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Di bestia in bestia (1980-82, edito da Longanesi nel 1989) è il mio primo romanzo, ciò che basterebbe a farne il prediletto; in più, è il libro “della mia vita”. Con- tro questi motivi di affezione, mi sono forzato a limitar- mi a sceglierne poche pagine. “Dovete sapere che quando i Teutoni costruirono questo maniero, fra il 1238 e il 1241, si preoccuparono di dotarnelo d’una gran quantità di passaggi segreti ond’all’uopo tentare aggrediti la fuga, o ver côrre impreparato l’usurpatore inimico… Quei bizzarri cava- lieri sapevano di essere circondati da popolazioni bel- licose ed ostili e non volevano correre inutili rischi; anche l’esempio recente del Barone di Wzsise, mas- sacrato nella propria dimora con tutto il suo seguito, doveva agir vivamente sulle loro menti… Predisposero dunque per tutto ordegni offensivi, cinsero i muri di bastite e di bertesche e di merli e acconce al tiro aprîr feritoie, cavaron fosse e le fosse fisser di pali dal vene- noso cacume: fu tutto vano, e di quelle misure non resta oggi traccia, solo all’opra invidiosa del tempo scampâr le secrete ed ascose… Nessuno sospettava dell’esistenza di quei passaggi, e neanch’io ne sarei mai venuto al corrente se non fossi stato coinvolto in uno scabroso incidente… Saran state le sette di sera, il mio ultimo capitolo è ultimato e così scendo ad aprir per un po’ la cantina, sarà contento di uscire penso, è più di venti giorni ch’è rinchiuso là dentro, d’altronde il capitolo mi aveva molto impegnato e avevo dovuto 233 L’illuminista Le 30 pagine più belle di Michele Mari scelte da lui medesimo di Michele Mari

Le 30 pagine più belle di Michele Mari scelte da lui medesimo

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Le 30 pagine più belle di Michele Mari scelte da lui medesimo, comprendenti brani tratti da "Di Bestia in Bestia", "La stiva e l'abisso", "Tu, sanguinosa infanzia".

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Page 1: Le 30 pagine più belle di Michele Mari scelte da lui medesimo

Di bestia in bestia (1980-82, edito da Longanesi nel1989) è il mio primo romanzo, ciò che basterebbe afarne il prediletto; in più, è il libro “della mia vita”. Con-tro questi motivi di affezione, mi sono forzato a limitar-mi a sceglierne poche pagine.

“Dovete sapere che quando i Teutoni costruironoquesto maniero, fra il 1238 e il 1241, si preoccuparonodi dotarnelo d’una gran quantità di passaggi segretiond’all’uopo tentare aggrediti la fuga, o ver côrreimpreparato l’usurpatore inimico… Quei bizzarri cava-lieri sapevano di essere circondati da popolazioni bel-licose ed ostili e non volevano correre inutili rischi;anche l’esempio recente del Barone di Wzsise, mas-sacrato nella propria dimora con tutto il suo seguito,doveva agir vivamente sulle loro menti… Predisposerodunque per tutto ordegni offensivi, cinsero i muri dibastite e di bertesche e di merli e acconce al tiro aprîrferitoie, cavaron fosse e le fosse fisser di pali dal vene-noso cacume: fu tutto vano, e di quelle misure nonresta oggi traccia, solo all’opra invidiosa del temposcampâr le secrete ed ascose… Nessuno sospettavadell’esistenza di quei passaggi, e neanch’io ne sareimai venuto al corrente se non fossi stato coinvolto inuno scabroso incidente… Saran state le sette di sera,il mio ultimo capitolo è ultimato e così scendo ad aprirper un po’ la cantina, sarà contento di uscire penso, èpiù di venti giorni ch’è rinchiuso là dentro, d’altronde ilcapitolo mi aveva molto impegnato e avevo dovuto

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scelte da lui medesimo

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riscriverlo tre volte, ma siccom’Epéo mi diceva cheOsac stava bene e che mangiava kko gwuz’to nonavevo motivi per preoccuparmi… Dunque apro e m’a-vanzo nel buio: com’è che non si sente, che non emet-te sue crida incomposte? Che stia dormendo? Attendoche gli occhi si abituino all’oscurità, poi mi guardo ingiro: non c’è. Non c’è? Epéo! chiamo e ritorno perples-so all’uscita, ma orrore! la porta è serrata e non s’apre:entrando devo essermela tirata dietro senza accorger-mene, Epéo Epéo chiamo più forte, ma nulla risponde.Prigioniero! E in casa mia e per colpa pur mia! Ma nontanto di questo temevo, prima o poi Epéo sarebbevenuto a liberarmi. L’angoscia era un’altra: dove si tro-vava il vero prigione? Come aveva fatto ad uscire?Che si fosse messo d’accordo con Epéo? In questocaso non avevo nulla di buono da sperare, avrebberoanche potuto decidere di farmi morire lì dentro…

Epéo Epéo! Niente. Dunque è vero, congiurati nelbuio hanno atteso in silenzio ch’entrassi per chiudermila porta alle spalle, ed ora lassù nel mio studio stannogià gavazzando e ridendo – ingrati! – e ridendo di me...Epéo Epéo Epéo! Possibile ch’ad instrurre ‘l complottomio fratello abbia avuto bastante l’ingegno?

Or colui regge a suo voler le stelle,e noi siam giudicate alme rubelle. Ed invece del dì sereno e puro,de l’aureo sol, de gli stellati giri, n’ha qui rinchiuso in questo abisso oscuro,né vuol ch’al primo onor per noi s’aspiri.

Mi aggiravo disperato per que’ teterrimi vichj, edallor per in pria veramente sapevo cos’è nostalgia,nostalgia che ne strugge più che duolo o vendetta e a’suoi languori n’umilia acerbetti... Il mio regno il mio cie-lo il mio stato... Allor veramente sapevo di quale simorisse rimpianto il padre Adamo caduto, di quale ilcigno dolente di Tomi suo’ Tristia cantando col guardo

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vêr l’Urbe... Ah fratello fratello che cosa mi hai fatto?Forse lui pure spignea Nostalgia? Ma (questo poi

mi chiedevo) si può aver nostalgia di cosa ch’ancornota non sia? Eppur con non dissimile brama Catilinaallo Stato anelava in arringando suoi cupi sodali, néGiovanni con altra insidiando la terra a Riccardo... For-se il mio tristo gemello avea ognor sospirato cupìdol’alma luce superna ch’io invocavo in quel tratto, forsesua vita non era e non fu (qual credéami) tutta unvegetare indolore distratto...

Calma mi dissi, l’uom saggio non perde la calma némai si scompone: di quel mio imaginar la pueril deboltàbiasimando impresi ad esplorar la caverna con spirtolaborioso fattivo; l’afrore devo dire era forte, mio fratel-lo non aveva mai dimostrato di apprezzar dell’igiene ilvalore, su questo strame era aduso dormire, questibarattoli vuoti (ecco v’inciampo) son le spoglie di tantomiele vorato... M’inoltro nel buio fra putridi scoli diliquame fetente... E questo muschio cos’è? Un’efflore-scenza setosa lubrìca, il salnitro dev’esser che passimmio fratello soleva innaffiare d’orina copiosa secondosua capace vesica ed il bisogno dittava... M’avanzo:quai del Ciclope ne l’antro biancheggiano l’ossa relitteda’ barbari pasti cucinati da Epéo... e brandelli gom-mosi di bambole explose... policròmi balocchi retaggiode l’infanzia lontana, ed attuale pur sempre... topi viva-ci protervi dalla coda rosacea impudica... rugginosecatene e ceppi ed anelli commessi dal Tèutone al fabronel superstizioso Dugento...

Strano, ero convinto di aver sistemato Osac nelmigliore dei modi (appena arrivati mi ero occupato del-la disinfezione e dell’aerazione dei locali ad essoluidestinati), non credevo che ci fosse sì tanta sordizie, etanto buio, e tanti miasmi ne l’aria... Ma cos’era quelventicello gelato che mi refolava sul viso? Ne cercaiincontanente la fonte quale tosto scoprii: e scoprii unavacanza quadrata nel muro frontale, come una cieca egratuita finestra: aria fresca, aria salubre! Dunque quelvano aveva uno sbocco, un’apertura sul mondo de’

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giusti... In altre circostanze non mi ci sarei mai avven-turato, ma in quel frangente n’andava di tutta mia vita:senza più mora frapporre m’intrusi nel buco come s’in-trude l’affusolato siluro nel subequoreo cannone: stri-sciai orizzontale nell’orizzontale cunicol per circa metriquaranta poi in simil modo a mancina per altri quaran-ta poi a dritta per diece e po’ per sessanta novella-mente a mancina: quindi vertical si drizzava la galleriatortuosa estenuante: ma quale fosse al Fattor la miaScala l’arrembai con virilissimo piglio, ed in suso saliiper quel budello viscoso... Salivo co’ l’ugne appren-dendomi ad ogni scabrosità delle pietre, ora ‘l piedefulcendo ora ‘l cubito stanco ed ora ‘l dorso inarquato,salivo da qualche minuto (né ancor di mia ascesa lafine intuivo) quando mi cadder sul capo frammentiminuti leggeri di sostanza terrosa petrosa, e con essi –ahi duolo – un picciol precipite sasso: o dunque? Con-tinuavo a salire, ma pur continuava quella pioggiaoffensiva... Poi un rumore vicino, e sempre più crebro‘l pulvisco in discesa... Alle corte: fortuitamente sco-perto quell’intrinseco tubo e fattovi per diporto unescurso, come di bestiuola curiosa, mio fratello (chenessuna meditò ribellione, che con Epéo non mai s’ac-cordò frodolento) aveva contratto l’insana abitudo d’av-venturarcisi dentro siqqual lubrico talpone, ed ora sta-va tornando a sue sedi proprio in quella ch’io sgomen-to lasciandole mi studiavo al superiore riscatto... Mi fer-mai chiamandolo a nome, ma quello insensibile nonintermise suo viaggio, sul mio capo suo’ rozzi scarponiindelicato posando: Deh sciaurato ti ferma! gridavo,ma quello premeva premeva, ed al baratro fondo seco-sé mi spigneva... Cercavo affannato d’oppormi ma nul-la mio sforzarmi potea, ché di me già più corposo epossente (e ben lo mi sapevo da quando fanciulli noi cis’ostava in semiseria pugnace contesa) ei godeva inquel mentre del formidabile aiuto ch’a’ gravi ministra diGravità la virtù... Deh ferma mio fratre! Recedevo stri-sciando vêr l’imo sotto l’inesorabile pondo, puntellarnon togliea che sempre più giù scivolassi ed ecco – me

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lasso! – rifarsi più stretto e lubrico ‘l budello e più gre-ve l’aer fosco, e più insano... Non volevo cadere. Vole-vo salire. Nessuno mi garantiva che quel condottoavesse effettivamente un’uscita, ma ugualmente d’unasola cosa ero vago: salire. Ci misi un po’ a capire chenon ci sarei mai riuscito finché mi ostinavo a lottare conquel corpo cognato, voleva scendere al basso? Beneci andasse, dovevo solo cercare di farmelo passare aldi sotto... Il pozzo permetteva il passaggio di una solapersona alla volta, ma ricordai di aver nel salire incon-trato una sorta di vano che s’apriva lunghesso la pare-te ricurva viscosa: mi lasciai scivolare sotto la pressio-ne arrogante di Osac finché non ne raggiunsi l’altezza,poi mi appiattai nella nicchia (non era profonda: queltanto) lasciando che mio fratello passasse... Gli scar-poni bullonati fangosi mi sfiorarono il volto, e le brachesdruscite e ‘l giaccone di ruvidissima tela, e ‘l suo alitoinfame che sapea di rigurgito aspro e i capegli ritortiquai funi dalla gromma oleosa degli anni... Pensate, cifu un istante in cui ci trovammo ambedue alla medesi-ma altezza, ma solo un istante, spalla a spalla l’uno afronte dell’altro quali già fummo ne l’alvo materno omo-zigoti irrequieti...

Mi sorpassò senza neanche avvedersi di me, rego-lare in suo descensionale progresso: che vada, pen-sai, ora che non grava più sopra me può scendere insi-no al centro della Terra affuocato, e restarvi confittocome già Satanàs lussurioso... Ripresi la salita con rin-novellato vigore, ed in breve pervenni alla fine delvisceraneo tratturo, val tu dica a una piazzuola qua-drata cui generosa fea luce una finestretta sublimeancor essa quadrata. Alle sue sbarre aggrapparmi eper essa introdurmi fu agevole cosa e veloce. Libero!Trassi di sollievo un respiro: l’ordine natural delle coses’era alfin ristorato, chi doveva esser sopra, era soprachi doveva esser sotto era sotto...

Ma dov’ero arrivato? Quando me ne resi contostentai a crederlo, ero arrivato... Sì, ero arrivato proprioin cima alla torre, in uno di quei grandi locali cadenti

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ov’il passo non mai si posava... Evidentemente erosalito più in alto di quanto avessi pensato, evidente-mente il passaggio era stato studiato a suo tempo percollegare gli estremi ricetti del teutonico ostello, il subli-me e l’umìle... Ma quale non fu ‘l mio stupore, pocodopo, di fronte a’ molteplici segni che del fratello la rei-terata presenzia in quel luogo dimostravan non dubbî:graffiti di primordiale rozzezza, iridescenti rabescatichiazzoni d’organici graveolenti liquori (feroce ammo-niaca), tracce d’ingordi bivacchi, tutto diceva che nonsola una volta s’era Osac colassù diportato... Dunqueper questo con tanta tollerava indolenza la carcere suasotterranea, per questa diversione ricorrente vêr l’al-to... E io, io chissà quante volte avevo creduto d’aver-melo al di sotto dei piedi, che invece me l’avevo al disopra del capo! Non so bene perché, ma ‘l retrospetti-vo pensiero d’essermi trovato sotto di lui tante volte –scrivendo, leggendo, dormendo, sognando – mi riusci-va intollerabile... Mi sentivo come se alle mie spallefosse stata consumata una beffa atroce, e ‘l supremotradimento del sangue…

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Dopo Io venìa pien d’angoscia a rimirarti (Longane-si 1990, poi Marsilio 1998) scrissi La stiva e l’abisso(Bompiani 1992), che a dispetto della sua sfortuna èprobabilmente il mio libro migliore. Di questo romanzo,ambientato in un galeone visitato da misteriosi pesciaffabulatori che regalano ai marinai la memoria degliannegati, ho scelto a titolo illustrativo alcune “voci”:nell’ordine, del Capitano (1-3), di un ufficiale (4) e di unclandestino (5).

1

Questa nave trasporta granaglie, comunissime,banali, vili granaglie. Assai più mi piacerebbe coman-dare una nave carica di spezie esotiche dai nomi favo-losi, cardamomo, nepente, issopo, ipecacuana, o dipiante medicinali familiari ai monaci dei nostri conven-ti, ma dai nomi ancor più misteriosi ai profani, melissagiusquiamo estragone, dulcamara madreselva lauda-no… oppure vorrei un carico di stoffe pregiate, non peril loro valore ma per la magia che fin da bambinoavvertivo in quei suoni, parole come paesi lontani, zen-dado, broccato, damaschino, taftà… o legni, di quellirari, odorosi, per gli ebanisti e gli intarsiatori, che netraggano stipi e colonnine tortili, o astucci, o piccoliscrigni fragranti per signora, il sandalo, l’eucalipto, ilcedro, la tuia… Anche le armi antiche hanno bei nomi,brandistocco archibalista mazzafrusto flamberga…Cosa portate, capitano Torquemada? Oh niente, ipe-cacuana, broccati, assicelle di cedro, una flambergaper il duca di Osuna, un po’ di estragone, ah! poterlodire una volta, e finalmente morire.

2

L’unico pensiero che mi dia pace, è il taglio dellamia gamba. Mi diletta immaginarlo in modi semprediversi, e più l’immagine è precisa, più riesce a pla-carmi. Le prime volte mi arrestavo sempre sulla visio-

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ne di un’ascia, limitandomi a variarne la forma e lacondizione: piccole accette lucenti, pesanti scuri pun-teggiate di ruggine, smisurate bipenni, mannaie danorcino, manovrate da mani invisibili, calavano sullamia coscia spiccando la gamba con precisione chirur-gica: la pulizia del taglio, l’assenza di sangue, lo spet-tacolo astratto della sezione della mia coscia assimi-lavano l’operazione all’affettamento di un prosciutto.Allora sono passato alla sega, che agendo più gra-dualmente dell’ascia mi consentiva di indugiare più alungo sulla mia fantasia e di creare effetti più truci.Azionata da uomini che restavano fuori del mio cam-po visivo, la sega mi procurava sensazioni e soddisfa-zioni differenti mano a mano che dalla pelle passavaalla carne e dalla carne giù all’osso, e intanto neavvertivo cambiare anche il suono, come di bestiaviva che ringhii: le grosse lame a telaio maciullavanotutto sfrangiando i bordi del taglio e spargendo scheg-ge d’osso e fibre all’intorno, i sottili gattucci erano piùprecisi ma rischiavano di spezzarsi ad ogni momento,flettendosi per lo sforzo i saracchi aprivano falsi tagliche avrebbero frastagliato il moncone. Ma purché lagangrena si allontani da me, ogni orrore mi è bello.Talvolta la elimino con un cavo ritorto: giratolo attornoalla coscia ne affido i capi a un martinetto, e stringo,stringo, stringo: la gamba diventa viola e si gonfia, poisi crepa come un popone lasciato a semenza, mentrele pustole spurgano sanie come fontanelle: finalmen-te, tranciati d’un colpo i tessuti, il cavo si stringe intor-no all’osso, lo intacca stridendo, ne sfarina la sostan-za porosa, lo fende: l’opera di un lapicida. Ma è belloanche il fuoco: preparo un caldano, aspetto che ci siatanta brace, una montagna di brace, e poi ci infilo lagamba malata, e con la paletta altra brace di sopra: ohcome sfrigola! oh come brucia! oh come se ne dile-guano i succhi e il veleno! Quando l’arto è ben calci-nato e consunto lo estraggo e ne contemplo l’essen-ziale magrezza, le sfumature grigiastre, è quasi vetri-ficato, perderlo adesso che è così puro sembra un

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peccato ma l’opera va terminata, basta un colpetto,ecco, e si stacca tutto, leggero come un fanone.

Da qualche giorno, però mi sono affezionato aun’immagine diversa: solo su una zattera di fortuna, inun mare calmissimo e nero, immergo la gamba nel-l’acqua, dove il siero che cola dalle mie ulcere crea iri-descenti arabeschi: incuriositi, minuscoli pesciolinimordicchiano lembi di pelle necrotizzata, poi, improv-visamente, fuggono tutti insieme: l’attimo dopo, salitodall’abisso a fauci spalancate, un enorme pesce difoggia mai vista inghiotte il mio arto. La rescissione èindolore, ma questa volta, non so perché, c’è in menostalgia.

3

Ricordo un predicatore, un omino asciutto e oliva-stro. Diceva del corpo umano ch’è “luogo di magnifi-cenza e di gloria”, ma insieme “sede d’ogni abiezio-ne”. Io lo ascoltavo intimidito, e mi immaginavo il cor-po come un vasto palazzo con dentro tante stanzesplendenti, piene di cose preziose, e tante stanze sor-dide e lerce, piene di cose schifose: come potevosapere, io che non avevo ancora visto un corpo scor-ticato o un ventre sbudellato, che ciò che quel predi-catore insegnava era l’identità dell’infimo con il subli-me? Muscoli e tendini s’implicano in noi in terrificofascio, ma se li considero sotto la specie cromaticavedo scintillanti combinazioni della porpora con l’ar-gento, e nell’argento vedo cangiarsi madreperlaceedolcezze. Pulsano ovunque gli otri, ovunque gorgogliainnominata materia: ma riforma il tuo sguardo, astraila pupilla sul rabesco dei nervi e delle vene, vedrailinee comporsi in armonia di volute, vedrai un ricamoche istoria un broccato cremisio, ammira la tela rica-mata a boscaglie di seta, sì varie forme di posituradisegnano i nervi che ti paiono di veri arbori e di verirami, e radici, sì, ma ora trasogniamoci un poco, affi-siam le pupille con intenzione sfumata, quegli alberi

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sono adesso alberature di navi con le loro gabbie e leloro griselle, e le migliaia di cavi tirati in convergenzesecate, navi che diventano il mare, purpureo come lodicevano i Greci, guarda, un pelago immenso ramatodi rose e di coordinate che formano un’unica ragnate-la, guarda i volumi e le linee, sono le promesse delnostro viaggio, sono una carta del navigar pittorescoin cui si specchia la carta del cielo, vedi le costellazio-ni ridotte ad icone, voleremo lassù e la nostra ombracorrerà sui paesi e oltre i fiumi, creando nuove lineenella selva di linee che ci definiscono qui, in questosanguinolento macello di membra.

4

Il pesce ottativo.

Intendesi per pesce ottativo un pesce privo di attua-lità, ma così desideroso di essa da consistere tutto intal desiderio. La natura del pesce ottativo altro dunquenon è se non aspirazione a farsi pesce, aliis verbispescitropìa.

E può detta aspirazione interessare il nulla o unoEnte.

Capo I. Dell’aspirazione del nulla.

Il nulla nella sua perfetta assolutezza non può legit-timamente aspirare, essendo sua natura il non-essere.Può bensì aspirare un nulla assai circoscritto epperòimperfetto, o segmento di nulla: qual chiamasivacuum. Non avendo sostanza, esso vacuum sisostanzierà tutto della propria affezione: ed esso stes-so sarà desiderio.

Riconoscesi il desiderio dal tremolìo dello spazioaereo da esso occupato, un effetto simillimo a quelloche producesi nell’aria per gran calore d’arena roven-te ovvero di fiamma: e chiamano i più avvertiti questofenomeno liquefazione eterea.

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Capo II. Dell’aspirazione degli Enti.

Qualsivoglia Ente, così animato come inanimato,può aspirare ad essere pesce. L’Ente affetto da pesci-tropìa partecipa della natura ottativa di pesce, senzaperder però la sua natura originaria; esso Ente inge-nera così nel proprio essere una dicotomia ontologicache solo il vulgo può reputar fonte di lacerante contra-sto, laddove i più intendenti sanno che, al contrario, lanatura ottativa sta per sublimazione ed inveramentodell’Attualità, come dimostrano i casi di alcuni gatti diGenova che volendo esser pesci furono insieme ottimigatti e, ottativamente ragionando, impeccabili pesci.Vuole anzi taluno che il gatto, più che altro animale,risponda compiutamente all’idea di gatto solo dopoaver attraversato, inebriandosene, l’idea di pesce.

Capo III. Del pesce ottativo come oggetto di desi-derio.

Fin dalla più remota antichità i ricercatori del vero sison posti il quesito se il pesce ottativo possa a sua vol-ta essere desiderato da altri Enti: evenienza negata daquanti ritengono che una natura interamente ed inti-mamente desiderativa, epperò tutta attiva, non possain alcun modo partecipare della categoria della passi-vità, quale comporterebbe l’essere desiderati. Alla qua-le obiezione ribattono altri che essa sarebbe sì decisi-va se si ragionasse della desiderabilità dell’azion desi-derativa presa in sé medesima, e non, come devesi,della desiderabilità di un Ente che, ottando, ha fatto diquell’azione una sua qualità.

Capo IV. Degli ufficiali al sestante come Enti desi-deratori dei pesci ottativi.

(Qui si interrompe lo scritto).

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-Tutacù, mi g’a priso fastiggiu d’i omeni, Sé ‘odesgusto d’o munno, a rassò.

-Sì, ma… cosa facevate prima?-Feiv’o esatòr e ‘o asgent’e caambio pr’un banchier

de Venessia ciamà Salomòn; mè devuàr setè d’alésciù e zù scé li clienti par incassà i scillumìm, si chillimincioin n’avè pà ‘l chesèf, sgiantàn ‘o peculio, mi lecontregnè a signé a pulcra cambiae, a la cui scadeen-sa le spoeuggiava de tutti cossi: ‘o machsàn, a scianùt,‘nzomma a chiniàn: e lors chilli criè, mi ghe diseiva:“Bezeugna fa i boccoin sgond’a buscia, nespà?” G’a-vea plusieur de clienti e trafegava con tulmòn, chillociazìr d’un banchier, accussì me falè tusgiù annà p’ozàlatta de portu an portu, belìn quanti viazi, quantisefarìm par contà al me’ paròn cumum’alè l’inianìm…

-Come andavano cosa? Non ho capito.-Ses afèr, non? Sciac afèr, ‘na lettra ‘a grafir. Ma a

parsà, savì coss’eiva ca m’donnè l’ennuì? a voeuggiade vomegar, comprèn?

-Comprendo, comprendo.-Setè sa: ca muà, imbroeuggiav’e clienti per cunto

d’o banchier et anca par cunto de mi, et interreaimbroeuggiavi iss’autòs; tandì che ttutti ggenti, e clien-ti e ‘o banchier, imbroeuggieiven a mi: ‘na fadiga pezòrd’o pòlemo, farse tant’àzedo accussì int’o gastèr e parcossa? par nichil, merd, tant de furbarìe par doi che-safìm e tri sghej de ciù, pà posibl, tusgiù a cascé lippenzieri, a zogà coi zifer par mincionà tulmòn, e intanta êse mincionaa a l’eiva a vita mia. Accussì an pulcrodì me son dito: “Sa sulì Ismahìl, t’il fò invenì a scialòm”,e ‘o muaièn e l’eiva fazile fazile: o lioeu de cascé lippenzieri cascé muamèm dint’e’ nnavi. Allì a l’eiv’ascialòm, allì a scechèt: dint’o scòtos.

-Dentro cosa?-Accussì dise i Greghi: ‘o scòtos, lors voeuggen dì

le nuàr, comprèn? a tenebrìa. Parsché ghe son doi viepar mannà ao diâo lo munno: fa el romito int’un crotto

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cumm’an omo de pietra, o fa el crandastìn. Mi, che ‘lvuaiasgé ghe piaseva, sciuasì ‘l crandastìn, chi ne tra-fega pà in mezo ai omeni e sepandàn continua abusgé: chi è tusgiù ‘n l’avensciuura, e sepandàn ètusgiù sansussì. Arroge chisto: ca ‘l crandastìn elmagna a gratis, no g’a ciovìm co nissun, lassa travaiài mainae anca par elo, e tandèm tantòt, ansevelì dint’enuàr, g’a nichil âtro de fà che dormir, auteziàm, tandìche sent’o zàlatta vibré sott’al cul, sansgé cheschil-voeul.

Dopo La stiva e l’abisso raccolsi diversi racconti involume (Euridice aveva un cane, Bompiani 1993),quindi pubblicai un “diario militare” scritto e disegnatonel 1984 (Filologia dell’anfibio, Bompiani 1995). Adesso seguirono gli undici racconti di Tu, sanguinosainfanzia (Mondadori 1997, Oscar Mondadori 1999), daiquali ho scelto Mi hanno sparato e sono morto (1) e lesezioni centrali di I giornalini (2) e di Otto scrittori (3) eLaggiù (4); a intelligenza di quest’ultimo il lettore devesapere che il protagonista, dopo una fase di ingordacontaminazione per cui Verne, Defoe, Salgari, London,Poe, Conrad, Stevenson e Melville formano un unicogrande scrittore, sente la necessità di escludere pro-gressivamente gli scrittori meno “essenziali” a quelcanone.

1

Quella pallottola, da quanto tempo è in orbita? Nonlo sai neanche tu che ce la tieni. Ma io so tutto di te, eposso dirti che ci fu un’età, tanti anni fa, in cui undemone ti insinuò nella mente l’incruenta lusinga di undecorativo grafismo che radendo a volo la crosta ter-restre tutta la coprisse di sempremai nuove curve,come fa attorno al gomitolo il filo: senonché, vanendolabil ne l’aere, quel segno poteva aver permanenzasolo nel suo ininterrotto slancio in avanti. La corsa di

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quel signo labente, quanto ti piaceva! perché la sapevialimentata da una energia inesauribile, e perché lasapevi tornare e ritornare, incrociando nei cieli, sopra imedesimi luoghi dove tu, miserello, giacevi. Ti bastavapensare quel punto orbitante per sentirtene rapito,come se volando con lui tu avessi la visione di conti-nenti e di oceani vorticosamente vorati.

Ma morire, continuavi a morire nelle tue sparatorie.Ti chiamassi Jack o ti chiamassi il Senza-nome anda-vi eroico nei canyons della mente, malinconico molto:tutta la tua nobiltà mettevi in quel certo modo di starsulla sella e in una piega del sorriso presago: all’infini-to arrivavi in solitudine immensa, smontavi, legavi ilcavallo alla staccionata con un nodo di astrattavaghezza, caracollavi intensamente sapendo in ognimovimento una intraducibile e pur esatta pregnanza.Un laccetto di cuoio, la madreperla di un calcio eranocosì sublimi, e tu ne eri tanto consapevole, che nonavevi bisogno d’altro: per cui potevano crivellarti lì, giàlì davanti al saloon, prima ancora di ogni articolataavventura: ti crivellavano anticipatamente e tutto rima-neva in potenza, lo sapevi tu solo ma chi altri avrebbedovuto saperlo? la bellezza di quella morte era nellasua virginalità, morivi puro, morivi senza che i tuoiocchi avessero saputo le abominevoli facce dei nemi-ci, e per questo dovevi morire senza un lamento, aogni proiettile un sussulto, poi il lento crollo, fisso nelnulla lo sguardo. Ma in quel culmine si concentrava untal sentimento d’arte, che il crollo andava più degna-mente preparato: sicché ricominciavi da capo, arrivare,smontare, legare, caracollare, ancora arrivare, smon-tare, legare, caracollare, nessuna lentezza ti sembravamai abbastanza sospesa, nessuna allusione abba-stanza coperta, tutto in estrema eleganza perché piùiniquo ti fosse il destino, più struggente il compianto.Quando finalmente non ti rialzavi più, indugiavi ancoraun istante a contemplarti in solitudine prima che dalsaloon traboccassero a vederti, sudati, congesti, all’ap-parenza trionfanti ma veridicamente sgomenti, svuota-

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ti com’erano dalla contrastiva significazione che da tepromanava, da te che ne eri l’almo sole ormai spento.Così contemplavi il tuo cadavere, approvandone amo-rosamente la forma. Steso nel fango ti tenevi dentroinespresse tutte le tue virtù, la tua velocità ineguaglia-ta: restavi il migliore perché ti avevano ucciso a tradi-mento, e senza toglierti nulla la morte ti abbelliva dellasua tremenda maestà. Guardare il tuo cadavere con gliocchi di quei bifolchi, allora, era come sognarti, e inquella gloria tu trovavi – solo così la trovavi – in quellagloria tu bambino angosciato trovavi la pace.

“Mi hanno sparato e sono morto” commentavi conla soddisfazione che danno le cose precise, e anchequando quella scena si era dissolta tu continuavi permolto tempo a ripeterti le stesse parole. “Mi hanno spa-rato e sono morto”, quante migliaia di volte avrai pro-nunciato questa frase? Camminavi verso la scuola, eun odio cupo ti prendeva verso tutti i compagni; elabo-rando per loro mille morti diverse ti riscaldavi in un’e-saltazione che presto putrefaceva in veleno: ancora unpoco lottavi, ancora un po’ ti accanivi, poi, al sommodello spasmo guerriero, ti sottraevi a quell’intollerabilepeso. “Mi hanno sparato” sibilavi, e già ti sentivi piùleggero, già gli odiati volti sbiadivano; quindi convoluttà “mi hanno sparato” ripetevi, “sparato, sparato,sparato”: e solo allora, quanto tutto era rimpicciolitodalla lontananza, ponevi alla tua liberazione il suggel-lo: “e sono morto”. Adesso il portone della scuola pote-va dischiudersi e lasciar debordar la canaglia: il tuocadavere era pronto, supino nella segatura davanti aitre gradini dell’ingresso, magnificamente inattuale.

O guardavi non visto la creatura che faceva scem-pio del cuore tuo: la guardavi salire sul motorino di uninguardabile e fremevi, ma se solo bisbigliavi il tuo lut-to ogni cosa d’incanto tornava a collimare e l’universoera congruo. Loro, sì loro ti avevano ucciso, e insensi-bile irraggiungibile argilla tu non li conoscesti mai, dife-so dal nulla sempre altrove tu fosti, mai tu, il più velo-ce, mai mai mai tu di motorini sapesti.

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Eppure, anche se quella formula sapeva ogni voltaplacarti con il dono di una sorprendente dulcedo, tirestava la spina della dipendenza dallo sparo d’altrui.Perché la tua purissima fine si appenducolava pursempre in qualcosa di impuro, in una umana intenzio-ne che rilasciava un remoto sentore di sé nella pacecosmica creata dal tuo esanime crollo. Dunque a tute-la di una più assoluta sottrazione delle pene haivagheggiato di volta in volta un’arma che sparassespontanea per dura necessità del metallo; un meatoche ti si aprisse nel cuore senza penetrazion di bali-smo; una pallottola che divagasse da altro e lontanoduello, da irrelata e pollaiuolesca battaglia; infine il tuostesso sparo, che attraversando le carni del nemicocontinuasse sua corsa lungo la superficie terrestre finoa tornarti irrallentato alle spalle: dove sprofondandocome un seme di morte esauriva il suo impeto (quantoera insieme epicamente aspro e liricamente dolce allo-ra, mirassi a un cuore o a un cervello, sapere che ilbersaglio vero lo portavi sul dosso, fra scapola e sca-pola). Finché, contemperando fra loro queste due ulti-me figurazioni, una sera d’ottobre le facesti scivolarenaturalmente in quel tuo più antico graffito celeste.

Avesti così una pallottola e un’orbita. Una pallottolaeterna che orbitava sicura anche quando non ci pen-savi o dormivi, un’orbita ch’era l’appuntamento perpe-tuo fra quel metallo e il tuo cranio. E davvero nonsapremmo ridire il piacere che provavi nel pensar quelprojetto mentre incontrastato forava il legno degli albe-ri, il mattone e il cemento delle case, il ferro delleputrelle, il ghiaccio delle rupi, il ghiaccio e dentro, piùdentro, la pietra. Ora fu proprio questa lusinga a risuc-chiarti per sempre: che non si dava durezza che nonfosse pervia a quel cammino, che per quanto estese lenere viscere della materia non sapevano rallentarequell’infinita velocità: e che tutto era insieme facile earduo come le cose immani e che di quell’immanità tupartecipavi in segreto come un predestinato e che permirabile incoerenza eri sia la roccia sia la linea che la

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attraversava sia la pallottola sia la tua tempia ma piùmagneticamente la tempia, e che c’era un sugo squisi-to in quella fatalità così stilizzata, ed era l’imperfettapassione di un tuo misero ma indispensabil saltello. Inquesto conato si esauriva il tuo personale contributoalla macchina celeste: dove l’orbita ti era offerta comela suprema occasione, e dove il saltello era l’arrisicatomodo di volerla, e pateticamente anelandola, di meri-tarla. Perché se non ci avessi messo il tuo almeno queldisarmonico sforzo la rituale bellezza dei balistici girisarebbe stata incognita e vana, e motivo di ulteriorstruggimento.

Questo dunque fingevi e rifingi: di essere in vastis-simo arengo insieme a migliaia di persone assiepate,e di sapere tu solo che la palla sta arrivando ad un’al-tezza di circa due metri e mezzo dal suolo, e di atten-dere il giustissimo incrocio, e di saltare – tu solo – svet-tando su quella distesa uniforme di teste, e di riceverein capo la perforazione agognata, e di rimanere cosìsospeso a mezz’aria quel tanto da poterti dire

Mi hanno sparato e sono morto

e quindi dissolvendoti scomparire dal tuo stessosogno per mai più ricadere di sotto, nell’inamabile.

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[…] Ora però sarebbe arrivato un bambino. Alticom’erano i suoi giornalini erano fuori della portata edanzi del guardo del futuro esserino, tuttavia era basta-ta una frase muliebre ad allarmarlo: “Pensa a quando ituoi vecchi fumetti verranno buoni per Filippuccio”.Verranno buoni? Sono stati, furono buoni – avrebbevoluto protestare – e serbano la loro bontà come unaluminescenza perpetua. Ma non parlò, perché subitodovette obbedire al più forte impulso di montare lassùa prendersele, quelle cose benedette sì inopinatamen-te insidiate. Ridisceso con tutto il blocco ci soffiò sopra

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per mandare via il grosso della polvere; poi sciolse lospago che lo rilegava, e ancora una volta i cimelî sisparsero davanti ai suoi occhi commossi.

Li considerò attentamente. Tutti i Tintin; tutti glialbum originali di Cocco Bill; tanti L’Uomo Mascherato,pochi Mandrake, un po’ di Nembo Kid, un po’ di JeffHawke, le prime tre annate di Linus, quel primo Pape-repopea, quel primo Topolineide, due Zio Tibia, anco-ra qualcosa, ancora qualche sciolta reliquia. Come gliera sempre successo in simili occasioni, fu sufficienteun impercettibile supplemento di indugio su una coper-tina per cedere all’impulso di sollevarla: e sollevatela,per incominciare a rileggere quella storia; e incomin-ciatela, per giungere fino in fondo. Rilesse così I sigaridel faraone, poi Il cosacco Cocco Bill, poi Le sette sfe-re di cristallo: dopodiché – erano passate più di dueore – si riscosse con un brivido penoso, sospiròprofondamente, e disse a sé stesso quanto segue: “Èquesto un cristallo di sogni, è questo l’unico lampo nontriste della vita mia; son documenti, sono fossili diun’età che mi chiede la pietà di un omaggio; sonocadaverini che si rifiutano di morire; sono ciò che soloio so cosa sono. E questo dovrebbe venire “usato”?Dovrebbe tornare “attuale”, domani? Attuale! Questicoaguli mostruosi, questi sovrumani concentrati dellamia malinconia, questi monumenti della mia solitudine,queste cose SACRE dovrebbero finire in mano di unacreatura (amata, certo, consanguinea, anche) di unacreatura sbavante che me li pasticcerà con oscenipastelli, con più oscene penne biro? Sono pregne del-le mie continuazioni e rielaborazioni, siffatte entità,incasellano irripetibili giorni, codeste vignette (amatiquadrati, adorati rettangoli, emblémata della miacamera, insegne del letto mio), sì, sì, sono storia,museata chiosata laudatissima historia, sono una doc-ta collectio (signata, schedata) che merita scienza,distanza, l’amor che si debbe ai classici (Tacito ProustGuicciardini, Soldino Geppetto Eta Beta), e sono, eson tradizione, e son religione. E son commozione.

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Basta. Li maneggio con cautela io che li ho posseduti,li palpo con guanti ideali, li sfoglio con pinze mentalicome fossero inestimati papiri io che ne fui il signore,e altri dovrebbe stabilire con loro un rapporto praticod’immediata fruizione, reificarli così? È tardi, ormai.Non ci si può più divertire, con ciò ch’è fasciato dal-l’aura; non ci si può confondere carnalmente con l’og-getto del nostro culto, non si può più interrogare quan-do solo si può contemplare. Perdonami Filippuccioventuro, ma se fra i giornaletti venturi (tu omologo adessi, essi organici a te) io insinuassi questi antichissi-mi miei, tu non ne riconosceresti la categoriale diver-sità, la trascendenza immanente, l’assiologica superio-rità; accostandoti ad uno di loro – questo meravigliosoCocco Bill in Canada per esempio – tu non ti sussur-reresti dentro: ‘Eccolo, ecco quel giornalino che torna”(e torna così, immutato e perfetto), non predisporrestitutto il tuo essere a una deglutizione golosa ed insiemedolente, no: diresti brutale: “Toh un giornalino, vediamodi cosa trattarsi vediamo se alletta”. Ma le sacre scrit-ture, Filippo, non tollerano la critica dei moderni, e nonlo tollero io che ne son sacerdote. L’oltraggio, Filippo,non sono soltanto i ghirigori o gli strappi: lo sono anchel’indifferenza, lo sguardo che unisce e non sa gerar-chia, l’adiafora passività del profano. Chiudo gli occhie ti vedo, fantasmino veloce che cerchi, che frughi, chetrovi, che sfogli, ti vedo buttare lontano questo lisoUomo Mascherato dopo poche pagine, tu, sceso dailombi miei, non impazzire d’amore per l’Uomo Masche-rato! Ti ho visto: hai sbuffato, sei insofferente! Cerchiconforto – e lo trovi – in altre letture che non mi dicononulla, roba che è tua e solo tua e allora io qui te laassegno ufficialmente, siano quelli i tuoi sogni, se daquel groviglio sarai capace di estrarre l’oro che io hoestratto dai miei giornalini mi complimento con te, lavita si azzera, vorrai mica ereditare l’emozione delbabbo la memoria del babbo la coscienza del babboper innestarle come una protesi nel cervellino tuo,vero? Dunque incomincia, che io qui concludo e sigil-

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lo, io adesso prendo il necessario e imballo tutto, sep-pellisco in cantina, sottraggo alla contaminazione deltuo spiritello (non amare i radiatori delle macchine neredi Tintin! Non amare la kryptonite! Tracy e FearlessFosdyck!) nemmeno lo saprai, che in questa cassa cisono i miei giornalini, non potrai nemmeno cercarli,mai sentirò domandarmi di mostrarteli almeno unmomento… “un momento”! Come liquidare un’interaciviltà con un solo sguardo! Io sono Cocco Bill, capi-sci? E se tu a Cocco Bill non dedicassi l’infanzia com’ècerto che non la dedicheresti, è come se rinnegassi tuopadre, come se a tavola, una sera, tu ti rivolgessi allamamma e indicandomi con il cucchiaio imbrattato disemolino le chiedessi: “Mamma, chi è questo signoreche mangia con noi?”. Cocco Bill sono! Il capitanoHaddock, sono! Poldo! Gancio! Brainiac! Non ti basta?Quel deficiente di Jimmy Olsen, sì, anche lui! Questo ètuo padre! Rispondi: la camomilla, chi la beveva? Lemontagne di panini? Vorrai mica ti chieda: la naftalina?Ma tu non sai nulla, nulla di nulla, che nei sai tudell’“Album de Il Giorno n. 7”, uscito nei primi giorni delluglio del 1962? SI intitolava Kamumilla Kokobì, e hodetto tutto. Kamumilla Kokobì… Più o meno qualcosacome l’Iliade… Ah basta, basta, si sta troppo male aparlare di queste cose, giornalini, quali giornalini? Tunon sei ancora nato e tuo padre chiude, finis, argo-mento esaurito, si può mica palpitare così, fine delladiscorsa, si cresce soli, si vive soli, si muore soli, cer-cheremo di incontrarci su altri piani, giocheremo ascacchi, andremo al cinema insieme, ti insegnerò ausare il Vinavil, un giorno ti regalerò un libro di Ste-venson. Ma questi giornalini, Filippo, sono imparteci-pabili, sono il fiore della mia infanzia, capisci, dunquesono la mia essenza, se me li togli mi uccidi, toglimi laDivina Commedia, toglimi Moby Dick oppure prendiAulo Gellio, tutta la Loeb, vuoi il Battaglia? Vuoi iRerum Italicarum Scriptores, il Ramusio? Ma non chie-dermi Kamumilla Kokobì, non chiederlo mai […].

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[…] Così alla fine ero arrivato là dove avevo sempresaputo che sarei arrivato, al bordo del nucleo. E tutta-via in quella conquista regnava un senso di perdita.Dietro di me lasciavo la desolazione e il compianto, semi voltavo vedevo relitti alla deriva e cadaveri sbattutidalle onde. La verità! Accettando di pagare l’infameprezzo del tradimento ero stato ammesso al suo limi-tare: avevo voluto vederla ed ora la vedevo scintillareesosa come acqua gelata in una vasca di pietra al cen-tro di una radura. Quell’acqua mi invitava a restare, apor fine all’inchiesta. Caddi in uno stato contemplativo,come un teologo che di fronte alla Rivelazione lasciafflosciare al suolo la sua scienza come un’inservibileveste. Scrittore uno e trino, che abiti ugualmente nelcuore e sulla superficie del nucleo, la tua grandezza èimpredicata, la tua sostanza non tollera l’attributo dellaquantità. La tua perfezione è la mia pace…

Ma il vento mi portò da lontano il lamento degliuccelli marini, e la sula diceva: se ti fermi adesso,saranno partiti per niente.

E il cormorano diceva: se ti fermi qui, avrai ottenutosolo di spaccare in due la tua nave.

E il pellicano diceva: se ti fermi, come giustificheraitanto dolore?

E il gabbiano diceva: se non sacrificherai ancora,non dovevi sacrificare mai.

E l’albatros diceva: sii spietato come lo sei statofinora, è la legge del mare.

Mi voltai verso i tre scrittori: le loro immagini non siscioglievano l’una dall’altra, il suo metamorfico voltoassumeva in continuazione le fattezze ora dell’uno, oradell’altro, ora del terzo. Un’alleanza formidabile li univaperché erano i più grandi, perché erano un’altra cosa,perché fra loro e i primi cinque si spalancava un abis-so. Ma anche se quella superiorità li eguagliava in unsolo splendore, io non dovevo fermarmi. Stavo cercan-do un modo per scalfire tanta levigatezza quando mi

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venne la pessima idea di lasciare a loro la parola, nel-la convinzione che l’amor proprio avrebbe finito persgretolare quel triumvirato. Ma ad una voce dissero: iosono io e sono gli altri due; l’hai sempre creduto, per-ché adesso non vuoi crederlo più?

Già, perché? Perché mi ero ridotto così, a un ventofurioso che squarcia le belle vele?

“Perché… forse perché un più attento esame dellevostre opere…”

E Melville disse: io ho scritto La linea d’ombra.E Stevenson disse: io ho scritto Moby Dick.E Conrad disse: io ho scritto L’isola del tesoro.E Melville disse: io ho scritto La linea di Dick.E Stevenson disse: io ho scritto L’ombra di Moby.E Conrad disse: io ho scritto Il tesoro.E in un tremendo fragore di acque ribollenti Moby

Dick disse: nato a Edimburgo in Polonia Jim IsmahelLeggatt detto Billy Budd prese il comando del Pequodnello stesso anno in cui la tenebra della Sephora, lag-giù nel Mar del Giappone, convinse il Dr. Trelawney –o era il Nan-Shan, lassù al largo del Cile? – lo convin-se a ingannare il capitano Amasa Delano col BolloNero di Cane Nero cosicché il rimorchiatore di Falck,secondo il racconto di Herman figlio di Silver ascoltatoa Nuntucket da Marlow (un arpione, mi pare) perché ilcompagno segreto sì forse un arpione l’avorio di KurtzKorzeniowski Vailima Ben Gunn l’Hispaniola il miocolore è bianco sporco e oserai tu microbo insignifi-cante mettere in dubbio la verità delle mie romanze-sche parole che sono le loro che sono le sue?

Così dopo un po’ di tempo decisi di rivolgermi al piùcoscienzioso dei tre, e gli feci il seguente discorso:“Immenso Conrad che come nessuno sapete fermarsulla carta il palpito ambiguo dell’ora e i mille toni delcielo e del mare in quella cangiante e un po’ mefiticavaporosità diffondendo i tormenti degli animi persegui-tati; suadente Conrad che come nessuno sapete fon-dere l’analisi psicologica e l’avventura con il risultatoinquietante di rendere familiare l’esotico; sottilissimo

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Conrad che come nessuno distillate la macerazionemorbosa nella purezza di uno stile regale; sì, voi, bio-grafo della vergogna e notomista della perplessità: ivostri libri mi hanno insegnato che il valore di un uomova dimostrato, e che non sempre le illusioni eroichedella gioventù sopravvivono alla prova: la prova fatale,quel momento che può giungere presto o tardi, chepuò essere inaspettato o previsto, grandioso od oscu-ro, ma che sicuramente arriva per tutti, e quando arri-va dev’essere riconosciuto perché non si presenteràuna seconda volta. Voi lo conoscete bene quel cimen-to, quell’attimo che tutto decide: un salto, e la vita diLord Jim fu segnata per sempre. Pensate al capitanoBeard, che dovette compiere sessant’anni prima diavere un comando tutto suo, e alla vostra giovinezzasu quella sventurata carboniera; pensate al cuoremalato di Ransome e a quella bonaccia senza chininonel Golfo del Siam; pensate alla tranquillità di MacWhirr nel tifone, al coraggio cortese di Heyst, alladisperata eleganza di Tuan Jim morituro. E voi che liavete creati, volete sottrarvi alla prova? Forse mi stosbagliando, ma dalle vostre storie io credo di aver capi-to che se il naufragio delle illusioni è drammatico, vive-re tutta la vita nell’illusione è patetico: e voi non sieteuno scrittore patetico, voi siete un meraviglioso scritto-re drammatico”.

E Teodor Jozef Konrad Korzeniowski, che il mondoconobbe con il nome di Joseph Conrad, disse: “Sonopronto”.

Ed io con lo stremo nel cuore proseguii: “Benchévoi tre siate lo stesso scrittore vi chiedo, per ragionimie personali che sono ragioni crudelissime ma ormaiinarrestabili, di separarvi cioè di squartarvi disimpli-cando membro da membro e frase da frase. E poichéda qualche parte bisognava incominciare ed io nonper insinuare alcunché ma soltanto a motivo dellavostra proverbiale coscienziosità ho incominciato davoi, vi invito a scegliere un nome e a misurarvi conquello perché di tre vi facciate due, e i due poi si

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assottiglino in uno”.E Conrad disse: “Poiché di polacco facendomi

inglese m’ebbi gli scrittori di quell’isola a compagni econ ciò stesso a rivali, non mi dispiacerebbe trovarmidi fronte al signor Stevenson, al quale vi sarei grato sea tale scopo faceste avere mie notizie”.

“Il signor Stevenson” – osservai – “ora si chiamaTusitala, che significa Colui che racconta le storie, e lasua patria è nelle isole Samoa, in un posto chiamatoVailima cioè I Cinque Fiumi”.

“Allora riferite al signor Tusitala che Joseph Conradsarebbe onorato di essere ricevuto nella Casa dei Cin-que Fiumi, perché l’uno si provi nell’altro”.

Così cercai Tusitala e gli dissi: “Raccontatore ama-to che come una pioggia sottile illuminata dal sole vela-te il mondo di un malinconico incanto, voi che nella cul-la dovete essere stato accarezzato da un dio perchéadoperate la penna come un flauto e riempite di strug-gimento i cuori degli uomini; voi che dell’avventura fateincubo e fiaba e che nella vostra delicatezza di pallidoselenita nascondete la violenza dell’astro infuocato,come oltre a quella famosissima storia di doppiezza edi trasformazione mostruosa dimostra l’odio che legòper la vita e per la morte Durrisdeer e Ballantrae; voiche siete stato capace di scrivere L’isola del tesoro,libro che fra i mille suoi pregi ha quello di rallentare lacrescita di chi ha avuto la fortuna di leggerlo nell’ado-lescenza, ch’è l’età vostra eterna, libro saturo di miste-ro eppure plastico e sodo, libro irreale eppur legnoso esalmastro, libro spettacoloso ch’io non esito a definireil più bel libro d’avventura che sia mai stato scritto, sein proposito mi vengon dei dubbî mi basta pensare apersonaggi come Silver o Cane Nero per non avernepiù; insomma voi, che io qui voglio ancora chiamarecon il musicalissimo nome di Robert Louis Stevensonper riallacciarmi a tutte le volte in cui mi chiesero qua-li fossero i miei scrittori preferiti ed io pur rispondendoin vario modo a seconda dell’età e della conoscenzanon mancai mai di includervi nell’eletta sempre pro-

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nunciando “Stevenson” con grata esultanza, voi dicevosiete sollecitato a un cavalleresco confronto dal signorJoseph Conrad, cosa di cui l’ultima responsabilitàridonda però per intero sul capo mio”.

E Colui che racconta le storie sorridendo rispose:“Mi sembra una proposta piuttosto imbarazzante, spe-ro ne converrete, ma poiché arrossire è il mestiere dinoi adolescenti eccomi, sono pronto ed anche, non velo nascondo, un po’ trepidante”.

Così ebbe inizio la memorabile sfida dei due scrit-tori diletti, che essendo partiti l’uno dalla Malesia su unpiroscafo malandato e l’altro dalle Samoa su una piro-ga condotta da quattro indigeni si incontrarono a metàstrada, in un punto dell’Oceano Pacifico non distantedalle Isole Salomone. Là, sopra uno scoglio piattoappena affiorante dall’acqua, c’era una grande bilanciatutta incrostata di conchiglie, e custodi della bilanciaerano gli uccelli marini. Joseph Conrad, che fumavauna pipa piena di tabacco della Compagnia delle Indie,scelse il piatto di destra e vi depose sopra una sceltadelle proprie opere, che erano: Il negro del Narcissus,Gioventù, Cuore di tenebra, Lord Jim, Tifone, Il clan-destino, Vittoria e La linea d’ombra; stava per deporvianche La follia di Almayer, Un reietto delle isole, Il sal-vataggio e un certo numero di racconti, poi ci ripensòe li rimise nel suo baule. Allora Tusitala, che masticavauna radice magica, disse: “Poiché avete avuto l’ele-ganza di non ricorrere a tutte le vostre opere, vi resti-tuirò la cortesia”: e con un gesto della lunga manoaccennò ai quattro rematori di lasciare sul fondo dellapiroga tutti i racconti polinesiani e il romanzo intitolatoIl relitto. Poi prese dalle loro mani una ristampa dell’I-sola del tesoro coperta di scarabocchi infantili e ladepose sul piatto di sinistra.

Gemette la bilancia cigolando, come se patisseuna tensione spasmodica: a lungo i piatti tremarono inperfetto equilibrio, mentre tutt’intorno gli uccelli marinivorticavano urlando come impazziti. Poi il piatto sini-stro incominciò lentamente a calare, e quella pena

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ebbe fine.“Dai miei personaggi”, suonò piena di garbo la voce

di Conrad, “ho sempre preteso che sapessero trarre leconseguenze… non importa di cosa, le conseguenze.Penso che andrò a trovare il vecchio Kurtz laggiù inAfrica, almeno per qualche tempo. Quanto a voi, caroTusitala, vi faccio il mio augurio più profondo, perchéne avrete bisogno. Addio, è stato un onore”.

E Stevenson disse: non ero più degno di voi, mapoiché il destino ha voluto così, accetto di gran cuoreil vostro augurio.

E all’orizzonte si vide il getto d’acqua di una balena,e quello era il saluto e l’omaggio di Melville.

Così Robert Louis Stevenson ed Herman Melville sierano divisi il mondo come il giorno e la notte, e dovefiniva il regno dell’uno incominciava il regno dell’altro,e le rotte delle loro navi non potevano più incontrarsi:perché uno era la giovinezza e l’altro era la maturità, euno era la grazia e l’altro la potenza, ma uno era ilromanzo e l’altro era il romanzo. E quella loro scissio-ne era così grave che gli oceani non potevano piùsostenerla, e da tutti i porti del globo salparono dele-gazioni di marinai per chiedere ai due massimi scritto-ri di por fine in un modo o nell’altro a una situazioneche impediva a tutti i bravi uomini di mare di continua-re a fare serenamente il loro lavoro, perché i pesche-recci non gettavano più le reti, e i mercantili non tra-sportavano più, e i legni corsari non andavano piùall’arrembaggio, e le navi da guerra non cannoneggia-vano più, e le baleniere non inseguivano più le balene,e le golette, i clipper, le fregate, i brigantini, le feluche,i sampàn e tutti gli altri tipi di naviglio intristivanoormeggiati nei porti o all’ancora nelle baie. Così ungiorno Robert Louis Stevenson, che essendo il piùsensibile dei due avvertiva maggiormente il peso diquella universale angoscia e sospensione, si decise amalincuore a mandare i testimoni a Herman Melville, evolendo far cosa gentile scelse per quella missione ilcompìto ragazzo Jim Hawkins e l’onesto vegliardo Ben

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Gunn. E un mese più tardi si presentarono a Vailimadue individui alti e magri, il più giovane dei quali esibi-va un pallore spettrale, mentre l’altro, che aveva unagamba d’avorio ricavata da una mascella di capodo-glio, sembrava un uomo staccato dal rogo quando ilfuoco ha devastato tutte le sue membra senza tuttaviaconsumarle. E quello con la gamba d’avorio disse convoce cavernosa: “Il mio padrone il signor Melville vimanda a dire che con estrema tristezza accetta comecosa non più rimandabile la vostra sfida, al qual fine hanominato suoi padrini i qui presenti capitano BenitoCereno e capitano Achab.

Il mio padrone vi fa anche sapere che, come voiavete combattuto con un solo libro, così egli rinunceràa tutte le sue storie di vita fra i cannibali nonché airomanzi Redburn e Giacchetta bianca nonché a quellealtre narrazioni intitolate al suddetto capitano Cereno eall’infelice gabbiere di parrocchetto Billy Budd per affi-darsi soltanto e interamente al libro denominato MobyDick, o la balena”.

Qui tacque, poi, piegando la bocca a un ghigno dia-bolico, aggiunse: “Se posso dirvi come la vedo, signo-re, voi siete già morto”, e fatto un inchino beffardo sidileguò con il suo silenzioso compagno.

E io non sapevo dove si sarebbero incontrati, equando, e in che modo avrebbero duellato, e non vole-vo saperlo, perché il mio cuore non avrebbe sopporta-to di assistere a quello scempio. E per essere più lon-tano fuggii dal mare e andai oltre le montagne, masempre mi inseguiva la tempesta, e io sapevo che eral’isola contro la balena, e da questo pensiero ne nac-que a poco a poco un altro, che era l’imparità della lot-ta. Perché in uno dei due libri c’era la canzone

Quindici uomini sulla cassa del mortoOh oh oh e una bottiglia di rhumMa nell’altro c’era il caos grigio di Saturno; in uno

dei due libri c’era la riproduzione di una mappa stu-penda, ma nell’altro si diceva: “Tutte le mattine si vede-vano, appollaiati sugli stragli, stormi di questi uccelli

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che malgrado le nostre urla stavano a lungo fissi osti-natamente sui canapi, come se credessero la nostranave un legno alla deriva, disabitato, un oggetto desti-nato alla desolazione e perciò adatto posatoio per leloro anime erranti. E si gonfiava, si gonfiava, senzaposa si gonfiava il mare nero, come se le sue immen-se maree fossero la sua coscienza, e la grande animadel mondo sentisse angoscia”.

Allora chiudevo gli occhi per concentrarmi sul nobi-le volto di Tusitala incorniciato dai lunghi capelli lisci,ma dietro quel volto vedevo il baluginìo dei ramponi egorghi di schiuma rossastra e membra affondanti diuomini squarciati, e nelle orecchie mi risuonavano leparole dei Libro di Giobbe, là dove è detto che nulla èpiù terrificante del Leviatano. Forse che lo stesso Mel-ville non aveva scritto di avvicinarsi alla conclusionedella sua opera “barcollando sotto le più pesanti paro-le del dizionario”? Forse che non aveva rivelato: “Sisente sovente di scrittori che s’innalzano e cresconocon l’argomento: che cosa accadrà di me allora, scri-vendo di questo Leviatano? Inconsciamente la miagrafia si espande in maiuscole cubitali”?

E all’imbrunire del terzo giorno, nella gola montuo-sa dove mi ero esiliato, venne a cercarmi un uomodalla pelle ambrata con uno sguardo di bestia feroce,e disse: “Io Secundra Dass servo fedele del SahibBallantrae anche nel regno dei morti vengo in grandelutto a dirvi che è tutto finito e che adesso potete tor-nare. E a chiunque vi chieda notizie di questo famo-so cimento direte che mio padre, il Sahib Tusitala, è ilpiù grande raccontatore di razza umana, perché quel-l’altro è un demonio travestito da uomo, questo noitutti e uomini e pesci ed uccelli abbiamo capito, cheun libro come quello nessun uomo può averlo scrittoperché quel libro è l’Apocalisse e la sua parola è anti-ca come il boato della Profezia e il suo respiro è ilrantolo degli Angeli caduti, e di fronte alla sua imma-nità tutto è come scherzo di fanciulla e di fronte allasua smisuratezza tutto è come madrigale. Questo sul

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vostro onore direte”.Ed io giurai sul mio onore, e rimasto solo pensai a

quando Tashtego sprofondò nella testa del capodoglio,nel grande Tino di Aidelberga pieno di purissimo sper-maceti: perché anch’io ero finito nel nucleo e avevotrovato il nome dei nomi. Secundra Dass aveva ragio-ne: quel libro in cui i simboli esercitano sul lettore qua-si una violenza fisica; quel libro che sembra aggirarsilentamente intorno al suo tema quando invece è iltema che gira intorno a noi in spire sempre più vortico-se; quel libro impuro che travolgendo le regole è nelcontempo romanzo, trattato, poema, diario di bordo,tragedia, sacra rappresentazione, ballata; quel libroche interroga incessantemente la Morte incalzandolada presso come la lancia dei ramponieri incalza l’im-mensa bestia; quel libro dello squarciamento e delcolamento, dell’urlo e della demenza, del tormento edella dannazione, no, quel libro non poteva essere sta-to scritto da un uomo, e per questo io pronunciai “Her-man Melville” come avessi detto Aleph o Adonai […].

4

Una sera d’estate del 2030, nel giardino di unospizio, due vecchi incominciarono a ricordare.

Da piccolo credevo che le albicocche secche fos-sero orecchie, e mi domandavo a quali infelici fosserostate tagliate. Quando fui costretto ad assaggiarneuna, prelevandola da una composizione natalizia didatteri e frutta candita, mi dissi “Di questo dunque san-no le orecchie”.

Io invece credevo in una polvere magica che,disciolta nell’acqua e bevuta, avrebbe preservato daibrutti sogni: e sempre fiducioso ne bevvi. Dopo molt’an-ni, chiesto a mia madre di mostrarmela, mi sentii rispon-dere che, una volta vista nel suo stato naturale, la pol-vere avrebbe perso il suo potere. Mai più ne dimandai.

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Io avevo un padre che nell’orbita si incastrava unasfera di ceramica riproducente alla perfezione un bul-bo oculare: presentandosi a me simulava sgusciarselavia, quindi la riponeva nel taschino. Io scappavo urlan-do: “L’occhio no! L’occhio no!”

Io avevo un padre che con una piccola incisione riu-sciva a togliere la buccia di un’arancia lasciandola inte-ra: dopodiché la intagliava in guisa di mascheramostruosa, e spente tutte le luci vi metteva dentro unmozzicone di candela acceso. Osservando sgomentola tremenda sembianza, sentivo una voce cavernosache diceva: “Eccomi, sono la Faccia, e sono venutoper te”.

Io avevo un nonno che un giorno mi raccontò la sto-ria di Enrico VIII che ammazzava tutte le sue mogli. Iocapii “di un ricottaro”, e per molti anni, ogni volta chemangiavo della ricotta, aspettavo di conoscere i sinto-mi dell’avvelenamento.

Anch’io avevo un nonno, che una domenica miportò a San Siro a vedere la mia prima partita di calcio.Nell’intervallo mi spiegò che il Milan non riusciva asegnare perché la Fiorentina aveva Robotti. Io capii “irobot”, e guardai il secondo tempo cercando di coglie-re nei movimenti dei giocatori viola la meccanicità degliautomi. Tornando a casa mi sembrava già un miracoloche la partita fosse finita zero a zero, noi contro l’indi-struttibile acciaio!

Io, quando oltrepassavo la boa, mi aspettavo diessere maciullato da un pescecane. In questo modomi sono avvelenato dieci anni di bagni, fino al giorno incui scopersi che bastava andare sott’acqua e dirgli.“Ovunque tu sia, sappi che io sono un pesce come te”.

Io invece, quando stavo sugli scogli, avevo il terro-re che l’amo di un pescatore distratto mi agganciasseun occhio, o la lingua, o un orecchio, e me li strappas-

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se via come esca pei pesci.

Io avevo un padre che mi portava a vedere la chie-sa di San Bernardino alle Ossa, e l’edicola del Foppo-nino piena di teschi con una scritta latina che tradottadiceva: “Non deriderci, o passante, perché un giornosarai come noi”. Io li guardavo a lungo e pensavo: “No,non vi derido”.

Il mio, invece, mi spedì da Palermo una cartolinadella Cripta dei Cappuccini, e da Torino la fotografiadi una mummia del Museo Egizio. Vedutele nella miacamera, la nonna esclamò: “Son cose da far vederea un bambino?”, e dentro di me io dissi: “Evidente-mente sì”.

Io, una delle primissime volte in cui feci una telefo-nata, mi convinsi che se dall’altra parte non risponde-vano forse voleva dire che erano morti. Da allora, pertutta la vita, non riesco ad arrivare al terzo squillo sen-za pensare: “Deve essere successo qualcosa di tre-mendo”.

Ed io, quando da grandicello vidi L’esorcista, Lacosa, La casa, Lo squalo e Alien, non vidi nulla chenon mi fosse familiare, molto familiare da sempre.

Io ero convinto che tutto il visibile – persone, auto-mobili, rondini, fili della luce, sputi per terra – fosse unarappresentazione inscenata attorno a me allo scopo distudiare il mio comportamento. Sentendomi osservato,mi davo contegno per non dare a vedere che mi eroaccorto di tutto: cavia consapevole, mi dicevo, caviainutile, dunque cavia da eliminare.

Io, quando una persona mi sorrideva un po’ troppoaffettuosamente, sospettavo che non fosse vera: laFinta Madre, il Finto Cartolaio. E insieme al terrore, miprendeva anche pena per il destino degli originali.

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Io una volta andai al cinema con i miei genitori avedere Il Vampiro di Dreyer. All’ultimo momento, pen-sando che mi sarei spaventato troppo, scelsero Lanave bianca di Rossellini. Io, che non mi ero reso con-to del cambio, aspettai invano per tutto il film l’appari-zione del mostro. Per molti giorni non mi diedi pace pernon essere stato capace di riconoscerlo fra tutti queimarinai.

Io avevo un nonno che faceva centinaia di donninenude di argilla. Per le proporzioni del corpo si regolavasul canone di Policleto, ma siccome aveva trascrittomale una misura tutte le donne gli venivano con legambe troppo corte e il sedere basso. Guardando queisederi sospirava sconsolato, e se mio padre o mio ziogli suggerivano di modellarli più in alto ribatteva: “Vole-te saperne più di Policleto?”. Quel che ne capii io, erache Policleto doveva essere stato un antico nemico delnonno.

Mio padre, una volta in cui ero reticente su una cer-ta questione, mi disse: “Sappi che tutto quello che viviio l’ho già vissuto quando avevo la tua età, per cui nonc’è nulla nella tua mente che non mi sia noto”. Da quelgiorno mi sentii così evidente ai suoi occhi, che ognicommento o confessione diventavano inutili. Fu cosìche la mia reticenza divenne assoluta.

E io, una volta in cui non riuscivo a dormire, mialzai dal letto e andai di nascosto a origliare alla por-ta della stanza dove gli adulti stavano chiacchierando.Udii pronunciare nomi che non conoscevo, sentii nuo-vi toni di voce, capii che la mia vita e la loro eranocose separate, e che di giorno ci si incontrava solo percaso.

Io, alle scuole medie, andavo spesso nella bibliote-ca scolastica a prendere a prestito dei libri. Un giornoil bibliotecario si sbagliò, e invece della Scoperta diTroia di Heinrich Schliemann mi diede un librino intito-

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lato Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Non esiste cifraal mondo che potrebbe mai risarcirmi di quell’errore.

Io, in campagna, avevo una balia che dormiva nel-la mia camera. Dopo un po’ ch’eravamo al buio chie-devo: “Dirce, ci sei?”, e mi sentivo rispondere: “No, nonci sono”. Perplesso, insistevo: “Ma era la tua voce”, elei, spietata e poetica insieme: “Non sono la Dirce,sono una vocina lontana lontana che viene dalbosco…”. Ed io, che sapevo e non sapevo, che crede-vo e non credevo, dovevo affrontare la notte così,come una prova.

Mio padre conosceva un elettricista che aveva per-so un pollice nel portellone di un aereo. Quando vennea pranzo da noi, accortosi dei miei sforzi per non guar-dargli la mutilazione, mi mostrò la mano integra con ilpollice nascosta dietro le altre dita, poi lo fece compa-rire di scatto. Non capiva che proprio in quel modo,suggerendomi di poter fare lo stesso con l’altra mano,divenne veramente per me un uomo mostruoso.

Io, quando mia madre mi spiegò che “mostro”, pergli antichi, voleva dire prodigio, e perfino miracolo, misentii per un attimo placato, come se vivessi in unmondo migliore.

Il libro fondamentale della mia educazione fu Pieri-no Porcospino, e siccome mi succhiavo il pollice il mioincubo era il Sartore:

S’apre la porta ed il sartoreentra a gran salti pien di furore.Col forbicione, zig zag, recideal bimbo i pollici; il bimbo stride.

Anche il mio libro era Pierino Porcospino, e puressendo un mangione soffrivo per il povero Gasparino,che morì di consunzione perché continuava a dire “No,

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no, no, la minestra io non la vo’”, e sulla tomba miserouna zuppiera.

Adesso però, prima di rientrare, raccontiamoci qual-cosa di ameno.

Va bene. Quando ero di buon umore, mio padre midiceva: “Ciao porco”, oppure: “Ciao porcello”, oppure:“Ciao porcottino”. Rimasto solo mi dicevo: “Si, sono unporco”, e me la ridevo.

Io, quando facevo merenda con il latte, mettevo nellascodella tanti pezzi di pane fino a che il cucchiaio rima-nesse in piedi da solo. Se entrava in cucina, mio padrediceva: “Che bel paciaròt!”, e me ne rubava un po’.

Non c’è stato molt’altro, nella vita.

No, è quasi tutto laggiù.

Rondini sul filo (Mondadori 1999) è il mio ultimolibro, ed è quello di cui parlo meno volentieri. Ne pro-pongo a mo’ di cornice le prime pagine (1) e alcune frale ultime (2).

1

… il 1981 … successe allora… io non potevo saper-lo… l’anno della mia morte, l’ho scoperto undici annidopo … ora è un bel po’ che lo so, ne sto morendo dinuovo, ma è nell’81 che sono morto davvero… a pocoa poco fino al gran giorno, il Giorno dei Morti… è così,non sarà mai diverso da così…

Bellissima, purtroppo anche allora… veramenteanormale, vasti occhi egiziani circondati di ombra,bovini, due occhiaie profonde, di una lutulenza cupo-lucida, roba da streghe, tenebra e scintillio… una stre-ga burrosa… guardatura guazzosa mostosa, come laMazzafirra, da scioglier le entragne… personaggiomaestoso! fascino puro! Lo dico io che l’ho arrovescia-

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ta come il collo di un’antica capretta… delibata lemboa lembo, basta! Non fatemi dire di più, la materia è inci-vile… mi esalto, trionfo… la scuoto la prostro, eppureè sempre il delirio, mi placo mai, ci rinuncio… alla fineè lei che trionfa, assurge imprendibile altissima… laprendo più… mai, che l’ho presa… la diva! percorsiobliqui, lampi della mente che lascian di stucco, asso-ciazioni sue strane, segrete… voli potenti vi dico, diun’eleganza poi! certi guizzi, le ellissi! suadente comeseguisse una musica che sente lei sola, esperienzainquietante ascoltarla, quasi le sue parole avesserodita che ti frugano il cuore… prima un solletichino bel-lo, grazioso… poi certe lame! che non hai scampo! chediventi un Francis Bacon! che ha ragione lei! sempre!la gran filosofessa! mica poco triste sta donna, malin-conica molto, sempre in comunione con le altitudini…gliela dettano le altitudini la sua malinconia iridescen-te, le angelelle dorate gli zefiri rosa… bella quando ècosì dolente, ispirata… la nobilissima virgo vestale!che allora puoi fare il confronto fra l’epidermide che tiè data in sorte e tutti i Misteri che si tiene per sé, allo-ra soltanto! allora ch’è un’Altra! che ti senti un lombri-co da tanto volteggia leggera, si libra… creatura affa-tata, esistita da sempre… vede tutto sa tutto … antica,anteriore… futura… poter salire con lei, un pochino,alleggerire la mia vita dannata… mi guarda come fos-si lontanissimo e momentaneo, mi sorride presaga…chissà a cosa pensa… chissà chi è… altre volte siintorbida, le si vela lo sguardo, le iridi brulicanti di omi-ni che corrono, sembra gente che urla… mica unospettacolo che si può osservare a lungo, solo qualcheattimo, così per gentil concessione, tanto per spaven-tarti un po’… che uno si faccia un’idea, nel caso sgar-rasse… una strizza vi dico, ma anche una voluttà, ècosì, l’idea di conglobarsi un demone, di sollazzarsicon la diavolessa… la strega-strega! la ex-fata, Per-sefone-Luna! oscenissima casta! la Mazzafirra! pozzipieni di nuvole, arcobaleni di tenebre! sa le cose del-l’Oltre, la loro infausta dolcezza… parla coi morti… suo

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padre, bello strego anche lui… il suo cane… ne onorail reliquo, si circonda di icone, santini… il babbo… ilcanetto… babbino… il canino… li invoca, ci parla… lin-gua loro, s’intende, criptico-iniziatico-aliena, favella dadruidi, orrchlain whirr gorglowhir, mica da ascoltarlaimpunemente… un brivido lungo la spina dorsalequando la colgo… la sorprendo in cucina, guarda l’ac-qua che scorre e bisbiglia quelle cose, piangiucchia…poi ride… Canetto amato dice, io non esisto… la con-templo tutta… la penso… la penso e la guardo insie-me… la sontuosità di questa donna! l’allure… si volta-no tutti per strada, diventano tutti bavosi, mi raggiun-gono nella con-bava… la guatano a bocca aperta, leiincede maestosa, li fende… fanno ala al passaggio,smungono dal desiderio… è una malattia universale…la grande cupidigia! la certezza che nessun uomo puòvederla senza infiammarsi, vecchi e piccini, chiunque!l’ente desiderandum! l’oggetto malioso, e non l’hannosentita parlare! ne ignorano la beltade interiore… e spi-ritosa anche, ironica dico! simpatica, nonostante! uncarattere irresistibile! la amano anche le donne! lebestioline universe! razza di portento… canta leromanze, una voce stupenda… ha imparato dal padrebaritono-basso… arie drammatiche cupe, altre strug-genti… una commozione panica… si inventa delle sto-rie, le scrive… affabula, la maliarda… storie d’amore edi morte… di toreri, di cercatori di perle… destini tre-mendi, affatturate passioni… le piace l’oceano… certenotti mi racconta… tutta la notte a inventare, io lì sic-come un salame… magato drogato, un maialetto diCirce… certe storie nascondono qualcosa, è l’esoteri-smo! lei parte… è partita… divento furioso, le saltoaddosso… l’arronciglio la squasso, però immacolabi-le… mi accanisco… è la mia fine sta sfida… sento ildesiderio di tutti quelli che l’han conosciuta, ondate dibrama che mi spazzano via… è un cimento mostruo-so, fra esaltazione e sgomento… possederla per tut-ti… contro tutti, che crepino tutti… insediato in lei,fasciato della sua carne… che schiattino tutti, il pre-

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scelto son io…[…] … tutta una gerarchia negativa a scalare, que-

sto meno di quello, quest’altro ancora meno di questo,togliere, togliere, togliere! ma bastava che in un lampoio la pensassi… la vedessi, in sua essenza! perchéquel poco diventasse intolerando nefando, immanitàche travolgeva i miei lauri… una cosa ismisurata,impreziosita dalla lontananza, dall’aura del tempo chefu… parvenza di mito… originale, la vera, quella solala vera, adulescentula vagula blandula… scaglie d’an-ni dorati, il meglio del meglio… quei giovani mutati inOlimpî… dietro le orecchie la zona del pianto si allaga,il contristamento mi uccide… mai la conoscerò così,mai! che importa se ha dato poco, se ha dato meno?altri sono stati al suo fianco non io! altri l’hanno accom-pagnata a casa da scuola, altri hanno passeggiato conlei a Villa Ada, altri le han chiesto un ballo, un sabatopomeriggio, in una stupida festicciola che oggi mi sem-bra affatata, ad altri i suoi primi rossori, tutto so, di cer-te stradicciole in salita, di certe ripicche, di certe moi-ne, so tutto eppure riesco a sdilinquirmi nello struggi-mento, nobilitato dall’elegia nel rimpianto… a lei que-sta sofferenza non spiace, sfido, l’interrogo più, facciopiù i miei conteggi… ondeggio nel vago… fluttuo sospi-rando… nel vago… la vagheggio così, incantevolesmalto… la penso con la dolcezza del ricordo, affondolaggiù le radici della mia passione… per un attimo l’in-tera sua vita mi appare luminosa e funebre insieme…tutte le facce dissolte, le singole facce assunte nellasua luce lontana… un passato compatto, indiviso…ogni cosa giustificata, miracolo! nella curva della para-bola… dovevano essere beati una congrega beata,angelica brigata… le guardo le lunghe dita, le unghielunghissime ignite, gli occhi alonati… Sei ancora un po’quella? le dico… sospiro… adesso è ancora più bellama l’altra è nel mito, è passata… ha la superiorità deidefunti… fa finta di non capire, mi dice parole sensatemi accarezza i capelli… poi basta, fine della commo-zione! propendo alla tristezza cattiva io, rancurosa…

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mi ribello, li ripasso tutti quanti in rassegna, li esecro…i semidei! gli orrendi! che spirino fra pene atroci, perquel passato! che paghino salatissimo tutto! si salvanessuno! basta aver ricevuto un sorriso per esserespediti al plotone, distinguo più niente… solo un furoretenebroso… si rovescino interi attraverso i loro sfinteri,mi lascino in pace… mi scosto, lei ci rimane male, misupplica… ascolto più niente… mi rannicchio in unangolo del letto… mi preparo alla notte, tremenda infi-nita…

2

…gli incubi ricorrenti sono garantiti da un senso dinovità spaventoso, la scena è la stessa un dettagliodiverge, l’effetto è tremendo! antico-nuovo al contem-po, la fatale spietatezza del noto e l’angoscia dell’igno-to, panico-vomito fusi, noia-pazzia più confuse… ilcaso mio, chi non sa entrarvi immagini questo, unuomo ti penetra in casa, ti uccide a colpi di scure…morendo vedi che ha la camicia a quadretti blu e bian-chi… il sogno successivo sono righine marroni, la tuamorte è altra cosa, ti salvi? agghiacci in orrore ma,dico, ti puoi ancora salvare, finché son righine… inve-ce muori, orrendamente mutilato, sembrava diversoma è uguale… stanotte è in tinta unita la camicia delboia, stanotte è diversa no è ieri notte, è sempre, ieri…sempre ieri! quando vivi troppo in cantina, nel putrefar-si del tempo … cristalli in torretta abbominî in cantina,se l’ho spremuto sto tema Stevenson-Wells! ma ora…qualcuno mi ascolti che sia medico e mago… ora ne vadell’ultima larva di equilibrio, un passo e ci sei, la psi-cosi! L’assedio-ossessione si perfeziona s’instaura nelsoma, aminoacidi nuovi molecole strane dendriti defor-mi, ci siamo! la risonanza trofica eccede, ci siamo! ladegenerazione transneuronica! ascolta, cigola l’ippo-campo, l’ipotalamo soffre… il sistema limbico è anda-to, il caos sinaptico è ora! è immenso! da mille a dieci-mila sinapsi a neurone, per trenta miliardi di neuroni

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fate il conto da voi, la gran sarabanda! La confabula-zione mnestica posso dire di starci, delirî che si fannoesperienza, giureresti! eri tu! che c’eri! ti riguarda! ènell’engramma ormai… l’engramma mnestico! quandoli hai torti strizzati arroventati per anni i giunti sinapticisi tumefanno, assoni dendriti fasci spinali piramidinuclei si salva più niente, gli engrammi modificati persempre! come parli? dove vai? qui, lungo il circuito diPapez, sto giro ippocampo-mamillo-talamo-cingolare,nel limbo! è qui la mia memoria sconvolta, la mia vitausurpata… cellule vili infingarde, vi siete lasciate inva-dere senza resistenza, vi passo in rassegna ma vedosolo le avanguardie nemiche… vi ho dato il Loraze-pam, niente! La Cloripramina la Paroxetina e laFluoxetina, peggio! i ritmi circadiani sballati, un bruxi-smo da molarmi i molari, nei ventricoli il liquor cefalo-rachidiano ribolle, le fibre del cingolo cotte… non dove-vano diminuire la permeabilità delle membrane cellula-ri alle monoamine, sti triciclici? garantire la giusta con-centrazione di serotonina? eccomi invece! aritmomaneonomatomane, ideorroico ipermnestico-ecmnestico, ilBorder! più di là che di qua! parassitato dall’obsidione-anancasma, sottospecie ideativa, il ruminante! tachi-psichico, associatore fonico pseudoanalogista, all-includer! ma bradipsichico anche, monoideista vischio-melancolico, bello tutto ciò, molto bello! la concentra-zione dolorosa del depresso, la sua prostrazione… l’i-nerzia sorda dell’ebefrenico-catatonico… il razionali-smo morboso del paranoide, iperlogico vuoto, mi man-ca nulla… l’influenzamento del paranoico, agito abexterno, anche questo… ci si arrangia mica male, noieclettici Border… il palpito dell’ansioso, lo spasmo delfobico manca nulla sto emporio… le allucinazioni dellopsicotico, cenestesie da restarci basito… la dissocia-zione dello schizofrenico ci possiam rinunciare? l’irre-quietudine fisica del maniaco? lo sperpero dellademenza, calcolando chi fummo… noi che fummo noistessi e oggi siamo psicastenici per non essere psico-patici… cioè… per non usare il machete… o per non

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averlo usato… noi qui, sacerdoti di un rituale coatto,biascicatori di nenie, iteranti-compulsanti… iperstruttu-rati pansintomatici, sì noi! retrogradi retroattivi! dubita-tori folli! propensi alla nevrosi alcolica, astemî una vitapoi per disperazione il tracannamento indistinto, pur-ché sopravvenga la pia comatosi… noi amorosi fre-quentatori dei nostri incubi-trauma noi refrattarî a ognicura… noi… io! guarirò mai, io? dimenticare N.N., unpochino? sono tornato dal dottore, Dottore gli dico, i tri-ciclici sono psicotropi psicoanalettici come dire antide-pressivi, mi sono informato! ma, dovevo mica depri-mermi? potrebbe allora, invece… dico così da profano,timidamente, prescivermi qualcosa di più potente,genere psicolettico, famiglia dei neurolettici, roba chesi dà ai deliranti… potrebbe? più ci metteremmo sopraun po’ di tranquillanti, le vecchie benzodiazepine deimiei vent’anni… che ne dite, sto progettino-rincoglioni-mento eh? bocciato! mi sgrida! che sono pazzo!appunto dottore… gradisce mica! mi ridimensiona,mediocre ossesso che sono! far no il Ligabue! lanevrosi ossessiva si cura così, trasversalmente alladepressione, è la psicastenia che le unisce, se non cicredo è lo stesso! ma non è logico! è chimico però! illo-gico! ma neurologico! tocca che m’arrenda, quandodiscuteremo del Guinizelli si arrenderà lui… peraltro,mai come ora la mia cultura umanistica mi sembrapovera cosa… appo le meraviglie della chimica, i pro-digi dell’anatomia… mondo ove tutto si tiene, ove tuttoè dettaglio… se farei a cambio, adesso! il rococò per lapituitaria, un ottonario per un neuroblasto!

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