivoluzionecinese di quei giorni (la famosa rivolta dei Taiping) avrebbepotuto destabilizzare le condizioni finanziarie dell’Imperobritannico e accelerare le possibilità di rivolta in Europa.Anche se le aspettative di Marx sono state deluse, la sua

idea che i destini della Cina e dell’Occidente sono stretta-mente legati, è stato in molti modi profetico. Le contraddi-zioni sempre più profonde della Cina hanno sicuramenteun effetto sulla Triade e sul mondo nel suo insieme, in quel-la che ora sembra essere la fase discendente del capitalismo.

(Da http://monthlyreview.org (gennaio 2012). Ora in TheEndless Crisis, Monthly Review Press, New York 2012.Traduzione di Roberto Mapelli e Giancarlo Saccoman.Adattamento di Roberto Mapelli).

* John Bellamy Foster è l’editore della Monthly Review e professoredi Sociologia all’Università dell’Oregon..Robert W. McChesney è professore di Comunicazione alll’Universitàdell’Illinois a Urbana Champaign..

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Bruno SteriUNA SINGOLARE ENTITÀ.

IL SOCIALISMO ALLA CINESE

Un grande filosofo e logico della prima metà del secoloscorso, Ludwig Wittgenstein, sosteneva che non tutto quel-lo di cui parliamo è sottoponibile a definizioni e regolestrette (quelle della logica formale o della matematica): lanostra quotidiana esperienza non è cioè tutta quanta ascri-vibile al registro della precisione e tuttavia anche i contestiche si presentano approssimati o cangianti vanno presi perquel che significano, sono suscettibili di significanza com-piuta.

Non sempre possiamo usufruire di definizioni pronteall’uso, pena il rischio di schematismo, di innaturali forzatu-re: in tali casi, è bene lasciare alla realtà indagata l’aperturache essa stessa reclama.

Un approccio “aperto”

Queste regole prudenziali mi sono tornate alla mente inoccasione di un recente viaggio in Cina con una delegazio-ne della Federazione della Sinistra (segnatamente, del Prc edel Pdci), su invito del Partito Comunista Cinese. Credoche calzino a pennello per individuare quella che, a mioavviso, dovrebbe essere l’attitudine prevalente nella descri-zione di questa esperienza e nelle correlate valutazioni poli-tiche. Tutti noi (intendo: tutti noi comunisti) abbiamo intesta una definizione o un pacchetto di definizioni più omeno strette di cosa è “capitalismo” (e di cosa è “sociali-smo”). Il barbuto di Treviri, già un secolo e mezzo fa, si èincaricato di dare a tali concetti forma e contenuto scienti-fico: ed è del tutto ovvio (oltre che giusto) che noi ci siavvalga di tale fondamentale opportunità. L’essenziale èche questa non sia assolutizzata e si accompagni al sensodella realtà. Nel caso della Cina, della sua incredibile vicen-da storica, dei giganteschi problemi che questo Paese hadovuto e ancora deve affrontare, penso che sarebbe sba-gliato procedere a colpi di definizioni secche e sentenze:penso che si debba lasciar prevalere l’osservazione, la regi-strazione dei dati, la segnalazione di linee di tendenza. E –se posso dire – anche l’esercizio dell’umiltà, davanti adimensioni geografiche e umane fuori dell’ordinario (possi-

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bilmente, evitando lo sgradevole effetto del “grillo parlan-te”). Inoltre è importante non semplicemente scattare ilfotogramma di una realtà immobile, ma provare a descrive-re un mondo che è in rapido movimento, un contesto cheè denso di sperequazioni e contraddizioni, ma che appare(contrariamente al nostro decrepito, seppur durevole, capi-talismo) quanto mai vitale.

Peraltro un tale approccio “aperto” è in perfetta sintoniacon un’acquisizione metodica, concernente le relazioni tra ipartiti comunisti, che i dirigenti del Partito ComunistaCinese (PCC) non hanno cessato di ribadirci: tener presen-ti l’autonomia e l’indipendenza di ciascun partito (che siagrande o piccolo, all’opposizione o al governo del suoPaese, a maggior ragione se comunista), coltivare rapportinel reciproco rispetto e nella pari dignità dei diversi interlo-cutori. Del resto, l’attenzione e il decoro riservati a due pic-coli partiti comunisti dell’Occidente europeo da chi gover-na un miliardo e trecentocinquanta milioni di persone e hanelle proprie mani una consistente quota del destino del-l’intero pianeta, sono parsi a noi la dimostrazione pratica ditali precetti: un elemento politico di per sé significativo e dicui tenere conto. Precetti che - ricordiamolo - hanno presoforma compiuta durante la seconda metà dello scorso seco-lo, nel quadro dei rapporti tra i due più grandi partiti comu-nisti, il PCC e il PCUS, aggiornando l’”internazionalismoproletario” di matrice terzinternazionalista e consolidandocosì la “via cinese” al socialismo. Non a caso, l’espressione“socialismo alla cinese” - o, più precisamente, “con caratte-ristiche cinesi” - su cui hanno insistito i nostri interlocuto-ri, tende a enfatizzare la peculiarità di un progetto politico:il quale resta caratterizzato dall’idea di superamento delcapitalismo (“L’idea finale resta per noi il comunismo, l’ar-ricchimento comune, l’eliminazione dello sfruttamento”,“Pensiamo che prima o poi il socialismo sostituirà il capita-lismo”), ma richiede l’accantonamento di stampi da appli-care in ogni contesto e l’immersione nella specificità (sto-rica, culturale, sociale, territoriale) di un Paese determinato.Questo è - mi pare - il senso prevalente di una sintetica for-mulazione a suo tempo utilizzata da Deng Xiaoping:“Unire i principi fondamentali del marxismo con i caratte-ri peculiari della Cina”. Concetto recentemente ribaditodallo stesso Segretario Generale del PCC, Hu Jintao: “Perdecidere la giusta direzione di marcia, occorre partire dallarealtà della Cina”.

Dalla lotta di classe allo sviluppo economico

La suddetta impostazione è connessa a un giudizio sullastoria cinese degli ultimi sessant’anni, che i nostri interlocu-tori non hanno mancato di esplicitare (con accentuazionidiverse, ma attorno ad un asse centrale formalmente omo-geneo). In particolare, ciò investe i conti con il pensiero el’azione del Presidente Mao. L’esperienza di Mao Tse Tungè descritta come contenente “elementi positivi e elementinegativi”. Tra questi ultimi sono annoverati i dieci annidella “Grande Rivoluzione Culturale” (gli “spari sul quar-tier generale”), che va dal 1966 al 9 settembre del 1976,anno della morte di Mao: periodo che - a giudizio dei nostriinterlocutori - ha comportato “disordini in tutto il Paese” edi cui la “svolta” operata da Deng ha salutarmente corret-to “i gravi errori”. Ma, in generale, potremmo definire l’at-tuale linea di ragionamento ufficiale come una linea di

distinzione nel quadro di fasi differenti della costruzionedel socialismo. Mao è riconosciuto (e visibilmente onora-to), accanto a Deng, come uno dei due grandi dirigentidella recente storia cinese: egli è e resta il grande dirigentedella Rivoluzione, della conquista del potere e dell’inizialefase eroica; ma Deng è il grande dirigente dellaModernizzazione, del presente (e del prossimo futuro).

La “svolta” si ha nella seconda metà degli anni 70, dopola morte di Mao: in particolare, nel 1978, con l’XIa sessio-ne del Comitato Centrale, quando si decide di spostare ilcentro dell’iniziativa politica del Partito comunista e del-l’azione di governo “dalla lotta di classe allo sviluppo eco-nomico” del Paese. Osserva Long Xinmin, attualePresidente dell’Istituto di Ricerca della Storia del Partito:“Per un Paese, progredire equivale innanzitutto a promuo-vere lo sviluppo economico: se l’economia non va bene enon migliora la vita del popolo, per un partito al governo èdifficile avere consenso”. E’, questa, l’impostazione diDeng: “Lo sviluppo è fondamentale: che i gatti siano bian-chi o neri, l’importante è che acchiappino i topi”. Comedire: ci si organizzi come si crede, l’essenziale è che vi siasviluppo. Già nella seconda fase della leadership di Mao,l’Urss aveva cessato di costituire un modello e i rapporticon il Pcus si erano fatti assai difficili (fino al proromperedi un conflitto di confine). Con la svolta di Deng, la Cinaconsolida una sua compiuta e autonoma prospettiva: “Lastoria ha mostrato – annota Long Xinmin – che il sistemaaltamente centralizzato dell’Urss non è adeguato per laCina. Del resto, la stessa Unione Sovietica alla fine si è sfal-data. Ciò è certamente avvenuto per cause esterne, maanche per crescenti contraddizioni interne: l’economia nonè andata bene e la vita del popolo non è migliorata”.

“Economia di mercato socialista”

Negli ultimi trent’anni, dal 1978 in poi, si è dunque spe-rimentato quello che viene chiamato “socialismo alla cine-se o con caratteristiche cinesi”, una configurazione econo-mico-sociale rappresentata essenzialmente nel passaggio daun sistema economico “altamente concentrato” ad un’“economia di mercato socialista”: avendo come obiettivolo sviluppo della capacità produttiva, per “una modernasocietà socialista, un Paese civile, una società armoniosa ericca”. I nostri interlocutori hanno tenuto a precisare que-sto punto: non c’è una radicale contrapposizione tra pianoe mercato, “non è qui la differenza tra capitalismo e socia-lismo” (Deng). Ogni cinque anni continua a essere varatoun piano economico generale e lo Stato continua a presi-diare i settori strategicamente essenziali (ad esempio, il set-tore bancario e creditizio). La proprietà pubblica costituisceancora una parte importante del sistema economico, manon è l’unica forma di proprietà vigente. Il mercato (e conesso la proprietà privata) svolgono una funzione altrettan-to importante per lo sviluppo dell’economia e l’allocazionedelle risorse disponibili: lo Stato sovrintende all’equilibriogenerale e interviene monitorando e correggendo (il gover-no usa lo strumento macroeconomico per controllare indi-ci quali il livello dei prezzi, il tasso di disoccupazione ecc),oltre ad assicurare direttamente la sua presenza nei settoristrategici. In definitiva, il concetto a più riprese sottolinea-to è che “in un sistema socialista ci può essere il mercato eche l’essenziale è promuovere l’equità e la giustizia, i diritti

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del popolo”. Il processo di riforma interno, lo spazio con-cesso all’operare di meccanismi di mercato hanno significa-to – come era prevedibile – una maggiore apertura almondo (capitalistico). “Non avremmo potuto mettercisulla strada dello sviluppo nel quadro di una chiusura alresto del mondo”, osserva ancora Long Xinmin. Anche suquesto, le spiegazioni fornite nel corso dei nostri incontritendono a tenere insieme le novità introdotte dalla riformacon la continuità di direzione del partito, in vista di un gra-duale raggiungimento degli obiettivi. Il nuovo ambienteeconomico ha aperto ad un massiccio afflusso di investi-menti privati esteri: la Cina ospita mezzo milione di impre-se private straniere, buona parte delle quali in regime dijoint venture. Ma, nella prospettiva dichiarata della dirigen-za cinese, non si tratta di una colonizzazione: “Dal !980abbiamo creato ‘aree di economia speciale’ (sviluppando lezone costiere, creando intere città lungo i fiumi e verso l’in-terno): abbiamo importato dall’estero capitali e competen-ze. Piano piano, tutto ciò diverrà integralmente ‘economiacinese’”. Dal 2001, con l’entrata della Cina nel Wto, ad oggi- viene sottolineato - la capacità competitiva del Paese si èrafforzata, l’import/export ha viaggiato ad una crescitaannuale media del 14,2% (nel 2011, il commercio interna-zionale ha mobilitato un volume di 3.640 miliardi di dolla-ri). “Sarebbe impensabile poter conseguire tutto questo aprescindere dal mondo”. Un mondo che si presenta oggiassai più interconnesso di prima e entro cui il gigante cine-se mostra di avere sempre di più voce in capitolo. In coe-renza con tale impostazione, la Cina pone la pace al centrodella sua politica internazionale, nel quadro di un consoli-damento della propria indipendenza e del proprio ruoloegemonico. E’ come se il tempo lavorasse a suo favore.Non a caso, la stessa crisi in cui attualmente si dibatte ilmondo capitalistico è oggetto di grande attenzione e cautigiudizi. Unanimemente si riconosce che questa crisi faemergere i difetti strutturali del modo di produzione capi-talistico; e si aggiunge, con qualche preoccupazione, cheessa è complicata dalla maggiore interconnessione dell’eco-nomia mondiale. Ma quando si va al nocciolo della questio-ne – come se ne esce? – la risposta è netta e concisa: la crisipuò essere superata; e non pensiamo che essa debba sfocia-re in una guerra mondiale. Un aneddoto serve a chiarireulteriormente la questione. Un dirigente del Partito comu-nista del Laos chiese: “C’è la crisi capitalistica: perché stateaiutando gli Stati Uniti?”. Risposta: “Perché il mondo èinterconnesso e dalla crisi occorre uscire insieme”.Appunto: tra un esito di guerra e uno di pace, noi puntia-mo sul secondo. In effetti, quel che fa la Cina ha oggi unpeso determinante sui destini del pianeta. Da qui discendeuna strategia che possiamo reinterpretare in questo modo:non stacchiamo la spina (ad esempio: non intendiamo sba-razzarci d’un colpo dei titoli del Tesoro statunitensi), manel contempo agiamo gradualmente, differenziando lenostre riserve in divisa estera, aumentando la pressione percreare una nuova valuta internazionale di riferimento insostituzione del dollaro. E ponendo veti in sede Onu anuove avventure belliche. Sottinteso: il tempo lavora anostro favore.

Il balzo della tigre

Sin qui questa descrizione ha lasciato spazio all’autorap-presentazione della realtà cinese e delle sue prospettive,

così come ci è stata offerta nel corso degli incontri ufficia-li. Va subito detto che essa è stata corredata da dati ogget-tivi che hanno del clamoroso e che testimoniano di unbalzo in avanti che, per dimensioni e rapidità, non ha egua-li nella storia del mondo: progressione che ha portato laCina, nel volgere di qualche decennio, da Paese povero aseconda potenza economica mondiale (secondo le previ-sioni, lanciata ormai alla conquista del primato assoluto).La relazione del compagno Wang Hua, Direttore Generaleper l’Europa Occidentale del Dipartimento Internazionaledel PCC, dà conto di questi risultati. In 60 anni (con unadecisa accelerazione nell’ultimo trentennio), il Paese ha let-teralmente cambiato volto. Nel 1949, la Cina contava 450milioni di abitanti e il Pil pro-capite annuale – al cambio diallora – era di 25 dollari, la vita media era al di sotto dei 35anni e il tasso di analfabetismo riguardava oltre l’80% dellapopolazione. Al 2009, il Pil è aumentato di 77 volte (ad unamedia annuale dell’8,1%), le entrate fiscali di 1.000 volte,l’erogazione di energia di 805 volte, l’import/export di2.266 volte (con una crescita annuale media del 14,2%), leriserve in valuta estera di 14.000 volte. Nel 2011 - con unapopolazione di un miliardo e trecentocinquanta milioni dipersone - il Pil pro-capite è di 5.000 dollari, la speranza divita è attestata sui 72 anni (ma a Pechino e Shanghai supe-ra gli 80), il tasso di urbanizzazione ha raggiunto il 50%(restando comunque più basso del tasso medio mondiale).

Queste cifre servono a render conto dell’aumento dellacapacità produttiva, della crescita della ricchezza comples-siva, trainata dall’industrializzazione di vaste zone del Paesee da un poderoso processo di urbanizzazione. Un tale pro-cesso di accumulazione ha trasformato - e continua a tra-sformare - la Cina da Paese prevalentemente popolato dacontadini poveri a potenza industriale, capace di dare occu-pazione (e alloggio) ogni anno a 8/10 milioni di nuoveunità lavorative. Per quel che vale una delimitata testimo-nianza visiva (la nostra delegazione ha percorso unicamen-te contesti urbani, già raggiunti dallo sviluppo), possiamodire di non aver visto le bidonvilles e le sterminate favelasche abbiamo visto in altre parti del mondo.Nell’attraversare in pulmino o in treno le periferie dellecittà visitate (Pechino, Changsha, Nanchino, Suzhou,Shanghai), tutte tra i sei e i venti milioni di abitanti, losguardo ha potuto seguire lo sviluppo verticale dei gratta-cieli di recente costruzione, addensati nei centri direzionalie nei comprensori abitativi della media borghesia, cosìcome la monotona sequela di piccole abitazioni ad uno odue piani dei sobborghi: realtà abitative che sono espressio-ne della poderosa espansione economica e, insieme, di evi-denti differenze di reddito, ma sempre sopra la soglia di unrelativo decoro urbano. Com’è stato riconosciuto dai nostriospiti, gli ultimi trent’anni di sviluppo intensivo hanno pro-dotto gravi guasti ambientali (l’aria che si respira nel centrodi Pechino è in merito un termometro significativo); e tut-tavia, nel contempo, la Cina vanta attualmente un primatoin ordine a risorse investite per la tutela ambientale (la suaproduzione di pannelli solari fotovoltaici equivale già allametà della produzione mondiale e la riforestazione del 24%del suo immenso territorio costituisce un esempio unico almondo). In definitiva, è - questa - la Cina sottratta alMedioevo e consegnata alla modernità. Il Paese è oggi, pervolume produttivo, la “fabbrica del mondo”, la punta dellaproduzione manifatturiera mondiale. Produce in quantità,

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ma anche in qualità. Lo testimoniano i distretti e le “zonedi sviluppo industriale ad alta specializzazione e ad altaintensità tecnologica” sorte come funghi e già impostesi alivello planetario in settori d’avanguardia (nel Paese vi sonouna novantina di aree di sviluppo): dall’elettronica all’indu-stria bio-medica, dall’informatica alla farmaceutica, dainuovi materiali all’industria della tutela ambientale e al foto-voltaico, dai trasporti al terziario avanzato. L’americanaNational Science Foundation prevede che, entro il 2025, laCina dovrebbe riunire il 30% dei ricercatori mondiali. Unarealtà iper-moderna; che tuttavia, come hanno ancora sot-tolineato gli stessi nostri interlocutori, non è tutta la Cina.

Squilibri

Già la presentazione dei dati aggregati non sfugge allarilevazione della ”strada che è ancora da compiere”. Inpochi decenni, sono state bruciate le tappe dello sviluppo,ma il divario rispetto al mondo cosiddetto “sviluppato” èancora da colmare. Come si è visto, il Pil pro-capite è cre-sciuto impetuosamente, ma resta ancora la metà di quellomondiale medio (e un decimo di quello degli Usa e delGiappone). Tuttavia, sono soprattutto i dati disaggregati aevidenziare un grande problema da sormontare. Si è dettoche il Pil pro-capite medio è di 5.000 dollari. Ma la capitalePechino – che appartiene alla striscia costiera orientale alta-mente sviluppata – vanta un Pil pro-capite di 10.000 dolla-ri; mentre, all’interno del Paese, esso precipita a 2.000 dol-lari. La riforma ha sì portato un vigoroso sviluppo, ma haanche accentuato le disuguaglianze: “Il nostro sviluppo èsquilibrato” – si sottolinea – “e abbiamo garanzie socialimolto basse”. Il problema può essere tematizzato secondopunti di vista differenziati. Si può ad esempio esprimerloponendo il tema del rapporto tra riforma e stabilità sociale:in quest’ottica, la scommessa è trovare un giusto punto diequilibrio che tenga insieme la velocità dello sviluppo e unacapacità di sopportazione sociale dello sviluppo stesso. Indefinitiva, sulla base di questo approccio, si tratta di modu-lare la crescita garantendo al sistema stabilità. Secondo unpunto di vista alquanto diverso, il problema appare piùsostanziale. Ci dice ad esempio Wang Hua: “C’è squilibriotra zone urbane e rurali: soprattutto in questi 30 anni, nellacostruzione dell’ ‘economia di mercato socialista’, alcuni sisono arricchiti prima degli altri, approfondendo così le dif-ferenze. Questi divari non corrispondono ai nostri principidi lotta per il socialismo (che deve essere “arricchimentocomune”, come diceva Deng Xiaoping)”. Insomma, sullabase di questa riformulazione del problema, non si tratte-rebbe semplicemente di “stabilizzare” il sistema, addolcen-do lo sviluppo economico con dosi sufficienti di politicasociale: c’è da risolvere una questione “di classe”, enfatizza-ta in particolare dall’ultimo trentennio di “economia dimercato socialista”, dunque dallo sviluppo economicomedesimo. Certamente, ciò sarà materia di discussione nel-l’ambito del prossimo Congresso del PCC.

E’ evidente che il tema suddetto concerne il modo in cuisi guarda alla prospettiva di medio periodo e l’interpretazio-ne da dare allo stesso “socialismo alla cinese”. Non c’è dub-bio che lo sviluppo dell’ambiente industrializzato, la cresci-ta urbana e la dimensione degli interventi infrastrutturalipresuppongano che, nella redistribuzione del surplus di ric-chezza prodotta, una notevolissima quota sia andata e con-

tinui ad andare all’impegno finanziario pubblico. A frontedi ciò, resta però il fatto che – nel quadro di tale redistribu-zione – si siano approfondite negli ultimi trent’anni le dif-ferenze di reddito e di status sociale, determinando la for-mazione di una classe di ricchi e super-ricchi. I dirigentiincontrati dalla nostra delegazione hanno tenuto a mostrar-si consapevoli di ciò, precisando che il Partito comunista èintenzionato ad affrontare tali contraddizioni (“conflitti inseno al popolo”) in quanto “partito di governo”. Il dott.Wang Dongqi, della Scuola Centrale del PCC, ha insistitomolto sulla necessità di acquisire una “capacità di gover-no”, nella regolazione dei rapporti tra politica ed economia,tra potere e società. Il filo del suo ragionamento muovedalla storia di questi ultimi decenni, nel corso dei quali labattaglia principale è stata quella contro “la concentrazionedel potere, la burocrazia e i suoi privilegi”. Il socialismonon può assicurare “ruoli dirigenti a vita” e tanto meno “ladirezione del partito deve trasformarsi in quella di pochepersone”. Per superare tali storture, il potere deve connet-tersi alla competenza e il sistema deve includere il principiodella “responsabilità individuale”. In questa prospettiva,“molte scelte devono essere decentrate, lasciate quindi alleimprese e alle forze sociali”. L’enfasi sulla necessità dimigliorare il sistema amministrativo e di prevedere forme diautocontrollo del potere stesso viene così a costituire il pre-supposto concettuale a partire da cui prende corpo l’idea diun’autonomia relativa delle imprese: “Il pensiero non vaseparato dall’interesse. Inizialmente, noi abbiamo trascura-to l’interesse (e le esigenze del mercato). L’impresa deveassumersi le sue responsabilità”.

Responsabilità individuale e contraddizioni di classe

Il punto è: fin dove è lecito che sussista tale autonomia?Ovviamente, nella risposta a tale interrogativo è incluso unaspetto dirimente: la condizione, il grado di tutela dellelavoratrici e dei lavoratori e il rispetto dei diritti del lavoro.Nel merito, alquanto istruttiva è stata la visita al YurunGroup, colosso privato dell’industria alimentare cinese, e icolloqui con la sua direzione aziendale. Yurun produce cibo(in particolare insaccati) per un miliardo e trecentocinquan-ta milioni di cinesi, esporta in Asia e Russia, con oltre 100unità produttive diffuse in tutto il Paese. Promuove l’inno-vazione e la standardizzazione di agricoltura e allevamento,ma è anche presente con 200 società di produzione e com-mercializzazione nei settori del commercio, del turismointernazionale, della costruzione di quartieri residenziali.Reddito atteso per il 2015: 8 milioni di dollari. La dirigenzaaziendale tiene a sottolineare la “responsabilità sociale” diYurun, il suo contributo nel contenimento dei prezzi pergeneri di consumo essenziali, nello sviluppo di aree internenon industrializzate, nel sistema educativo. Oltre ad essere“un’industria avanzata che produce cibo sicuro per ilmondo intero”. I dipendenti sono 110 mila e, da quando(abbastanza recentemente) si è decisa nazionalmente unapresenza del partito nelle imprese non pubbliche, sonofioccate le iscrizioni: lo scorso anno si sono iscritti al parti-to 4.120 persone. Il Presidente del gruppo è iscritto al par-tito, 6 membri su 7 del Consiglio di Amministrazione sonoiscritti al partito. C’è un sindacato interno che ha il compi-to di sanare i contrasti, di “armonizzare il rapporto traimpresa e lavoratori”, chiudendo le contrattazioni sul sala-rio: occorre “curare ad un tempo i livelli salariali e gli inte-

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ressi degli investitori”. L’obiettivo è di superare le contrad-dizioni: se il gruppo va bene, ciò è “nell’interesse dei lavo-ratori”.

In una precedente visita alla Zona di Sviluppo dell’Altae Nuova Tecnologia nella provincia di Hunan - prevalente-mente caratterizzata da aziende miste pubblico/privato -avevamo preso atto di livelli retributivi (3.000/4.000 yuan,ossia tra i 370 e i 500 euro) molto più alti della media pro-vinciale, con un orario giornaliero medio di 8 ore per 6giorni la settimana. Ci era stato altresì precisato che il sala-rio è misurato sulla base dell’ora di lavoro “o anche dellaquantità di lavoro” (dunque, anche sulla base di un cotti-mo). Nel corso della visita al gruppo privato Yurun, ci sonostati confermati i medesimi orari di lavoro e analoghi livel-li retributivi (al di sopra della media nazionale), con un chia-rimento aggiuntivo concernente il tipo di contratto d’as-sunzione: ogni anno l’impresa pesca dall’università 2 milalaureati, i quali firmano un contratto annuale per poi rinno-varlo (“se non vi sono problemi”) anno per anno. La reto-rica aziendalista e l’ideologia tecnologica profuse dai filma-ti che per l’occasione sono stati proiettati esprimono com-prensibilmente il tono di una fase “eroica” di sviluppo, macerto non possono occultare quello che noi, comunistieuropei, percepiamo – pur in un contesto territoriale e pro-duttivo “d’eccellenza” – come un dato materiale assai pro-blematico: è infatti evidente che, al di là delle sperequazio-ni che separano ancora il Paese rurale da quello toccatodalla “modernizzazione”, anche nel cuore della Cina“modernizzata” il rapporto di lavoro (caratterizzato dal-l’uso di contratti a termine e dal ricorso al cottimo) appareai nostri occhi più simile a quello di una società capitalisti-ca che non a quello di una società socialista realizzata.Una realtà in movimento

In proposito, è bene aggiungere un paio di osservazionisupplementari. In primo luogo, c’è un dato culturale chenon va omesso: la presenza avvolgente di un partito digoverno e la funzione “armonizzatrice” della parte sindaca-le fanno ovviamente problema per chi proviene da unmondo borghese segnato dalla lotta di classe e, per altroverso, da una cultura sensibile alla separazione dei poteri ealla dialettica conflittuale tra gli attori sociali. Ciò non vale(o vale molto meno) per chi è culturalmente abituato aragionare in generale secondo un approccio olistico, a guar-dare monisticamente all’equilibrio dello stesso organismosociale: “Se un organo si ammala, gli occidentali guardanoall’organo, noi guardiamo all’intero corpo”, diceva WangHua. L’espressione “società armoniosa” amplifica l’eco diuna storia millenaria, un senso stratificato che certamentesfugge alle orecchie di un occidentale: le parole “armonia”,“conflitto” suonano diversamente a seconda della culturain cui sono immerse. Ciò peraltro nulla toglie al fatto che,una volta attivate le cautele del linguaggio, si riconosca ildato sociale per quello che è e per i problemi che oggetti-vamente pone.

E’ necessario quindi, in secondo luogo, situare la que-stione nel quadro di un contesto sociale e politico che ècomunque in forte movimento. Mi spiego con un paio diesempi. La stampa occidentale ha dato spazio alla denunciadi abusi e violazioni verificatisi in fabbriche cinesi, situate inaree rurali interne (nella provincia del Guangdong), forni-trici di multinazionali che producono mascottes con il mar-

chio olimpico 2012: stipendi sotto il minimo stabilito perlegge, orario continuativo e senza pause al di sopra di quel-lo consentito, straordinario obbligatorio, sistemi di sicurez-za assenti o insufficienti. Oltre a casi di lavoro minorile. Neè nata un inchiesta e la vicenda è assurta alle pagine dellacronaca. Un’eco ancor maggiore ha avuto il caso dellaFoxconn, la cosiddetta “fabbrica dei suicidi”, produttrice diiPhone e iPad della Apple, dei prodotti di Dell, Hewlett-Packard, Motorola, Nokia e Sony, delle componenti del50% dei prodotti elettronici disponibili sul mercato. Adesser precisi, la Foxconn ha l’impresa madre nei pressi diTaipei, capitale di Taiwan – la Cina nazionalista – ma hafabbriche anche nel Sud della Cina popolare. Le insoppor-tabili condizioni lavorative, causa appunto in questi anni diuna sequela di suicidi, hanno fatto esplodere la protestaoperaia, riportata sulla stampa cinese e appoggiata dallostesso governo di Pechino. La lotta ha condotto ad unaccordo migliorativo delle condizioni di lavoro: esso preve-de che l’orario non superi le 49 ore a settimana (anche neiperiodi di “picco” e compresi gli straordinari), contro le 60ore attuali, nonchè l’assunzione di alcune migliaia di lavora-tori aggiuntivi. La vertenza, che riguarda una platea di unmilione e 200 mila lavoratrici e lavoratori, è destinata a inci-dere sul resto del lavoro industriale in Cina.

Sono esempi che testimoniano di una realtà in movi-mento, di una conflittualità sociale insorgente (e, in molticasi, vincente), nel contesto di una politica di governo che,davanti ai contraccolpi di una crisi sistemica planetaria, hagià stanziato ingenti risorse per la spesa sociale e ha confer-mato un indirizzo complessivo di politica economica cheprevede l’allargamento della domanda interna. Il paradosso(ma forse non è neanche tale) è che proprio tali orienta-menti sembrano preoccupare il business occidentale. Astorcere il naso per le misure migliorative delle condizionidi lavoro, varate dal governo cinese qualche mese fa, sonostate proprio le Camere di commercio dei Paesidell’Occidente. E, a quanto pare, la preoccupazione va oggiaumentando. Il 27 marzo scorso, a ridosso dell’arrivo inCina della nostra delegazione, il Business China Daily tito-lava in prima pagina: Le aziende Usa prevedono per la Cinauna crescita più lenta. Leggendo poi l’articolo, si scopre che- accanto alla percentuale più contenuta del Pil cinese (unconsistente 8%, comunque più basso delle abituali percen-tuali a due cifre) - a preoccupare i businessmen statuniten-si sono “i costi operativi crescenti”. Secondo un sondaggiocondotto dalla Camera di Commercio Americana tra leprincipali multinazionali Usa presenti in Cina, per il 40%degli intervistati a mettere sotto pressione i margini di pro-fitto sono “l’inflazione salariale e le nuove misure per lasicurezza sociale che hanno significativamente spinto inalto i costi operativi”. L’80% degli intervistati ritiene che “icosti crescenti ostacolano il loro business” e il 90% pensache tali aumenti “diminuiranno la forza competitiva dellaCina”.

Per concludere

Queste ultime osservazioni dovrebbero indurre chi pro-viene dal mondo occidentale capitalistico (sinistre e comu-nisti compresi) a riflettere bene, prima di impartire lezioni:in particolare, meditando sulla nostra capacità di ottenereconcreti e tangibili risultati in direzione di una profonda

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trasformazione della società esistente. Come dire: ciascunofaccia la sua parte per rendere più giusto un mondo che,come ci è stato a più riprese ripetuto, è oggi molto piùinterconnesso di ieri. Peraltro, abbiamo avuto modo didiscutere rappresentando senza diplomazie il nostro puntodi vista: ad esempio contrastando in radice gli orientamen-ti neoliberisti, chiamati in causa da precise domande diesponenti del Dipartimento Internazionale a proposito delpeso finanziario e della sostenibilità dello stato socialeeuropeo. In merito, abbiamo esplicitato quello su cui Montie Marchionne tendono a glissare: se i debiti pubblici deiPaesi europei si presentano fortemente appesantiti, ciòdipende in grande misura dall’enorme esborso finanziariodi cui è stato gratificato il nostro sistema bancario conti-nentale (negli ultimi tre anni, attorno ai 4.500 miliardi dieuro). Il capitalismo ha generato la crisi e le misure adotta-te (in sede europea e in Italia) per provare ad uscirne nonfanno in realtà che alimentarla ulteriormente.Evidentemente, le politiche sociali e del lavoro hanno costi-tuito e continuano a costituire un tema assai delicato ancheper i nostri interlocutori cinesi: tema che senza dubbio avràampio spazio nel loro imminente dibattito congressuale.

Come anche questo cambio di secolo ha ampiamentedimostrato, la storia non è lineare e non offre nulla digarantito una volta per tutte. In questo senso, l’esito del-l’esperienza di questo grande Paese e, nello specifico, irisultati del congresso del PCC mantengono un’importan-za decisiva non solo per la Cina stessa, ma anche per noi eper il resto del mondo. Posto che in quest’ultimo troviancora qualcosa da dire una prospettiva socialista e comu-nista.

da “Essere Comunisti”

***

Giancarlo SaccomanPCC A CONGRESSO: QUALE CAMBIAMENTO

A due giorni di distanza l’uno dall’altro si sono svolti dueeventi decisivi per il futuro dell’economia, della politica edella pace dell’intero pianeta per i prossimi decenni. Il 6novembre si sono tenute le elezioni presidenziali negli StatiUniti, la prima potenza economica, politica e militare mon-diale, e l’8 novembre si è aperto il 18° Congresso del PCC,per decidere il ricambio decennale del gruppo dirigente chegoverna il paese di gran lunga più popolato del mondo, conoltre un miliardo e trecento milioni di abitanti e oltre 750milioni di lavoratori, che è attualmente la seconda econo-mia mondiale ma è in procinto di diventare la prima.

Pur non coinvolgendoci direttamente nelle scelte, questidue avvenimenti, che si svolgono in un contesto economi-co mondiale particolarmente difficile, avranno sulla nostravita un’influenza di gran lunga superiore rispetto a ciò chesiamo chiamati a decidere con le nostre elezioni politiche.

In ambo i casi il livello dello scontro è molto più asproche in analoghe scadenze del recente passato, perché, afronte delle difficoltà della situazione, si sono confrontatedue ipotesi radicalmente diverse e assai più contrapposte,che riguardano la scelta fra un neoliberismo selvaggio easociale e un modello di capitalismo più attento alle esigen-

ze sociali e al contenimento delle diseguaglianze. E’ questoè il vero confine che definisce il terreno dello scontro poli-tico attuale. Anche le differenze legate al ruolo dello statonell’economia si vanno attenuando, dato il successo deimodelli più dirigisti e interventisti che ha segnato, per tutti,la prevedibile direzione futura. Pur essendo un fattoremolto importante, il ruolo dello stato non è quello decisivoper caratterizzare la tendenza, quel che importa è la suafinalità: in varia misura sono stati infatti dirigisti e regimistatalisti di tendenze radicalmente opposte, come fascismoe nazismo, il cosiddetto “socialismo reale”, le socialdemo-crazie e tutti i paesi asiatici; anche negli Stati Uniti, sia purein forma diversa, attraverso le ingenti commesse militari, lostato interviene massicciamente nello sviluppo tecnologicoed economico del paese.

Tanto negli Stati Uniti che in Cina l’esito dello scontropotrebbe aprire una situazione di incertezza e di lacerazio-ne permanente. Negli Stati Uniti resta la sfasatura fra il pre-sidente eletto e la maggioranza repubblicana alla Camera,che presenta oltretutto caratteri di elevata problematicità invista d’una scadenza, come il “baratro fiscale” di fine anno,che potrebbe determinare un blocco dell’attività del gover-no e che, per essere superato, richiederebbe una decisionecomune di governo e opposizione, che, proprio su questoargomento, trovano invece la loro più accanita contrappo-sizione, non solo politica, ma anche culturale e ideologica.

La situazione economica e sociale

Nonostante la crisi statunitense prosegue quel G 2 difatto, ovvero quello strano condominio conflittuale delpotere economico mondiale che unisce Stati Uniti e Cina, evede, accanto ad una complementarità economica e finan-ziaria, un continuo attrito delle reciproche sfere d’influen-za, specie nel Mar cinese meridionale, dove, accanto al pro-blema delle alleanze statunitensi (Corea, Giappone, Taiwane Filippine), si gioca il controllo delle ricche risorse deinumerosi arcipelaghi disabitati, che nuotano su un mare dipetrolio e sono contese da tutti gli stati confinanti, Vietnamcompreso.

La Cina ha risentito in misura assai minore dell’occiden-te della crisi economica, ma ha registrato anch’essa unariduzione del Pil, sceso al 7,5%, il livello più basso da ven-tidue anni, che, pur essendo un valore astronomico per leeconomie occidentali, risulta inferiore a quella soglia mini-ma che, a giudizio dei dirigenti cinesi, è indispensabile perevitare una deflagrazione del sistema, in particolare rispet-to al settore delle costruzioni e del credito, formalmenteprivatizzato ma in realtà solidamente controllato dallo statoe il rischio d’una frammentazione, economica ma anchepolitica, delle diverse regioni, divise non solo da enormidisparità economiche, specie fra la costa e l’interno, maanche dal tipo di economia (industriale-finanziaria o agrico-la) e dalla presenza di forti minoranze etniche, soprattuttonella parte interna del paese. La sfida più importante per leautorità cinesi è quella di riconvertire l’economia sviluppan-do il mercato interno, per sopperire al deficit di esportazio-ni determinato dalla crisi in occidente, ma ciò porrà fine aquel fattore di contenimento dell’inflazione mondiale rap-presentato proprio dal basso prezzo della produzione cine-se e determinerà una più forte spinta alla delocalizzazione

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delle imprese straniere, ma anche delle multinazionali cine-si. L’ulteriore forte crescita economica cinese, che potreb-be essere determinata dallo sviluppo dei consumi interni,incontra un altro ostacolo nella limitatezza delle risorseenergetiche e minerarie, che vengono accaparrate dallaCina in tutto il mondo, ma che presentano limiti importan-ti nella loro disponibilità a livello globale. Nel contempo,mentre decentra le produzioni a basso costo nei paesi delsudest asiatico, la Cina sta rapidamente crescendo nelleproduzioni tecnologiche d’avanguardia nei settori ad altatecnologia, verso cui rivolge una massa crescente di investi-menti e in cui occupa quasi un milione di ricercatori: ciò èanche testimoniato dall’intenzione di mandare una missio-ne umana sulla Luna, che, oltre a testimoniare il suo livellodi eccellenza tecnologica, è una prova evidente del suopotenziale militare, su cui investe somme ingenti.

Un’altra sfida gigantesca è data dal deterioramentoambientale, con scarsità di acqua potabile e, soprattutto, diterreni agricoli, di cui la Cina sta facendo incetta in partico-lare in Africa, e che ha sollecitato le autorità cinesi a predi-sporre un piano di trasferimento di trecento milioni di per-sone dalla costa verso l’interno, ma ciò è ostacolato sia dafattori geografici (si tratta spesso di aree desertiche o mon-tagnose) e demografici (sono abitati da minoranze etniche,che lotteranno per non essere sopraffatte).

Le politiche statali di sostegno del ceto medio e riccohanno creato, accanto a circa 300 milioni di personeabbienti, un esercito di oltre 80 milioni di ricchi, particolar-mente interessati a ostentare la propria ricchezza con benidi lusso, dall’oreficeria alla moda e persino agli elicotteri eagli yacht, ma soprattutto alle auto di alta gamma, per lo piùtedesche, contribuendo in tal modo alla crescita dell’econo-mia tedesca.

Esiste anche un rilevante problema demografico. Inassenza di un regime previdenziale pubblico, il sistema diwelfare tradizionale legava la condizione di vita anziana alnumero dei figli, destinati in gran parte a non raggiungerel’età adulta, ma il miglioramento del sistema sanitario edelle condizioni di vita aveva determinato una crescitaesplosiva della popolazione cinese, raddoppiata in 25 anni.Per frenarla, Deng aveva adottato, nel ’79, la regola del“figlio unico”, che riguarda oggi i due terzi della famiglie,mentre agli altri (contadini, ceti urbani abbienti, famigliecon figli disabili o con primogenito femmina) è consentitodi avere due figli e le minoranze (1,6%) non hanno alcunlimite. Ciò ha causato una riduzione della crescita di alme-no 400 milioni di nascite, oltre ad incentivare l’infanticidiofemminile – già praticato da millenni, per cui, a differenzadel resto del mondo, il numero dei maschi supera abbon-dantemente quello delle femmine – e a creare una vastapopolazione ufficialmente inesistente, clandestina e senzadiritti; ma ha determinato anche un forte invecchiamentodella popolazione, con la piramide rovesciata del “4.2.1”,ovvero quattro nonni, due genitori e un figlio, difficilmen-te sostenibile, dato che, oltretutto, i giovani delle aree rura-li emigrano in massa, come clandestini, verso le smisurateperiferie cittadine, interrompendo i legami familiari e ren-dendo sempre più drammatico il problema della previden-za e dell’assistenza agli anziani, in una situazione in cuil’aspettativa di vita media è salita, dopo la rivoluzione, dai

50 ai 70 anni, per cui il governo pensa a innalzare l’età pen-sionabile che è oggi fra le più basse del mondo (per ledonne è a 55 anni nell’industria e a 55 anni nel pubblicoimpiego).

Un altro aspetto particolarmente problematico riguardail mercato del lavoro: come ha spiegato Jin Weimin, mini-stro delle risorse umane e della sicurezza sociale, esistonooggi solo 100 offerte di lavoro a fronte di 108 domande eciò definisce un “mercato del venditore” di forza lavoroche rafforza la capacità contrattuale dei lavoratori, che pre-mono per aumenti salariali e miglioramenti delle condizio-ni di lavoro, con importanti effetti sull’economia comples-siva. La manodopera femminile, ormai molto scarsa, diser-ta le fabbriche, privilegiando l’impiego pubblico (la “cioto-la d’oro”, che garantisce stabilità d’impiego), e le più dan-neggiate dalla scarsità di manodopera sono le imprese aminor valore aggiunto, che hanno maggiori difficoltà adaumentare i salari, ciò che determina una spinta alla lorodelocalizzazione e ad una riqualificazione della matrice pro-duttiva cinese verso produzioni tecnologiche a maggiorvalore aggiunto.

Per tutto questo il governo sta pensando di abolire laregola del “figlio unico”, avviando preliminarmente unasperimentazione in cinque province, da estendere poi all’in-tero paese, ma ciò porterebbe, prima di giungere ad unastabilizzazione, ad una vera e propria esplosione demogra-fica, con una conseguente deflagrazione sociale.

I riti della politica cinese

Un aspetto peculiare che influenza profondamente lavita politica cinese è dato dal fatto che i dirigenti possonorestare in carica solo per due mandati quinquennali e i con-gressi, effettuati con cadenza decennale, vedono perciò unricambio complessivo del gruppo dirigente, rinnovato peroltre il 70%, per cui rappresentano un punto di svolta deci-sivo, in vista del quale avviene un durissimo scontro fra lavarie fazioni e nel vecchio gruppo dirigente, che intendeassicurarsi, attraverso la promozione di esponenti amici,non solo la continuità della linea politica, ma anche un ripa-ro da eventuali incriminazioni giudiziarie. Per questo nor-malmente gli avvicendamenti non solo eleggono i nuovidirigenti ma predispongono, nella funzione di “vice”,anche quelli della tornata successiva,. Quelli precedentirimangono comunque esposti alle vicissitudini dello scon-tro politico, cercano di influenzare la composizione delComitato permanente, di dirigerne ancora le scelte da die-tro le quinte, per interposta persona, anche dopo la scaden-za del proprio mandato. Per questo Deng ha esercitato ilsuo dominio politico come presidente del ComitatoMilitare Centrale, ovvero il comando delle forze armate, eJiang Zemin ha mantenuto tale carica anche dopo l’uscitadal Comitato permanente, per altri due anni.

Dato che comportano un fortissimo ricambio, taloraanche oltre il 70%, della composizione dei gruppi dirigen-ti, i congressi sono spesso caratterizzati da forti conflitti ediscontinuità e scandiscono, a tutti i livelli, un vero e pro-prio passaggio con grandi svolte strategiche e drastichein¬versioni di rotta: ma è stata sempre ribadita una pretesacontinuità con l’operato del Grande Timoniere, spiegando

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le svolte attraverso una teoria evolutiva dell’avvicendamen-to delle “genera¬zioni”, che scandiscono i cicli decennalidella storia cinese, che chiudono un’epoca e ne inizianoun’altra sulla base dei diversi compiti da svolgere rispettoalle trasformazioni intervenute: la prima di Mao, la secon-da di Deng Xiaoping, la terza di Jang Ze¬min, la quarta diHi Jintao e la quinta, che inizia adesso, di Xi Jinping.

Cambia anche la composizione sociale: già la quartagenerazione, entrata nel 2002, era composta da dirigentinati dopo la rivoluzione del ‘49, cresciuti in un partito cheancora inneggiava all’uguaglianza e alla dittatura del prole-tariato e costituita da ingegneri e tecnici, dirigenti di impre-se e istituzioni finanziarie pubbliche, membri dell’esercito eresponsabili politici regionali, mentre la quinta generazione,nata dopo la seconda guerra mondiale, che ha studiato nellemigliori università cavalcando il boom economico, è forma-ta più da uomini d’affari e della finanza, im¬prenditori emanager provenienti dalle imprese private e un ruolo sem-pre più rilevante viene assunto dalle reti di istituti di ricerca

affiliati alle istituzioni governative (i cosiddetti think tank).Al di là delle forme singolari che assume, lo scontro avvie-ne su linee politiche di classe contrapposte e profondamen-te antagoniste fra loro, ma, data la struttura peculiare delpotere in Cina, che risiede in un ristretto vertice del partito,lo scontro non è generalmente avvenuto sulla base di undibattito aperto ma a porte chiuse, nei vertici del partito, edè stato reso pubblico in modo mistificato, attraverso loscoppio di scandali e colpi di scena, come è già avvenutocon la morte di Lin Biao. Mao aveva cercato di riportare loscontro a livello di massa con la Rivoluzione culturale, cheperò viene ora additata come esempio di una catastrofe daevitare in qualsiasi modo.

Le fratture sociali e politiche della Cina odierna

Dopo la vittoria della rivoluzione, nel ’49, Mao aveva tra-sformato l’economia cinese, fino ad allora fondata sullapiccola proprietà contadina, in una economia pianificata,con la collettivizzazione dell’economia rurale e lo sviluppo

ISTITUZIONI E PARTITO IN CINAAssemblea nazionale del popolo

L’ Assemblea Nazionale del Popolo (ANP), altrimenti definita Congresso Nazionale del Popolo (CNP), è la camera legislativa cine-se, a cui è affidata anche la revisione della Costituzione. Essa viene eletta ogni cinque anni.Vi sono presenti nove partiti e degli indipendenti. Le candidature dei partiti e degli indipendenti devono essere presentate da strut-ture amministrative locali.Ha il compito di eleggere il Consiglio di Stato della Repubblica e il Primo Ministro, la Commissione Militare Centrale dellaRepubblica, il Presidente della Corte Suprema del Popolo, il Procuratore Generale della Repubblica, il Comitato Permanentedell’ANP. Tiene una riunione annuale di due settimane, in contemporanea con la Conferenza Consultiva del Popolo Cinese.

Partito Comunista Cinese

Il Congresso Nazionale viene tenuto ogni cinque anni ed elegge il Comitato Centrale. Il Congresso recente è il XVIII dalla rivolu-zione e ha visto la presenza di 2.270 delegati. Viene eletto in modo indiretto attraverso le rappresentanze municipali, provinciali eregionali elette localmente.Elegge il Comitato Centrale (altrimenti definito Consiglio di Stato), il Presidente (che ricopre anche la carica di Segretario del PCC)e il Primo Ministro. Le cariche elettive hanno un mandato di durata quinquennale e possono essere confermate una sola volta. Il presidente ha unmandato decennale. Ciò comporta un notevole rinnovamento delle strutture e dunque dei cambiamenti di linea che vengono defi-niti col termine di “generazioni”: quella attuale è la quinta. Il Comitato Centrale è la più alta autorità del PCC nel periodo fra due congressi. È composto attualmente da 370 membri, di cui200 membri e 170 supplenti. È costituito da tutti i più alti dirigenti del Partito, dello Stato e dell’esercito. Le spinte alla democratiz-zazione interna al partito tendono a conferire un maggior potere al Comitato Centrale, che presenta una dialettica di posizioni poli-tiche interne più ricca di quella rappresentata nelle istanze superiori. Presenta una struttura articolata, con cinque organi e numerosi altre strutture (Dipartimenti funzionali, Commissioni, Uffici di ricer-ca, Scuola di Partito, Archivi centrali) e possiede due organi di stampa Gli organi del Comitato Centrale sono: il Segretario Generale, l’Ufficio Politico, il Comitato Permanente, il Segretariato, laCommissione Militare Centrale del Partito. L’Ufficio Politico del Comitato Centrale ha il compito di supervisionare e controllare l’attività del partito. La sua importanza derivadal fatto che tutti i suoi membri occupano simultaneamente molteplici posizioni nelle cariche politiche e amministrative dellaRepubblica Popolare Cinese. A differenza di quanto è avvenuto negli altri partiti comunisti, non è la struttura che detiene il mag-gior potere, che è invece concentrato nel Comitato Permanente. È composto da 25 membri.Il Comitato Permanente dell’Ufficio Politico del Comitato Centrale è la vera struttura di governo della Cina ed esercita il controllosu ogni atto amministrativo, legale ed esecutivo. È composto da un numero variabile di membri, da cinque a nove, definito sullabase degli equilibri di potere fra le diverse fazioni presenti nel partito. Resta in carica per cinque anniIl Segretariato è la struttura amministrativa che sovrintende ai dipartimenti e ai gruppi di lavoro. È composto da sei membri.La Commissione Militare Centrale (CMC) del Partito comanda le forze armate ed è composta da 12 membri. Il suo presidentecoincide di norma con il Segretario del partito che è anche Presidente della Repubblica. Tale avvicendamento però non semprecoincide con l’elezione alla carica di Segretario del partito: dato che si tratta d’una carica di grande rilevanza, c’è stata in passa-to una sfasatura determinata dal fatto che il Segretario uscente intendeva assicurare una continuità della sua politica anche con-dizionando le scelte del nuovo Segretario. Deng ha mantenuto solo questa carica per molti anni, riuscendo a destituire ben duevolte i Segretari del partito che aveva lui stesso imposto, perché s’erano rifiutati di avallare la repressione di piazza Tian’anmen,ma proprio a causa di tale repressione ha dovuto alla fine dimettersi. Jiang Zemin ha conservato tale carica per due anni dopo lasua uscita dalla carica di Segretario. Esistono due CMC, quella del partito e quella della repubblica, che però coincidono: viene eletta quella del partito e gli stessi mem-bri sono confermati anche in quella della repubblica. Nelle ipotesi di riforma è presente la “nazionalizzazione” della CMC, ovverola soppressione della CMC del partito. La Commissione Centrale per le Ispezioni Disciplinari è la corte disciplinare interna del partito, composta da 127 membri.

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di un sistema industriale di proprietà pubblica. A seguitodel fallimento, causato da un’eccessiva accelerazione delleriforme, del Primo piano quinquennale e del “grande balzoin avanti”, che aveva causato una carestia con migliaia dimorti, Deng Xiaoping e Liu Shaoqi avevano avviato la linea“riformista” del “riaggiustamento economico” (in realtà sitrattava d’una vera e propria “controriforma”) e, pur nonosando eliminare Mao Zedong, che godeva ancora di unagrande popolarità, avevano deciso di privarlo del poterereale, lasciandogli solo un ruolo simbolico.

Mao aveva reagito portando lo scontro “fra due linee” alivello di massa, attaccando il “revisionismo” e creando, nel’62, il “Mes” (Movimento di educazione socialista), persostenere le rivendicazioni dei contadini poveri e contrasta-re corruzione, spreco e speculazione, denunciando iresponsabili del partito che “stava prendendo la via delcapitalismo”. Poi, con l’appoggio dell’esercito, ha dato il viaalla Grande Rivoluzione Culturale Proletaria delle “guardierosse”, iniziata nel ’66 e sfociata nell’allontanamento diDeng, riammesso nel ’72. Nasceva allora quello scontro fradue fazioni che continua tuttora, sia pure in forma diversae meno palese. La sinistra, capeggiata dai maoisti di quellache è stata poi definita la “Banda dei quattro”, intendevaproseguire nella mobilitazione delle masse rivoluzionarie insenso autogestionario, mentre la destra era composta dadue gruppi: quello di Hua Guofeng, che intendeva pro-muovere una pianificazione centralizzata di stile sovietico, equella di Deng che intendeva invece impostare una svoltaverso l’economia di mercato, riducendo il ruolo dell’ideolo-gia nella determinazione delle regole politiche ed economi-che (“non importa che il gatto sia bianco o nero, ma cheriesca a catturare il topo”).

Dopo la morte di Mao nel '77 e data la vittoria dei “rifor-misti” nel Congresso del ‘78 gli era succeduto HuaGuofeng, che aveva dichiarato conclusa la Rivoluzione cul-turale e decapitato la sinistra, con la condanna della “Bandadei quattro”, accusata di preparare un colpo di stato. Dopola fine della Rivoluzione culturale, la lotta fra le due linee èperò sempre avvenuta a porte chiuse, nei vertici del partito,senza un coinvolgimento delle masse, per esorcizzare irischi di una loro mobilitazione, ritenuta pericolosa.

Nell’81 Deng dalla sua carica di presidente dellaCommissione Militare Centrale aveva estromesso Hua eassunto il controllo dell’intero partito, criticando aspramen-te Mao e la Rivoluzione culturale, espellendo dal partitocirca 60.000 oppositori maoisti. Aveva poi avviato una svol-ta drastica della politica economica, indirizzando la Cinaverso l’economia capitalistica attraverso le “quattro moder-nizzazioni” (agricoltura, industria, scienze e difesa), sullabase di una “economia sociale di mercato” con un “doppioregime” che assegna un ruolo crescente all’impresa privata,orientata all’esportazione e controllata da un forte dirigi-smo statale sotto la guida politica del partito. Questa politi-ca è stata poi inserita nella Costituzione con il nome di“socialismo con caratteristiche cinesi”, che viene comune-mente definito il “pensiero di Deng”.

Il “nuovo corso” denghista ha smantellato le comuniagricole, privatizzato le imprese pubbliche attive e chiusoquelle in deficit, evitando gli investimenti necessari al lororinnovamento, promosso la nascita delle imprese private,

l’istituzione e il rapido sviluppo delle “Zes” (Zone econo-miche spe¬ciali) ad economia di mercato, sostanzialmentecapitaliste, la più importante delle quali era Shenzen, con lasperanza di farne delle piccole Hong Kong caratterizzatedalla “porta aperta” nei confronti delle imprese multinazio-nali, con la repressione dei conflitti e delle tutele del lavoroe in una situazione di supersfruttamento, con bassi salari equel “regime di fabbrica” che caratterizza le “fabbriche-caserma” (dove cioè i lavoratori lavorano dieci ore al gior-no a ritmi massacranti e dormono in una fabbrica da dovenon escono mai), come il famoso esempio della Foxconn,che lavora per le grandi imprese mondiali di elettronica conoltre un milione di addetti (compresi minorenni e studentiche sono stati illegalmente forzati a lavorarvi) e che ora stadelocalizzando in Indocina, Brasile e persino negli StatiUniti.

La “modernizzazione” economica introdotta da Dengha liberato gli “spiriti animali” del capitalismo sulla basedello slogan “arricchirsi è glorioso”, favorendo una cresci-ta impetuosa dell’economia cinese a tassi annui superiori al9%, ma ha creato nel contempo una forte pressione infla-zionistica (27,6% nel ‘94) e ha fatto esplodere il mercatonero e una corruzione dilagante, mentre la liberalizzazionedel lavoro a termine e la forte riduzione degli addetti pro-dotta dalle ristrutturazioni, in assenza di qualsiasi ammor-tizzatore sociale, ha moltiplicato i disoccupati. Assieme al“welfare” pubblico, già molto carente, ha smantellato anchequel sistema tradizionale di protezione sociale, sostenutogiuridicamente, fondato sulla comunità familiare allargata, eciò ha determinato un indubbio sviluppo economico ma haanche trasformato il paese che, nel periodo maoista era ilpiù egualitario del mondo, nel paese più diseguale, come hariconosciuto lo stesso governo cinese in una sua dichiara-zione ufficiale del marzo 2010, in cui si rilevava come ladiseguaglianza fra ricchi e poveri avesse raggiunto il livellopiù elevato degli ultimi trent’anni. Le fratture riguardano ilrapporto fra le zone costiere e l’interno, ma soprattuttoquello fra città e campagna, perché il sistema degli“hokou”, ovvero del diritto di residenza nelle aree urbane,ha determinato, nel contesto della più grande migrazionedella storia umana, un gigantesco esercito di riserva dimanodopera immigrata nelle periferie cittadine fatto dilavoratori “clandestini ufficiali”, per una sorta di “apar-theid” che li priva della cittadinanza e perciò determinaun’enorme diseguaglianza nei salari, che vanno dai 130 dol-lari per gli immigrati ai 5 – 10 mila dollari per i “cittadini”in possesso dell’hokou, e che li esclude dalla protezionesociale (in particolare dall’assistenza sanitaria), dalla fruizio-ne dei servizi e da qualsiasi tutela nel lavoro. Tutto ciò haprodotto una maggiore povertà e disoccupazione e fattocrescere il crimine organizzato.

Questi sono i motivi che hanno determinato la nascita diuna opposizione, bollata da Deng col nome di “Banda deivecchi”, e un pesante malessere sociale, sfociato, nel dicem-bre dell’86, nella “primavera di Pechino” di PiazzaTian’anmen, duramente repressa con l’uso della forza, macontinuata per anni, fino al brutale massacro del 4 giugno’89, giustificato con la salvaguardia della stabilità del paese.Deng aveva rimosso un suo fedele collaboratore, HuYaobang, dalla carica di Segretario generale perché si erarifiutato di condannare la manifestazione dell’86, appog-

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giandone invece le richieste, e l’aveva sostituito con ZhaoZiyang, che aveva continuato sulla strada della liberalizza-zione economica, accompagnata all’autoritarismo politico,giungendo ad una totale liberalizzazione dei prezzi cheaveva scatenato l’accaparramento e la speculazione. MaDeng aveva poi rimosso anche Zhao, il 18 giugno ’89, peraver appoggiato i rivoltosi opponendosi alla repressione,sostituendolo con Jiang Zemin. Ma, di fatto, la repressionedi Tian’anmen ha segnato la fine di qualsiasi ruolo pubbli-co di Deng, che è stato costretto a dimettersi dalla carica dipresidente della Cmc.

Jiang Zemin, esponente della “terza generazione” eprimo segretario di partito che non ha vissuto il periododella rivoluzione, ha però continuato la sua politica, soste-nendo una modernizzazione selvaggia, definendo il settoreprivato come una “componente fondamentale dell’econo-mia”, sostenendo la necessità di introdurre forme di capi-talismo in Cina attraverso le riforme economiche, accen-tuando l’apertura alle multinazionali straniere e al liberomercato. Ha anche affermato l’intangibilità di tre principi:le riforme di mercato per la promozione dell’iniziativa pri-vata e l’apertura verso l’estero, la sintesi tra pianificazioneed economia di mercato e le Zone economiche speciali. Haelaborato anche la teoria delle “tre rappresentanze”, dive-nuta il “pensiero di Jiang”, inserita nello Statuto del partitoe poi nella Costituzione (secondo la quale il Pcc deve rap-presentare le forze produttive più avanzate del paese, darevoce agli orientamenti culturali più avanzati e garantire gliinteressi dei più ampi strati della popolazione), che ha con-sentito l’ingresso nel partito anche dei capitalisti privati. Haanche coniato il termine di “socialismo di mercato”, conce-pendolo come un passo in avanti rispetto alla teoria del“socialismo con caratteristiche cinesi” di Deng. I maoistihanno accusato Jiang di aver continuato a condurre la Cinaverso il ritorno del capitalismo. Con l’ingresso nell’Omc,nel ‘99 sono cadute tutte le barriere commerciali che pote-vano ostacolare la piena affermazione della Cina come“fabbrica del mondo”.

La politica di Jiang ha portato a sempre nuovi e più acutisquilibri sociali. Questa situazione, assieme ai gravissimiproblemi ambientali e del sistema sanitario, formalmentepubblico ma di fatto interamente privatizzato, sta all’origi-ne di una vera e propria esplosione di rivolte e conflittisociali, definiti “incidenti di massa”, che ha caratterizzatogli ultimi anni e sta rapidamente crescendo ad un ritmoimpressionante proprio in questi ultimi mesi, mettendo inpericolo la stabilità sociale del paese, perché le nuove gene-razioni che giungono al lavoro, più istruite ed esigenti, nonsolo aspirano ad un lavoro meglio retribuito, ma sonoanche consapevoli dei propri diritti e non accettano le con-dizioni di supersfruttamento. Sono aumentati anche i con-flitti rispetto all’enorme inquinamento ambientale e lerivolte delle minoranze nazionali, sottoposte a un fenome-no di snazionalizzazione attraverso una massiccia immigra-zione di popolazione Han e duramente represse. Proprio acausa di questa situazione di forte conflittualità sociale, cheha determinato anche consistenti aumenti salariali, molteimprese straniere hanno deciso di trasferirsi in altri paesi,specie in Indocina, caratterizzati da livelli salariali assai infe-riori e da una minore conflittualità. Proprio sotto la gestio-ne di Jiang s’è andata meglio definendo la composizione

sociale e politica degli schieramenti in campo. La fazione diJiang Zemin e dell’ex vicepresidente Zeng Quinghong ècomposta dal “braccio destro” dei “principini” e dal “brac-cio sinistro” della “Banda di Shanghai”. Il gruppo dei“principini rossi” (altrimenti definito come il “Partito deiprincipi della corona”), che si definiscono “riformisti”, èuna sorta di aristocrazia ereditaria costituita dai discenden-ti dei notabili del partito (gli otto eroi della rivoluzione e idirigenti dell’era di Deng), che tendono a comportarsicome una “casta” privilegiata, una vera e propria aristocra-zia ereditaria, sposandosi anche fra loro e riunendosi perio-dicamente. Sono i più inclini ad affrettare il passaggio allibero mercato, orientato alle esportazioni, e sono general-mente espressione delle regioni costiere, molto più avanza-te del resto del paese, che chiedono liberalizzazioni piùspregiudicate, senza preoccuparsi di aumentare le disegua-glianze sociali e di lasciare indietro il resto del paese.Occupano generalmente posizioni dirigenti nel partito,nelle imprese e nella finanza. Anche il nuovo presidente XiJinping è un “principino”, ma si ispira alla tendenza della“nuova democrazia”, che propugna la modernizzazioneeconomica e una trasformazione “democratica” in sensopluripartitico. La “banda di Shanghai”è formata da dirigen-ti di Shanghai orientati anch’essi verso una accentuazionedelle scelte economiche liberiste, ma in un contesto di rigi-do controllo del partito e di mantenimento delle grandiimprese pubbliche, e si autodefiniscono “conservatori”. Adessi si sono opposti i “tuanpai”, ovvero i dirigenti che pro-vengono dalla Lega della Gioventù Comunista, guidati daHu Jintao, che, pur accettando l’eredità di Deng cercano direcuperare le idee maoiste, e che costituiscono la corrente“populista” (non nel senso di populismo in italiano, signifi-ca piuttosto “popolare”). Sono presenti nelle strutture delpartito, nelle imprese pubbliche (Soe, State OwnerEnterprises) e nell’esercito e propongono politiche di unamaggiore uguaglianza sociale, l’estensione di previdenza esanità universalistiche, superando così le profonde differen-ze attualmente esistenti fra città e campagna (con l’abolizio-ne dell’hukou) e fra le ricche regioni costiere e quelle pove-re dell’interno.

Jiang Zemin s’è preoccupato di garantire alla propriafazione il controllo del partito anche dopo il suo ritiro e hamantenuto la carica di presidente del Cmc per altri dueanni, ha allargato il Comitato Permanente del Politburo dasette a nove membri, per assicurarsi la maggioranza, e hacambiato le sue regole, per cui, anziché obbedire alSegretario generale il Comitato deve operare avendolocome “primus inter pares” e sulla base di un consenso una-nime; aveva poi collocato persone a lui vicine, prima LuoGang e poi Zhou Yongkang, a capo del Plac (il Comitatoper gli Affari Politici e Legislativi), una struttura checomanda sulla Polizia Armata del Popolo, 1,5 milioni dimembri, sulla Pubblica Sicurezza, sull’apparato giudiziario,sui campi di lavoro e su tutte le reti di sorveglianza.

A partire dal 2002 è stata avviata la successione, lascian-do il potere alla “quarta generazione”, guidata da Hu Jintao,leader dei “tuanpai”, ma Jiang Zemin ha mantenuto la cari-ca di presidente del Cmc fino al 2005, per dare continuitàall’influenza della propria fazione. Hu s’è preoccupato diridurre le diseguaglianze fra città e campagna e di estende-re la protezione sociale, sostenendo uno sviluppo economi-

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co che si preoccupa di come “dividere la torta”, ovvero diuna maggiore uguaglianza, della coesione sociale e delbenessere della popolazione, attraverso le parole d’ordinedello “sviluppo scientifico” e della “società armoniosa” eproponendo:

- lo sviluppo del welfare e delle infrastrutture;- un rafforzamento dei controlli e delle garanzia nel lavo-

ro industriale, assicurando il pieno e tempestivo pagamen-to delle retribuzioni e costruendo un sistema di arbitratoper le dispute nei luoghi di lavoro;

- un miglioramento ed una più equa distribuzione deiservizi e beni pubblici (sanità, istruzione, ambiente, sicurez-za);

- un miglioramento delle condizioni delle aree rurali e untendenziale superamento dell’hukou.

Jiang Zemin aveva sostenuto invece la candidatura di BoXilai, un “principino” che faceva parte della sua fazione,ma aveva poi dovuto accettare la nomina di Hu, cercandoperò di condizionarne l’operato conquistando la maggio-ranza del Comitato Permanente, inserendovi esponentidella propria fazione. Ne è nato un conflitto che ha condi-zionato l’operato della gestione decennale di Hu. In essoHu ha cercato di consolidare il proprio potere, riducendol’influenza del suo predecessore, usando l’argomento dellalotta alla corruzione per rimuovere da capo del partito diShanghai Chen Liangyu, alleato di Jiang, perché aveva uti-lizzo i fondi pensione e i proventi delle privatizzazioni perarricchire il proprio patrimonio personale. Hu era così riu-scito a indebolire la “banda di Shanghai”, roccaforte diJiang, ma la lotta s’è via via più accentuata, senza esclusio-ne di colpi, in vista del 18° congresso, rispetto alla scelta deidirigenti della “quinta generazione”, con una virulenza chenon s’era più vista dopo la Rivoluzione Culturale.

Verso il 18° Congresso

Lo scontro di potere, usualmente circoscritto a unristretto vertice del partito, non avviene in Cina sulla basedi un dibattito aperto sulle linee politiche di classe che siconfrontano, ma viene spostato e mistificato attraverso loscoppio di scandali e colpi di scena, come è già avvenutocon la morte di Lin Biao. Mao aveva cercato di riportare loscontro a livello di massa con la Rivoluzione culturale, cheviene ora additata come esempio di una catastrofe da evita-re in qualsiasi modo. Negli ultimi tempi lo scontro si è svi-luppato nell’ambito del palazzo, attraverso reciprochedenunce di corruzione, utilizzando anche la grande stampainternazionale, a cui sono stati recapitati voluminosi “dos-sier” relativi agli illeciti arricchimenti degli esponenti avver-sari, ma, per la prima volta dopo la Rivoluzione Culturale,ha assunto anche la forma di una lotta tra due linee che hainvestito i vertici del partito anche in forme inedite.

Una presenza anomala, che ha scompigliato le file, èstata quella di Bo Xilai, “principino” molto legato a JiangZemin che però ha portato avanti una politica di sinistra,attraverso l’accoglienza degli immigrati, superando l’hukou,una redistribuzione della ricchezza, lo sviluppo della sanitàe della protezione sociale, con l’uso di slogan e recitazionirivoluzionarie e una pratica di massa radicata fra la gente,divenendo perciò molto popolare. È diventato il punto di

riferimento anche per la “nuova sinistra” neomaoista, rac-colta attorno alla libreria e al blog Utopia. Tale politica s’èscontrata anche con Hu e con Wen, perché mirava a svol-gere un ruolo nazionale, puntando su svariati fattori inedi-ti. Mentre le lotte popolari erano state fino ad allora rivoltecontro le autorità locali, senza mettere in discussione ilpotere centrale, Bo Xilai intendeva invece portare avantiuna battaglia esplicita fra due linee, investendo in tal modole stesse politiche portate avanti dai vertici politici delpaese, e per questo è stato accusato di mirare ad una nuovarivoluzione culturale. Il “modello di Chongqing”, neomaoi-sta, si opponeva apertamente, del dibattito pubblico, al“modello di Guangdong”, neoliberista, capeggiato da WangYong. La situazione è precipitata quando Wen Lijun, capodella sicurezza e stretto collaboratore di Bo, dopo averdenunciato l’omicidio perpetrato dalla moglie di Bo, GuKailai, nei confronti di Neil Heywood, dei servizi segretibritannici, che aveva gestito gli affari finanziari della fami-glia, temendo per la propria vita ha chiesto asilo politico alconsolato statunitense, denunciando poi alle autorità diPechino un tentativo di colpo di stato contro il successoreprevisto Xi, che sarebbe stato architettato da Bo assieme alcapo del Plac Zhou Yongkang. La vicenda s’è conclusa conl’espulsione di Bo dal partito e la sua incriminazione,accompagnata da una destituzione dei generali amici di Boe dalla chiusura di Utopia e la decapitazione politica della“nuova sinistra” maoista. Jiang Zemin, protettore di Bo(anche se su una linea politica ben diversa) ha reagitoaccentuando lo scontro e facendo recapitare a Bloomberge al New York Times voluminosi dossier circa gli arricchi-menti discutibili della famiglia di Wen Jiabao (il premieruscente), che ha risposto proponendo il 4 giugno ‘89 (datadel massacro di Tian’anmen, in cui era stato coinvoltoanche Jiang Zemin) per risarcire le vittime e portare iresponsabili davanti alla giustizia.

Alla fine una riunione allargata dei vertici ha trovato uncompromesso fra le diverse fazioni, con un documento inquattro punti, che traccia le linee di un percorso di transi-zione democratica che prevederebbe:

- una nuova costituzione, elaborata da cittadini, partitipolitici e organizzazioni sociali, che dovrebbe garantire idiritti dei cittadini e consentire la libera formazione di asso-ciazioni e partiti politici, che potranno registrarsi diretta-mente presso lo stato senza un controllo ufficiale (oggi ciòdeve essere approvato dagli apparati locali)

- la fine del ruolo del Pcc come partito unico al potere;l’appartenenza al partito da riconfermare con una liberascelta

- la riabilitazione dei gruppi perseguitati, che riceverannoun risarcimento

- la rinazionalizzazione dell’esercito, da rendere cioèindipendente dal Pcc, attraverso la soppressione dellaCommissione militare centrale del partito. Tale progettodovrebbe essere sperimentato gradualmente, partendodalla provincia del Guandong.

Un modello di capitalismo collusivo

La corsa al denaro alimentata da Deng, quindi la speran-za di diventare “wanyuanhu”, cioè milionari, anche attra-verso la speculazione e manovre disoneste ha dilatato enor-memente la corruzione specie nelle città.

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Le riforme liberiste introdotte da Deng negli anni ’70hanno favorito la nascita di una “capitalismo collusivo”(“crony capitalism” per i media statunitensi), presenteanche in India, che l’economista indiano Prem Shankhar Jiaha definito un “sistema predatorio”, caratterizzato da unaenorme corruzione capillarmente diffusa a tutti i livelli esocialmente accettata, favorita dal familismo e dall’intrecciofra apparati politici e militari e l’ambiente degli affari, che èservita per traghettare dal comunismo al capitalismo, con-sentendo ai quadri del partito di diventare attori dello svi-luppo economico, inoltre caratterizzata da reti di assistenzatrasformate in reti di affari e dalla possibilità del denaro dicircolare più facilmente in un’economia parallela e sotterra-nea che sostiene, in larga misura, il funzionamento di quel-la ufficiale. Del resto si tratta di un fenomeno presente, siapure in misura assai minore, in occidente e in particolare inItalia e risulta essere in fin dei conti la forma più diffusadell’attuale capitalismo di mercato. In realtà la corruzionediffusa come forma di governo (cleptocrazia) esercita,secondo alcuni analisti, una funzione stabilizzatrice, conso-lidando i gruppi consociativi, attraverso i quali viene redi-stribuita la ricchezza e rafforzando il potere delle élites poli-tiche sulle risorse economiche, ove la distinzione fra lerisorse pubbliche e quelle private non è spesso chiaramen-te distinguibile.

Tutto ciò ha prodotto – come denunciano gli stessimedia cinesi che sono la voce ufficiale del partito – ladistruzione della coesione sociale, cancellando il senso deldovere e della disciplina tradizionalmente presente nellacultura confuciana. Per questo la moralizzazione degliapparati burocratici e la lotta alla corruzione è posta comeun obiettivo prioritario dell’azione politica, continuamenteproclamato da parte degli stessi dirigenti, con norme duris-sime di repressione, ma la loro efficacia sembra simile aquella delle “grida” di manzoniana memoria, esse sonostate utilizzate prevalentemente come un’arma nelle lotte dipotere, con accuse reciproche di corruzione. Le campagnedi moralizzazione sono state brandite come arma perdistruggere gli avversari, utilizzando anche i media occiden-tali, a cui vengono fornite ampie documentazioni stretta-mente riservate. Anche in questo caso le analogie con l’at-tuale situazione italiana sono del tutto evidenti.

La trasformazione in senso scandalistico dello scontropolitico è agevolata dalla subordinazione della magistraturaalle istanze dirigenti locali del partito, per cui l’apertura d’unprocesso deve essere autorizzata dal segretario locale delPCC, e dunque, se le indagini riguardano proprio il com-portamento dei gruppi dirigenti, l’incriminazione esige l’ap-provazione proprio di quei vertici che dovrebbero esseremessi sotto processo. Per questo i processi vengono auto-rizzati solo dopo l’avvicendamento al potere d’un nuovogruppo dirigente, a seguito d’una battaglia politica chesegni una discontinuità col passato, e dunque avvengonosolo dopo la caduta in disgrazia del precedente capo delpartito locale, che trascina con sé, in un vero e proprio“cambio di regime”, l’intero apparato burocratico da luigovernato, che ne segue le sorti. Gli esempi sono numero-sissimi, a partire dalla “Banda dei quattro” fino alla “Bandadi Shanghai”, dove l’uso del termine “banda” (bÇng) anzi-ché gruppo o tendenza intende sottolinearne l’illiceità, mal’elenco sarebbe lunghissimo.

Il 18° Congresso

La composizione dei nuovi organismi dirigenti della“quinta generazione” usciti dal congresso, che guiderannola Cina nel prossimo decennio, segna, dopo mesi di lottaaccanita senza esclusione di colpi, la vittoria di Jiang Zemine la disfatta del presidente uscente, Hu Jintao, sostanzial-mente estromesso dalla gestione anche indiretta del potere,come capo della fazione dei “tuanpai”.

Per la prima volta nella storia del Pcc, Xi Jinping è statodesignato, come “zhuxi”, a ricoprire immediatamente tuttele cariche che detengono il potere, controllando cioè i trepoteri della Cina, il partito, lo stato e l’esercito (tranne quel-la di premier, che è incompatibile con le altre cariche), dun-que a ricoprire quella di Segretario generale del Partito,quella di Presidente della repubblica (dove subentrerà amarzo) e quella di “primus inter pares” nel ComitatoPermanente dell’Ufficio Politico e di presidente dellaCommissione militare centrale del partito e della repubbli-ca. Proprio questa ultima carica, molto influente, è quellache aveva permesso a Deng di governare il partito e a JiangZemin a mantenere il controllo per altri due anni dopo lascadenza della carica di Segretario generale, condizionandoin tal modo l’attività del suo successore, mentre l’uscita delHu interrompe la tradizione che voleva il capo di statouscente restasse al vertice delle forze armate per altri dueanni dopo il cambio della leadership.

Hu Jintao aveva avuto notevoli difficoltà a governare ilComitato Permanente e aveva impegnato un duro scontrocon Jiang Zemin durante tutto il suo mandato, in particolarmodo negli ultimi tempi. Anche sulla scelta della successio-ne fatta su Xi Jinping, c’era stato uno scontro fra JiangZemin, che sosteneva invece Bo Xilai, e Hu Jintao, chesosteneva Li Keqiang (figura coinvolta nell’insabbiamentodel sangue contaminato dall’Aids dello Henan); giunti a unasituazione di stallo, Jiang Zemin aveva proposto Xi Jinpingcome candidato di compromesso, e Hu Jintao non avevapotuto rifiutare, per un debito d’onore, dato che il padre diXi aveva difesa il padre di Hu dai tentativi di repressione diDeng. Il congresso quindi ha segnato un vero e propriopassaggio complessivo di potere, con Hu Jintao che escecompletamente di scena.

Nel Comitato Permanente, che è il vero ponte di coman-do del potere in Cina, e che funziona all’unanimità, ridottoda nove a sette membri, sono stati inseriti, oltre a Xi Jinpinge al nuovo primo ministro Li Keqiang, fedele a Hu Jintao(secondo il modello gerarchico cinese ogni membro delComitato Permanente occupa un posto preciso), ZhangDejiang, economista esponente dell’ala dura e sostenitoredei colossi industriali statali (e che ha nascosto lo scoppiodella Sars e normalizzato il “modello Chongqing”), YuZengsheng, un “principino” di Shanghai fedele a JiangZemin, Liu Yunshan, fedele a Hu e “censore” dei media edi Internet e ora responsabile della propaganda, WangQishan, fedele di Jiang Zemin, nuovo segretario della com-missione disciplinare che guiderà l’agenzia anticorruzione,Zhang Gaoli, legato a Jiang Zemin, che diverrà vicepresi-dente esecutivo per l’economia. A parte i primi due, tutti glialtri membri verranno sostituiti, per raggiunti limiti di età(fissata da Deng a 70 anni), fra cinque anni, alla fine dell’at-

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tuale mandato, per cui quella attuale è una soluzione ditransizione. Nel Comitato uscente su nove membri ottoerano ingegneri, ora invece ci sono quattro economisti.

Risulta evidente uno spostamento degli equilibri a favo-re dei “principini” e della fazione di Jiang Zemin, dato checinque componenti sono legati a Jiang Zenmin mentre solodue sono “tuanpai” legati a Hu Jintao. I “conservatori”,legati alla industrie di stato e al controllo del partito, hannoprevalso sui “riformisti” che spingono verso l’economiaprivata e la liberalizzazione politica, come Wang Yang,escluso dal Comitato permanente e dall’Ufficio politicoperché troppo esposto nelle sue proposte di liberalizzazio-ne del mercato ma anche della politica. Non sono presentidonne. Anche nell’Ufficio Politico, composto da 25 mem-bri, di cui due donne, 11 sono della fazione di Jiang Zemin,6 di Hu Jintao, mentre degli altri non è noto l’orientamen-to politico.

Il cambiamento dovrebbe riguardare anche il dirigentedella Banca Centrale Cinese, Zhou Xiaochuan, che dovreb-be dimettersi, essendo stato estromesso dal Comitato cen-trale, e ciò dovrebbe implicare anche un cambio di lineanella gestione della politica monetaria del paese.

La “nuova sinistra” neomaoista del “modello diChongqing” è stata cancellata assieme a Bo Xilai, ne è usci-to anche il capo della sicurezza, a lui legato. Ma anchel’esponente “riformista” del “modello di Guangdong”Wang Yang è stato lasciato nelle retrovie del ComitatoCentrale. Liu Yandong, che sembrava dovesse essere laprima donna ammessa nel Comitato Permanente, s’è dovu-ta accontentare in un posto nell’Ufficio politico.

La figura di Xi Jinping ha suscitato preoccupazione inmolte aree del partito, che temono un indebolimento delloro potere, perché, date le sue precedenti proposte didemocratizzazione politica, è stato da molti considerato,secondo il Financial Time, un potenziale “Gorbaciov”cinese e dunque destabilizzante tanto a livello economicoche politico.

I caratteri del nuovo corso

Anche se è troppo presto per delineare la dimensione deimutamenti futuri, tuttavia il dibattito che ha preceduto,accompagnato e concluso il congresso fornisce già un’ideadella dimensione consistente della svolta in atto, anche severrà attuata con una certa prudenza. .

Per mantenere l’unità del partito il nuovo corso ha, alme-no per ora, evitato di affrontare alcuni terreni rilevanti delloscontro politico, come la repressione di piazza Tian’anmene il processo di democratizzazione politica della Cina. Alprimo posto è stata messa la lotta alla corruzione, ormaigeneralizzata.

La diffusione delle lotte e delle rivolte hanno sostenutoun ritorno alla dottrina maoista e ciò ha spaventato il parti-to e lo ha spinto ad emarginare i personaggi politici e i cir-coli (come la libreria e il blog Utopia) della “nuova sinistra”neomaoista. D’altro canto sono cresciute anche le spinteverso la liberalizzazione e la modernizzazione economicaprivata accompagnate da una liberalizzazione politica, a cui

viene contrapposta una maggiore democratizzazione inter-na del partito.

Una novità evidente sta nel processo di demaoizzazione.Nonostante le svolte liberiste in campo economico, la figu-ra del “Grande timoniere” era rimasta una icona riverita edamata, come “padre della nazione”. La “quinta generazio-ne” ha iniziato a marginalizzare la sua figura, che non èstata citata nei discorsi congressuali. Anche l’iconografiadel nuovo leader ha eliminato, durante il suo discorso con-clusivo del congresso, le bandiere rosse e la falce e martel-lo, presenti durante il suo svolgimento, ma anche in tutti icongressi precedenti, per sostituirle con un paesaggiobucolico e con abbandono formale della “rivoluzionecomunista”, sottolineata dalla dichiarazione di Xi secondocui il Pcc non è più un partito rivoluzionario, ma la forzache governa la Cina.

L’Asia Times di Hong Kong sottolinea l’abbandonoanche della “dottrina di Deng”, con cui Xi non ha debiti diriconoscenza, e che viene ormai spesso criticata, special-mente per quelle scelte, sintetizzate nello slogan “arricchir-si è glorioso”, a cui viene ormai diffusamente imputata laresponsabilità di aver enormemente ampliato il divario fraricchi e poveri, ma anche l’apertura indiscriminata alle mul-tinazionali straniere, cui viene contrapposto un modello piùautocentrato. Inoltre Deng viene criticato per la sua politi-ca estera, ispirata al principio del “guangyanghui” (nonmostrare la propria forza), oggi sostituita da un inasprimen-to delle tensioni militari con i paesi vicini, Giappone e sud-est asiatico, e da un rilancio dell’idea della “rinascita cinese”in senso nazionalista, accompagnata dalla moltiplicazionedelle spese militari.

Sul piano economico il nuovo corso, già annunciato neldiscorso introduttivo di Hu, concordato con Xi, intendefare della crescita dei consumi interni il motore della cresci-ta, in sostituzione del modello fondato sulle esportazioni,puntando al raddoppio del Pil e dei consumi interni entroil 2020 rispetto ai dati del 2010. Si tratta di una crescita del55% dei consumi interni contro una crescita delle esporta-zioni inferiore al 10%. La sfida maggiore è quella di rispon-dere alle crescenti tensioni sociali con un mutamento delmodello di sviluppo che comporti un aumento delle retri-buzioni e un miglioramento delle condizioni di lavoro, non-ché di quelle ambientali, e ciò significa pure la delocalizza-zione in altri paesi delle industria a più alta intensità di lavo-ro, puntando invece su industrie tecnologiche a più altovalore aggiunto, per le quali viene impiegato un esercito diricercatori e investimenti molto ingenti. Gli altri traguardiriguardano una redistribuzione della ricchezza (anche fracittà e campagna), la creazione di una rete di protezionesociale universale, oggi assente, il miglioramento dellacopertura sanitaria, il superamento dell’hukou.

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Yuezhi Zhao*LA LOTTA PER IL SOCIALISMO IN CINA.

LA SAGA DI BO XILAI E OLTRE

Da piazza Tahrir a Wall Street, da Atene a Montreal, isogni di emancipazione stanno mobilitando una nuovaondata di rivolte in tutto il mondo. Nel contempo le forzedella repressione sono state scatenate ovunque per impor-re “nuovi meccanismi di controllo sociale”, con l’obiettivodi creare “nuove condizioni per la realizzazione del plusva-lore a seguito di una prolungata crisi economica capitalisti-ca”.

Alcuni hanno previsto una rivolta popolare cinese aseguito della Primavera araba. Invece, a partire dalla prima-vera del 2012 il mondo ha assistito al dramma impressio-nante d’una lotta delle classi dirigenti attorno alla cacciatadel capo del Partito Comunista Cinese (PCC) di Chongqinge membro del Politburo, Bo Xilai, che comprende un girodi vite sul suo modello di sviluppo di Chongqing. Anche seil PCC è riuscito a evitare disordini sociali su larga scala, lafrattura nelle classi dirigenti è diventata il punto focale dellalotta politica durante questo pericoloso anno di transizionedel potere in Cina.

La cacciata di Bo ha assunto un valore tanto significati-vo da essere generalmente descritta come un terremotopolitico di dimensioni tali da rivaleggiare con la caduta nel1971 di Lin Biao, il delfino designato da Mao come proprioerede, o con la repressione del 1989. Bo non era un mem-bro qualsiasi del Politburo del PCC, e il modello diChongqing non era solo un altro esempio della "sperimen-tazione decentrata", così caratteristica del processo di azio-ne politica del PCC. Ciò che è stato posto sempre più alcentro del dibattito ed enfatizzato dalla stampa è stato ilcontrasto tra due modelli di sviluppo, il “Modello diChongqing” e il “Modello di Guangdong”. Il Guangdongha simboleggiato un approccio caratterizzato da una mag-giore libertà di mercato, da una crescente diseguaglianza eda un maggiore orientamento all’esportazione. Chongqingè stato caratterizzato dal tentativo di rivitalizzare le ideesocialiste e le rivendicazioni popolari per una crescita rapi-da ed equilibrata. Dunque la posta in gioco non è oggi soloil destino di Bo, ma anche il passato rivoluzionario dellaCina e le complicate intersezioni fra le politiche di classe,nazionali e transnazionali, e la lotta mai conclusa per ilsocialismo in Cina.

Le voci dell’opinione cinese di sinistra, diffuse via inter-net, hanno etichettato la cacciata di Bo come il “golpe3.15” perché è stata effettuata il 15 marzo, definendolacome un attentato degli oppositori alla sua leadership nelPCC centrale cinese, non solo per prevenire la sua possibi-le ascesa ad una posizione di forza nel prossimo Comitatopermanente del Politburo, ma anche allo scopo di elimina-re la possibilità di uno spostamento in senso più egualitariodel percorso di sviluppo della Cina. Dal canto loro gli espo-nenti dell’ala destra hanno accusato Bo e i suoi alleati diaver effettuato un tentativo di colpo di stato per assumereil potere nazionale allo scopo di riportare la Cina ai giornibui della Rivoluzione Culturale. Gli sviluppi odierni sononaturalmente assai più complicati e meno lineari d’una sem-plice accusa reciproca di colpi e contro-colpi di stato.

Il canovaccio della saga di Bo è ben noto. Il 6 febbraio2012, poco prima della visita negli Stati Uniti del vicepresi-dente cinese Xi Jinping, il braccio destro di Bo, Wang Lijun,già capo della polizia e famoso cacciatore di bande crimina-li di Chongqing, ha cercato di rifugiarsi nel consolato statu-nitense di Chengdu per chiedere asilo politico. Dopo inten-se trattative tra le autorità competenti, Wang è stato presoin consegna dalle autorità centrali di sicurezza di Pechino.In una conferenza stampa a Pechino il 9 marzo, Bo haammesso le proprie responsabilità per Wang, ma ha difesocon vigore i suoi esperimenti a Chongqing. Il 14 marzo, ilpremier cinese Wen Jiabao ha rimproverato apertamente lagestione di Bo a Chongqing, accusandolo di cercare di farrivivere la Rivoluzione Culturale. Il 15 marzo Bo è statodestituito da segretario del PCC di Chongqing senza alcu-na spiegazione ufficiale. Poi, alle ore 23 del 10 aprile, inCina i media ufficiali hanno diffuso quello che è ora notocome la “paura di mezzanotte” della saga di Bo, annuncian-do che era stato espulso dal Politburo e dal ComitatoCentrale del PCC. Nel tentativo evidente di nasconderel’esistenza d’una fondamentale divisione politica, la dirigen-za centrale del PCC ha affermato di aver messo sottoinchiesta Bo per “gravi violazioni della disciplina”, mentresua moglie Gu Kailai veniva detenuta con l’accusa di averucciso Neil Heywood, descritto come un “uomo d’affariinglese” che aveva stretti rapporti con la moglie e il figlio diBo. Il 9 agosto 2012, in un’aula-bunker strettamente con-trollata, in quello che è stato percepito come un processo-spettacolo, che ha lasciato molte domande senza risposta,la moglie di Bo, Gu Kailai è stata processata per l’omicidiodi Heywood e giudicata colpevole. Il 20 agosto Gu ha rice-vuto una condanna a morte, attualmente sospesa.

Oltre ad aver condotto, nel periodo immediatamentesuccessivo all’annuncio del 10 aprile, una campagna di pro-paganda senza precedenti per chiamare a raccolta tutta lanazione dietro il gruppo dirigente centrale, i media statalicinesi non hanno dato ulteriori notizie circa l’evoluzionedella saga di Bo, fino alla notizia ufficiale, strettamente con-trollata, circa il procedimento giudiziario contro sua moglie.In effetti, il sistema ha deliberatamente cercato di stenderesu tale vicenda un velo di amnesia nazionale per gran partedel periodo estivo. Nel frattempo, durante un periodo chesi è prolungato per tutta la primavera e buona parte del-l’estate 2012, la “macchina delle voci" che circonda tutta lavicenda ha operato a pieno regime fuori dalla Cina, attra-verso le fessure della “Grande muraglia cinese”. I principa-li organi di’informazione anglo-americani, come il WallStreet Journal, il New York Times, il Financial Times e ilDaily Telegraph, assieme ai media del Falun Gong e ai sitiweb di destra in lingua cinese (come il U.S. NationalEndowment for Democracy-founded Boxun.com), hannopubblicato racconti sensazionali di corruzione e di intrighicontro Bo: dalle intercettazioni segrete di Hu Jintaoall’esportazione segreta di enormi fondi all’estero, dai lega-mi pericolosi con gli alti ufficiali militari, alla collusione coni magnati dell’alta finanza. Data la natura opaca della vicen-da si pone la domanda: in che modo gran parte di tali infor-mazioni sarebbe giunta direttamente da fonti interne alPCC? Qual è il livello di cooperazione esistente tra Cina,Stati Uniti e le autorità inglesi in questo dramma politico“cinese” nel momento in cui per i dirigenti di questi paesi

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è diventato più importante che mai cogestire la politica eco-nomica globale anticrisi? Ora che una lotta politica eviden-te è stata ribattezzata come un caso clamoroso di omicidio,cosa succederà?

Invece di soffermarsi sui dettagli, molti dei quali rimar-ranno probabilmente oscuri per parecchio tempo, questoarticolo intende esaminare il contesto storico e il contenu-to politico del Modello Chongqing. Questo modello hasuscitato la speranza fra i diseredati e provocato la paura trai beneficiari delle riforme cinesi. Si è incarnato subito inframmenti sinceri, ma anche distorti, e forse persino per-versi, d’un progetto di “rinnovamento socialista” nella Cinadopo la riforma. Da un lato, una straordinaria alleanza deimedia capitalisti anglo-americani e dell’ala destra dei mediae dei blogger in lingua cinese ha ritratto Bo come corrotto,pericoloso, opportunista e cinico. D’altra parte, alcuniesponenti della sinistra volevano in primo luogo mettere indiscussione la stessa nozione di socialismo in Cina. La lottaper il socialismo in Cina è stata finora virtualmente assentedal vasto assortimento delle notizie e dei commenti dell’in-formazione relativi a questa vicenda. Tuttavia, questa lottane costituisce la parte più rilevante. La politica comunicati-va, complessa e intrigante, attorno alla saga di Bo, è alta-mente sintomatica delle battaglie nazionali e internazionaliche sono attualmente in corso sul futuro della Cina. Ildramma sottostante è perciò più grande di Bo, e più gran-de persino rispetto al Modello Chongqing.

Chongqing e la dialettica della riforma della Cina

Se il pensiero di Mao Zedong è servito un tempo comeideologia egemonica cinese per la ricerca del socialismo delXX secolo, i due slogan di Deng Xiaoping, “lasciamoinnanzitutto che alcuni si arricchiscano” e “lo sviluppo è laferrea verità”, sono serviti come le maggiori giustificazioniideologiche per il sentiero di sviluppo della Cina post-maoi-sta.

Dato che questo percorso ha trasformato la Cina da unadelle società più egualitarie del mondo sotto Mao in unadelle più diseguali del mondo contemporaneo, non sor-prende che pochi abbiano preso sul serio la pretesa delPCC di costruire il “socialismo con caratteristiche cinesi”.Tuttavia, per molti cinesi, le esperienze vissute del sociali-smo - sia positive che negative - sono reali, e lo sono purele attuali contraddizioni tra retorica e realtà. Nonostantel’ordine di Deng, “nessun dibattito”, ovvero che non cidoveva essere alcuna discussione circa la natura capitalisti-ca o socialistica delle riforme post-maoiste, ciò appalesa einsieme nasconde le lotte sulla direzione del percorso diriforma della Cina, le sue contraddizioni interne e i variega-ti conflitti sociali che hanno costretto la leadership del PCCa continuare a rivendicare, da un lato, il mantra del sociali-smo, mentre, dall’altro, cercava di riaggiustarne il percorsodello sviluppo.

Già nel 2003, il PCC aveva modificato la dottrina dellosviluppo di Deng per promuovere il cosiddetto “concettoscientifico di sviluppo”, cioè un percorso più popolare,socialmente ed ecologicamente sostenibile, dello sviluppo.Dall’ottobre 2007, il 17° Congresso Nazionale del PCC siera ufficialmente impegnato ad “accelerare la trasformazio-

ne del modello di sviluppo economico”. La crisi finanziariaglobale scoppiata nel 2008 non solo ha fornito nuova ener-gia alle richieste di “rinnovamento socialista”, come l’unicae valida alternativa a un’ulteriore reintegrazione capitalisti-ca, ma ha anche spinto la leadership a rafforzare la sua reto-rica su un allontanamento dello sviluppo cinese dal model-lo orientato alla crescita del Pil e delle esportazioni.Tuttavia un potente blocco egemonico, costituito dal capi-tale transnazionale, dalle industrie esportatrici nazionalidella costa e dai funzionari statali pro-capitalisti, come purei media neoliberisti, i leader intellettuali e i loro seguaci dellaclasse media, continuano a bloccare ogni sforzo sostanzia-le di riorientamento del percorso dello sviluppo cinese.

È in questo contesto che Chongqing, sotto la guida diBo, può essere inteso come un luogo che ha fatto uno sfor-zo sostanziale per perseguire un percorso di svilupposocialmente più sostenibile. Essendo in precedenza uncomune della provincia di Sichuan, Chongqing ha conse-guito nel 1997 lo status di giurisdizione provinciale. Conun’enorme popolazione rurale (il 70% dei 32 milioni di abi-tanti nel 2010) e una complessa orografia nell’interno delsud-ovest della Cina, Chongqing è un microcosmo dellaCina. Non solo deve affrontare alcune delle sfide socioeco-nomiche più profonde del paese, ma manifesta anche tuttele insidie della reintegrazione del capitalismo neoliberista,inclusa un’economia criminalizzata. Alla fine del 2007, Bo,che aveva fatto la sua prima esperienza di governo localenella città di Dalian, e poi nella provincia di Liaoning, primadi diventare ministro del commercio cinese, nel 2003, erastato mandato a dirigere Chongqing come segretario delpartito.

Chongqing si vanta di essere stata capitale della Cina intempo di guerra e un centro delle battaglie antifascistemondiali tra il 1937 e il 1946. È diventata “rossa”per esse-re stata letteralmente impregnata nel sangue delle ferocibattaglie fra comunisti e nazionalisti nel periodo della fon-dazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949.Successivamente a Chongqing è stato costruito uno dei piùimportanti complessi militari-industriali della Cina durantela Guerra Fredda. Questo ha fatto crescere una forte clas-se operaia, che era stata in prima linea nelle lotte anti-priva-tizzazione, fino alla metà degli anni 2000. Come metropolidi nuova istituzione durante l’epoca delle riforme,Chongqing s’è sobbarcata alcune delle più pesanti disloca-zioni sociali che hanno investito lo sviluppo e la moderniz-zazione post-maoista della Cina, non solo con il reinsedia-mento degli emigrati della Diga delle Tre Gole, ma anchecon la cura degli anziani e dei bambini abbandonati nei vil-laggi rurali depressi da parte dei lavoratori migranti che sispostano verso le regioni costiere. In parte a causa di que-sta situazione, dal 1997 le autorità centrali hanno dato aChongqing maggiori margini di manovra per sperimentarel’integrazione fra lo sviluppo urbano e rurale. Bo, un ambi-zioso, carismatico e risoluto “principino rosso” (è il figlio diun leader rivoluzionario), che ha avuto una significativabase di potere tra l’élite politica e militare cinese, stava cer-cando di recuperare le tradizioni rivoluzionarie della Cinaper ottenere il sostegno popolare nel tentativo di tornare aPechino con un ruolo politicamente più rilevante. Questaparticolare configurazione di punti di forza storico-sociali,geopolitici e anche biografici, ha dato origine al Modello

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Chongqing.4 I capisaldi di tale modello erano l’ampliamen-to del settore pubblico e la concentrazione dell’interventosul welfare sociale. Come affermato in un articolo di“Foreign Policy” dell’8 agosto 2012, s’è trattato di “unesperimento audace di utilizzo della politica e delle risorsestatali per portare avanti gli interessi della gente comune,mantenendo il ruolo del partito e dello stato”.6 In partico-lare è stato significativamente allargato il ruolo degli entilocali, attraverso l’istituzione di otto grandi imprese di inve-stimento che operano come società di mercato ma per unosviluppo equo. Allo stesso modo, invece del capitale priva-to, è stata una società di investimento statale ad assumere ilcontrollo delle enormi “attività povere” (ovvero scarsa-mente finanziate) di più di 1.160 imprese statali dell’epocadi Mao, ristrutturandole e sviluppandole in imprese reddi-tizie. Di conseguenza le attività gestite dallo stato diChongqing sono cresciute in modo esponenziale.Chongqing ha adottato misure aggressive per colmare ildivario tra città e campagna, consentendo a oltre 3.220.000migranti rurali di stabilirsi in città, godendo dei diritti di cit-tadinanza urbana nel lavoro, di pensioni di anzianità, dialloggi pubblici in locazione, dell’educazione dei figli e del-l’assistenza sanitaria (al contrario nel resto della Cina, nonè consentito ai contadini di immigrare in città e se lo fannoclandestinamente, hanno salari estremamente ridotti e nonpossono godere di alcuna assistenza del welfare, come pre-videnza, sanità e istruzione per i figli, Nota del traduttore).A partire dal 2009, nell’ambito d’un programma noto comei “10 punti sui mezzi di sussistenza”, Chongqing ha dedica-to più della metà di tutta la spesa governativa per migliora-re il benessere pubblico, e in particolare il tenore di vita deilavoratori e dei contadini.

In tal modo Chongqing ha messo in pratica lo slogan delPCC di perseguire uno sviluppo centrato sulle persone. Inrealtà, non v’era nulla di radicale in queste politiche, se ven-gono misurate rispetto alla retorica ufficiale. Il tentativo dirafforzare il settore pubblico, ad esempio, è coerente conl’impegno costituzionale della Cina per la costruzione di unsistema “socialista”, basato sul primato della proprietà pub-blica. Invece di opporsi alla reintegrazione capitalista,Chongqing ha corteggiato aggressivamente il capitale glo-bale. Ad esempio, in un progetto per fare di Chongqing ilmaggiore centro di produzione asiatico per i computer por-tatili, le società transnazionali, da HP ad Acer, sono stateagevolate per costruire lì un loro insediamento. La leader-ship di Bo ha attirato anche il produttore informatico,supersfruttatore, Foxconn, per trasferire 200.000 dei suoi500.000 posti di lavoro da Shenzhen a Chongqing. Tuttavia,v’era una differenza fondamentale. A Shenzhen è stato per-messo alla Foxconn di costruire un ghetto chiuso, separatodalla società circostante, costringendo i lavoratori a viverein fabbrica, in dormitori in stile caserma militare. Al con-trario, Chongqing ha fornito ai lavoratori della Foxconnalloggi pubblici in locazione a basso costo. Ciò ha consen-tito di spezzare il modello dell’“Arbitrato Globale delLavoro”, e reimmettere il capitale transnazionale nel conte-sto sociale. Nel frattempo, nel tentativo di risolvere il pro-blema dell’occupazione, Chongqing ha implementato unmassiccio programma di microimprese a sostegno deimigranti rurali e di laureati per fondare imprese nelle areeurbane. In breve, come ha osservato Philip Huang, ilModello Chongqing ha tentato di trovare un modo che

consenta la crescita complementare del settore statale e diquello privato, nazionale e transnazionale, in un ambientedi economia mista.

Sventolando la bandiera della “prosperità comune”

Nel frattempo, Bo, con una mossa che era altamente sor-prendente rispetto alle aspettative liberiste per una liberaliz-zazione politica, ha rinvigorito la pratica maoista di unalinea di comunicazione di massa nel tentativo di regnarenella burocrazia del PCC e catturare i cuori e le menti deiresidenti di Chongqing. Il concetto chiave è “la prosperitàcomune”. In un discorso del 2011, Bo, citando Hu Jintao,ha affermato che “la prosperità comune” è ciò che defini-sce la “gestione avanzata” di una cultura comunista. InoltreBo ha sostenuto che la “prosperità comune” non deve esse-re solo un ideale o un punto di arrivo; invece, è la forzamotivante che passa attraverso l’intero processo di svilup-po. Proprio come i riformatori neoliberisti hanno selettiva-mente citato Deng per giustificare la polarizzazione di clas-se, Bo ha citato Deng ,che metteva in guardia contro ilrischio d’una riforma che assumesse il “sentiero malvagio”del capitalismo, se essa avesse creato la polarizzazionesociale e generato una nuova classe capitalista. Bo ha modi-ficato anche la teoria dello sviluppo di Deng per sostenereche “il tenore di vita del popolo è la verità ferrea”. Controquelli che hanno continuato a sposare la teoria neoliberistadella “percolazione” (“trickle down”, secondo la quale l’ar-ricchimento dei più ricchi si propaga poi verso il basso,arricchendo l’intera società) proponendo di “fare la torta”anziché “dividere la torta” (esistente). Bo ha insistito sulfatto che queste due affermazioni possono rafforzarsi reci-procamente. In modo ancor più significativo, ha sostenutoche il PCC non avrebbe potuto aspettare troppo a lungoprima di affrontare il problema della polarizzazione socia-le, perché poi gli interessi acquisiti si sarebbero fatti troppopotenti e non sarebbe stato più possibile effettuare qualsia-si cambiamento. Parlando rispetto alla negazione da partedella leadership centrale del rapporto con l’armonia socia-le, Bo ha sostenuto che essa non è il risultato del “control-lo”, e che solo la “prosperità comune” avrebbe potutocostituire il terreno per nutrire i frutti dell’armonia sociale.

Bo ha realizzato un’intera gamma di misure governativevolte a ristabilire il collegamento organico del PCC con lasua base. In primo luogo ha lanciato una massiccia lottacontro la corruzione e contro la criminalità organizzata conla campagna nota come “Battere il nero” per controllarel’economia sommersa metropolitana. In Occidente unastrategia governativa di “legge e ordine” viene comune-mente associata alla destra politica, tuttavia, nella misura incui questa campagna era rivolta contro gli intrecci di pote-re fra l’affarismo privato dei funzionari del partito-Stato e icriminali, la campagna ha assunto chiaramente il carattered’una politica di sinistra.12 Per di più, dato che la crimina-lità organizzata e l’economia sommersa ad essa associataaveva permeato le attività economiche di fondamentaleimportanza per la vita quotidiana, anche nelle sue formepiù banali, come prendere un taxi e andare in autobus, ren-dendo Chongqing sicura, la campagna ha letteralmenterecuperato lo spazio pubblico della città per la gente comu-ne. Come risultato, ha guadagnato popolarità. Inoltre, datoche la campagna ha sollecitato la denuncia delle attività cri-

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minali da parte del pubblico, conteneva la dimensionemaoista della “partecipazione di massa” e della giustiziarivoluzionaria.

L’altro ambito del tentativo di Bo volto a ristabilire il col-legamento organico del PCC con la sua base ha riguardatotutta una serie di comunicazioni istituzionalizzate e di pra-tiche per risolvere i problemi. Una campagna, iniziata nel2008, ha interessato le “tre istituzioni”, del segretario delpartito che riceve le visite, dei membri del comitato del par-tito che effettuano le visite e della fornitura d’una regolarerisposta alle denunce pubbliche. In primo luogo, il capo diun villaggio o i membri del Comitati del PCC di una comu-nità urbana devono dare udienza pubblica per una mezzagiornata alla settimana per ascoltare le richieste del pubbli-co. In secondo luogo, i membri del villaggio o del comita-to del PCC della comunità urbana devono fare due visitealle famiglie rurali o urbane per chiedere i loro pareri sullepolitiche pubbliche e impegnarsi a risolvere i loro problemie preoccupazioni; in terzo luogo, devono essere create dellelinee di comunicazione tra il segretario del partito e il pub-blico, attraverso la collocazione di urne per la raccolta delleopinioni, e-mail e linee di assistenza telefonica; e la rispostadeve essere fornita entro un determinato lasso di tempo.Poco tempo dopo, nel 2009, è stato avviato un altro insie-me di pratiche. Fra queste le “tre partecipazioni e tre soli-darietà”, che costringe i funzionari a mangiare, vivere elavorare insieme ai contadini per periodi prolungati. Questa“grande visita in basso” ha invertito il fenomeno della“visita di sopra”, diffuso in tutta la Cina, che si verificaquando individui, gruppi, o anche interi villaggi facevanoappello, di persona o per iscritto, alle autorità di livellosuperiore, chiedendo una riparazione per i fatti da lorolamentati. Infine, per collegarsi ai contadini poveri, ciascunfunzionario era tenuto ad adottare un “parente povero”,visitandone la famiglia almeno due volte l’anno e a farequalcosa per loro, come si potrebbe fare con un veroparente. Anche se una tale mobilitazione burocratica con-tro l’alienazione burocratica “senza dubbio genera il suoproprio eccesso di formalismo”... può essere che il modo incui sono state riproposte a Chongqing sia più sostanzialedelle visite e apparizioni mediatiche elettorali dei politicioccidentali durante le campagne elettorali. Sottolineando ilfatto che vi sono diversi modelli di democrazia, la leader-ship di Bo a Chongqing ha inquadrato queste misure comeuna incarnazione concreta della “democrazia popolare”.

“Cantando rosso” e il recupero della Rivoluzione

Promosso come il lato morbido del pugno di ferro dellacampagna “Battere il nero”, “Cantando Rosso” costituiscela comunicazione e la componente culturale del ModelloChongqing. Insieme con una sconcertante disuguaglianzasociale, il crollo della morale sociale fondamentale e la pre-valenza di eccessivi vantaggi consumistici sono state le con-seguenze culturali, ampiamente note, delle riforme diDeng. A dire il vero, il PCC post-maoista non ha smesso disostenere il socialismo nella retorica. Per esempio, a segui-to d’una risoluzione del 1996 per rafforzare la costruzionedella “civiltà spirituale socialista”, nel 2006 il ComitatoCentrale del PCC ha adottato una risoluzione che propu-gnava un “sistema socialista di valori essenziali”. Tuttavia,in mancanza di un modello coordinato di sviluppo socioe-

conomico che assomiglia a qualcosa di simile alla costruzio-ne di una società socialista, questa campagna non solosuona vuota, ma alimenta anche il cinismo.

“Cantando rosso” designa le pratiche di comunicazionedi Chongqing, sponsorizzate ufficialmente al fine di pro-muovere i valori socialisti e edificare la moralità pubblica.Lanciata nel 2008, la campagna fu incentrata sugli atticomunicativi di cantare canzoni rosse, leggere i classici, rac-contare storie rivoluzionarie ed edificanti, e diffonderemassime esortative. Bo ha assunto la loro direzione.Inoltre, con una iniziativa che viene oggi percepita comeparte d’un tentativo di offuscare la leadership centrale, haguidato una compagnia culturale di massa di Chongqingper mettere in scena sette recite “Cantando rosso” aPechino nel giugno 2011. Il fatto che ciò sia avvenuto nel2011, mentre il PCC stava celebrando il novantesimo anni-versario della sua fondazione, e che in Cina vi sono vocisignificative che difendono l’eredità socialista cinese delPCC, aveva certamente operato a favore di Bo.

Tra i media liberisti e l’elite intellettuale della Cina post-maoista la semplice descrizione di queste attività di“Cantando rosso” scatena una reazione istintiva contro il“risveglio della Rivoluzione Culturale”. È proprio sullascorta di questa reazione che Wen ha scatenato la sua criti-ca a Chongqing. Tuttavia l’ampiezza dei contenuti dellacampagna di Cantando rosso è stata effettivamente moltovasta. Sono stati tratti da una vasta gamma di stili musicali,testi letterari e massime. Inoltre le radici popolari diCantando rosso nella Cina post-riforma sono innegabili.Dagli anni ‘90, la società cinese - soprattutto i gruppi socia-li privati dei diritti civili – hanno sperimentato una profon-da nostalgia per la moralità socialista. Dietro una crescentementalità di destra che ha sposato l’idea della “sopravviven-za del più adatto”, in una giungla neoliberista post-sociali-sta, è rimasto un profondo anelito per la giustizia sociale,l’uguaglianza e un senso di comunità.

Sottolineando la centralità dell’esperienza vissuta e laforza della cultura popolare, soprattutto della musica popo-lare, questa aspirazione era espressa vocalmente dai gruppivolontari che suonavano canti rivoluzionari negli spazipubblici. Tali attività, assieme ad altre attività culturali dibase che si sono ispirate e hanno fatto riferimento al passa-to rivoluzionario della Cina, erano precedenti alla loroappropriazione ufficiale da parte di Bo. Come era stato evi-denziato, agli inizi degli anni 2000, dalla fioritura di siti webneomaoisti, come Utopia e Bandiera di Mao, nel regno delciberspazio cinese il maoismo e il linguaggio del socialismoerano diventati un’arma ideologica per la critica contro ilprogramma di riforma capitalistica del PCC. Quel che poiha fatto Bo, è stata l’appropriazione di questa eredità neltipico modo della linea di massa del PCC, “dalle masse, allemasse.”

Anche in questo caso è importante evidenziare la naturadella trasformazione integrata politico-economica e socio-culturale di Chongqing. Infatti Cantando rosso non avreb-be alcun fondamento materiale popolare senza programmicomplessivi del governo volti a migliorare le condizioni disussistenza delle persone (con tutti i relativi risultati visibi-li).16 Ciò che Cantando rosso intendeva raggiungere non

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era solo una nuova soggettività culturale e la fiducia in sestessi, ma anche la sensazione che un futuro migliore è pos-sibile.

La decommercializzazione, a partire dal 1 marzo 2011,del canale televisivo satellitare CQTV di Chongqing, dispo-nibile a livello nazionale, è stata la più importante trasfor-mazione istituzionale dei media con il Modello Chongqing.Come tutti i canali televisivi satellitari provinciali della Cina,CQTV si basava in precedenza sui proventi della pubblici-tà e l’orientamento della sua programmazione era statoeccessivamente commerciale. Con la cessazione della rac-colta pubblicitaria alla CQTV e il suo finanziamento attra-verso una combinazione di entrate governative e di sovven-zioni incrociate all’interno dell’Autorità di trasmissione diChongqing (che gestisce altri canali commerciali), la leader-ship di Bo a Chongqing mirava a trasformare CQTV in un“canale di pubblico interesse” come risorsa chiave per lapromozione della cittadinanza culturale.17 La CQTVdecommercializzata ha cambiato il proprio marchio inse-rendo il colore rosso e ha offerto una programmazione cheincludeva l’esecuzione di canzoni rosse, racconti rivoluzio-nari, ricordi di storie rivoluzionarie, l’educazione alla federivoluzionaria e alla letteratura rivoluzionaria. Il canaleoffriva anche un programma intitolato “I mezzi di sussi-stenza delle persone”, focalizzato sulle notizie, sia naziona-li che locali, relative alle iniziative tese allo sviluppo centra-to sulle persone. Anche se questo richiamo al “rosso” erafondato soprattutto sulla tradizione rivoluzionaria cinese laCQTV ha anche promosso il “rosso” come colore nazio-nale cinese. In tal modo la CQTV intendeva forgiare unanuova cultura rivoluzionaria nazional -popolare.

Nel mese di agosto 2011, il CQTV ha inaugurato il pro-gramma settimanale di discussione sull’attualità economica,il “Forum pubblico sulla prosperità comune”. Incentratosul tema “Ridurre le tre fratture (tra regioni ricche e pove-re, urbane e rurali, costiere e dell’interno), promuovere laprosperità comune”, il programma di 45 minuti si ponecome una piattaforma su cui i leader politici e accademicicinesi avrebbero potuto affrontare in modo diretto le con-traddizioni e i conflitti conseguenti allo sviluppo inegualedella Cina attuale e rispondere all’esigenza di esplorazioniteoriche. Dal momento che gli studiosi antiliberisti, cheerano rimasti largamente invisibili nelle altre reti televisive,divennero ospiti dei dibattiti e portarono avanti la lorovisione di una via dello sviluppo cinese più equa e sosteni-bile, l’effetto provocatorio e il significato storico del pro-gramma nell’ambito dei media cinesi non può essere sotto-valutato. A dire il vero s’è trattato d’un lavoro in continuaevoluzione. Bo ha mantenuto uno stretto controllo deimedia di Chongqing e a volte la programmazione di CQTVha mostrato un orientamento didattico e dall’alto inbasso.19 Tuttavia, sostenendo la “Prosperità comune”, laCQTV ha immesso – sia pur brevemente - una forte pro-spettiva anti-neoliberista in un universo simbolico cineseche è stato a lungo dominato dai riformatori di mercato. Inparticolare, bloccando la pubblicità commerciale in CQTV,la gestione di Bo a Chongqing ha sottratto al mercato uncanale mediatico per servire una nuova missione socio-cul-turale. In una discussione del 3 dicembre 2011 con gli ope-ratori del programma e gli esperti del CQTV Bo s’è senti-to nuovamente costretto ad affrontare i suoi detrattori per

sostenere una causa che avrebbe dovuto essere ovvia in unpaese formalmente guidato da un partito comunista:“Servire il popolo è il principio fondamentale del nostropartito e la prosperità comune è la sua incarnazione concre-ta ... agli occhi di alcune persone, andare avanti significaimparare dall’Occidente, mentre ereditare e promuovere lemigliori tradizioni del PCC viene considerato di sinistra,come andare indietro. Queste opinioni sono davvero stra-ne e bizzarre”.

Una guerra di comunicazione transnazionale sul futu-ro della Cina

Strane o no, queste erano proprio quelle opinioni domi-nanti - politiche, intellettuali e mediatiche - che il ModelloChongqing intendeva contrastare. Ignorando in larga misu-ra i suoi tentativi di perseguire un più equo percorso di svi-luppo, gli intellettuali liberisti e i media orientati al mercatohanno manifestato fin dall’inizio una considerevole ostilitàverso Bo e le sperimentazioni di Chongqing. Questi criticihanno dato per scontato la polarizzazione economica ehanno drammatizzato l’orientamento illiberale delle cam-pagne di mobilitazione “Battere il nero” e “Cantandorosso” di Chongqing. Le hanno considerate, nel miglioredei casi, come un progetto ipocrita di Bo per utilizzareChongqing come un trampolino di lancio per la sua scalataal potere nazionale, e, nel peggiore dei casi, come unarestaurazione populista, autoritaria e financo fascista, dellaRivoluzione Culturale. Dopo il 15 marzo 2012 la campagnamediatica, transnazionale e domestica, contro Bo, ha con-fermato ai loro occhi solo l’ipotesi peggiore. Ora che lalotta contro Bo ha preso una piega disciplinare e criminale,i principali media transnazionali e cinesi sono in grado, inmodo a loro conveniente, di evitare di discutere il carattereclassista della sua politica.

Bo ha rappresentato una sfida alla legittimazione ideolo-gica della leadership centrale del PCC e del suo piano disuccessione. Ha minacciato di dividere il PCC evidenzian-do le profonde contraddizioni del “socialismo con caratte-ristiche cinesi”. Inoltre, ciò che ha fatto a Chongqing haminato gli interessi costituiti della formazione sociale delcapitalismo burocratico transnazionalizzato in Cina, puravendone fatto parte integrante. La sua campagna “Battereil nero” ha terrorizzato i capitalisti nazionali e i loro protet-tori burocrati. Il suo aggressivo ringiovanimento della lineadi massa ha minato i privilegi burocratici e scosso la buro-crazia di Chongqing. Sia che Bo abbia usato o meno la cam-pagna “Battere il nero” per espropriare la proprietà privataed epurare gli oppositori politici, la campagna ha sradicatofunzionari potenti e la mafia in stile capitalistico da loroprotetta. Emblematico di ciò contro cui si è mossa la cam-pagna di ripulitura “Battere il nero”, è un’alleanza naziona-le di potenti avvocati, giuristi e giornalisti che hanno mon-tato una vigorosa campagna di mobilitazione giuridica emediatica contro l’amministrazione della giustizia diChongqing sotto Bo. Il peggior incubo per gli interessicostituiti economici, legali e di potere della classe dirigentecinese è il timore che Bo potesse, in qualità di membro delprossimo Comitato permanente del Politburo del PCC,essere messo a capo dell’amministrazione della giustizia.Neppure la comunità degli operatori dei media cinesi s’èidentificata con gli esperimenti di decommercializzazione

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dei media di Chongqing. Se da un lato i giornalisti lamenta-no l’impatto corrosivo della commercializzazione, tuttavianon identificano i propri interessi economici e professiona-li in un sistema di media decommercializzati. In effetti, ladecommercializzazione di CQTV aveva avuto l’effetto diun secchio d’acqua gelata sulla schiena dei giornalisti cheavrebbero potuto perdere la maggior parte dei loro redditi,perché, oltre al loro stipendio assegnato dallo stato, i gior-nalisti cinesi derivano la quota maggiore del loro redditodalla partecipazione ai ricavi commerciali dei media. Non acaso, una delle prime conseguenze della “restaurazione”post-Bo è stata la immediata reintegrazione della pubblici-tà in CQTV.

Chongqing è stata trasformata nel punto focale dellelotte per il futuro della Cina perché quest’autunno il PCC sista preparando, con il suo 18° Congresso nazionale, alricambio decennale delle dirigenza. Mentre gli intellettualiliberisti radicali hanno chiesto un cambiamento di regime ela fine del dominio del partito unico, molti sono coloro checercano ancora di costringere il PCC a far vivere le sue pro-messe rivoluzionarie e a sostenere la Costituzione socialistacinese. Il Modello Chongqing è stato così influente e con-troverso proprio perché questi cambiamenti sono stati rag-giunti entro il quadro del partito-stato esistente e facendoappello alla retorica del socialismo. Gli esperimenti di Bohanno minato il disegno neoliberista della “fine della sto-ria” e dimostrato che il PCC, se ne avesse la volontà politi-ca, potrebbe ancora avere la possibilità di riconnettersi lasua base di potere storica degli operai e contadini. Mentrenon sono mancate fin dall’inizio le critiche da sinistra delModello Chongqing, per le forze sociali cinesi che hannolottato per un futuro socialista, la possibilità che il ModelloChongqing venisse promosso a livello nazionale sembravacostituire un passo fondamentale verso una svolta a sinistradel PCC. Per quelli di Utopia, che avevano sostenuto un“rinnovamento socialista”, le politiche di Bo rappresenta-vano una gestione progressiva all’interno del PCC, mentreil Modello Chongqing era l’unica speranza per evitare unaennesima rivoluzione violenta in Cina.

A partire dallo scoppio dell’“incidente Wang Lijun” il 6febbraio 2012, la guerra dei comunicati su Chongqing haraggiunto un’intensità senza precedenti nella sfera mediati-ca trasnazionalizzata e sempre più gestita on-line. Siti didestra cinesi all’estero, i media del Falun Gong, le emitten-ti occidentali sponsorizzate dai governi, come VOA e BBC,e i principali organi di stampa occidentali si sono affrettatia diffondere ogni tipi di voci e di informazioni non verifi-cate a scapito di Bo e del Modello Chongqing. La descrizio-ne più negativa di Bo è venuta da Jiang Weiping, un giorna-lista di Hong Kong già incarcerato sotto la giurisdizione diBo nella provincia di Liaoning e che ora vive in Canada eoffre le sue opinioni ad agenzie di stampa affidabili canade-si come la CBC. Secondo Jiang, nella sua campagna“Cantando Rosso”, Bo ha sprecato 270 miliardi di yuan difondi pubblici. Ha creato più di 600 “società nere” per lagestione della sua campagna “Battere il nero”. Ha rubatopiù di 100 miliardi di yuan di beni di imprese private. Hagettato molte migliaia di imprenditori in prigione e ne hacacciati altri 30.000 senza alcun rispetto per la legge e leprocedure. Ha inferto un collasso psicologico alla classemedia dei nuovi arricchiti e molto altro. 21 Come ha osser-

vato Li Chun la “alleanza fra la classe dirigente comunista,le fazioni anticomuniste dentro e fuori la Cina (incluso ilFalun Gong), i governi occidentali e la stampa” ha trasfor-mato la saga di Bo in un “esempio fenomenale della politi-ca postmoderna del 21° secolo”. All’inizio del settembre2012, il PCC non ha fornito alcuna prova di illeciti di Bo.Tuttavia, con ciò che gli individui come Jiang e i mediatransnazionali hanno fatto, oltre a ciò che i media statalihanno meticolosamente scritto, riferendo il processo peromicidio della moglie di Bo, forse il PCC non è per nullatenuto a fornire alcuna accusa contro lo stesso Bo. Tuttavia,forse proprio a causa di tutte queste notizie ufficiose, il pro-blema di come trovare una conclusione ufficiale alla vicen-da di Bo rimane forse la questione più spinosa per il PCCnegli ultimi mesi che portano al suo 18° Congresso nazio-nale di quest’autunno. Il fatto che ai primi di settembre2012 il PCC non abbia ancora annunciato la data del con-gresso tiene tutti in sospeso.

I siti web di sinistra hanno riconosciuto l’impatto nega-tivo che la saga Lijun Wang/Bo Xilai avrebbe sulla causasocialista, ma esprimono ancora la loro fede in essa. Per unbreve periodo all’inizio della saga, hanno anch’essi scatena-to la loro quota di attacchi nella guerra di comunicati incorso, dai commenti che hanno apertamente sostenuto Boe attaccato Wen, a tutti i tipi di teorie del complotto. Nonsorprende perciò che, verso la fine di marzo e i primi diaprile, il PCC abbia fatto chiudere Utopia e altri siti web disinistra come mossa chiave della sua campagna per elimina-re Bo e controllare le notizie in merito al suo caso. Ciò haconsentito al PCC di sopprimere qualsiasi potenziale ruolodei siti di sinistra nella mobilitazione delle masse per unaresa dei conti sul futuro della Cina. I principali organi distampa anglo-americani, dopo aver giocato un ruolo decisi-vo nella definizione della saga di Bo, stanno capitalizzandola loro crescente importanza in relazione alla comunicazio-ne politica cinese, ma allo stesso tempo stanno affrontandouna profonda crisi nel mercato domestico e le lotte socialicontro la imposizione dell’austerità economica si stannointensificando nelle roccaforti del capitalismo globale. Il 28giugno 2012, il sito web del New York Times in lingua cine-se è andato in diretta, aspirando a diventare un “concorren-te vigoroso” degli esistenti siti web in lingua cinese delFinancial Times e del Wall Street Journal per “la pubblicitàdel lusso, rivolta alla crescente classe benestante del paese”.Nonostante la barriera (firewall) posta dallo stato cinese, ildirettore estero del New York Times, Joseph Kahn, haspiegato che con la nuova iniziativa “speriamo e ci aspettia-mo che i funzionari cinesi vorranno dare il benvenuto a ciòche stiamo facendo”. 23 Nel frattempo lo Stato cinese con-tinua a sopprimere l’informazione interna di sinistra. Lamaggior parte dei contenuti di Utopia resta sospesa, e levoci di sinistra in linea associate al sito web stanno cercan-do di trovare nuove piattaforme di comunicazione perriflettere in merito alla saga di Bo e per riorganizzarsi.

L’incerto futuro della Cina

Dopo aver offerto una critica devastante del modello disviluppo orientato all’esportazione della Cina nell’era dellariforma e delle sue implicazioni globali, John BellamyFoster e Robert McChesney hanno scritto in un articolodella Monthly Review del febbraio 2012: "Per il New York

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Times, solo la resurrezione di Mao o un cataclisma nuclea-re sarebbe in grado di arrestare l’attuale corso cinese.Tuttavia, se ciò che si intende per “resurrezione di Mao” èin qualche modo la riproposizione della Rivoluzione Cinesestessa – che assumerebbe necessariamente nuove formestoriche a seguito del cambiamento delle condizioni stori-che – restano le sue potenzialità e sono perfino crescentinelle attuali condizioni”.

Bo non è certamente un Mao risorto, ma ciò non haimpedito al New York Times, assieme ai suoi concorrentioligopolistici dei media anglo-americani, di unirsi aggressi-vamente alla frenesia dei media transnazionali che hannoaccelerato la caduta di Bo. Mentre la Cina sta giocando unruolo sempre più importante nella “Creazione delle nuovecondizioni per la realizzazione del plusvalore” in un’econo-mia capitalistica globale appesantita dalla crisi, le prospetti-ve di un riorientamento fondamentale del percorso di svi-luppo cinese per realizzare un maggiore equilibrio tra con-sumi interni e esportazioni, e una maggiore uguaglianza trale classi, le regioni, e le altre fratture socio-economico nelbreve periodo, appaiono oscure. Tra le altre nuove condi-zioni, ciò comporta “un riallineamento politico fondamen-tale che sposta la bilancia del potere dall’élite urbana costie-ra alle forze che rappresentano gli interessi fondamentalidella popolazione rurale”. In sostanza ciò significherebbe larealizzazione di ciò che lo stato cinese aspira ad essere nellasua Costituzione, cioè una “democrazia popolare”, guidatadalla classe operaia, considerando come sua spina dorsalepolitica “l’alleanza degli operai e dei contadini”, una fraseche è stata praticamente dimenticata nell’epoca delle rifor-me che promuove la creazione della “classe media”.26

Tuttavia, nella misura in cui Bo è stato tanto abile daandare così lontano a Chongqing e la sua estromissione hacreato una tanto grave crisi politica, il PCC non ha potutoseppellire così facilmente il suo messaggio politico e spaz-zare via i sottostanti problemi che il Modello Chongqing hacercato di affrontare. Se il PCC vuole restare al potere, devebilanciare il preoccupante problema di instabilità sociale neiconfronti di una vacillante economia globale per tutto iltempo da vivere fino alla realizzazione di alcune delle reto-riche contenute nel Modello Chongqing.

Forse è proprio in questo contesto che si può apprezza-re l’impostazione della prima pagina del Quotidiano delPopolo dell’11 aprile 2012. Invece di aprire con la notizia-bomba della destituzione di Bo, ha intitolato: “più di200.000 funzionari dello Shaanxi inviati alla base fra lagente”. Dato che nessun ha fatto un lavoro più impressio-nante del Chongqing di Bo per l’invio dei funzionari adassistere la base popolare, la linea del partito è stata chiara:“abbasso Bo Xilai, lunga vita alla linea di massa”.

Resta da vedere se l’estromissione di Bo rappresenta“l’ultima pietra miliare nel percorso cinese di negazione delsocialismo”. Tuttavia, tra le molte anomalie ironiche svela-te finora da questa saga vi sono queste: in un sistema poli-tico che non consente una campagna aperta e una compe-tizione genuina per le maggiori cariche politiche, Bo dasolo ha avviato una tale campagna sulla base di una piatta-forma politica ben articolata e d’un programma socio-eco-nomico popolare; del resto, non era diventato popolare

sostenendo i valori della democrazia liberista, ma per rinvi-gorire le teorie e le pratiche della rivoluzione comunistacinese; e infine, anche se i liberisti e neoliberisti cinesihanno a lungo lanciato un grido di dolore per rivendicareuna competizione politica in stile occidentale e la libertà dicomunicazione, la loro vittoria nell’aver scacciato Bo hafatto affidamento sulla massiccia repressione da parte dellostato cinese nei confronti dei media di sinistra e dell’infor-mazione. Rimane un’ultima e, in definitiva, più gravedomanda: la rimozione di Bo come contendente per ilpotere nazionale e la concomitante soppressione dei mezzid’informazione di sinistra potrà alla fine rendere la Cina unluogo affidabile per il tipo di “riforme politiche”, che assi-cureranno la Cina come un rifugio per capitalismo globale?

Poscritto

La saga di Bo Xilai sta giungendo alla fine dopo la pub-blicazione di questo articolo che è andato in stampa aiprimi di settembre. Da allora i media ufficiali cinesi transna-zionali hanno preso il sopravvento sulla “macchina dellevoci” transnazionale e sono diventati la fonte d’informazio-ne monopolistica dei verdetti ufficiali sul caso. Il 24 settem-bre 2012, i media di stato hanno riferito che la CorteIntermedia del Popolo di Chengdu ha emesso una senten-za a quindici anni di carcere a Wang Lijun per il reato didiserzione, accettazione di tangenti, abuso di potere emanipolazione della legge per fini egoistici. Il 28 settembre,i media di stato hanno riferito circa il verdetto ufficiale delPCC su Bo Xilai: è stato espulso dal PCC e dovrà affronta-re la giustizia penale per le accuse di corruzione, abuso dipotere, tangenti e relazioni improprie con le donne. Con lafacciata di unità creata dalle conclusioni di queste indaginesu Bo, il PCC è finalmente pronto ad aprire il 18°Congresso Nazionale l’8 novembre 2012. A parte lo stessospettacolo del congresso del partito, il gran finale dell’inte-ra saga di Bo sarà il suo processo. Nonostante che i severiatti processuali che risultano dalla saga siano finalizzati arafforzare sia i discorsi di ordine pubblico, che una forteposizione anti-corruzione del PCC, sembra chiaro che lerealtà di classe e le lotte politiche che hanno attraversatol’intera saga resteranno caratteristiche fondamentali deldispiegarsi della storia cinese. Ancora una volta in Cina,anziché offuscare o anche seppellire la causa del socialismo,la fine della saga di Bo può aprire nuove strade alla lotta peril socialismo, per le quali il controllo popolare della politicaeconomia cinese sarà una caratteristica distintiva.

* Da www.monthlyreview.orf. Yuezhi Zhao è professoressa e incaricata della cattedra di Ricerca

Canadese nell’Economia politica della comunicazione globale pressol’Università Simon Fraser, in Canada. È l’autrice diComunicazione in Cina: Economia Politica, Potere e con-flitti (Rowman & Littlefield, 2008). Traduzione di GiancarloSaccoman. Adattamento di Roberto Mapelli.

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inchieste e ricerche sul lavoro

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Nel caso di Brescia, la micciaè stata innescata dall’enne-sima situazione di crisi

presso la Mac, società del gruppoMagnetto, che nel 1999 è stata destina-taria di una delle prime operazioni diesternalizzazione di Iveco: ad essa èstata assegnata l’attività di stampaggiolamiere. Ovviamente non si è trattatadi una operazione indolore per il ramoindustriale del Gruppo Fiat: di conse-guenza gli operai bresciani con oltre 40ore di sciopero hanno portato a casaun accordo finalizzato a tutelare i livel-li occupazionali attraverso un precisoimpegno di Iveco. Inoltre l’accordo hadisciplinato il trasferimento di ramo diimpresa, prevedendo l'armonizzazionedella situazione retributiva e normativadel personale di Iveco trasferito allaMac, ma soprattutto stabilendo in capoa Iveco l’obbligo di riassorbire i lavora-tori trasferiti nel caso in cui si fosseromanifestate situazioni di difficoltà pro-duttive e occupazionali presso le attivi-tà esternalizzate. Si è trattato di unaccordo importante perché ha rappre-sentato la base per gli accordi che suc-cessivamente riguarderanno altri repar-ti esternalizzati, come la Fenice, ilreparto Plastica o la Manutenzioneceduta a Comau.

La conferma del carattere strategico,per il Gruppo Fiat, dei processi diesternalizzazione di funzioni produtti-ve – attuata in più stabilimenti – vieneaffermata già nelle premessedell’Accordo del ’99: “IVECO, ancheper lo stabilimento di Brescia, intendeeffettuare le operazioni di insour-cing/outsourcing nell'ottica della par-tnership, mantenendo il governo dellescelte strategiche per quanto concerneil prodotto… Nelle logiche primadescritte, rientra il piano di insour-cing/outsourcing delle attività diStampaggio Lamiere, dell'Energia edEcologia, di GlobaI Service diManutenzione, della Plastica e delleattività di salvaguardia del patrimonioaziendale e dell’antincendio”. Proprioper questo la Fiom ha inteso costruire

to in fabbrica non entrano più materia-li, per i camion costretti a lunghe filedai picchetti su tutti i 5 cancelli.

Il Prefetto di Brescia cerca di defini-re, con azienda e sindacati, un percor-so condiviso per ridurre «l'impatto suilavoratori del processo di ristruttura-zione messo in atto dalla Mac». Il per-corso individuato prevede l'utilizzodegli ammortizzatori sociali disponibi-li: sei mesi di cassa integrazione inderoga all'esaurirsi della quale sarebbeiniziato un periodo, due anni, di cassastraordinaria. Il problema è che questopiano non prevede nessuna garanziaoccupazionale: la Fiom aveva propostol’utilizzo di 30 mesi di ammortizzatorisociali articolati in 6 mesi di cassa inderoga, 12 mesi di Cigs più altri 12mesi. Ad ogni passaggio di ammortiz-zatori però l’Iveco avrebbe dovutoassorbire parte dei lavoratori trasferitiin Mac fino alla completa copertura ditutte le posizioni lavorative. Invece ladisponibilità dell’Iveco si era limitata alriassorbimento soltanto di un numerodi posizioni lavorative funzionali alleproprie esigenze di organico: 3-4 postisullo stabilimento di Bolzano e 1 perTorino.

Di fronte a questo bassissimo gradodi rioccupazione dei lavoratori Macviene perciò convocata una assembleaai cancelli dove viene distribuito iltesto della proposta definita inPrefettura. La risposta dei lavoratorinon lascia spazio a equivoci: all’unani-mità dei presenti (64) viene bocciata laproposta e altrettanto all’unanimitàviene approvata la posizione dellaFiom: i dipendenti Mac «ribadiscono lavalidità degli accordi del 1999, del 2009e del 2011 e gli impegni che Mac eIveco hanno assunto nei loro confron-ti». Inoltre «ritengono utile ricordareche la scelta di terziarizzare il repartostampaggio lamiere è stata una scelta diIveco e che lo smantellamento definiti-vo del reparto era stato collocato nel-l'ambito di una riorganizzazione azien-dale che ha visto Iveco occupare le

un quadro di tenuta a fronte di unavolontà così forte da parte di Iveco diriorganizzare la propria produzioneattraverso lo strumento delle esterna-lizzazioni.

Gli accordi ottenuti dai lavoratorisembravano funzionare: Iveco inter-venne nel 2006/2007 assumendo 90lavoratori della Mac a seguito di unaprocedura di mobilità, così come inter-venne nel periodo 2009/2012 assu-mendo 30 lavoratori. Dei 153 lavorato-ri trasferiti alla Mac, a seguito delle crisiproduttive e occupazionali e dei rias-sorbimenti in Iveco, sono rimasti 84.Nessuno di questi passaggi venne“regalato” ai lavoratori: in tutte leoccasioni, per ottenere il rispetto diquanto sottoscritto, si resero necessaridiversi scioperi ed una vertenza comequella del 2009 con 76 giorni di presi-dio.

La situazione precipita in autunno.L’11 ottobre, infatti, scadono i terminidella CIG alla quale si era ricorsi pergestire la crisi Mac del 2009. La Fiomsolleva il problema chiedendo l’apertu-ra di un tavolo, al quale non si presen-terà mai il soggetto principale di tuttala vicenda: l’Iveco. L’iniziale gestionedella situazione di crisi da parte dellaMac sembra abbastanza “morbida”:non viene aperta la procedura di mobi-lità ma si ricorre all’utilizzo delle ferieresidue. Ma al tempo stesso le dichiara-zioni dell’azienda non lasciano spazio amediazioni: le testuali parole della diri-genza Mac parlano di "insostenibilitàproduttiva", di una "consistente erepentina riduzione della domanda",dei "costi fissi troppo elevati". Conqueste parole viene ufficializzata lacessazione di ogni attività di stampag-gio lamiere all'interno dello stabilimen-to bresciano, per concentrare ognilavorazione presso la sede di Chivasso.

Riparte, quindi, la lotta dei lavorato-ri bresciani, con il blocco di tutto lostabilimento Iveco; l’azienda mette inlibertà tutto il personale Iveco in quan-

LA CRISI MAC sintomo delle difficoltàe dei rischi di FiatIndustriale

La recente vertenza apertasi a Bresciasul caso Mac ha messo in evidenza i

rischi che incombono sull’interoGruppo Fiat Industriale in fatto di

stabilimenti italiani.

di MATTEO GADDI

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aree Mac liberate con la dismissionedelle linee di stampaggio». La soluzio-ne di riassorbimento in capo a Iveco sirende inevitabile per la Fiom, in quan-to le aree progressivamente liberatedalla Mac sono state occupate da atti-vità logistiche (prevalentementemagazzino) di Iveco, quindi in essenon si possono più svolgere attivitàproduttive.

La vicenda Mac va inquadrata nel-l’ambito più generale della situazionedi Iveco e di tutta Fiat Industrial: perquesto il 29 novembre la Fiom diBrescia ha organizzato un primomomento di discussione tra i delegatidi tutto il Gruppo, che sta infatti cono-scendo processi di riorganizzazione siaa livello internazionale che in Italia.

La riorganizzazione delle attivitàproduttive di Iveco è stata illustratadall’Amministratore Delegato AlfredoAltavilla in occasione della presenta-zione del nuovo Iveco Stralis: il mana-ger ha spiegato che cinque stabilimen-ti verranno chiusi in Europa entro laconclusione dell’anno corrente e chequest’operazione coinvolgerà 1.075lavoratori. La chiusura riguarda gli sta-bilimenti della Francia (Chambery),quello austriaco di Graz, quelli tede-schi di Goerlitz e Weisweill, mentrequello di Ulm verrà riconvertito (nonprodurrà più mezzi pesanti) e divente-rà un centro di eccellenza per i mezzianti-incendio, concentrando tutte leattività di questo genere. Le chiusureseguono quelle avvenute durante loscorso anno a Barcellona e ad Avellino(lo stabilimento Irisbus che producevaautobus) e fanno parte di un progettodi riorganizzazione delle attività pro-duttive di Iveco. Il Paese in cui FiatIndustrial sta investendo è la Spagna:sono previsti investimenti per 1,5miliardi di euro, favoriti da una genero-sa politica di sgravi fiscali da parte delGoverno spagnolo. Al sostegno eco-nomico del Governo si è aggiuntoanche un accordo sul lavoro pesantissi-mo: per i turni “normali” (che termi-nano alle 23) su otto ore vengono pre-viste una sola pausa e la cancellazionedella mensa; con gli straordinari l’ora-rio giornaliero può arrivare fino a 12ore al giorno e a 76 settimanali.

In questo modo Iveco ha dunquedeciso di concentrare tutta l’attività delmezzo pesante a Madrid. Poiché leproduzioni di Brescia sono classificate

danno una immagine di multinazionaleal Gruppo. A Torino in Fiat PowerTrain si vive una situazione di attesa;per alcuni prodotti (cambi, motori) lacrisi non è stata avvertita in manierasignificativa, per altri (ponti assali),cioè quelli maggiormente legati alleforniture dirette al Gruppo Fiat, sisono verificati i problemi maggiori,con il maggior ricorso alla CIG. Ormaiè molto cambiato il rapporto tra pro-duzioni per Fiat e quella per il merca-to: da un rapporto 80%-20% si è pas-sati ad un 65%-35%. Ormai il 50%delle aree dello stabilimento è vuoto esi teme la concorrenza di stabilimentiin Argentina e Cina che producono glistessi tipi di motori. Anche in questosito le novità nell’organizzazione dellavoro apportate hanno avuto effettinegativi: tenendo conto che nella pro-duzione motori Fiat Power Train si èconcentrata solo sul core business (latesta), tutte le altre componenti arriva-no da fuori, caotizzando la situazione.

Il recente Piano Industriale delGruppo Fiat presentato daMarchionne non dice niente a proposi-to del veicolo industriale: l’unico obiet-tivo perseguito è quello di caratterefinanziario, con la fusione tra FiatIndustrial e Case New Holland, ondearrivare ad unica società da registrarein Olanda (per ragioni fiscali) e quota-re a New York. E così, mentre i con-correnti si attrezzano e investono (laMan prevede 50 miliardi nei prossimianni), Fiat Industrial non sa nemmenosu quali modelli puntare.

tra quelle del veicolo “medio-pesante”,le sorti dello stabilimento sono alquan-to incerte. Il “pesante” ha già cessato laproduzione nel 2005, è rimasto soltan-to il modello Eurocargo, i cui volumicon la crisi del 2008/2009 sono drasti-camente diminuiti: dai 25.000 veicolidel pre-crisi (che rappresentano anchela capacità produttiva dello stabilimen-to) si è passati ai 10.000 del 2009, pertornare un po’ più su con il dato attua-le di 15.000. Si sono persi comunquedue quinti di produzione: dal 2008 aBrescia si è fatto massiccio ricorso agliammortizzatori sociali, visto che gliattuali livelli di produzione non con-sentono una saturazione occupaziona-le superiore alle 1.500 unità a frontedei 2.400 dipendenti. Impossibile nontemere che non ci siano esuberi se nonsi mette mano alla missione produttivadello stabilimento bresciano. Le lineeinstallate hanno una capacità di 138veicoli al giorno: attualmente funzio-nano a 110 ma con metà dell’attività (ilavoratori sono in Contratto diSolidarietà), quindi a 55 veicoli/giorno.Un dato estremamente basso.

Anche presso lo stabilimento diSuzzara, dove si produce il Daily, nonmancano i problemi. L’applicazionedel cosiddetto “regolamentoMarchionne” ha “cambiato il mondo”(come dicono i delegati dello stabili-mento): non si è più discusso di infor-tuni, gli RLS Fiom non sono più statiriconosciuti, tabelle e tempi sono statiimposti dalla direzione senza nessunconfronto, inoltre l’organizzazione dellavoro ha cominciato a palesare grandiinefficienze, con centinaia di “incom-pleti” dovuti alla mancanza di pezzi o adifetti dovuti ad una organizzazionedella produzione completamente sba-gliata. Ma anziché mettere mano all’or-ganizzazione del lavoro la direzioneaziendale ha pensato di ricorrere a unulteriore giro di vite, con lo sposta-mento della mensa a fine turno e l’im-posizione di straordinari al sabato.Questi elementi hanno fatto scattareuna scintilla: i lavoratori si sono rivoltialla Fiom che ha organizzato gli scio-peri per il sabato in maniera articolata(a volte al mattino, a volte il pomerig-gio): e se le adesioni fino a qualchemese fa, dopo la “cura Marchionne”,erano del 15%, adesso sono schizzateall’80%. A Torino, invece, si è assistitoalla sostituzione di tutta la vecchia diri-genza (molto legata alla mentalitàIveco) con nuovi giovani quadri che

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Nell’azienda agricola BrunoLazzaro, una tenuta a circaun chilometro e mezzo da

Castelnuovo Scrivia per Tortona, aridosso dell’autostrada Milano-Genova, ad una quarantina di lavorato-ri marocchini immigrati – trenta uomi-ni e dieci donne – mancavano solo lecatene: orari di lavoro spaventosi, finoa 13-14 ore al giorno, domeniche efestivi compresi; lavoro nero e irrego-lare; ricatti ed estorsioni, fino a 2.500euro versati direttamente al padroneper il rinnovo dei permessi di soggior-no; salari ridotti all’osso, 200-300 eurodi soli acconti per circa 300-350 ore dilavoro mensili; terribili condizionilavorative, costretti a raccogliere ortag-gi, sotto il solleone estivo, senza guan-ti, senza scarpe da lavoro, senz’acqua(al massimo c’era quella delle cannetteper l’irrigazione), il cibo portato dacasa sulle biciclette.

Venerdì 22 giugno, ore 6.00 del mat-tino, un giorno come tanti, inizia larivolta. Per la prima volta nella lorovita questi migranti incrociano le brac-cia, pronunciano la parola “sciopero”.Partono da soli, ma diventano visibili atutti. Allestiscono un presidio di tendee frasche nei pressi della cascina, isti-tuiscono una cassa di resistenza pertirare avanti, chiedono l’aiuto a CGIL,associazioni, partiti, cooperative socia-li. Serve tutto: cibo, vestiario, aiuti.Sono anche giorni di forte tensione, trapicchetti, invasioni dei campi per bloc-care i crumiri, blocchi stradali e dellemerci, denunce.

Un primo accordo sindacale tra laCgil e la Cia (Confederazione italianaagricoltori: quella di “sinistra”) vienestracciato dal padrone, quando daBrescia, fa arrivare una cooperativa diraccoglitori indiani, la Work Service,fatta di presunti cottimisti che si alzanoalle quattro del mattino per essere nellecampagne castelnovesi alle prime lucidell’alba. E alla data del 31 luglio quat-tordici lavoratori marocchini vengonomessi alla porta. Licenziamento verba-le. Motivazione ufficiale: scadenza del

del lavoro e, infine, un’inchiesta dellaProcura di Torino hanno portatol’azienda ad alzare nuovamente il tiro,con l’obiettivo di disfarsi dei restantilavoratori marocchini. A metà agostocompare un cartello incollato connastro adesivo su un palo della lucedavanti al presidio: “Dal 17 agosto imarocchini dipendenti dell’aziendaagricola Lazzaro Bruno e LazzaroMauro cessano l’attività presso la sud-detta azienda e non lavorano più”.Come nelle piantagioni del primoNovecento, quando non c’erano dirittie rappresentanze sindacali e tuttodipendeva dalla volontà del padronedella terra, da un giorno all’altro i qua-ranta braccianti della Lazzaro si sonotrovati, tutti o quasi, per strada.

Oggi però la vertenza segna final-mente un primo punto a proprio favo-re: la Procura della Repubblica diTorino, che sta indagando sulla vicen-da Lazzaro, ha dato il nulla osta per ilriconoscimento dei permessi di sog-giorno ai lavoratori marocchini irrego-lari, a seguito della denuncia per ridu-zione in schiavitù. Un primo passoimportante, anche se la vicenda nonpuò dirsi ancora conclusa: la sceltadella ricollocazione lavorativa solo diuna parte dei migranti, su tutto il terri-torio provinciale, se dà risposte sulpiano salariale immediato, attraversoborse lavoro della durata di 3 mesi, per20 ore settimanali, a 530 euro mensili,interamente pagati dalla Provincia diAlessandria, non dà le stesse garanziesul piano delle future garanzie occupa-zionali in termini di continuità.

I braccianti marocchini dellaLazzaro hanno alzato la testa, oggi rap-presentano un utile esempio per tutti ibraccianti della Bassa Valle Scrivia:meno “nero”, più assunzioni, più con-trolli sulle condizioni lavorative, mag-giore coscienza dei propri diritti.Inoltre il “presidio permanente” –realtà autorganizzata scaturita da que-sti 74 giorni di lotta – sta allargando ilproprio raggio d’azione, ha presoavvio uno sportello legale.

contratto. Ma il contratto non esiste,quello prodotto dal padroneall’Ispettorato del Lavoro reca firmefalsificate, come pure le buste paga del-l’anno in corso.

Hamid controlla il suo passaporto.Non riesce a crederci: le buste pagaportano una firma vagamente similealla sua, solo che lui, in quel periodo,non era a lavorare, e neppure si trova-va in quel di Castelnuovo Scrivia, era alsuo Paese, in Marocco!

Cresce rabbia e tensione. In mezzoai campi di pomodori, in quei giorni,qualcuno avrebbe voluto lo scontro tradisperati – marocchini contro indiani.Senza però riuscirci. La lotta si raffor-za, attraverso gli scioperi, i blocchi, lemanifestazioni. E’ una lotta che con-stata anche la rottura degli schemi edelle prudenze di pratiche sindacaliinadeguate al mondo migrante.

Venerdì 3 agosto. Una bella e gran-de manifestazione sindacale, come nonsi vedeva da anni per entusiasmo epartecipazione, ha attraversato la cittàdi Alessandria, con in testa i bracciantidella Lazzaro dietro lo striscione “Nosfruttamento, no schiavismo”. Dopoun primo sit-in davanti alla Prefettura ilcorteo ha raggiunto la sede della Cia.“Schiavi mai”, “Giustizia, giustizia!”,“Lazzaro vergogna, Cia vergogna”, glislogan più gridati durante il percorso enel secondo sit-in.

Parte una campagna di boicottaggiocontro i supermercati Bennet, tra iprincipali clienti dei Lazzaro. Grandescandalo, i pennivendoli del padrone sistracciano le vesti, i più moderatisostengono che la campagna danneg-gia gli stessi braccianti marocchini.Niente di più sbagliato: Lazzaro ha giàdeciso, nei suoi campi lavorano solo gliindiani della Work Service, che dadodici che erano sono ormai diventatiuna trentina.

Manifestazioni, tavoli in Prefettura,ispezioni della Direzione provinciale

IMPORTIAMOSCHIAVI

Neppure chiamati per nome, ma con sprezzantiappellativi: Hamid era Grosso; un altro Hamid eraOcchi di gatto; Mohammed era Saddam Hussein;

Hamed veniva chiamato Magro; Mustafà, Serpente;Kassem, Cassetta; poi c’era Arbi che era Vigo, il

nome del cane del padrone.

di ANTONIO OLIVIERI