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Le Cronache dell'Ordine di Rosacroce

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di Luigi Cristiano, Fantasy

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Luigi Cristiano

Le cronache dell’Ordine di Rosacroce

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LE CRONACHE DELL’ORDINE DI ROSACROCE Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Luigi Cristiano ISBN: 978-88-6307-342-3

In copertina: immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Gennaio 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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Il risveglio della rosa Tebe - 1369 a.C. Il sole caldo d’Egitto rischiara con la sua luminosa potenza e benevolenza il palazzo reale del faraone Amenhotep III a Tebe. Il vento caldo del deserto penetra attraverso le ampie finestre e porte del pa-lazzo, facendo danzare le tende di tessuto prezioso che le velano. Un tiepido profumo aleggia per i corridoi del palazzo. I musici fanno risuo-nare delicate note che si diffondono nell’aria incantandone l’atmosfera. L’incenso viene bruciato nei bracieri e i sacerdoti del dio Amon sono raccol-ti in preghiera per accogliere l’arrivo del nuovo nato. La regina Teye è distesa sul letto regale. Il travaglio è iniziato e i suoi la-menti vengono addolciti dalle note dei musici. Le ancelle si affannano attorno alla regina sofferente, la quale presto darà alla luce il nuovo e futuro astro del sole d’Egitto, un principe. Il Gran Sacerdote del tempio di Amon, austero nei lineamenti del viso, si avvicina al sacro letto, mentre un’ancella accoglie fra le sue braccia il prin-cipe d’Egitto appena nato che inizia a gemere dimostrando una sorprendente vitalità. Il faraone Amenhotep III entra nella sala e si avvicina alla sua regina, impa-ziente di vedere il suo figlio ed erede. Il gran sacerdote di Amon alza il bambino verso l’alto mostrandolo alla re-gina, al faraone e ai presenti. Si volta verso una finestra dalla quale penetra un raggio di sole e porta l’infante sotto la luce. “Grande gioia oggi per tutto il popolo d’Egitto, grande gioia perchè è nato un figlio di Amon” pronuncia solennemente il gran sacerdote. “Gli dei sono stati clementi e saggi e ci hanno inviato questo dono. Amon, che questo tuo figlio sia benedetto e sia conosciuto nel tempo con il nome di Amenhotep IV.” Il gran sacerdote pone una mano sulla piccola fronte del neonato per riceve-re una visione sul suo futuro. La musica aumenta di volume e di ritmo, l’incenso viene fatto bruciare con più vigore.

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Il vento inizia a soffiare più forte e il cielo inizia a coprirsi di grosse nuvole grigie. In un tempo breve ma allo stesso tempo lungo come una vita terrena, il gran sacerdote è testimone del futuro del principe. L’orrore si dipinge sul suo vol-to. Improvvisamente un rombo di tuono scuote l’atmosfera e i presenti. Il gran sacerdote apre gli occhi e guarda oltre la finestra. Un secondo tuono rim-bomba nel cielo, poi un terzo. Un fulmine cade e colpisce vicino alla base un obelisco davanti al tempio del dio Amon. La base si frantuma in mille pezzi e il monolite cade sulla piazza di fronte al tempio, rovinando in decine di frammenti. “Buon e saggio Amon, proteggici!”

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2 Lo scienziato non prostituisce affatto i propri talenti alle vergognose opere di libertinaggio, di dissolutezza, di ozio e i suoi lavori sono destinati esclusivamente alla divulgazione della luce, alla ricerca della verità, all’amore per la virtù; a tutto ciò che potrà tendere all’utilità e alla felicità pubblica. [C∴B∴C∴S∴ Cavalieri Benefattori della Città Santa, manoscritto, articolo 7] La radio gracchiava e decisi di spegnerla. Lucia, la mia preziosa amica e collega, l’aveva lasciata accesa uscendo dalla stanza. Amo molto la musica, ma quando sono concentrato nel lavoro preferisco mantenere il silenzio più assoluto. Il ronzio della lampada al neon della cappa biologica e lo sciabordare del bagnetto termostatato, dove avevo messo a riscaldare il terreno di coltura per le cellule, mi tenevano compagnia. Mi infilai i guanti in lattice dai quali si alzò leggera e impalpabile una piccola nube di talco quindi aprii l’incubatore dove conservavo le cellule che stavo coltivando. Un’esalazione pungente e acre di brodo riscaldato colpì le mie narici: era il classico effluvio dei terreni di coltura. Girai il viso verso la porta, sfuggendo all’esposizione diretta a quell’odore melenso e lasciai scorrere le mie mani sui ripiani dell’incubatore. Presi le flask contenenti le cellule, piccole bottigliette speciali nelle quali queste potevano crescere, e le appoggiai verticalmente vicino al grande mi-croscopio che avevo appena acceso. Il colore del terreno di coltura da rosso era diventato aranciato, segno che avrei dovuto sostituirlo con altro fresco. Mi sedetti e osservai le flask al microscopio, valutando la morfologia delle cellule e la loro crescita. Stavo conducendo importanti studi su alcuni tipi di neoplasie e quelle preziose cellule mi erano state donate da pazienti volonta-ri che nutrivano speranza nel mio lavoro. Mi capitava spesso di pensare alle persone che scoprivano di avere una malattia incurabile. Molti dei loro sogni e desideri venivano infranti, per non parlare della loro serenità e di quella dei loro familiari e amici. Ho sempre pensato al mio lavoro come a una mis-sione, il cui fine ultimo è quello di salvare delle vite, o almeno contribuire alla conoscenza dei tumori al fine di poter un giorno permettere al altri come me di farlo. La scienza e la medicina si costruiscono come i mosaici: ogni

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singolo tassello aggiunto permette di vedere più chiaramente l’insieme. È questo il campo che mi ha sempre affascinato fin da quando, finite le supe-riori, intrapresi il mio percorso universitario. Ma non scelsi solo medicina o biologia. Optai per entrambe e decisi di dedicarmi alle biotecnologie, di di-venire un ricercatore medico. Studiare e ricercare in laboratorio nuove mo-lecole, nuovi bersagli terapeutici, nuove terapie per combattere la peste del XX Secolo: i tumori. Sono solito gettarmi a capofitto nel mio lavoro di ri-cerca. Né soldi né il tempo né la gloria hanno per me molta importanza. Conta solo il malato e la sua malattia. In laboratorio, in mezzo alle provette e assorto nei miei esperimenti, mi sento a casa e nutro la grande speranza di poter partecipare a un progetto più grande, quello che un giorno avrebbe vi-sto la definitiva sconfitta delle neoplasie. Il mio lavoro è sempre stato inno-vativo e l’incertezza permea molti dei miei passi sperimentali. La conferma delle mie idee o la loro negazione deriva dai risultati di ogni singolo esperi-mento. A piccoli passi mi muovo lungo un sentiero tortuoso e difficile, ma quello che mi guida è la fede nel mio lavoro e la speranza che le mie intui-zioni e le mie conoscenze mi portino verso un risultato positivo per scoprire qualcosa di nuovo e importante. Di tanto in tanto mi vedo come gli antichi alchimisti, della cui memoria nutro profondo rispetto. Persone, scienziati e mistici, che con abnegazione lavoravano giorno e notte per scoprire i segreti della natura e produrre un medicamento universale, una panacea in grado di curare tutti i mali, gli stessi che Pandora aveva lasciato uscire dal Vaso, e cancellare così la sofferenza. Un fine nobile ma purtroppo ancora utopistico. Mi liberai di questi pensieri quando la porta del laboratorio si aprì ed entrò la mia tutor, Silvia. Donna di mezza età energica, seppur minuta, era un vul-cano in movimento. I capelli rossi dai quali ogni tanto spuntava un riccio ribelle, lo sguardo attento e indagatore, reso ancor più vispo da un paio d’occhi azzurri e da un eye-liner ben marcato. La ammiravo molto perché con onestà e grandi sacrifici era riuscita a farsi strada e a emergere in un ambiente difficile per le donne come quello della ricerca scientifica. Il tem-po delle dark lady della biologia molecolare, come Rosalind Franklin, alla quale spettava il vero merito di aver scoperto la molecola del DNA, sembra-va ormai passato. Le sorrisi cordialmente e lei mi si avvicinò. “Allora, come stanno le cellule?” mi chiese. “Molto bene, le mie bambine stanno crescendo, ma non sono ancora pronte per essere trasferite in una nuova flask.” Silvia sorrise: “Questa volta stanno crescendo molto lentamente.” “Sì, molto più delle volte precedenti. Ho modificato leggermente la compo-sizione del terreno. Mi sembra però che ora possiamo ben evidenziarne le modifiche morfologiche.”

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Mentre le parlavo continuavo a guardare nel microscopio. A un tratto vidi un raggruppamento di cellule che assomigliava a un fiore. “Guarda che cosa curiosa! Mi amano talmente tanto che mi hanno disegnato un fiore.” “Ma dai!” esclamò sorridendo “fammi vedere.” Mi scostai dal microscopio e Silvia sbirciò attraverso gli oculari del micro-scopio. Iniziò a muovere, con le rotelle poste ai lati del microscopio, il piano di appoggio sul quale era sistemata la flask. “Mi sa che il tuo fiore si è spostato, perchè non riesco a trovarlo.” “Peccato, era molto singolare quel raggruppamento” dissi. “La prossima volta che lo vedi scatta una foto.” Le sorrisi. “Senti, ti consiglio appena crescono ancora un po’ di fare subito un’estrazione e una PCR per valutarne il grado di trasformazione. Se compa-re l’RNA della nostra proteina, abbiamo un grande risultato.” “Ok, lo farò appena saranno pronte.” Silvia mi sorrise e lasciò la stanza. Mentre la porta lentamente si chiudeva alle sue spalle non potei fare a meno di sorridere interiormente per la sua ul-tima frase; anche se lavoravo con lei da diversi anni, talvolta si dimenticava che per me non era il primo giorno e tendeva a suggerirmi gli ovvi passi spe-rimentali da compiere. Il nostro rapporto era molto professionale, ma accan-to a esso era nata un’amicizia sincera basata sul rispetto e sulla lealtà reci-proca. Accettavo con pazienza e riconoscenza i suoi suggerimenti, anche perchè comprendevo che, avendo due figli da crescere da sola, la sua era una deformazione professionale materna. Tornai a fissare la flask al microscopio e il raggruppamento a forma di fiore mi si ripresentò davanti agli occhi. “Una rosa di cellule” sussurrai. Cambiai il terreno di coltura alle cellule, le rimisi nell’incubatore e uscii dal laboratorio chiamato da tutti, ovviamente, “stanza cellule.” Mi diressi lungo il corridoio del dipartimento di ricerca dove lavoravo per raggiungere il mio laboratorio. Da una stanza uscì Lucia e mi sorrise. Ricambiai il sorriso. “Allora, sei diventato papà?” “Sì, devo ammettere che ho provato questa emozione!” “Wow! Mi inviterai al battesimo?” “Certamente, tra qualche giorno saranno pronte. Sai che mi hanno fatto un disegno?” “Spero non ti abbiano fatto un disegno di una mano con il dito medio alzato, da tanto sono stufe di te che le guardi sempre! Un po’ di privacy!”

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Mi misi a ridere e anche Lucia mi fece compagnia. “Sei cattiva. Dici che è un ‘Grande Fratello’ in miniatura?” “Guardone!” Risi di nuovo. Il nostro rapporto di amicizia era basato sullo scherzo e in ogni occasione ci divertivamo prendendoci in giro. Le volevo molto bene, era la mia migliore amica e devo ammettere che mi sentivo anche molto at-tratto da lei. “Dai, soddisfa la mia curiosità! Cosa hanno disegnato le tue cellule?” mi chiese, appoggiando le sue mani sulle mie. “Un ammasso di cellule aveva la forma di un fiore.” “Un fiore? Mi sa che qui c’è lo zampino del tuo lato romantico.” “No, te lo assicuro, aveva la forma di un fiore, sembrava una rosa.” “E ti meravigli? Non vedi già me ogni giorno? Non sono la rosa in questo giardino?” “Sì, hai ragione, sei una bella rosa. Magari con qualche spina.” “Non esiste rosa senza spine, caro mio. E credo ti piaccia pungerti sulle mie.” “Immensamente, tesoro. Ma potrei inventarne una senza spine, cosa ne dici? Mi darebbero il nobel?” “Sì, il nobel per la pece!” disse con grande sorriso “oppure l’Ig Nobel!” “Pensa, la gente non si pungerebbe più e sarebbe un’importante innovazio-ne, no?” Lucia mi mise una mano sulla spalla e iniziò a darmi delle pacche. “Sì, hai ragione, credo che prenderai il mongolino d’oro!” “Ahi! Mi sono punto!” “Stai attento, non vorrei avvelenarti.” “Ho l’antisiero con me.” “Seriamente, come stanno crescendo?” “Direi piuttosto bene, ho cambiato il terreno. Saranno pronte fra qualche giorno per essere raccolte.” Lucia si avvicinò e mise una mano sul mio petto, facendo dei cerchi con il dito indice. Mi guardò fisso negli occhi. Potevo sentire il dolce profumo che l’accompagnava sempre, da cui l’appellativo che avevo inventato, quello di ‘Rosa in questo giardino’. I miei occhi si perdevano nei suoi occhi verdi e profondi, come in una foresta ancora vergine da esplorare. Sentivo salire il calore dal mio cuore alle mie guance, mentre il primo batteva più veloce-mente e in istanti come quello mi chiedevo come mai la nostra relazione fosse sempre stata platonica e di pura amicizia. Erano istanti come quelli che mi facevano sognare e rallegravano la mia giornata, portandomi a desiderare ardentemente di baciarla sulle labbra.

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“Uomo della rosa, mi regalerai un campione di cellule?” “L’uomo della rosa ha detto…” feci una pausa. Il trillo di un timer echeggiò per il corridoio e fece girare di scatto Lucia. “Mi sa che l’uomo della rosa deve darmi una risposta veloce perchè il lavoro mi sta chiamando.” Non volevo staccarmi da lei, era così affascinante e intrigante. ‘Quel maledetto timer!’ pensai. Aveva rovinato quella magnifica atmosfera. Mi feci coraggio, il cuore batteva veloce nel mio petto, ma la mano di Lucia non vi era più appoggiata per sentirlo. “L’uomo della rosa le darà la risposta questa sera se lei verrà a cena e al ci-nema.” “Questo è un ricatto! Tuttavia accetto la sua proposta.” Si staccò da me e fece per tornare al suo laboratorio. “Appena finisco passo a trovarti.” “Ok, ci vediamo dopo.” Mi lanciò un bacio con una mano e poi scomparve in una stanza, dove il timer continuava a trillare. Poco dopo il trillo si spense. ‘Quel maledetto timer!’ pensai nuovamente ed entrai nel mio laboratorio. Lavorai diverse ore e verso le sette di sera due mani si posarono sopra i miei occhi stanchi che scrutavano lo schermo di un computer. “Indovina chi sono?” mi disse Lucia con una voce camuffata. “Monica Bellucci? Sei tu che mi desti or ora da questa selva oscura?” L’appellativo ‘Monica Bellucci’ era il secondo nomignolo con cui avevo battezzato Lucia, non solo perchè le assomigliava molto fisicamente, ma an-che perchè vestiva sempre in maniera molto femminile e di gusto, come una diva del cinema. “Scemo! Quando prenderò il nobel al posto tuo sarò più famosa di lei” mi disse. Tolse le mani dai miei occhi e si sedette su una sedia vicino a me. Mi girai a guardarla. “Potresti già da questo momento chiedermi l’autografo.” “Intanto mi accontento di chiederti una serata al cinema e una cenetta.” “Cena per me va bene, cinema non posso. Domani ho una conferenza noiosa e devo alzarmi presto per andare a Udine.” Mi mostrai dispiaciuto facendo il labbro tremulo, ma un sorriso tradì la mia breve interpretazione. “Va bene, io domani devo andare in biblioteca invece.” “A fare che?”

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“Mi ritirerò nel silenzio a meditare su alcuni articoli che ho scaricato da internet.” “Bene, ma non guardare le altre, perché sono molto gelosa!” disse sorriden-domi. “Vedi di fare lo stesso anche tu, perchè pure io sono geloso.” “Va bene, ti prometto che non guarderò le altre.” “Nemmeno gli altri, furbona!” Lucia abbozzò un’interpretazione di un viso disperato: “Il mio timer è mor-to.” “Mi dispiace. Quando è il funerale?” “Scemo! Ho dovuto chiederlo in prestito a Susy.” “Potevi venire fino al mio umile laboratorio e chiederlo a me.” “Troppa distanza. E poi non voglio darti così tanta confidenza.” “Allora questa sera resterai a digiuno.” Scoppiò a ridere di nuovo: “Alle otto, sotto casa mia?” “Hai paura di restare a stomaco vuoto, eh?” “Di’ piuttosto che mi sono presa l’incarico di controllare la tua dieta.” “Sono felice di avere una nutrizionista affascinante come te.” “Oh, ma io ti credo!” Uscì dal laboratorio e io tornai a fissare lo schermo del computer soddisfat-to, mentre tentavo di scaricare un altro articolo. Lo schermo iniziò a sfarfal-lare e per un istante mi sembrò di vedere l’immagine sfocata di una rosa. ‘Devo essere stanco’ pensai ‘meglio smettere per oggi, prima di avere le al-lucinazioni!’ Spensi il computer e raccolsi gli articoli. Poi chiusi il laboratorio e mi diressi verso l’uscita del dipartimento. Mi aspettava una serata piacevole e allegra. Quella sera io e Lucia mangiammo cinese. Sembravamo una coppia di fi-danzati e devo dire che ne andavo orgoglioso. Una volta fuori dal ristorante mi offrii di accompagnarla a casa e facemmo due passi. “Ti ringrazio per la cena, sei stato davvero carino, ma non pensare nemmeno di pagare tu la prossima volta. La prossima volta offro io!” “D’accordo.” “Lo dici ogni volta e poi non mi fai mai offrire.” “Sono fatto così, gentil donzella.” “Oh, mio gentil cavaliere, quale tripudio di gioia offusca il mio giudizio! La prossima volta non mi metterò i tacchi e vedremo chi riuscirà ad arrivare al-la cassa per primo.” “Vorrei proprio vederti con le scarpe da ginnastica.”

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Mi sorrise. Anche nella luce fioca proveniente dai lampioni della strada era bellissima. Camminavamo uno vicino all’altra. Una leggera brezza le mosse i capelli. Era come un sogno. Lucia mi prese sotto braccio e il mio cuore ac-celerò di qualche battito. “Allora, di cosa tratta questa conferenza?” le chiesi. “Di alcune nuove applicazioni di una tecnica analitica lunga e noiosa. Devo andarci perchè fra breve anche il nostro laboratorio adotterà questa procedu-ra sperimentale, e quindi devo tenermi aggiornata.” “Brava, fai bene. Io ormai sono secoli che non vado a una conferenza.” “Perchè preferisci prendere polvere in laboratorio. Sai cosa farò? Quando tornerò da Udine porterò un bel battipanni gigante, così potrò darti una buo-na spolverata.” “Penso che ti convenga un aspirapolvere.” “E tu hai scaricato gli articoli che devi leggere?” “Sì, ho trovato molte informazioni interessanti. Spero mi saranno utili per la mia ricerca.” “Lo spero anch’io. Hai un grande progetto da portare avanti. Al confronto il mio sembra un qualcosa da piccolo chimico.” “Non scherzare, anche il tuo progetto è magnifico.” “Sì, ma è noioso e ripetitivo. È sempre la stessa solfa. Lavare le tue provette sarebbe già più divertente, con tutti i pasticci che fai.” “Quando sarò ricco e famoso e avrò un centro di ricerca tutto mio, ti assu-merò come collaboratrice, va bene?” “Sì, ti prego, salvami dalla routine.” Scoppiammo in una sonora risata. “E se invece io divento ricca e famosa e apro un mio centro di ricerca?” “Be’, allora verrò da te a elemosinare un lavoro inginocchiandomi ai tuoi piedi.” “Ci sarà sempre un posto alla mia destra.” “Come no? Il Padreterno sei!” “Padreterno, no. Ma Madre Eterna, sì. Non l’ha detto anche Papa Paolo VI? Dio è padre, ma è anche madre.” “Hai ragione, non posso controbattere. Femminista!” “Maschilista!” Parlammo a lungo dei nostri rispettivi progetti fino a che non giungemmo sotto casa di Lucia. “Beh, eccoci arrivati!” dissi. “Sembra proprio di sì. Grazie per la serata, mi ha fatto molto piacere.” “Grazie a te, per la tua compagnia.”

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Il mio cuore batteva forte nel petto. Era così bella. Lucia si avvicinò in atte-sa. Il mio cuore accelerava sempre più il suo battito e nel silenzio della notte era senz’altro udibile. Avvicinai il mio viso al suo. Avrei voluto tanto ba-ciarla con passione, ma invece le diedi due baci su entrambe le guance e le augurai buona notte. Tornando a piedi verso casa mi diedi dello scemo da solo. Avevo sprecato un momento magico a causa della mia timidezza. Iniziai a ragionare tra me e me e a rimproverarmi. Mentre i pensieri si susseguivano numerosi nella mia testa, qualcosa di bianco attirò il mio sguardo. Sul marciapiede, vicino a un lampione, c’era una rosa bianca per terra. ‘Come mai qui?’ mi domandai. Mi guardai attorno e vidi a poca distanza un ristornate ancora aperto. ‘Probabilmente’ pensai ‘qualche venditore di fiori che gira per i ristoranti vendendo alle coppiette rose carissime avrà perso questa qui’. Mi chinai e la raccolsi. La annusai e il suo profumo mi ricordò per un attimo quello di Lucia. Quando giunsi a casa misi la rosa in un lungo bicchiere di vetro e il suo profumo riempì in breve tempo l’intero appartamento. Al mat-tino, quando mi svegliai, l’odore era ancora intenso. Mi preparai velocemen-te e uscii di casa senza svegliare i miei genitori, diretto a studiare in biblio-teca.

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3 Io non insegno, risveglio. [Villiers de l’Isle Adam] Tebe - 1353 a.C. Il principe Amenhotep IV è disteso sulla riva del fiume Nilo, vicino alla sua città natale, Tebe. Sua madre, la regina Teye, gli ha insegnato ad ascoltare i messaggi portati dal vento. E, ascoltando i suoi messaggi, si abbandona ai ricordi. Fin da bambino soffre di una malattia terribile, l’epilessia. I sacerdoti la con-siderano un male di origine divina e l’unico rimedio che offrono è la pre-ghiera. Ma la sua infermità lo porta ad avere crisi frequenti, dalle quali si riprende lentamente. Sua madre gli è sempre vicino e lo conforta. Teye si prende cura del suo bambino e nelle giornate difficili gli tiene la mano. Suo padre, Amenhotep III, è meno affettuoso di sua madre, anzi sembra non amarlo affatto. Il faraone vuole formare un guerriero che possa un giorno sostituirlo nella guida dell’Egitto e portare sulle spalle il peso della sovrani-tà; invece si ritrova un figlio malaticcio, introverso e sognatore, che preferi-sce contemplare il cielo piuttosto che allenarsi con il suo maestro d’armi. Gli anni passano veloci e ormai il faraone è rassegnato ad avere un figlio malato e sofferente. Quante volte il giovane erede al trono si sente diverso e viene preso dallo sconforto per non essere robusto e forte come gli altri. Si sente sgraziato, anche perchè, in più di un occasione, ode commenti sul suo aspet-to fisico: un ragazzo con la testa troppo grande e sproporzionata rispetto al resto del corpo, dal viso lungo e dalle labbra eccessivamente carnose. Sua madre gli è vicino anche in questi momenti. ‘Il principe soffre di una malattia divina e sacra. Gli dei sono saggi e giu-sti.’ Queste parole risuonano spesso dalla bocca del grande sacerdote di Amon. I suoi adepti pregano al capezzale del principe o al tempio durante le sue crisi, ma chi davvero si dà da fare è sua madre. “Madre perchè sono debole? Perchè non sono come gli altri?” le chiede un giorno dopo una grossa crisi.

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“Tu non sei debole, figlio mio. Gli dei ti hanno mandato a noi come un do-no. Tu sei un dio in terra e nessun dio è debole.” “Ma mio padre è deluso? Ho deluso mio padre il faraone?” “No, il faraone è felice del dono che gli dei ci hanno fatto. Grande è il dio Amon.” “Allora perchè non viene mai a trovarmi?” “Perchè ha un regno da governare, da rendere prospero, bello e forte per quando tu prenderai il suo posto, per quando inizieranno i tuoi giorni da fa-raone.” “Saprò onorare il ricordo di mio padre ed elevare le mie gesta al pari delle sue?” “Ogni faraone sa quello che deve fare. Quando sarà giunto il momento per te di sedere sul trono, saprai come essere ciò che sei.” Amenhotep IV si lascia trasportare dai ricordi, disteso vicino al fiume Nilo. Il vento gli porta un nuovo messaggio. Si volta verso Tebe e vede arrivare verso di lui la sua avvenente moglie. Nefertiti è la ragazza più bella d’Egitto, incarna la magnificenza assoluta. Amenhotep IV si innamora subito di lei e la prende in moglie all’età di appena dodici anni. Seppur molto giovane, Ne-fertiti dimostra una maturità fuori dal comune, una grande sensibilità e spiri-tualità. Anche lei resta accanto al principe quando è colpito dalle sue crisi. Un giorno restano da soli e possono parlare liberamente di spiritualità, lon-tano dalle orecchie dei sacerdoti di Amon e della regina Teye, grande soste-nitrice del clero. “I sacerdoti di Amon non mi hanno mai offerto il sapere che tu mi doni, Ne-fertiti.” “Il sapere viene dall’alto, dal Dio Sole.” “Tu sei il sole che mi guida, la luce che mi guida nelle tenebre.” “Nessuna tenebra è vicino a te, amore mio. C’è solo tanto amore.” “Mio padre non mi ama.” “Tuo padre è il faraone e prima di essere tuo padre è un dio.” “Un dio che non mi ama. Mi basterebbe una sua parola, mi basterebbe un suo abbraccio.” “Prima che tu diventi faraone, tuo padre avrà modo di ricredersi e ti dirà ciò che non ti ha mai detto.” “Come fai a sapere questo?” “Perchè la luce del Dio Sole illuminerà il suo cuore.” “Sei saggia e buona, moglie mia. Ciò che desidero è non deludere mio pa-dre.”

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“Non lo deluderai mai. Sei figlio di un faraone e il suo sangue scorre nelle tue vene, come pure il sangue dei tuoi antenati. Ed è un buon sangue.” “Quali virtù dovrò avere per non sfigurare di fronte alla grandezza di mio padre?” “La speranza è una qualità che non devi mai farti mancare. Essa ti porta a concepire il futuro come lo desideri e ti permette di mantenere salda la fede nelle tue azioni. La fede nutrita dalla speranza fa sorgere il coraggio. Dal co-raggio deriva una grande forza: è la forza alla fonte di ogni forza. Ma la spe-ranza ti permette anche di vedere il buono in ogni essere vivente, ti permette di essere giusto nel tuo operato e di usare la carità verso coloro che la meri-tano. Fede, speranza e carità ti fanno vedere come tutto è uno.” “Cosa intendi moglie per ‘tutto è uno’?” “Tutti i serpenti sono il dio Apofis. Tutti i gatti sono la dea Bastet. Tutti gli uomini e le donne d’Egitto sono il faraone.” “Questo vuol dire che anche tutti gli dei sono uno?” “Gli dei non fanno eccezione. Ogni divinità che adoriamo è la manifestazio-ne di un unico dio, il Dio Sole.” C’è un altro messaggio sussurrato dal vento. Questa volta il messaggio è importante e urgente. Amenhotep IV si alza e abbraccia sua moglie. Insieme si dirigono verso Tebe, verso il palazzo reale, dove suo padre, il faraone Amenhotep III, è disteso da qualche giorno sul letto regale afflitto da una improvvisa malattia. L’odore di incenso avvolge il principe, quando egli accede alla stanza dove si trova il faraone. Il grande sacerdote di Amon gli si avvicina e lo informa che presto la sua anima lascerà il corpo. Amenhotep IV guarda la sagoma di suo padre sotto alle lenzuola di lino, per poi soffermarsi al volto, pallido e sofferente. Amenhotep III apre gli occhi e scorge il suo erede. Con fatica deglutisce, prima di aprire la bocca. “Lasciatemi solo con mio figlio.” L’ordine del faraone è legge e tutti abbandonano la sala, chiudendosi le por-te alle spalle. “Avvicinati figlio mio, perchè devo dirti una cosa molto importante.” Amenhotep IV si avvicina e si inginocchia al capezzale del padre sofferente. “Devo alleggerire il mio cuore, altrimenti potrebbe pesare sulla bilancia che giudicherà la mia anima.” “Sono qui, padre.” “Ho rispettato la tradizione di mio padre e di suo padre prima di lui. Ho reso grande e prospero l’Egitto. Alcune cose però non sono riuscito a fare; non

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sono stato in grado di fermare la minaccia degli invasori dell’est, gli Hittiti. Ti lascio un arduo compito e una grande sfida diplomatica e militare sulle spalle.” “L’accetto volentieri, padre. E farò tutto quello che un faraone deve fare per proteggere il suo popolo e l’Egitto intero.” Amenhotep IV era commosso: “Ho fatto il faraone e credo di essere stato un buon faraone, ma mi rendo conto di non essere stato altrettanto un buon pa-dre per te. Le tue sofferenze dovevano essere accompagnate anche dalla mia mano, invece non sono stato presente accanto a te.” “Padre, avevi un regno da governare, da rendere prospero e da proteggere. Sono orgoglioso che non abbia trascurato il tuo regno, perchè altrimenti a-vresti trascurato anche me. Ora posso beneficiare dei tuoi sforzi e ringraziar-ti per ciò che mi lasci. Potrò ricordarti con rispetto e parlare di te con onore ai miei figli.” Amenhotep III sorrise compiaciuto e una lacrima gli scivolò lungo la guan-cia. “C’è un ultima cosa, un ultimo pensiero che non mi dà pace.” “Sono qui, padre.” “Corruzione. Disonore. Tradimento.” “Dove?” “Nel clero di Amon. I sacerdoti sono corrotti, si sono macchiati di terribili azioni e hanno tradito me e l’Egitto.” “Farò ciò che deve essere fatto per riportare l’onore, la fedeltà e l’integrità laddove queste qualità io trovi mancanti.” “Ora, figlio, posso andare senza timore. Posso presentarmi davanti alla dea Maat e confrontare il mio cuore con la sua piuma. Tu sarai un grande farao-ne per l’Egitto. Abbi cura della tua brava moglie e regina. Accetta i consigli e il sostegno di tuo fratello, nella sua lealtà e onestà puoi confidare. Ora pos-so andarmene essendo certo di lasciare il regno in sagge e buone mani.” Il faraone chiude gli occhi e un sorriso si dipinge sul suo volto, finalmente rilassato, senza segni di sofferenza. L’ultimo alito di vita esce dalla sua boc-ca. Il grande faraone Amenhotep III è morto. Il principe esce dalla stanza che presto sarà la sua e scende una scalinata che lo porta in un giardino del pa-lazzo reale. Nefertiti è seduta assieme alle sue ancelle nel giardino. Bella come un raggio di sole, si gira verso il suo compagno e vede la tristezza e il dolore dipinti sul suo volto. Si alza e va incontro al principe, abbracciandolo e confortandolo. “Avevi ragione, mio padre mi ama.”

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“E ti proteggerà sempre perchè una parte di lui vive in te.” Amenhotep IV piange di gioia e dolore, ma il calore donatogli dalla sua gio-vane moglie è un balsamo in grado di curare tutte le sue ferite interiori. Ne-fertiti lascia l’abbraccio del suo compagno, fa qualche passo verso un ce-spuglio di rose e ne stacca una. Ritorna verso Amenhotep IV, gli mostra questa rosa, la bacia e gliela porge. “Questa rosa è stata bagnata dai raggi del Dio Sole ed è stata riempita del mio amore.” “Questo dono mi riempie il cuore della tua benevolenza e di quella del Dio Sole.” Amenhotep IV prende la rosa dalle mani di Nefertiti, l’annusa e la porta al cuore.

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4 Il discepolo non è da più del suo maestro; ogni allievo, compiuta la sua formazione, sarà tutt’al più come il suo maestro. [Luca, 6,40] La mattina in biblioteca passò velocemente, ricavai numerose informazioni dalla lettura degli articoli che avevo scaricato. Mi potevano essere utili per decidere i prossimi passi sperimentali. Uscii dalla biblioteca che era quasi l’una del pomeriggio e mi diressi verso casa. D’un tratto sentii un clacson suonare alle mie spalle e mi voltai. Vidi che una Porsche Boxter nera stava rallentando e si stava fermando vicino a me. Il finestrino si abbassò e vidi emergere la testa di mio zio Antonio. “Ciao nipote, sempre a studiare, eh?” “Sempre, gli studi non finiscono mai.” In realtà era secondo cugino con mia madre, ma per rispetto lo chiamavo zi-o. Era un uomo di mezz’età, ma portava molto bene i suoi anni, vestito sem-pre sportivo ed elegante allo stesso tempo. Ricco di famiglia, aveva ereditato alla morte di sua madre un enorme capitale distribuito tra beni immobili, mobili e liquidi. Intelligente e col fiuto per gli affari, aveva fatto fruttare quel patrimonio e ora viveva come un ricchissimo zio Paperone. Devo con-fessare che ignoravo la sua reale occupazione. Sapevo che aveva molti affa-ri, che aveva le mani in molte industrie estere, oltre che possedere una gros-sa attività di import/export. Era il più ricco tra tutti i nostri parenti, forse l’unico ricco. La ricchezza, però, non aveva né offuscato la sua morale né minato la sua personalità. Restava un uomo cordiale e sincero, altruista e pieno di energie che impiegava in un attivo volontariato. Molti ospedali del-la Regione avevano beneficiato delle sue donazioni. Molte persone potevano eseguire esami d’avanguardia con i macchinari che lui, anonimamente al pubblico ma non alla nostra famiglia, aveva donato. Per me era un modello di vita perchè nonostante la sua ricchezza e gli agi che questa situazione comportava, era rimasto comunque una persona modesta e semplice, stabile, senza eccessi. Avevamo interessi comuni, soprattutto per quanto riguardava gli aspetti della medicina e dell’assistenza ai malati. I nostri discorsi erano sempre piacevoli, anche perchè possedeva una grande cultura in tutti i campi del sapere.

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“Sono passato poco fa a trovare i tuoi vecchietti!” mi disse. “E adesso ci siamo incontrati anche noi, che coincidenza eh?” “È proprio una bella coincidenza. Hai da fare?” “No, stavo per tornare a casa.” “Salta su che andiamo a mangiare qualcosa.” Acconsentii e salii a bordo. Non era la prima volta, ma provavo la stessa emozione in ogni circostanza che mi portava a salire su quella magnifica vettura. Era una delle mie preferite, l’auto dei miei sogni. “Mettiti comodo, allaccia la cintura che si parte!” “Allora mi devo preoccupare. Vai piano.” “Tranquillo, qui non devo fare a gara con Schumacher!” e scoppiò in una risata a denti stretti. Ci sedemmo a un tavolino al Caffé degli specchi in Piazza Unità d’Italia. Era una bella giornata e il sole primaverile dava un po’ di tepore alle fredde giornate dell’inverno che ci stava abbandonando. “Raccontami dei tuoi studi, come procedono?” “Bene, zio, grazie. Ho avuto delle intuizioni che mi hanno permesso di an-dare avanti con gli esperimenti, anche se navigo ancora un po’ alla cieca.” “Devi sempre seguire le tue intuizioni. Sono molto importanti. Per esempio, una vocina mi diceva di passare vicino alla biblioteca perchè così ti avrei incontrato. E ho fatto bene a seguirla, non trovi? Altrimenti non staremmo qui a spizzicare qualcosa.” Lo zio Antonio non ‘mangiava’, bensì ‘spizzicava’, e questo era solo uno dei termini del suo gergo. Il suo ‘spizzicare’ consisteva nel mangiare un tramez-zino, un’insalata e una coppa di gelato, non necessariamente in questo ordi-ne. “Hai seguito l’intuito, ma hai solo avuto fortuna. Sarei potuto uscire un mi-nuto dopo e non ci saremmo incontrati.” “Elementare Watson, ma come ben sai, esistono più cose in cielo e in ter-ra…” “Sì, so tutta la tiritera” feci una pausa “credi molto alle coincidenze, zio?” “Assolutamente. Le coincidenze sono importanti perchè ci inviano dei mes-saggi.” Mi guardò socchiudendo gli occhi, in uno di quei suoi non rari sguardi e-nigmatici. Era come un pescatore: lanciava la sua esca colorata, misteriosa e affascinante e attendeva che il suo interlocutore abboccasse. Si aspettava una domanda. E non persi tempo a porgergliela. “Quali messaggi?”

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Mio zio sorrise, si portò una mano alla bocca appoggiando il pollice sulla mandibola e fece scorrere le dita indice e medio sul labbro inferiore, fingen-dosi in stato riflessivo, ma sapevo bene che aveva la risposta già pronta nel momento in cui stavo formulando la domanda. “Possono essere messaggi banali o più significativi. Prendi ad esempio la stella cometa che apparve nel cielo e guidò i magi al luogo di nascita di Ge-sù. Era un segno importante. Bisogna sempre seguire i segni che ci appaiono lungo il cammino, perchè essi ci possono guidare verso una specifica meta.” Era ovvio dove voleva portarmi. Ogni occasione era buona per indirizzare le nostre conversazioni su argomenti di tipo spirituale, psicologico o metafisi-co. Decisi di assecondare il suo gioco, perchè ciò che avevo notato il giorno prima di certo non poteva essere spiegato esaurientemente con il pensiero razionale. Magari poteva farmi riflettere e aiutarmi a trovare una risposta. “Quindi i segni ci mostrano una via, ma come si trova questa direzione?” chiesi. “Riflettendo su quanto ti è successo. Molto spesso le persone non prestano sufficiente attenzione ai segni che vengono loro inviati, perchè sono troppo impegnate nella loro frenetica corsa. Una volta che ti fermi e guardi indietro, ai fatti che sono accaduti nel tuo passato, puoi ritrovare una sequenzialità nelle coincidenze e nei segni e capire il perchè di certi avvenimenti, oltre che poter intuire il destino verso cui sei guidato.” “Segni, coincidenze, messaggi del destino. Devo confessare la mia difficoltà a credere ciecamente a tutto ciò. Sono uno scienziato e nella scienza queste cose non esistono.” “Non ho detto che ci devi credere e non ho nemmeno detto che sia facile da credere, ma nella mia esperienza ti posso dire che i segni e le coincidenze esistono. Che tu ci creda o no, essi sono lì, ti vengono mostrati e sta a te rac-coglierne il significato finché sei ancora in tempo.” Entrambi restammo in silenzio per qualche secondo, guardandoci negli oc-chi. Poi mio zio prese di nuovo la parola. Bisognava battere il ferro finché era caldo, ovviamente. “Nella mia vita ho ricevuto numerosi segni. Dapprincipio non vi facevo caso nemmeno io, ma con il tempo ho imparato a fidarmi del mio intuito e dei messaggi dei segni che ricevevo. Molto del mio successo negli affari lo devo all’intuito e ai segni. E posso testimoniarlo.” “La mia mente razionale mi fa pensare al caso piuttosto che a segni del fa-to.” Mio zio si mise di nuovo una mano sulla bocca e socchiuse gli occhi, scru-tandomi.

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“Questo vuol dire che ti sei accorto di un particolare segno, giusto? Altri-menti non mi avresti posto domande riguardo le coincidenze. Immagino che uno di noi due abbia un messaggio per l’altro, oppure dobbiamo rivelarci qualcosa a vicenda.” “Inizi con gli enigmi?” “No, sto solo constatando un dato di fatto. Sai che parlo a voce alta, espri-mendo i miei pensieri. Immagino tu abbia qualcosa che non riesci a spiegare a te stesso.” Rimasi in silenzio, abbassando per un attimo gli occhi. “Vedi, non esiste strumento in grado di misurare i segni, ma ciò non vuol dire che essi non esistano e che non facciano parte di noi, della nostra realtà. Una realtà di cui è bene parlare, perchè non esiste solo la materia e le sue leggi, ma esiste anche altro, un qualcosa che ancora l’essere umano non rie-sce a spiegare. Ma quel qualcosa esiste.” Mi voltai per un attimo verso la piazza, osservando le persone che passeg-giavano, le madri con i bambini in carrozzina, i colombi che volavano e si posavano qui e là. Possibile che esistesse qualcosa che andava oltre alla real-tà che si presentava ai miei occhi? Esisteva una mano invisibile che guidava i passi di ciascuno e inviava dei segni? Se così era, qual era il significato del segno che ripetutamente avevo ricevuto e cosa poteva volermi suggerire? Milioni di domande iniziarono a occupare i miei pensieri. Milioni di doman-de che non ottenevano risposta. Non ero preparato a rispondere a quegli in-terrogativi perché non avevo le basi per farlo. Tutti i miei studi sulla materia, sulle leggi fisiche e chimiche che la gover-nano, non riuscivano a spiegare nessuno dei quesiti che la mia parte irrazio-nale in quel momento mi proponeva. Mi sembrava di essere tornato per un attimo alle elementari e di trovarmi davanti a un’operazione matematica di cui non conoscevo la soluzione, il modo per arrivare a un risultato. Un velo di tristezza e di frustrazione calò sui miei pensieri. Avevo sempre creduto, come d’altra parte insegnava anche la mia religione, che esistesse qualcosa di misterioso e inspiegabile, che andava oltre ai confini e limiti po-sti dalla scienza, il piccolo mondo di cui facevo parte. Sfortunatamente il modo per raggiungere questa conoscenza, ovvero trovare il risultato dell’equazione, mi era totalmente ignoto. “Quanti pensieri! Fermati, prima che ti venga un’emicrania!” disse. Ritornai alla realtà oggettiva e mi accorsi che avevo riflettuto tra me e me per un po’ di tempo. Quando mi concentravo su qualcosa escludevo tutto quello che mi circondava. “Scusami, stavo pensando.”

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“Tutto bene?” “Be’, zio. Che ti posso dire” feci una pausa “ho notato delle coincidenze, dei segni.” “Vai avanti” mi esortò sorridendo. “Sai, io sono uno scienziato e la mia mente razionale mi dice che sono delle stupidaggini, ma avrei piacere di parlarne con te.” “Non ascoltare la mente, essa tradisce anche l’animo più nobile e intelligen-te. Parlami di queste tue coincidenze. Sono curioso!” mi fece l’occhiolino. Feci un respiro profondo e abbattei per un istante il muro costruito dalla mia razionalità per addentrami in un mondo nuovo in cui avevo tutto da scoprire e capire. “Ho notato ieri tre coincidenze, tre segni. O almeno credo che lo siano.” “Parlamene. Quali erano?” Guardai nuovamente la piazza prima di rispondere a mio zio. “Per tre volte mi è giunta, in diversa forma, l’immagine di una rosa.” Guardai negli occhi mio zio. La sua espressione rimase impassibile e mi e-sortò a continuare. Quanta fatica mi costava tirare fuori le giuste parole per descrivere i segni irrazionali di cui ero stato testimone il giorno prima. “Mentre osservavo delle cellule al microscopio ho notato alcuni ammassi che avevano la forma di un fiore, una rosa, appunto. Poi in uno sfarfallio del computer mi è sembrato di vedere l’immagine di una rosa e terzo, ieri sera ho trovato una rosa bianca sul marciapiede mentre tornavo a casa.” Ce l’avevo fatta. Ero entrato nel mondo irrazionale in cui mio zio nuotava così bene già da tempo. “Molto interessante.” “Zio, cosa significano questi segni? Se c’è un significato, ovviamente.” “Il simbolismo della rosa è molto complesso e antico. Lo trovi dovunque nella storia dell’uomo. Perfino sugli stemmi di alcuni importanti ordini ca-vallereschi del passato, per non parlare di mistiche e misteriose confraterni-te. Significa amore, nobiltà, verità, purezza. In base al colore della rosa, cre-do tu sappia, si danno altri significati. Rossa vuol dire passione, bianca vuol dire purezza e innocenza.” Lo zio rimase assorto per qualche minuto, impassibile. Mi guardò con atten-zione e alla fine mi sorrise. Mi sembrava di essere appena stato esaminato ai raggi x, come se avesse ricavato una radiografia mentale dei miei pensieri e di me stesso, facendo una diagnosi sul mio futuro. “Il cuore puro e nobile del figlio della Rosa…” sussurrò. “Cosa?” “Perdonami, riflettevo a voce alta. Chissà cosa ti riserva il destino. Continua a seguire questi segni, stai attento e vedi dove ti portano.”

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Ecco, lo sapevo. Nessuna risposta, nessun metodo risolutivo per la mia e-quazione. A volte il fare enigmatico di mio zio mi risultava insopportabile. E pensare che lo avevo investito dell’autorità di un dizionario dell’irrazionale che mi potesse illustrare cosa voleva dire quella rosa. Senza esitare, decisi di risolvere da solo quell’equazione e la mia mente propose un risultato. “Magari alla mia anima gemella?” Lo zio rise di gusto. “Perchè ridi?” “Questa è una tua conclusione, ma sappi che la realtà dei fatti si può disco-stare molto dalle nostre personali fantasie o dai nostri sogni. Quindi non ne devi restare deluso, se le cose non vanno come pensi tu.” Altri enigmi. Decisi di dare un taglio a quell’argomento. “Allora eri tu ad avere un messaggio per me, mi hai fatto comprendere l’importanza di seguire i segni.” “Ma il nostro incontro non è ancora terminato.” Ero frustrato e mio zio divertito dalla mia frustrazione. Un’attraente cameriera giunse per prendere le prenotazioni. Al collo portava un gioiello a forma di rosa. Facemmo le nostre ordinazioni: mio zio mangiò un tramezzino e una coppa di gelato allo zabaione. Io presi solo una coppa di gelato al pistacchio. Quando la cameriera si fu allontanata mi guardò: “Mi sa che siamo stati te-stimoni del tuo quarto segno” osservò. Ero sorpreso e sinceramente non capivo il significato della rosa. Perchè quel simbolo continuava a presentarsi ai miei occhi? Dovevo forse dichiarare i miei sentimenti a Lucia? “Bene” disse mio zio pagando il conto alla cameriera, quando questa ci por-tò il pranzo “ora si spizzica!” Mangiammo in silenzio, di tanto in tanto mio zio pronunciava qualche paro-la sui passanti o, meglio, qualche cattiveria. “Non vedo perchè solo le donne abbiano il diritto di spettegolare. Ora capi-sco perchè passano delle ore sedute ai tavolini a parlare. Se possono trovare osservazioni da fare sugli altri, possiamo farlo anche noi uomini, no?” “Certo, zio. Lo sappiamo entrambi che sei mister perfezione!” “Ma non stiamo spettegolando per cattiveria; ci stiamo solo divertendo.” Ridemmo entrambi, ma il mio pensiero gravitava ancora attorno al simbolo della rosa. Finito il pranzo, restammo ancora un po’ a parlare.

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“So che per te è difficile affrontare certi argomenti. Sei curioso, ma allo stesso tempo scettico e incredulo.” “Sai zio, sono affascinato dal mistero. Mi piace leggere libri fantasy e ro-manzi a sfondo anche esoterico, ma credo che la vita reale sia qualcosa di diverso rispetto alla finzione letteraria. Sono consapevole che esistono mi-steri che non siamo in grado di spiegare, e che forse non spiegheremo mai, ma devo ammettere la mia frustrazione al riguardo, perché i miei studi non mi hanno preparato per decifrare queste conoscenze o comunque capirci qualcosa.” “Non sono cose che analizzi e sezioni con la mente. Quando ti affacci a di-scorsi di tipo irrazionale, spirituale o mistico, devi usare il cuore.” “Alcune volte, devo confessarti, mi sento incompleto. La mia formazione mi ha preparato molto a quello che è e sarà il mio lavoro, tramite il quale potrò realmente aiutare persone ammalate e che hanno bisogno di aiuto. Ma…” feci una pausa. “Ma?” “Nel mio cuore sento che ci sono altre vie che non ho sperimentato, che non ho seguito. E questo mi fa riflettere ogni tanto, soprattutto quando sono stanco.” “Cioè?” “Vedo molta corrispondenza tra il mio lavoro e quello degli alchimisti del passato. Loro analizzavano la materia fisica, ma anche la spiritualità dell’uomo. Il loro modo di esaminare la creazione era simile ma molto di-verso da quello della scienza moderna. Mi chiedo se loro avevano delle chiavi che oggi noi scienziati abbiamo perduto.” “Mi hanno colpito molto le tue parole, sai?” “Perchè?” “Non te ne sei reso conto, ma hai cambiato molto il tuo atteggiamento ri-spetto a prima. Prima eri chiuso e diffidente e ora sei molto più aperto e ri-flessivo.” “Cosa intendi dire?” “Io ti conosco da tanto tempo, ti ho visto nascere e crescere. Seppur entram-bi abbiamo le nostre vite e i nostri impegni, abbiamo avuto molte occasioni di dialogo e di confronto. Sono felice che tu abbia aperto te stesso a me, ri-velandomi i tuoi più intimi pensieri. Questo non vuole solo dire che mi stimi molto come persona, ma anche che credi che io ti possa dare alcune delle risposte che cerchi. Sei molto diverso dalle persone della tua età e soprattut-to dai tuoi colleghi scienziati. Il tuo intuito ti porta a vedere i limiti e i bloc-chi della scienza di cui fai parte. Inoltre hai uno spirito umanitario fuori dal comune: a spingerti nelle tue ricerche non sono i soldi e nemmeno per la tua

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gloria personale, ma l’utilità che esse possono arrecare alle persone malate che soffrono. E questo, credimi, è molto più importante.” “Per me viene prima il malato e poi tutto il resto. Così dovrebbe essere an-che se, purtroppo, al giorno d’oggi non siamo in tanti a pensarla così.” “Quel che mi dici lo so già da tempo ed è per questo che spesso mi permetto di stimolarti facendoti riflettere su argomenti considerati ‘alternativi’ da molte persone di oggi. Tu hai la possibilità di vedere le cose a trecentoses-santa gradi. Perchè non approfittarne?” “Io apprezzo molto i tuoi sforzi e le nostre chiacchierate. Mi sento sempre bene dopo aver parlato con te. Mi sento carico di energie.” Lo zio sorrise. “Devi confidare in te stesso e in ciò che senti. Il più grande insegnamento e suggerimento che la mia esperienza mi ha potuto fornire, e che ora condivi-do con te, è stato quello di cercare dentro di me le risposte che desideravo. Per cui, il miglior saggio e maestro è nascosto dentro a te stesso. Egli non ti tradirà mai e sarà sempre pronto a insegnarti e a guidare i tuoi passi nella vita.” “Quindi devo cercare dentro di me il significato dei segni?” “Certamente, interroga te stesso, il tuo cuore, non la tua mente. Nel tuo cuo-re puoi trovare i suggerimenti più giusti.” Mi presi qualche attimo per riflettere sulle parole sagge di mio zio Antonio. “Hai parlato di Alchimia. Cosa ne sai in merito?” “Molto poco. So che gli alchimisti erano dei ricercatori; studiavano la mate-ria e le sue leggi, ma anche lo spirito. Essi furono i precursori della scienza moderna.” “È profondamente vero quello che hai detto e mi fa ritenere che tu ne sappia comunque più degli altri. Oggi l’Alchimia è vista come una scienza arcaica, come un’antenata fantasiosa della chimica moderna. Invece è proprio nell’Alchimia che ritroviamo le radici di quello che siamo oggi: bada bene, non solo le radici scientifiche, ma anche molte radici spirituali.” Ci fu un momento di silenzio. Mio zio mi dava il tempo sufficiente per ri-flettere sulle sue parole. “Sai che cos’è l’Alchimia?” mi chiese dopo un po’. “Ho letto un libro molto divulgativo in passato e ho dedotto che sia una scienza, ma anche una disciplina spirituale che porta l’alchimista a com-prendere le leggi che governano la natura.” “È vero, ma è anche l’arte e la scienza in grado di perfezionare la materia imitando l’opera della natura ed è l’insieme delle metamorfosi fisiche opera-te dallo spirito.” “Wow, che definizione! Dove l’hai letta?”

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“Chi ti dice che nei libri vi sia scritta?” “Vuoi dire che l’hai confezionata tu?” “I libri sono solo dei mezzi, delle chiavi che devono servire per elaborare i tuoi pensieri e aprire la tua mente a concetti ascritti più elevati e soggettivi. Essi ti possono indottrinare molto o molto poco, ma devi essere tu a interio-rizzare e fare tue queste chiavi e queste conoscenze. Questo vale per ogni cosa che leggi, soprattutto se leggi testi di Alchimia.” “Hai letto molti libri?” “Troppi o troppo pochi.” “Sai in realtà cos’è l’Alchimia?” ripeté allora mio zio “te lo sei mai chiesto veramente, al di là di quello che hai potuto leggere?” Rimasi in silenzio. “L’alchimia è la scienza della trasformazione” spiegò. “Trasformare il metallo in oro? È questo che intendi?” “Sì e no. Credi davvero che lo scopo finale di tutto il lavoro alchemico sia quello di trasformare il piombo in oro?” “L’immortalità?” “Lo scopo finale è la trasformazione dell’uomo, sia essa di natura fisica, che comportamentale e spirituale. Ricercare una cura contro la sofferenza e le malattie, che molto spesso sono causate da noi stessi.” “Ricercare una cura?” “La classica pietra dei filosofi è un simbolo materiale e spirituale. Un sim-bolo di perfezione. Perfezione della materia e dello spirito.” Rimasi in silenzio. “Troppo complicato?” “Temo di aver superato per oggi la soglia di contenimento di informazioni e riflessioni della mia testa. Tra un po’ inizierò a fumare.” “Vabbè, dai! Per oggi basta così. L’Alchimia è una scienza affascinante. Dovresti leggere qualcosa in più.” “Chissà, magari un giorno comprerò un altro libro.” “Quel giorno potrebbe arrivare prima di quanto pensi e così le risposte che stai cercando.” Mentre parlava vidi trasparire dallo sguardo di mio zio un misto di gioia e tristezza. Prima che potessi fare ulteriori domande sulla sua ultima affermazione si alzò dal tavolino invitandomi a fare altrettanto. “Ora devo scappare. Il lavoro mi chiama. È stato un piacere parlare con te e spero che riprenderemo un giorno questo argomento” mi strizzò l’occhio. “Grazie per il pranzo e per la chiacchierata” dissi. “Grazie a te.”

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Mi abbracciò forte e mi sussurrò all’orecchio una frase che mi colpì molto. “Sappi che tuo zio ti vuole molto bene e che anche tu avevi un messaggio per me.” Dicendo questo mi strizzò nuovamente l’occhio, si mise gli occhiali da sole e se ne andò. Rimasi nella piazza, pieno di domande. Non capivo più niente. Mio zio, tal-volta, anzi spesso, sapeva essere molto enigmatico e metteva a dura prova la mia capacità di comprensione. La nostra conversazione era stata piena di punti oscuri e di spunti di riflessione. Ma iniziavo a sentire una pulsazione alle tempie. Coincidenze o non coincidenze, segni o non segni, alchimia o quel che sia, volevo tornare a casa e schiacciare un sonnellino pomeridiano. Presi l’autobus e durante tutto il tragitto non feci altro che pensare alle paro-le di mio zio. Davvero le coincidenze potevano rivelare messaggi ed essere importanti per farci capire il nostro futuro? Se così era, ancora non capivo perchè le coincidenze mi portavano di continuo il messaggio della rosa. Si parla spesso del caso, una parola che corre facilmente sulla bocca degli esse-ri umani. Ma se il destino si manifesta tramite le coincidenze, allora dove possiamo sistemare il libero arbitrio? Personalmente, ho una concezione ad albero del destino dell’uomo. Un tronco dal quale si dipartono infiniti rami che portano verso la chioma. Il percorso é stabilito, ovviamente, ma altret-tanto ovviamente una persona può scegliere il ramo del proprio destino e percorrerlo, sfruttando così il personale libero arbitrio. Le coincidenze, dal mio punto di vista, sono messaggi che possono indirizzare verso un ramo o verso l’altro, oppure indicarci che la via che percorriamo possa essere più o meno corretta. Ma nel mio caso, cosa voleva indicarmi la rosa? Quando giunsi a casa accantonai nella mia mente queste misteriose coinci-denze e mi dedicai alla stesura di una relazione su quanto avevo appreso quella mattina. Quando terminai il lavoro mi distesi sul letto, presi il mio let-tore mp3 e mi misi ad ascoltare un po’ di musica. Così facendo cercai di far smettere la pulsazione che sentivo alle mie tempie. Mi addormentai. Sognai. Il sogno che feci era talmente reale e vivido che al risveglio mi sembrava di averne realmente vissuto il contenuto. Mi trovavo in una stanza molto gran-de, le cui pareti erano piene di bassorilievi raffiguranti scene di battaglie mi-tologiche e medievali. Mi avvicinai e toccai queste meravigliose opere d’arte: cavalieri coraggiosi che infilzavano e uccidevano bestie e chimere spaventose. Davanti a me c’era una scala di marmo a chiocciola che condu-ceva al piano superiore. Il resto della stanza era vuoto. D’un tratto sentii dentro di me un brivido di paura, e contemporaneamente dei rumori alle mie

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spalle. Mi girai e vidi un gruppo di orribili creature né morte né vive che stavano venendo nella mia direzione, e non avevano intenzioni amichevoli. Le bocche spalancate, la carne putrida, le orbite incavate e prive di occhi. Brandelli di pelle, carne e tessuto penzolavano dai loro arti. Dietro a loro se-guivano tre scheletri armati. Sentii qualcosa volare sopra la mia testa e rin-ghiare. In preda al panico, decisi di salire di corsa al piano superiore per mettermi in salvo. Quando giunsi in cima alle scale c’erano alcune porte chiuse. Provai ad a-prirle, a sfondarle, ma non si muovevano. Gridai aiuto, ma nessuno venne ad aprirmi. Una creatura alata salì dalle scale e si appoggiò al soffitto del luogo in cui mi trovavo. I suoi occhi di fuoco mi scrutavano dall’alto e sentivo i gemiti e le urla diaboliche dei non-morti che stavano salendo le scale. Ero in trappola. D’un tratto vidi che si apriva alla mia destra una stanza più piccola. Vi entrai e mi chiusi la porta alle spalle. Mi trovavo in una piccola camera, in fondo c’era un grande camino e sulla destra un uomo vestito di blu era seduto a un’ampia scrivania. Era calmo, sereno e scriveva con una piuma d’oca in un grosso libro. L’uomo alzò la testa e mi guardò sorridendo. Tanto la sua barba quanto i suoi capelli erano lunghi, folti e scuri. Volevo gridare, chiedergli aiuto, ma non una parola usciva dalla mia bocca. Sentivo che i non-morti erano vicini. Ormai erano dietro alla porta. Allora l’uomo si alzò con tutta calma e si avvicinò a me. Mise le mani dietro alla testa staccando un ciondolo, un monile di rame, e lo legò attorno al mio col-lo. “Ti dono il Sigillo dei Saggi” mi disse. Si girò e con tutta calma ritornò alla scrivania, dalla quale prese un libro. Ri-tornò verso di me e me lo mise fra le mani. “Questo è il libro della conoscenza perduta. Leggi da questo libro e com-prenderai la via.” Forti colpi risuonarono alla porta. I non-morti la stavano sfondando e im-provvisamente essa andò in frantumi. Gli zombie fecero irruzione nella stanza e si avvicinarono. “Ogni sacro guerriero ha bisogno della spada della verità” mi disse lo scono-sciuto. Tra le mani mi si materializzò una possente lama di luce e iniziai a sferrare colpi agli zombie che mi erano ormai addosso. Tra le urla mie e quelle dei non-morti, staccai braccia, teste e gambe. Trafissi toraci scheletrici e abbat-tei anche la creatura volante, che stramazzò al suolo diventando cenere. Duellai con gli scheletri, mentre l’uomo vestito d’azzurro restava in disparte

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a osservare la battaglia. Alla fine il mio nemico fu sconfitto e la spada lumi-nosa scomparve dalle mie mani. “Giustizia è stata fatta. Ma chi è stato giudicato?” disse la voce dell’uomo. Mi voltai verso di lui, ma era scomparso. Tutto era scomparso. Solo un og-getto era presente. Un grande specchio e la mia immagine che vi si riflette-va.

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5 Per sentire veramente una cosa, l’uomo deve possedere in se stesso un germe di questa cosa; ciò che comprendiamo deve svilupparsi “organicamente” in noi. [Novalis] Amenhotep IV è in piedi, davanti alla finestra della sua camera da letto. Ne-fertiti dorme tranquilla avvolta dalle lenzuola di lino. La regina d’Egitto è bellissima e profuma di rosa. Quella notte il faraone non riesce a dormire. Deve prendere un’importante decisione. Sono trascorse sei lune da quando suo padre, il grande faraone che l’ha pre-ceduto, ha iniziato il suo viaggio nell’aldilà. In tutto quel tempo il nuovo fa-raone ha potuto constatare la terribile situazione nella quale si trovava il re-gno d’Egitto. La missione che il padre gli ha affidato deve essere risolta quanto prima: i sacerdoti dei diversi Dei del pantheon egizio sono diventati, nel corso del tempo, persone ricche, avide, senza scrupoli e hanno abbando-nato la spiritualità di cui erano portatori. La corruzione domina il campo spi-rituale e l’unico dio che sta sorgendo è il dio oro, il dio ricchezza. I sacerdoti più ricchi e avidi sono quelli del tempio di Amon. Sono anche i più influenti e il loro peso politico è enorme. Il gran sacerdote di Amon ha un’importanza politica quasi alla pari del faraone, del re dei re dell’Egitto. E questo è intol-lerabile. Amenhotep IV teme un colpo di stato, una presa di potere da parte del clero di Amon. Il che significherebbe la fine dell’Egitto così come è conosciuto. Decide di fare quattro passi. Lascia la stanza e percorre un corridoio del suo palazzo. Le sue guardie private sorvegliano tutte le entrate. Da una stanza una voce flebile si fa sentire e invita il faraone ad avvicinarsi. Teye, la regi-na d’Egitto, è distesa sul suo letto. Ormai anziana e cieca, vive relegata nel palazzo, non potendo più godere del dono della vista. Ma se non riesce più a vedere, in compenso ha sviluppato un ottimo senso dell’udito. Amenhotep IV entra nella camera della madre e si avvicina al suo letto. “Figlio mio, sei inquieto questa notte.” “Madre, la tua premura mi riempie il cuore di gioia.” “C’è qualcosa che ti turba?”

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“Devo prendere una importante decisione per il regno, madre. Ho visto cose che non possono essere trascurate.” “Ne vuoi parlare con me?” “Mio padre mi ha affidato un’importante compito prima di lasciare questa terra. E ora sono chiamato a risolvere questo problema.” “Di cosa si tratta?” “C’è corruzione e troppa politica tra i sacerdoti.” Il volto della regina si tese: “Non vorrai sfidare il clero di Amon? La loro guida e benevolenza ci ha sostenuti in tutti questi anni. Non puoi usare la violenza contro i sacerdoti, perchè essi parlano in nome degli dei. Se sfidi i sacerdoti, sfidi anche il volere e il potere degli dei.” “Cosa mi consigli?” “Usa la diplomazia e il buon senso. Parlane con il gran sacerdote di Amon. Una soluzione potrà essere trovata.” “Perchè dovrei parlarne con il gran sacerdote di Amon? Possiede forse la stessa dignità del faraone?” “L’appoggio del clero serve al faraone come l’acqua del Nilo serve all’irrorazione dei campi. Se manca l’acqua alle coltivazioni, il sole del de-serto le brucia e rende magri i raccolti.” “Hai ragione, madre, ma non serve solo l’acqua per i campi, servono anche i coltivatori che li lavorino. Senza questi potranno esserci anche le inondazio-ni del fiume Nilo, ma magri saranno i raccolti perchè nessuno seminerà e ne raccoglierà il frutto.” Teye rimane in silenzio, non sapendo cosa rispondere alle sagge parole del figlio. “Non tradirò la missione che mi ha lasciato mio padre e farò ciò che deve essere fatto per sventare la minaccia che ora incombe sull’Egitto.” Amenhotep IV si allontana dal letto della madre. “Che gli dei ci proteggano, figlio mio” dice sussurrando Teye. Il giorno dopo Amenhotep IV incontra il suo architetto personale e insieme fanno una passeggiata nei giardini interni del palazzo. “Come procede la costruzione di Akhenaton?” “Sommo Faraone, la città che hai ordinato viene costruita giorno dopo gior-no in tuo nome e sta crescendo a vista d’occhio. Sembra che una mano di luce invisibile accompagni l’opera dei costruttori.” Amenhotep IV sorride compiaciuto. “E la stele?” “È stata completata e posta nel luogo da te indicato.”

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“Molto bene. Porta la mia benedizione agli operai e di’ loro che presto il fa-raone farà visita alla sua città.” “Come desideri, sommo Amenhotep IV. La tua visita ci farà grande onore e la tua benedizione porterà luce e gioia nei nostri cuori.” Dopo queste parole il Faraone congeda l’architetto e si dirige al giardino più bello, dove sa che potrà godere della compagnia della sua meravigliosa mo-glie e dove, all’insaputa del clero di Amon, si terrà una cerimonia segreta volta all’adorazione del Dio Sole, il dio unico, Aton. FINE ANTEPRIMACONTINUA...