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Le Cronache Di Magnus Bane - Cosa Accadde in Perù 1

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I diari di Magnus Bane

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Il libro

Magnus Bane è stato cacciato dal Perù, bandito daquel paese, per sempre… come mai? Per scoprirlo,bisognerà seguire le sue tracce in compagnia dei suoiamici, i maghi Ragnor Fell e Catarina Loss, mentre siperdono tra avventure musicali, balli rocamboleschi eviaggi nelle meravigliose terre delle linee di Nazca.Un racconto unico, che svela molti retroscena dellavita del più misterioso personaggio della sagaShadowhunters.

Cassandra ClareSarah Rees Brennan

Le cronache di Magnus Bane

COSA ACCADDE IN PERÙ~ 1 ~

Traduzione di Maria Bastanzetti

Le cronache di Magnus Bane1. Cosa accadde in Perù

Uno dei momenti più tristi nella vita di Magnus Banefu quando il consiglio degli stregoni peruviani lo bandìdal Perù. E non soltanto perché i manifesti con la suafoto affissi ovunque nel Mondo Nascosto fossero cosìpoco lusinghieri, ma soprattutto perché il Perù erauno dei suoi posti preferiti. Lì aveva vissuto molteavventure, che gli avevano lasciato meravigliosiricordi, a partire dal giorno in cui, nel 1791, avevainvitato Ragnor Fell a unirsi a lui per una scappata aLima, in versione turisti spensierati.

~ 1791 ~

Magnus si svegliò nella locanda sulla strada fuori Limae dopo essersi agghindato con un panciotto ricamato,un elegante paio di calzoni al ginocchio e scarpe dallelucidissime fibbie di metallo, andò in cerca di qualcosada mangiare per colazione. Trovò invece lalocandiera, una donna polposa dai lunghi capellicoperti da una mantilla nera, immersa in una fitta epreoccupata discussione con una delle cameriere, aproposito di qualcuno appena giunto alla locanda.

— Secondo me è un mostro marino — la sentìbisbigliare. — O un tritone. Ma possono vivere anchefuori dall’acqua?

— Buongiorno, signore mie — esclamò Magnus. —A quanto pare è arrivato il mio ospite.

Entrambe le donne sbatterono le palpebre duevolte per lo stupore. Magnus attribuì la prima ai colorivividi del suo abbigliamento e la seconda, più lenta,alle parole che aveva appena pronunciato. Rivolse aentrambe un cordiale saluto con un cenno della manoe si allontanò. Oltrepassò i due grandi battenti in

legno della porta, attraversò il cortile ed entrò nelsoggiorno comune, dove trovò il suo amico stregoneRagnor Fell, che se ne stava rintanato in fondo allocale con una tazza di chicha de molle.

— Prendo quello che ha preso lui — disse Magnusalla cameriera. — Anzi, no, aspetti. Prendo tre diquelli che ha preso lui.

— Dille di portare lo stesso anche per me, allora —disse Ragnor. — Questo me lo sono dovutoconquistare a gesti. Una fatica…

Magnus eseguì, e quando tornò a posare losguardo su Ragnor vide che il suo vecchio amicoaveva il solito aspetto di sempre: vestiti orrendi, ariatetra come non mai, pelle decisamente tendente alverdognolo. Spesso Magnus ringraziava che in lui isegni distintivi dello stregone non fossero cosìevidenti. Certo, a volte era un po’ scomodo avere gliocchi verde oro con le pupille verticali come quelle diun gatto, ma di solito era facile risolvere il problemacon un piccolo trucco, e, quando non era possibile,be’… c’erano parecchie signore – e diversi uomini –che non lo consideravano un inconveniente.

— Niente trucchi? — si informò Magnus.— Hai detto che mi volevi con te in un viaggio che

sarebbe stato un turbine di depravazione — ribattéRagnor.

Magnus si illuminò. — È vero! — Fece una pausa.— Scusami. Non capisco il nesso.

— Ho scoperto che con le signore ho migliorfortuna quando sono al naturale — spiegò Ragnor. —Le signore gradiscono un po’ di varietà, ogni tanto.C’era una dama alla corte di Luigi XIV, il Re Sole,secondo la quale non c’era nulla di paragonabile alsuo “caro cavoletto”. E mi dicono che l’espressione èaddirittura diventata un’affettuosità piuttosto usata,in Francia. Tutto grazie a me.

Parlava con il solito tono cupo. Quando arrivarono isei liquori che avevano ordinato, Magnus se neimpadronì.

— Questi mi serviranno tutti. Per favore, ne portialtrettanti per il mio amico.

— Un’altra mi definiva il suo “dolce baccellod’amore” — continuò Ragnor.

Magnus mandò giù un lungo sorso ristoratore,diede un’occhiata al sole, fuori, poi ai bicchieri cheaveva davanti, e si sentì più a suo agio in quellasituazione. — Complimenti. E benvenuto a Lima, laCittà dei Re, mio dolce baccello.

Dopo la colazione – cinque bicchieri per Ragnor ediciassette per Magnus – quest’ultimo accompagnòl’amico in un lungo giro per Lima: dalla facciatadorata, arzigogolata e scolpita del palazzo

arcivescovile fino agli edifici dai colori vivaci dallaparte opposta della plaza, dalle logge molto elaborateche spuntavano ovunque, dove gli Spagnoli un tempogiustiziavano i criminali.

— Ho pensato che sarebbe stato bello cominciaredalla capitale. Tra l’altro, io qui ci sono già stato —disse Magnus. — Una cinquantina d’anni fa. E mi sonodivertito, a parte un terremoto che per un pelo non siinghiottì la città.

— E tu avevi qualcosa a che fare con quelterremoto?

— Ragnor — disse Magnus all’amico, in tono dirimprovero — non puoi dare la colpa a me per ogniminimo disastro naturale!

— Non hai risposto alla mia domanda — obiettòRagnor, con un sospiro. — Comunque, guarda checonto su di te. Devi essere più affidabile e meno“Magnus” del solito — lo avvisò mentrecamminavano. — Non conosco la lingua.

— Quindi non parli lo spagnolo? — chiese Magnus.— O non parli il quechua? Oppure forse non parlil’aymara?

Magnus era consapevole di essere stranieroovunque si trovasse, perciò si era preso la briga diimparare a parlare tutte le lingue, per poter andaredappertutto senza problemi. Lo spagnolo era stato la

prima che aveva imparato a parlare, dopo la sualingua madre. L’unica che non parlava spesso. Glifaceva tornare in mente sua madre, e il suo patrigno,e gli ricordava l’amore, le preghiere e tutta ladisperazione della sua infanzia. Le parole della suaterra natia gli pesavano un po’ troppo sulle labbra, sisoffermavano, come se le dovesse pronunciare concura e serietà.

(C’erano poi altre lingue – il Purgatico, il Gehennice il Tartarico – che aveva imparato per potercomunicare con gli abitanti di quei regni demoniaci,lingue che era costretto a usare spesso per lavoro. Maquelle gli ricordavano il padre di sangue, ed eranoricordi ancora più orribili.)

La sincerità e la serietà, a parere di Magnus, eranodecisamente sopravvalutate, come il fatto di esserecostretti a rivivere certi ricordi sgradevoli. Per quantolo riguardava, preferiva di gran lunga divertirsi edivertire.

— Non parlo nessuna delle lingue che hai citato —ammise Ragnor. — Anche se evidentemente parlo ilcretinese, dal momento che ti capisco.

— Il che è doloroso e inutile — osservò Magnus. —Comunque, certo, puoi fidarti completamente di me.

— L’importante è che non mi lasci solo, senzaguida. Devi giurarmelo, Bane.

Magnus inarcò i sopraccigli. — Hai la mia parolad’onore!

— Perché in caso contrario ti troverò — lo minacciòRagnor. — Ti troverò. Saprò riconoscerti, e non ci saràassurdo travestimento che possa salvarti. E porteròun lama nel posto dove ti sarai messo a dormire e miassicurerò che urini con abbondanza su tutti i tuoiaveri.

— Non c’è bisogno di diventare sgradevole —intervenne Magnus. — Non preoccuparti. Ti insegnosubito tutte le parole che potrebbero servirti. Allora,la prima è fiesta.

Ragnor lo guardò accigliato. — E cosa vuol dire?Magnus inarcò di nuovo i sopraccigli. — Significa

“festa”. Un’altra parola importante è juerga.— E questa cosa vuol dire?Magnus tacque.— Magnus — gli disse Ragnor, severo — anche

questa significa “festa”?Magnus non riuscì a trattenere il sorriso sornione

che gli salì alle labbra. — Chiedo scusa — disse. —Anche se in realtà non sono minimamente dispiaciuto.

— Cerca di usare un po’ di buon senso — glisuggerì Ragnor.

— Siamo in viaggio di piacere! In vacanza!— Tu sei sempre in vacanza — sottolineò Ragnor.

— Sono trent’anni che sei in vacanza!Era vero. Magnus non metteva su casa in un posto

fisso dalla morte della sua amante. Non la sua primaamante, ma la prima che gli era vissuta accanto edera morta tra le sue braccia. Lo stregone avevapensato a lei abbastanza spesso da far sì che ormainon lo ferisse parlarne, e il suo viso nel ricordo glidava la sensazione dolce e distante della bellezzadelle stelle, intoccabile, irraggiungibile, ma che ogninotte brillava per i suoi occhi.

— Non ne ho mai abbastanza dell’avventura —ribatté Magnus con leggerezza. — E l’avventura non sistanca mai di me.

Non capì come mai Ragnor sospirò di nuovo.La natura sospettosa di Ragnor faceva una gran

tristezza a Magnus, che restava regolarmente delusoda lui come persona, come quando visitarono il lagoYarinacocha e Ragnor sgranò gli occhi e domandò: —Ma quei delfini sarebbero rosa?

— Erano rosa quando ci sono stato l’altra volta! —esclamò Magnus indignato. Fece una pausa, ci pensòsu. — Ne sono quasi sicuro.

Andarono dalla costa alla sierra, a contemplaretutti i panorami più belli del Perù. Il posto preferito diMagnus era forse la città di Arequipa, dove sembravadi stare sulla Luna, un luogo fatto di un particolare

pietra bianca di origine vulcanica, che quando eracolpita dal sole divampava di un bianco accecante escintillante come il chiaro di luna riflesso dall’acqua.

In città c’era anche una giovane signora moltoattraente, la quale però alla fine decise che preferivaRagnor. Mai nella sua lunga vita Magnus avrebbeaccettato di lasciarsi coinvolgere in un triangoloamoroso fra stregoni, né aveva intenzione di sentireaffettuosi vezzeggiativi come: “mia adorabile piantacarnivora” in francese, una lingua che Ragnor capiva.L’amico, invece, sembrava decisamente compiaciuto,e per la prima volta non sembrava proprio pentito diavere risposto all’appello di Magnus, che l’avevaconvocato a Lima.

Alla fine, Magnus riuscì a persuadere Ragnor adallontanarsi da Arequipa soltanto presentandogliun’altra giovane signora, Giuliana, che sapevamuoversi nella foresta pluviale e assicurò entrambi dipoterli accompagnare in un punto dove cresceval’ayahuasca, una pianta con notevoli proprietàmagiche.

In seguito Magnus ebbe motivo di pentirsi per averascoltato quel particolare richiamo, mentre sitrascinava attraverso la ricchissima vegetazione dellaforesta pluviale del Manu. Era tutto verde, verde,verde, ovunque guardasse. E vedeva verde anche

quando guardava il suo compagno di viaggio.— La foresta pluviale non mi piace — commentò

malinconico Ragnor.— Perché non sei aperto alle nuove esperienze

come lo sono io!— No, è perché è più umida dell’ascella di un

cinghiale e due volte più fetida.Magnus scostò una fronda gocciolante che gli

ricadeva sugli occhi. — Riconosco che le tue parolevanno dritte al punto e dipingono un’immagine vividadi questo posto.

Non c’erano certo comodità nella foresta, erainnegabile, ma era comunque un ambientemeraviglioso. Il verde del folto sottobosco era diversodalle foglie delicate che crescevano più in alto, dovele forme ariose di alcune piante ondeggiavano gentilifra gli steli simili a corde di altre. Il verde uniformetutt’intorno era spezzato qua e là, all’improvviso: glisprazzi vivacissimi dei fiori e il fruscio di movimentiche rivelavano animali fra le foglie.

Magnus era affascinato soprattutto dalle scimmieragno fra le chiome, lucide e aggraziate, con i lunghiarti sottili che si allargavano fra i rami come stelle, eanche dai timidi balzi inattesi delle piccolissimescimmie scoiattolo.

— Immaginati… — disse Magnus. — Se io avessi un

piccolo amico di questi. Uno scimmiottino. Potreiinsegnargli qualche trucco, potrei vestirlo con unagiacca in miniatura. E lui mi somiglierebbe. Sarebbecome me, ma in versione “scimmia”.

— Il tuo amico è stordito e fuori di testa per viadell’altitudine — lo informò Giuliana. — Siamo moltipiedi sopra il livello del mare, qui.

Magnus non sapeva bene perché avesse deciso diingaggiare una guida, a parte il fatto che la suapresenza sembrava calmare Ragnor. Con tuttaprobabilità altri avevano l’intelligenza di servirsi diguide specializzate in luoghi poco familiari epotenzialmente pericolosi, ma Magnus era unostregone ed era preparato a combattere una battagliamagica contro un demone giaguaro, se necessario.Sarebbe stata una storia eccellente da raccontare, diquelle che potevano impressionare quelle signore chenon erano attratte da Ragnor. E anche qualchegentiluomo, naturalmente.

Perso tra i frutti da raccogliere e la contemplazionedei demoni-giaguari, a un certo punto Magnus siguardò intorno e si trovò separato dai compagni,perso nella foresta selvaggia.

Si fermò ad ammirare le bromelie, dai grandi fioriiridescenti simili ad anfore di petali sovrapposti,splendenti d’acqua e di colori. Nei recessi scintillanti

come pietre preziose di quei fiori magnifici c’eranoalcune ranocchie.

Poi alzò lo sguardo e si ritrovò occhi negli occhicastani di una scimmia. — Ciao, amico — disseMagnus. La scimmia emise un verso orrendo, a metàtra un ringhio e un sibilo. — Comincio ad averequalche dubbio sull’opportunità della nostra amicizia— aggiunse lo stregone. Giuliana avevaraccomandato loro di non indietreggiare, se si fosserotrovati faccia a faccia con una scimmia, ma di starefermi e mantenere un’aria di calma autorevolezza.Questa scimmia era molto più grossa di quelle cheMagnus aveva visto fin lì, aveva spalle più ampie ecurve, e una pelliccia molto folta, quasi nera. Scimmieurlatrici, così gli sembrava che si chiamassero.

Gettò un fico all’animale, che lo prese. — Toh… —disse lo stregone. — E consideriamo chiusa laquestione.

La scimmia si fece avanti, masticando conatteggiamento minaccioso.

— Sto cominciando a domandarmi cosa ci faccioqui, sai? A me piace la vita di città — osservò Magnus.— Le luci, la compagnia sempre disponibile, idivertimenti continui. E niente scimmie che tisbarrano il passo.

Ignorò il consiglio di Giuliana e fece un rapido

passo indietro, gettando all’animale un altro pezzo difrutta. Stavolta però l’animale non abboccò. Si piegòed emise un potente grugnito. Magnus arretrò di moltipassi e andò a sbattere contro il tronco di un albero.L’impatto lo fece vacillare, per un breve attimo fugrato che nessuno lo stesse guardando, aspettandosiche si comportasse da sofisticato stregone. Dopodichéla scimmia lo attaccò dritto al volto.

Magnus gridò, girò sui tacchi e schizzò attraverso laforesta. Non gli venne neanche in mente di mollare lafrutta che aveva in mano. I fichi gli caddero uno dopol’altro, in una vivace cascata di colori, mentre correvaper salvarsi la vita sfuggendo alla minacciascimmiesca. Sentì che l’animale lo inseguiva a tuttospiano e accelerò, finché tutta la frutta non fu cadutae lui andò a cozzare contro Ragnor.

— Oh, attenzione! — scattò Ragnor.— In mia difesa, devo dire che sei mimetizzato

piuttosto bene — sottolineò Magnus, prima diraccontare in tutti i dettagli la sua terribiledisavventura con la scimmia, per due volte, la primain spagnolo per Giuliana e la seconda in inglese perRagnor.

— Certo che dovevi scappare subito dal maschiodominante — disse Giuliana. — Ma sei pazzo? Seifortunato che la frutta l’abbia distratto dall’intento di

squarciarti la gola. Era convinto che stessi cercando dirubargli le sue femmine.

— Perdonami, ma non abbiamo avuto il tempo discambiarci quel tipo di informazioni personali —precisò Magnus. — Come facevo a saperlo? Per di più,voglio assicurare a entrambi che non avevo fattoalcun tipo di avance amorosa a nessuna femmina discimmia. — Fece una pausa e ammiccò. — Anzi, perla verità non ne ho vista nemmeno una, quindi non hoavuto proprio l’occasione di farlo.

Ragnor sembrava pieno di rimpianti per tutte lescelte che l’avevano condotto a trovarsi in quel posto,e soprattutto con quella compagnia. Più tardi si chinòverso Magnus e gli sibilò all’orecchio, a voce bassaper evitare che Giuliana potesse sentire, ma in unmodo che a Magnus ricordò orribilmente la suanemesi scimmiesca: — Te lo sei dimenticato che hai ilpotere della magia?

Magnus gli rivolse un’occhiata sdegnosa da sopra laspalla. — Non mi sogno neanche lontanamente di faresortilegi a una scimmia! Insomma, Ragnor, ma per chimi hai preso?

La vita non poteva essere dedicata soltanto alladepravazione e alle scimmie. In qualche modo,Magnus doveva anche finanziarsi tutto il bere di cuiaveva bisogno. C’era sempre una rete di Nascosti da

trovare, in ogni paese, e lui aveva fatto in modo distringere i contatti giusti appena aveva messo piedein Perù.

Quando le sue particolari competenze furonorichieste, si portò dietro Ragnor. Si imbarcaronoinsieme nel porto di Salaverry, entrambi vestiti con lamassima eleganza personale. Magnus portava il suocappello dalla tesa più larga, con una notevole piumadi struzzo.

Edmund García, uno dei più ricchi mercantiperuviani, andò a incontrarli in coperta, a prua. Era unuomo florido, che indossava una tunica dall’ariacostosa, pantaloni a sbuffo e una parrucca benincipriata. Appesa alla cintura di cuoio c’era unapistola dalle eleganti incisioni. Squadrò Ragnor con gliocchi socchiusi. — Cos’è quello, un mostro marino? —domandò.

— È uno stregone molto rispettato — risposeMagnus. — In pratica, lei assume due stregoni alprezzo di uno, signore.

García non aveva fatto fortuna voltando le spalle aibuoni affari, perciò interruppe all’istante il discorso suimostri marini.

— Benvenuto! — disse invece.— Detesto le barche — sottolineò Ragnor,

guardandosi intorno. — Mi fanno venire un

insopportabile mal di mare.La battuta sul fatto di diventare “verdi” dalla

nausea era troppo scontata e Magnus non intendevaabbassarsi a quel livello.

— Le spiacerebbe fornirci maggiori dettagliriguardo a questo lavoro? — chiese invece. —Secondo la lettera che ho ricevuto, lei avrebbebisogno del mio particolare talento, ma devoconfessarle che ho talmente tanti talenti che non mi èchiaro quale le necessiti. Anche se sono,naturalmente, tutti a sua disposizione.

— Siete stranieri sulle nostre coste — disseEdmund — quindi forse non sapete che l’attualeprosperità del Perù si basa sul nostro principaleprodotto da esportazione: il guano.

— Che cosa ti sta dicendo? — volle sapere Ragnor.— Niente che ti piacerebbe, finora — gli rispose

Magnus. La nave, sotto i loro piedi, beccheggiava alritmo delle onde. — Chiedo scusa, signore. Mi stavaparlando di sterco di uccelli, esatto?

— Esattamente — confermò García. — A lungosono stati principalmente i mercanti europei asfruttare questo nostro commercio e a incamerare lamaggior parte degli introiti. Ora sono state approvateleggi secondo le quali saranno i mercanti peruviani adavere il coltello dalla parte del manico in questi affari,

perciò gli europei saranno costretti a farci diventaresoci delle loro imprese che gestiscono l’affare delguano. Una delle mie navi, con un grosso carico diguano, sarà una delle prime a partire, ora che lanuova legge è entrata in vigore. E io temo chequalcuno possa tentare di danneggiarla.

— Pensa che i pirati si preparino a rubare il suosterco d’uccello? — chiese Magnus.

— Si può sapere cosa succede? — gemettepietosamente Ragnor.

— Non vuoi saperlo. Fidati. — Magnus guardòGarcía. — Per quanto siano vari e differenziati i mieitalenti, non sono certo che si estendano alla vigilanzadel… mmm, guano. — Nutriva molti dubbi a propositodel carico, ma di europei che piombavano comerapaci e reclamavano il possesso di tutto ciò chevedevano – terre, vite, merci e persone – come sefosse indiscutibilmente loro… be’, ne sapevaparecchio. Inoltre, un’avventura in alto mare ancoragli mancava.

— Siamo disposti a pagare una sommaconsiderevole in cambio dei vostri servizi — insistetteGarcía, precisando una cifra.

— Oh. Be’, in questo caso ci consideri assunti —disse Magnus, prima di riferire la notizia a Ragnor.

— Io non sono ancora certo di niente in questa

storia — ribatté Ragnor. — Non sono nemmeno sicurodi voler sapere dove ti sei procurato quel cappello.

Magnus se lo sistemò per ottenere un effetto il piùsbarazzino possibile. — Ma no, è solo una cosina cheho raccattato al volo. Mi sembrava adattoall’occasione.

— Nessun’altro porta qualcosa di paragonabile,neppure lontanamente.

Magnus lanciò un’occhiata sprezzante a tutti imarinai decisamente poco alla moda. — Mi spiace perloro, ma non vedo perché la tua osservazionedovrebbe alterare il mio modo di vestire,estremamente distinto e attuale.

Si affacciò dal ponte della nave per guardare versoil largo. L’acqua era di un verde chiaro, con le stessesfumature di turchese e smeraldo di una tormalinaverde lucidata. All’orizzonte erano visibili due navi,quella che stavano andando a raggiungere e unaseconda che, sospettava Magnus, era una nave piratadeterminata ad arrembare la prima.

Magnus schioccò le dita e la nave su cuiviaggiavano si inghiottì l’orizzonte in un boccone.

— Magnus, non fare incantesimi alla nave per farlaandare più veloce — disse Ragnor.

Magnus schioccò di nuovo le dita e una nube discintille blu cominciò a giocare intorno alle fiancate

della nave, logorate dalle intemperie e battute daiventi. — Spio i maledetti pirati a distanza. Preparatialla battaglia, mio verde amico.

Ragnor era in preda al mal di mare e non lonascondeva, e anzi, esprimeva sonoramente il propriomalessere e disappunto, ma la loro nave stavaguadagnando terreno sulle altre due, quindi Magnusera tutto sommato soddisfatto.

— Non stiamo dando la caccia ai pirati! Cosa sono ipirati? Garantiamo la sicurezza del carico di una nave,tutto qui. A proposito, cosa si intende per “carico”?Che roba è? — chiese Ragnor.

— Sarai più felice senza saperlo, mio dolce baccello— affermò Magnus convinto.

— Fammi un piacere, piantala di chiamarmi così.— Non lo farò mai… mai — giurò Magnus, con un

gesto rapido e sobrio, che fece scintillare i suoi anelli,colpiti dal sole, e dipinse nell’aria minuscolepennellate luminose.

La nave che Magnus insisteva a considerare deipirati sbandò di lato. Forse Magnus ci era andato unpo’ troppo pesante.

García sembrò molto colpito dal fatto che Magnusfosse in grado di rendere innocua una nave anche adistanza, ma voleva essere certo che il suo caricofosse al sicuro, perciò ordinò di affiancare la nave più

grande – la nave pirata, ormai, era molto, moltoindietro, rispetto a loro.

Magnus era del tutto soddisfatto della piega presadagli eventi. Ma dal momento che stavano dando lacaccia ai pirati e si erano avventurati in alto mare,c’era un’altra cosa che aveva sempre desiderato fare.

— Prova anche tu — suggerì a Ragnor, impaziente.— Sarà affascinante, vedrai.

Detto questo, afferrò una cima e volò con eleganzaper parecchi metri nel cielo turchese, sopra un trattodi ponte tirato a lucido. Per cadere, infine, a capofittonella stiva. Ragnor lo seguì pochi attimi dopo.

— Tappati il naso — si affrettò a suggerirgliMagnus. — Non respirare. Qualcuno dev’essere scesoa controllare il carico e ha lasciato aperto l’ingressodella stiva. E noi ci siamo saltati dentro.

— Così adesso, grazie a te, siamo nella melma.— Magari fosse solo melma — ribatté Magnus.I due stregoni fecero una breve pausa, durante la

quale entrambi valutarono appieno l’orrore di quellasituazione. Magnus, per quanto lo riguardava, eraimmerso nell’orrore fino ai gomiti. Ma la vera tragediaera che aveva perso il suo vezzoso cappello con lapiuma. Per il resto, si sforzava in tutti i modi di nonpensare alla sostanza in cui erano praticamentesepolti. Se si concentrava al massimo su qualsiasi

cosa diversa dagli escrementi di piccoli esseri alatiriusciva a immaginare di trovarsi immerso inqualcos’altro. Andava bene tutto, a parte quello.

— Magnus — disse Ragnor — ho capito che il caricoa cui facciamo la guardia è una sostanza decisamentesgradevole, ma potresti dirmi, esattamente, checos’è?

Consapevole che ormai reticenze e finzioni eranoinutili, Magnus glielo riferì.

— Detesto le avventure in Perù — dichiarò alloraRagnor, con voce soffocata. — Voglio andare a casa.

Non fu certo responsabilità di Magnus se poi, per icapricci dello stregone che lo accompagnava, la navecarica di guano finì per affondare, ma la colpa fucomunque data a lui. E quel che è peggio, per questonon fu pagato. Tuttavia, non fu la deliberatadistruzione di proprietà peruviane la causa della suamessa al bando dal Perù.

~ 1885 ~

Quando tornò di nuovo in Perù, Magnus Bane lo feceper un lavoro con gli amici Catarina Loss e RagnorFell. Il che dimostrò che Catarina possedeva, oltrealla magia, anche uno straordinario potere dipersuasione, perché Ragnor aveva giurato che nonavrebbe mai più rimesso piede in Perù, soprattutto incompagnia di Magnus. Ma i due avevano vissutoqualche avventura insieme in Inghilterra, negli anniSettanta dell’Ottocento, grazie alle quali Ragnor erapiù bendisposto verso Magnus. Ciononostante, pertutto il tempo che trascorsero in cammino nella valledel fiume Lurín, con la cliente che li aveva ingaggiati,Ragnor non fece altro che lanciare sguardi sospettosia Magnus con la coda dell’occhio.

— Quest’aria di cattivo presagio che hai di continuoquando mi stai intorno mi fa un gran male ed èingiustificata, sai? — disse Magnus a Ragnor.

— Io ho respirato aria di merda che esalava daimiei vestiti per anni! Anni! — ribatté Ragnor.

— Be’, avresti dovuto gettarli e comprare abiti

nuovi che fossero allo stesso tempo più profumati edeleganti — osservò Magnus. — Comunque, sonopassati decenni, ormai. Cosa ti ho fatto di maleultimamente?

— Non litigate danti alla cliente, ragazzi —Catarina con la sua voce dolce — altrimenti prendo levostre teste e le sbatto una contro l’altra così forte daspaccare a entrambi il cranio come un guscio d’uovo.

— Parlo anche l’inglese, sapete? — li informòNayaraq, il cliente, che aveva concordato unpagamento molto generoso.

L’imbarazzo cadde su tutto il gruppo, che raggiunsePachacamac in silenzio. Per un attimo rimasero acontemplare le muraglie di rovine ammassate, chesembravano una gigantesca scultura di sabbia fattada un bambino.

C’erano alcune piramidi, in quella zona, ma eranoper lo più in rovina. Ciò che restava aveva qualchemigliaio d’anni, però, e Magnus percepiva la magiache pulsava potente perfino nei calcinacci colorsabbia.

— Conoscevo l’oracolo che viveva qui settecentoanni fa —annunciò Magnus.

Nayaraq sembrò impressionata.Catarina, che conosceva benissimo l’età di Magnus,

invece no.

Magnus Bane aveva cominciato a dare un prezzoalla propria magia quando aveva meno di vent’anni.Stava ancora crescendo, allora, non era ancorabloccato nel tempo come una libellula catturatadall’ambra, iridescente ed eterna ma congelata persempre nella prigione di un istante dorato. Un tempoin cui stava ancora raggiungendo la sua altezzadefinitiva, e la faccia e il corpo cambiavano in modoinfinitesimale ogni giorno, un tempo in cui era un po’più vicino all’umanità di quanto non fosse ora.

Ed era imbarazzante, a volte, quando dimenticavaquale menzogna aveva raccontato a chi. Qualcunouna volta gli aveva chiesto come fosse Giulio Cesare eMagnus l’aveva guardato troppo a lungo prima dirispondere: “Bassetto?”

Magnus guardò la sabbia ammassata contro lepareti e i bordi smangiati di quei muri, come se lapietra fosse pane, in realtà, e una mano sbadata neavesse staccato un pezzetto. Stava molto attento amantenere l’aria blasé di chi lì ci era già stato ed eraincredibilmente ben vestito anche la volta prima.

“Pachacamac” significava “Signore dei Terremoti”.Per fortuna, Nayaraq non voleva che gli stregoni necausassero uno. Magnus non l’aveva mai fatto diproposito, e preferiva sorvolare su certi sfortunatiincidenti accaduti in gioventù.

Ciò che Nayaraq voleva era il tesoro che la madredella madre della madre di sua madre, una bellissimaragazza di famiglia nobile vissuta ad Acllahausi – lacasa delle donne scelte dal sole – aveva nascostoall’arrivo dei conquistadores.

Magnus non era sicuro di avere capito perché lovolesse, dal momento che la donna sembravapossedere denaro in abbondanza, ma non lopagavano per fare domande.

Camminarono per ore alternandosi tra sole eombra, lungo le mura in rovina che portavano su di séi segni del tempo e deboli tracce di affreschi, finchénon ebbero trovato ciò che Nayaraq cercava.

Quando le vecchie pietre furono rimosse dal muroe il tesoro fu riportato alla luce, il sole colpì l’oro e lafaccia di Nayaraq al tempo stesso. In quell’attimoMagnus capì che Nayaraq non andava in cerca di oro,ma di verità, di qualcosa di reale del suo passato.

Sapeva dei Nascosti perché era stata rapita dallecreature del mondo magico, una volta. Ma lì non sitrattava di illusione né incantesimi, quell’oro che lebrillava fra le mani un tempo scintillava fra quelledelle sue antenate.

— Grazie molte a tutti — disse, Magnus capì e perun momento quasi la invidiò.

Quando Nayaraq se ne fu andata, Catarina annullò

l’incantesimo su se stessa, rivelando la pelle blu e icapelli bianchi, abbaglianti nella luce del crepuscolo.

— Adesso che abbiamo sistemato questa faccenda,ho una proposta da farvi. Da anni muoio d’invidia perle avventure che voi due avete vissuto insieme inPerù. Che ne direste di restare ancora un po’ in zona?

— Ottima idea! — esclamò Magnus.Catarina batté le mani.Ragnor si accigliò. — Pessima idea.— Non preoccuparti, Ragnor — disse allegro

Magnus. — Sono quasi certo che nessuno di quelli cheerano al corrente dell’incidente con i pirati sia ancoravivo. E le scimmie hanno smesso d’inseguirmi da unpezzo. Inoltre, sai che cosa significa…

— Io non ci sto e non intendo farmi piacere unacosa che non mi va — dichiarò Ragnor. — Me neandrei anche subito, ma sarebbe crudele e ingiustoabbandonare una signora in una terra straniera incompagnia di un maniaco, per giunta.

— Oh, sono davvero felice che siamo tuttid’accordo — disse Catarina.

— Saremo un triumvirato spaventoso — disseMagnus, deliziato, a Catarina e Ragnor. — Il chesignifica il triplo delle avventure.

Tempo dopo scoprirono di essere criminali ricercatiper avere profanato un tempio, tuttavia nemmeno

questa fu la situazione, né l’epoca, in cui Magnus fubandito dal Perù.

~ 1890 ~

Era una splendida giornata, a Puno. Il lago, fuori dallafinestra, era una smisurata macchia blu e il riverberodel sole era talmente abbagliante che sembrava averbruciato tutto l’azzurro e le nubi del cielo, lasciandosidietro solo un bagliore bianco.

Portata dalla limpida aria di montagna, la melodiadi Magnus risuonava, diffondendosi sulle acque dellago e in tutta la casa.

Magnus stava volteggiando in cerchio, gentile,proprio sotto il davanzale quando le persiane dellacamera di Ragnor si spalancarono di colpo.

— Ma cosa… cosa… cosa stai facendo? — chiese.— Ho quasi seicento anni — rispose Magnus, e

Ragnor sbuffò, perché l’amico cambiava età apiacimento ogni poche settimane, ma l’altro non feceuna piega. — Mi sembra che sia ora di imparare asuonare uno strumento musicale. — E gli mostrò ilsuo nuovo tesoro, un piccolo strumento a corde chesembrava cugino del liuto, ma uno di quei cugini dicui il liuto si vergognava. — Si chiama charango. Ho

deciso di diventare charanguista!— Io quello non lo definirei uno “strumento

musicale” — osservò acido Ragnor. — Uno strumentodi tortura, piuttosto.

Magnus cullò il charango tra le braccia come sefosse un neonato indifeso. — È uno strumentobellissimo, unico! La cassa armonica è fatta diarmadillo. Nel senso, con la corazza essiccata di unarmadillo.

— E questo spiega i suoni strazianti che emette —replicò Ragnor. — Sembra un armadillo che si èperduto e sta morendo di fame.

— Sei soltanto geloso — puntualizzò Magnus,serafico. — Perché non hai l’anima d’artista che ho io.

— Oh, sono decisamente verde d’invidia — scattòRagnor.

— Dai, Ragnor, non sei leale, però… — si lamentòMagnus. — Lo sai che mi diverto troppo quando faibattute sulla tua carnagione.

Magnus si rifiutava di farsi scuotere dai giudizispietati di Ragnor. Rivolse al collega stregone unosguardo altezzoso, di superba indifferenza, prese ilsuo charango e si rimise a suonare la sua melodiaprovocatoria e bellissima.

Sentirono entrambi i tonfi secchi di una corsaall’interno della casa e un fruscio di sottane, prima

che Catarina uscisse a grandi passi nel cortile. Aveva icapelli bianchi sciolti sulle spalle e il volto visibilmenteallarmato.

— Magnus, Ragnor, ho sentito il gatto che facevaun verso terribile, spettrale! Quella povera bestiadeve stare malissimo. Dovete aiutarmi a trovarlo!

Ragnor collassò sul davanzale della finestra, inpreda a un’inarrestabile risata isterica. Magnus fissòCatarina per un momento, ma poi si accorse che lefremevano le labbra.

— Voi due state complottando contro me e la miaarte — dichiarò. — Siete un branco di cospiratori. — Ericominciò a suonare.

Catarina lo fermò posandogli una mano sul braccio.— No, Magnus, seriamente… — disse. — È unfracasso tremendo.

Magnus sospirò. — Gli stregoni hanno sempre dacriticare…

— Ma perché ti sei messo a suonare?— L’ho appena spiegato a Ragnor. Desidero

imparare a suonare bene uno strumento musicale. Hodeciso di dedicarmi all’arte del charanguista, e nonvoglio più sentire obiezioni meschine.

— Be’, se cominciamo tutti a fare l’elenco dellecose che non vogliamo più sentire… — mormoròRagnor.

Catarina invece sorrise.— Capisco — disse.— Signora mia, tu non capisci proprio niente.— Invece sì. Capisco tutto con estrema chiarezza

— assicurò Catarina. — Lei come si chiama?— La tua insinuazione mi offende — ribatté

Magnus. — Non c’è nessuna donna coinvolta. Io sonosposato con la mia musica!

— Oh, va bene — disse Catarina. — Allora facciamocosì: lui come si chiama?

Lui si chiamava Imasu Morales ed era unameraviglia.

I tre stregoni abitavano vicino al porto, in riva allago Titicaca, ma Magnus amava vivere la sua vita inun modo che Ragnor e Catarina, abituati alla quiete ealla solitudine fin dall’infanzia a causa del loro aspettoinsolito, non riuscivano a capire fino in fondo. Magnusandava a passeggio in città e andava a camminare inmontagna, e ogni volta viveva piccole avventure. Inpoche occasioni – che Ragnor e Catarina insistevano aricordargli – era stato riportato a casa dalla polizia,anche se quell’incidente con i contrabbandieriboliviani era stato solo ed esclusivamente unequivoco.

Tuttavia quella notte Magnus non aveva avutonessun problema con i contrabbandieri. Stava

passeggiando nella Plaza Republicana, tra cespugliscolpiti con grande abilità e bellissime sculture. Lacittà, più sotto, brillava come tante stelle disposte infile ordinate, come se qualcuno stesse coltivandograndi campi di luce. Era una bella notte perconoscere un bel ragazzo.

Alle orecchie di Magnus era arrivata prima lamusica, e poi la risata. Lo stregone si era girato aguardare e aveva visto due occhi vivaci, una testa dicapelli arruffati e il movimento rapido delle dita delmusicista. Magnus aveva in mente una lista dei trattiche preferiva in un partner – capelli neri, occhiazzurri, sincero – ma in quel caso ciò che lo spinse alasciarsi coinvolgere fu una reazione individuale allavita. Qualcosa che non aveva mai visto prima e chegli fece desiderare di vedere altro.

Si avvicinò e riuscì a incrociare lo sguardo di Imasu.Quando entrambi furono presi l’uno dall’altro, il giocopoté iniziare e Magnus lo cominciò chiedendo seImasu insegnava anche a suonare. Voleva passare piùtempo con lui, ma voleva anche imparare, perscoprire se sarebbe riuscito a concentrarsi allo stessomodo, se era in grado di creare gli stessi suoni.

Gli bastarono poche lezioni per capire che i suoniche lui produceva con il charango erano leggermentediversi da quelli di Imasu. Forse più che

“leggermente”. Ragnor e Catarina lo pregaronoinsieme di lasciar perdere quello strumento. Alcuniestranei, per strada, lo implorarono di lasciar perderelo strumento. Perfino i gatti gli giravano alla larga.

Ma: — Hai un vero potenziale come musicista —disse Imasu, la voce seria e gli occhi che ridevano.

Magnus decise che la sua politica sarebbe stataquella di ascoltare chi era gentile, incoraggiante eincredibilmente bello.

Perciò continuò con il charango, benché avesse ildivieto di suonarlo in casa. Fu anche scoraggiato dalsuonarlo in pubblico da un bambino in lacrime, da unuomo con delle carte in mano che parlava diordinanze municipali e da una piccola sommossa.

Come ultima risorsa, salì in montagna e si mise asuonare lì. Magnus era certo che la fuga precipitosadei lama a cui gli capitò di assistere fosse solo unacoincidenza. I lama non potevano dare un giudiziosulla sua arte.

Inoltre, il charango cominciava a suonare meglio. Olui aveva iniziato a capire come funzionava, o si eraarreso alle allucinazioni uditive. Magnus decise dicredere alla prima opzione.

— Sono convinto di avere svoltato un angolo —disse impaziente a Imasu, un giorno. — In montagna.Un angolo musicale, metaforico, certo. Dovrebbero

esserci più strade, lassù. Sul serio.— È stupendo — ribatté Imasu, con gli occhi che

brillavano. — Non vedo l’ora di ascoltarti.Erano a casa di Imasu, perché Magnus non poteva

suonare in nessun altro posto, a Puno. La madre e lasorella di Imasu erano entrambe tristemente afflittedall’emicrania, perciò molte delle lezioni di Magnuserano basate sulla teoria musicale, ma quel giornoMagnus e Imasu erano soli in casa.

— Quando dovrebbero tornare tua madre e tuasorella? — chiese Magnus, come per caso.

Tra qualche settimana — rispose Imasu. — Sonoandate a trovare mia zia. Mmm. Non sono scappate…voglio dire, partite, per nessun motivo particolare,ecco.

— Due signore così affascinanti — sottolineòMagnus. — Peccato che siano entrambe cosìsofferenti.

Imasu lo guardò un po’ perplesso.— Il mal di testa — gli ricordò Magnus.— Oh — disse Imasu. — Ah, sì. — Ci fu una pausa,

poi il giovane batté le mani. — Tu stavi per suonarmiqualcosa!

Magnus sorrise, raggiante. — Preparati —canticchiò — a restare a bocca aperta. — E prese lostrumento. Erano riusciti finalmente a capirsi a

vicenda, lui e il charango, lo sentiva. Se voleva era ingrado di far sgorgare la musica dall’aria, dal fiume odalle tende di una stanza, ma suonare quellostrumento era una cosa diversa, umana estranamente toccante. Lo schiocco e lo stridore dellecorde si mettevano insieme, pensava Magnus, performare una melodia. La musica era lì, nelle suemani.

Quando Magnus lo guardò, vide Imasu con la testafra le mani. — Ehm… — disse. — Tutto bene?

— Ero solo sopraffatto… — rispose Imasu con unfilo di voce.

Magnus provò un’ombra di compiacimento. — Ah,bene.

— Dall’orrore — concluse Imasu.Magnus lo guardò allibito. — Prego?— Io non ce la faccio più a mentire! — sbottò

Imasu. — Mi sono sforzato di incoraggiarti. I dignitaridella città sono venuti a pregarmi di chiederti dismettere. La mia stessa madre, santa donna, con lelacrime agli occhi…

— Non è così orribile…— Invece sì! — Fu come un fiume in piena. La

critica musicale esondò di colpo. Imasu posò su di luiocchi che mandavano lampi, anziché brillare. — Èpeggio di quanto tu possa immaginare! Quando suoni,

tutti i fiori di mia madre perdono la voglia di vivere emuoiono all’istante. La nostra quinoa non ha alcunsapore. I lama stanno iniziando una migrazione acausa della tua musica, e tieni conto che non sonoanimali migratori. I bambini si sono convinti che ci siaun mostro tremendo, metà cavallo e metà enormepollo che si lamenta e geme, che vive nel lago echiama in aiuto il mondo perché lo liberi dallasofferenza nella dolcezza della morte. Gli abitantidella città pensano che tu e io realizziamo arcani ritimagici…

— Be’, questa in fondo non è lontana dalla verità —sottolineò Magnus.

— … usando il teschio di un elefante, un fungo didimensioni improbabili e uno dei tuoi bizzarri cappelli!

— O forse no — si corresse Magnus. — Ecomunque, i miei cappelli sono strepitosi.

— Non discuto, in proposito. — Imasu si passò unamano aperta fra i folti capelli neri, che gli si avvolseroa spirale intorno alle dita come rampicanti nerid’inchiostro.

— Senti, lo so che ho sbagliato. Ho visto unbellissimo uomo e ho pensato che non sarebbe statomale fare quattro chiacchiere sulla musica e trovarecosì un interesse comune, però non mi merito questapersecuzione. Tu verrai lapidato sulla pubblica piazza,

e se sarò costretto a sentirti suonare anche soloun’altra volta io andrò ad affogarmi nel lago.

— Oh — disse Magnus, con l’accenno di un sorriso.— Io eviterei. Ho sentito dire che ci vive un orrendomostro, in quel lago.

Imasu sembrava ancora concentrato sul modo cheaveva Magnus di suonare il charango, argomento cheper quest’ultimo aveva già perso ogni attrattiva. —Credo che il mondo finirà con un rumore simile aquello che produci tu quando suoni!

— Interessante — commentò Magnus, e gettò ilcharango dalla finestra.

— Magnus!— A mio parere, io e la musica abbiamo raggiunto

il nostro limite, insieme — dichiarò Magnus. — Unvero artista sa quando è il momento di arrendersi.

— Non posso credere che tu l’abbia fatto sul serio!Magnus agitò la mano nell’aria con leggerezza. —

Sì, lo so, spezza il cuore, ma a volte nella vita bisognasaper rinunciare al richiamo delle muse.

— Intendevo soltanto dire che quelli sonostrumenti costosi e ho sentito uno schianto.

Imasu appariva sinceramente dispiaciuto, ma stavaanche sorridendo. La sua faccia era un libro aperto dicolori accesi, affascinante proprio perché era facileleggerne le pagine. Magnus si spostò dalla finestra

per entrare nello spazio vitale di Imasu e strinse unamano intorno alle dita callose del giovane, mentrecon l’altra gli prese il polso con estrema delicatezza.Vide il brivido che lo fece fremere tutto, come se ilcorpo di Imasu fosse uno strumento dal quale lostregone poteva far sgorgare qualsiasi suono.

— Mi affligge rinunciare alla mia musica —mormorò. — Ma secondo me scoprirai che ho moltialtri talenti.

Quella sera, quando Magnus tornò a casa e informòRagnor e Catarina di aver lasciato perdere la musica,Ragnor commentò: — In cinquecento anni non homai, mai desiderato sfiorare un uomo, ma di colpo miha preso il desiderio di baciare sulla bocca quelragazzo.

— Giù le mani — ribatté Magnus, con lieve,compiaciuta possessività.

Il giorno dopo, tutta Puno fece festa. Imasu disse aMagnus di essere certo che si trattava di unacoincidenza. Magnus rise. I raggi obliqui del solecolpivano gli occhi di Imasu e tracciavano strisce diluce sulla sua pelle scura, quando la bocca delgiovane musicista aderì a quella di Magnus. I due nonfecero in tempo a uscire per vedere la parata.

Magnus chiese agli amici se potevano fermarsi aPuno ancora per un po’ e non si stupì quando

accettarono. Catarina e Ragnor erano entrambistregoni. Per loro, come per Magnus, il tempo erasimile a pioggia, che scintillava cadendo e cambiava ilmondo, ma la cui presenza era scontata.

Finché non ti innamoravi un mortale. Allora iltempo diventava all’improvviso come oro nelle manidi un poveraccio, e allora ogni anno scintillante venivaconsiderato e contato con estrema cura, diventavainfinitamente prezioso, e scivolava tra le dita comesabbia.

Imasu raccontò a Magnus della morte di suo padree dell’amore di sua sorella per la danza, che avevaispirato Imasu a suonare per lei, e che questa era laseconda volta nella sua vita che gli capitava diinnamorarsi. Era contemporaneamente indigeno espagnolo, un miscuglio ancora più complesso dellamaggioranza dei mestizos, e comunque troppospagnolo per alcuni, non abbastanza per molti altri.

Magnus parlò un po’ con Imasu dell’argomento e gliraccontò del sangue olandese e batavo che glicorreva nelle vene. Non accennò alla parte di sanguedemoniaco, né a suo padre, né – per il momento –alla magia.

Magnus aveva imparato a fare attenzione prima dicondividere i propri ricordi a cuore aperto. Quando lagente moriva, poi, era come se le parti di te che avevi

donato se ne andassero con loro. E ci voleva tantoper riuscire a ricostruirsi e a ritrovarsi di nuovo“interi”, e comunque non si tornava mai esattamentecome prima.

Era stata una lezione lunga e dolorosa daimparare.

Magnus non l’aveva ancora imparata fino in fondo,evidentemente, perché si ritrovò a voler raccontare aImasu moltissime cose. Non desiderava solo parlarglidei suoi parenti, della famiglia, ma anche del suopassato, delle persone che aveva amato. Volevaparlargli di Camille. E anche di Edmund Herondale edi suo figlio Will. E poi di Tessa e Catarina, e di comel’aveva conosciuta in Spagna. Alla fine cedette eraccontò l’ultima storia, anche se tralasciò dettaglicome i Fratelli Silenti e il rischio che Catarina avevacorso di finire bruciata sul rogo come strega. Ma con ilpassare delle stagioni, Magnus cominciò a pensareche avrebbe dovuto raccontare a Imasu almeno dellamagia, prima di dirgli che voleva lasciare la casa checondivideva con Catarina e Ragnor, mentre lui potevaandarsene dalla casa della madre e della sorella, pertrovare un posto tutto loro che Imasu avrebberiempito di musica e Magnus di magia… almeno perun po’.

E fu uno shock quando Imasu suggerì, quasi con

distacco: — Forse è ora che tu e i tuoi amici pensiatedi andarvene da Puno.

— Come… senza di te? — chiese Magnus. Se n’erastato per un pezzo fuori dalla casa di Imasu aprendere il sole, soddisfatto, a fare progetti per ilfuturo. E fu colto talmente di sorpresa da sembrareistupidito.

— Sì — confermò Imasu. — Assolutamente, senzadi me. Non che non sia stato meraviglioso, con te. Cisiamo divertiti insieme, noi due, no? — aggiunse, intono implorante.

Magnus annuì, con l’aria più noncurante che riuscì aostentare, ma poi rovinò subito tutto dicendo: — Neero convinto anch’io. Quindi perché troncare?

Forse era per via di sua madre, o di sua sorella, odi qualche altro membro della famiglia di Imasu, chenon gradiva il fatto che fossero due uomini. Nonsarebbe certo stata la prima né l’ultima volta che aMagnus capitava una cosa del genere, benché lamadre del ragazzo gli avesse dato la sensazione diaccettare che lui facesse quello che gli pareva con suofiglio, a patto che non toccasse mai più unostrumento musicale in sua presenza.

— Sei tu — sbottò Imasu. — È per come sei. Nonposso stare più con te perché non voglio starci.

— Ti prego — disse Magnus dopo una pausa —

continua a rovesciarmi addosso i tuoi complimenti.Per me questa è un’esperienza estremamentepiacevole, per la cronaca, ed è proprio così chesperavo andasse questa giornata.

— Sei solo… — Imasu, frustrato, fece un profondosospiro. — Sembri sempre… effimero, come unruscello poco profondo, le cui acque scintillantiarrivano, scorrono e se ne vanno. Non sei uno cheresta, non sei un’esperienza che dura. — Fece unpiccolo gesto rassegnato, come se stesse lasciandoandare qualcosa per sempre, come se Magnus avessevoluto essere liberato da quel legame. — Non sei unasituazione stabile, ecco.

Magnus gettò la testa indietro e scoppiò a ridere,di colpo e senza potersi trattenere. Aveva imparatoquella lezione molto tempo prima: anche nellaconfusione di un dolore insopportabile, c’era semprespazio per una risata.

E ridere per Magnus era sempre stato facile, eaiutava, anche se non bastava.

— Magnus — disse Imasu, con voce che a quelpunto esprimeva vera rabbia.

Magnus si domandò quante volte, quando lui avevapensato che stessero solo discutendo, Imasu avessegià pensato di giungere a quel momento, a quellaseparazione. — Ecco, vedi? È proprio questo che

intendo!— Ti sbagli, sai? Io sono la persona più stabile e

durevole che tu abbia mai conosciuto — lo informò lostregone, la voce affannosa per il gran ridere e gliocchi che pungevano per qualche lacrima appenaspuntata.

Era la cosa più sincera che avesse mai detto aImasu, e non gli disse mai niente di più vero.

Gli stregoni vivevano per sempre, erano immortali,il che per loro significava vedere il segreto, terribileciclo di nascita, vita e morte degli altri, senzasoluzione di continuità. E significava anche che tuttiloro avevano assistito, letteralmente, a milioni direlazioni fallite.

— È meglio così — disse solenne Magnus a Ragnore Catarina, quando li informò, alzando la voce persovrastare il frastuono dell’ennesimo festeggiamentoin città.

— Certo — mormorò Catarina, che era un’amicaleale e fedele.

— Mi sorprende già che sia durata tanto. Il ragazzoera molto più bello di te — mugugnò Ragnor.

— Be’, ho soltanto duecento anni, in fondo —ribatté Magnus, ignorando volutamente il comunesbuffare dei due amici a quella bugia. — Non possofermarmi proprio adesso. Ho bisogno di altro tempo

per dedicarmi alla depravazione assoluta. E penso…— finì il contenuto del bicchiere che aveva in mano esi guardò intorno con aria meditabonda — … pensoche andrò a chiedere all’affascinante fanciulla laggiùdi ballare con me.

La ragazza che aveva adocchiato, notò Magnus,aveva già adocchiato lui. Aveva ciglia talmentelunghe che quasi le sfioravano le spalle.

Era possibile che Magnus fosse un tantino ubriaco.L a chicha de molle era famosa tanto per l’effettorapido quanto per il tremendo doposbornia.

Ragnor rabbrividì con violenza ed emise il verso diun gatto a cui qualcuno ha schiacciato la coda. —Magnus, no, per favore, risparmiaci. La tua musicafaceva già abbastanza pena!

— Guarda che Magnus non balla come suona ilcharango — sottolineò pensierosa Catarina. — Anzi, adire il vero balla piuttosto bene. Per quanto con unostile piuttosto… ehm, unico e caratteristico.

— Il che non mi rassicura neanche un po’ — replicòRagnor. — Né tu né lui siete due tipi rassicuranti,peraltro.

Dopo un breve interludio, Magnus tornò dagli amicicon il respiro un po’ pesante. Vide che Ragnor avevadeciso di divertirsi picchiando ripetutamente la frontesul piano del tavolo.

— Ma cosa credi di fare? — gli domandò, tra untonfo cupo e l’altro.

Catarina fu pronta a intervenire. — Questa è unabella danza tradizionale che si chiama El Alcatraz, esecondo me Magnus l’ha eseguita…

— Brillantemente — suggerì Magnus. — Conestrema eleganza? Con irresistibile bravura? Constraordinaria abilità?

Catarina ci pensò su, sporgendo appena le labbra,prima di scegliere l’espressione più indicata. — Inmodo spettacolare.

Magnus le puntò un dito contro. — Per questo seila mia preferita!

— Tradizionalmente l’uomo volteggia….— Tu hai volteggiato in modo spettacolare —

osservò Ragnor, acido.Magnus si esibì in un piccolo inchino. — Ehi, grazie!— … e tenta di dar fuoco alle gonne della

compagna con una candela — proseguì Catarina. — Èuna danza meravigliosa, vibrante, davvero magnifica.

— Oh, hai detto “tenta”, giusto? — chiese Ragnor.— Quindi non fa parte della tradizione il fatto chequalcuno si serva della magia, dia letteralmente fuocoalle sottane della dama e alla pretenziosa giacca cheindossa, per poi continuare a turbinare sulla pistanonostante entrambi i ballerini siano praticamente

avvolti dalle fiamme?Caterina tossì. — No, questo dettaglio non fa

strettamente parte della danza tradizionale.— Era tutto sotto controllo — dichiarò altezzoso

Magnus. — Cercate di avere un po’ di fiducia nelle miemagiche dita. — Perfino la fanciulla con cui avevaappena ballato aveva pensato che quello fosse untrucco meraviglioso. Si era ritrovata completamenteavvolta dal fuoco – fuoco vero, abbagliante – e avevagettato la testa all’indietro ridendo, mentre i suoicapelli neri si trasformavano in una crepitante cascatadi luce, i tacchi delle scarpe spargevano scintille sulpavimento come manciate di polvere d’oro e lostrascico della gonna s’incendiava come la coda diuna fenice. Magnus aveva volteggiato sulla pista conlei, e per un unico, breve momento di splendidaillusione la ragazza aveva pensato che fosse un uomomeraviglioso.

Ma, come l’amore, il fuoco non era durato a lungo.— Pensate che alla fine quelli come noi si trovano

talmente lontani dall’umanità da trasformarsi increature che l’umanità non può toccare né amare? —chiese Magnus ai due amici.

Ragnor e Catarina lo fissarono.— Non rispondete — aggiunse Magnus. —

Sembrava la domanda di un uomo che ha bisogno di

bere ancora. Andiamo!Sollevò il bicchiere. Ragnor e Catarina non si

unirono a lui, ma Magnus fu felice di brindare da solo.— All’avventura — dichiarò, e bevve.Magnus aprì gli occhi e vide una luce intensa, sentì

l’aria calda che gli sfiorava la pelle come la lama di uncoltello su una pagnotta bruciata. Il cervello glipulsava con violenza e la nausea lo assalì all’istante,con violenza.

Catarina gli offrì una scodella. Nella visionealterata di Magnus, in quel momento era una macchiaconfusa, bianca e blu. — Dove sono? — chiese, con lavoce arrochita.

— A Nazca.Quindi era ancora in Perù. Evidentemente aveva

avuto più buon senso di quanto gli fosse sembrato. —Ah, quindi abbiamo fatto un viaggetto.

— Hai fatto irruzione in casa di un tizio — gliraccontò Catarina. — Hai rubato un tappeto e l’haifatto volare con la magia. Dopodiché sei volato via sultappeto. Noi ti abbiamo seguito a piedi.

— Ah — disse Magnus.— Continuavi a gridare delle cose.— Quali cose?— Preferisco non ripeterle — gli disse Catarina. La

sua pelle aveva assunto una tonalità di blu piuttosto

pallida. — Preferisco anche non ricordare il tempo cheabbiamo passato nel deserto. È un desertosconfinato, Magnus. I deserti normali sono piuttostovasti. Ma questo apparteneva a un’altra categoria,quella dei deserti che sembrano non finire mai.

— Ti ringrazio per questa informazione,interessante e illuminante — gracchiò ancora Magnus,che poi cercò di seppellire il volto nel cuscino, comeuno struzzo che cerchi di sprofondare la testa sotto lasabbia di un deserto dalle dimensioni esagerate. —Siete stati gentili a seguirmi entrambi. Sono certo diessere stato contento di vedervi — aggiunse con unfilo di voce, sperando che quella frase convincesseCatarina a portargli altri liquidi da ingurgitare, emagari anche un martello con il quale si sarebbevolentieri fracassato il cranio.

Magnus si sentiva troppo debole per muoversi eandare da solo in cerca di liquidi. La magia curativanon era mai stata la sua specialità, ma era quasicerto che il minimo movimento gli avrebbe fattocadere la testa dalle spalle. E non poteva permettereche succedesse. Grazie a numerose testimonianze,aveva la certezza che quella testa superba stavabenissimo dove stava.

— Ci hai detto di lasciarti nel deserto, perché aveviin mente di cominciare una nuova vita come cactus —

gli disse Catarina, con voce atona. — Poi hai evocatouna quantità di minuscoli aghi e ce li hai scagliaticontro. Con estrema precisione.

Magnus azzardò un’altra occhiata. La figura diCatarina era ancora molto confusa. Magnus pensò cheera decisamente poco carino. Era convinto chefossero amici, loro due.

— Be’ — disse con dignità — considerando lo statodi ebbrezza in cui mi trovavo, sarete rimastiimpressionati dalla mia mira.

— “Impressionata” non è la parola che userei perdescrivere come mi sono sentita ieri notte, Magnus.

— Vi ringrazio per avermi bloccato — ripreseMagnus. — Avete fatto bene. Grazie, sei una veraamica. Comunque non si è fatto male nessuno. Quindilasciamo perdere questa faccenda e non parliamonepiù. Potresti per cortesia andarmi a prendere…?

— Oh, ma guarda che non siamo riusciti a fermarti— lo interruppe Catarina. — Ci abbiamo provato, matu ti sei messo a ridacchiare, sei balzato di nuovo sultappeto e sei volato via un’altra volta. Continuavi aripetere che volevi andare a Moquegua.

Magnus non si sentiva affatto bene. Aveva un buconello stomaco e la testa gli girava come una trottola.— E cos’ho fatto a Moquegua?

— Non ci sei mai arrivato — rispose Catarina. —

Però hai continuato a svolazzare di qua e di là, estrillavi, e cercavi… ehm, di scrivere messaggi per noicon il tuo tappeto volante, nel cielo.

Magnus ebbe un’improvvisa visione, chiarissima,della scena, di se stesso, il vento e le stelle fra icapelli, e delle cose che aveva cercato di scrivere. Perfortuna gli pareva che né Ragnor né Catarinaparlassero la lingua in cui scriveva.

— A un certo punto ci siamo fermati a mangiare —riprese Catarina. — Tu insistevi in tutti i modi chedovevamo assaggiare per forza una specialità localeche chiamavi cuy. Ed è stato un pasto davveropiacevole, benché tu fossi ancora molto ubriaco.

— Di sicuro stavo tornando sobrio, a quel punto —obiettò Magnus.

— Magnus, hai provato a flirtare con il piatto cheavevi davanti!

— E allora? Sono un tipo dalla mente aperta, io!— Ragnor però no — ribatté Catarina. — Quando

ha scoperto che avevi portato a mangiare deiporcellini d’India ti ha spaccato il piatto in testa.

— La fine di un amore — commentò Magnus. — Mava bene così. Non avrebbe mai potuto funzionare trame e quel piatto, in ogni caso. Sono sicuro che il cibomi ha fatto bene, Catarina, e devo dirti che sei statamolto buona a darmi da mangiare e a mettermi a

letto…Catarina fece no con la testa. Sembrava che si

divertisse, come una bambinaia da incubo cheracconta a un bambino che una certa storia dell’orrorenon le piace particolarmente. — Sei crollato sulpavimento. In tutta onestà, abbiamo pensato chefosse meglio lasciarti dormire per terra. Abbiamopensato che ci saresti rimasto per un po’, ma tiabbiamo tolto gli occhi di dosso solo per un attimo etu te la sei squagliata. Ragnor sostiene di averti vistoarrancare verso il tappeto, strisciando come ungranchio demente.

Magnus si rifiutò di credere di aver fatto tutto ciò.Di Ragnor non ci si poteva fidare.

— Io gli credo — dichiarò perfida Catarina. — Avevidifficoltà enormi a reggerti in piedi e a camminare,anche prima di prenderti il piatto in testa. E credoanche che il cibo non ti ha fatto bene per niente,perché subito dopo ti sei messo a svolazzaredappertutto gridando che vedevi scimmioni, uccelli,lama e gattini disegnati sul terreno.

— Carino, però — disse Magnus. — Sono arrivatoalle allucinazioni? Allora è ufficiale: questa sembraquasi la mia peggior sbronza di sempre. E ti prego dinon chiedere dettagli sulla peggiore in assoluto. È unastoria tristissima dove compare anche una voliera.

— In realtà le tue non erano allucinazioni —precisò Catarina. — Quando ci siamo ritrovati in cimaa una collina a gridarti: “Scendi da lì, deficiente!”,abbiamo visto anche noi i disegni sul terreno. Sonoenormi e bellissimi. Penso che siano i resti di unantico rituale per far affiorare l’acqua dalla terra. Ilsolo fatto di averli visti giustifica il viaggio fin qui.

Magnus aveva ancora la testa sprofondata nelcuscino, eppure riuscì a compiacersi di quella frase. —Sono sempre ben lieto di arricchire la tua vita,Catarina.

— Non c’è stato niente di bello o grandioso —osservò lei, ricordando la scena — quando su tuttiquei disegni immensi e mistici creati da una civiltàscomparsa da lungo tempo tu hai vomitato. Dall’alto.E di continuo.

Per un attimo lo stregone provò rammarico evergogna. Ma subito dopo sentì solo l’urgenza divomitare di nuovo.

In seguito, quando finalmente fu più sobrio,Magnus andò a vedere le Linee di Nazca e mandò amemoria i solchi da cui era stata eliminata la ghiaia,lasciando in superficie l’argilla nuda, secondo tracciatiben precisi: un uccello in volo, con le ali aperte, unascimmia dalla lunga coda, le cui curve Magnus trovòdecisamente indecenti – approvando senza

esitazione, naturalmente – e una figura che potevaessere quella di un uomo.

Quando quei disegni furono scoperti dagli studiosi,che passarono gli anni Trenta e Quaranta delVentesimo secolo a studiare le linee di Nazca, Magnusne fu un tantino infastidito, come se quelle formeincise nella pietra fossero una sua proprietàpersonale. Ma poi accettò la questione. Era così chefacevano gli uomini: si lasciavano messaggi neltempo, nascosti tra le pagine o scolpiti nella roccia.Era come tendere una mano nel tempo, convinti dipoter trovare una mano fantasma pronta a prenderla.Gli umani non vivevano per sempre. Potevano solosperare che ciò che facevano durasse più a lungo.

Magnus si disse che poteva concedere agli umanidi trasmettersi in propri messaggi. Maquell’accettazione giunse molto, molto dopo. Magnusaveva altro da fare il giorno dopo quello in cui per laprima volta aveva visto le Linee di Nazca. Eraimpegnato a vomitare e lo fece per trentasette volte.

Dopo la trentesima, Catarina cominciò apreoccuparsi. — Secondo me potresti davvero esseremalato.

— Ti ho detto e ripetuto che sto davveromalissimo, in effetti — disse gelido Magnus. — Contutta probabilità sto morendo, sempre che a voi

ingrati possa minimamente interessare.— Non avresti dovuto mangiare il porcellino d’India

— disse Ragnor, ridacchiando stridulo. Sembrava cheserbasse ancora rancore.

— Mi sento troppo debole per farcela da solo —disse Magnus, voltandosi verso la persona che siprendeva cura di lui e non godeva delle suesofferenze. Faceva del proprio meglio per apparirepatetico e sospettava che quella fosse unaprestazione eccellente, di gran lunga la migliore. —Catarina, scusa, potresti…?

— Non mi sogno neanche di sprecare energia emagia che potrebbero salvare delle vite per curare ipostumi di una notte passata a bere troppo e avolteggiare in altura!

Quando Catarina diventava severa era la fine.Tanto valeva affidarsi alle tenere, verdi cure diRagnor.

Magnus stava appunto per fare un tentativoquando Catarina annunciò, pensierosa: — Secondome sarebbe meglio provare con qualcuna dellemedicine mondane locali.

Si scoprì così che i mondani di quella parte del Perùpraticavano la medicina massaggiando tutto il corpodel malato con un porcellino d’India.

— Esigo che questa pagliacciata cessi

immediatamente! — protestò Magnus. — Sono unostregone e so curarmi da solo, e posso anche farvisaltar via la testa di netto!

— Oh, no. Sta delirando, è fuori di sé, non loascolti, signora — disse Ragnor. — Continui ilmassaggio!

La donna dei porcellini d’India rivolse a tutti unosguardo distaccato e proseguì senza battere ciglio.

— Sdraiati, Magnus — disse Catarina, che avevauna mente molto aperta e insisteva sempre peresplorare ogni campo della medicina, evidentementedesiderosa di usare Magnus come sventurata pedina,come cavia nel gioco del dottore. — Lascia fluire in tela magia del porcellino d’India.

— Giusto, giustissimo — rincarò la dose Ragnor,che non era affatto di mente aperta, ma ridacchiavaapertamente.

Magnus non trovava il procedimento esilarantecome sembrava invece allo stregone dalla pelleverde. Da bambino aveva preso diverse volte ildjamu. E c’era bile di capra, là dentro (se erifortunato, perché se non lo eri c’era bile di alligatore).Ma i porcellini d’India e il djamu erano entrambimeglio dei salassi che qualcuno aveva sperimentatosu di lui in Inghilterra, una volta.

Il problema era che generalmente trovava la

medicina mondana a dir poco insopportabile efaticosa, e avrebbe preferito che aspettassero che sisentisse meglio prima di infliggergli certe cure.

Magnus provò a scappare più volte, e dovetteessere legato con la forza. In seguito Catarina eRagnor si divertirono varie volte a rimettere in scenail momento in cui aveva cercato di portarsi via anche iporcellini d’India, gridando – correva voce – “Libertà!”e “Adesso sono il vostro capitano!”

Era altamente probabile che Magnus fosse ancoraun tantino ubriaco.

Alla fine di tutta quell’orrenda prova, uno deiporcellini d’India fu aperto in due e le viscereesaminate per vedere se la cura fosse stata efficace.A quella vista, Magnus riprese subito a vomitare.

Alcuni giorni più tardi, a Lima, dopo il terribiletrauma amoroso e dopo la storia dei porcellini d’India,Catarina e Ragnor concessero a Magnus di bersi unbicchierino – uno solo, e rimasero a controllarloentrambi, a una distanza talmente ridotta da risultareoffensiva.

— Quello che avevi detto prima, Quella Notte… —disse Catarina.

Lei e Ragnor la chiamavano così, ormai, e Magnusriusciva a percepire le maiuscole nel tono di voce dientrambi.

— Niente paura — disse spensierato — non vogliopiù diventare un cactus e vivere nel deserto.

Catarina sbatté le palpebre e socchiuse gli occhi,rivedendo chiaramente la scena. — Non mi riferivo aquesto, comunque buono a sapersi. Io parlavo degliumani, e dell’amore.

Magnus non aveva un gran desiderio di ripensare aciò che aveva farfugliato pietosamente la notte in cuigli era stato spezzato il cuore (di qualsiasi discorso sitrattasse). Non aveva senso crogiolarsi nel pantano.Lo stregone si rifiutava con tutte le sue forze dicrogiolarsi. Quella era roba da elefanti, gentedepressa, elefanti depressi.

Catarina proseguì, nonostante la mancanzad’incoraggiamento. — Io sono nata di questo colore. Eda piccola non sapevo come camuffarmi con unincantesimo. Non avevo modo di apparire diversa daquella che ero, sempre, anche se era pericoloso. Miamadre seppe cos’ero appena mi vide, ma mi nascoseal resto del mondo. Mi fece crescere in segreto. Leprovò tutte per proteggermi e tenermi al sicuro. Leera stato fatto un grave torto e lei restituì amore.Ogni volta che curo un umano, lo faccio nel nome dimia madre. Faccio quel che faccio per onorare la suamemoria, e per sapere che quando lei mi salvò lavita, nello stesso momento salvò innumerevoli vite

nel corso dei secoli.Lanciò un’occhiata seria e aperta a Ragnor, che era

seduto a tavola e si guardava le mani, imbarazzato,ma colse l’imbeccata.

— I miei genitori erano convinti che fossi unbambino scambiato, un figlio delle fate, o roba delgenere, credo — disse. — Perché ero color dellaprimavera, diceva sempre mia madre — aggiunse, esi fece di un intenso verde smeraldo. Ovviamente poivenne fuori che la faccenda era un po’ più complicata,ma ormai mi si erano affezionati. Mi hanno semprevoluto bene, anche se ero inquietante da avereintorno, e mia madre diceva che da bambino eropiuttosto scontroso. Poi sono cresciuto e sonocambiato, naturalmente.

Un educato silenzio seguì quell’affermazione.Un figlio delle fate sarebbe stato più facile da

accettare, pensò Magnus, dell’idea che i demoniavessero ingannato o fatto del male a una donna – o,più di rado, a un uomo – e che ci fosse un bambinomarchiato a ricordare quel dolore. Gli stregoni eranosempre nati in quel modo, dal dolore e dai demoni.

— È una cosa da ricordare, se ci sentiamo distantidagli umani — disse Catarina. — Noi tutti dobbiamomoltissimo all’amore umano. Viviamo per sempregrazie a questo amore, che è disposto ad accogliere

strani bambini nelle sue culle, senza perdere lasperanza e senza voltare le spalle a nessuno. Io so daquale parte della mia discendenza ho ereditato la miaanima.

Erano seduti fuori dalla casa dove abitavano, in ungiardino circondato da alte mura, ma Catarina erasempre la più prudente dei tre. Si guardava intornonel buio prima di accendere la candela da posare sultavolo, con quella luce che sgorgava dal nulla fra lemani chiuse a coppa, trasformandole i capelli bianchiin una cascata di perle e seta. E in quella luceimprovvisa Magnus la vedeva sorridere.

— I nostri padri erano demoni — riprese Catarina.— Le nostre madri eroine. — Era vero, naturalmente,almeno per loro. La maggior parte degli stregoninascevano con i segni inequivocabili di ciò che erano,e alcuni di loro morivano molto piccoli, perché igenitori li abbandonavano o li uccidevano,considerandoli scherzi della natura. Alcuni venivanocresciuti com’era successo a Catarina e Ragnor,circondati da un amore che era più grande dellapaura. Il segno stregonesco di Magnus erano gli occhi,le pupille verticali, strette come fessure, il colorelucente e verde oro nei punti sbagliati, ma eranocaratteristiche che non si erano evidenziate a primavista. Lui non era nato con la pelle blu di Catarina né

con quella verde di Ragnor. Da neonato sembrava unqualsiasi piccolo umano, con un paio di insoliti occhiambrati. Era passato del tempo prima che sua madresi rendesse conto che il padre del bambino era undemone. Non l’aveva capito finché un mattino,quando si era chinata sulla culla, il suo piccolo l’avevaguardata con occhi da gatto. Allora aveva compresoche, chiunque si fosse accostato a lei nella notte conle fattezze di suo marito, in realtà non era suo marito.Quando se n’era resa conto non aveva avuto la forzadi continuare a vivere. E non l’aveva fatto.

Magnus non sapeva se fosse stata un’eroina. Nonera ancora abbastanza grande per sapere qualcosadella sua vita o capire appieno il dolore della madre.Non aveva la certezza del suo amore, come invecel’avevano Ragnor e Catarina. Non sapeva se, quandoaveva scoperto la verità, sua madre avessecontinuato a volergli bene o se tutto il suo amorefosse stato spazzato via dall’oscurità. Un’oscurità piùgrande di quella conosciuta dalle madri dei suoi amici,perché il padre di Magnus non era un demonequalunque.

— E ho visto Satana cadere — mormorò Magnus,con il bicchiere ancora fra le labbra — come unfulmine dal Paradiso.

Catarina si voltò a guardarlo. — Che cos’era?

— Rallegratevi del fatto che i vostri nomi sianoscritti in Paradiso, miei cari — disse Magnus. Sonocosì commosso che mi faccio un altro bicchierino pernon piangere.

Dopodiché uscì per andare a fare un altro giro. Orasi ricordava perché aveva detto loro, in quella notteda ubriaco, che voleva andare a Moquegua. Avevavisitato quella città soltanto una volta, prima, e non siera fermato a lungo. Moquegua significava “luogotranquillo”, in lingua quechua, ed era esattamente ciòche era quella città. Il motivo per cui lo stregone sisentiva tanto a disagio, laggiù. Le tranquille stradelastricate di ciottoli, la piazza con la fontana in ferrobattuto dove giocavano i bambini… non era roba perlui, quella.

La filosofia di vita di Magnus era “continuomovimento”, e proprio nei posti come Moquegua luicapiva perché gli era così necessario continuare amuoversi. Se non l’avesse fatto, qualcuno avrebbepotuto vederlo per com’era davvero. Non chepensasse di essere poi così spaventoso, ma c’erasempre quella voce, nella sua testa, che loammoniva: Tieniti sempre in movimento, o l’illusionecrollerà su se stessa.

Magnus ricordava di essere stato sdraiato nellasabbia argentea del deserto, nella notte, e di aver

pensato a tutti i posti tranquilli a cui nonapparteneva, e a come a volte credeva – comecredeva al passare del tempo e alla gioia di vivere eall’assoluta, spietata slealtà degli abitanti del mondomagico – che non esisteva un posto tranquillo per lui,nel mondo, e che non sarebbe mai esistito. Nontenterai il Signore Dio tuo.

Così come non era saggio tentare gli angeli,neppure quelli caduti.

Scrollò la testa per scacciare il ricordo. Se ancheera vero, per lui ci sarebbe sempre stata una nuovaavventura.

Si potrebbe pensare che la spettacolare notte diebbra dissolutezza e innumerevoli crimini di Magnussia stata la ragione per cui fu bandito dal Perù, ma sidà il caso che non sia così. Incredibilmente, gli fupermesso di rientrare nel paese. Magnus tornò in Perùmolti anni dopo, da solo, stavolta, e ovviamente trovòun’altra avventura ad aspettarlo.

~ 1962 ~

Magnus passeggiava per le vie di Cuzco, oltre ilconvento della Merced e giù per Calle Mantas, quandosenti la voce dell’uomo. La prima cosa che notò fuquanto fosse nasale quella voce. La seconda fu chel’uomo parlava in inglese.

— Non mi interessa cosa dici, Kitty. Continuo asostenere che per andare a Machu Picchu avremmopotuto prendere un bus.

— Geoffrey, non ci sono bus che vanno da NewYork a Machu Picchu.

— Be’, insomma… — disse Geoffrey dopo unapausa. — Se La National Geographic Society insiste amettere quel maledetto posto sulle mappe, potrebbealmeno organizzare un servizio di autobus perraggiungerlo!

Magnus li vide in quel momento, mentrepercorrevano i portici ad archi che costeggiavano lastrada dopo aver superato il campanile.

Geoffrey aveva il naso di un uomo che non tacemai. Era spellato per il sole e l’aria secca, mentre

quelli che una volta erano stati gli orli impeccabili deisuoi calzoni bianchi penzolavano mosci come un tristefiore appassito.

— Un’altra cosa qui sono i nativi — ripreseGeoffrey. — Avevo sperato di poter fare almenoqualche foto decente. Me li aspettavo molto piùcolorati, no?

— Sembra quasi che non siano qui per intrattenerti— disse Magnus in spagnolo.

Kitty si voltò, al suono della sua voce, e lo stregonevide un faccino ironico e una chioma rossa i cui ricciolisfuggivano dall’orlo di un grandissimo cappello dipaglia. Anche le labbra erano arricciate.

Geoffrey si voltò quasi nello stesso momento. —Oh, brava, vecchia mia, che occhio — esclamò. —Questo è quello che intendo per “colorato”.

Il che, in effetti, corrispondeva al vero. Magnusindossava almeno una decina di sciarpe di diversicolori, sistemate con la massima attenzione percreare intorno a lui un fantastico arcobaleno. Non eramolto impressionato dallo spirito d’osservazione diGeoffrey, perché quest’ultimo sembrava incapace diimmaginarsi che una persona dalla pelle scurapotesse essere un turista proprio come lui.

— Ehi, amico, ti va di farti fare una foto? — chieseGeoffrey.

— Sei proprio un idiota — ribatté Magnus, con ungran sorriso, sempre in spagnolo.

Kitty scoppiò a ridere, ma cercò di dissimulare ilproprio divertimento mettendosi a tossire.

— Dai, Kitty, chiediglielo tu! — ordinò Geoffrey, conil tono di uno che invita il suo cane a esibirsi in ungiochino imparato a memoria.

— Mi scuso per lui — disse la ragazza in unospagnolo zoppicante.

Magnus le sorrise e le offrì il braccio con unosvolazzo della mano. Kitty scivolò sui lastroni, cosìlogorati dal tempo che la pietra era come acqua,ormai, e si aggrappò al suo braccio.

— Oh, favoloso. Favoloso. Alla mamma questiscatti piaceranno un mondo — esclamò Geoffrey,entusiasta.

— Ma come fai a sopportarlo? — si informòMagnus.

Lui e Kitty ostentavano sorrisi splendenti, da attori,pieni di denti, estatici e del tutto falsi. — Mi risultaabbastanza difficile, in effetti.

— Permettimi di proporti un’alternativa — disseMagnus, dietro i denti chiuso del sorriso fotografico.— Scappa con me. Subito. Sarà l’avventura piùstraordinaria della tua vita, te lo prometto.

Kitty lo fissò.

Geoffrey si stava guardando intorno, in cerca diqualcuno che potesse scattare qualche fuoco a tutti etre insieme. Alle spalle di Geoffrey, Magnus vide Kittyche cominciava, lentamente e felicemente, asorridere.

— Oh, va bene. Perché no?— Ottimo — disse Magnus. Poi girò su se stesso, la

prese per mano e corsero via, ridendo, lungo la stradainondata dal sole.

— Ci conviene fare in fretta! — gridò Kitty, senzafiato, mentre correvano. — Mi sa che si accorgeràpresto che gli ho rubato l’orologio.

Magnus la guardò esterrefatto. — Prego?Dietro di loro si sentì un rumore. Sembravano i

suoni inquietanti di una rissa.Ma, anche se non per colpa sua, Magnus aveva una

certa familiarità con i rumori della polizia che arrivavachiamata da qualcuno e anche con quelli di uninseguimento sfrenato.

Trascinò Kitty in un vicolo. La ragazza stava ancoraridendo, mentre si slacciava i bottoni della camicetta.

— Probabilmente ci metteranno un po’ di più —mormorò, mentre la madreperla dei bottoni si aprivaper mostrare uno splendente lampo di smeraldi erubini — a capire che ho rubato anche tutti i gioielli disua madre.

Rivolse a Magnus un sorrisetto impertinente e luiscoppiò a ridere. — Freghi gli uomini ricchi e annoiati?

— E le loro madri — confermò Kitty. —Probabilmente sarei riuscita a impadronirmi dellafortuna di tutta la famiglia, o almeno di tuttal’argenteria, ma un bellissimo uomo mi ha chiesto discappare con lui, e io ho pensato: “Oh, al diavolo”.

Il rumore dell’inseguimento era più vicino.— Presto sarai felice di averlo fatto — le disse

Magnus. — Dato che mi hai mostrato i tuoi poteri, misembra corretto che ora io ti mostri i miei.

Schioccò le dita, con il dovuto strascico di scintilleblu per impressionare la signorina. Kitty eraabbastanza sveglia da capire che cosa stavasuccedendo appena uno dei primi inseguitori buttòun’occhiata verso l’ingresso del vicolo e proseguì lasua corsa.

— Non possono vederci — sussurrò. — Ci hai fattidiventare invisibili.

Magnus inarcò le sopracciglia e fece un gestoampio con le mani. — Come puoi vedere… — disse —… e loro no.

Magnus aveva visto umani scioccati, spaventati esbalorditi dal suo potere. Kitty gli si gettò fra lebraccia.

— Dimmi, splendido straniero — disse — che ne

pensi di una vita di crimini e magia?— Mi suona come un’avventura — rispose Magnus.

— Però promettimi una cosa. Promettimi cheruberemo sempre e solo alle persone odiose espenderemo i contanti in bevute e inutili sciocchezze.

Kitty gli stampò un bacio sulla bocca. — Lo giuro.Si innamorarono, neppure per il tempo di una vita

mortale, ma solo per un’estate fatale, un’estate dirisate, di fughe, un’estate in cui furono ricercati dallapolizia di molti paesi diversi.

Alla fine, per Magnus il ricordo preferito diquell’estate fu un’immagine che non aveva mai visto:l’ultima fotografia scattata dalla macchina fotograficadi Geoffrey, quella di un uomo vestito con colori vivacie di una giovane donna che nascondeva gli stessicolori sotto una camicetta bianca, entrambi sorridentiperché erano al corrente di uno scherzo che lui nonaveva ancora scoperto.

Nemmeno l’improvvisa conversione di Magnus auna vita di crimini, piuttosto scioccante, peraltro, fu laragione per cui fu bandito dal Perù.

L’Alto Consiglio degli stregoni peruviani si riunì ingran segreto. Parecchi mesi dopo a Magnus fu speditauna lettera, nella quale si comunicava che era statobandito dal Perù, sotto pena di morte, per “criminiindicibili”. Nonostante le sue ripetute richieste, non

ricevette mai risposta a proposito del motivo per cuiera stata pronunciata quella sentenza. Attualmente,qualunque sia stato il motivo che lo fece bandire dalPerù, ciò resta – e forse resterà per sempre – unmistero.

SHADOWHUNTERSCITTÀ DI OSSAfinalmente al cinema!

http://www.youtube.com/watch?v=lZRWUWytvOY

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Le cronache di Magnus Bane — 1. Cosa accadde in Perùdi Cassandra Clare e Sarah Rees Brennan© 2013 Cassandra Claire. LLC.© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, perl’edizione italianaPublished by arrangement with the author, c/o BARORINTERNATIONAL, INC., Armonk, New York, U.S.A.Titolo dell’opera originaleThe Bane Chronicles — What really happened in PeruEbook ISBN 9788852040221

COPERTINA || ART DIRECTOR: FERNANDO AMBROSI |GRAPHIC DESIGNER: STEFANO MORO | IN COPERTINA:ELEMENTI GRAFICI © SHUTTERSTOCK.COM