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MASTER DI ALTA FORMAZIONE IN GEOPOLITICA “IL MONDO NUOVO” LE REAZIONI DI PECHINO E WASHINGTON ALLE ANTICIPAZIONI DEL QUARTO RAPPORTO DELL’IPCC. I GLOBAL PLAYERS ALLE PRESE CON IL CLIMA di Gabriele Guazzo email: [email protected] tel.+39. 349.6411524 1

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MASTER DI ALTA FORMAZIONE IN GEOPOLITICA “IL MONDO NUOVO”

LE REAZIONI DI PECHINO E WASHINGTON ALLE ANTICIPAZIONI DEL QUARTO

RAPPORTO DELL’IPCC. I GLOBAL PLAYERS ALLE PRESE CON IL CLIMA

di Gabriele Guazzo

email: [email protected]

tel.+39. 349.6411524

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1. I contributi del Primo e del Secondo Gruppo di Lavoro al Quarto Rapporto dell’IPCC

Il clima sta diventando una questione “scottante” per Washington e Pechino. Mentre i Paesi dell’Unione Europea hanno di recente deciso, su invito di Angela Merkel, di ridurre del 20% le emissioni di gas serra e di aumentare del 20% la quota di energie rinnovabili entro il 2020, Stati Uniti e Cina stanno acquisendo una sempre maggiore consapevolezza delle rischiose implicazioni del fenomeno del global waming sulla propria stabilità politica ed economica. Se nel caso degli Stati Uniti è stato addirittura il Pentagono ad aprire la strada ad una più seria considerazione del fenomeno e delle sue possibili implicazioni sulla sicurezza nazionale, ad Oriente Pechino sembra determinata a proiettarsi verso le sue green Olympics con un novellato spirito ambientalista che trova sempre più spazio anche nei documenti ufficiali, come dimostra la maggiore libertà di parola concessa negli ultimi mesi ai dirigenti della SEPA (State Environmental Protection Administration), l’ente che si occupa della protezione ambientale in Cina. Tuttavia, nonostante alcuni segnali incoraggianti, i due global players non stanno facendo ancora abbastanza per affrontare seriamente il fenomeno del riscaldamento globale, negando la loro disponibilità ad aderire ad accordi multilaterali vincolanti sul modello del Protocollo di Kyoto. Un fatto che continua a stridere con la produzione di dati sempre più accurati e precisi sul cambiamento climatico in atto.

Se, da una parte, i sospetti sul cambiamento climatico si sono tramutati in certezza negli ultimi anni, oggi vi è anche crescente consenso sul fatto che il fenomeno è per gran parte alimentato da fattori umani, avendo i più aggiornati studi dell’IPCC ridimensionato ulteriormente l’impatto stimato delle cause cosiddette “naturali” sul cambiamento del clima. Il 2 febbraio a Parigi e il 6 aprile a Bruxelles, il Primo e il Secondo Gruppo di Lavoro del panel di esperti sui cambiamenti climatici hanno presentato il loro contributo al Fourth Assessment Report. Modelli di studio inseriti nel Terzo Rapporto dell’IPCC (2001) avevano già indicato che i fattori vulcanici e solari potevano aver determinato il 50% delle variazioni delle temperature nel periodo precedente al 1950, ma dopo quella data il loro effetto sarebbe stato praticamente nullo; le anticipazioni del Quarto Rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, la cui versione finale sarà presentata ufficialmente a Valencia il 16 novembre 2007 1, danno una lettura più precisa del dato, stimando il riscaldamento dovuto alle variazioni dell’attività solare in un misero +0.12 watts/m^2, circa l’8% di quello +1.6 watts/m^2 che è invece attribuito alle cause antropiche 2 (Figura 1). Redatti anche in forma sintetica per i policymakers, i due nuovi studi dell’IPCC sono dedicati rispettivamente alle prove fisiche e scientifiche del riscaldamento globale e alla vulnerabilità e adattamento del pianeta ai mutamenti climatici 3. Essi hanno avuto il merito di rinfocolare il dibattito scientifico e politico sul global warming fornendo nuove prove ed elaborando scenari geoclimatici più accurati rispetto al passato: previsioni che non risparmiano il Nord America e l’Asia orientale e che in qualche modo, insieme alla percezione di un peak oil raggiunto o quasi, sembrano aver fornito nuovi spunti per la riconsiderazione della propria politica ambientale da parte dell’hyperpuissance americana e dell’astro emergente cinese.

1 L'IPCC è stato fondato nel 1988 dall' Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO) e dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) come organo intergovernativo aperto a tutti i paesi dell'UNEP e del WMO. Lo scopo principale è raccogliere tutti i contributi relativi al cambiamento climatico provenienti da vari settori di ricerca, grazie a centinaia di esperti (circa duemila) che partecipano alla stesura del rapporto finale. A novembre l’IPCC pubblicherà il suo quarto rapporto (Fourth Assessment Report, in sigla AR4), dopo quelli del 1990, del 1995 e del 2001.2 Per cause naturali, si intendono fenomeni come l’attività vulcanica e le variazioni cicliche delle radiazioni solari. L’uomo, secondo i nuovi studi, sarebbe in definitiva responsabile del 90% circa del mutamento climatico in atto. I rapporti sono consultabili dal sito dell’IPCC, www.ipcc.ch3 Quelli del 2 febbraio e del 6 aprile sono i primi due dei quattro incontri previsti dall'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) per il 2007. Vi sono tre gruppi di lavoro: il primo si occupa degli aspetti scientifici; il secondo della vulnerabilità e dell'adattamento del nostro pianeta ai mutamenti climatici a tutti i livelli; il terzo degli aspetti scientifici, tecnici, ambientali, economici e sociali relativi alla mitigazione del cambiamento climatico (Bangkok, 4 maggio). Esiste inoltre una task force che ha il compito di individuare nuove metodologie e pratiche innovative per fronteggiare l'aumento dei gas serra.

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Per quanto riguarda gli Stati Uniti, le conseguenze del riscaldamento globale paventate dall’IPCC consisteranno in un probabile aumento delle ondate di calore nei centri urbani, con una frequenza che per una città come Los Angeles potrebbe passare, nei prossimi quaranta anni, dai 12 giorni roventi registrati nel 2006 fino a più di 50. Nei prossimi decenni, circa un quinto delle regioni costiere americane che si affacciano sull’Atlantico saranno a rischio di inondazione a causa dell’innalzamento del livello del mare, mentre molti sistemi fluviali e lacustri del Midwest potrebbero subire un’ingente riduzione della loro portata

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Fonte: Climate Change 2007: The Physical Science Basis. Contribution of Working Group I to the Fourth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change – Summary for Policymakers, p.18.

Figura 1La figura mostra i mutamenti nelle temperature osservate, su scala continentale e globale, con risultati simulati secondo modelli climatici che hanno preso in considerazione fattori naturali e antropici. Le anomalie nelle temperature medie sono ascrivibili per il 90% a fattori umani. Le linee nere rappresentano le variazioni della temperatura media nel periodo 1906-2005. La linea è tratteggiata quando le osservazioni coprono meno del 50% del territorio osservato. La banda blu si riferisce ai cambiamenti della temperatura dovuti a fattori naturali quali l’attività solare e i vulcani. La banda rosa-viola indica invece le variazioni dovute a fattori antropici e naturali aggregati.

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d’acqua: è il caso dei Grandi Laghi e dei fiumi Columbia e Colorado. Le conseguenze dovrebbero essere più pesanti per il settore agricolo, in cui si stima vi possa essere una perdita economica ricompresa in una forbice che va dai 2 ai 7 milioni di dollari. Alcuni paesi dell’Alaska, come Shishmaref, Nome e Barrow, saranno soggetti al rischio dell’erosione delle coste e subiranno le conseguenze del progressivo scioglimento del permafrost. Insomma, anche se la loro capacità di adattamento è notevolmente superiore a quella dei Paesi in via di sviluppo, gli Stati Uniti sperimenteranno anche sulla loro pelle gli effetti dei mutamenti climatici. Per ciò che concerne la Repubblica Popolare Cinese, gli effetti saranno ancora più devastanti, dal momento che saranno amplificati dal fattore demografico. Lo scioglimento dei ghiacciai sull’Himalaya avrà delle ripercussioni sul sistema fluviale: la superficie di alcuni ghiacciai di importanza fondamentale, come quello di Halong (da cui si alimenta il fiume Giallo), si è già ridotta del 18% negli ultimi trentacinque anni e questo processo continuerà nei prossimi decenni. L’instabilità del sistema fluviale acuirà, in generale, il rischio di alluvioni. A nord, invece, il vero problema sono l’erosione dei suoli e la progressiva desertificazione di una vasta area che parte dalla Mongolia interna e il cui confine orientale lambisce Pechino. Se la terra e l’acqua soffriranno, il cielo non starà meglio: piogge acide e tempeste di sabbia, fenomeni già piuttosto frequenti in Cina, aumenteranno in frequenza e in intensità. Il quadro tracciato dall’IPCC è dunque piuttosto fosco. Tanto per Washington, quanto per Pechino.

Su di un piano generale, il contributo del Primo Gruppo di Lavoro dell’IPCC ha confermato per molti aspetti gli studi precedenti, evidenziando però come negli ultimi cento anni la temperatura superficiale media della terra sia aumentata di 0.74° C e non, come era stato in precedenza affermato, di 0,6° C. Gli ultimi dodici anni contengono gli undici anni più caldi a partire dal 1880 e nel prossimo futuro è previsto per ogni decade un ulteriore aumento di circa 0,2° C della temperatura media superficiale. (Figura 2)

L'innalzamento della temperatura media e la riduzione delle calotte polari influiranno sempre di più sull'aumento del livello del mare e tale scenario risulta verosimile anche nei modelli meno pessimistici, dove si parla di un’elevazione media della superficie marina compresa tra 18 cm e 58 cm entro la fine del secolo. Il limite di 550 parti per milione di CO2, che corrisponderebbe ad un aumento della temperatura media di 2°C e che è considerato il punto di non ritorno del riscaldamento globale, potrebbe essere raggiunto ben prima della fine del secolo (Figura 3). 4

4 Si è passati da un livello di 280 ppm intorno al 1850 ai 380 ppm del 2005. L’attuale trend di accrescimento è superiore alle 2 ppm l’anno. Secondo alcuni esperti, il punto di non ritorno è quel momento a partire dal quale, a causa dell’inerzia climatica e degli effetti globali di retroazione, è prefigurabile la sostanziale irreversibilità del fenomeno del global warming.

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Fonte: NASA - Goddard Institute for Space Studies

Figura 2Il trend delle temperatura media globale è in netta crescita.

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Questo timore sembra confermato anche dagli studi più recenti sul cosiddetto PETM, il Paleocene-Eocene Thermal Maximum (o IETM, Initial Eocene Thermal Maximum), che fu il repentino aumento della temperatura media della superficie terrestre (dai 5 agli 8 gradi centigradi) avvenuto lungo un periodo di nemmeno diecimila anni durante il passaggio tra Paleocene ed Eocene, in era Cenozoica (circa 50-55 milioni di anni fa). Non è chiaro se la causa scatenante di quello stravolgimento sia stata una gigantesca eruzione vulcanica, o un rilascio quasi improvviso di idrato di metano dovuto ad altre cause (un impatto con un meteorite, ad esempio). Autorevoli studi, tuttavia, pubblicati poco tempo fa su diverse riviste scientifiche e circolati negli ambienti di ricerca, hanno indicato nel rilascio di una grande quantità di gas (anidride carbonica) nell’Atlantico settentrionale la causa determinante dell’improvviso fenomeno di riscaldamento globale. Da una comparazione analitica, risulta che la quantità di gas serra emessi nell’atmosfera ai giorni nostri è ben superiore a quella sprigionata dalla bolla di gas che sembra aver determinato il PETM. Lo studio dell’antico fenomeno e la comparazione con i dati attuali indicano, in sostanza, che la temperatura media globale potrebbe crescere anche più di quanto gli scienziati dell’IPCC hanno previsto nei recenti rapporti. In particolare, se si prende come riferimento il cambiamento climatico di quel periodo, se ne potrebbe dedurre che la sensibilità del clima al biossido di carbonio corrisponda ad un aumento di più di 2,5 gradi per un raddoppio della concentrazione di CO2, in caso si assuma che l’origine dei PETM sia dovuta alla combustione di biomasse; qualora, invece, si prenda per buona la teoria per cui la causa del PETM fu il rilascio di grandi quantità di metano dal sottosuolo, la temperatura media globale potrebbe subire un’oscillazione ancora maggiore, stimata intorno ai 5,6 gradi centigradi per un raddoppio della concentrazione di CO2 nell’atmosfera.

Il global warming, ammonisce il Secondo Gruppo di Lavoro dell’IPCC, contribuirà fortemente al mutamento dei biomi 5 (Figura 4).

5 Con il termine bioma si intende l’ecosistema che caratterizza una particolare area geografica del pianeta. I biomi terrestri sono classificati in base al tipo di vegetazione dominante e la loro conformazione dipende da fattori quali il clima, la latitudine, l’altitudine, i ritmi stagionali, l’abbondanza delle precipitazioni e la temperatura.

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260

280

300

320

340

360

380

400

1850 1870 1890 1910 1930 1950 1970 1990 2010

Fonti:Worldwatch Institute, Scripps Institute of Oceanography

Concentrazione atmosferica globale di CO2 in ppm

Figura 3Dal 1850 ad oggi la quantità di CO2 nell’atmosfera è aumentata da 280 ppm a 380 ppm.

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Tuttavia, i suoi effetti non si limiteranno ad influire sulle biodiversità, ma avranno delle ripercussioni dirette e indirette sui modelli di governance – siano essi globali o locali – e sulla qualità delle relazioni internazionali. Si tratta di un altro caso di geografia che, se non determina la storia, quantomeno ne influenza l’andamento: un evento geopolitico su scala planetaria, che ha tuttavia una specifica valenza per i due maggiori global players dei nostri tempi, Stati Uniti e Cina, il cui confronto si gioca anche sui temi ambientali.

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Figura 4Mappa dei mutamenti più significativi osservati nei sistemi fisici (neve, ghiaccio e suoli ghiacciati; idrologia;erosione delle coste) e biologici (terrestri, marini, lacustri e fluviali), con indicazione dei cambiamenti delle temperature osservati nel periodo 1970-2004. Dei 75 studi da cui sono stati tratti questi dati, circa 70 sono nuovi rispetto a quelli usati per l’elaborazione del Terzo Rapporto dell’IPCC. I quadrati 2x2 indicano, nella fila superiore,il numero totale dei dati osservati e i dati che testimoniano i cambiamenti più significativi: la fila inferiore indica le percentuali di dati anomali riscontrate.

Fonte: Climate Change 2007: Climate Change Impacts, Adaptation and Vulnerability. Contribution of Working Group II to the Fourth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change – Summary for Policymakers, p.5.

Legenda :NAM – America del NordLA – America LatinaEUR - EuropaAFR - AfricaAS - Asia

TER – Ambiente TerrestreMFW – Oceani e mari

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2. Dagli studi del Pentagono alle environmental companies, dall’etanolo alle altre fonti di energia alternative: la risposta dell’impero americano alle sfide climatiche. Case study: la California punta sul rinnovabile.

I contributi del Primo e del Secondo Gruppo di Lavoro dell’IPCC sono legati tra loro da un rapporto di causalità e discendenza. Se il primo analizza il modo in cui le attività umane influenzano il clima (dall’antropos al clima), il secondo punta invece ad esplorare l’impatto del riscaldamento globale sulle comunità umane (dal clima all’antropos). Insomma, un viaggio di andata e ritorno nell’unicum di Gaia, in attesa che il terzo contributo dell’IPCC, di imminente pubblicazione, illustri le implicazioni socioeconomiche legate agli aspetti di mitigation. E poiché per l’impero globale, gli Stati Uniti, l’antropos è rappresentato, oggi come oggi, soprattutto dal miles in giro per il mondo a combattere guerre in nome e per conto della sicurezza nazionale e dell’esportazione della democrazia, lì sono stati proprio i militari a prendere più seriamente la questione del cambiamento climatico. Il Pentagono aveva già elaborato nel 2003 un rapporto sul tema del cambiamento climatico e sulle sue conseguenze sulla sicurezza nazionale 6. Non si trattava, allora, di un vero lavoro scientifico (anche se la base scientifica dell’analisi era piuttosto accurata), ma della presentazione di uno scenario estremo ed immaginario. Non era, tuttavia, solo un divertissement o un semplice rompicapo strategico, ma uno studio che doveva possedere il crisma del realismo. Nondimeno, se un’analisi del genere fu commissionata era perché qualcuno, al Pentagono, stava cominciando a ritenere realistici gli scenari dell’IPCC. Quel rapporto è stato alla base di un’elaborazione continua da parte dei militari, sempre più attenti alle implicazioni del fenomeno del global warming e consapevoli del rischio che le trasformazioni climatiche in atto possano scatenare od acuire le conflittualità regionali nei diversi scacchieri internazionali, alterando i già fragili equilibri geopolitici mondiali e apportando nuove minacce dirette e indirette alla sicurezza nazionale. Gli Stati Uniti sono in America, ma anche altrove. Si tratta di una potenza i cui assets (basi, facilities strategiche, attività economiche e commerciali) sono in misura rilevante “delocalizzati”. Così, negli ultimi anni la patata “bollente” del global warming è passata sempre più in mano a figure eminenti della Difesa statunitense, come l’ammiraglio Joseph Lopez (vicino alle posizioni del vice Presidente Dick Cheney) e i generali Anthony Zinni (critico verso la gestione bellica dell’amministrazione Bush) e Gordon Sullivan, ex Capo di Stato Maggiore dell’esercito, i quali hanno contribuito alla stesura di un nuovo rapporto sul cambiamento climatico, commissionato dal Centro per le Analisi Navali e pubblicato ad aprile 7. Il rapporto rappresenta il perfezionamento e l’evoluzione di quello del 2003 ed eleva con autorevolezza ancor maggiore il problema del riscaldamento globale a questione di rilevanza per la sicurezza nazionale. Nello studio, si afferma che una concausa sempre più frequente di molti conflitti regionali, come quelli in Sudan e in Somalia (piuttosto che quello israelo-palestinese) è la carenza di risorse, esasperata da fattori climatici che fungono da elemento aggravante. Nello studio si paventa anche una conseguenza diretta per gli interessi americani, cioè a dire la possibilità che l’operatività di alcune basi avanzate, come quella di Diego Garcia (situata nell’Oceano Indiano praticamente al livello sul mare) o quelle del Pacifico, sia ridotta o totalmente inficiata dagli effetti dei mutamenti climatici, come le alluvioni e i fenomeni meteorologici estremi. Oltre al danno economico immediato, l’eventuale riduzione della strike capability di queste basi darebbe origine un danno economico indiretto, inducendo probabilmente l’US Army ad aumentare gli stanziamenti per gli ICBM e le altre armi di lunga gittata, con la conseguenza di una onerosa lievitazione del budget militare.

Da un po’ di tempo, anche l’opinione pubblica americana ritiene che il riscaldamento globale dovrebbe essere preso più seriamente da parte del Governo, anche se in generale i problemi ambientali rimangono subordinati alle altre priorità (lotta al terrorismo, guerra in Iraq, economia e pressione fiscale). Secondo un sondaggio del Massachusetts Institute of Technology, presentato nell’ottobre del 2006 in occasione di un simposio internazionale sul carbon sequestration and store, gli americani considerano ormai

6 P. Schwartz, D. Randall (a cura di), An Abrupt Climate Change Scenario and Its Implications for United States National Security; October 2003. Andrew Marshall, anziano consigliere del Pentagono che dal 1973 guidava un think thank che aveva lo scopo di prevedere le possibili minacce future alla sicurezza nazionale, scelse per questo lavoro Peter Schwartz, ex Planning Manager del gruppo Royal Dutch Shell e già consulente della CIA. Una curiosità: Schwartz aveva lavorato anche per la Dreamworks (aiutò Steven Spielberg a ricreare gli scenari futuristici del film Minority Report). Si trattava, in definitiva, di un esperto in “creazione di scenari”, che si era tuttavia ampiamente documentato sullo stato delle conoscenze relative al cambiamento climatico. 7 National Security and The Threat of Climate Change, CNA Corporation, www.SecurityAndClimate.cna.org

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il global warming come il principale problema ambientale che si trova ad affrontare il loro Paese. Una percezione piuttosto diversa rispetto a quella registrata in un analogo sondaggio del 2003 (Figura 5).

La registrazione di questi umori, effettuata alla vigilia delle elezioni di mid-term, è un segnale indicativo del modo in cui la percezione del problema sta mutando negli Stati Uniti. Le elezioni di metà mandato hanno segnato poi una svolta politica decisiva, che – tra gli altri – ha avuto anche l’effetto di

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Fonte: Massachusetts Institute of Technology

Figura 5Sondaggio del MIT. Il doppio diagramma a torta (Fig. A) illustra il confronto tra l’opinione degli intervistati registrata nel 2003 e poi nel settembre 2006, in relazione a quella che secondo loro dovrebbe essere l’intensità dell’intervento del Governo per arginare il fenomeno del riscaldamento globale e per limitarne gli effetti. Nel grafico sottostante (Fig. B), si può notare come la percezione del problema sia mutata dal 2003 (quando il riscaldamento globale era solo sesto nella classifica dei problemi ambientali più importanti) alla fine del 2006 (primo). Il campione è costituito da 1200 persone (quelle consultate nel 2003 non sono le stesse di quelle intervistate nel 2006)

A

B

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riportare in auge il piano Al Gore (tornato di recente alla ribalta anche grazie alla diffusione del film-documentario An Inconvenient Truth) e di indurre l’esecutivo statunitense ad ammorbidire finalmente la sua posizione sui temi ambientali. Il Presidente Bush, nel discorso sullo stato dell’Unione, è stato in qualche modo costretto ad accogliere gli appelli dei militari, dei Democratici e dell’opinione pubblica, insieme a quelli di molte compagnie che operano in campi “sensibili” per l’energia e l’ambiente, come British Petroleum, General Electric, Alcoa, Caterpillar, DuPont, Duke Energy, Lehman Brothers e tante altre, convinte ormai che negare l’esistenza del global warming e l’incidenza dei fattori antropici sui mutamenti climatici non fosse più nemmeno redditizio per i loro affari. Il peso delle environmental companies nell’influire sulle scelte governative non è in effetti da sottovalutare, specialmente in un Paese come gli Stati Uniti, dove la capacità di persuasione di soggetti economici privati (specie se dotati di ingenti capitali sociali) è molto spesso più rilevante di quella di vasti strati dell’opinione pubblica. Le pressioni del governo inglese, desideroso di ricevere dai cugini americani almeno una contropartita in ambito ambientale per il loro impegno militare in Iraq, hanno contribuito poi dall’esterno ad orientare Bush verso la pubblica ammissione che il riscaldamento globale costituisce quantomeno un fenomeno reale. Ma siamo davvero ad una svolta?

Il problema del global warming è entrato a pieno titolo, almeno nominalmente, nell’agenda politica nazionale statunitense. Non ancora, però, in quella internazionale, dal momento che Washington continua ad essere refrattaria ad ogni tipo di accordo simil-Kyoto che limiti la sua libertà di manovra in campo energetico ed ambientale. Lo spirito unilaterale del “piano Bush”, sviluppato in alternativa all’adesione al Protocollo di Kyoto, continua in definitiva a costituire l’essenza dell’azione del governo statunitense sotto il profilo delle relazioni internazionali 8. Un certo filone dell’unilateralismo americano, a ben guardare, ha origini ben più antiche della dottrina Bush. Sotto il profilo delle scelte ambientali, la difficoltà di legarsi ad accordi che si teme possano essere troppo embedding sembra anzi una costante che lega i percorsi politici dei Repubblicani e dei Democratici. Questi ultimi, nonostante i buoni propositi, hanno dovuto quasi sempre ridimensionare le loro ambizioni in materia ambientale, per venire incontro alla volontà di soggetti economici divenuti man mano sempre più influenti. Se durante il mandato di Jimmy Carter si cominciò a prendere seriamente atto dell’esistenza del problema dei mutamenti climatici (all’epoca, il National Research Council aveva potuto pubblicare uno studio, dal titolo Carbon Dioxide and Climate: a Scientific Assessment, in cui l’autore già dichiarava che “abbiamo prove incontrovertibili che l’atmosfera sta già cambiando e che noi stessi contribuiamo a questo mutamento” 9), Clinton non riuscì a rendere esecutivo il suo programma in fatto d’ambiente: non solo la proposta di istituire una tassa per il consumo d’energia non passò, ma il Presidente Democratico dovette edulcorare ancor più la sua politica ambientale dopo che i Repubblicani ottennero la maggioranza al Congresso nel 1994. Ma, soprattutto, finì per firmare un accordo, quello di Kyoto, con lo spirito di chi sapeva che quel beau geste sarebbe servito a poco. Troppo forte era la capacità delle grandi lobbies industriali operanti nel settore petrolifero, le stesse che a Kyoto si erano unite nella Global Climate Coalition, di influenzare il potere politico, tanto che il Senato non ratificò il trattato. Ora, i tempi sembrano maturi per un’inversione di rotta e non è escluso che il prossimo Presidente degli Stati Uniti decida di negoziare l’adesione ad un Kyoto-bis o ad un nuovo trattato. Nel frattempo, tuttavia, gli Stati Uniti non stanno rimanendo del tutto fermi.

Al di là dell’accordo sull’etanolo col Brasile, formalizzato in occasione dell’incontro tra Bush e Lula ai primi di marzo, è riscontrabile in generale una maggiore attenzione nei confronti delle energie rinnovabili. Secondo il Worldwatch Institute e il Centro per il Progresso Americano, queste concorrono già a circa il 6% del mix energetico nazionale, e il trend è in ascesa. I tassi di crescita dinamici stanno contribuendo ad una progressiva diminuzione dei costi di produzione delle energie rinnovabili e gli investimenti stanno crescendo. Nel 2005, ad esempio, gli Stati Uniti sono stati i primi, a livello mondiale, per installazione di nuova capacità eolica, sorpassando le virtuose Germania e Spagna. Gli Stati Uniti ricoprono poi un ruolo importante in ambito scientifico, nella cooperazione, nelle partnership tra pubblico e privato e nell'applicazione pratica degli studi scientifici. Molte delle nuove tecnologie per lo sviluppo delle energie

8 Già alla fine del marzo 2001 la Casa Bianca emise un comunicato in cui affermava che “il Presidente Bush non avrebbe reso esecutivo il Protocollo negoziato a Kyoto, ma avrebbe proceduto con un’iniziativa nazionale che avrebbe tenuto conto degli altri Paesi, al fine di ridurre l’inquinamento”. Era l’esplicitazione dell’unilateralismo americano in materia ambientale. Bush motivò la scelta di procedere con un piano proprio alla riduzione delle emissioni nocive con argomenti negazionisti: in una lettera ai Senatori citò, tra i motivi per cui non intendeva ratificare Kyoto, “l’incompleto stato della scienza circa il riscaldamento globale e gli eccessivi costi economici” che Kyoto avrebbe imposto.9 Jule G. Charney, Carbon Dioxide and Climate: A Scientific Assessment - National Research Council, 1979.

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rinnovabili o per l’abbattimento delle emissioni di polveri sottili delle centrali a gas, come ad esempio il sistema SCONOx applicato alle centrali a ciclo combinato, vengono dagli Stati Uniti, dove hanno già una certa diffusione. Nel già citato discorso sullo stato dell’Unione, Bush ha inoltre annunciato un piano per la riduzione del 20% dell’uso della benzina nei prossimi dieci anni, ciò che dovrebbe consentire una riduzione delle emissioni di CO2 di circa 600 milioni di tonnellate. D’altronde, è stato il Sottosegretario di Stato Nicholas Burns, in occasione del viaggio di Bush in Brasile, a dichiarare che “la riduzione della dipendenza degli Stati Uniti dal mercato del petrolio è un passo strategico in avanti”, dal momento che “l’energia tende a distorcere il potere di certi stati che hanno un peso negativo sul mondo, come il Venezuela e l’Iran”. Burns ha tuttavia tenuto a precisare che la diversificazione delle fonti di energia deve essere realizzata in una “prospettiva americana”. Insomma, una “via nazionale” alla lotta al riscaldamento globale, che può concedere qualcosa agli accordi internazionali solo se rimane nell’alveo di una blanda cooperazione. A livello internazionale, pur non avendo ratificato Kyoto, gli Stati Uniti hanno infatti sviluppato alcuni progetti di cooperazione e di transfer knowledge, come l’Asia Pacific Partnership on Clean Development and Climate. Accordi interessanti, ma che non prevedono vincoli di alcun tipo.

Da parte loro, alcuni Stati federati hanno adottato autonomamente delle politiche ambientali più severe rispetto a quella nazionale, anticipando quella che potrà essere la politica ambientale della prossima amministrazione nazionale. Caso paradigmatico è quello della California, dove le energie rinnovabili forniscono già più del 30% dell’elettricità. Colpita l’inverno scorso da un’ondata anomala di gelo e devastata da incendi sempre più frequenti ed estesi, come quello del 2003 che ha richiamato alla memoria l’incendio di Yellowstone del 1988 (Figura 6), la California si sta dimostrando uno degli Stati più sensibili al problema dei cambiamenti climatici.

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Fonte: NOAA – National Oceanic and Atmospheric Administration

Figura 6Immagini da satellite della California, scattate rispettivamente il 26/10/2003 e l’11/03/2007. Nella prima immagine (Fig. A), si possono vedere gli incendi che nel 2003 hanno ucciso 13 persone e danneggiato 30000 abitazioni e che hanno visto impegnati, nelle operazioni di spegnimento, più di 7000 pompieri. Nella seconda immagine (Fig. B), si vede una colonna di fumo sollevarsi da Anaheim, nei dintorni di Los Angeles. L’incendio ha causato l’evacuazione di più di 500 abitazioni.

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Il 31 agosto 2006, gli organi legislativi dello Stato della California hanno approvato l‘Assembly Bill n. 32 (AB32), intitolato Global Warming Solutions Act, che è stato poi ratificato dal Governatore Repubblicano Arnold Schwarzenegger il 27 settembre successivo. L’AB32 prevede un ritorno ai livelli di emissione di gas serra del 1990 entro il 2020, ciò che equivale ad una riduzione di circa il 25% delle attuali emissioni entro il 2020. Il provvedimento impegna lo State Air Resources Board a programmare i livelli di emissione e a monitorare il rispetto dei tetti stabiliti. Contestualmente, lo autorizza ad adottare, a partire dal 2012 e fino al 2020, dei meccanismi di flessibilità basati sul principio del cap-and-trade, in virtù dei quali le ditte che produrranno un livello di emissioni inferiore a quello stabilito potranno “vendere” i loro diritti di emissione, ricavandone delle facilitazioni fiscali. Si tratta di un sistema non molto diverso dall’emission trading system prefigurato, in ambito internazionale, dal Protocollo di Kyoto. L’Assembly Bill è stato poi affiancato da due ulteriori provvedimenti, i Senate Bill 1368 e 107: il primo impegna la Commissione per l’Energia dello Stato della California a fissare entro la fine del giugno 2007 degli standard di emissione di CO2 per gli impianti di produzione di energia elettrica e a farli applicare a tutti i futuri contratti energetici. Il secondo colpisce direttamente i tre maggiori produttori di energia elettrica dello Stato (Gas and Electric, Southern Edison e San Diego Gas and Electric), imponendo loro di produrre almeno il 20% della loro elettricità entro il 2010 usando fonti di energia rinnovabili. È probabile che la nuova legislazione sia stata per certi versi un prodotto delle preoccupazioni elettorali dell’iron man della California, dato dai sondaggi di allora in difficoltà nei confronti del suo avversario ecologista. Gli obiettivi stabiliti da questi provvedimenti potrebbero inoltre risultare troppo ambiziosi. Tuttavia, l’impegno formalizzato con l’AB32 e con i suoi corollari legislativi non è un fattore di poco conto, dal momento che la nuova legislazione californiana in materia ambientale, oltre ad aver già “contagiato” altri Stati (Figura 7), può rappresentare un utile stimolo anche per la politica ambientale del Governo centrale.

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Fonte: Pew Center on Global Climate Change – www.pewclimate.org

Obiettivi di riduzione GHG:AZ: 2000 levels by 2020; 50% below 2000 levels by 2040 ; CA: 2000 levels by 2010; 1990 levels by 2020; 80% below 1990 levels by 2050; CT: 1990 levels by 2010; 10% below 1990 levels by 2020; 75-85% below 2001 levels in the long term; IL: 1990 levels by 2020; 60% below 1990 levels by 2050; MA: 1990 levels by 2010; 10% below 1990 levels by 2020; 75-85% below 1990 levels in the long term; ME: 1990 levels by 2010; 10% below 1990 levels by 2020; 75-80% below 2003 levels in the long term; NH: 1990 levels by 2010; 10% below 1990 levels by 2020; 75-85% below 2001 levels in the long term; NJ: 1990 levels by 2020; 80% below 2006 levels by 2050; NM: 2000 levels by 2012; 10% below 2000 levels by 2020; 75% below 2000 levels by 2050; NY: 5% below 1990 levels by 2010; 10% below 1990 levels by 2020; OR: Stabilize by 2010; 10% below 1990 levels by 2020; 75% below 1990 levels by 2050; RI: 1990 levels by 2010; 10% below 1990 levels by 2020; VT: 1990 levels by 2010; 10% below 1990 levels by 2020; 75-85% below 2001 levels in the long term; WA: 1990 levels by 2020; 25% below 1990 levels by 2035; 50% below 1990 levels by 2050

Figura 7La nuova legislazione californiana in materia ambientale è stata d’esempio per altri Stati. Nella tabella a fianco, si possono vedere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra che questi Stati si sono imposti di recente.

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3. La Cina verso la “svolta” ambientalista? Il nuovo indirizzo dei policy makers di Pechino. Case study: da Dongyang a Dongtan. Le megalopoli “sostenibili” nei sogni della Cina.

Speculare al parziale “riposizionamento” della politica ambientale degli Stati Uniti è quello del suo global competitor, la Repubblica Popolare Cinese, che sta cominciando ad intravedere negli effetti disastrosi del riscaldamento globale una minaccia reale per la sua stabilità interna. Secondo il China Meteorological Bureau, il 2006 è stato per la Cina l’anno che ha registrato la temperatura media più elevata a partire dal 1951 10. Negli ultimi cinquanta anni, i maggiori aumenti di temperatura sono stati riscontrati nelle aree settentrionali e nord-orientali del Paese, in prossimità della Mongolia Interna. Il problema più evidente è la progressiva desertificazione di un’ampia area situata a nord di Shanghai, che si sviluppa dal fronte mongolo. Fenomeno strettamente collegato è quello delle nubi di sabbia tossica – contenenti rame, cadmio e piombo accumulato nel loro passaggio sull’area più produttiva e inquinante della Cina – che ciclicamente, ogni primavera, sorvolano Shanghai e Pechino per spostarsi verso la Corea, il Giappone e l’Oceano Pacifico (Figura 8).

10 http://www.ccchina.gov.cn/en/, 21/02/2007

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Figura 8Immagine da satellite scattata il 10/04/2007. Si può vedere una nube di sabbia, originatasi nel deserto del Gobi, che attraversa il Mar Giallo e si sposta verso la penisola coreana, dopo aver sorvolato la costa nord-orientale della Cina.

Fonti: NASA, NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration)

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La Cina ha cominciato a dimostrare interesse verso i problemi ambientali già a partire dagli anni ’70, nel periodo in cui le circostanze politiche internazionali favorirono il suo graduale riavvicinamento al western world ed in cui più pressante era la necessità di aderire alle nuove sensibilità che si facevano largo tra le élites sociali e governative dei nuovi interlocutori. Alla prima conferenza nazionale sull’ambiente, che si tenne a Pechino nel 1973, fece seguito l’istituzione dell’Ufficio Nazionale per la Protezione Ambientale da una cui costola, meno di dieci anni fa (1998), è stato creato l’omonimo Ente. Tuttavia, se fino alla fine degli anni ’80 era piuttosto facile per la Cina sbandierare di fronte alla comunità internazionale il suo impegno ambientale, non avendo la sua economia (e quindi il suo tasso di inquinamento) dei tassi di crescita paragonabili a quelli attuali, le cose sono decisamente cambiate a partire dagli anni ’90. Ad oggi, il maggiore limite all’ambientalismo cinese è costituito proprio dagli obiettivi di crescita dell’Impero di mezzo, considerati prioritari da Governo e cittadini. L’utilizzo del carbone come mezzo primario di produzione di energia ha reso la Cina il secondo produttore di gas serra al mondo dopo gli Stati Uniti, aprendo peraltro la strada ad un clamoroso sorpasso, nei prossimi anni, nella speciale classifica dei maggiori produttori di anidride carbonica. Gli analisti, infatti, hanno recentemente rivisto le loro stime circa la produzione di CO2 della Repubblica Popolare Cinese, che secondo le nuove previsioni dovrebbe superare quella degli Stati Uniti in un periodo compreso tra il 2009 e il 2013. (Figura 9).

Se, tuttavia, è probabile che la Cina supererà nel giro di pochi anni la quota globale di CO2 emessa dagli Stati Uniti, il suo potenziale inquinante va ben oltre questa semplice osservazione. Un dato che può essere utile prendere in considerazione è quello riguardante le emissioni di CO2 espresse in tonnellate pro capite: il singolo cittadino cinese consuma ancora una quantità relativamente esigua di CO2, specie se paragonata a quella di un canadese, di un australiano o di un americano, anche se la produzione di CO2 sta progressivamente e incessantemente aumentando in quello che fu l’impero Celeste (Figura 10).

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Figura 9. Emissioni di CO2 di Stati Uniti e Cina. Il sorpasso è imminente. La revisione operata dall’Agenzia Internazionale per l’Energia, è dovuta ad un rialzo delle stime circa la produzione di CO2 da parte della Cina, sulla base delle osservazioni degli ultimi anni (dal 2003, l’utilizzo del carbone come fonte di energia è cresciuto in Cina del 13% l’anno)

Fonte: World Energy Outlook 2006, International Energy Agency (IEA)

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Ciò indica due cose: innanzitutto, che l’elevata quantità globale di CO2 scaricata nell’atmosfera dalla Cina è un dato fortemente influenzato dalle sue dimensioni demografiche; in secondo luogo, che Pechino ha un potente argomento contro coloro che reclamano a gran voce il suo obbligo morale di attuare da subito misure drastiche ed incisive ai fini della stabilizzazione dei gas serra. La Cina intera, peraltro, con un miliardo e trecentomila abitanti produce una quota di elettricità inferiore di un terzo rispetto a quella degli Stati Uniti, che hanno un quinto della loro popolazione.

In realtà, di argomenti la Cina ne ha molti e a ben vedere riesce oggettivamente difficile negare ai suoi cittadini il diritto a possedere un’autovettura e, più in generale, ad ambire a raggiungere un tenore di vita prossimo a quello degli occidentali. Se si prendono in considerazione le emissioni cumulate nel corso dei decenni passati e non solo quelle correnti, inoltre, risulta che i Paesi industrializzati hanno contribuito, stanno contribuendo e continueranno a contribuire al riscaldamento globale in misura molto maggiore rispetto ai Paesi in via di sviluppo: dal momento che la permanenza di diossido di carbonio si protrae mediamente per più di cento anni nell’atmosfera, aggravando il fenomeno dell’inerzia climatica, è lecito pensare che i Paesi sviluppati abbiano contribuito al fenomeno del global warming in misura molto più ingente rispetto a Stati come la Cina. Allora, perché Pechino dovrebbe lasciarsi vincolare da accordi internazionali che limiterebbero l’accumulazione del PIL?

In realtà, esistono diverse buone ragioni per farlo e il governo cinese lo sta capendo. Innanzitutto, la scoperta e l’emersione di dati sempre più attendibili circa l’esistenza del fenomeno del riscaldamento globale e le sue ricadute sui sistemi geo-antropici desta una giustificata preoccupazione su quelle che potrebbero essere in Cina le conseguenze economiche e sociali del global warming. I dati sui disastri naturali e sugli

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Figura 10. Emissioni di diossido di carbonio nel 2002, in tonnellate pro capite.Nel 2002 il livello di emissioni pro capite di un cinese era inferiore alla media mondiale. Il dato è in netta crescita, anche in base all’indicatore del PIL reale (+10% l’anno circa), tuttavia è ancora molto distante dai livelli dei cittadini statunitensi ed europei.

Fonti: UNFCCC, World Bank

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incidenti sul lavoro, la maggior parte dei quali avvengono proprio nelle miniere di carbone (Figura 11) e l’allarme lanciato dalla stessa SEPA, State Environmental Protection Administration, circa l’aumento delle proteste legate a motivi ambientali, hanno costituito due buone ragioni per indurre il governo di Pechino a riflettere seriamente sulla necessità di una svolta nella sua politica ambientale.

La stabilizzazione del subcontinente cinese, obiettivo costante del governo cinese, è infatti seriamente minacciata da un’insicurezza ambientale che spesso si tramuta in instabilità sociale. Ne sono un esempio le rivolte scoppiate in molte parti del Paese, come quella di Dongyang, città della provincia di Zhejiang, dove i cittadini hanno protestato vibratamente contro l’installazione di alcune centrali chimiche nel distretto industriale di Juxi. Secondo la Banca Mondiale, inoltre, il costo economico dell’inquinamento cinese sarebbe elevatissimo ed ammonterebbe ad una quota corrispondente a circa l’8% del suo PIL. Una ampia parte di responsabilità di questo costo sarebbe ascrivibile proprio agli effetti dei mutamenti climatici in atto. Per tutti questi motivi, oltre che per dare all’esterno l’immagine di un Paese avviato verso una modernizzazione eco-compatibile, il governo ha intensificato i suoi sforzi in campo ambientale puntando sulla riduzione dell’intensità energetica (obiettivo di ridurre del 20%, dal 2006 al 2010, il consumo di energia per ogni punto del PIL) e sulla progressiva sostituzione delle fonti combustibili, carbone in particolare, con quelle rinnovabili. La sostituzione di una economia carbon-based con una che si avvale di quote rilevanti di energia prodotta da fonti alternative è tuttavia un processo graduale, che richiede tempo e soprattutto ingenti investimenti dall’estero. Da qui, i numerosi appelli delle autorità agli operatori stranieri ad investire nel settore delle energie rinnovabili in Cina e soprattutto ad intensificare la cooperazione in ambito tecnologico. Ed è proprio la parola tecnologia a rappresentare la chiave per una crescita sostenibile. Il trasferimento di know how è infatti essenziale per un Paese come la Cina, che in questo campo potrebbe trovare un partner prezioso proprio negli Stati Uniti, col quale potrebbe intensificare ulteriormente i rapporti bilaterali in materia ambientale. Già dal 2003, in effetti, è attiva una collaborazione tra l’EPA americana (Environmental

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Figura 11. L’Insicurezza nel lavoro per numero di incidenti. I cerchi rossi indicano il numero totale di incidenti, quelli arancioni al loro interno segnalano la quota di incidenti che avvengono nelle miniere.

Fonti: www.Em-Dat.net, Università Cattolica di Lovanio

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Protection Agency) e la SEPA cinese (State Environmental Protection Administration), formalizzata mediante un Memorandum d’Intesa che prevede l’istituzione di una sorta di forum permanente per lo scambio di informazioni e lo sviluppo di progetti tematici. Lo sviluppo di questi progetti potrà dare i suoi frutti in futuro.

Altri progetti di cooperazione internazionale con delle implicazioni importanti per la tutela dell’ambiente riguardano il campo dell’ecourbanistica. Il più importante di questi nasce da una collaborazione anglo-cinese e riguarda la costruzione, nell’isola di Chongming, della città ecologica di Dongtan. Il progetto, la cui nascita è stata formalizzata a Londra alla presenza di Tony Blair e Hu Jintao, verrà realizzato da Arup e dalla cinese Shanghai Industrial Investment Company (Figura 12).

La città, che sorgerà in un’area oggi prevalentemente agricola sul delta del fiume Yangtze, dovrebbe essere “aperta” nel 2010, in corrispondenza con l’Esposizione Universale di Shanghai (Expo 2010), e

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Dongtan

Figura 12. Il luogo dove dovrebbe sorgere la città ecologica di Dongtan e due disegni dell’eco-città

Fonti: Arup, Google Earth

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dovrebbe poter ospitare, in una prima fase, circa 50.000 abitanti. Dongtan sarà progettata per essere la città ideale del futuro: dovrà essere autosufficiente per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico e sarò dotata di un sistema urbano di trasporti a zero emissioni, mentre gli edifici dovranno rispondere ai criteri di zero energy building. Dongtan è solo una città, che per di più non esiste ancora. Tuttavia, rappresenta il frutto di un’idea di modernizzazione che viene finalmente piegata alle logiche della sostenibilità. Come la California per gli Stati Uniti, può aprire la strada ad esperimenti gemelli che potrebbero trovare una più ampia diffusione. Da Dongyang a Dongtan. Il futuro ambientale della Cina sta tutto in questo passaggio.

Conclusione

Anche se nessuno dei due sembra ancora disposto a prendere degli impegni sul versante internazionale, sia gli Stati Uniti che la Cina stanno assumendo seriamente il problema del riscaldamento globale come grande questione interna. I motivi per cui i due global players stanno rivalutando la loro posizione sono rintracciabili non in motivazioni idealistiche, ma nella sempre più forte preoccupazione che gli effetti del global warming possano colpire duramente la loro sicurezza nazionale e il loro sistema economico. È facendo i conti con i costi reali, siano essi economici o anche politici (si pensi all’uragano Katrina, che ha provocato circa 1500 morti, cento miliardi di dollari di danni e la caduta verticale del Presidente nei sondaggi dopo le accuse relative alla gestione dei soccorsi) che Stati Uniti e Cina potrebbero decidere di invertire davvero la rotta e ridurre a livelli significativi le emissioni di gas serra. Secondo gli studi di Munich Re, il trend del costo delle catastrofi causate dal bouleversement climatico è cresciuto notevolmente dal 1950 ad oggi (Figura 13).

Non è dunque un caso che Washington e Pechino guardino con maggiore curiosità e attenzione, ma anche con un poco d’ansia, al contributo del Terzo Gruppo di Lavoro dell’IPCC, che sarà pubblicato a maggio. La terza parte del Quarto Rapporto sui cambiamenti climatici dirà molto probabilmente ciò che il rapporto Stern aveva già anticipato, e cioè che sacrificando una quota relativamente bassa del suo PIL (Stern parla dell’1% del PIL globale) la comunità internazionale potrà risparmiare i costi ben maggiori di un’eventuale inazione, costi che il super-consulente del governo britannico ha posizionato in una forbice ricompresa tra il 5% del Prodotto Interno Lordo mondiale (nella migliore delle ipotesi) e il 20% (nella peggiore) 11. Come ha affermato Al Gore, si può in realtà risparmiare denaro e rafforzare l’economia proprio 11 Stern Review on the Economics of Climate Change, 30 ottobre 2006, www.sternreview.org.uk.

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Figura 13. I costi economici delle catastrofi legate ai mutamenti climatici, dal 1950 al 2005.

Fonte: UNEP, Munich Re

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riducendo l’inquinamento. La migliore arma contro gli eccessi del business è il business stesso, coniugato alla ricerca e all’applicazione di nuove tecnologie legate allo sfruttamento delle energie rinnovabili e al risparmio energetico.

Se negli Stati Uniti si può intravedere una progressiva divaricazione tra il potere centrale e alcuni centri decisionali locali, più virtuosi sotto il profilo delle scelte di politica ambientale, in Cina si assiste praticamente ad un fenomeno inverso: i responsabili dei dipartimenti locali dell’Ambiente, così come gli altri amministratori locali (sindaci, governatori) preposti al controllo e al rispetto in loco della legislazione ambientale nazionale, trovano molto spesso più utile per la loro carriera politica chiudere un occhio sulle violazioni di cui sono protagonisti i gruppi industriali che stanno trainando l’economia cinese. La SEPA ha un potere limitato, in alcune province nullo, ed è a questa difficoltà di governance interna che il governo di Pechino dovrebbe cercare di trovare in via primaria un rimedio. La Cina rimane un Paese ad altissimo rischio ambientale. La vera sfida, per Hu Jintao e Wen Jiabao, consiste nel far sì che il suo potenziale economico e demografico non si traduca automaticamente in un potenziale inquinante. La migliore risposta sta proprio nell’accelerazione dello sviluppo tecnologico e in un ripensamento del modello di consumo verso il quale anche la società e l’economia cinesi sono stati inesorabilmente attratti. Non bisogna dimenticarsi, infine, che a fronte dei suoi sforzi negli investimenti in energie rinnovabili, che ad oggi ammontano a poco più dell’1% dell’apporto totale di energia (a fronte del 6% degli Stati Uniti), la Cina sta investendo ingenti risorse nella costruzione di 40 nuove centrali nucleari. A dispetto della risonanza delle dichiarazioni ufficiali sulle energie rinnovabili, per la Cina la strada della riduzione delle emissioni di gas serra potrebbe passare proprio per il nucleare.

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