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L’educazione terapeutica del paziente diabetico: attualità e prospettive C O N G R E S S O R O C H E P A T I E N T C A R E DIABETOLOGIA GIORNALE ITALIANO DI Villa Erba (Como) 19-21 Novembre 1998 Supplemento al Vol. 19 N. 2 - 1999 - Spedizione in abb. postale 45% - art. 2 comma 20/B - legge 662/96 - Filiale di Milano

l'educazione terapeutica

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L’educazione terapeuticadel paziente diabetico:

attualità e prospettive

1 ° C O N G R E S S O R O C H E P A T I E N T C A R E

DIABETOLOGIAGIORNALE ITALIANO DI

Villa Erba (Como) 19-21 Novembre 1998

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1° Congresso Roche Patient Care

L’educazione terapeuticadel paziente diabetico:

attualità e prospettive

Villa Erba (Como)19-21 Novembre 1999

DIABETOLOGIAGIORNALE ITALIANO DI

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Redattore CapoGian Michele Molinatti - Torino

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EditingSEA - Novara

Testata aderente al CSST non soggetta a certificazione obbligatoria in quanto di tiratura non superiore alle 5000 copieAutorizzazione Tribunale di Milano n. 298 del 26.7.1980

Supplemento al Giornale Italiano di Diabetologia Vol. 19 N. 2 - 1999

Stampa: Lineadue - Marnate (VA)

Editore: Utet Periodici Scientifici S.r.l. - Viale Tunisia 37, Milano

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE

SOMMARIO

INTRODUZIONE 1

LETTURA MAGISTRALE

• Education in UKPDS - John Day 3

OBIETTIVI DELLA TERAPIA DEL DIABETE ATTUALITÀ E PROSPETTIVE NEL DIABETE TIPO 1 13

• I parametri del buon controllo - D. Giugliano (Napoli) 15

• Buon controllo metabolico e diabete di tipo 1 - G. Pagano (Torino) 19

• Attualità e prospettive nel diabete tipo 1:prevenzione primaria - P. Pozzilli (Roma) 23

• Il trapianto di pancreas e di isole del Langerhans nel paziente diabetico - A. Secchi (Milano) 27

• La moderna terapia insulinica del diabete mellito di tipo 1 - G.B. Bolli (Perugia) 35

OBIETTIVI DELLA TERAPIA DEL DIABETE ATTUALITÀ E PROSPETTIVE NEL DIABETE TIPO 2 43

• Prevenzione primaria - M. Muggeo (Verona) 45

• Nutrizione e prevenzione del diabete - G. Riccardi (Napoli) 53

• La terapia farmacologica del diabete di tipo 2 - S. Del Prato (Padova) 59

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE

AUTOGESTIONE DEL DIABETE 67

• La gestione della malattia diabetica: il punto di vista del paziente e del medico - U. Valentini (Brescia) 69

• L’educazione come momento fondamentale per la cura el’autogestione del diabete - N. Musacchio (Milano) 73

• Tecniche e strategie pedagogiche nell’educazione del pazientediabetico - A. Maldonato (Roma) 79

• Le competenze professionali nel processo educativo - V. Miselli (Reggio Emilia) 83

• Fattibilità dell’intervento educativo. Costi e benefici - C. Noacco (Udine) 89

OBIETTIVI SPECIFICI IN CAMPO EDUCATIVO: ESPERIENZE PRATICHE 95

• Educazione alimentare per diabetici insulino-dipendenti - D. Bruttomesso (Padova) 97

• Ipoglicemia - C.G. Fanelli (Perugia) 101

• Attività fisica - G. Corigliano (Napoli) 107

• Diabete e gravidanza - A. Lapolla (Padova) 111

• Il peso delle tecnologie informatiche in ambito educativo - G. Vespasiani (San Benedetto del Tronto) 115

• Formazione degli operatori in diabetologia: esperienza pratica in un istituto di riabilitazione geriatrica - E. Orsi (Milano) 119

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE

VALUTAZIONE DEGLI INTERVENTI EDUCATIVI TAVOLA ROTONDA 121

• La valutazione dei processi educativi - S. Squatrito (Catania) 123

• L’ambiente educativo - G. Monesi (Rovigo) 127

• Influenza dei corsi di educazione sanitaria su alcuni aspettipsicologici (ansia e depressione) di pazienti diabetici - E. Guastamacchia (Bari) 131

• La valutazione degli educatori - A. Piaggesi (Pisa) 133

• Valutazione della metodologia degli interventi educativi - H. Corradin (Vicenza) 137

• La valutazione degli interventi educativi intensivi - A. Corsi (Genova) 141

• Valutazione degli interventi educativi.Le condotte di riferimento - M. Trento (Torino) 145

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE 1

INTRODUZIONEL’incontro di Villa Erba del novembre 1998 organizzato dalla «Roche Diagnostics» haavuto il merito di mettere a confronto e di integrare le conoscenze attuali in tema difisiopatologia e di terapia della malattia diabetica con le esperienze di autogestionee di educazione terapeutica del paziente diabetico.Gli obiettivi sempre più ambiziosi della terapia del diabete perseguiti da un correttostile di vita, da un moderno trattamento farmacologico orale o insulinico e in alcunicasi da un trapianto di pancreas, non sono raggiungibili se non sono inseriti in unpercorso educativo che coinvolga strettamente il paziente diabetico e il diabetologo.Il paziente, in altri termini, deve essere consapevole del significato degli obiettiviterapeutici da raggiungere e deve essere motivato ad accettare un trattamento alungo termine, ad autogestire la propria cura e ad assumersi la responsabilità delproprio stato di salute.L’educazione terapeutica deve permettere al paziente diabetico di acquisire emantenere le capacità che gli consentano di realizzare una gestione ottimale dellapropria vita seppur in presenza della malattia diabetica.Le esperienze educative nel nostro Paese sono state fino a non molti anni fapatrimonio di singoli diabetologi-educatori e di alcuni Servizi di Diabetologia chehanno avuto il merito di costituire il «Gruppo di Studio per l’Educazione delPaziente Diabetico» (GISED) che è divenuto la palestra e il punto di riferimento pertutta la diabetologia italiana. Negli ultimi anni ci si è resi conto che l’impegno deldiabetologo sul piano educativo non può essere limitato a una ristretta «élite» ma èindispensabile per giustificare e per rendere efficace il suo intervento terapeutico neiconfronti del paziente diabetico.L’incontro di Villa Erba ha avuto come obiettivo primario la sensibilizzazione di tantigiovani diabetologi nei confronti di questo fondamentale aspetto della terapia deldiabete che troppo spesso è ritenuta ancor oggi ovvia o è in gran parte trascurata permancanza di tempo o di mezzi a disposizione, ma anche per ignoranza eimpreparazione del medico-diabetologo.Si è voluto riaffermare l’importanza dell’educazione come momento fondamentaleper la cura e l’autogestione del diabete prospettando le principali tecniche e strategiepedagogiche, la necessità di avere a disposizione competenze professionali adeguatee i costi/benefici di tale intervento educativo.Si sono approfonditi alcuni temi specifici come l’alimentazione, l’ipoglicemia,l’attività fisica, la gravidanza, la prevenzione del piede diabetico, le tecnologieinformatiche e la formazione degli operatori.Infine, in una visione moderna e concreta dell’intervento educativo, si è sottolineatala necessità di valutazione e di verifica del processo educativo, della metodologiaapplicata, degli educatori e degli indicativi.I testi degli interventi, rielaborati o tratti direttamente dall’esposizione degli oratori,rappresentano la testimonianza della validità e dell’attualità dei temi trattati.L’incontro di Villa Erba 1998 ha sicuramente contribuito, al di là delle iniziativeistituzionali programmate dalle Società Scientifiche, a diffondere e a promuovere illinguaggio e l’esperienza educativa che deve rappresentare oggi e ancor più domaniun patrimonio culturale indispensabile per il diabetologo di fine millennio.

Antonio TiengoCattedra di Malattie del Metabolismo - Dipartimento di Medicina Clinica e

Sperimentale - Università di Padova

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Education in UKPDSJohn Day

Letturamagistrale

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DIABETOLOGIAGIORNALE ITALIANO DI

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THE UKPDS STUDY -IMPLICATIONS FOR PATIENT EDUCATIONJohn DayThe Diabetes Centre, Department of Medicine, The Ipswich Hospital NHS Trust

IntroductionFor many years there has been uncertainty about the efficacy of treatment in Type 2diabetes. The University Group Diabetes Program study provided some conflictingresults and in particular uncertainty as to whether indeed Sulphonylurea treatmentmight not have adverse effects (1). Furthermore, the role of insulin treatment in Type2 diabetes has remained uncertain councurrent with the examination of metabolicabnormalities in «the metabolic syndrome». Questions have been raised about thepossibility that high plasma insulin concentrations might contribute to the very highrisk of macrovascular disease. Some invitro and animal work has suggested a possiblerelationship between hyperinsulinaemia and atherogenesis. The UKPDS study wasset up in the late 70’s to determine the most effective treatment in non-insulindependent diabetes. The initial protocol was written to examine various aspects ofglucose contorl but subsequently a second protocol was included to include study ofthe efficacy of blood pressure control. These studies were terminated in 1997 and theresults reported at the Autumn meeting of the EASD in 1998 (2-5).

Glucose control studyThe aims of this study were to determine whether (a) improved glucose control ofType 2 diabetes would prevent clinical complications (b) therapy with:Sulphonylurea - (first or second generation) Insulin or Metformin had any specificadvantage or disadvantage. The study was a multi-centre study carried out intwenty-three centres in the United Kingdom. Initially 5102 patients were recruitedand on termination of the study involved 53000 patient years follow up. The patientcharacteristics are summarised in Table 1. The randomisation to intensive orconventional treatment is indicated infig. 1. Prior to randomisation all patientshad a three month run in period withdietary treatment alone. Subsequentlythose randomised to conventional policywere encouraged to aim for near normalweight and a fasting plasma glucose of<15 mmol/l and to remain asymptomatic.When marked hyperglycaemia developedthey were allocated to non-intensivepharmacological therapy. For thoserandomised to intensive policy withSulphonylurea insulin the aim was toachieve a fasting plasma glucose<6 mmol/l and remain asymptomatic.When these patients became markedly

Figure 1

Randomisation of Treatment PoliciesMain Randomisation

n=4209 (82%)

3867

Conventional Policy30% (n=1138)

Intensive Policy70% (n=2729)

Sulphonylurean=1573

Insulinn=1156

342 allocated tometformin

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE6

hyperglycaemic on Sulphonylurea Met-formin was added or changed to insulintherapy. If allocated to insulin already theywere transferred to more complexregimens.

FINDINGSFollow yp of patients included assessmentof fatal and non-fatal clinical end points,record of surrogate end points includingclinical and biochemical markers, eg urine

albumin, retinal photography, visual acuity. Analysis was performed on an intentionto treat basis.Overall summary of the glucose control study reveals that intensive glucose controlpolicy maintained a lower HbA1c by a mean of 0.9% over a follow up of ten yearswith a reduction in the risk of:• 12% for any diabetes related end point p 0.29;• 25% for microvascular end point p 0.0099;• 16% for myocardial infarction p 0.52;• 24% for cataract extraction p<0.46;• 21% for retinopathy at 12 years p<0.015;• 33% for albuminuria at 12 years p<0.00005

DID INSULIN OR SULPHONYLUREA THERAPY HAVE SPECIFIC ADVANTAGES OR DISADVANTAGESExamination of those randomised to Insulin, Chlorpropamide or Glibenclamideindicated similar reductions in HbA1c compares with conventional treatmentregardless of which agent was used. All there therapies had equivalent riskreduction for major clinical outcomes compared with conventional policy. Inthose allocated to Chlorpropamide there was equivalent reduction of risk ofmicroalbuminuria but no reduction of risk of progression of retinopathy.

DID METFORMIN IN OVERWEIGHT DIABETIC PATIENTS HAVE ANY ADVANTAGESOR DISADVANTAGESOverweight patients (>120% ideal body weight) could be randomised to anintensive glucose control policy with Metformin instead of diet, Sulphonylurea orinsulin. Results revealed similar reduction in HbA1c with Metformin as comparedwith the other agents but in contrast to the other agents in whom a significantweight increase was observed, the weight change in the Metformin treated patientswas similar to those maintained on diet alone. In those allocated to Metformin therewas a highly significant reduction in any diabetes related and points (p 0.0023)diabetes related deaths (p 0.0017) all cause mortally (p 0.0011) and myocardialinfarction (p 0.001) Metformin provided a 30% risk reduction in any diabetes relatedend point, 42% risk reduction in diabetes related death, 30% risk reduction normalcause mortality and 39% risk reduction in myocardial infarction.

USE OF SULPHONYLUREA IN CONJUNCTION WITH METFORMINPatients primarily randomised to intensive therapy with Sulphonylurea were notgiven additional Metformin until their fasting plasma glucose was >15 mmol or theydeveloped hypoglycaemic symptoms. However, in view of the progressivehyperglycaemia in these patients a protocol modification was made to secondaryrandomise those on maximum Sulphonylurea therapy and a fasting plasma glucose>6 mmol to early addition of Metformin.The results were equivocal in that there wasno significant reduction in any diabetes related end point but there did appear to be

age 25-65 years mean 53 yearsgender male:female 59.41%ethnic group Caucasian 82%

Asian 10%Afro-caribbean 8%

body mass index mean 28 kg/mfasting plasma glucose (fpg) median 11.5 mmol/LHbA1c median 9.1%hypertensive 39%

Table 15102 newly

diagnosed type 2diabetic patients

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE 7

a reduction in diabetes related deaths in those who remained on Sulphonylureaalone as compared to those in which Metformin was added. However, when all theMetformin data was combined there was no significant difference.In conclusion it would appear that the combination of Sulphonylurea andMetformin needs further study. However, it should be commented that the actualmyocardial infarct rates in those taking Sulphonylurea or Sulphonyl plus Metforminwere identical but the death rate was significantly lower in the Sulphonylurea onlygroup, not only in comparison with those taking Metformin as well, but also with allother groups. Numbers were small. The conclusion was reached that this did notindicate a significant adverse effect of Metformin when combined withSulphonylurea.

Blood pressure control studyThis secondary study was taken to examine whether (a) intensive blood pressurecontrol improved clinical outcome and (b) whether treatment with a Beta Blocker orACE inhibitor revealed significant differences. Previously untreated patients wereincluded who had a systolic ≥160 or diastolic ≥90 mmHg. Patients on hypertensivetherapy were included it the systolic was ≥150 and/or diastolic ≥85 mmHg. For thoserandomised to conventional policy the target was to achieve a blood pressure<180/108 mm/l avoiding ACE inhibitor or beta blocker therapy.Those randomised tomore intensive treatment were allocated either to an ACE inhibitor or a beta blockerwith a target of a blood pressure <150/85 mm/l. Additional agents could be used toachieve the targets if the ACE or Atenolol treatment alone was ineffective.

FINDINGSThese reveal highly significant reductions in risk of any diabetes end point 24% p0.0040, and diabetes related death 32% p=0.019, stroke 44% p=0.013, microvasculardisease 37% p=0.0092, heart failure 56% p=0.0043, retinopathy progression 34%p=0.0038 and deterioration of vision 47% p=0.0036) in those in the intensivelytreated group. There were no significant differences between the outcomes in theACE or Atenolol treated group.Examination of blood pressure control in patiens allocated to different glucosecontrol regimen showed that similar levels were achieved in those treated withconventional glucose control insulin and Glibenclamide but slightly higher levelsnoted in the Chlorpropamide treated group.

SUMMARY OF THE GLYCAEMIC AND BLOOD PRESSURE CONTROL STUDIES• It can be conclude that an intensive glucose control policy (HbA1c of 7 versus 7.9)

reduces the risk of any diabetes related end points and microvascular endpointswith the borderline reduction in myocardial infarction.

• A tight blood pressure control policy to achieve a level of 144/82 versus 154/87mmHg reduces the risk of any diabetes related end point, microvascular end pointand stroke.

• The benefits of tight blood pressure control and tight blood sugar control aresummative.

Potential implications for the clinical care of diabetes

GOALS OF THERAPYThe results of the UKPDS suggest that we should be aiming for HbA1c of <7%. ThisHbA1c level is in accord with current guidelines but is difficult to accomplish.

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE8

Concurrent epidemiological analysis suggests that any reduction of hyperglycaemiawould be advantageous.Sulphonylureas, Insulin and Meformin are each effective in reducing the risk ofdiabetes related end points and microvascular damage. There is no evidence ofincreased risk of complications of any single therapy.The UKPDS study suggests blood pressure below 140/85 mmHg would reduce therisk of diabetic complications and this again is in accord with current guidelines.ACE inhibitors and beta blockers are each effective in reducing the risk ofmacrovascular and microvascular process and there is no evidence the ACEinhibitors are significantly advantageous.Polypharmacy both for glycaemic control and blood pressure control may benecessary.There are two, however, very important which need to be emphasised. Firstly, thatall patients prior to randomisation to the glucose control study underwent threemonths run in period with diet. At diagnosis the mean HbA1c was around 9% andat randomisation 7%. Thus the greatest reduction in HbA1c took place during thediet alone pre-randomisation therapy. It was notable that this reduction wasgreatest in patients attending those centres with the greater availability of dieteticadvice. Secondly, both in the conventional and intensified treatment groups therewas a steady and inexeorable rise in HbA1c throughout the course of the study andalthough the 0.9% difference was maintained between the conventional andintensive groups the slope of this rise was in both groups identified exactly the sameindicating the progressive nature of this disease.

Educational implicationsGiven that the UKPDS has clearly established the benefits of as tight blood sugar andblood pressure control as possible there are very major implications for our

organisation of care and education forthose with diabetes. It is quite clear thatmany if not the majority of patients fail toachieve the targets that are set for them.Indeed in the DCCT study for insulintreated patients <10% achieve the targetsintended and this despite a most intensiveregimen with enormous professional staffsupport (6) Studies in education have, overthe last decade or so, revealed that successin achieving medical targets is verydependent on effective self-managementor patient empowerment. The behavioursrequired of subjects to achieve thenecessary targets are complex.They includeof course strict adherence to modified dietand therapy presented regular self testingadherence to the therapy prescribed andattendance at follow up clinics forsupervision. Major behavioural modificationtherefore is required.

Referring back to the UKPDS data it is notable that the greatest benefit wasachieved from the dietary advice in the run in period and this was an educationalprocess. A care cycle can be described whether for insulin or non-insulin treated

Figure 2Diabetes care

cycle

DIAGNOSIS

EDUCATIONNEW KNOWLEDGE

SKILLSPERCEPTIONS

MAINTENANCESELF MANAGEMENT

EDUCATIONPERCEPTIONS

ATTITUDES

NEW LIFE EVENTSCOMPLICATIONS

NEW LIFE EVENTSCOMPLICATIONSNEW LIFE EVENTSCOMPLICATIONS

MAINTENANCEMAINTENANCEMAINTENANCE

THERAPY DECISION

EDUCATION

THERAPY DECISION

EDUCATION

THERAPY DECISION

EDUCATION

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patients summarised in figure 2, in which it can be seen that education or behaviouralchange is required on a life-time basis. Many studies have been performed into thepsychosocial aspects of diabetes self-care and have revealed that these may be as, ifnot more, important in erms of outcome than the therapies prescribed. Factorscontributing to effective self-management are summarised in Table 2.

BASIC INFORMATIONThere can be no doubt that for the patients to adopt the prescribed regimenseffectively they must have basic information about the illness. Studies have revealedhowever that gnerally it is not difficult for people to acquire this information, butthere is considerable gap between those who know what to do and those whoactually put it into practice. However,unfortunately many people may haveinappropriate information about theillness based on the experience of othersor media communications and may havedeveloped myths that must be identifiedand dispelled.

TARGETS TO BE SETAlthough the UKPDS recommends a target HbA1c of 7% this must be regarded asthe ideal. Many investigations reveal that the targets may be perceived by the patientas unobtainable, whether these are glycaemic or weight end points. There is littlepurpose in advising patients of a target which they perceive as quite unobtainable.The evidence form the UKPDS suggest that any reduction in HbA1c is an advantage.The steps required to achieve this therefore need to be negotiated with the patientand agreed. Frost et al have elegantly demonstrated the importance of settingweight targets which are obtainable. Realistic and achievable goals are essentialtherefore (7).

HEALTH BELIEFSIn the list of factors responsible for self-management itemised above the importanceof the perception of the patient about the benefits and barriers to treatment cannotbe overemphasised. In deciding to undertake behavioural change patients makevalue judgements about the steps required to achieve such a change. Many mightacknowledge the «risk» of failure but not their personal risk. Denial is common inperhaps up to 20% of subjects. It is necessary, therefore, to identify patientsperceptions in this regard. Secondly, it is important to determine whether patientsactually perceive their responsability for their own management. Subjects fall intothree groups, those who acknowledge that there is an internal responsibility, thosewho feel that it is the responsibility of the medical team to «put things right» andthirdly those who perceive outcome as a matter of chance. Fortunately, theseperceptions can be incluenced and evidene is now strong that if people can beencouraged to adopt an internal so called «locus of control» that their satisfactionwith treatment is greatly improved. It should be emphasised that this not onlyapplies equally to self control of blood pressure as blood sugar control. Professionalcarers may have a positive or negative influence on this. Adoption of paternalisticprescriptive approaches are likely to inhibit rather than encourage.

EMOTIONAL ADJUSTMENTThe emotional adjustment of a patient may be critical in determining their ability toadopt and maintain new behaviours which will depend on their coping abilities, andlevels of anxiety and depression. Unfortunately complete lack of concern about their

Knowledge Feelings of personal controlSelf-management skills Emotional adjustmentPerception of goals Effect of other peopleBenefits/barriers Lifestyle

Table 2Factors responsible

for effectiveself-management

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE10

medical state is not compatible with successful outcome and some degree of anxietyis essential. Excessive anxity, however, may induce critical inhibition.

SOCIAL ENVIRONMENTFor all those with diabetes the social environment in which they manage their illnessmay be more important than the therapy prescribed. This is particularly so in dietarymanagement. Family members, friends, work colleagues, may have more importantinfluences on behaviours than the professional advisers. unless such barriers are clearlyidentified both by patient and carer successful otucome is unlikely to be achieved.

IDENTIFICATION OF FACTORS RESPONSIBLE FOR EFFECTIVE SELF-MANAGEMENTThe elements described above can be identified. Studies in both insulin and non-insulin dependent diabetes have not only validated the contribution of these factorsbut also can be identified both by questionnaire and/or interview. The processes ofbehaviourla change and the relation of these factors to such change are wellsummarised by the model of Fishbein Azjen, see figure 3. This can be amplified bythe methods of Prochaska et al which should be used to determine if the patientsare precontemplative, ie have not thought about making changes, contemplative –

are thinking about making changes buthave not adopted them, active –undertaking new behaviours and/orsubsequently maintaining the changesand then finally unfortunately thoserelapsing (8,9.) The many specificquestionnaires which have been developedto identify the factors outlined above aredifficult to apply in clinical practice due totheir specificity and number (10). Howevermore practical clinical instrumentsdeveloped by the Ipswich Group have beenboth tested and shown not only to providevalid scoring of the factors and indeed thatthese factors can be modified byeducational intervention (11).

EDUCATIONAL IMPLICATIONSEducational review and intervention in alifelong process. The most commonprofessional contact is in the consultingroom. This opportunity must be used toidentify those factors operative in any oneindividual and attempt to change tochange those that are deleterious. Studiesof professional patient communicationreveal that these are largely based on the

acute model of care with a prescriptive approach from the professional with thelocus of control held too closely by the medical team. This process is largelyinhibitory on effective patient empowerment. The studies by Kaplan et al haveshown that when the patient themselves takes more control of the interview oreducational interview not only their learning but also their outcomes are improved(12). The process should ensure that the patients learning agenda/needs areidentified and met, that the learner is allowed choice in their learning methods,strategy and material. Patients very often learn best from others with the same

Figure 3Model of factors

determining changein behaviour.

Adapted from AjzenI, Fishbein M

INTENTIONS

BEHAVIOUR

SOCIALENVIRONMENT ATTITUDES

EXTERNAL VARIABLESKNOWLEDGE

ANXIETYLOCUS OF CONTROL

DEMOGRAPHIC VARIABLES

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illness, hence the value of group interactive processes. To achieve these ends theprofessionals’ behaviour also has to change. This is dependent on the sameinfluences as of the patient, ie their attitudes and beliefs about the efficacy of thetreatment prescribed. Will all those involved in providing care for non-insulindependent diabetes agree the targets that are recommended by the UKPDS? If so,will they be able to provide a system of care which can deliver this. To what extentwill be inhibited by pressures from other colleagues or their own feelings?

ConclusionThe UKPDS has clearly demonstrated that improved glycaemic and blood pressurecontrol can be effective in reducing the late complications. To achieve these ends,however, there will not only need to be greater investment in professional time andfacilities but also much closer attention to the behavioural aspects of those with type2 Diabetes, identifying factors which are facilitating or inhibiting successful changeand persuading patients through negotiation and counselling to attempt to achievethem.

REFERENCES

1. University Group Diabetes Program: A study of the effects of hypoglycemic agents onvascular complications in patients with adult-onset diabetes. 2. Mortality results.Diabetes 19 (suppl. 2), 785-830, 1970

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3. UK Prospective Diabetes Study Group: Tight blood pressure control and risk ofmacrovascular complications in type 2 diabetes: UKPDS 38. BMJ 12, 317, (7160), 703-713, 1998

4. UK Prospective Diabetes Study Group: Intensive blood-glucose control withsulphonylureas or insulin compared with conventional treatment and risk ofcomplications in patients with type 2 diabetes (UKPDS 33). Lancet 12, 352 (9131), 837-853, 1998

5. UK Prospective Diabetes Study Group: Effect of intensive blood-glucose control withmetformin on complications in overweight patients with type 2 diabetes (UKPDS 34).Lancet 12, 352 (9131), 854-865, 1998

6. DCCT Research Group: The effect of intensive treatment of diabetes on developmentand progression of long term complications in insulin dependent diabetes. New Engl JMed 329, 977-986, 1993

7. Frost G: Comparison of two methods of energy prescription for obese non-insulindependent diebetics. Pract Diabetes 6, 273-275, 1989

8. Ajzen I, Fishbein M: Understanding attitudes and predicting social behaviour.Englewood Cliffs NJ: Prentice Hall, 1980

9. Prochaska Jo, DiClemente CC: Toward a comprehensive model of change. Treatingaddictive behaviours. New York: Plenum Press, 1986

10. Bradley C: Handbook of Psychology and Diabetes. Switzerland: Chur, HarwoodAcademic Publishers, 1994

11. Day JL, Bodmer CW, Dunn OM: Development of a questionnaire identifying factorsresponsible for successful self-management of insulin-treated diabetes. Diabetic Med 13,564-573, 1996

12. Kaplan RM, Chadwick MW, Schimmel LE: Social learning intervention to promotemetabolic control in type 1 diabetes mellitus: pilot experiment results. Diabetes Care 8,152-155, 1985

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I parametri del buoncontrolloD. Giugliano (Napoli)

Buon controllometabolico e diabete tipo 1G. Pagano (Torino)

Prevenzione primariaP. Pozzilli (Roma)

TrapiantoA. Secchi (Milano)

Terapia insulinicaG. Bolli (Perugia)

Obiettivi della terapia

del diabeteAttualità e prospettive

nel diabete tipo 1

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DIABETOLOGIAGIORNALE ITALIANO DI

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I PARAMETRI DEL BUON CONTROLLO

Dario GiuglianoDipartimento di Geriatria e Malattie del Metabolismo, Seconda Università di Napoli

Le malattie cardiovascolari rappresentano un problema di sanità pubblica a livelloplanetario. Previsioni elaborate dagli esperti dell’OMS appena due anni or sono(1997) non inducono all’ottimismo: tra appena 20 anni, l’epidemia di patologiecardiovascolari avrà toccato vette impressionanti e la cardiopatia ischemica deterràil triste primato di prima causa delle maggiori condizioni invalidanti che affliggonol’umanità. La malattia cerebrovascolare sarà quarta in questa classifica.Indipendentemente dalla veridicità di queste previsioni, resta il dato che anche peril diabete mellito, la più comune tra le malattie metaboliche e uno dei più potentifattori di rischio per malattie cardiovascolari, è previsto un trend in ascesa, conun’aspettativa di circa 300 milioni di soggetti affetti nel prossimo ventennio, dagliattuali 100-120 milioni stimati. Questa crescita parallela potrebbe non esserecasuale: le modificazioni peggiorative dello stile di vita (sedentarietà, nettoincremento della prevalenza di obesità, diete squilibrate) di intere popolazioni, inspecial modo di quelle che con un eufemismo forse fuori luogo chiamiamo in via disviluppo, e l’aumento dell’aspettativa di vita sono state indicate come le causeprincipali di questo disastro annunciato. La sfida che ci aspetta già nei prossimi anniè ardua e ci obbliga a mettere in atto tutte le strategie disponibili per arginarel’espansione di queste patologie strettamente legate all’invecchiamento dellapopolazione e alla filosofia del troppo facile. La partita potrebbe essere giocata conbuoni risultati affidandosi alla prevenzione: il controllo del sovrappeso e l’abitudineall’esercizio fisico rappresentano strumenti formidabili che potrebbero abbatteresignificativamente lo sviluppo sia delle malattie cardiovascolari che del diabete.Considerato che la malattia coronaria è la prima causa di morte nel paziente condiabete tipo 2, è paradossale la constatazione che proprio tale tipo di paziente siastato sistematicamente escluso dai grandi (per dimensione del campione) studiclinici di intervento. Sebbene questo paradosso avrà avuto le sue ragioni (midomando quali) e sembra comunque essere in via di esaurimento, resta comunqueil fatto che i pochi dati in nostro possesso sui pazienti diabetici costituiscono unafonte non primaria di informazioni. Questo perché l’analisi del sottogruppo«diabetici» è stata effettuata dopo la valutazione generale dello studio e quindi nonrappresentava l’obiettivo primario dell’intervento.I due grandi studi che sfuggono a questa regola per aver valutato delle strategieterapeutiche solo in pazienti diabetici sono ormai famosi in ambito diabetologico.Tanto il DCCT che l’UKPDS hanno valutato l’effetto del controllo glicemico più omeno intensivo sulla progressione delle complicanze nel soggetto diabetico conrisultati abbastanza sovrapponibili: il miglior controllo glicemico possibile ottenutonegli studi in oggetto è in grado di prevenire o arginare la progressione dellecomplicanze microvascolari, ma non influenza in modo significativo quellemacrovascolari. Fatto è che la patogenesi della macroangiopatia diabetica, edell’aterosclerosi in genere, è multifattoriale e l’iperglicemia rappresenta uno deifattori in gioco, forse neppure il più importante dal punto di vista quantitativo.Se i nostri margini di intervento sono limitati, a causa dell’inadeguatezza del

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trattamento antiperglicemico attuale, della scarsa incisività dei diabetologi, o perchéi pazienti non aderiscono puntualmente al trattamento (ma potrebbero esserci altrimotivi), allora è fondamentale focalizzare l’attenzione anche su altri obiettiviperseguibili che hanno mostrato nel recente passato di abbattere l’elevata mortalitàcardiovascolare associata al diabete.Oggi sappiamo che il controllo della pressione arteriosa è in grado di ridurre ilrischio cardiovascolare nel paziente diabetico. Cosa non da poco, visto che circa lametà dei pazienti con diabete 2 è ipertesa. Al di là delle sterili polemiche che hannoaccompagnato il problema della scelta del farmaco anti-ipertensivo ideale nelsoggetto diabetico, i risultati di alcuni studi d’intervento con un numerosufficientemente ampio di soggetti diabetici (SHEP, HOT, UKPDS, SYST-EUR,CAPPP) permettono di trarre alcune conclusioni di carattere generale.• Al pari del soggetto non diabetico, la riduzione della pressione arteriosa riduce ilrischio cardiovascolare del paziente diabetico.• I livelli ottimali cui bisogna tendere sono un poco più bassi nel diabetico (130/70mmHg) rispetto alla popolazione generale (140/80 mmHg).• La riduzione del rischio cardiovascolare dipende più dal valore di pressionearteriosa raggiunto in corso di trattamento che dal farmaco utilizzato.• È spesso necessario associare più farmaci (in media 2-3 farmaci) per raggiungerel’obiettivo.È difficile immaginare che queste conclusioni passano subire modifiche significativenel prossimo futuro; in tal senso, esse potrebbero rappresentare una base dipartenza per quegli studi futuri di rifinimento della terapia anti-ipertensiva idealenel paziente diabetico.Un altro entusiasmante aspetto che ha caratterizzato la storia recente dell’interventofarmacologico nel diabete riguarda i lipidi. I mass media scientifici hanno a ragionerichiamato l’attenzione del mondo medico sull’abbattimento del rischiocardiovascolare associato alla riduzione dei livelli di colesterolo. Anche in questocaso, i vari studi di intervento effettuati con statine (4 S, CARE, LIPID) hanno fattoemergere il convincimento che nei pazienti con malattia coronarica nota la riduzionedei livelli di colesterolo LDL rappresenta una strategia efficace nel ridurre la mor-talità cardiovascolare e quella totale (in media del 25-35%). Al pari di quanto giàfatto per l’ipertensione, potrebbe essere utile tracciare dei punti di riferimento per lariduzione del rischio lipidico nella popolazione diabetica.• Le concentrazioni di colesterolo LDL nei soggetti diabetici con storia di eventicardiovascolari debbono essere mantenute a livelli più bassi possibili,verosimilmente a 100 mg/dL.• La riduzione del livello di rischio cardiovascolare è strettamente legata allariduzione dei livelli di colesterolo LDL e marginalmente al tipo di statina utilizzata.• Benché esistano dati epidemiologici che il soggetto diabetico potrebbeavvantaggiarsi dalla riduzione del colesterolo LDL più del soggetto non diabetico inprevenzione primaria, non esistono attualmente dati a favore di tale possibilità.• Il colesterolo LDL è uno dei fattori che connotano il rischio lipidico: interventi sulcolesterolo HDL e sui trigliceridi appaiono altresì importanti nel soggetto diabetico.Qualcuno ha asserito che il controllo dei fattori di rischio (principalmenteipertensione arteriosa e dislipidemia) potrebbe abbattere la mortalitàcardiovascolare in una quota forse superiore al 50% dei pazienti diabetici.Considerata l’attuale insoddisfacente capacità a controllare in modo rigidol’iperglicemia diabetica, questa stimolante prospettiva sembra particolarmenteindicata per il paziente diabetico che ancora paga un pesante tributo alle malattiecardiovascolari. L’auspicio resta quello di sempre: controllo per quanto possibiledella glicemia a digiuno e delle escursioni glicemiche giornaliere, e controllo stretto,

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certamente più aggressivo di quello che dedichiamo al soggetto non diabetico, perquei fattori di rischio identificabili e trattabili. Un tale pragmatismo apparegiustificato dall’evidenza che l’intervento terapeutico sui fattori di rischio nelpaziente diabetico riesce a sortire risultati più eclatanti rispetto al paziente nondiabetico, probabilmente da ricondurre al più elevato rischio cardiovascolare di baseche caratterizza il diabete. È tempo di curare il diabete.

BIBLIOGRAFIA

Curb JD, et al: JAMA 276, 1886, 1996Hansson L, et al: Lancet 351, 1755, 1998UKPDS 38: Br Med J 317, 703, 1998Tuomilehto J: NEJM 340, 677, 1999Hansson L, et al: Lancet 353, 611, 1999Pyorälä K, et al: Diabetes Care 20, 614, 1997Goldberg RB, et al: Circulation 98, 2513, 1998The Lipid Study Group: NEJM 339, 1349, 1998

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BUON CONTROLLO METABOLICO E DIABETE DI TIPO 1

Gianfranco PaganoDipartimento di Medicina Interna, Università degli Studi di Torino

Le ragioni per perseguire un buon controllo metabolico, soprattutto nel diabete ditipo 1, malattia che per lo più insorge in giovane età, sono molteplici e ormaichiaramente dimostrate. La prima è che la durata della malattia è molto lunga, perlo più di decenni e quindi la terapia deve mirare non solo a conseguire e mantenereun buon stato di salute, ma anche a prevenire le complicanze a lungo termine,tipiche del diabete non compensato.Il prof. Giuliano nella sua precedente relazione ha puntualizzato le conseguenzebiochimiche della iperglicemia cronica e ha dato un razionale all’obiettivo dimantenere le glicemie nel diabetico il più vicino possibile a quelle del non diabetico.Io vi ricorderò qui in rapida successione gli studi controllati che di recente hannopermesso di dimostrare l’efficacia, e tutto sommato la buona accettabilità da partedei pazienti, della terapia ottimizzata del diabete di tipo 1.Una serie di approcci di terapia ottimizzata nel diabete di tipo 1 con complicanze inatto era stato avviato in Europa e in USA negli anni ’70-80 con risultati per lo piùincerti e talora contraddittori. Comunque lavori come il Kroc Study e lo Steno Study1 e 2 rimangono dei riferimenti importanti per le successive ulteriori acquisizioni. Inquesti studi veniva per lo più riportato un peggioramento quando veniva iniziato iltrattamento insulinico più stretto, cui però seguiva un miglioramento quando iltrattamento ottimizzato veniva protratto per un anno e mezzo o due anni. Unaaccurata metanalisi di 16 studi randomizzati è stata pubblicata nel dicembre 1993 daWang e coll. (1), dimostrando che: il rischio di progressione della retinopatia dopo2-5 anni di terapia intensiva risultava significativamente ridotto (OR 0,49, p=0,011)così come quello della nefropatia (OR 0,34, p<0,001). In questi studi peròl’ottimizzazione della terapia insulinica veniva ottenuto con infusione sottocutaneacontinua di insulina, con frequenti e gravi episodi ipoglicemici e talora episodi dichetoacidosi.Un deciso passo avanti nella dimostrazione che il compenso glicemico più strettopoteva sortire risultati positivi a distanza è stato fatto dallo studio di Stoccolma,pubblicato nel 1993 pochi mesi prima dello studio DCCT (2). Lo studio svedesevalutava la progressione della retinopatia e della nefropatia in circa 100 diabetici ditipo 1 avviati per la metà a un trattamento convenzionale (1-2 somministrazioni diinsulina al giorno e controlli ambulatoriali quadrimestrali) e per l’altra metà atrattamento intensivo (adeguata istruzione, 3 o più iniezioni sottocute di insulina aldì nell’82% dei casi, controllo assiduo in ambulatorio e frequenti contatti telefonici).Dopo 7,5 anni di studio l’analisi dei due gruppi permetteva di dimostrare unmiglioramento del compenso glicemico nel gruppo a trattamento intensivo(emoglobina glicosilata 7,1±0,7% contro 8,5±0,7% a fine trattamento) e una menograve evoluzione delle diverse complicanze: sviluppo di retinopatia grave,necessitante di fotocoagulazione, in 12 pazienti in trattamento intensivo rispetto a27 nel trattamento standard; albuminuria sviluppata in un solo paziente del gruppointensivo contro 9 del gruppo standard; minore evoluzione della neuropatia

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diabetica. Gli autori concludevano che il trattamento insulinico intensivo è in gradodi ritardare lo sviluppo delle complicanze microvascolari nei diabetici di tipo 1.La dimostrazione più convincente dell’utilità del più stretto controllo glicemico èperò stata data qualche mese dopo dalla pubblicazione dello studio DCCT, tropponoto per essere oggi riportato in dettaglio a dei diabetologi (3). La validità dellostudio sta innanzi tutto nel disegno accurato, che ha previsto 4 gruppi diosservazione nel tempo: due a trattamento intensivo (rispettivamente senza segni di

retinopatia o con iniziale retinopatia) edue a trattamento convenzionale (con osenza retinopatia). La numerosità dellacasistica è stata più che adeguata perdimostrare gli obiettivi (1.441 pazienti intotale) così come la durata dello studio (6,5anni). Nella coorte di prevenzioneprimaria la terapia intensiva ha ridotto del76% la comparsa di retinopatia rispettoalla coorte a trattamento convenzionale,mentre nella coorte di prevenzionesecondaria la terapia intensiva ha ridotto laprogressione della retinopatia del 54% (e

del 47% lo sviluppo di grave retinopatia) rispetto alla coorte a trattamentoconvenzionale. Nelle due coorti combinate, la terapia intensiva ha ridotto del 39% lacomparsa di microalbuminuria, del 54% di macroalbuminuria e del 60% laneuropatia clinica in paragone alla coorte a trattamento convenzionale. Il lavoro,

e i molti interventi successivi, hannoenfatizzato che questi vantaggi sono statipagati con una elevata frequenza diepisodi ipoglicemici gravi, da 2 a 3 voltepiù frequenti nella coorte a trattamentointensivo. Il questionario sulla qualità dellavita, applicato nel corso dello studio, haperò smentito che questi rischio e glialtri condizionamenti che il protocolloimponeva ai pazienti (rilievo glicemicoprima di ogni iniezione di insulina edurante la notte, frequenti visite am-bulatoriali) abbiano peggiorato la qualitàdi vita dei pazienti in trattamento in-tensivo.Dallo studio DCCT e dai suoi commentipresentati in varie sedi, anche nazionali,sono emerse delle nuove linee guida chericalcano quanto attuato dai ricercatoristatunitensi, cercando di applicarlo alla

gestione quotidiana dei diabetici di tipo 1 (4). Possiamo brevemente riassumere nellatabella I queste componenti del trattamento intensivo che sono entrate nella praticaterapeutica del diabete insulino-dipendente.Gli ottimi risultati dimostrati dallo studio hanno permesso alle diverse Societàscientifiche diabetologiche di proporre linee di comportamento per l’applicazionedel trattamento intensivo del diabete di tipo 1. Se ne ricorda brevemente il razionalenella tabella II.I vantaggi che possono derivare al paziente dall’applicazione di un trattamentointensivo sono riassunti in tabella III.

• personalizzazione del trattamento medico• frequenti controlli domiciliari della glicemia (possibilmente prima

di ogni somministrazione di insulina)• variazione della dose di insulina a seconda dei fabbisogni presunti

del paziente (variazione del pasto, attività fisica extra, ecc.)• frequenti contatti del pazienti con il tema diabetologico• programma articolato di istruzione del paziente• periodici controlli della validità dei rilievi glicemici (dosaggio

dell’HbA1c)

Tabella IComponenti del

trattamento intensivo

TRATTAMENTO INTENSIVO DEL DIABETEÈ un modo di trattamento dei diabetici che ha come obiettivo ilraggiungimento e il mantenimento di una glicemia il più vicinopossibile a quella normale, impiegando tutti i mezzi disponibili perottenere questo risultato.

CONTROLLO GLICEMICO VICINO A QUELLO NORMALEGlicemia giornaliera media 150 mg/dl, corrispondente a livelli diemoglobina glicata 1% al di sopra del limite superiore di normalitàdi quel laboratorio.

TEAM DIABETOLOGICOGruppo di operatori sanitari che lavorano assieme al paziente perraggiungere e mantenere il controllo glicemico vicino a quellonormale. Comprende, oltre al paziente, il diabetologo, l’infermierespecializzato, il dietista, un esperto di problemi psicologici e glispecialisti di volta in volta richiesti dal singolo caso.

Tabella II

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Sono stati anche evidenziati alcuni eventi avversi del trattamento intensivo, che sipossono ricondurre a una eccessiva insulinizzazione: rischio di più frequenti e piùgravi episodi ipoglicemici, talora anche inavvertiti, e aumento del peso corporeo. Inalcuni soggetti, emotivamente instabili,l’attenzione eccessiva al raggiungimento-mantenimento degli obiettivi glicemicipuò comportare uno stato di ansia, unaeccessiva preoccupazione per il propriostato fisico e il rischio di identificare ne-gli eventuali fallimenti terapeutici il fa-llimento della propria impostazione divita. Ne deriva che va sempre posta unaparticolare attenzione alla personalità delsoggetto diabetico prima di stabilireprogrammi terapeutici particolarmenteimpegnativi. Un supporto psicologico puòessere utile in alcuni casi selezionati.Sono state riconosciute dall’American Diabetes Association alcune controidicazionial trattamento insulinico intensivo, che vengono riassunte in tabella IV.La conclusione di questo breve intervento non può non prendere in considerazionedue aspetti importanti del problema discusso: la globalità dell’approccio terapeuticoe il ruolo delle strutture diabetologiche.Il primo punto è già implicito nel titolo della relazione: si parla dell’importanza delcontrollo metabolico e non soltanto di quello glicemico. Mentre il DCCT e altri studihanno mirato l’attenzione sul problema glicemie e livelli di emoglobina glicata, siricorda che a tempi lunghi sono importanti anche altre componenti del compenso,dai livelli di trigliceridi e di colesterolo nelle diverse frazioni, ai livelli di fibrinogenoe altre componenti dell’emocoagulazione e alla pressione arteriosa. Quest’ultimodato, anche se ovviamente non riferibile direttamente al controllo metabolico, èdi primaria importanza nella genesie progressione delle complicanze siaretiniche, sia renali, sia macrovascolari edeve essere considerato con attenzionein tutti i diabetici a ogni incontro am-bulatoriale.Infine, un recente Progetto per l’or-ganizzazione dell’assistenza al diabete,preparato da sei Società scientifichecongiunte [Società Italiana di Diabetologia(SID), Associazione Medici Diabetologi(AMD), Società Italiana di Farmacologia(SIF), Società Italiana di MedicinaGenerale (SIMG), Società Italiana diMedicina Interna (SIMI), Società Italianadi Gerontologia e Geriatria (SIGG)], hadefinito il ruolo integrato di 3 livelli di assistenza: i medici di medicina generale (1°livello), le unità operative di diabetologia e malattie metaboliche (2° livello) e le unitàoperative autonome di diabetologia e malattie metaboliche (3° livello). È solo dallainterazione delle tre componenti che potranno realizzarsi programmi diprevenzione, diagnosi precoce e terapia del diabete e delle sue complicanze, efficacied efficienti, organizzati su scala regionale seguendo linee guida comuni (5).

• sensazione fisica ed emotiva di sentirsi bene e in “buon controlloglicemico”

• riduzione del rischio di sviluppo/progressione delle complicanzemicrovascolari

• riduzione del rischio di morbilità e mortalità materna e fetale ingravidanza

• riduzione del rischio di malformazioni congenite fetali• potenziale effetto di riduzione del rischio macroangiopatico• accrescimento normale nell’infanzia• sicurezza nell’affrontare i problemi del diabete e i cambi di stile di

vita

Tabella IIIVantaggi di un

trattamento intensivo

• bassa aspettativa di vita• disinteresse del paziente ad attuare un programma di terapia

intensiva• motivi sociali (incapacità di apprendere le tecniche di attuazione -

indisponibilità ad attuare le tecniche previste - impossibilità aseguire il programma degli incontri)

• presenza di gravi complicanze microvascolari (cecità,disautonomia grave, insufficienza renale cronica)

• bambini (età prepubere)• presenza di complicanze cardiovascolari o cerebrovascolari in

fase attiva)• team diabetologico inesperto

Tabella IVControindicazioni

al trattamentoinsulinico intensivo

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BIBLIOGRAFIA

1. Wang PH, Lau J, Chalmers TC: Meta-analysis of effects of intensive blood-glucosecontrol on late complications of type I diabetes. Lancet 341, 1306-1309, 1993

2. Reichard P, Nilsson B-Y, Rosenqvist U: The effect of long-term intensified insulintreatment on the development of microvascular complications of diabetes mellitus. NEngl J Med 329, 304-309, 1993

3. The Diabetes Control and Complications Trial Research Group: The effect of intensivetreatment of diabetes on the development and progression of long-term complicationsin insulin-dependent diabetes mellitus. N Engl J Med 329, 977-986, 1993

4. Autori vari: Implications of the DCCT. Diabetes Reviews 2, 349-436, 19945. Progetto per l’organizzazione dell’assistenza al diabete dell’adulto. Ed. Health, Milano,

1998, p. 1-142

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ATTUALITÀ E PROSPETTIVE NEL DIABETETIPO 1: PREVENZIONE PRIMARIA

Paolo PozzilliUniversità Tor Vergata, Libera Università Campus Bio-Medico, Roma

Il tema della prevenzione del diabete di tipo 1 è di grande attualità. L’argomento èestremamente affascinante e vi sono molti dati a disposizione che indicano che lastrada intrapresa è promettente. In teoria vi sono tre approcci di prevenzione cheincludono la prevenzione primaria, secondaria e terziaria.La prima si definisce come rivolta ad identificare i soggetti a rischio per diabete ditipo 1 alla nascita ed entro i primi due anni di vita e a prevenire l’effetto diabetogenodell’ambiente al fine di bloccare il processo che porterà alla distruzione delleβ−cellule. Per prevenzione secondaria si intende invece l’identificazione di queisoggetti in cui il processo di malattia ha già avuto inizio, in altre parole soggetti conanticorpi anti-GAD, anti-tirosin-fosfatasi (anti-IA-2) e nei quali nel corso degli annicomparirà molto probabilmente una ridotta tolleranza al glucosio prima ed il diabtedi tipo 1 poi. La prevenzione terziaria ha la finalità di ridurre lo sviluppo dellecomplicanze.In questa presentazione sottolineerò l’importanza della prevenzione primaria.Entriamo subito in argomento con l’esempio del Lazio che si può considerare unaregione di media grandezza con 50 mila neonati l’anno.Grazie all’Eurodiab sappiamo che circa lo 0,3% di tale popolazione svilupperà ildiabete di tipo 1. In realtà una percentuale più bassa, lo 0,1-0,2% sarà affetta dallamalattia entro l’età di 15 anni e la restante parte di tale percentuale entro i 30-40anni di età. Sappiamo anche che il 10% dei soggetti con diabete di tipo 1 presentauna storia familiare di malattia, ma non mi soffermerò su questo gruppo in quantotali soggetti sapendo di avere un familiare di primo grado con diabete di tipo 1 sonopiù facilmente identificabili; laddove dobbiamo concentrare la nostra attenzione èsul restante 90% della popolazione generale, senza storia familiare di diabete: lamalattia quando compare lo fa in forma sporadica con grande sorpresa per tutti.La domanda che si pone è dunque come possono essere identificati tali soggetti.Grazie allo screening HLA è possibile valutare i soggetti portatori dell’HLA di rischo(sequenze aplotipiche HLA DQ 0602 e/o 0201) che nella popolazione generalerappresenta circa il 2,2%. Tuttavia in questa popolazione selezionata solo 1 caso su15 svilupperà la malattia. Bisogna, però, tenere presente la restante parte dellapopolazione cioè il 97,8% che rappresenta il 55% dei casi futuri di diabete di tipo 1,una percentuale ancora molto alta, ma in termini assoluti significa che solo 1 su 455tra quelli che non possiedono il genotipo a rischio HLA DQ 0302 e/o 0201svilupperà la malattia. Cosa si concluderà dunque? Se vogliamo in qualche modointervenire, dobbiamo prima identificare i soggetti con il genotipo a rischio per ildiabete di tipo 1.A tale proposito il Ministero della Sanità ha finanziato a partire dal 1999 uno studiomulticentrico, rivolto allo screening dei neonati portatori del marker genetico dirischio di malattia.Il programma verrà condotto su una popolazione di 10 mila neonati entro il primoanno di vita. Questo potrebbe essere veramente lo strumento fondamentale per

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poter iniziare un trial di prevenzione primaria del diabete di tipo 1 anche in Italiasulla scia di quanto in corso in Finlandia.I soggetti senza suscettibilità genetica potranno venire a contatto con i fattoriambientali, ma non svilupperanno la malattia; quelli invece con suscettibilitàgenetica, potranno andare incontro a diversi destini: diventare diabetici oppurecontinuare ad essere non diabetici nonostante il rischio genetico. In quest’ultimocaso, le possibilità sono due, o che il soggetto non sia entrato a contatto con i fattoriambientali oppure che, malgrado l’esposizione, abbiano operato meccanismiprotettivi. Infatti, nonostante la formazione di autoanticorpi anti-β−cellule, alcuni

soggetti rimangono per molti anni con unanormale tolleranza al glucosio.Avendo quindi a disposizione il markergenetico è possibile, attraverso loscreening anticorpale, focalizzare meglio lapopolazione da seguire nel tempo.In Italia la prevalenza del diabete di tipo 1è compresa tra lo 0,2 e lo 0,3%:impiegando uno screening della po-polazione generale per due anticorpi (anti-IA-2 e anti-GAD) il rischio di malattia èdel 40%. Con tre anticorpi, includendoquelli anti-insulari (ICA), la positività nellapopolazione è dello 0,3%, una percentualesovrapponibile a quella della prevalenzadella malattia in Italia. La presenza di unsolo anticorpo non è predittiva di diabetedi tipo 1 in quanto è riscontrabile nel 7%

della popolazione. Quindi, la combinazione dei marker genetico e immunologico(anticorpi anti-GAD e anti-IA-2) apre una nuova prospettiva all’inizio del millennioche è quella della predizione quindi della prevenzione primaria del diabete di tipo 1.Una volta identificato un soggetto geneticamente a rischio di diabete di tipo 1 entroil primo anno di vita, poiché portatore dell’aplotipo HLA di suscettibilità, devonoentrare in gioco uno o più fattori ambientali che mottono in moto il processoautoimmune che porta alla distruzione delle β-cellule, ipotesi questa che sembraassai verosimile nella patogenesi del diabete di tipo 1.Quali sono i fattori ambientali? Diversi virus sono stati implicati come fattorieziologici del diabete di tipo 1. Tra questi di particolare interesse risultano il virusdella parotite, il citomegalovirus e gli enterovirus. Per quanto riguarda questi ultimimerita attenzione la famiglia dei Coxsackie B4 dato che è stata dimostrataun’omologia di sequenza tra la proteina P2-C del Coxsackie virus e la decarbossilasidell’acido glutammico (GAD), noto antigene del diabete di tipo 1.Numerose ricerche epidemiologiche suggeriscono che l’introduzione precoce delleproteine contenute nel latte vaccino in un soggetto geneticamente suscettibile aldiabete di tipo 1 possa dare inizio al processo autoimmune che porta alla distruzionedelle β-cellule pancreatiche. L’ipotesi da cui si parte è molto semplice. Il neonatoviene esposto al latte vaccino molto precocemente, quest’ultimo ha caratteristiche ingrado di favorire l’induzione dell’autoimmunità. Dalle esperienze condotte in vitrosi sa che quando si vogliono far crescere cloni di cellule nei confronti di un antigene,questi devono essere continuamente stimolati con lo stesso antigene.Quindi, se si induce la risposta immunitaria precocemente durante la vita e sicontinua a dare il latte nell’infanzia e nell’adolescenza è chiaro che si stimolano quei

Prevenzione primariaIntervento alla nascita in soggetti normali, controllando l’effetto dipossibili fattori eziologici:– virus diabetogeni (enterovirus)– limitazioni/cambiamenti nella dieta (rimozione del latte vaccino

nel primo anno di vita e controllo della quantità consumata)

Prevenzione secondariaIntervento durante la fase pre-diabetica in soggetti con marcatoripositivi di malattia immunologici/metabolici (anticorpi anti-GAD eanti-IA2) impiegando nicotinamide/insulina.

Prevenzione terziariaIntervento alla diagnosi della malattia per proteggere la massa e lafunzione delle β-cellule residue.

Tabella IPrevenzione del

diabete di tipo 1:definizione

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cloni cellulari rivolti verso antigeni del latte vaccino e che cross-reagiscono conantigeni presenti sulle β-cellule mantenendo la risposta immunitaria specifica.Sono ben note le differenze del latte vaccino rispetto al latte umano. Medianteelettroforesi su SDS, si può notare come fondamentale la β-caseina, la β-lattoglobulina del latte vaccino (non presente nel latte umano) abbianocaratteristiche profondamente differenti.Ne consegue che se si induce una risposta immunitaria nei confronti della β-lattoglobulina o della β-caseina, molti dei cloni linfocitari generatisi, possano cross-reagire con antigeni espressi dalla β-cellula. Fra questi, basti pensare al trasportatoredel glucosio, il GLUT-3, che presenta un’omologia di 5 aminoacidi con la β-caseinao alla proteina ABBOS (dell’albumina bovina) con omologia di sequenza con unantigene espresso sulla β-cellula.Il nostro gruppo pubblicò su Lancet nel 1996 che la β-caseina del latte vaccino vienericonosciuta come antigene dai linfociti dei diabetici di tipo 1.Più di recente è stato dimostrato come la risposta alla β-caseina è elevata anche neiparenti di primo grado dei diabetici insulino-dipedenti. Ciò è estremamenteinteressante, in quanto suggerisce che quando si ha la suscettibilità genetica a talemalattia si risponde nei confronti di queste proteine in maniera abnorme, tanto è veroche ciò non si verifica nei soggetti di controllo non suscettibili al diabete di tipo 1.A questo punto vorrei sottolineare e discutere quali sono gli argomenti a favore econtrari all’ipotesi «latte vaccino».I primi, ben noti dai dati che emergonodalla letteratura, dimostrano che c’è unaumento del rischio di diabete tipo 1 neisoggetti che non sono stati allattati al senosoprattutto quando il latte vaccino vieneintrodotto entro i primi tre mesi di vita.Altri dati importanti riguardano i livellielevati di anticorpi e, soprattutto da unpunto di vista patogenetico, il fatto chealcune proteine del latte hanno omologiadi sequenza con alcuni antigeni presentinelle β-cellule.Per quanto riguarda gli argomenti contrari,alcuni studi epidemiologici non mostranoche tale rischio sia aumentato; in termininumerici su 46 studi condotti finora, 38 sono a favore e 8 contro.La mia posizione è certamente in parte influenzata dal fatto che lavoro suquest’argomento e che il latte vaccino sia uno dei fattori ambientali coinvolti nellapatogenesi della malattia. Quest’ultimo, può non essere il più importante o il piùantigenico, ma certamente è quello con cui più frequentemente si viene a contatto.Tant’è vero che se valutiamo il consumo di latte vaccino in Italia e l’incidenza didiabete di tipo 1 (dati publicati su Diabetes Care nel 1993) la regione dove si consumapiù latte è la Sardegna (consumo medio di 90 litri di latte/persona/anno) con la piùalta incidenza di malattia, mentre dove se ne consuma di meno è la Campania(consumo medio 40 litri di latte persona/anno) con la più bassa incidenza di diabetedi tipo 1 sul territorio nazionale.Cosa possiamo fare, sul piano pratico, per quanto riguarda la prevenzione primaria?Un primo studio di prevenzione primaria? Un primo studio di prevenzione primariaè iniziato in Finlandia lo scorso anno e si basa sulla rimozione di alcune proteine dellatte vaccino; ovviamente ci vorranno 10 anni per capire se l’incidenza di diabete ditipo 1 sia ridotta grazie a questo tipo di intervento fatto alla nascita. I criteri per essere

Proteine virali Antigeni β-cellulari Evidenze

Derivato dal Proteina di 38 KDa, Cross-reazionecitomegalovirus non caratterizzato immunologica

biochimicamente

Proteina del capside Proteina di 52 KDa, Cross-reazionedel virus della non caratterizzato immunologicarosolia biochimicamente

Aminoacidi 32-47 Aminoacidi 254-270 Grado di identità 47%della proteina P2-C del GAD65 Grado di similitudinedel Coxsackie B virus 71%

Proteina p73 Insulina Cross-reazioneretrovirale immunologica

Tabella IIOmologia

molecolare traproteine virali e

autoantigeniβ-cellulari

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introdotti nello studio sono quelli di avere un parente diabetico di tipo 1. Si tratta diuno studio prospettivo randomizzato in doppio cieco, dove i neonati che non sonoallattati, vengono randomizzati a due diversi tipi di latte formula, un idrolisato diproteine e un latte formula comune.È bene chiarire questo concetto, due sono le forme di idrolisi che vengono eseguitesul latte formula: un tipo che contiene proteine ad alto peso molecolare da 8 a 40 Kdche rimangono antigeniche; un altro tipo contenente proteine al di sotto di 8 Kd cheha un sapore estremamente spiacevole e rappresenta uno dei problemi pratici nelsomministrare questo tipo di alimento a neonati.

Già 5 anni fa quando ancora molti deglistudi riguardo all’antigenicità di alcuneproteine del latte non erano statipresentati, l’American Academy ofPediatrics, suggeriva l’eliminazione diprodotti di latte commerciale e di prodottiche contenevano latte vaccino durante ilprimo anno di vita in famiglie con una fortestoria di diabete di tipo 1. La posizione dame presa concorda con quella dellaComunità Europea. Dopo un convegno aBarcellona dello scorso settembre, èemerso che la formula ordinaria del lattenon è raccomandabile per i neonati nati damamme con storia familiare per il diabetedi tipo 1.

Ecco perché il tipo di alimentazione deve essere valutato seriamente in un soggetto arischio di malattia.Il valore nutrizionale degli idrolisati confrontato con il latte formula, necessitaovviamente di ulteriori studi: gli idrolisati infatti non hanno un alto poterenutrizionale e inoltre il sapore non è gradevole. L’alternativa è quella del latte di soia,ma questo pone dei problemi soprattutto se dato a bambini di sesso maschile a causadell’alto contenuto di fitoestrogeni. Per di più gli studi condotti hanno messo inevidenza come una serie di fattori quali la maturazione dell’epitelio intestinale edell’intestino dipenda fondamentalmente dall’uso di proteine ad alto pesomolecolare che possono essere antigeniche.Quindi bisognerà cercare di identificare un modo per eliminare alcune delle proteinepotenzialmente diabetogene.In conclusione, quali sono le possibilità che abbiamo oggi per prevenire il diabete ditipo 1? Il latte con caratteristiche non diabetologiche, o deprivato di alcunecomponenti diabetogeniche certamente può essere una possibilità di grandeinteresse.Con questo non voglio dire che bisogna privarsi di un tale alimento, ma certamenteil dato emergente è che anche la quantità di latte consumata possa essere un fattorepromuovente laddove sia già stato innescato il meccanismo autoimmune.Dunque, se identifichiamo il soggetto a rischio di diabete di tipo 1 attraverso il markergenetico, è probabile in futuro riuscire a bloccare questo processo di malattia e credoche la ricerca ormai estremamente avanzata sia in Europa che negli Stati Uniti miri aquesto e possa fornirci a breve termine delle risposte precise.

1. Diversità strutturale con la β-caseina umana;2. La β-caseina bovina è probabilmente la frazione del latte vaccino

che promuove il diabete di tipo 1 nel topo NOD, noto modelloanimale di malattia;

3. Una risposta immunitaria specifica, sia cellulare che umorale neiconfronti della β-caseina bovina è dimostrabile nel 50% deipazienti con diabete di tipo 1 al momento della diagnosi;

4. Una reattività T-cellulare nei confronti della β-caseina bovina èriscontrabile nei parenti di primo grado di soggetti con diabete ditipo 1;

5. Omologia di sequenza tra la β-caseina bovina e il trasportatoredel glucosio (GLUT-2)

Tabella IIIβ-caseina e

latte vaccino

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IL TRAPIANTO DI PANCREAS E DI ISOLEDEL LANGERHANS NEL PAZIENTE DIABETICORossana Caldara, Antonio SecchiIstituto Scientifico San Raffaele - Università degli Studi di Milano

IntroduzioneIl trapianto di tessuto pancreatico rappresenta una modalità ottimale di trattamentodel diabete mellito insulino-dipendente permettendo di ripristinare un sistemaautoregolato di secrezione insulinica in funzione delle concentrazioni ematiche diglucosio.I primi tentativi di sostituzione della secrezione endocrina pancreatica risalgono al1892 ad opera di Minkowski (1) che innestò frammenti di tessuto pancreatico nelsottocute di cani resi diabetici prevenendo la comparsa della glicosuria. Nell’uomo ilprimo tentativo descritto è quello effettuato da Williams (2) che trapiantò tessutopancreatico ovino in un soggetto diabetico chetoacidosico. Questo primo approcciorisultò essere fallimentare ma rappresentò il primo passo che poi permise a Lillehei(3), nel 1966, di eseguire il primo trapianto combinato di rene e pancreas in unpaziente diabetico-uremico in cui venne così ristabilita l’insulino-indipendenza.Un’altra opzione terapeutica che nel corso degli ultimi anni è stata sperimentata è iltrapianto di insule del Langerhans; i risultati ottenuti sino ad ora sono incoraggiantianche se non ancora paragonabili con quanto già accertato per il trapianto dipancreas in toto (4).

IndicazioniL’affinamento delle tecniche chirurgiche e dei protocolli immunosoppressivi hadeterminato un aumento progressivo, nel tempo, del numero di trapianti eseguiti eattualmente si possono identificare tre diverse popolazioni di pazienti che possonogiovare di tale approccio terapeutico: pazienti diabetici uremici candidabili altrapianto simultaneo di rene e pancreas, pazienti diabetici uremici già sottoposti alsolo trapianto di rene e pazienti diabetici, non uremici, che possono beneficiare delsolo trapianto di pancreas. Per quanto concerne quest’ultima popolazione dipazienti è ancora oggi in discussione se i benefici ottenuti dall’esecuzione deltrapianto siano sufficienti a giustificare i rischi secondari all’intervento chirurgico ealla terapia immunosoppressiva. La risposta a tale quesito è difficile, ma nondobbiamo dimenticare che in alcune situazioni la «malattia diabetica» di per sé è giàuna condizione che pone la persona «a rischio» come nel caso delle ipoglicemieasintomatiche o in quelle condizioni di «non accettazione» della malattia dove ilrifiuto della terapia insulinica può essere considerato come una lenta forma disuicidio.I pazienti che attualmente vengono considerati idonei all’inserimento in lista ditrapianto sono soggetti affetti da diabete mellito insulino-dipendente di etàcompresa tra i 18 e i 60 anni. L’idoneità a tale procedura terapeutica vieneconfermata sulla base di accertamenti clinici e strumentali (bilancio pre-trapianto)

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svolti a definire le condizioni cardiovascolari del soggetto e il grado raggiunto dallecomplicanze secondarie alla malattia diabetica. I criteri di esclusione sonorappresentati da una condizione di grave cardiomiopatia dilatativa, di gravecardiopatia ischemica e vasculopatia cerebrale con pregressi accidenti neurologici.La sopravvivenza dei pazienti delle 3 popolazioni citate è sovrapponibile a 5 anni daltrapianto mentre, per quanto riguarda la sopravvivenza dei pancreas, si osserva unapercentuale più elevata in caso di trapianto simultaneo con il rene rispetto altrapianto dissincrono (dopo rene) o trapianto isolato (5).Per quanto concerne il trapianto di insule del Langerhans i criteri di selezione deiriceventi sono sostanzialmente sovrapponibili a quanto esposto per il trapianto dipancreas in toto.

Tecniche chirurgicheIl problema più importante dal punto di vista chirurgico per quanto concerne iltrapianto di pancreas è la diversione delle secrezioni esocrine. Tre sono le tecnicheattualmente più utilizzate: la diversione vescicale, la diversione enterica el’occlusione dei dotti.Nel primo caso il pancreas viene prelevato unitamente a un patch duodenaleappartenente allo stesso donatore (6). Tramite tale patch è possibile eseguire unaanastomosi tra duodeno del donatore e vescica del ricevente permettendol’eliminazione dei succhi pancreatici in vescica. Tale tecnica presenta un vantaggioche è quello di poter monitorare la funzione pancreatica, ed eventualmente porrediagnosi di rigetto, mediante dosaggio delle amilasi urinarie. Le complicanze delladiversione vescicale sono quelle relative alla perdita dei bicarbonati pancreatici conle urine e l’insorgenza di cistiti chimiche determinate dall’attivazione degli enzimipancreatici in vescica. La perdita dei bicarbonati in vescica viene tamponatamediante l’avvio di una terapia supplementare di bicarbonato di sodio per via oraleallo scopo di prevenire l’insorgenza di un quadro di acidosi. Per quanto concerne lecistiti chimiche, quando queste si ripetono nel tempo comportando macroematuria,inducono a porre l’indicazione di modificazione chirurgica della diversionepassando dalla derivazione vescicale alla enterica.La diversione enterica prevede il confezionamento di una anastomosi tra un’ansaintestinale e un patch di duodeno prelevato insieme al pancreas (7). Tale tecnica èspesso gravata da complicanze relative alla anastomosi enterica pur permettendo diconseguire una condizione più simile a quella fisiologica di secrezione pancreaticanel lume intestinale. Tra le complicanze citiamo episodi di subocclusione o diocclusione intestinale e il sanguinamento dalla sede di anastomosi.L’occlusione dei dotti, mediante l’iniezione intracanalicolare di polimeri sintetici(neoprene, prolamina, poli-isoprene) (8) consente di ottenere una fibrosi dellacomponente esocrina pancreatica con preservazione delle isole del Langerhans. Taletecnica, oggi non più molto utilizzata, risulta essere metodologicamente piùsemplice delle precedenti non prevedendo anastomosi vescicali o enteriche, ma èpenalizzata da un’alta incidenza di fistole pancreatiche. Inoltre la preparazionedell’organo prevede l’eliminazione della testa del pancreas con la preservenzione delsolo corpo e coda con conseguente riduzione del numero di isole trapiantate.Nel caso di trapianto simultaneo di rene e pancreas, il rene viene anastomizzato aivasi iliaci controlateralmente al pancreas.Un discorso a parte merita il trapianto di isole del Langerhans che prevede una faseiniziale, eseguita in laboratorio, di separazione della maggior parte delle isole dallacomponente esocrina del pancreas rispettandone l’integrità anatomica e funzionale.Il metodo di separazione prevede l’uso di un enzima litico per il connettivo

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE 29

perinsulare, la collagenasi, abbinato a una blanda dissociazione meccanica (9).Una volta ottenuto un preparato di isole soddisfacente (per numero ecaratteristiche morfofunzionali), questi viene iniettato, dopo cateterizzazione diun vaso di pertinenza del circolo portale, nel fegato. I vantaggi relativi a taletecnica sono quelli relativi a una bassissima incidenza di complicanze indottedalla manovra di cateterizzazione di vasi soprattutto se confrontata conl’incidenza delle complicanze chirurgiche del trapianto di pancreas in toto. Unaspetto peculiare del trapianto di insule è che, in alcuni casi, per ottenere unpreparato adeguato è necessario processare più pancreas provenienti da donatoridiversi. Il trapianto di insule del Langerhans viene attualmente effettuato nelpaziente diabetico uremico o contemporaneamente al trapianto di rene osuccessivamente a quest’ultimo.

ImmunosoppressionePrima di prendere in considerazione i risultati ottenuti nei soggetti sottoposti atrapianto di pancreas accenniamo brevemente alla terapia immunosoppressiva.In letteratura sono citati protocolli immunosoppressivi diversi nei diversi Centri chesi occupano di trapianto anche se i farmaci cardine, per un lungo periodo di tempo,sono stati il siero antilinfocitario, gli steroidi, l’azatioprina e la ciclosporina. Da pochianni sono disponibili anche altri preparati, tra cui citiamo il micomofetilfenolato e iltacrolimus, che permetterebbero di ridurre sensibilmente l’incidenza del rigetto afronte di minori effetti collaterali.Nel caso di trapianto di insule del Langerhans viene applicato lo stesso protocolloimmunosoppressivo del trapianto di pancreas in toto.Per quanto concerne la terapia immunosoppressiva rimangono insoluti dueproblemi fondamentali quali il rischio di infezioni, sia batteriche che virali (peresempio il citomegalovirus) e il rischio di neoplasie.Al momento del trapianto il pazienteviene avviato a terapia profilattica conpreparati quali il sulfametossazolo-trimetoprim (profilassi contro il P. carinii),la nistatina (profilassi contro la candidaorale) e il ganciclovir (profilassi contro ilcitomegalovirus). Il paziente esegue poi,dopo il trapianto, accertamenti routinarivolti a diagnosticare e quindi trattareprecocemente eventuali infezioni (peresempio urinocolture, sierologia perEpstein Barr virus o Herpes virus,antigenemia del citomegalovirus).Nei soggetti sottoposti a terapiaimmunosoppressiva è globalmenteaumentato il rischio di sviluppareneoplasia. London (10) riferisce unaumento del rischio di sviluppare untumore del 14% rispetto alla popolazionegenerale dopo 10 anni di trapianto. Tale percentuale giunge al 40% dopo 20 anni. Leforme neoplastiche più frequenti in questi pazienti sono i linfomi e le sindromilinfoproliferative, i carcinomi cutanei, il sarcoma di Kaposi, neoplasie epatobiliari e icarcinomi vulvari.

Figura 1Sopravvivenza deipazienti diabetici

uremici in attesa ditrapianto di rene e

pancreas o giàsottoposti a trapianto

(KPW: trapianto direne e pancreas in

toto; KPS: trapiantodi rene e pancreas

segmentario conostruzione dei dotti;K: trapianto di solo

rene; WL: listad’attesa)

0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

100%

Anni 1 2 3 4 5 6 7 8

KPW (82)KPS (25)K (34)WL (334)

74,6%

68,1%

63,5%

37,4%

Istituto San Raffaele - Università degli Studi di MilanoPazienti

Page 38: l'educazione terapeutica

1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE30

RisultatiDal 1985 sono stati eseguiti, presso l’Istituto scientifico san Raffaele 124, trapianti direne e pancreas e 3 trapianti di pancreas successivi a trapianto di rene. Sono statiinoltre effettuati 31 trapianti di isole del Langerhans.

RISULTATI CLINICI

Se consideriamo la popolazione dei pazienti diabetici uremici, inseriti in listad’attesa di trapianto di rene o di rene e pancreas, osserviamo che coloro cherimangono in dialisi, per difficoltà a reperire donatori compatibili o per ragioniimmunologiche, presentano una sopravvivenza inferiore rispetto a chi vienetrapiantato (fig. 1). La sopravvivenza è inoltre maggiore in chi riceve il doppiotrapianto rispetto a chi riceve il solo rene. Queste osservazioni hanno permesso diaffermare che oggi il trapianto simultaneo di rene e pancreas rappresenta unaprocedura salvavita nel paziente diabetico-uremico (11).La sopravvivenza dei reni è sostanzialmente simile sia in caso di trapiantosimultaneo di rene e pancreas che di trapianto di solo rene.La sopravvivenza dei pancreas con derivazione vescicale, che è la tecnica in cuiabbiamo maggior esperienza, è soddisfacente (80% a quattro anni e 68% a 7 anni)e ciò ci permette di confermare di essere di fronte a una tecnica non solo efficace maduratura nel tempo (11).

IMMUNOSOPPRESSIONE

Il nostro gruppo ha eseguito studi per valutare l’impatto della terapiaimmunosoppressiva sui risultati clinici relativi al trapianto di rene o di rene e pancreas.Il primo lavoro che citiamo è quello relativo all’incidenza delle neoplasie neiriceventi di doppio trapianto di rene e pancreas che risulta essere sovrapponibile aquanto descritto in letteratura (neoplasie de novo 12%) (11).Un altro aspetto che abbiamo approfondito è quello relativo alla selezione dicomponenti monoclonali che inizialmente si pensava rappresentasse una

condizione pre-neoplastica (mieloma,linfoma). In realtà si osserva che taleselezione si determina, nella maggiorparte dei casi, entro il primo annodall’intervento e che tende ad auto-limitarsi nel tempo con una completaremissione. Probabilmente tale fenomenoè più da ascriversi a una «efficacia» dellaterapia immunosoppressiva più cheall’instaurarsi di una pre-cancerosi (12).

RISULTATI METABOLICI

Il trapianto di pancreas permette diottenere un adeguato compensoglicometabolico in condizioni di insulino-indipendenza. I valori di emoglobinaglicosilata sono sostanzialmente nellanorma e i profili glicemici circadianidimostrano valori di circa 160 mg/dL

postprandiali con un conseguente recupero «over night» tale che a digiuno i valorisi aggirano intorno a 100 mg/dL. I livelli di insulina sono più elevati rispetto a quantosi osserva in fisiologia ma comunque autoregolati sui livelli glicemici (4).

Figura 2Peggioramento degli

indici relativi allavelocità di

conduzione nervosasensitiva e motoria

(NCV Index) neipazienti (24)

sottoposti a trapiantosimultaneo di rene e

pancreas dopoperdita dellafunzione del

pancreas trapiantato.Vengono riportati

anche i valori relativiall’emoglobinaglicata (HbA1c).

0

1

2

3

4

Anni 0 1 2

NCV

INDE

X

6,8±0,3 7,3±0,4 7,9±0,4HbA1C%

Trapianto di Pancreaseffetti sulle complicazioni a lungo terminePOLINEUROPATIA

Istituto San Raffaele-Università degli Studi di Milano

p=0,04

Page 39: l'educazione terapeutica

1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE 31

NEUROPATIA

Gli studi che abbiamo effettuato per quanto concerne la velocità di conduzionemotoria ci hanno permesso di osservare un miglioramento di tale parametro dopotrapianto di rene che diviene ancora più evidente dopo trapianto simultaneo di renee pancreas. Tale risultato viene ottenuto grazie alla correzione dell’uremiaunitamente al conseguimento di un normale compenso glicometabolico. Il ruolo deltrapianto di pancreas è inoltre confermato dall’osservazione che nei soggetti cheperdono nel tempo la funzione del pancreas trapiantato, quella quota dimiglioramento della velocità di conduzione motoria, che era stato raggiunto grazieall’euglicemia, viene persa nei due anni successivi (13, 14) (fig. 2).

NEFROPATIA

Gli studi a cui si fa riferimento, per quanto riguarda il ruolo del trapianto di pancreasnel prevenire l’evoluzione della nefropatia diabetica, sono quelli della Dott.ssaFioretto. Tali studi, eseguiti a Minneapolis nei riceventi diabetici di trapianto dipancreas isolato, hanno concluso che è necessario un lungo periodo di«normoglicemia», 10 anni, prima di poter osservare una regressione delle lesioniglomerulari secondarie al diabete (15).

IPERTENSIONE

Se confrontiamo pazienti diabetici trapiantati di solo rene con trapiantati di rene epancreas, tutti ipertesi prima del trapianto, si osserva che a un anno dal trapiantol’85% di chi riceve il solo rene rimane iperteso contro il 44% di chi riceve il doppiotrapianto (11) (tab. I).

RETINOPATIA

Il grado di avanzamento della retinopatia,al momento del trapianto di rene epancreas, è tale che il conseguimentodell’euglicemia non permette di miglioraredanni ormai irreversibili (16) (tab. II).

TRAPIANTO DI INSULE DEL LANGERHANS

Mentre nel caso del trapianto di pancreas èpossibile raggiungere l’insulino-indi-pendenza immediatamente dopo l’in-tervento chirurgico, questo non è altret-tanto vero per il trapianto di insule. Unavolta iniettate nel fegato, le insulenecessitano di un periodo di tempo in cuisi viene a ricreare una sorta dimicroambiente ideale che favorisce la secrezione insulinica (per es. ricostituzione diuna adeguata microcircolazione e innervazione). Quando questi processi, nonancora tutti completamente noti, sono avvenuti, il paziente presenta una gradualeriduzione del fabbisogno insulinico fino al raggiungimento, almeno in alcunipazienti, dell’insulino-dipendenza. Un caso che è stato seguito presso il nostroCentro è stato quello di una donna diabetica, già portatrice di trapianto di rene, incui l’insulino-indipendenza è stata raggiunta dopo 6 mesi dal trapianto e mantenutaper oltre 4 anni sino al decesso della paziente per infarto miocardico. Il riscontroautoptico ha permesso di identificare la presenza delle insule del Langerhans alivello epatico, libere da infiltrati linfomonocitari e con una normale distribuzione di

Istituto San Raffaele - Università degli Studi di MilanoTRAPIANTO DI PANCREAS

Effetti sulle complicazioni a lungo termine IPERTENSIONE

Pre trapianto 1 anno

Rene 100% 85%* IRI 26,0 uU/mlHbA1c 7,4%

Rene e pancreas 100% 49% IRI 15,5 uU/mlHbA1c 5,7%

*p 0,007 vs KP

Tabella IRiduzione

dell’incidenzadell’ipertensione nei

pazienti diabeticisottoposti a trapiantodi rene e pancreas osolo rene. Vengono

riportati anche ivalori relativi

all’emoglobinaglicata (HbA1c) e

all’insulinemia (IRI)dei due gruppi di

pazienti

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE32

cellule β. Alcuni pazienti, pur nonarrivando alla insulino-indipendenza,raggiungono un compenso glico-metabolico ottimale con la som-ministrazione di poche unità di insulinaai pasti principali mentre, in altri, non sidimostra alcun risultato. Restano apertiancora molti quesiti sui meccanismi cheguidano l’impianto delle isole e suifattori che possono interferire in taleprocesso (tossicità del glucosio, ruolo deiradicali liberi, la sede stessa del-l’impianto) che rendono questa pro-cedura ancora una pratica di tiposperimentale (4).

BIBLIOGRAFIA

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13. Comi G, Galardi G , Amadio S, Bianchi E, Secchi A, Martinenghi S, Caldara R, Pozza G,Canal N. Neurophysiological study of the effect of combined kidney and pancreastransplantation on diabetic neuropathy: a 2 years follow-up. Diabetologia 34 (suppl 1),S103-S107, 1991

Istituto San Raffaele - Università degli Studi di MilanoTRAPIANTO DI PANCREAS

Effetti sulle complicazioni a lungo termine RETINOPATIA

KPTX KTX

Occhi studiati 54 31

Fluorangiografiainvariati 51 (94%) 29 (94%)migliorati 2 (4%) 2 (6%)peggiorati 1 (2%) –

Acuità visivainvariati 54 (100%) 31 (100%)

Tabella IIAndamento della

retinopatia diabeticanei pazienti diabeticisottoposti a trapianto

di rene e pancreas(KPTX) o solo

rene (KTX)

Page 41: l'educazione terapeutica

1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE 33

14. Martinenghi S, Comi G, Galardi G, Di Carlo G, Pozza G, Secchi A. Amelioration of nerveconduction velocity following simultaneous kidney pancreas transplantation is due tothe glycaemic control provided by the pancreas. Diabetologia 40, 9, 1110-1112, 1997

15. Fioretto P, Steffes MW, Sutherland DER, Goetz FC, Mauer M: Reversal of lesions ofdiabetic nephropathy after pancreas transplantation. N Engl J Med 399, 2, 69-75, 1998

16. Bandello F, Viganò C, Secchi A, Martinenghi S, Caldara R, Pozza G, Brancato R: Effect ofpancreas transplantation on diabetic retinopathy: a 20 case report. Diabetologia 34(suppl 1), S92-S94, 1991

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LA MODERNA TERAPIA INSULINICA DEL DIABETE MELLITO DI TIPO 1Geremia B. BolliDipartimento di Medicina Interna e Scienze Endocrine e Metaboliche, Università di Perugia

IntroduzioneLo scopo moderno della terapia insulinica nel diabete mellito di tipo 1 è sia quellodi prevenire la catastrofe metabolica della deficienza insulinica (chetoacidosi), che diprevenire le complicanze micro- e macro-angiopatiche a lungo termine (1).Il primo obiettivo è facile da raggiungere con un rimpiazzo dell’insulina cheprescinde dalle sue modalità di somministrazione (orario, numero di iniezioni algiorno, ecc.). È ciò che avvenne all’indomani della commercializzazione dell’insulinada parte del gruppo di Toronto nel 1922, quando un’iniezione di insulina regolareuna o due volte al dì, portò rapidamente a una notevole diminuzione dellachetoacidosi. Questo approccio rimane ancora oggi usuale in endocrinologia per ilrimpiazzo di alcune deficienze ormonali, basti pensare alle attuali modalità disostituzione dell’ormone tiroideo e del cortisolo.Il secondo obiettivo è più ambizioso, erichiede la cultura della fisiologiadell’omeostasi glicemica, della far-macocinetica delle varie preparazioni diinsulina (compresi i suoi analoghi) e,soprattutto, tenacia nell’insegnare alpaziente le modalità della terapiaintensiva con la speranza di suscitare inlui o in lei l’interesse, la determinazione ela perseveranza a mantenere la quasi-normoglicemia a lungo termine.

Fisiologia dell’omeostasiglicemicaNei soggetti normali la glicemia delle 24ore oscilla entro un banda molto stretta aprescindere dallo stato prandiale o didigiuno (fig. 1). Ciò avviene grazie allasquisita sensibilità della cellula beta delleinsulae pancreatiche a rispondereprontamente con un picco di secrezione diinsulina in risposta a un modestoincremento della glicemia (che previene

Figura 1Omeostasi glicemica

in soggetti normali(dalla voce

bibliografica 2)

9.0

8.0

7.0

6.0

5.0

mm

ol/l

mg/

dl

07:00 12:00 18:00 24:00 06:00 h

Time of Day

160

140

120

100

80

480

400

320

240

160

80

0

pmol

/l

mU/

l

80

70

60

50

40

30

20

10

0

PlasmaGlucose

PlasmaInsulin

N=8 non-diabetics Mean ±2 SD

B L D

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE36

un incremento post-prandiale eccessivo della glicemia), ma grazie anche allacapacità della beta-cellula di ridurre prontamente la secrezione insulinica perun’iniziale, modesta diminuzione della glicemia (che previene l’ipoglicemia).

Farmacocinetica insulinica nel diabete mellito di tipo 1La scommessa della moderna terapia insulinica del diabete mellito di tipo 1, è quelladi mimare la fisiologia della cinetica insulinica e della glicemia dei soggetti normalidi figura 1. Questo scopo è stato perseguito fino a pochi mesi fa con l’uso di insulinaumana regolare iniettata sottocute (s.c.) prima di ognuno dei tre pasti principali, e diinsulina ritardo (Neutral Protamine Hagedorn, NPH) alle ore 23-24 (fig. 2). Questomodello, che ha una valenza universale, necessita tuttavia di una variante nei Paesimediterranei come il nostro, nei quali l’intervallo fra pranzo e cena è superiore a 5

ore, e cioè l’aggiunta di una piccola dosedi NPH alla dose di insulina regolare delpranzo (1/3 della dose totale). In media,con questo modello di terapia, unpaziente adulto con diabete di tipo 1 chepesi 65-70 kg, usa 0,10 U/kg di insulinaregolare alla prima colazione, 0,15 U/kg apranzo e cena, e 0,2 U/kg di NPH alle ore23-24. Nel caso la glicemia prima di cenarisalga oltre 170-200 mg/dL nonostanteun valore <150 mg/dL alle ore 16, allora ladose prandiale diventa di 0,10-0,12 U/kgdi regolare e 0,05-0,07 U/kg di NPH.

L’analogo dell’insulina adazione rapida lisproLa necessità di introdurre una pre-parazione di insulina ad assorbimentorapido deriva dal fatto che, pur essendol’insulina regolare uguale nella suastruttura primaria e secondaria a quellaumana (in parole profane pur essendol’insulina “giusta”), essa viene iniettata nelposto sbagliato, il tessuto sottocutaneo. Inquesta sede gli esameri dell’insulinaumana si devono scindere lentamente

prima in dimeri e poi in monomeri, perché solo questi ultimi passano la paretecapillare ed entrano nel circolo sistemico. Non potendo, almeno oggi, cambiare lavia di somministrazione di insulina, cioè la sede s.c., si è quindi cambiata la molecoladi insulina, conservandone intatte tutte le proprietà di interazione con il recettore,ma modificando la parte della molecola che regola le forze di aggrezione framolecole.L’insulina lispro è l’insulina umana con un’inversione della sequenza naturaleprolina-lisina nella posizione 28-29 della catena B. L’elegante idea è venuta aRichard Di Marchi (3) che aveva osservato che l’IGF-I, normalmente in formamonomerica, ha una sequenza lisina-prolina nella posizione 28-29 della catena B.Copiando l’esempio naturale dell’IGF-I, Di Marchi è riuscito a donare alla molecoladell’insulina umana la capacità di indebolire le forze di aggregazione fra molecole

Figura 2Modello di terapia

insulinica coninsulina umana

regolare ad ognipasto e NPH alle ore

23/24 (pannellosuperiore). In molti

pazienti è necessarial’aggiunta di una

dose di NPH anchea pranzo (1/3 della

dose prandialetotale)

80

40

0

Plas

ma

Free

Insu

lin (µ

U/m

l)

80

40

00700 1330 2030 2400 0700 h

Time of Day

0700 1300 1830 2300 0700 h

R R R R

Breakfast Lunch Dinner

R R+NPH R NPH

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE 37

invertendo con la tecnica del DNA ricombinante la sequenza prolina-lisina nellaposizione 28-29 della catena B. L’insulina lispro che ne è derivata, pur presente informa esamerica nelle fiale per iniezione, al diminuire della concentrazione di moltevolte nel tessuto s.c. dopo iniezione, si scinde in pochi minuti in forma dimerica emonomerica, dando luogo a un’assorbimento molto più rapido dell’insulina umanaregolare. L’insulina lispro ha la stessa affinità dell’insulina umana regolare per ilrecettori dell’insulina e dell’IGF-I, non è carcinogenetica, non ha attività mitotica némutagena, infine nell’uomo non è più antigenica rispetto all’insulina umanaregolare (4).

Il progresso del controllo prandiale con l’analogo rapido di insulinaSi può oramai affermare con sicurezza che l’introduzione dell’analogo rapido diinsulina lispro ha rappresentato una tappa storica nel progresso della terapiainsulinica. Le stesse considerazioni che verranno di seguito fatte per il lispro sonovalide anche per altri “analoghi”dell’insulina in fase di prossima commercializzazione(aspart, Novo Nordisk) o di avanzata sperimentazione (Hoechst Marion Roussel,HMR). Infatti, i dati di farmacocinetica e farmacodinamica dell’aspart e degli analoghiHMR ricalcano sostanzialmente i risultati già ottenuti con il lispro.L’iniezione s.c. di dosi equimolecolari di lispro migliora il controllo glicemico post-prandiale rispetto all’insulina umana regolare nonostante quest’ultima siacorrettamente iniettata 30 minuti prima del pasto (fig. 3). Tuttavia, questo risultatopositivo è effimero, dura solo 3 ore circa, dopo di che la glicemia aumenta di più conil lispro rispetto all’insulina umana regolare. Se questo modello viene applicato adesempio al pomeriggio mediterraneo che dura circa 7 ore come nell’esempio difigura 3, si può concludere che l’uso didosi equimolecolari di lispro al postodell’insulina umana regolare offre comeunico vantaggio un miglior stile di vita(l’iniezione avviene al momento del pastoe non 30 minuti prima). Infatti il lispro, diper sé, non migliora il controllo glicemicodel pomeriggio perché la somma algebricafra miglioramento delle prime 3 oredall’iniezione e peggioramento nellesuccessive 4 ore è praticamente zero.Questo risultato non è sorprendente, maatteso in base alle caratteristiche dellafarmacocinetica dell’insulina lispro. Unanalogo specializzato per un assorbimentorapido deve necessariamente esaurire piùprecocemente la sua azione.

Il problema del rimpiazzodell’insulina basale conl’uso prandiale del lisproLa sostituzione dell’insulina umanaregolare con il lispro ha migliorato laglicemia a 1, 2 e 3 ore dal pasto, ma ci ha

Figura 3Controllo glicemico

post-prandiale inpazienti con diabete

mellito di tipo 1dopo iniezione s.c.

0,15 U/kg di insulinaumana regolare e

lispro, da soli o incombinazione con0,07 U/kg di NPH

(dalla vocebibliografica 5)

270

240

210

180

150

120

90

mg/

dl

PLASMA GLUCOSE 15

13

11

9

7

5

mm

ol/l

-30 0 60 120 180 240 300 360 420

Minutes

MEA

L

N=10 IDDM PATIENTSMean±SEM

Hum-RLisproHum-R + NPHLispro + NPH

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE38

posto un problema nuovo, o meglio ci hariproposto in termini pressanti unproblema vecchio, quello della sosti-tuzione dell’insulina basale, o inter-prandiale. Questo problema era menoimpellente fino all’arrivo del lispro, perchéle caratteristiche di farmacocineticadell’insulina umana regolare facevano sìche essa contribuisse molto con la sua“coda” di azione fra la 4a e la 6-7a oradall’iniezione, al rimpiazzo del fabbisognodi insulina basale. In altre parole, oggipossiamo capire come l’insulina umanaregolare ad azione rapida, facesse in realtàdue lavori, prevalentemente quelloprandiale, ma in parte anche quellointerprandiale. Sostituendo l’insulinaumana ad azione rapida con il lispro per

un miglior controllo post-prandiale, come si può rimpiazzare il più grande bisognodi insulina basale?La prima possibilità è l’uso del miniinfusore per l’infusione continua s.c. di insulina(CSII). Gli studi finora condotti hanno mostrato come il lispro usato con la CSIImigliora non solo il controllo glicemico post-prandiale, ma anche quello a lungotermine (HbA1c) (4).La seconda possibilità, la più importante, visto che i pazienti in terapia con CSII sonouna ristretta minoranza, è quella di associare l’insulina NPH al lispro per creare una“coda” di azione che rimpiazzi il fabbisogno di insulina basale oltre la 3a ora.Intendiamoci: se in teoria un paziente facesse uno snack ogni 3 ore, allora potrebbeiniettarsi il lispro a ogni pasto, cioè 5-6 volte al dì e avere un ottimo controllo post-prandiale. Sul piano pratico, un paziente che abbia 3 pasti, deve associare NPH allaprima colazione, a pranzo e a cena se quest’ultima precede l’iniezione notturna delleore 23-24 di più di 3 ore, altrimenti se la cena viene consumata oltre le ore 20 saràsufficiente il lispro da solo.Ciò significa un uso dell’NPH 3-4 volte al dì. L’NPH non può essere tutta data in unasola somministrazione perché la sua azione non è piatta, ma a picco, e quindisarebbe causa di ipoglicemia notturna e diurna.

Lispro e NPH in un’esperienza acutaQuando la regola (empirica) di miscelare insulina umana regolare con NPH apranzo (fig. 1) venga applicata al lispro, si notano due vantaggi (fig. 3) (5). Anzitutto,la glicemia a 1, 2 e 3 ore dal pasto rimane più bassa e, secondo, il buon risultato delmiglior controllo post-prandiale rimane fino all’ora di cena. Un miglioramento si haanche nello studio di controllo in cui viene miscelata insulina umana regolare eNPH, ma la miscela lispro+NPH riduce la glicemia media di più per tutta la duratadello studio (7 ore).

Lispro e NPH in un’esperienza cronicaQuando l’idea di miscelare lispro e NPH a ogni pasto è stata realizzata in uno studiodi lunga durata, è migliorato il controllo glicemico post-prandiale e l’HbA1c (6).L’HbA1c migliorava di circa 0,30%, una percentuale in assoluto modesta, è vero, ma

Figura 4Controllo glicemico

con la miscelalispro+NPH rispetto

a insulina umanaregolare e NPH

(dalla vocebibliografica 6)

10.0

9.0

8.0

7.0

mm

ol/l

mg/

dl

180

170

160

150

140

130

Blood glucose

Lispro

Hum-R

before after before after before after 03:00 hBREAKFAST LUNCH SUPPER BED-TIME

Insulin

Meal

Group II

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE 39

comunque importante a ridurre il rischio di complicanze microangiopatiche del 15-20% (4). È da sottolineare che questa riduzione dell’ HbA1c.si osservava rispettoall’insulina umana regolare iniettata 30 minuti prima del pasto, e che ilmiglioramento sarebbe stato più evidente rispetto all’insulina umana regolareiniettata al momento del pasto (abitudine che sembra piuttosto diffusa fra i pazientidiabetici) (6). È chiaro quindi che sono soprattutto i pazienti che abitualmenteiniettano l’insulina umana regolare e mangiano subito, quelli che traggono maggiorbeneficio dal passaggio al lispro (6). L’aspetto interessante della terapia conlispro+NPH era poi il fatto che a fronte di un’HbA1c più bassa, non vi fosse unaumento, ma anzi una riduzione del numero delle ipoglicemie, con miglioramentodella percezione dell’ipoglicemia e della secrezione di adrenalina in rispostaall’ipoglicemia (4).

Regole per il trasferimento dall’insulina umana regolarea lisproIl trasferimento di pazienti dall’insulina umana regolare a lispro è piuttostosemplice. La dose totale di insulina nelle 24 ore rimane la stessa, ma cambia ilrapporto fra insulina ad azione rapida e NPH con una maggiore percentuale diquest’ultima. Le dosi indicate in tabella I sono indicative di uno stile di vita standard,e ovviamente possono essere introdotte varianti. Ad esempio, in età scolare, unadolescente che sia in grado di praticarsil’iniezione di insulina, può iniettarsi unsupplemento di lispro con la merenda dimetà mattina ed eventualmente anche conquella di metà pomeriggio.Questo schema consente il rag-giungimento di un rapido equilibrioglicemico. La paura che lo schema sia“complicato” e “non conveniente” per itanti pazienti, specie più giovani, che usano le penne per l’iniezione di insulina, è inrealtà smentito da un’esperienza ormai triennale che insegna che non vi sonosorprendentemente difficoltà alcune a raddoppiare il numero di iniezioni giornalieredi insulina a fronte di un più libero stile di vita, di una maggiore flessibilità, di unmiglior controllo glicemico con HbA1c più bassa e minori ipoglicemie.

I vantaggi del lisproL’introduzione del lispro (e degli analoghi rapidi dell’insulina che presto verranno)va nella direzione di una sostituzione fisiologica dell’insulina. L’analogo ad azionerapida rappresenta la soluzione finale per il fabbisogno prandiale di insulina, almenofintanto che la via di somministrazione dell’insulina sarà quella s.c. Non sonopensabili, infatti, preparazioni insuliniche ad azione ancora più rapida del lispro, chenon avrebbero utilità per il paziente.L’uso del lispro ha molto migliorato il controllo glicemico post-prandiale. Al tempostesso, ha costretto a ripensare a come ottimizzare l’insulina basale. In attesa disoluzioni future (vedi avanti), per il momento la soluzione (provvisoria) di misceleestemporanee con siringa, o iniezioni separate di lispro e NPH con la penna, vaadottata e adattata nei singoli pazienti per sfruttare i vantaggi del lispro nelperiodo post-prandiale senza incorrere negli svantaggi di una “scopertura” diinsulina basale.

1a colazione pranzo cena ore 23

Insulina umana regolare (R) 6U R 10U R 10U R 15U NPH

Insulina lispro (LP) 4U LP 7U LP 8U LP 15U NPH+2U NPH +4U NPH +2U NPH

Tabella IEsempio di

trasferimento di unpaziente con diabete

mellito di tipo 1dall’insulina umana

regolare al lispro

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE40

Analoghi dell’insulina candidati futuri al rimpiazzo diinsulina basale: l’insulina glargineDa quando, nel 1946, Hagedorn inventò l’insulina ad azione ritardo che porta il suonome, sono passati più di 50 anni senza che nell’armamentario terapeutico dellepreparazioni insuliniche da iniettare s.c. per rimpiazzare il fabbisogno di insulinanello stato di digiuno interprandiale si affacciassero novità. Oggi è doveroso parlarneperché fra pochi mesi (primavera del 2000) arriverà in commercio, almeno negliUSA, l’insulina glargine (HOE 901 della HMR).Non è un desiderio a tutti i costi di novità, che spinge a guardare con molto interesse

all’arrivo dell’insulina glargine, ma laconsiderazione del progresso che essarappresenta rispetto ai “difetti” dell’in-sulina NPH. L’insulina NPH ha un’azionea picco, che si manifesta fra la 4a e la 6a oradall’iniezione. Se praticata alla sera, uneccesso di picco d’azione si puòmanifestare la notte. Ecco un importantemotivo di alto rischio di ipoglicemianotturna. In secondo luogo, l’insulina

NPH ha una durata modesta, non superiore alle 8-10 ore. Riesce difficile, con l’NPH,assicurare una copertura del fenomeno alba, e i clinici (ma soprattutto i pazienti!)sanno bene che è preferibile accontentarsi di una glicemia a digiuno 40-60 mg/dLsuperiore alla norma, piuttosto che mirare alla normoglicemia, per evitarel’ipoglicemia notturna. Si ricordi sempre che l’effetto ottenuto dall’NPH a 10-12 oredalla sua iniezione è sempre a spese di un precedente picco di azione alla 4a-6a ora,e occorre chiedersi che cosa sia succeso durante il sonno di un paziente che si siainiettato una rilevante quantità di NPH e che si risvegli normoglicemico. È possibile,anzi probabile, che egli/ella sia rimasto(a) in uno stato di ipoglicemia prolungata.L’insulina glargine è un analogo dell’insulina ottenuto con la tecnica del DNAricombinante e che si differenzia dall’insulina umana regolare in due punti. Duearginine sono aggiunte all’estremità C-terminale della catena B, e una molecola diglicina sostituisce l’asparagina a livello della posizione 21 della catena A.La prima modificazione (2 arginine) conferisce alla molecola di insulina la proprietàdel cambio del punto isoelettrico (pH al quale l’insulina è meno solubile e precipita).Il punto isoelettrico dell’insulina glargine è stato così aumentato da quello di pH 5,4dell’insulina umana, a 6,7. Siccome nel flacone l’insulina glargine è tenuta a pH circa4,0, essa è solubile e quindi è trasparente nel flacone, al contrario dell’NPH(“cloudy” per gli autori anglosassoni, insolubile). Una volta iniettata sottocute, ilpassaggio da pH acido a neutro fa sì che l’insulina glargine cristallizzi in loco. Lasuccessiva dismissione di insulina dai microcristalli ne spiega l’assorbimento lento ecostante. Come la lispro, l’insulina glargine si è dimostrata non diversa dall’insulinaumana regolare nei suoi rapporti con il recettore di insulina, IGF-I, proprietàmitotiche, mutagene e antigeniche (4).La seconda modificazione della molecola di insulina glargine dà stabilità all’insulinastessa e ne prolunga la durata di conservazione nella fiala.I primi studi effettuati con l’insulina glargine hanno dimostrato che si tratta diun’insulina ad azione piatta, senza picco, della durata compresa fra 20 e 24 ore. Èpertanto presumibile che essa vada iniettata in molti pazienti una sola volta al dìassicurando una copertura completa del fabbisogno basale (4). Tuttavia, è ancheipotizzabile un suo impiego due volte al dì per meglio realizzare l’aspetto a “ondaquadra”che dovrebbe avere l’insulina basale erogata ad esempio dalla CSII (4).È stata studiata anche la riproducibilità dell’assorbimento s.c. dell’insulina

1a colazione pranzo cena ore 23

Modello attualeInsulina lispro (LP) 4U LP 7U LP 8U LP 15U NPH

+2U NPH +4U NPH +2U NPH

Modello del 2000 4U LP 7U LP 8U LP 15U glargine+8 glargine

Tabella IIModello di terapia

del diabete mellito ditipo 1 con insulina

lispro ai pasti eglargine come

insulina basale. Conl’uso dell’insulinaglargine, la dose

totale in 24 ore diinsulina basale

rimane la stessadell’NPH, ma la

somministrazioneavviene ogni 12 ore.Le iniezioni di lispro

e glargine devonoessere separate

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE 41

glargine che è migliore di quello dell’insulina ultralenta e simile a quellodell’NPH (4).

Lo scenario terapeutico dell’anno 2000Il 2000 coinciderà con la terapia del diabete di tipo 1 con analoghi, e cioèun’iniezione (o 2) al dì di insulina glargine e iniezioni di lispro (o altri analoghi adazione rapida) a ogni pasto.I vantaggi attesi sono un’HbA1c più bassa, un minor rischio di ipoglicemia, unamaggiore flessibilità e libertà nello stile di vita, e maggior numero di pazienti aderetia un programma di terapia intensiva perché più semplice dell’attuale mostrato intabella I e soprattutto perché più sicuro. Già numerosi studi preliminari hannomostrato che con l’insulina glargine si ha un minor rischio di ipoglicemia chesembra dimezzato rispetto all’insulina NPH (4).In tabella II è proposto un modello di terapia futuribile che prevede l’uso di insulinaglargine e lispro. Da ricordare che l’insulina glargine non può essere miscelata insiringa con nessun’altra insulina per il diverso punto isolettrico e quindi sonorischieste iniezioni separate di insulina glargine e lispro.

ConclusioniViviamo un momento di novità di offerta di preparazioni insuliniche che tutteinsieme si affacciano alla ribalta dopo decenni di stasi in questo settore. Èprevedibile che arriveremo presto a trattare il diabete mellito di tipo 1 solo conanaloghi di insulina. Quindi è bene conoscerli e prepararsi culturalmente al loro usoperché i pazienti ne traggano il massimo beneficio.

RingraziamentiUn grazie sincero alle comunità di Capo Sandalo, Becco, La Bobba, e Carloforte tutta, dell’Isola di SanPietro nel maggio 1999.

BIBLIOGRAFIA

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Prevenzione primariaM. Muggeo (Verona)

Nutrizione e prevenzionedel diabeteG. Riccardi (Napoli)

La terapia farmacologicadel diabete di tipo 2S. Del Prato (Padova)

Obiettivi della terapia

del diabeteAttualità e prospettive

nel diabete tipo 2

1 ° C O N G R E S S O R O C H E P A T I E N T C A R E

DIABETOLOGIAGIORNALE ITALIANO DI

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PREVENZIONE PRIMARIAMichele MuggeoMalattie del Metabolismo, Università di Verona, Ospedale Civile Maggiore

Innanzitutto, bisogna premettere che buon controllo metabolico non vuol diresoltanto controllo glicemico, ma controllo di tutti i parametri metabolici cheabitualmente si misurano in questi pazienti. Quindi, anche se oggi dobbiamoconcentrare l’attenzione sul problema glicemia, non ci deve sfuggire che negliobiettivi del controllo del diabete c’è sì il buon compenso glicemico, ma anche lacorrezione del sovrappeso e dei vari fattori di rischio associati, quali la dislipidemia,l’ipertensione e il tabagismo (anche se a questo riguardo mancano ancora leevidenze di trial d’intervento), oltre all’identificazione precoce delle complicanze.Sugli obiettivi da raggiungere nel controllo dei parametri metabolici credo non sianecessario dilungarsi, perché quelli condivisi dalla Società Italiana di Diabetologia eda tutte le società scientifiche e su cui si impronta la nostra pratica quotidiana didiabetologi. Brevemente, ricordo come ottimali una glicemia a digiuno tra 100 e 140mg/dL e una glicemia post-prandiale che non superi i 180 mg/dL, un’emoglobinaglicata tra 6 e 7%, una colesterolemia inferiore a 200 mg/dL, con una variabilitàd’obiettivo a seconda che il paziente abbia o no una patologia cardiovascolare già inatto, trigliceridemia inferiore a 200 mg/dL, colesterolo HDL superiore a 35 mg/dLnel maschio e a 40 mg/dL nella femmina.Lo studio 4S, fatto in Scandinavia su oltre 4400 persone con pregresso infarto,mostrava un significativo aumento della sopravvivenza con l’interventoipolipemizzante e in particolare ipocolesterolemizzante (1). Quello studio, cheraggruppava anche un modesto numero di pazienti diabetici, ha dimostratochiaramente che la riduzione del colesterolo sortiva degli effetti più vistosi neidiabetici rispetto ai non diabetici, evidenziando un aspetto importante: quanto piùalto è il profilo di rischio di una persona, tanto maggiori sono i risultati chedobbiamo aspettarci da un intervento di correzione dei fattori di rischio. E questa èla premessa culturale per realizzare quell’intervento multifattoriale nel trattamentodel diabete mellito tipo 2, così come in altre patologie cronico-degenerative. Delresto, oltre allo studio 4S, altri studi hanno documentato come nei pazienti diabetici,sia in prevenzione primaria che secondaria, i risultati siano più vistosi di quelli chesi osservano nella popolazione non diabetica.Venendo al tema più specifico di questa giornata, prima dell’UKPDS ci sidomandava fino a che punto la normalizzazione della glicemia fosse vantaggiosa neldiabete. Per parecchi anni c’è stata una diatriba tra due diverse correnti di pensiero.Da una parte, alcuni sostenevano che l’aumento della mortalità cardiovascolare neldiabete tipo 2 fosse legato essenzialmente al fatto che in questi pazienti i classicifattori di rischio, quali ipertensione, dislipidemia, sovrappeso, tabagismo, siconcentrano e si esprimono più intensamente e con effetti più deleteri. Al contrario,l’altra corrente di pensiero sosteneva che l’iperglicemia aggiungesse qualcosa comefattore di moltiplicazione agli altri fattori di rischio, sostenendo l’utilità diprogrammi di intervento per abbassare a lungo termine la glicemia.Oggi cercherò di affrontare questo problema, riportando risultati che dimostrano,

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE46

attraverso studi di mortalità, l’utilità dell’abbassamento della glicemia nel diabetetipo 2.Numerosi studi europei, fatti in epoca pre-UKPDS, hanno dimostrato in modoconsistente che nei pazienti diabetici di tipo 2 la mortalità per tutte le cause, e inparticolare per cause cardiovascolari, è direttamente proporzionale al livello dellaglicemia. Nel lavoro di Uusitupa del ’93, correlando la glicemia all’esordio di 130pazienti diabetici tipo 2 alla mortalità per cause cardiovascolari nei dieci annisuccessivi – ripeto correlando la mortalità ad un singolo valore glicemico iniziale –,si osservava che, sia nei pazienti trattati con sola dieta che in quelli trattatifarmacologicamente, i tassi di mortalità correlavano in maniera lineare con il livelloglicemico di partenza (2). Nello studio pubblicato su Diabetes nel ’94, la Kuusistodimostrava la stessa cosa, correlando in questo caso la mortalità al valore diemoglobina glicata all’esordio (3). Il messaggio è sempre lo stesso: la mortalità, inparticolare quella per cardiopatia ischemica, è tanto maggiore quanto più alta èl’emoglobina glicata al baseline. Anche in questo caso lo studio di mortalità si basavasu una singola misurazione all’inizio. Un altro concetto che emerge sempre dallavoro della Kuusisto si basa sulla considerazione di un altro fattore di rischiopredittore di mortalità cardiovascolare, cioè la durata del diabete. Se prendiamo duegruppi di soggetti con una durata della malattia rispettivamente maggiore o minoredi sei anni, vediamo che quelli che hanno una durata più lunga, in questo studio,hanno una mortalità cardiovascolare maggiore. In ciascun gruppo, però, la qualitàdel controllo metabolico, espressa come valore di emoglobina glicata al baseline,faceva una grossa differenza; in altre parole, la mortalità cardiovascolare risultavastrettamente correlata ancora una volta a una singola determinazione al baseline. Ilmessaggio contenuto in queste osservazioni è allarmante; è come se ci venissepreclusa la possibilità di intervenire, come se tutto fosse già prestabilito dal punto divista statistico nel momento in cui inizia l’osservazione.Lo stesso concetto si può cogliere da un altro studio in cui si prende inconsiderazione non la durata del diabete ma la microalbuminuria. Ebbene, ancheprendendo questo parametro come predittore di mortalità cardiovascolare, sivede che il valore della HbA1c alla base è in grado di incidere sulla sopravvivenzadi questi pazienti (4).Ancora una volta, quindi, si fa correlare una singola determinazione al baseline conl’outcome dei pazienti, nel nostro caso con la mortalità per tutte le cause o per causecardiovascolari, in un tempo variabile da 4 anni, in alcuni studi, fino ad un massimodi 8-10 anni in altri.Anderson, in uno studio del ’95, fu il primo a mettere in correlazione la mortalità conle medie glicemiche nel corso di un periodo di tempo, introducendo un qualcosa cheè sì osservazionale, ma che fa vedere anche come il variare della glicemia in unintervallo di tempo influenza la sopravvivenza dei pazienti (5). In questo studioinfatti l’autore mostra che l’avere delle glicemie medie, in un periodo di 7,4 anni,minori di 120 mg/dL è significativamente più vantaggioso dell’avere delle glicemiemedie superiori a 180 mg/dL.Nel diabete di tipo 2, quindi, l’iperglicemia, sia misurata come singolo valore, siacome media delle glicemie per un certo periodo, predice la mortalità per tutte lecause e, in particolare, per quelle cardiovascolari. Ne consegue che la riduzione dellaglicemia dovrebbe avere un effetto benefico sulla sopravvivenza di questi pazienti.Veniamo allo studio dell’UKPDS (6). I quesiti di fondo erano: «Il controllo glicemicointensivo riduce il rischio di complicanze nel diabete tipo 2? La terapia con insulinao con sulfaniluree ha uno specifico vantaggio o svantaggio? La metformina neidiabetici in sovrappeso è utile e in quale misura?». Come è noto, lo studio è statoeffettuato su 4209 pazienti; di questi, 1138 sono stati posti in terapia convenzionale,

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che mirava a correggere i sintomi o a mantenere la glicemia a digiuno inferiore a 270mg/dL. I rimanenti 3071 pazienti sono stati sottoposti a terapia intensiva, conl’intento di portare la glicemia a digiuno a un valore inferiore a 108 mg/dL; gli obesisono stati trattati con metformina, gli altri sono stati randomizzati a essere trattaticon sulfaniluree o insulina. Nel valutare i risultati dello studio, gli inglesi hannoconsiderato gli outcome in due modi diversi. Negli any diabetes related end-pointshanno messo insieme la morte improvvisa, gli episodi di iper- e ipoglicemia, l’infartofatale o non fatale, l’angina, lo scompenso di cuore, l’insufficienza renale, leamputazioni, le emorragie vitreali, la fotocoagulazione, la retinopatia, la cecitàalmeno a un occhio e l’estrazione di cataratta. Come vediamo, quindi, hannoconsiderato alla stessa stregua eventi diversi che, pur avendo tutti qualcosa a che farecon il diabete, hanno probabilmente vie patogenetiche diverse. Hanno poi preso inconsiderazione i singoli eventi e quindi la mortalità che in qualche modo è correlataal diabete, l’infarto miocardico, lo stroke, la morte per gangrena, la morte perinsufficienza renale, gli episodi di coma o di iper- e ipoglicemia e la morteimprovvisa. In ultimo hanno preso in esame la mortalità per tutte le cause. Semisuriamo il risultato in base a tutti gli eventi correlati al diabete, cioè agli any relatedend-points, vediamo che il risultato della terapia intensiva è significativamentemigliore rispetto alla terapia convenzionale. Cioè, è indicato trattare in modointensivo i pazienti affetti da diabete mellito tipo 2, perché questo si traduce in unariduzione di tutti gli eventi correlati al diabete. Se andiamo a vedere il numero dellemorti associate al diabete, però, vediamo che tra il gruppo in terapia intensiva equello in terapia convenzionale non esiste alcuna differenza, così come non èsignificativamente diversa la mortalità per tutte le cause, né per infarto miocardiconé per stroke. Una fortissima significatività statistica si evidenzia solo per lecomplicanze microvascolari e, con buona probabilità, è proprio questa a determinarela significatività statistica della categoria degli any diabetes related end-points. Questodeve essere chiaro per poter giudicare poi le aspettative in termini di mortalità pereventi cardiovascolari in seguito al trattamento ipoglicemizzante. La tabella Iriassume i risultati. La terapia intensiva dell’iperglicemia ha portato, nel periodo diosservazione durato 15 anni, a una differenza dell’11% per l’HbA1c tra il gruppo interapia convenzionale e il gruppo in terapia intensiva (7,9 vs 7%). Questa riduzione,che potrebbe sembrare modesta, si traduce in una riduzione significativa degli anydiabetes related end-points e dellecomplicanze microvascolari e in un minornumero di infarti (quest’ultimo dato sicolloca al limite della significativitàstatistica). Un altro dato che derivadall’UKPDS è quello riguardante lacorrezione dell’ipertensione arteriosa. Nelgruppo sottoposto a uno stretto controllodei valori pressori, si è riusciti a ottenereuna pressione media di 144/82 mmHg,mentre nell’altro gruppo la media era di154/87 mmHg. Questa differenza sitraduceva in una forte riduzione di queglistessi end-points visti in precedenza (fig. 1).Questo messaggio è importante, perchédice che, agli effetti della sopravvivenza in un diabete tipo 2, è molto importantecontrollare bene la pressione e che sicuramente i risultati più brillanti si ottengonoquando viene fatta una terapia multifattoriale improntata alla correzione di piùfattori di rischio. Come si può vedere dalla figura 1 la situazione di rischio peggiore

Terapia Terapia pconvenzionale intensiva

(insul. o sulfon.)

HbA1c (%) 7,9 7,0 0,0001

Tutti gli endpointsdiabete-correlati* 46,0 40,9 0,029

Infarto* 17,4 14,7 0,052

Microvascolari* 11,4 8,6 0,009

Ictus* 5,0 5,6 0,52

*Eventi/1000 pazienti⋅anno

Tabella IUKPDS - Risultati

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consiste nell’avere una grave iperglicemia ed essere iperteso, cioè avereun’emoglobina glicata superiore a 8% e una pressione sistolica superiore a 150mmHg. L’intervento terapeutico che si limiti a ridurre soltanto la pressione arteriosacomporta una riduzione del rischio relativo per any diabetes related end-points da 5 a 3. Quando si opera su due fronti e oltre ad abbassare la pressione si riduce l’HbA1c,il rischio relativo passa da 5 a 1. In termini pratici, sulla base dei dati dell’UKPDS,noi dobbiamo cercare di conseguire un’emoglobina glicata che sia intorno al 7%;quindi l’informazione che avevamo ricavato dagli studi osservazionali era tutto

sommato corretta ed è stata confermatadall’UKPDS. Ma anche in termini dipressione arteriosa abbiamo messaggiprecisi: dobbiamo cercare di ottenere deivalori inferiori a 130/85 mmHg.Le conclusioni dello studio dicono che iltrattamento intensivo riduce la frequenzadegli end-point microvascolari ma non lamortalità correlata al diabete e all’infartomiocardico, senza nessuna differenza tra ivari farmaci impiegati.Ma allora come la mettiamo se gli studiosservazionali avevano chiaramente dettoche la mortalità per tutte le cause e percause cardiovascolari era correlata algrado di iperglicemia? Si può fare untentativo di interpretazione. Quando si fala correlazione tra end-points, in questocaso mortalità dopo 15 anni, e compensoglicemico, si utilizza il valore dell’e-moglobina glicata media in un periodo di15 anni. È possibile che questo solo datonon sia sufficiente a esprimerel’andamento del diabete in un periodo

abbastanza lungo e che un valore più basso di HbA1c media possa derivare da unsuccedersi di eventi ipoglicemici che in qualche modo inficiano, o perlomenodiminuiscono il beneficio che si ha dall’abbassamento della glicemia, anche intermini di mortalità. Per cui si introduce una variabile che non viene colta dal valoremedio dell’emoglobina glicata in un periodo di 15 anni, ma che è dietro, o almenonon è misurabile con quel parametro.Allora, io mi domando, come dobbiamo cogliere l’iperglicemia nella nostra praticaclinica? E la valutazione della media delle glicemie è sufficiente per dire la gravitàdella “disglicemia”di quel paziente diabetico? In quale misura l’iperglicemia influiscesulla sopravvivenza dei pazienti diabetici? La media glicemica o la media diemoglobina glicata in un periodo più o meno lungo può spiegare tutta la mortalitàcorrelata al diabete?Provo a esemplificare il concetto attraverso un esempio. Supponiamo di avere unpaziente che nel corso di 3 anni ha una serie di glicemie. Volendo esprimere in unnumero questo andamento glicemico, la cosa più semplice da fare è la media.Quindi si teorizza che questa persona durante un periodo di 3 anni sia sempre stataesposta allo stesso livello glicemico medio. Un’altra cosa che si può fare, e questoforse è più corretto, è la cosiddetta slope, vedere cioè la tendenza della glicemia neltempo (nell’UKPDS si è visto che tendono ad aumentare).

Figura 1UKPDS

Any diabetes-relatedendpoints

6

5

4

3

2

1

0> 8

7-86-7

< 6

> 150

140-150

130-140

< 130HbA1c (%)

SBP (

mmHg)

< 1

13

140

> 1

Haza

rd ra

tio

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Un’altra cosa che potrebbe essere utile fare è quella di calcolare il coefficiente divariazione delle glicemie a digiuno nel tempo; quindi avere, oltre alla media, unparametro aggiuntivo che dice quanto labile è la situazione metabolica di quellapersona.Ora provocatoriamente chiedo: tra un paziente che ha una media glicemica, negliultimi 3 anni, di 200 mg/dL, con un coefficiente di variazione di 8%, e un pazienteche ha 160 mg/dL di valore medio con un coefficiente di variazione di 30%, intermini statistici, qual è messo meglio? Alla luce dell’UKPDS si dovrebbe dire chequello che ha la media più bassa vive più a lungo.Andiamo a vedere cosa dicono i nostri dati di Verona. Ricordo che a Verona abbiamoiniziato nell’86 uno studio che ha portato all’identificazione di 7488 pazientidiabetici, grazie all’utilizzo di tre fonti: collaborazione tra i medici di base, il Serviziodi Diabetologia e il consumo dei farmaci (7). Dei pazienti individuati, circa il 50%afferiva al Servizio di Diabetologia ed è stato seguito nel tempo, con una valutazionedel compenso glicemico ogni 3-4 mesi. Abbiamo fatto un controllo dello stato disopravvivenza dopo 5 e 10 anni. Al 31.12.96 erano morti 2980 soggetti. Di ciascunpaziente, che avesse un numero adeguato di glicemie a digiuno nel periodo ditempo compreso tra l’84 e l’86, abbiamo ricavato la media e il coefficiente divariazione. I pazienti sono stati raggruppati in terzili di media e di coefficiente divariazione delle glicemie a digiuno. La figura 2 mostra le curve di sopravvivenza diKaplan-Meyer; le persone che sono nel terzile di media glicemica più alta (pannelloA) morivano circa il 20% in più rispetto aipazienti che avevano una glicemia mediapiù bassa. E questo conferma che quantopiù alta è la glicemia, tanto peggiore è lasopravvivenza. Ma, se queste stessepersone le analizziamo sotto un altropunto di vista, cioè in base al coefficientedi variazione, vediamo che i soggetti chehanno una maggiore stabilità glicemica (1°terzile) tendono a vivere più a lungo diquelli appartenenti al secondo e terzoterzile (pannello B). Questo è importante,perché dei due modi di misurarel’iperglicemia cronica, il coefficiente divariazione è sicuramente quello piùcorretto. La figura 3 mostra i risultati diun’analisi multivariata in 1780 pazienti delVerona Diabetes Study in età compresa tra40 e 86 anni che avevano almeno treglicemie all’anno nel periodo ’84-’86 e neiquali il parametro glicemia è statoespresso sia come media che comecoefficiente di variazione. Ebbene, tra i dueparametri di controllo metabolico cronico,la media, che risultava predittore dimortalità nell’analisi univariata, non è piùun predittore indipendente quandonell’analisi si introduce il coefficiente divariazione, il quale conserva, invece, unaforte predittività. Quindi, una più altavariabilità della glicemia, un’età maggiore,

Figura 2Kaplan-Meyer

estimates of survivalprobability in type 2

diabetic patientsfrom Verona,

grouped in tertilesaccording to mean

fasting glucose(panel A) andcoefficient of

variation of fastingplasma glucose

(panel B) duringthree years (1.1.1984through 31.12.1986)

preceding themortality follow-up.

The log-rank testrevealed significant

differences insurvival among

tertiles of M-FPG(p=0,005) and of CV-

FPG (p<0,001)

1.0

0.9

0.8

0.7

0.6

Years of follow-up

Surv

ival

pro

babi

lity

Tertiles of mean fasting plasma glucose

0 2 4 6 8 10

p=0.005

7.61-9.36

<7.61

>9.36

mmol/l

1.0

0.9

0.8

0.7

0.6

Years of follow-up

Surv

ival

pro

babi

lity

Tertiles of Coefficient of Variation of fasting plasma glucose

0 2 4 6 8 10

p=0.001

<11.7%

11.7-18.7%

>18.7%

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il sesso maschile e il trattamento insulinicoa parità di glicemia sono i predittoriindipendenti di mortalità e in particolare dimortalità cardiovascolare. Vediamo quindiche, alla luce di questi dati, non basta farela media di tutte le glicemie di 15 anni perpoter avere l’informazione integrata ditutto l’andamento del controllo meta-bolico, ma ci vuole qualcos’altro. In con-clusione si può dire che, senza negarel’importanza della misurazione dell’emo-globina glicata, nei pazienti con diabetetipo 2, la determinazione della glicemia adigiuno, parametro che potrebbe essereconsiderato obsoleto, ha in realtà ancoramolto da indicarci. La variabilità dellaglicemia a digiuno è un predittore in-dipendente degli outcome di questi pazientie in particolare della mortalità per causecardiovascolari. Nella pratica clinica,quindi, oltre a conseguire l’abbassamentodella glicemia, dobbiamo stare attenti aconseguire una stabilità di questi più bassivalori glicemici, proprio per ottenerel’ottimizzazione del controllo. Questo è

vero soprattutto per i più anziani, per i quali, sopravvissuti all’effetto grave diiperglicemia negli anni precedenti, probabilmente è più importante mantenere lastabilità dei valori glicemici che non conseguire la normoglicemia, magari a costo diepisodi ipoglicemici (8). Tutto ciò è pertinente col tema generale della giornata,perché credo che l’unico modo per poter conseguire, oltre che normoglicemia, ancheuna stabilità glicemica, è quello di fare automonitoraggio e di imparare acomportarsi di fronte al succedersi degli eventi. Mentre finora abbiamo pensato chela principale indicazione dell’automonitoraggio glicemico fosse costituita dal diabetedi tipo 1, alla luce di questi dati si può dire che anche il diabetico tipo 2 ha bisognodi eseguire un automonitoraggio, perché questo può diventare uno strumentoprezioso per la ricerca della stabilità dei valori glicemici e in ultima analisi per lasopravvivenza e per la prevenzione delle complicanze.

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Figura 3Relative risk (95%

CI) of all-cause 10-YR mortality (1987-

1996) in 1780 type 2diabetic patients,

aged 40-86 yrs.Effect of long termglucose control (3

yrs: 1984-1986) andof other baseline

predictors

RR 0.5 1 1,5 2

M-FPG (II vs I tertile)

(III vs I tertile)

CV-FPG (II vs I tertile)

(III vs I tertile)

Age

Sex (women vs men)

Diabetes duration (1 year)

Insulin treatment (es vs no)

Smoking (yes vs no)

Hypertension (yes vs no)

VDS - 1998

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NUTRIZIONE E PREVENZIONE DEL DIABETEGabriele RiccardiDipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi “Federico II”, Napoli

Il processo di identificazione di una strategia per la prevenzione primaria di unamalattia è lungo e complesso. Si è cominciato a parlare di prevenzione primaria dellacardiopatia ischemica negli anni ’50, ma soltanto agli inizi degli anni ’90 è stataidentificata una strategia di prevenzione basata sull’evidenza. Lo studiodell’epidemiologia del diabete è iniziato più tardi rispetto a quellodell’epidemiologia delle malattie cardiovascolari e purtroppo non è ancoradisponibile una strategia di prevenzione del diabete per la quale esista l’evidenzapiena e irrefutabile della sua efficacia.Perché questo processo è così lungo e difficile? Prevenzione primaria significaattuare un intervento in una popolazione di individui sani, per i quali la probabilitàdi sviluppare la malattia è comunque una frazione dell’unità - infatti per nessuno diessi esiste la certezza di ammalarsi - l’intervento, pertanto, deve averenecessariamente un rapporto benefici/rischi molto elevato. Ad esempio anchesoltanto convincere una persona a smettere di fumare può essere giustificato se cisono le prove (e ci sono) che questo comporta dei benefici per la salute, altrimentiquesto tipo di intervento - un intervento che modifica soltanto un’abitudinevoluttuaria - non sarebbe, in teoria, giustificato dal momento che andrebbe aincidere sulla qualità della vita senza avere la certezza di comportare vantaggi per lasalute.Questo esempio paradossale può aiutare a capire come sia importante arrivare aidentificare una strategia preventiva attraverso tutti i diversi stadi della ricercaepidemiologica, a partire dagli studi di osservazione trasversali, poi quellilongitudinali e infine gli studi di intervento; solamente a questo punto siamo ingrado di identificare veri fattori di rischio e non semplici marker di malattia.Un ulteriore importante requisito per un fattore di rischio è rappresentato dalla suaplausibilità biologica. Ci sono molti marker di malattia per i quali non esiste unaplausibilità biologica e quindi non possono essere considerati a pieno titolo fattori dirischio; sappiamo, ad esempio, che la microalbuminuria è un marker per lo sviluppodi malattie cardiovascolari; tuttavia, non sembra probabile che, correggendo lamicroalbuminuria senza incidere sulla pressione arteriosa, sui lipidi o sulladisfunzione endoteliale, si possano prevenire le complicanze cardiovascolari. Infatti,non è stato finora identificato alcun nesso patogenetico diretto tra lamicroalbuminuria e la cardiopatia ischemica.Soltanto quando un marker di malattia sia stato identificato e confermato dagli studidi osservazione trasversale e longitudinale e sia ben chiaro il nesso patogenico tra ilmarker e la malattia si può procedere a uno studio di intervento mirato a valutare sial’efficacia sia la accettabilità della strategia preventiva. È possibile, infatti, chel’intervento, pur essendo efficace, comporti effetti collaterali indesiderati eccedenti ibenefici ottenuti.Per quanto riguarda la identificazione di una strategia di prevenzione del diabetesiamo a tre quarti del percorso; mancano ancora i risultati degli studi di interventoche sono tuttora in corso e soltanto tra qualche anno ci daranno una risposta

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definitiva. Nel frattempo, però, i risultati degli studi di osservazione trasversale elongitudinale ci consentono, almeno dal punto di vista di pratica clinica quotidiana,di dare dei suggerimenti, di implementare interventi mirati agli stili di vita che moltoprobabilmente si dimostreranno, negli anni futuri, utili per la prevenzione primariadel diabete.Il primo fattore di rischio per il diabete, individuato dalla ricerca clinico-epidemiologica e su cui c’è la maggiore documentazione, è il sovrappeso. Non soloin studi trasversali, ma anche in quelli di tipo longitudinale, si dimostraunivocamente un contributo indipendente sia del sovrappeso che dellalocalizzazione di tipo viscerale del tessuto adiposo al rischio di sviluppare diabete.Infatti, sia gli individui che hanno l’indice di massa corporea più elevato, sia quelliche hanno il rapporto vita/fianchi più alto - quindi una adiposità di tipoprevalentemente viscerale - hanno un rischio di sviluppare diabete che risultasignificativamente incrementato; questo rischio raggiunge i livelli più alti - 15, 20 epiù volte maggiore - negli individui che presentano entrambe queste caratteristiche.Ci sono studi abbastanza numerosi e concordi che dimostrano che c’è un effettoprotettivo indipendente dell’attività fisica sul rischio di sviluppare il diabete. Questoeffetto protettivo deriva non soltanto dalla capacità di indurre una riduzioneponderale: infatti, indipendentemente dall’effetto dell’attività fisica sul pesocorporeo, chi pratica esercizio fisico presenta una relativa protezione allo sviluppo didiabete. Esiste, quindi, un effetto protettivo dell’attività fisica nei riguardi del diabeteche ha un duplice meccanismo legato, in parte, alla riduzione ponderale e, in parte,indipendente da questa.Ma, come si è detto, oltre agli studi di osservazione, per poter identificare misure utiliper la prevenzione primaria, abbiamo bisogno di studi che forniscano un supporto aun possibile legame patogenetico tra fattore di rischio e malattia. Si sa che unelemento patogenetico importante per lo sviluppo di diabete non insulino-dipendente è rappresentato dalla resistenza insulinica; infatti quasi tutti i diabeticinon insulino-dipendenti hanno, accanto a un deficit della secrezione dell’insulina,insulino-resistenza a livello epatico e muscolare.Finora sono stati identificati diversi fattori che contribuiscono a determinareinsulino-resistenza. Di questi alcuni sono sicuramente di tipo genetico, altri, invece,sono di tipo ambientale e comportamentale e tra questi ultimi è in primo piano ilsovrappeso. Infatti, in presenza di sovrappeso la concentrazione di acidi grassi liberiaumenta, interferendo negativamente sia a livello muscolare che a livello epaticosulla utilizzazione del glucosio, stimolando la produzione epatica del glucosio einibendo l’attività secretoria delle beta cellule. Esiste, quindi, un meccanismobiologico plausibile che spiega perché il sovrappeso si associa ad aumentato rischiodi sviluppare diabete.In conclusione, ci sono tutti i presupposti per ritenere possibile, mediante unintervento nutrizionale, una migliorata riduzione dell’incidenza di diabete neipazienti obesi. Tale intervento certamente non avrà una efficacia completa giacchénon è in grado di eliminare l’influenza sulla insulino-resistenza di eventuali fattorigenetici; è tuttavia possibile ipotizzare per questo intervento una efficacia rilevanteda un punto di vista quantitativo. In effetti, diversi studi dimostrano che la riduzioneponderale, da sola, è in grado di influenzare la sensibilità insulinica e di migliorarlaanche se non di correggerla completamente. A confronto, l’incremento dellasensibilità insulinica indotto dalla terapia insulinica o con ipoglicemizzanti orali(anche con la metformina) è estremamente meno importante. Infatti, la riduzioneponderale è in grado di agire sui meccanismi patogenetici dell’insulino-resistenza equesto spiega perché essa sia estremamente più efficace di qualsiasi altra misura,anche farmacologica, che invece agisca primitivamente correggendo la iperglicemia.

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In linea con questi risultati sono quelli, ancora preliminari, di qualche studio diintervento teso a valutare l’impatto di modifiche degli stili di vita sulla prevenzionedel diabete. Il primo di essi è stato condotto in primati non umani giacché è più facileriuscire a modificare la dieta di animali in cattività, piuttosto che modificare inmaniera stabile le abitudini di vita dei pazienti. Quando a un gruppo di scimmieadulte veniva somministrata una dieta che consentiva di mantenere il peso corporeostabile, senza ingrassare, a distanza di anni non veniva osservato nessun caso didiabete. Quando invece alle scimmie veniva data una dieta libera, il peso corporeodiventava quasi doppio rispetto alle scimmie trattate con una dieta stabilizzante ilpeso corporeo e, in conseguenza, circa la metà di queste scimmie sviluppavano ildiabete.Non dissimili sono i risultati dei pochi studi preliminari condotti sull’uomo. Uno diquesti è stato eseguito in soggetti con ridotta tolleranza al glucosio nei quali lacorrezione del sovrappeso è stata ottenuta con una procedura chirurgica: ilbendaggio gastrico. In questo studio l’incidenza di diabete osservata è stata dello0,15% per anno. Purtroppo non era disponibile un gruppo di controllo, tuttavia se siconfronta l’incidenza di diabete ottenuta in questo studio con quella riportata inletteratura per individui con grosso sovrappeso si vede che il rapporto è di circa 1 a10. Questi studi forniscono chiare indicazioni che la riduzione ponderale è in gradodi incidere sul rischio di sviluppare diabete.Tuttavia, c’è un generale scetticismo sulla possibilità di modificare le abitudini di vitadegli individui e di insegnare loro a cambiare il loro modo di nutrirsi, di fare attivitàfisica e quindi di perdere peso. Forse questo scetticismo nasceva dalla presunzioneche per poter ottenere la prevenzione del diabete si dovesse portare chi era insovrappeso al peso ideale. Oggi anche il termine “peso ideale”è stato abbandonatoperché era un concetto falsificante, in quanto si riferiva a una condizione ideale equindi non realizzabile nella pratica. È preferibile utilizzare, invece, il termine di pesominimo accettabile, che individua un obiettivo clinico certamente più realistico.Forse questo approccio minimalista è più efficace di quello massimalista del passato,come dimostrano alcuni studi recentemente apparsi in letteratura. Questi studiindicano che una riduzione dell’introito energetico di 300-500 Kcal al giorno e/o unincremento del dispendio energetico (attività fisica) di 200-300 Kcal al giorno èottenibile in una considerevole proporzione della popolazione in sovrappeso perperiodi superiori ai due anni. Questo tipo di intervento è in grado solitamente direalizzare una riduzione ponderale intorno ai 4 o 5 kg. In quelli che hanno persoalmeno 4-5 chili, l’incidenza di diabete si riduce del 30% rispetto al resto dellapopolazione. Quindi delle misure anche abbastanza modeste, a prima vista pocosignificative, riescono ad avere un impatto sul rischio di diabete che è clinicamenteabbastanza rilevante. Una nuova generazione di studi di intervento dovrà porsiproprio obiettivi di questo tipo, meno ambiziosi ma più facilmente realizzabili nellapratica, per dimostrare definitivamente che la riduzione ponderale è realizzabile edè efficace.I fattori che possono influenzare il rischio di diabete non sono soltanto legatiall’obesità, quindi alla quantità di calorie introdotte con la dieta, ma sono legatianche alla composizione della dieta. Su questo aspetto i dati in nostro possesso sonopiù scarsi e inoltre occorre prestare particolare attenzione alla loro interpretazionegiacché l’introito calorico rappresenta un fattore confondente di cui bisognacomunque tener conto. Ad esempio molti studi hanno dimostrato che un aumentodei grassi nella dieta (indipendentemente dal tipo di grassi) predispone al diabete;tuttavia questa relazione si spiega perché un aumento dei grassi nella dieta (piùcalorie) predispone all’obesità e quindi l’effetto non è diretto, ma mediatodall’introito calorico. Tuttavia, se si tiene conto dell’effetto confondente dell’introito

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calorico e si esprime ciascun tipo di grassi come percentuale dei grassi totali, ilquadro, inizialmente confuso, inizia a chiarirsi e si può evidenziare che l’uso di grassimonoinsaturi si associa a minore rischio di diabete rispetto all’uso di grassi saturi.Occorre quindi tener conto della dieta nel suo complesso imparando a separare glieffetti di alimenti che a prima vista sembrano simili perché contengonoprevalentemente grassi o prevalentemente carboidrati o proteine.Ciò è vero anche per gli alimenti ricchi in carboidrati. Infatti diversi studi che hannomesso in relazione la quantità di carboidrati nella dieta con il rischio di diabetehanno avuto risultati contrastanti. Tuttavia, se si tiene conto del contenuto in fibre edell’indice glicemico, si vede che il rischio di diabete è direttamente proporzionale alcarico glicemico della dieta (quantità di carboidrati × indice glicemico di ciascunalimento) ed è inversamente proporzionale al contenuto in fibre vegetali della dieta.Quindi aumentando la quantità di carboidrati a elevato indice glicemico nella dietaaumenta il rischio di diabete, mentre aumentando il consumo di alimenti ricchi siain carboidrati che in fibre vegetali il rischio di diabete si riduce. Pertanto gli individuiche hanno maggior rischio di diabete sono quelli con una dieta ricca in carboidrati epovera in fibre, mentre quelli a minor rischio sono quelli che utilizzano una dietapovera in carboidrati ad alto indice glicemico e ricca, invece, di alimenti checontengono sì carboidrati, ma a basso indice glicemico e/o ricchi in fibre. Sono,questi, studi di osservazione e quindi non conclusivi. Abbiamo bisogno di studi diintervento per poter trarre conclusioni definitive; questa osservazione, tuttavia,richiama l’attenzione su alimenti che sono già consigliati al paziente diabetico per iloro benefici effetti metabolici (legumi, frutta e ortaggi) e sui quali si apre adesso unanuova stagione di studi per valutare anche il loro impatto positivo sulla prevenzionedel diabete.In attesa dei risultati di questi studi l’approccio più ragionevole alla prevenzione deldiabete è quello di consigliare un migliore equilibrio tra calorie ingerite e energiaconsumata senza pretendere sacrifici eroici, ma limitandosi a suggerire semplicimisure per essere più attivi (basta anche 1/2 ora di esercizio fisico al dì) e per limitareil consumo di alimenti ad alta densità energetica (grassi, bevande zuccherate, dolci).Per quanto attiene alla composizione della dieta è molto verosimile che le abitudinialimentari valide per una efficace prevenzione delle patologie cardiovascolari e deitumori possano essere utili anche per la prevenzione del diabete. Questo consenteun approccio preventivo unitario rivolto alle patologie più frequenti nel mondooccidentale, in grado di ottimizzare il rapporto benefici/rischi e utile perimplementare da subito misure verosimilmente opportune anche per la prevenzionedel diabete, in attesa di risultati definitivi degli studi di intervento.

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LA TERAPIA FARMACOLOGICA DEL DIABETE DI TIPO 2Stefano Del PratoCattedra di Malattie del Metabolismo, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale,Università di Padova

Il fine della terapia ipoglicemizzante del diabete mellito è garantire al pazientediabetico una vita libera da sintomi ma soprattutto libera da complicanze a lungotermine. Studi ormai divenuti pietre miliari della diabetologia costituiscono ilrazionale del controllo glicemico quale fondamentale tappa per la prevenzione dellacomplicanza diabetica. Il DCCT ha chiaramente dimostrato come lo stretto controllodella glicemia sia in grado di ridurre l’incidenza e la velocità di progressione dellamicroangiopatia (retinopatia e nefropatia) e della neuropatia (1). Per quanto nonspecificatamente disegnato allo scopo, il DCCT forniva anche indicazioni sulpossibile impatto favorevole del buon controllo glicemico sull’eventocardiocircolatorio. Risultati molto simili sono stati riportati nello studio giapponesedi Kumamoto (2), dove un effetto positivo sulla complicanza microangiopatica eneuropatica veniva confermata in diabetici di tipo 2 in trattamento insulinicointensivo. Anche in questo caso il dato relativo alla macroangiopatia rimanevamarginale, soprattutto per l’esiguo numero di eventi registrati (2).Nel diabete di tipo 1 il trattamento insulinico è un esempio classico di terapiaendocrina sostitutiva. Al contrario, il diabete di tipo 2 include tutta una serie di mezzifarmacologici che riflettono e i diversi gradi di severità della malattia e la complessitàdella sua patogenesi. Il diabete di tipo 2 è infatti patologia subdola che inizia, nellavasta maggioranza dei casi, con iperglicemie isolate prevalentemente post-prandialie che riconosce la compartecipazione di un difetto di secrezione insulinica e diazione dell’ormone (insulino-resistenza).Sfortunatamente, nessuno dei farmaci disponibili e correntemente impiegati èesente da potenziali effetti indesiderati. La stessa iperinsulinemia cronica quale siottiene con un trattamento insulinico intensivo svolgerebbe, secondo alcuni Autori,un effetto aterogeno (3). Le sulfoniluree agiscono sui canali del potassio della beta-cellula così come su quelli delle pareti vasali potendo alterare la vasodilatazionepost-ischemica e aumentare il rischio di accidenti cardiovascolari (4). La metforminapuò non essere completamente indicata in pazienti a rischio di ipossia a causadell’aumentato rischio di acidosi lattica (5). Infine, non esiste un consenso universalesul momento e sulla specifica indicazione all’uso di un farmaco rispetto all’altro peril trattamento del diabete di tipo 2.Informazioni più appropriate possono venire solo da ampi studi randomizzati daiquali possa emergere il ruolo del controllo glicemico nella prevenzione dellacomplicanza nel diabete di tipo 2 e l’eventuale vantaggio di un approccio terapeuticorispetto a un altro in funzione della tipologia della malattia. Già negli anni sessantalo University Group Diabetes Program (UGDP) aveva confrontato gli effetti dellaterapia con tolbutamide, fenformina e insulina (6). Quello studio venne interrotto acausa della eccessiva frequenza di episodi di acidosi lattica nei pazienti trattati confenformina e per un eccesso di eventi cardiovascolari in quelli che assumevano la

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sulfonilurea. I risultati furono fonte di innumerevoli querelles, la critica maggiorerelativa a un possibile pregiudizio di selezione dei pazienti.I risultati più solidi sin qui forniti derivano dallo United Kingdom ProspectiveDiabetes Study (UKPDS) (7). Lo studio inglese, avviato nel 1977, ha seguito per unperiodo medio di 10 anni 3867 pazienti con diabete mellito di tipo 2 di nuovadiagnosi assegnati, in modo randomizzato, a trattamento intensivo con sulfonilureao insulina o a trattamento convenzionale con dieta. Nel corso dei 10 anni diosservazione l’emoglobina glicata era pari al 7,0% nel gruppo in trattamentointensivo e 7,9% in quello a trattamento convenzionale. Questa divaricazionecomportava una riduzione pari al 12% (p=0,029) degli eventi correlati al diabete conun particolare effetto sulle complicanze microangiopatiche (-25%; p=0,0099). Ilconfronto tra il trattamento con insulina o con sulfoniluree non evidenziava alcunospecifico vantaggio di un trattamento rispetto all’altro.Sulla scorta di questi risultati, si potrebbe ben concludere che, nella misura in cui il

buon controllo glicemico venga assicurato,non vi sono peculiari indicazioni all’uso diinsulina o sulfoniluree. È però importanteanalizzare in modo più accurato i risultatidello UKPDS. In particolare, si puòapprezzare come dopo l’iniziale miglio-ramento della HbA1c ottenuto con il tratta-mento intensivo, il controllo glicemicopeggiorasse con una velocità di pro-gressione eguale a quella osservata neipazienti in trattamento convenzionale(fig. 1). Il motivo di questo andamento puòessere ascritto alla: 1. storia naturale deldiabete mellito, o 2. parziale efficacia dellaterapia farmacologica a nostra dispo-sizione.Lo UKPDS venne disegnato nel 1975 eavviato nel 1977. L’obiettivo terapeuticodichiarato dello UKPDS era la nor-malizzazione della glicemia a digiuno e

nessun altro criterio metabolico veniva considerato nelle decisioni terapeutiche, inparticolare nessun peso è stato attribuito alle glicemie nel corso della giornata.Questo tipo di scelta ha degli ovvi riflessi sull’impatto dei vari tipi di terapia posti inessere.

Terapia con sulfonilureeLe sulfoniluree esercitano il loro effetto stimolando e/o potenziando la secrezione diinsulina. Nel diabete di tipo 2 è sempre presente un difetto di secrezione tale dagiustificare il ricorso a un secretagogo. Il difetto di secrezione non è però sempre esolo un difetto quantitativo, bensì più frequentemente esso è qualitativo. Nelle fasiiniziali della malattia si può facilmente riconoscere una perdita della fase precoce,rapida della secrezione beta-cellulare. Nelle fasi più avanzate, mentre può persistereuna fase secretiva tardiva più sostenuta, la prima fase è irrimediabilmente deficitaria.La prima fase di secrezione insulinica non è un semplice marcatore della disfunzionepancreatica, ma riveste un notevole ruolo fisiologico nella regolazione omeostaticadel metabolismo glucidico. Il secreto beta-cellulare viene riversato nel torrenteportale cosicché è il fegato a essere insulinizzato in prima battuta. La perdita della

Figura 1Andamento della

emoglobina glicatanei pazienti

randomizzati atrattamento intensivoe convenzionale nelcorso del follow-up

mediano delloUKPDS (adattato da

ref. 7)

9

8

7

6

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(%

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Anni dalla randomizzazione

Convenzionale

6,2% limite superiore dell’intervallo di normalità

Intensiva

00 3 6 9 12 15

1c

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prima fase di secrezione insulinica si accompagna a una minore efficacia nellasoppressione della produzione epatica di glucosio e a una peggiore tolleranzaglucidica nelle fasi post-prandiali. I picchi iperglicemici, soprattutto post-prandiali,rivestono una grande importanza. Infatti, sono le glicemie nelle fasi che seguonol’assunzione di un pasto quelle che più marcatamente influenzano i livelli di HbA1c(8). Inoltre, sempre maggiori sono le evidenze che suggeriscono come il piccoiperglicemico possa determinare un effetto negativo indipendente sulla comparsa edevoluzione della complicanza micro- e macroangiopatica (9).È altrettanto vero che la produzione epatica di glucosio è un determinante dellaglicemia a digiuno ma le nostre abitudini alimentari fanno sì che sempre maggioreè il periodo delle fasi post-prandiali rispetto a quello di digiuno. Quindi, se la sceltadi una sulfonilurea di lunga durata, quale glibenclamide e clorpropamide impiegatenello UKPDS, può rientrare nella logica del controllo della glicemia basale, piùappropriato sembra il ricorso a farmaci in grado di ripristinare la dinamica disecrezione insulinica: in altre parole farmaci in grado di generare un rapido aumentodella insulinemia in concomitanza con la loro assunzione e come tali capaci dicontenere l’escursione glicemica post-prandiale, contribuire a migliorare il controlloglicemico generale e limitare il danno intrinseco alla escursione glicemica acuta.Questo punto è ritenuto così importante che i nuovi agenti ad attività secretoriabeta-cellulare tendono ad avere come obiettivo proprio il ripristino della fase dirilascio rapido dell’insulina (10). La meglitinide è un derivativo dell’acido benzoicocapace di stimolare il rilascio rapido dell’insulina. Questo composto e i suoi analoghiaumentano il rilascio glucosio-mediato di insulina riducendo la conduttanza delpotassio nella beta-cellula e non stimolano la secrezione in assenza di nutrienti. Larepaglinide è l’analogo recentemente introdotto nella farmacopea diabetologia. Diprossima immissione è anche la nateglinide, un derivativo della fenilalanina dotatadi analoghe proprietà.Lo UKPDS ha confermato che il trattamento con sulfoniluree, così come la terapiainsulinica, comportano un aumento del rischio ipoglicemico. Oltre ai rischi acutidella riduzione dei tassi ematici di glucosio, l’ipoglicemia è causa di fluttuazioniglicemiche. Tanto maggiore l’instabilità glicemica tanto più elevato il rischio dimortalità nella popolazione diabetica anziana (11). Quindi, il trattamento idealedovrebbe essere quello che comporta una significativa riduzione delle glicemienell’intero arco della giornata con il più basso grado di fluttuazioni. In quest’otticanuove molecole tentano di fornire nuove armi al diabetologo nella gestione delpaziente con diabete di tipo 2. Ad esempio, una sulfonilurea della terza generazionecome la glimepiride, per sue specifiche caratteristiche di legame al recettore dellabeta-cellula, indurrebbe una secrezione più modulata rispetto delle variazioniglicemiche, cosicché, a parità di livello di HbA1c rispetto a sulfoniluree della secondagenerazione, la frequenza delle ipoglicemie è ridotta (12).In conclusione, un trattamento moderno con sulfoniluree dovrebbe produrre: 1. unasecrezione insulinica più fisiologica; 2. un controllo glicemico più stabile con unaminore escursione glicemica soprattutto nelle fasi post-prandiali.

La terapia insulinicaLo UKPDS ha confrontato non solo gli effetti del trattamento intensivo verso quelloconvenzionale, ma ha anche ricercato eventuali vantaggi intrinseci alla terapiainsulinica verso quella con sulfoniluree. Il trattamento insulinico ha dei vantaggiteorici in quanto, se opportunamente impiegato, dovrebbe essere in grado dicontrollare anche gli squilibri glicemici più severi. Di certo, la terapia insulinica puòessere, prima o poi, essenziale in molti diabetici di tipo 2. Gli svantaggi sono

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ovviamente quelli della “scomodità”dell’iniezione sottocutanea, dell’aumentodel peso corporeo, del rischio del-l’ipoglicemia. Lo UKPDS avrebbe invecesmentito un effetto aterogeno del trat-tamento cronico con insulina.Lo studio inglese ha, comunque, adottatoun criterio restrittivo nel disegnare lastrategia terapeutica con insulina, con-sistendo questa prevalentemente in unainiezione serale di insulina-NPH. Questoapproccio ben rispondeva agli obiettiviterapeutici predefiniti, cioè un valoreglicemico a digiuno £ 110 mg/dL. Datoche la glicemia a digiuno è sostanzial-mente funzione del rilascio epatico diglucosio (13) la somministrazione di unainsulina ritardo serale con l’obiettivo dicontenere la produzione epatica notturnaappare indicata e razionale. Ciò facendoperò si è completamente dimenticato qualè il tipico disturbo secretivo beta-cellulare.I dati della letteratura indicano che lasecrezione basale di insulina è frequen-temente conservata nel diabetico di tipo 2mentre costantemente deficitaria è larisposta rapida in corrispondenza del-l’assunzione di alimenti. L’effetto di unanalogo dell’insulina ad azione rapidacome l’insulina lispro rispetto all’insulinaumana pronta è stato oggetto di unarecente esperienza del nostro gruppo diricerca (14). L’insulina lispro, rispettoall’insulina pronta, si caratterizza per unapiù rapida comparsa in circolo, un piccopiù elevato e una emivita più breve,proponendosi, quindi, come un possibile

mezzo per ripristinare il rapido incremento di insulinemia in corrispondenza deipasti. Sono stati studiati pazienti con diabete di tipo 2 cui venivano somministrati50 g di glucosio per os preceduti da equivalenti dosi (0,075 U/kg di massa magracorporea) di insulina lispro o pronta. La figura 2 riassume i risultati dello studio cheha evidenziato come, a parità di quantità totale di insulina resa disponibileall’organismo, la ricostruzione di una comparsa rapida di insulina in circolo ottenutacon l’insulina lispro comportasse una riduzione del 40% dell’area incrementale delglucosio e, dato interessante, una riduzione dell’area incrementale del C-peptide, asuggerire un effetto risparmio sulla beta-cellula. Il ricorso a tecniche isotopiche hainoltre permesso di definire come il meccanismo responsabile del miglioramentodella tolleranza glucidica fosse interamente dovuto a una più efficace inibizionedella produzione endogena di glucosio. Un altro dato positivo era che, con ilripristino di una fase rapida di innalzamento dell’insulinemia, i livelli dell’ormonenelle fasi tardive erano ridotti, a indicare la possibilità che la tolleranza glucidica puòessere migliorata senza incorrere nella iperinsulinemia.

Figura 2Aree incrementali di

glicemia (in alto)insulinemia (al

centro) e C-peptide(in basso) in pazienti

diabetici di tipo 2dopo assunzione di50 g di glucosio per

os preceduta dallasomministrazione

sottocutanea di0,075 U/kg di massa

corporea magra diinsulina umanapronta (colonne

vuote) o analogolispro (colonnepiene) (ref. 14)

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Livelli elevati di insulina persistenti nelle fasi post-prandiali contribuiscono tral’altro a elevare il rischio di ipoglicemia e di aumento del peso corporeo. E in effetti,nello UKPDS, il ricorso a sulfoniluree e preparazioni di insulina a lunga duratahanno comportato un significativo aumento del peso corporeo.

La terapia con farmaci insulino-sensibilizzantiSe l’aumento dei livelli di insulina circolante, comunque indotto, determina unaumento del peso corporeo, questo tipo di approccio potrebbe divenireproblematico in pazienti diabetici obesi. Lo UKPDS ha randomizzato un gruppo disiffatti pazienti a trattamento con metformina (15), ottenendo un grado di controlloglicemico analogo a quello ottenuto con insulina e sulfoniluree senza incorrerenell’aumento cronico dei livelli di insulinemia né di peso corporeo. Ancor piùsorprendente è stato il risultato in termini di riduzione del rischio di complicanze. Adifferenza di insulina e sulfoniluree, il vantaggio conferito dal controllo glicemicocon metformina non si limitava alla microangiopatia, ma diveniva statisticamentesignificativo anche per la macroangiopatia, con una riduzione del 39% dell’infartodel miocardio (p=0,01).Quale sia il motivo di questo risultato non è completamente chiaro. L’evitare unulteriore incremento ponderale potrebbe avere favorevolmente influito sullacomparsa ed evoluzione della macroagiopatia. Se i nuovi farmaci per il trattamentodell’obesità risulteranno realmente efficaci, sarà possibile valutare il contributodell’eccesso di peso corporeo al rischio connesso al diabete. Dati inizialisuggeriscono che l’uso di orlistat, un inibitore delle lipasi intestinali, in diabetici ditipo 2 comporta un miglioramento del controllo glicemico e del profilo lipidico (16).Di fatto, la stessa metformina potrebbe esercitare effetti favorevoli in modo diretto.È noto da tempo che la metformina esercita un effetto favorevole sul profilo lipidico,sul profilo coagulativo, sui valori pressori oltre a ridurre i livelli medi di insulinemia.La metformina agisce sulla resistenza all’insulina e l’insulino-resistenza potrebbeessere collegata al rischio cardiovascolare. Anche in questo caso, la ricercafarmaceutica sta per mettere nelle mani del diabetologo nuove armi: itiazolidinedioni. Il primo rappresentante di questa famiglia di farmaci che grazie allaloro interazione con i recettori PPAR-γ migliorano la sensibilità all’insulina (17) è iltroglitazone. L’uso del farmaco è limitato agli Stati Uniti essendo esso stato ritiratonegli altri Paesi a causa di un certo grado di epato-tossicità. Farmaci più maneggevolie sicuri sono comunque prossimi: rosiglitazone e pioglitazone permetteranno didefinire il reale impatto dell’intervento sulla insulino-sensibilità del pazientediabetico di tipo 2.

Terapie associateLe analisi dello UKPDS sono tutte“intention to treat”. In altre parole, la valutazionecomparativa avveniva in funzione della randomizzazione iniziale indipen-dentemente dal fatto che il singolo paziente venisse mantenuto per l’intero periododi osservazione con il farmaco iniziale. Uno dei risultati chiave dello studio inglese èproprio quello di avere dimostrato come, nell’evolvere della patologia, sempremaggiore è il numero di soggetti che richiede un trattamento combinato con due epiù farmaci. Il trattamento combinato è, di fatto, una realtà e le linee guida di variorganismi internazionali hanno tentato di razionalizzarne l’indicazione. Lo UKPDSha, peraltro, riportato un risultato che ha suscitato iniziale preoccupazione dato chel’associazione di metformina e sulfonilurea avrebbe comportato un più elevatogrado di eventi cardiovascolari. Un’analisi più accurata dei dati sembra però indicare

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che questo risultato sia imputabile non tanto a un reale incremento degli eventi nelgruppo di pazienti in trattamento combinato, quanto in un anomalo numerolimitato di accidenti cardiovascolari nel gruppo di controllo in monoterapia.In modo più realistico i risultati dello UKPDS indicano che il trattamento combinatoè una tappa quasi obbligata nella storia naturale del diabete di tipo 2. L’importanteè che questo intervento non venga dilazionato, ma piuttosto venga avviato nonappena i limiti di guardia relativi al controllo glicemico vengano superati. Le varieassociazioni possono essere impiegate in modo successivo o alternato e comunquein modo tale da garantirsi quanto più possibili mezzi per ricondurre entro i limiti disicurezza (HbA1c ≤7,0) il controllo glicemico non appena esso tenda a deteriorarsi.È utile ricordare come lo UKPDS abbia, in quest’ottica, esplorato anche l’efficaciadell’associazioe alla terapia di base dell’acarbosio, dimostrando la possibilità diottenere una riduzione media della HbA1c di 0,5 punti percentuali (18).Il concetto di trattamento combinato dovrebbe però essere allargato a includerequello di trattamento complesso o multiplo. Ancora una volta lo UKPDS ha fornitodati di estrema solidità a sostegno della importanza del trattamento di patologiefrequentemente associate al diabete mellito di tipo 2 (19). La randomizzazione deipazienti UKPDS a un trattamento aggressivo (PAO 144/82 mmHg) rispetto a unomeno aggressivo (PAO 154/87 mmHg) comporti una significativa riduzione delrischio di micro- e macroagiopatia. Lo studio 4S (20) ha egualmente dimostrato lapotenza, in termini di riduzione della mortalità cardiovascolare, del trattamento constatine nel paziente diabetico. Nel loro insieme, questi studi indicano come associataalla terapia ipoglicemizzante debba essere prontamente instaurata una terapiaantipertensiva e ipolipidemizzante.

ConclusioniLa terapia ipoglicemizzante del diabete di tipo 2 continua a sfruttare principiidentificati ormai da oltre mezzo secolo. Nuove conoscenze fisiopatologichedovrebbero guidare una terapia moderna, terapia che dovrebbe risultare piùaggressiva con l’introduzione di nuovi farmaci concepiti per correggere in modo piùspecifico i meccanismi patogenetici responsabili del disturbo metabolico. Inparticolare, la terapia del diabete di tipo 2 potrà correggere il difetto secretoriodinamico della beta-cellula (ripristino della fase rapida di secrezione), migliorareulteriormente la sensibilità all’insulina, ridurre il peso corporeo. Gli sforzi terapeuticidovranno essere indirizzati verso obiettivi ben definiti (HbA1c ≤7,0) ma conparticolare riguardo al controllo della glicemia in ogni fase della giornataprovvedendo a ridurne quanto più possibile le oscillazioni nel corso della giornata etra giorno e giorno. Nell’ottica del mantenimento di un controllo glicemico ottimalee costante, l’instaurazione di varie forme di terapia associata dovrà essere presa inconsiderazione ogni qualvolta i livelli soglia vengano superati, così comeprontamente dovrebbe essere instaurata una terapia insulinica razionale. Ma seaggressivo dovrà essere l’atteggiamento nei confronti del metabolismo glucidico,altrettanto pronto ed efficace dovrà essere il trattamento delle patologie associate: inparticolare, ipertensione e dislipidemia.Ma prima ancora di mettere in atto tutti presidi di cui sopra, fondamentale sarà, nelfuturo, il pronto riconoscimento del disturbo metabolico così da permetterne unaprecoce correzione. La lezione viene ancora dallo UKPDS. Al momentodell’arruolamento, dei pazienti con nuova diagnosi di diabete mellito oltre il 25% giàpresentava i segni di una o più complicanze d’organo. Il compito del diabetologosarà quindi di diagnosticare precocemente, trattare efficacemente, correggere non lasola iperglicemia ma l’intera malattia metabolica, che il diabete di tipo 2 è malattiametabolica più che endocrinologica.

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La gestione della malattiadiabetica: il punto di vista delpaziente e del medicoU. Valentini (Brescia)

L’educazione come momentofondamentale per la cura el’autogestione del diabeteN. Musacchio (Milano)

Tecniche e strategiepedagogiche nell’educazione delpaziente diabetico A. Maldonato (Roma)

Le competenze professionali nelprocesso educativo V. Miselli (Reggio Emilia)

Fattibilità dell’interventoeducativo. Costi e beneficiC. Noacco (Udine)

Autogestione del diabete

1 ° C O N G R E S S O R O C H E P A T I E N T C A R E

DIABETOLOGIAGIORNALE ITALIANO DI

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LA GESTIONE DELLA MALATTIA DIABETICA:IL PUNTO DI VISTA DEL PAZIENTE E DEL MEDICOUmberto ValentiniUnità Operativa Diabetologica, Spedali Civili di Brescia

Ottenere risultati clinici che permettano al paziente diabetico di evitare lecomplicanze della malattia, e non andare incontro a una mortalità precoce, non èassolutamente facile e la maggior parte di questi risultati si possono raggiungereesclusivamente attraverso un impegno particolare del paziente.Cosa intendiamo per gestione? Gestione deriva dal latino“gerere”: vuol dire mettereinsieme una serie di azioni, di operazioni che servono per raggiungere degliobiettivi. Dobbiamo quindi organizzare la gestione della malattia diabetica non soloper ottenere la prevenzione delle complicanze e la buona qualità della vita del nostropaziente, ma soprattutto per mantenere questi risultati negli anni.

Le caratteristiche della malattia cronicaPer meglio comprendere le difficoltà della gestione del diabete, è opportuno rifletteresulle caratteristiche delle malattie croniche. Il diabete si può considerare il prototipodella malattia cronica: dà pochi segnali d’allarme, spesso nessun sintomo o pochisintomi, ciò che nella credenza comune vuol dire “assenza di malattia “.La causa di una patologia cronica sovente non è chiara e di conseguenza i rimedi nonsono molto incisivi. Spesso vi sono gravi danni d’organo con pochissimi segnalid’allarme; l’evoluzione è incerta e lo stile di vita influenza l’evoluzione della malattia.Il trattamento è diverso da quello che noi proponiamo per la malattia acuta (e cioèdiagnosi, trattamento per un breve periodo, dopodiché il paziente, quando va tuttobene è guarito). Nel caso della malattia cronica il trattamento è importante perché ilpaziente stia bene e sopravviva, ma comporta una disciplina quotidiana e quindi ilpaziente tutti i giorni dedica del tempo alla terapia che così interferisce con la vitasociale; inoltre ha effetti non sempre facili da prevedere, e viene prescritta da moltimedici.Il paziente, di fronte al peso della cronicità, rifiuta la malattia: si rende conto che faerrori e che deve imparare molte cose, spesso in qualche modo, deve curarsi da soloe deve trovare una mediazione tra la terapia e il suo stile di vita. E certamente, questemalattie creano problemi nella vita familiare, sociale e lavorativa; costano care, nonsolo in senso economico, ma anche dal punto di vista psicologico e sociale.Sono malattie che nella monotonia, tipica della cronicità, danno spesso crisi, crisiacute: basti pensare all’ipoglicemia, oppure alle crisi iperglicemiche del diabetico.I pazienti si rendono conto delle conseguenze che possono capitare nel tempo equesta spada di Damocle dà impatti diversi: alcuni rifiutano completamente lamalattia, altri la vivono in una situazione di ansia continua.I medici sono preparati per la gestione dell’acuto, quindi formati per guarire: hannola soddisfazione più grande di fronte a un paziente che se ne va più o menorapidamente, guarito. Seguire una malattia cronica diventa un lavoro sfibrante,ripetitivo, monotono:

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• molto spesso, nel tempo, i sanitari dicono allo stesso paziente le stesse cose,magari in modo diverso, ma comunque sempre con gli stessi contenuti

• gli interventi terapeutici sono abbastanza limitati • i sanitari si sentono soli nel proprio lavoro e non sempre riescono a fare quello che

vorrebbero fare.Cosa comporta questa situazione? Cosa comporta la malattia cronica? Comportache, per il paziente, è estremamente difficile mettere in atto la terapia prescritta.I dati della letteratura indicano che, dopo tre anni dall’inizio della malattia, solo il34% dei pazienti riesce a seguire correttamente la terapia; solo il 33% dei genitoririesce a fare correttamente nel tempo la terapia per il reumatismo articolare acuto. Igenitori sono sicuramente motivati, eppure l’aderenza alla terapia prescritta scende.Quindi ci sono grosse difficoltà tra ciò che viene prescritto dai medici e quello che ilpaziente riesce a mettere in atto.A questo punto è chiaro che qualsiasi tipo di intervento, anche bene organizzato, ilfarmaco più sofisticato e costoso, in realtà servono molto poco se il paziente nonriesce poi a gestirsi la malattia.Gli obiettivi della cura del diabete sono: ottimizzare il controllo metabolico,prevenire le complicanze, evitare l’ospedalizzazione, mantenere un buon rapportomedico-paziente, migliorare la qualità della vita.Sono sicuramente obiettivi condivisi da tutti e misurabili attraverso: l’emoglobinaglicata, la glicemia, la colesterolemia, i trigliceridi, il peso corporeo, la pressionearteriosa, l’astensione dal fumo.Nella maggior parte di questi risultati biologici, deve intervenire per forza il paziente:infatti si possono raggiungere, ma soprattutto mantenere nell’arco degli anni,soltanto se il paziente viene coinvolto nella autogestione consapevole della malattia.Il paziente di fronte a questi obiettivi clinici si sente spesso confuso: oculista, medicidi famiglia, diabetologo, dietista, nefrologo, psicologo, dentro e fuori dall’ospedaledanno una serie di informazioni, di suggerimenti, tecnici o di tipo comportamentale,che spesso creano confusione. Il paziente quindi si trova in difficoltà: “Cosa devofare, ma quanto tempo devo perdere, ho problemi di lavoro, ho problemi di scuola,ma che cosa mi dicono, non capisco cosa mi stanno dicendo”.

Le difficoltà per il pazienteAlcune tra le difficoltà maggiori nell’aderire alla terapia prescritta si ritrovanoall’interno della famiglia: gli orari della terapia, la dieta, impongono al paziente uncomportamento diverso (perlomeno dal punto di vista del paziente), rispetto aquello degli altri componenti della famiglia. Il paziente diabetico si sente di peso, inqualche modo isolato, incompreso e qualche volta ha l’impressione di doverescegliere tra curarsi, e quindi isolarsi dal resto del nucleo familiare, oppure, noncurarsi e rimanere all’interno del gruppo familiare.Per il diabetico è difficile rispettare continuamente il ritmo quotidiano della terapia,nella sua globalità (attività fisica, alimentazione, farmaci, autocontrollo) abituale.Quindi questo cosa vuol dire? Che, nonostante un giorno sia diverso dall’altro, ilritmo della terapia rimane uguale.Diventa difficile mangiare quando non si vuole, per esempio lo spuntino prima dicoricarsi: in sostanza seguire regole che li differenziano dalle altre persone.Queste regole vengono intese in senso costrittivo, non come strumenti per gestire inmodo equilibrato la malattia, ma come un macigno che li schiaccia, li vincola adatteggiamenti e comportamenti non abituali.Inoltre l’impegno nella gestione della malattia, non li rassicura sul fatto che lamalattia non evolva, per cui, sullo sfondo, rimane sempre questa preoccupazione:

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“Ma che cosa mi succederà? Io sono qui che faccio quattro iniezioni al giorno,controllo quattro volte al giorno la glicemia, sto attento a quello che mangio, mimuovo, correggo continuamente la dose, ma sono sicuro che poi tutto questo miservirà? Sono sicuro che poi tutto questo eviterà che io vada incontro allecomplicanze? Quanto tempo devo dedicare ai controlli? La giornata di lavoro o discuola è tale che per me è difficile avere tempo. Gli operatori sanitari spesso hannofretta, devono dedicare tempo a tutti e quindi non c’è l’opportunità di riuscire aspiegare ciò che si vorrebbe “.A questo punto il nostro paziente si sente solo, confuso, depresso, preoccupato peril futuro. Questi sono i sentimenti, le emozioni, le sensazioni che spesso i diabeticiprovano nel cercare di mantenere nel tempo una buona aderenza alla terapiaprescritta.Un esempio classico è la messa a dieta di un paziente diabetico obeso: il nostropaziente non accetta, ignora la malattia, che interferisce profondamente con lo stiledi vita, non ha informazioni per gestire correttamente la malattia, e soprattutto nonha sintomi e quindi, secondo le credenze comuni, se non c’è dolore non esiste lamalattia.E il medico ha difficoltà ad ascoltare il paziente, è preparato a guarire ed èimpreparato a educare il paziente.Quindi cosa succede quando noi vogliamo mettere a dieta un paziente diabetico ditipo 2 obeso? Sappiamo che una perdita del 10% del peso corporeo permette spessodi normalizzare le glicemie e anche gli altri fattori di rischio (colesterolo,pressione...), ma di fronte a tutti i medici che gli dicono “devi dimagrire” (ildiabetologo, la dietista, il cardiologo, il nefrologo, l’oculista) il paziente si difende,resiste tant’è che la nostra osservazione più frequente è che questi pazienti nondimagriscano per niente, o se perdono un peso lo recuperano nel tempo.Ma questo perché? Perché il paziente ha delle proprie opinioni, non ha capito:“Eh, continuano a spiegarmi, a dirmi carboidrati, lipidi, proteine e questo e quello equell’altro, ma io non riesco a capire cosa mi stanno dicendo e quindi se non capisco,non riesco a mettere in pratica quello che dovrei fare. Le mele verdi fanno bene aldiabetico - è una cosa nota che “Una mela al giorno toglie il medico di torno”, quelleverdi poi guariscono il diabete. Per cui le mele verdi si possono mangiare in quantitàanche se costano di più. Con il mio lavoro è impossibile, devo trovarmi con i clientia mezzogiorno, non posso rinunciare ai pasti, oppure ai turni di lavoro”.... “Sto bene, dicono che ho il colesterolo alto, la glicemia alta, la pressione alta, main realtà non ho nessun disturbo e quindi vuol dire che sto bene; quindi vuol direche i medici si sbagliano, in realtà io non ho nessun problema, e poi soprattutto nonmangio nulla, assimilo tutto, anche l’acqua, ci sono quelli che mangiano tantissimoeppure sono magri, io sono fatto in modo diverso, vuol dire che quel poco chemangio me lo metto tutto quanto addosso”.Come si comporta il medico? Quali sono le giustificazioni?E alla fine, come viene messo a dieta il paziente, dopo tutta questa opinione diversadel “È colpa della struttura, non riesco a far calare di peso quel paziente perché nonho tempo, mi fan fare un mucchio di altre cose, turni, guardie, problemi conl’amministrazione, quindi se potessi star lì il tempo necessario a quel paziente sonosicuro che riuscirei a farlo calare di peso e a mantenergli il peso basso e questorisultato nell’arco del tempo, nell’arco degli anni. E poi non ho la dietista, il nostroospedale non assume le dietiste e quindi mi manca il tecnico, il professionista chepossa costruirmi le diete personalizzate e con quelle sicuramente farei calare di pesoil mio paziente. E poi mi mancano delle belle diete, non le ho. Nell’ospedale vicinohanno delle diete molto sofisticate, personalizzate, giornaliere, se avessi anch’ioquelle, sicuramente riuscirei a ottenere questo risultato. Poi se non è colpa della

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struttura è colpa del paziente: non ha la volontà, questo qui viene, mi dice di sì, main realtà non vuol fare quello che gli chiedo di fare. Non è motivato, non si rendeconto che corre il rischio di andare incontro a infarto, ictus e così via; glielo dicoanche e glielo spiego ma questo qui è come se non sentisse niente, non è propriomotivato, è come se se ne fregasse del tutto. Poi ragiona con lo stomaco. Dalle nostreparti si dice che “davanti al cuore c’è lo stomaco”e quindi pur di mangiare è dispostoa tutto. Non capisce assolutamente niente, gli parlo, gli spiego, sto lì delle ore, lomando anche dalla dietista, lo mando dall’infermiere, lo rivedo io, ma questo quinon capisce proprio niente.”.Spesso il paziente diabetico obeso viene messo a dieta con semplici e genericiconsigli: mangi di meno, si muova di più e poi “prenda questa dieta, sa leggere, lasegua, provi a pesarsi e vedrà che poi se sta attento davvero perde peso”.Ma nel momento in cui noi prescriviamo un regime dietetico in questo modo, cirendiamo quasi istantaneamente conto che il tempo che abbiamo impiegato colpaziente è tempo perso perché sappiamo quasi per certo che il nostro paziente nonperderà peso o, comunque, se lo perde, lo recupererà rapidamente.Allora qual è la soluzione per trasferire la nostra prescrizione in comportamenticorretti del paziente?Noi agiamo a livello di un approccio biomedico, il medico è formato da conoscenzebiomediche di fisiologia, fisiopatologia, farmacologia e in base a segni e sintomi cheva a rilevare, e in base ai disturbi che il paziente lamenta si pone diagnosi etrattamento. Quindi in questo modo il medico cura la malattia: è il tipico approccioche va bene per l’acuto. Il paziente cronico non riesce così a mettere in atto laprescrizione che noi abbiamo consigliato. Questo perché, accanto ai disturbioggettivi che noi possiamo rilevare, esistono una serie di disturbi soggettivi: ipreconcetti, le esperienze che ha avuto il paziente, le attese, le ansie e i timori, chevanno sicuramente a interferire in modo importante sui comportamenti del nostrodiabetico obeso, e più in generale del paziente cronico.Occorre quindi aggiungere alla professionalità biomedica una professionalità di tipobiopsicosociale: non rinunciare a “fare”il medico ma acquisire delle nuove capacità.Ci troviamo ancora a trattare la malattia e quindi fare un intervento di fondo,inefficace, un intervento che non permette di curare la patologia, patologia cheevolve comunque pian piano nel tempo, quindi dando un danno al paziente maanche determinando uno sperpero o comunque un impiego non corretto dellerisorse disponibili.L’arma vincente della cura della malattia diabetica diventa così l’educazioneterapeutica: che permette di ottenere una gestione corretta del paziente, non dellamalattia, e permette soprattutto di raggiungere quei risultati clinici, che in sintesivogliono dire mantenere nel tempo una buona qualità della vita, in assenza dicomplicanze croniche della malattia. Quindi, che l’educazione può essereconsiderata come una successione di momenti che il paziente può percepire comeuna catena di eventi in cui viene informato ad apprendere, si addestra, e poi mettein pratica quello che ha appreso nella sua vita quotidiana. E una serie di occasionianche per esplicitare i timori, le ansie, le paure, e anche gli errori, senza comunquela paura che i suoi insuccessi o le sue difficoltà possano in qualche modo incrinare ilrapporto con chi lo cura.E quindi possiamo considerare l’educazione come lo strumento che davvero puòpermettere di ottenere una prescrizione efficace: è lo strumento che permette diabbattere le barriere, che impediscono al paziente di arrivare a un’autogestionecosciente della malattia.

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L’EDUCAZIONE COME MOMENTOFONDAMENTALE PER LA CURA EL’AUTOGESTIONE DEL DIABETENicoletta Musacchio Servizio di Diabetologia, Ospedale Bassini, Milano

In tutte le patologie croniche una prevenzione efficace è legata all’aderenza allaterapia. Questo vuol dire che il paziente deve arrivare ad accettare un trattamento alungo termine e ad autogestire la propria cura, cioè assumersi la responsabilità delproprio stato di salute.Per ottenere ciò, il paziente deve arrivare a pensare che la malattia e le sueconseguenze possano essere gravi e reali; essere convinto che seguire il trattamentoavrà degli effetti benefici; pensare che i benefici controbilancino gli svantaggi dellaterapia e, soprattutto, arrivare ad assumersi e condividere la responsabilità dellaterapia e del suo stato di salute.Tutto ciò sta a significare che il paziente deve affrontare un percorso che preveda unacorretta e precisa informazione sulla malattia e il trattamento; la riformulazione diun nuovo concetto di integrità, in considerazione delle sue precedentirappresentazioni di salute e malattia, e arrivare a una accettazione attiva dellamalattia. Solo in questo modo potrà convincersi a curarsi e ottenere i risultati da noiauspicati. Nella cronicità, quindi, il medico deve imparare a controllare la malattiaattraverso il paziente arrivando a un’alleanza terapeutica che è uno degli obiettivifondamentali della terapia educativa.Diventa a questo punto evidente che solo una corretta motivazione consentirà alpaziente di fare propria una strategia di cura e gli permetterà di percorrere questocammino, ma anche che ogni operatore sanitario che si occupa di cronicità dovràimparare a motivare ogni paziente e diventare un tecnico della motivazione.

La motivazioneLa motivazione è la risultante di forze intrinseche ed estrinseche che determinano icomportamenti.Le forze intrinseche, legate al paziente, sono caratterizzate dalle modalità internepiù intime, di reazione agli stimoli, agli eventi.Le forze estrinseche sono le risorse esterne all’individuo che in qualche modopossono incidere sulle sue scelte e che permettono il cambiamento, l’evoluzione.Nella relazione medico-paziente sono legate ai comportamenti e agli atteggiamentidel medico e quindi più semplicemente modificabili.

LA MOTIVAZIONE INTRINSECATre sono le principali teorie che ne identificano le regole:• le fasi di accettazione della malattia• le rappresentazioni dei modelli di salute e di malattia• Il locus of controlOgni volta che una persona incontra un evento negativo va incontro a un lungo

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processo emotivo che riconosce diverse fasi di accettazione della malattia cosìstandardizzate:• Lo shock iniziale è il momento dell’evento, della diagnosi. La paura e l’angoscia

sono i sentimenti dominanti.• Il rifiuto è il momento dell’incredulità, il distacco e la banalizzazione sono le sole

possibilità di fuga.• La rivolta è il momento della ricerca del colpevole, il paziente comincia a prendere

coscienza della triste realtà.• La negoziazione è caratterizzata dalla contrattazione, in genere sul trattamento.• La depressione è il momento della meditazione. Il paziente si rende conto e prende

coscienza che nulla sarà più come prima e che deve assestarsi su di un nuovolivello di salute e un nuovo concetto di integrità fisica e di benessere. Questa è unafase molto delicata che presuppone ogni volta una seria diagnosi differenziale conun’iniziale depressione psichiatrica concomitante. Il paziente appare triste, isolato,ripiegato su se stesso, ma comunque attento e più partecipe alle strategieterapeutiche che gli vengono proposte.

• L’accettazione attiva è il momento dell’equilibrio, dell’azione e dellaconsapevolezza. Il paziente è pronto ad assumersi e a condividere la responsabilitàdella terapia e della sua salute.

Imparare a riconoscere e a gestire queste fasi ci permetterà di essere più incisivi coni nostri interventi e anche a facilitare e accelerare il percorso del malato.A volte, però, alcuni pazienti che sembrano collaboranti e motivati sono inveceincappati in quelle forme di pseudo-accettazione di malattia che dobbiamo impararea evitare:• La rassegnazione, il paziente appare totalmente dipendente dal medico e dal suo

giudizio senza opporre la minima discussione. Il medico è convinto di avere la suaapprovazione senza rendersi conto che il paziente è in realtà incapace diqualunque azione e/o decisione in relazione alla sua salute.

• La negoziazione volontaria, il paziente viene preso da una sorta di delirio dionnipotenza, è quello che tutto ha capito, che ha soluzioni pronte per ogni tipo diproblema, che ha bisogno non di cure, ma di “consulenze”, che si è costruito unmondo di tali certezze da non accorgersi di andare avanti senza obiettivi e senzamete cliniche.

• Il modello ansioso, il paziente accetta qualunque richiesta, non sembra turbatodall’affrontare qualunque tipo di rinuncia o di cambiamento; in realtà vive unostato di profonda sofferenza psichica e l’obiettivo prioritario della sua vita diventail riuscire a sedare la propria ansia e la propria paura.

Questo cammino che il paziente deve percorrere per arrivare a una correttamotivazione riconosce alcune leve o barriere nelle rappresentazioni dei modelli disalute e malattia. Queste sono le convinzioni legate alle esperienze che precedono unorganico processo di apprendimento che, quando identificate, permettono unacomunicazione più efficace attraverso un linguaggio comune. Identificarerapidamente questa sfera intima di convincimenti può facilitare il medico a inserirsinel cammino di maturazione psicologica che permetterà al malato di integrare lamalattia sino ad accettarla.Infine, sempre nell’ambito della motivazione intrinseca, dobbiamo tenere contodella teoria del “locus of control”.Secondo tale ipotesi ognuno di noi manifesta nei confronti delle difficoltà della vitadegli atteggiamenti e delle reazioni sempre simili e riconducibili a due tipologiestandardizzate:• Locus of control interno• Locus of control esterno

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Il primo tipo ha la tendenza a credere che non è mai in prima persona responsabiledegli eventi, di qualunque natura siano, non è mai il “controllore“ della propria vita,ma al contrario, contro il “fato“ è vano accanirsi.Il secondo tipo è invece colui che tutto controlla, tutto può modificare, che è arteficee primo attore del proprio destino.Queste due diverse capacità di reazione sono la risultante delle nostre esperienze,delle nostre peculiarità del carattere e diventano modalità espressive della nostraparte più interiore della personalità e pertanto difficilmente modificabili.In ogni caso una rapida identificazione del tipo del locus of control dei nostripazienti ci permette di sintonizzarci più velocemente, ma anche di formularerichieste che risultino accettabili e percorribili.Chiedere ad esempio a un paziente con un locus interno di assumersicompletamente e fin dall’inizio l’assoluta responsabilità del controllo della propriamalattia può risultare altrettanto dannoso che proporre a un paziente con un locusesterno di affidarsi completamente al giudizio di un medico o alla potenza di unfarmaco.

LA MOTIVAZIONE ESTRINSECA

I fattori che caratterizzano la motivazione estrinseca hanno la peculiarità di esseremodificabili, quindi più facilmente utilizzabili, e sono rappresentati principalmenteda:• La relazione medico/paziente• La capacità di integrazione delle richieste del medico nel progetto di vita del

pazienteLa relazione del medico con il paziente, quando correttamente gestita, diventa unatto terapeutico ed è importante averne la consapevolezza e anche conoscere leregole che ne permettono il salto di qualità:• L’empatia, cioè basare l’incontro sull’accettazione dell’altro, l’assenza di giudizio,

l’assenza della ricerca del colpevole.• Il patteggiamento tra i bisogni della malattia e del paziente.• La gestione positiva dell’errore che vuol dire identificare le possibili situazioni a

rischio, lavorare sul sentimento di frustrazione che si genera dopo uno sbaglio,proporre soluzioni alternative, identificare obiettivi semplici e accessibili, operareper la risoluzione dei problemi.

La capacità di integrazione delle richieste del medico nel progetto di vita del paziente cioèimparare a proporre a ogni paziente un contratto terapeutico, un patto di alleanzache implichi l’identificazione di obiettivi realizzabili da negoziare con il paziente etali da garantirgli un benessere fisico e un’accettabile qualità di vita. Accettare unamalattia significa riorganizzare la propria vita tenendo conto di un handicappersonale: questo processo è doloroso e richiede tempo. Impegnarsi a cercare unastrategia di terapia che preveda diverse tappe di intervento garantisce al paziente lapossibilità di adattarsi e al medico di personalizzare le sue richieste.

I problemi e le possibili soluzioniAbbiamo sinora identificato lo scenario all’interno del quale ci muoviamo; oradobbiamo cercare delle soluzioni efficaci ai diversi problemi.

LE FASI DI ACCETTAZIONE DI MALATTIA

• Lo shock iniziale al momento della diagnosi è caratterizzato da confusione e paura,il paziente fatica a comprendere cosa realmente è accaduto e cosa potrà succedere.

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La relazione basata sull’empatia, l’accoglienza senza richieste gli permetterà disentirsi preso in cura, accudito e servirà a sedare il panico. Questo è il momento diascoltare, di lasciarlo esprimere liberamente in modo da cominciare a capire chetipo di individuo sia, che rappresentazioni di salute abbia, quale sia il suo progettodi vita.

• La fase di rifiuto è caratterizzata da sentimenti di minaccia e di fuga. Il paziente èarrabbiato con tutti e con nessuno, può essere utile aiutarlo a identificare un solonemico; canalizzare la rabbia verso un obiettivo, magari piccolo, ma modificabile,per iniziare a fargli prendere coscienza che in ogni caso qualcosa si può fare.

• La fase di rivolta è l’aggressività, ma in realtà non esiste un colpevole. La malattiava inquadrata nella giusta dimensione, si inizia a ragionare in termini diautogestione.

• La fase di negoziazione è il primo segnale di apertura e collaborazione da parte delpaziente ed è importante a questo punto integrare la malattia in un suo possibilenuovo progetto di vita. È la dimostrazione che esiste un futuro e le richieste delmedico si possono collocare nella sua vita quotidiana.

• La fase di depressione è il momento della tristezza e dell’isolamento: l’unicoaggancio possibile è la condivisione, riuscire a far capire che comunque lui si sentanoi ci siamo e condividiamo il suo cammino anche aspettando che si senta prontodi agire.

• La negoziazione volontaria è una sorta di delirio di onnipotenza, il paziente hacapito tutto, si sente autonomo e capace di tutto. L’unica soluzione è quella diridimensionarlo, di riappropriarsi del “camice”prima che combini troppi pasticci esparisca del tutto al controllo.

• Il modello ansioso è rappresentato dal panico totale. Il paziente dice di accettarequalunque richiesta pur di contenere la sua ansia e la sola arma che abbiamo è laripetitività dei messaggi. Inserire il paziente in un gruppo di lavoro, circondarlocon il team di cura, può essere utile come contenitore per permettergli di superarela criticità della situazione.

IL LOCUS OF CONTROL INTERNO

Infine dobbiamo analizzare la possibilità di avere un paziente totalmente rassegnatoche diventa assolutamente dipendente dal medico che diventa il controllore, ilgestore della scelte e della vita.Questo atteggiamento deve essere superato perché per arrivare ad autogestire untrattamento il paziente deve diventare autonomo.Per potenziare la sua autonomia bisogna imparare a gestire positivamente gli errorie quindi:• Identificare le situazioni a rischio• Lavorare sul sentimento di frustrazione• Proporre soluzioni alternative• Identificare obiettivi semplici e accessibili• Operare per la risoluzione dei problemi

ConclusioniCome abbiamo analizzato e dimostrato, riuscire a motivare il paziente devediventare momento fondamentale nella gestione di una patologia cronica, infatti ilmedico può davvero controllare la malattia attraverso il paziente, ma solo con la suacomplicità. Purtroppo, però, riuscire a ottenere un paziente motivato è solo l’iniziodi un lungo cammino che lo porterà a fare propria una strategia di cura.

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Per raggiungere questo risultato il paziente dovrà andare incontro a unapprendimento attivo della propria malattia e quindi dovrà :• Conoscere• Imparare a fare• Modificarsi Per ottenere tutto ciò il suo medico dovrà imparare a :• Spiegare • Ascoltare• Riformulare• Verificare l’apprendimento• FormareQueste sono le tappe che caratterizzano la pedagogia clinica che questa nuova eradella medicina ci richiede di apprendere e che, forse, ci permetteranno di risponderealla domanda:

“E’ possibile imparare ad essere malato? ““E’ possibile imparare a curare un malato, piuttosto che imparare a guarire unamalattia?”

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TECNICHE E STRATEGIE PEDAGOGICHENELL’EDUCAZIONE DEL PAZIENTE DIABETICOAldo MaldonatoMedico Ricercatore, Dipartimento di Scienze Cliniche, Università La Sapienza, Roma

In base a una recente definizione (1), lo scopo dell’educazione terapeutica è diaiutare i pazienti ad acquisire o conservare le competenze necessarie a gestire almeglio la loro vita con una malattia cronica. È un percorso a tappe, integrato nellacura, che richiede attività organizzate, incluso un sostegno psico-sociale. I pazientidovrebbero arrivare a capire la malattia e il trattamento, collaborare e assumere laresponsabilità della cura per conservare o migliorare la loro qualità di vita.Trasferendo questa definizione, che è valida per tutte le malattie croniche, al diabetein particolare, possiamo individuare una sequenza di eventi che dall’educazione delpaziente, attraverso l’acquisizione di conoscenze teoriche, di capacità pratiche e dimotivazione, porta a stabili modifiche di comportamento, necessarie per ottenerequel perfetto equilibrio glicemico, che a sua volta è indispensabile per prevenire leconseguenze nocive del diabete (complicanze acute, complicanze croniche, econseguenze di queste ultime a livello del piede).L’educazione terapeutica è il pilastro su cui poggia questa catena di eventi. Un suoscopo essenziale è migliorare la motivazione dei pazienti, senza la quale laconoscenza e la capacità pratica da sole, come è risaputo, non inducono cambiamentidi comportamento. Per gli operatori sanitari è importante acquisire le competenzeche li mettano in grado di lavorare sulla motivazione dei pazienti, imparando avalutare i fattori individuali, familiari, sociali e culturali che la influenzano.Per un’educazione terapeutica efficace, è necessario migliorare tre aspetti della curae cioè: i nostri atteggiamenti, l’organizzazione dell’assistenza e le nostrecompetenze.Per quanto riguarda gli atteggiamenti degli operatori sanitari, la constatazionedell’insuccesso diffuso nell’applicare i progressi della scienza medica alla cura dellemalattie croniche in genere e del diabete in particolare, ha indotto a mettere sottoaccusa il tradizionale atteggiamento prescrittivo, in base al quale il medico è colui ilquale decide, consiglia, ordina, guida. Nel caso delle malattie croniche, in cui il buonesito della cura dipende dall’impegno quotidiano del paziente e dei suoi familiari,questo atteggiamento semplicemente non funziona.Grazie all’apporto delle cosiddette scienze umane: pedagogia, psicologia, sociologia,antropologia e bioetica, si è capito in anni recenti che, nel campo delle malattiecroniche, gli operatori sanitari devono affrontare a un tempo le dimensionibiomedica, psicologica e socio-culturale della persona, utilizzando atteggiamentiche corrispondono al modello della relazione adulto-adulto: i soli efficaci nellapromozione di cambiamenti di comportamento duraturi.Il moderno operatore sanitario che vuole curare i suoi malati cronici - così come ilmoderno educatore - è dunque una persona che ascolta, risponde, partecipa, èpronto a dar ragione e, quando è il momento, a mettersi in disparte. L’obiettivoterapeutico di ogni paziente diabetico è, come sempre, dettato dalle conoscenzebiomediche: l’arte della cura consiste nel far sì che il nostro obiettivo terapeuticodiventi il suo obiettivo di vita.

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Il Diabetes Education Study Group della Società Europea di Diabetologia, fondatoquasi venti anni fa dal prof. Jean-Philippe Assal di Ginevra, e che attualmente hol’onore di presiedere, ha in larga parte contribuito alla nascita e all’accettazione diquesta nuova idea di un rapporto medico/paziente, o più in generale operatoresanitario/paziente, non più verticale, ma paritetico.Il cambiamento di atteggiamenti però non basta.“Se io torno al mio centro e sonooberato di appuntamenti, e afflitto da limitazioni di spazio, di personale, ecc., comeposso dedicare tutto il tempo necessario all’ascolto attivo dei pazienti, allacomprensione dei loro desideri, alla ricerca di obiettivi terapeutici condivisi,all’istruzione e addestramento dei pazienti e dei loro familiari?”.Esistono indubbiamente problemi organizzativi che vanno affrontati se si vuole chel’educazione terapeutica faccia parte del percorso obbligato di ogni pazientediabetico. Per prima cosa bisogna individuare nell’organizzazione del servizio glispazi e i tempi per l’educazione individuale e poi anche per l’educazione in gruppo.Tutto il personale curante deve essere coinvolto, mettendo in atto un sistemapremiante che favorisca il lavoro di squadra e l’educazione terapeutica.È poi importante che il personale acquisisca la necessaria preparazione.Tradizionalmente le competenze richieste per l’educazione terapeutica non fannoparte della formazione degli operatori sanitari. Eppure, per poter migliorare laconoscenza teorica e la capacità pratica dei pazienti, sono necessarie competenzespecifiche.Bisogna che l’insegnamento sia più pratico e meno teorico, centrato sul discente –sulle sue necessità, capacità, esperienze precedenti – volto al raggiungimento diobiettivi a breve termine definiti in modo accurato, preciso e concreto. Per potermigliorare la motivazione dei pazienti, bisogna che gli operatori sanitari siano essistessi motivati, che sappiano praticare l’ascolto attivo, che abbandonino il gergoprofessionale e facciano uso di un linguaggio semplice e chiaro, che siano in gradodi individuare i fattori psicologici e socio-familiari che influenzano – in sensonegativo o positivo – la motivazione dei pazienti a curarsi (per esempio: il grado diaccettazione della malattia, le credenze sulla salute, il luogo di controllo chedetermina un maggiore o minore fatalismo, i bisogni legati alle diverse fasce di età,le condizioni lavorative, culturali ed economiche).Per consentire un’adeguata preparazione degli operatori sanitari nell’educazioneterapeutica dei malati cronici, un gruppo di lavoro dell’Organizzazione Mondialedella Sanità - Europa ha prodotto un documento volto a definire percorsi educativistandard per la formazione di medici, infermieri, dietisti, psicologi, ecc. (1).Al fine di sviluppare modelli rilevanti ed efficaci per addestrare gli operatori sanitaria educare i loro malati cronici, il documento propone di definire i profili dei pazientieducati, per ogni malattia cronica (definendo a mo’ di esempio il profilo di pazientieducati per alcune malattie). Per profilo di un paziente educato si intende ciò che ciaspettiamo che il paziente faccia per gestire il trattamento, prevenire le complicanzeevitabili, conservando e migliorando la qualità di vita. Una volta definito il profilo delpaziente educato, su questa base viene definito il profilo degli operatori sanitarieducatori; cioè cosa ci aspettiamo che facciano per aiutare i pazienti ad acquisire lecompetenze richieste.A titolo esemplificativo, sono illustrati alcuni corsi di vario livello: un livello di base,iniziale, della durata di due settimane. Il corso vero e proprio, di secondo livello,part-time della durata di due o tre anni, con alcuni seminari di tre o cinque giorni,ripetuti quattro o cinque volte per anno, per un totale di 800 ore. Infine è previsto uncorso avanzato, per diventare organizzatori, coordinatori di questi corsi.I corsi formali basati sui principi che hanno ispirato il documento OMS sono oggirarissimi. Quando saranno realizzati in numero sufficiente avremo fatto un deciso

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passo avanti per un’educazione terapeutica efficace e quindi per una cura efficace ditutte le malattie croniche e in particolare del diabete.In conclusione desidero ricordare le qualità principali dell’educazione terapeutica.Esse sono: la pertinenza, cioè la sua rispondenza ai reali bisogni del paziente;l’efficacia, cioè la sua capacità di ottenere i risultati che ci siamo prefissi; lacorrettezza, cioè la corrispondenza dei contenuti alle linee guida delle societàscientifiche ufficiali; la centratura sul paziente, cioè sulle sue esperienze, sui bisogniespressi e noti. Di queste qualità, una è nettamente più importante delle altre: essaè la pertinenza.

BIBLIOGRAFIA

1. WHO Working Group: Therapeutic patient education, continuing education programmesfor health care providers in the field of chronic diseases. WHO-Europe, Copenhagen,1998

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LE COMPETENZE PROFESSIONALI NEL PROCESSO EDUCATIVOValerio MiselliServizio di Diabetologia, Ospedale “C. Magati” di Scandiano, Reggio Emilia

Non c’era nessun problema quando Etzwiler, con grande maestria, descriveva ilproblema della multiprofessionalità e della formazione, non c’era nessun problemanegli anni ‘70. Negli anni ‘70 il sistema sanitario era un paziente che si consegnavapassivamente al medico curante: poteva decidere di non curarsi, poteva decidere dicambiare medico, ma più o meno, anche in Italia fino agli anni ‘70 questa era laterapia perché si basava soltanto sul modello della malattia acuta.Poi sono arrivati i gruppi di studio europei - ed è già stata citata l’importanza dellaDESG, che ci ha fatto percorrere questa lunga strada - qualcheduno la chiama lastrada piena di rocce e tranelli - siamo partiti da un’educazione che si basavasull’arte della conoscenza e, via via, siamo arrivati da insegnanti interattivi a tutori.Io non sono sicuro che in Italia noi abbiamo fatto tutto questo percorso.La terapia intensiva del diabete richiede la presenza di un team multiprofessionale.È molto più complicato perché le figure da integrare non sono soloprofessionalmente diverse, ma sono anche in ambiti diversi, diversa è la collocazionefisica, diversa la cultura, diverse sono le competenze storiche di ruolo, personali; leconflittualità sono dietro l’angolo; se non le sappiamo leggere, codificare, se non èchiaro chi coordina. se le competenze non sono ben definite, tutte queste personenon possono lavorare insieme.Ne abbiamo già discusso ed è anche oggetto del lavoro che è stato fatto presso ilministero della Sanità per la stesura delle “linee guida”. Abbiamo cercato di tenereconto delle indicazioni del gruppo europeo sulle ore di educazione necessaria per unpaziente con diabete di tipo 1. All’inizio sono necessarie non meno di 10 ore, poi ènecessario un richiamo dopo circa un anno e poi un altro richiamo per un totale dialtre 6 ore. Anche il diabete tipo 2 richiede un congruo numero di ore di educazioneterapeutica con ampie variazioni. Credo che anche il gruppo di studiosull’educazione (GISED) non possa prescindere da questi numeri, non possiamoaccettare che nell’approccio al paziente l’educazione non sia considerata un attoterapeutico integrato con tutti gli altri atti terapeutici. Anche questa separazionefisica in questo Convegno tra il momento della mattina e quello del pomeriggio, èuna separazione che richiama un vecchio modo di pensare: da una parte ci sono ifarmaci e le metodologie e dall’altra ci sono le persone.Quando però andiamo a capire che cosa vuol dire in termini di persone un Centroche assiste circa tremila pazienti, che serve una città di centomila abitanti (una cittàmedia) e guardiamo secondo i bisogni che ho descritto prima, le ore di educazionenecessarie, risulta che in un anno sono quasi seimila. Queste ore, che sembranoun’enormità, in realtà sono meno di due ore l’anno per ogni paziente, venti minutise fa sei controlli all’anno e, come vedete, sono circa 40 minuti per medico, 60l’infermiere e 20 il dietista: non è nemmeno tanto. Tutto ciò comporterebbel’assunzione di quattro figure professionali dedicate interamente all’educazione: ciòvuol dire che noi non saremo mai in grado di affrontare, partendo da questi numeri,l’educazione in modo sistematico. Perciò qualsiasi proiezione su “funziona o non

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funziona l’educazione”, su chi la facciamo? C’è un handicap di fondo che èincolmabile per le limitazioni finanziarie a cui siamo sottoposti. È anche altrettantovero che la cosa più chiara che ha espresso il DCCT è stato esattamente questoconcetto: la terapia intensiva deve essere condotta da un team diabetologico esperto.La multiprofessionalità però vuol dire anche integrazione: deve cioè esistere unastrategia pedagogica e un sentire comune che mette insieme questi professionisti,altrimenti tutto ricade solo sul paziente che deve trovare chi lo aiuta a fare le sintesiterapeutiche.A proposito dei modelli di lavoro, molto spesso si tende a privilegiare solo la figuradel medico e tutta l’attività deve incrociarsi su questa figura; un modello più attuale,tipico del day hospital educativo invece prevede che il paziente compia un percorsoattraverso le varie figure professionali, ognuna col suo ruolo ben organizzato.Questo è un modo per risparmiare tempo e fare degli interventi integrati.Quindi si pone molto forte il bisogno di verificare quali sono le professionalità ingioco quando si parla di terapia educativa. Noi sappiamo che sono molto diversi traloro i pazienti in quanto a desiderio di farsi coinvolgere nella cura; tanto è veroquesto che ci sono in realtà due teorie educative: quella che pensa di potere faresempre, comunque da guida al paziente e quindi noi ci impegniamo e pensiamo dimantenere noi il controllo, e quella che invece che è un po’ più diffusa tra glioperatori anglosassoni, che pensa semplicemente di formare il paziente, diconsegnargli tutti gli strumenti e di lasciare che sia il paziente a fare le proprie scelte.I provider, cioè tutti noi, hanno bisogno di una formazione molto particolareggiatae, quando noi parliamo di educazione, di figure professionali, di solito sosteniamoquesto teorema che il medico che è più bravo a insegnare la teoria e gli infermierisono più bravi a fare la pratica e quindi consegnamo a loro le metodologie tipo sulproblema del piede, sulle tecniche di iniezione dell’insulina e così via. Questo tipodi divisione di competenza non è valido perché la cosa che accomuna tutti e due èuna formazione pedagogica e un carattere di collegialità che va recuperatonell’approccio globale al problema.Per esempio, se noi dobbiamo fare delle scelte strategiche - parliamo di cose anchepratiche - se si ha la fortuna di avere a disposizione un day hospital medico, bisognafare turnare il personale dedicato a fare delle consulenze di educazione associate alle

visite mediche; viviamo in un sistema percui l’educazione è una parte integrantesolo in teoria, della visita; l’organizzazionedei momenti diversi più dedicati è motivodi crescita collettiva molto importante cosìcome mantenere sempre un dossierassociato alla cartella clinica. Se noiandiamo a verificare le nostre cartelle,quanti hanno una check-list educativa?una cartella infermieristica dedicata? ouna scheda dietologica dedicata agli attieducativi? Dopodiché non chiediamociperché gli interventi non hanno fun-zionato! Dobbiamo strutturare megliomomenti di raccolta dati per favorire leappropriate verifiche.Dunque, possiamo descrivere il team

come un universo in cui ci sono varie figure professionali (fig. 1). Per esempio ilfarmacista: noi tendiamo a trascurare questa figura mentre è dimostrato che ildiabete, soprattutto tipo 2, trascorre sicuramente più ore in farmacia di quanto nonne passi nell’ambulatorio del proprio medico, men che meno nell’ambulatorio del

Figura 1Modello di

assistenza integrataper il diabete

ASSISTENZAASSISTENZAASSISTENZA

SUPPORTOSUPPORTOSUPPORTO

Altri specialisti

Coniuge Insegnanti

Farmacista

Medico

PsicologoSociologo

Ass. sanitario

DietistaInfermiere

TEAM

PAZIENTE

DIABETOLOGO

Medicodi base

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servizio di diabetologia. Ecco, quindi l’importanza di parlare lo stesso linguaggioinsieme ai farmacisti, fare sì che i pazienti non ricevano notizie fuorvianti sulcontrollo di alcuni parametri - il colesterolo, la pressione che sono legatiintimamente alla buona cura del diabete di tipo 2.Per esempio, qualcuno di noi è riuscito a identificare un ruolo dell’infermiere nellaprevenzione delle complicanze perché fa risparmiare tempo e questo è venuto primadel momento educativo; invece il ruolo dell’infermiere come membro del team è piùdifficile da perseguire perché, per esempio, far sì che l’infermiere prenda parte allaformulazione degli obiettivi, delle strategie del gruppo, entri nei processi decisionaliè una cosa che non succede da tutte le parti. Avere la responsabilità ancheprogettuale diretta di entrare nell’educazione del paziente, delle proprie famiglie,non è una cosa semplice e molti non sono d’accordo perché non ritengono gliinfermieri all’altezza di questo compito; a volte sono gli infermieri stessi che nonsentono questo bisogno formativo.Questi pensieri sul ruolo dell’infermiere professionale in Italia vengono da un lavorodi gruppo che è stato condotto a livello europeo per quel primo, timido tentativo dimettere insieme le professionalità delle infermiere che lavorano nei Servizi didiabetologia in Europa.Le considerazioni da farsi su questo problema sono queste: sviluppare una funzioneautonoma, favorire la creazione di un insegnamento specifico, favorire la ricercainfermieristica attraverso la letteratura, sviluppare standard di cura (devono esserecoinvolti direttamente in questo), migliorare i progetti di assistenza e - questa è unacosa che ci deve vedere coinvolti tutti - ottenere il riconoscimento ufficiale dellaspecializzazione come esiste in altri Paesi europei.John Day ha detto ieri una cosa importante: i dati migliori ottenuti nel RUN-INdell’UKPDS, per quanto riguarda la perdita di peso, erano nei centri dove c’eranopiù dietisti e purtroppo il traduttore ha tradotto dietologi perché probabilmente nonpensava che fossero due cose diverse. Anche i dati che nascono da un’estrapolazionedel DCCT dicono che i migliori risultati, visto che pochissimi hanno raggiunto iltarget glicemico, erano raggiunti da coloro che hanno fatto un lavoro sui programmialimentari, sulla rapida correzione dell’ipoglicemia e sull’evitare l’over-eating in casodi ipoglicemia: tutti questi progetti sono stati condotti da dietisti nel DCCT, non damedici.Peraltro anche Marion Franz, dimostra come le dietiste coinvolte direttamente neiprogetti, nel decision making (cioè non è che si tratta di “fare delle diete”, si tratta didecidere che cosa fare sia in termini di conta dei carboidrati, sia in termini dimodifiche terapeutiche), sono in grado di ottenere un notevole miglioramentodell’emoglobina glicosilata nel tempo.Noi abbiamo sempre pensato che questi risultati potessero ottenerli soltanto imedici.Abbiamo bisogno anche di un’altra figura professionale, poco importa che si chiamipsicologo oppure che sia qualcuno di noi che si occupa del problema delledinamiche psico-sociali. Questa è un’area di bisogno non solo del paziente, maanche del team come supporto al lavoro di gruppo.I medici: un lavoro comparso su Diabetes Care, sulle attitudini professionali rivelamolte carenze e dovrebbe far riflettere ancora di più in questa fase in cui stiamofacendo l’operazione di cedere parte dei pazienti - giustamente o non giustamente,non lo so - ai medici di medicina generale. Ci sono delle condizioni di fondo cheimpediscono, per come sono strutturati gli ambulatori dei medici di medicinagenerale, qualsiasi tipo di terapia corretta, moderna (lasciamo perdere la parolaintensiva).Una cosa importante che è accaduta negli Stati Uniti e che sta accadendo adesso in

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Inghilterra, dopo l’UKPDS, è una campagna forte per la promozione della salute.Sfogliando una qualsiasi rivista statunitense, si può notare l’invito al buon controllometabolico, l’invito a migliorare le performance glicemiche, l’invito a lavorare inteam. Dovremmo lavorare anche noi a far sì che aumenti la coscienza collettiva diquesto tipo di necessità e non lasciare passare messaggi banalizzanti sull’assolutasemplicità della cura del diabete.Se noi volessimo idealizzare la figura dell’educatore, prendendo trasversalmentemedici, infermieri, dietisti e quant’altro così come avviene in altri Paesi, potremmodire che l’educatore nel diabete ha un ruolo multidimensionale con i limiti impostidai rapporti con altri membri del team che coinvolge il paziente, la famiglia, i sistemidi supporto e gli altri operatori non specializzati nella cura del diabete. Quindi è unmondo molto più globale di quello a cui pensiamo.I criteri di lavoro sono questi: è molto importante la scelta dello strumento, ladocumentazione del progetto e del processo educativo, e sempre una valutazionealla fine.Propongo tre campi di lavoro; potrebbero essere tre campi di lavoro che coinvolgonoanche il gruppo italiano per l’educazione sul diabete: la qualità dell’assistenza,l’impegno per il cambiamento e anche l’accreditamento come strumento per andareverso un cambiamento.D’altronde qualità in educazione sanitaria è una parola difficile, però vuol dire faredelle valutazioni; non riusciamo a dare tutto a tutti, quindi non riusciamo a fare tantiinterventi educativi sparsi, dobbiamo usare e privilegiare i metodi rapidi e il cost-benefit, una parola che già ci tormenta anche troppo.Vorrei venisse studiato meglio anche quando fare l’intervento perché già ci è statodetto che nella vita di un paziente ci sono parecchi momenti in cui è più importanteintervenire e i tempi dell’accettazione dell’intervento sono variegati.Esistono modelli per comprendere la capacità di accettazione del paziente: è inutileche tentiamo di fare un intervento educativo se può non servire assolutamente aniente. E allora abbiamo bisogno di trovare degli strumenti per capire chi èdisponibile e chi è aperto al cambiamento; bisogna ricercare modelli rapidi e velociche non sono facilmente identificabili dai soli medici.Per esempio è la tipologia di paziente su cui è urgente fare un intervento educativo:quelli che sanno già tutto, quelli che sono carenti nella cura dei piedi, quelli che nonvengono agli appuntamenti e così via.Dobbiamo essere aiutati a trovare le categorie di pazienti che non si presentano piùagli appuntamenti e scoprire perché non vengono più e che cosa si può fare per farlitornare, visto che Muggeo ci ha dimostrato che quelli che si presentanoregolarmente alle visite sono quelli che presentano alla lunga meno complicanze,indipendentemente dal tipo di intervento che facciamo.Questa è una conclusione di una lettera sul numero di novembre ’98 di DiabetesCare: la terapia intensiva non vuol dire solo tre o quattro iniezioni al giorno, o ilmicroinfusore, quattro glicemie e l’emoglobina ogni tre mesi, ma anche unapproccio multidisciplinare, frequenti contatti tra paziente e membri del team, unsistema di supporto del quale spesso ci scordiamo.Ha funzionato bene solo in alcuni Centri, solo in quelli che avevano queste figure;se noi non abbiamo queste figure nel nostro team dobbiamo lavorare a fondo perchéalmeno la dietista sia presente, almeno l’infermiera professionale sia preparata perfare questo o altrimenti sinceramente è difficile pensare che quel Centro possaintensificare la terapia nel tipo 1 e nel tipo 2.In un articolo comparso sull’American Journal of Managed Care del 1996 si èdimostrato che un team approach porta l’emoglobina da 12 a 8%, se c’è buonacompliance, da 12 a 9,1% se non c’è compliance indipendentemente dalla terapia

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utilizzata. A ulteriore dimostrazione di quello che si diceva. E quello che non diciamomai è che dopo quattro anni dal DCCT c’è stato quasi il 70% di abbandoni (soloalcuni pazienti, che continuano con l’infusore, e sono fortemente supportati daalcuni lavori di gruppo, continuano); questo per riluttanza dei pazienti a continuare,quindi non è vero che la motivazione dura tutta la vita; per mancanza diconsapevolezza, per alcuni atteggiamenti di medici, sono venuti a meno anche ifinanziamenti e a volte anche per mancanza di un team multidisciplinare.Quali sono le qualità di una persona che entra a far parte di un team educativo?Possono essere “millanta”, però ho provato a specificarne qualcuna, non importa ilruolo professionale: la flessibilità, la disponibilità alla formazione in continuo, lacapacità di apprendimento, un adattamento pre-attivo, le motivazioni, una capacitàprogettuale strategica, interpretativa, un orientamento al risultato, la qualità econoscenze generali, non necessariamente la specializzazione, la disponibilità atransazioni utilitaristiche a breve termine (e questa è la qualità che è difficile daacquisire), la capacità di autopromozione - che questo a volte serve tantissimo,soprattutto quando è il team che va in depressione - e le capacità negoziali cheabbiamo sentito citare da chi mi ha preceduto.Penso che il ruolo del GISED dovrebbe essere questo; già abbiamo tentato dilavorare a qualche progetto. Credo che questo Convegno sia utile per capire isuggerimenti che vengono dalla comunità diabetologica nazionale per il lavoro delprossimo anno.Vorrei concludere citando John Day che qualche anno fa ha detto: “Si deve pensareche ogni contatto umano e professionale ha una valenza educativa per cui tutti quellicoinvolti nella cura dovrebbero avere una formazione sui processi educativi perché,in caso contrario, si potrebbe creare un inconsapevole apprendimento scorretto perdifetto”.

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FATTIBILITÀ DELL’INTERVENTO EDUCATIVO.COSTI E BENEFICIClaudio NoaccoUnità di Diabetologia, Ospedale Civile di Udine, Udine

La definizione di educazione terapeutica non è facile e soprattutto può non essereunivoca. Il vocabolario della lingua italiana, alla voce educare, riporta l’etimologia(dal latino e-ducere, condurre fuori, ad es. dalle tenebre dell’ignoranza) e ilsignificato italiano di: “formare attraverso il processo della conoscenza”, “formaresecondo certi fini”,“abituare”. Già la definizione letteraria ci pone alcuni spunti diriflessione; l’educazione è un processo continuo, si realizza attraverso la conoscenzae non è fine a sé stessa, ma consegue certi fini od obiettivi. La definizione dieducazione terapeutica applicata alla diabetologia clinica potrebbe essere laseguente: processo educativo che si pone per obiettivo sia di insegnare al diabeticoa vivere, e a vivere bene, con il diabete, sia a raggiungere gli obiettivi clinici dellaterapia del diabete e della prevenzione delle complicanze. Quindi due bracci: unoeducativo, e indirizzato alla qualità della vita del diabetico, e uno clinico-biologicoindirizzato al mantenimento dello stato di salute fisico. Di questa definizione èopportuno sottolineare alcuni elementi: innanzitutto l’educazione terapeutica deveavere un fine terapeutico e non deve essere fine a sé stessa o puramente conoscitiva.Inoltre deve essere un processo continuo che deve continuamente essere verificatoe condiviso dal team educativo e dal diabetico, in modo che essi possano agireinsieme: non è il diabetologo o il team di insegnamento che deve condurre ilprocesso educativo. Diabetologo e diabetico devono interagire per una vita più lungae che meriti di essere vissuta, cioè priva di complicanze acute e croniche,soddisfacente dal punto di vista sociale e psicologicamente ottimale. In questo sensoeducare e curare sono due atti assolutamente inscindibili: non è possibile curare unsoggetto affetto da una malattia cronica senza educarlo né è possibile educare unsoggetto senza assicurargli una cura ottimale. Ma in entrambi i casi il paziente deveessere soggetto attivo del processo. Quindi in ogni atto clinico che quotidianamentecompiamo con i nostri pazienti sono insiti sia il concetto di curare sia quello dieducare, anche se a diversi livelli di consapevolezza e di strutturazione. È difficilequindi disgiungere gli effetti e i costi dell’educazione da quelli della cura dellapersona diabetica e, dovendo trattare della fattibilità dell’intervento educativo,invertirei i termini del titolo di questo mio intervento: cioè la prima domanda cheporrei è se l’educazione terapeutica è vantaggiosa, cioè se dà un beneficio anche intermini economici. Inoltre bisogna stabilire per chi è vantaggiosa, e solo se possiamostabilire che è vantaggiosa possiamo valutare se è fattibile. Se non risultassevantaggiosa per nessuno sarebbe anche inutile. Quando consideriamo il rapportocosto-beneficio di un determinato intervento terapeutico dobbiamo innanzituttostabilire per chi è vantaggioso: per chi riceve le cure, cioè il diabetico, per chi le eroga,cioè l’amministrazione sanitaria che riceve un compenso in cambio di unaprestazione, o per la Società o lo Stato, che ha interesse a risparmiare comunque eglobalmente sulla spesa sanitaria. È evidente che a seconda del punto di vista lavalutazione del rapporto costo-beneficio può cambiare. Inoltre è da tenere presenteche il rapporto tra costo e/o spesa di un determinato intervento e i suoi risultati (oeffetti) possono essere analizzati almeno in 3 differenti sistemi.1) Rapporto costo-efficacia: esprime il primo termine in valore monetario, cioèquanto spendiamo per un intervento o quante risorse sottraiamo da altri interventi,e il secondo termine in valore biologico o clinico. Cioè esprime quanto riusciamo a

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ridurre una determinata complicanza, ad esempio amputazioni o nefropatiaterminale, con un determinato investimento di risorse monetarie. Il calcolo di questorapporto diventa tuttavia difficile quando si confrontano esiti clinici diversi. Cioè èpreferibile o conveniente allocare risorse per prevenire la nefropatia terminale o perprevenire la cecità o le amputazioni?2) Rapporto costo-beneficio: questo rapporto tenta di superare le difficoltà delprecedente calcolo esprimendo sia il primo che il secondo termine in valoremonetario. Cioè quanto beneficio economico ricaviamo da una determinata spesa e/ocosto economico: ad esempio, per una spesa X in programmi di educazione e curaintensiva del diabete quanto risparmiamo sulle ospedalizzazioni, sulle amputazioni,sulle nefropatie terminali e sulle spese, dirette o indirette, per la cecità? È evidenteche, noti i costi dei singoli esiti, il beneficio risulta dalla loro somma.3) Rapporto costo-utilità: in questo caso il secondo termine tiene conto anche dialcuni valori o costi “impalpabili” o non monetizzabili ma di grande valore per ilpaziente. Cioè, se con un determinato intervento prolunghiamo la vita o solodilazioniamo le complicanze a un diabetico quanto risparmiamo in termini di spesasanitaria diretta (beneficio)? Nulla, in quanto vi saranno anni di terapia aggiuntivi ocomunque le complicanze si presenteranno più tardi. Però è evidente chel’intervento è molto vantaggioso per il paziente.Per superare questa impasse, che rischia di creare un conflitto tra considerazionieconomiche ed etiche, il secondo termine del rapporto viene espresso in QALY(Quality Adjusted Life Years), cioè anni di vita guadagnati e corretti per un fattore dicorrezione che è 1 nel caso di perfetta salute e 0 in caso di morte. Valori intermedivengono assegnati per la presenza di complicanze: ad es. il DCCT assegna per lacecità un parametro 0,69, 0,61 per l’insufficienza renale terminale e 0,80 perl’amputazione (1).Vi sono sistemi per calcolare anche il “valore”di un QALY (ad es.il metodo willingness to pay), ma vi è un consenso generale sulla enunciazione dellaCanadian Medical Association che considera da adottare sicuramente iprovvedimenti con un costo per QALY inferiore a 20.000 $, generalmente daadottare i provvedimenti con un costo tra 20.000 e 100.000 $, tra i quali sonocomprese le procedure di rivascolarizzazione, e da valutare caso per caso iprovvedimenti con costo superiore ai 100.000 $ (2). Non sono disponibili dativalidati sul rapporto costo-beneficio dell’educazione terapeutica, in quanto non èpossibile distinguere l’effetto della cura da quello dell’educazione. Tuttavia già neglianni si è tentato di valutare quanto era possibile ottenere in termini di ritornoeconomico, soprattutto come riduzione delle ospedalizzazioni, con un determinatoinvestimento educativo. Neresian (3) ha calcolato che con un investimento di 150 $per paziente era possibile ridurre del 33% le ospedalizzazioni con un beneficio di442 $/paziente (rapporto costo beneficio 1:2,9). I nostri dati riferentesi al 1985 e aCorsi di educazione strutturati residenziali dimostravano su un gruppo di 154diabetici tipo 1 una riduzione di 3,1 giorni/anno di degenza dopo i Corsi, con unrapporto costo-beneficio di 1:2,47.(4) Il DCCT è stato il primo trial a lungo termineche ha analizzato metodologicamente ed esaustivamente il rapporto costo-beneficio, costo-efficacia e costo-utilità di un intervento terapeutico intensivo di cuil’educazione del paziente era presupposto e parte integrante (5). Considerando tuttoil tempo di osservazione e i costi diretti, il programma di trattamento intensivo delDCCT è costato 5784 $/anno per i pazienti con CSII (microinfusori), 4014 $/anno peri pazienti con iniezioni multiple di insulina e 1666 $/anno per i pazienti intrattamento “convenzionale”. Il maggior costo dei pazienti in CSII era dovutoprincipalmente al costo dell’infusore e dei materiali d’uso, mentre la differenza tra ipazienti in trattamento intensivo e quelli in trattamento convenzionale era dovutasoprattutto al ricovero iniziale, alla maggiore frequenza di visite mediche e al

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maggior consumo di materiali per l’autocontrollo. L’analisi costo-efficacia dimostrache con un aumento dei costi di +2300/4100 $/anno, a seconda del tipo ditrattamento intensivo, si “risparmiano” 7,7 anni di visione efficiente, 5,8 anni didialisi, 5,6 anni senza amputazione e si aumenta la sopravvivenza di 5,1 anni. Talidati di efficacia sono ricavati da proiezionidei risultati del DCCT a tutta lapopolazione di diabetici americani concaratteristiche simili a quelle dei pazientiarruolati per lo studio. L’analisi costo-beneficio, considerando quindi il minorcosto delle complicanze, ma la maggiore sopravvivenza dei pazienti in trattamentointensivo, calcola in 99.822 $ il costo globale della terapia intensiva per tutta la vitadel diabetico, contro un costo di 66.076 $ per il trattamento convenzionale, con unaumento di spesa quindi di 33.746 per paziente per tutto l’arco della vita. Il costoincrementale di un anno di vita guadagnato risulta di 28.661 $ mentre il costoincrementale per QALY guadagnato (sopravvivenza corretta per la qualità) risulta di19.987 $. Entrambi questi valori monetari di beneficio e di utilità sono ampiamentecompresi tra quelli che sono considerati vantaggiosi per il paziente e per il sistemasanitario. La nostra esperienza in questo campo si limita ad alcune analisi difattibilità di interventi educativi che hanno tenuto conto anche di alcuni aspettieconomici e delle risorse che dovevamo impegnare, e quindi recuperare da altrisettori di intervento considerato che ormai operiamo in sistemi a risorse, sia dipersonale sia economiche, finite. Una prima valutazione ha riguardato l’effetto dellaeducazione terapeutica nel diabetico tipo 1, insulino-dipendente, e in particolare ilrisultato in termini cognitivi e metabolici di un corso residenziale di 7 giorni vs deicorsi di 3 giorni in Day Hospital (6). I risultati in termini metabolici sono statipraticamente simili e non significativi a distanza di un anno dai corsi. È da notaretuttavia che si trattava di soggetti già in relativo buon controllo metabolico e checomunque venivano seguiti regolarmente ambulatoriamente. I risultati in terminicognitivi sono stati significativi dopo entrambi i corsi ma tale miglioramento non siè mantenuto a distanza di un anno. In particolare nel gruppo che aveva seguito ilcorso in Day Hospital decadevano le conoscenze e la pratica dell’autocontrollo e leconoscenze sulle emergenze. Da questo punto di vista il corso residenziale si èdimostrato superiore in quanto il paziente sperimenta o può sperimentaredirettamente alcune situazioni reali, proprie o di altri membri del gruppo, e puòverificare giorno per giorno i risultati di alcune attività (dieta, modifiche deltrattamento, attività fisica) che nel breve corso in Day Hospital restavano teoriche onon verificate. In particolare le ipoglicemie sono sensibilmente diminuite dopo ilcorso residenziale: nel gruppo dei pazienti in DH queste erano molto rare per cuinon è possibile un confronto tra i due gruppi. Per quanto riguarda i costi di questidue diversi interventi educativi e presupponendo che i risultati possano considerarsisovrapponibili, un corso residenziale di 7 giorni veniva a costare 1.510.000 lire persoggetto (compreso il costo del Personale e dell’albergaggio) mentre il costo di uncorso di 3 giorni in DH a tariffa di DRG più il costo indiretto della perdita di attivitàlavorativa del diabetico risultava di 1.536.000 lire per soggetto (tab. I) (7). Unproblema ancora maggiore si pone nell’affrontare l’educazione terapeutica deldiabetico tipo 2. Si è detto che è difficile far stare meglio un paziente asintomatico equesto assioma è particolarmente vero nel caso del diabetico tipo 2, con tutte leimplicazioni di ordine motivazionale, di compliance, di aderenza a modelliconcordati che ne derivano. Malgrado queste difficoltà e la scarsa letteratura inproposito abbiamo voluto valutare i risultati a breve e a medio termine (due anni) ela fattibilità di un programma educativo orientato a ridurre i fattori di rischio car-diovascolare in pazienti con sindrome plurimetabolica (8). Gli obiettivi erano quelli

Corso residenziale (7 gg) 1.510.000 L/paz.Corso DH educativo (3 gg) 1.536.000 L/paz.

Tabella II costi

dell’educazionestrutturata (1997)

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di valutare l’efficaciadi un simile pro-gramma nel modi-ficare lo stile di vitae ridurre i fattori dirischio modificabilie la fattibilità di unprogramma di pre-venzione primariaesteso a tutta la po-polazione o a unapopolazione più va-sta. Nel programmasono stati inseriti 20soggetti diabetici ti-po 2 per braccio. Ilprimo braccio rice-

veva una educazione strutturata iniziale per un totale di 12 ore e successivamenteincontri di gruppo di 3 ore ogni 3-4 mesi; i diabetici di questo gruppo venivanoavviati ad attività motorie con l’assistenza di una fisioterapista (corsi di 10 ore ogni6 mesi) e veniva consigliata attività fisica individuale. Tra gli argomenti educativi nesono stati scelti quattro come obiettivi primari: la conoscenza generale dei fattori dirischio cardiovascolare, la corretta alimentazione, l’automonitoraggio e la cura delpiede. Il gruppo di controllo del secondo braccio seguiva il normale follow up am-bulatoriale. Nella tabella II sono riportati i dati metabolici fino a 24 mesi dei duegruppi di diabetici. Si può notare come il valore della HbA1c tende a diminuire neiprimi 6 mesi in entrambi i gruppi, (effetto trial), mentre a 24 mesi vi è la tendenza a

risalire verso i valoridi base, anche se nelgruppo di inter-vento la differenza èancora significativa.Oltre ai dati bio-logici nei due gruppisono state valutatele conoscenze e illocus of control conappositi questionari.Per quanto riguardale conoscenze ilgruppo di interven-to ha dimostrato unaumento delle co-noscenze che si èmantenuto relativa-mente stabile neltempo grazie anche

ai ripetuti rinforzi. Il gruppo di controllo non ha dimostrato invece alcunmiglioramento malgrado la valutazione sia stata condotta con lo stesso questionario.Interessante è stata la valutazione del locus of control della malattia per i due gruppi:nel gruppo di intervento vi è stata una progressiva e significativa internalizzazionedel locus of control mentre è diminuito l’affidamento di responsabilità al personalesanitario e la percepita responsabilità dell’ambiente sulla propria malattia (tab. III).

Controlli (n=20)

Base BMI (kg/m2) Glicemia dig. HbA1c (%) Colest. tot. Colest. HDL Trigliceridi(mg/dL) (mg/dL) (mg/dL) (mg/dL)

6 mesi 32±4,3 170±37 6,5±1,2 230±57 58±15 210±162

12 mesi 31,4±3,8* 166±46 5,5±1,4* 230±50 57±13 166±79*

24 mesi 31,6±4,1 177±51 6,4±1,6 244±62 57±16 206±114

31,3±4 189±66 6,6±1,8 218±40 51±12* 192±173

Casi (n=20)

6 mesi 32,7±2,8 177±42 7,6±1,3 240±47 52±18 249±132

12 mesi 32,4±3,2 176±55 6,5±1,7* 240±45 51±15 213±87

24 mesi 32±3,3** 173±46 7,3±1,6 254±43 55±16 240±113

32,1±3,3 184±64 6,7±1,6* 242±44 51±14 222±114

*p<0,001 vs base; **<0,05 vs base

Tabella IIParametri clinici e

metabolici. Soggettidiabetici tipo 2 (20casi vs 20 controlli)

prima e dopo uncorso di educazione

intensivo

Conoscenze (% risposte esatte)

Casi (n=20) - Controlli (n=20)Base Fine corso Dopo 12 mesi Dopo 24 mesi57,7% 86,1 85,3% 80,9%58,6% ** 59,1% 60,9%

Locus of control del diabeteCasi - Controlli

Base Personal Medical Situational

12 mesi 27,5 12,2 6,224 mesi 25,8 11,2 5,8

27,2 11,5 4,822,0 10,5 10,922,4 9,6 10,219,1 14,0 10,5

Score massimo: 30 punti

Tabella IIIRisultati cognitivi esul locus of control

di un corsoeducativo intensivo

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In altre parole è migliorata la capacità di autogestione ed è aumentata laconsapevolezza del proprio ruolo. La nostra valutazione ha infine preso inconsiderazione i punti di forza e i punti critici dell’intervento educativo. I punti diforza per il paziente sono risultati, come già detto, l’internalizzazione del locus ofcontrol, l’acquisizione di corrette abitudini di vita, il miglioramento di alcuni indicimetabolici e clinici. Per il team, elementi di non secondaria importanza, lamultidisciplinarietà, il linguaggio comune, la motivazione e la condivisione degliobiettivi. I punti critici che abbiamo rilevato sono stati il tempo necessario, ladifficoltà di assicurare una continuità all’intervento, il bisogno di rinnovarecontinuamente la motivazione del team e, soprattutto, dei diabetici. Per i diabetici ipunti critici sono stati la frustrazione, la mancanza di risultati visibili o percepibiliimmediatamente, il bisogno di motivazione continua, la mancanza di un feed-backimmediato, la difficoltà a mantenere nel tempo le abitudini acquisite. Concludendoquindi sulla fattibilità di un intervento educativo di questo tipo su un numeroelevato di diabetici potremmo affermare che esso è possibile se c’è un teameducativo formato, motivato e addestrato, se ci sono strutture idonee, se ci sonostrumenti di verifica e valutazione continua, se è possibile assicurare la continuitàdell’intervento e, soprattutto, se c’è tempo adeguato (fig. 1).Questi elementi tuttavia non possono rappresentare unpretesto per non attuare alcun intervento, rappresentanosoltanto i punti che devono essere considerati e organizzatiin modo da essere disponibili nella nostra pratica clinica.Tra tutti fondamentale è la continuità dell’intervento e delrapporto tra diabetico e team educativo e di cura. Non sipuò curare bene senza educare ma non si può educaresenza curare bene. E curare bene conviene e paga.

BIBLIOGRAFIA

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8. Tonutti L, Bortolotti N, Ceriello A, Crescentini A, et al: Programma educativo orientato aridurre i fattori di rischio cardiovascolare nei pazienti con sindrome plurimetabolica.Risultati preliminari. XI Congresso Nazionale AMD. Ed Tecomproject, Ferrara, 1997,p. 88-90

• Team educativo formato• Team educativo motivato• Tempo• Strutture idonee• Strumenti di verifica a valutazione• Continuità dell’intervento educativo

Fig. IElementi che

condizionano lafattibilità

dell’educazionestrutturata

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AlimentazioneD. Bruttomesso (Padova)

Ipoglicemia C. Fanelli (Perugia)

Attività fisicaG. Corigliano (Napoli)

Prevenzione del piedediabeticoD. Bloise (Roma)non pervenuto

GravidanzaA. Lapolla (Padova)

Tecnologie informaticheG. Vespasiani(S. Benedetto del Tronto)

Formazione deglioperatoriE. Orsi (Milano)

Obiettivi specifici

in campo educativo:esperienze pratiche

1 ° C O N G R E S S O R O C H E P A T I E N T C A R E

DIABETOLOGIAGIORNALE ITALIANO DI

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EDUCAZIONE ALIMENTARE PER DIABETICIINSULINO-DIPENDENTIDaniela BruttomessoServizio di Diabetologia, Divisione di Malattie del Metabolismo, Università degli Studi di Padova

Nel trattamento del diabete la dieta è considerata fondamentale al conseguimentodi glicemie quanto più possibile vicine alla norma.Tuttavia, proprio l’adozione di unadieta corretta costituisce per molti diabetici il problema più difficile, anche per quellipiù motivati. La difficoltà è generata da molteplici fattori, sia di ordine psicologicoche pratico, ma spesso è secondaria a una educazione inefficace. Medici e dietistetendono frequentemente a fornire diete prestampate, anche se è stato dimostratoche meno del 50% dei pazienti le usa correttamente.Spesso vengono fornite informazioni teoriche senza presentarle in un contesto cheabbia senso pratico per il paziente, altre volte concetti importanti vengono trattati inmodo insufficiente.La difficoltà dei pazienti non sta nell’apprendere le varie informazioni, manell’interpretarle e nell’utilizzarle per risolvere i vari problemi che incontrano nellavita quotidiana. La dieta del diabetico è infatti complessa, e per certi aspetti richiede,oltre alle conoscenze, anche capacità di ragionamento e di decisione.È quindi necessario un approccio educativo che sia in grado di trasmettere sia unsapere teorico che un saper fare.Il corso di educazione che noi rivolgiamo al paziente diabetico insulino-dipendenteha proprio la finalità di fare apprendere ai pazienti le nozioni e le abilità necessarieper gestire in modo più consapevole e più flessibile la propria dieta.Data la complessità dell’argomento, il corso è stato suddiviso in 4 incontri delladurata di circa due ore ciascuno, svolti con cadenza mensile. Ciascun incontroprevede la partecipazione attiva dei pazienti, che non possono quindi superare ilnumero di 8-12 per volta.Alla fine di ogni incontro, a ogni partecipante viene consegnata una sintesi finalescritta sui contenuti trattati durante l’incontro.Data la distanza temporale tra un incontro e l’altro, viene suggerito ai pazienti diesercitarsi a domicilio, compilando un giorno alla settimana un diario alimentarespecificando di volta in volta i principi dietetici appresi durante l’incontro.Ciascun incontro ha degli obiettivi ben precisi. Il primo incontro prevede di fare inmodo che i pazienti apprendano il ruolo dei carboidrati, lipidi e alcol, che sappianoidentificare i carboidrati e i lipidi negli alimenti, che sappiano distribuirecorrettamente i nutrienti nella giornata.Nel secondo incontro il paziente dovrebbe apprendere l’uso corretto degliequivalenti glucidici, e dovrebbe imparare a comporre dei menu equilibrati.L’obiettivo del terzo incontro è di fare in modo che il paziente possa variare lapropria dieta, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo.Infine, nel quarto incontro viene insegnato al paziente come adeguare la dieta incaso di ipoglicemia o di attività fisica.Ogni incontro prevede un insegnamento teorico, svolto generalmente in gruppo, eun’applicazione pratica delle nozioni teoriche, generalmente svolta in piccoli

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sottogruppi. In entrambi i casi viene favorita la partecipazione attiva deipazienti ricorrendo a metodiche che favoriscono da una parte la discussione, loscambio di informazioni e di esperienze tra i pazienti nel gruppo, e dall’altra lariflessione, la capacità di decisione e la risoluzione di problemi da parte deisingoli pazienti.Per lo svolgimento del corso, oltre a lavagne e materiale cartaceo, vengono utilizzatialimenti naturali e alimenti artificiali, del tutto sovrapponibili per forma e colore aquelli naturali, bilance per alimenti, misuratori per liquidi, tazze, bicchieri e così via.Per valutare l’effetto del corso sulle conoscenze dei pazienti, ricorriamo all’uso di unquestionario, che viene somministrato prima del corso come pre-test e alla fine delcorso come post-test. Questo ci permette di misurare, attraverso la differenza pre-post, le nuove nozioni apprese. Il questionario, costituito da 23 domande, indaga leconoscenze circa il fabbisogno calorico, la distribuzione delle calorie nella giornata,il ruolo e l’apporto calorico dei vari nutrienti, il contenuto in carboidrati e in grassidegli alimenti, l’utilizzo dei carboidrati in caso di ipoglicemia e di attività fisica.Per verificare eventuali cambiamenti nelle abitudini alimentari, ricorriamo all’analisidei diari alimentari, compilati dai pazienti per 7 giorni prima e per 7 giorni dopo ilcorso. La valutazione del diario si basa sul confronto, tra prima e dopo, della capacità

del paziente di dare una stima quantitativadel contenuto in carboidrati degli alimenti,sulla presenza o meno di carboidrati a tuttii pasti e agli spuntini, sul numero dispuntini interprandiali, sul consumo digrassi animali, sulla distribuzione deinutrienti ai pasti.Infine la valutazione prima e dopo il corsodi alcuni parametri clinico-metabolici,

quali il peso corporeo, il valore di emoglobina glicosilata, il fabbisogno insulinico, lafrequenza di ipoglicemie o di iperglicemie, mostra l’effetto di questo corso dieducazione alimentare sul controllo del peso corporeo e sul controllo metabolico.I primi 48 pazienti, educati secondo questo programma, hanno mostrato unsignificativo aumento del livello di conoscenza (dopo il corso sono migliorate lerisposte a 15 domande su 23; p<0,05), e un significativo miglioramento nellacapacità di stimare il contenuto in carboidrati degli alimenti.Infatti l’83% dei pazienti dopo il corso, rispetto al 33% prima, sapeva dare una stimaquantitativa dei carboidrati assunti (tab. I).Nessun paziente, dopo il corso, si limitava a dare una semplice descrizionequalitativa dell’alimento.Dopo il corso, un maggior numero di pazienti è riuscito a distribuire in modocorretto i carboidrati durante tutta la giornata, e ad eseguire degli interscambicorretti.Il numero di spuntini interprandiali, già buono prima del corso, è migliorato dopo.Per quanto riguarda l’andamento metabolico, i pazienti valutati hanno mostrato unariduzione modesta ma significativa del peso corporeo. L’emoglobina glicosilata èmigliorata anche se non significativamente. Il fabbisogno insulinico e la percentualedi glicemie inferiori a 65 mg/dL, sono rimaste invariate. Il numero di iperglicemieinvece, anche se non in modo significativo, si è ridotto. A nostro avviso, il calo,seppur modesto, del peso corporeo e la minor frequenza di episodi iperglicemicipotrebbero essere conseguenti a una più corretta gestione della dieta edell’ipoglicemia.

Stima pre corso post corso

Quantitativa 16 (33%) 40 (83%)*

Semiquantitativa 21 (44%) 8 (17%)

Qualitativa 11 (23%) –

*p<0,05 (test χ2)

Tabella IStima da parte del

paziente delcontenuto in

carboidrati deglialimenti

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Il nostro corso di educazione alimentare sembra quindi in grado, almeno a brevetermine, di migliorare sia le conoscenze che il comportamento alimentare neipazienti diabetici insulino-dipendenti. L’efficacia del corso è probabilmentesecondaria al fatto che il programma educativo è stato indirizzato verso i bisogni deipazienti e ha previsto un loro coinvolgimento attivo e diretto in tutti gli aspetti delpercorso educativo. Per mantenere nel tempo tali risultati, potrebbe tuttavia esserenecessario integrare il corso di educazione in gruppo con incontri individuali con ladietista.

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IPOGLICEMIACarmine G. FanelliDipartimento Medicina Interna Scienze Endocrine e Metaboliche, Università di Perugia

IntroduzioneL’ipoglicemia è la complicanza più frequente e grave nella vita dei pazienti diabeticiin terapia insulinica. Di fatto, l’ipoglicemia rappresenta il maggiore ostacolo alraggiungimento della “quasi-normoglicemia”che, come dimostrato definitivamentedallo studio prospettico nordamericano DCCT (1), è essenziale per prevenire lecomplicanze microvascolari della malattia diabetica. Si stima che, nel corso della suavita, un soggetto diabetico in terapia insulinica vada incontro a numerosi episodi diipoglicemia lieve. Molti di questi sono riconosciuti e corretti dal paziente stesso.Purtroppo, altri possono esitare in ipoglicemia grave (condizione in cui il pazientenon è in grado di provvedere da solo alla correzione dell’ipoglicemia e ha bisognodell’aiuto di un’altra persona) o addirittura nel coma. Ad esempio, nello studioDCCT, i pazienti in terapia insulinica intensiva presentavano in media un episodiodi ipoglicemia grave e/o coma ipoglicemico ogni 2-3 anni (1). L’ipoglicemia, quindi,non solo rappresenta una seria minaccia per la sopravvivenza del paziente, ma puòanche influire negativamente sulla qualità della vita dei pazienti diabetici inrelazione alle attività lavorative e sociali.

Fisiopatologia dell’ipoglicema e dell’ipoglicemiaasintomatica (hypoglycemia unawareness) nel diabetemellito di tipo 1 in terapia insulinicaL’ipoglicemia nei pazienti diabetici in terapia insulinica è causata, in primo luogo,dall’iperinsulinismo sistemico indotto dalla somministrazione sottocutanea diinsulina; la durata e la gravità dell’episodio ipoglicemico dipendono soprattutto dalgrado di efficienza del sistema di controregolazione glicidica. Si tratta di un sistemaestremamente sofisticato e fine che viene attivato dal sistema nervoso centralequalora ci sia una diminuzione della glicemia al di sotto dei valori normali (≈70mg/dL). L’obiettivo è quello di correggere l’ipoglicemia o di prevenire una ulteriorediminuzione della glicemia. Il sistema della controregolazione glicidica è costituitodagli ormoni controregolatori, dalla risposta dei substrati (acidi grassi liberi eglicerolo) all’ipoglicemia e dall’autoregolazione epatica. Fra questi, sicuramente larisposta di glucagone e adrenalina (ma anche cortisolo e ormone della crescita), lecui concentrazioni plasmatiche aumentano durante l’ipoglicemia, svolgono un ruolodi primo piano. Grazie all’azione degli ormoni, la produzione endogena di glucosio(da parte del fegato e del rene) aumenta e la utilizzazione di glucosio nei tessutiperiferici diminuisce. Il risultato finale è, quindi, quello di mantenere unaconcentrazione di glucosio nel sangue sufficiente per soddisfare le esigenzemetaboliche del cervello che, come è noto, è un organo il cui metabolismo è ingenerale strettamente glucosio-dipendente (2, 3).

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Questo sistema è così efficiente che nel soggetto non-diabetico l’ipoglicemia non siverifica mai, nemmeno durante il digiuno prolungato. Purtroppo, nei pazientidiabetici di tipo 1 la risposta degli ormoni controregolatori all’ipoglicemia è spessocompromessa. Infatti, dopo circa 4-5 anni di malattia, la secrezione di glucagone èpraticamente assente, mentre quella di adrenalina non scompare completamentecome quella del glucagone, ma sembra diminuire più gradualmente nel corso deglianni. Per questo motivo, la ridotta risposta degli ormoni controregolatorirappresenta il secondo fattore responsabile dell’ipoglicemia nei pazienti diabetici.Un ulteriore meccanismo di difesa all’ipoglicemia è rappresentato dalla percezionedei sintomi dell’ipoglicemia. È grazie alla percezione dei sintomi dell’ipoglicemiache il paziente può correggere (per es. mangiando) l’ipoglicemia all’esordioprevenendo l’evoluzione verso una forma più severa. È importante, quindi, che ipazienti conservino una buona percezione dei sintomi dell’ipoglicemia nella sua faseiniziale, per correggerla tempestivamente e prevenire la neuroglicopenia el’ipoglicemia grave. Normalmente sono i sintomi autonomici (cioè, la sudorazione,la fame, i tremori, il cardiopalmo, l’ansia e l’irritabilità) quelli che allarmanoinizialmente i pazienti. Tuttavia, in certi pazienti, la percezione dei sintomidell’ipoglicemia è ridotta o può essere addirittura assente. In molte occasioni, lasintomatologia compare a valori di glicemia molto bassi, è caratterizzata daneuroglicopenia, vario grado di disfunzione cerebrale e spesso coma ipoglicemico.Questa condizione è nota come “ipoglicemia asintomatica” o “hypoglycemiaunawareness”. Si tratta di una condizione largamente diffusa fra i diabetici in terapiainsulinica. Tuttavia, l’esatta frequenza del fenomeno non è nota. Da una minuziosaanalisi della letteratura, la frequenza stimata è risultata pari al 25%, variando inrapporto all’eta’ del paziente, alla durata della malattia, alla presenza o meno dellaneuropatia autonomica diabetica e alla qualità del controllo glicemico. Da un puntodi vista prettamente clinico, l’ipoglicemia asintomatica è una condizioneestremamente pericolosa in quanto l’ipoglicemia può esordire bruscamente con isegni e sintomi di una grave disfunzione cerebrale. I pazienti hanno solitamente unalunga durata del diabete, una storia di episodi di ipoglicemia grave e bassi valori diHbA1c. Per quanto riguarda la eziologia, l’ipoglicemia asintomatica è indotta dallaesposizione a ripetuti episodi di ipoglicemia. Il fenomeno è riproducibilesperimentalmente. Infatti, l’esposizione a brevi episodi di ipoglicemia riduce lapercezione dei sintomi (e la risposta degli ormoni controregolatori) durante unasuccessiva ipoglicemia indotta il giorno dopo (4). Dal punto di vista clinico èinteressante osservare come ipoglicemie lievi (70-60 mg/dL) siano efficaci quantoquelle più severe, ad esempio 50-40 mg/dL. La patogenesi non è completamenteconosciuta. Negli animali è stato dimostrato che l’ipoglicemia cronica induce unaumento del numero dei trasportatori cerebrali del glucosio (GLUT-1 e GLUT-3).Questi trasportatori sono localizzati a livello endoteliale nella barriera emato-encefalica (GLUT-1) e neuronale (GLUT-3), non sono regolati dall’insulina,mediano il trasporto basale di glucosio e hanno una elevata affinità per il glucosio(ciò è particolarmente vantaggioso per un organo come il cervello estremamentevulnerabile all’ipoglicemia). La “up-regulation” dei trasportatori del glucosioconsentirebbe al cervello di adattare il metabolismo all’ipoglicemia. In altre parole, iltessuto cerebrale utilizzerebbe una maggiore percentuale di glucosio disponibilemantenendo normale il metabolismo anche in presenza di valori subnormali diglicemia. In assenza di sintomi l’ipoglicemia non verrebbe percepita e corretta dalpaziente. Il rischio di ipoglicemia grave risulterebbe realmente elevato.Recentemente è stato documentato che l’estrazione cerebrale di glucosio èaumentata nei pazienti diabetici con ipoglicemia asintomatica (5). Pertanto, èverosimile che l’adattamento cerebrale all’ipoglicemia, mediato dalla “up-

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regulation” dei trasportatori di glucosio, sia il meccanismo operativo nellapatogenesi dell’ipoglicemia asintomatica nei pazienti diabetici. Inoltre, questaipotesi patogenetica ha una notevole rilevanza da un punto di vista clinico eterapeutico perché suggerisce che l’adattamento cerebrale all’ipoglicemia è unfenomeno funzionale e, quindi, reversibile. Infatti, la prevenzione scrupolosadell’ipoglicemia ripristina (già dopo due settimane) la fisiologica risposta dei sintomiall’ipoglicemia (6) (fig. 1). La reversibilità della sindrome è stata dimostrata neipazienti diabetici con breve e lunga durata del diabete e, recentemente, anche neipazienti con neuropatia autonomica (che non è la causa della sindrome come si ècreduto fino a poco tempo fa). Sorprendentemente, anche la risposta degli ormonicontroregolatori, in particolare adrenalina (fig. 2), migliora significativamente dopoprevenzione dell’ipoglicemia indicando che anche la sindrome della ridottacontroregolazione glicemica è parzialmente reversibile.

Ipoglicemia asintomatica e soglie glicemiche perle risposte degli ormoni controregolatori, dei sintomi e funzioni cognitiveÈ possibile identificare in modo obiettivo i pazienti con ipoglicemia asintomaticamediante la tecnica del clamp iperinsulinemico-ipoglicemico a gradini (6).Utilizzando questa tecnica, in cui l’insulina è infusa a velocità costante mentre ilglucosio viene infuso a velocità variabile per produrre livelli successivi diipoglicemia, è possibile determinare le soglie glicemiche delle risposte fisiologicheall’ipoglicemia. Nei soggetti non-diabetici è stato documentato che la prima rispostaall’ipoglicemia è rappresentata dalla soppressione della secrezione insulinica (a circa79 mg/dL), segue l’aumento degli ormoni controregolatori adrenalina e glucagone(a circa 65 mg/dL), la comparsa dei sintomidell’ipoglicemia (a circa 56 mg/dL) e l’inizio delladisfunzione cerebrale a 50-52 mg/dL. Nei soggettidiabetici, invece, le soglie glicemiche variano in rapporto alcontrollo glicemico precedente. Infatti, i pazienti diabeticicon ipoglicemia ricorrente hanno le soglie glicemiche perle risposte degli ormoni controregolatori, dei sintomidell’ipoglicemia e per l’iniziale deterioramento dellefunzioni cognitive elevate (le risposte si manifestano avalori di glicemia più bassi rispetto a quelli di soggetti nondiabetici). Pertanto, l’adattamento cerebrale indottodall’ipoglicemia ricorrente coinvolge tutte le rispostefisiologiche all’ipoglicemia. Clinicamente, ciò significa chela soglia glicemica per la percezione dei sintomidell’ipoglicemia dipende dal grado di controllo glicemicoconseguito durante le settimane precedenti. Per esempio,pazienti con ipoglicemia ricorrente (= ipoglicemiaasintomatica) possono apparentemente tollerare moltobene valori glicemici bassi (per es. 45-50 mg/dL). Daquesta osservazione clinica si è sviluppato il concetto chel’adattamento cerebrale all’ipoglicemia ricorrente(mediante i meccanismi descritti sopra) rappresenti unmeccanismo protettivo. In realtà, dal punto di vista clinicol’adattamento delle soglie glicemiche all’ipoglicemiaricorrente non offre nessun sostanziale vantaggio, al

Figura 1Risposta dei sintomi

autonomici eneuroglicopenici

durante ipoglicemiaa gradini in soggetti

non-diabetici, e inun gruppo di

pazienti diabeticicon ipoglicemia

asintomatica prima,dopo due settimane

e dopo tre mesi diprevenzione

scrupolosadell’ipoglicemia.

Durante lo studio laglicemia veniva

progressivamenteridotta da 85 mg/dL

al tempo 0, fino a 45mg/dL al tempo 360

minuti

AUTONOMICSYMPTOMS

0 60 120 180 240 300 360MINUTES

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basaln = 12 non-diabetic n = 8 IDDM volunteers

2 weeks3 months

NEUROGLYCOPENIC

SYMPTOMS

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contrario ritarda l’attivazione delle risposte ormonali dellacontroregolazione e la percezione dei sintomidell’ipoglicemia. Gold e Coll. (7) hanno trovato in unostudio prospettico su 60 pazienti che il rischio di comaipoglicemico è circa 6 volte maggiore nei pazienti conipoglicemia asintomatica rispetto ai pazienti in grado dipercepire l’ipoglicemia al suo esordio.

Prevenzione dell’ipoglicemia duranteterapia insulinica intensivaLa prevenzione dell’ipoglicemia asintomatica si basaessenzialmente sulla prevenzione dell’ipoglicemia neipazienti in terapia insulinica intensiva. Da un punto di vistapratico, la difficoltà maggiore è quella di eliminare gliepisodi di ipoglicemia lievi che hanno enorme importanzanello sviluppo dell’ipoglicemia asintomatica e dell’ipo-glicemia grave. Certamente, con le preparazioni insulinicheattualmente disponibili e l’imperfezione della viasottocutanea di somministrazione non è realisticamentepossibile prevenire completamente l’ipoglicemia neipazienti in terapia insulinica intensiva nei quali gli obiettiviglicemici sono quelli di una “quasi-normoglicemia”.

Tuttavia, ogni sforzo deve essere fatto per minimizzare la frequenza di ipoglicemiain questi pazienti. Per questo motivo è importante in primo luogo mirare a degliobiettivi glicemici di “quasi-normoglicemia” prima dei pasti. Praticamente ciò èpossibile innalzando gli obiettivi di normoglicemia prima dei pasti di almeno 30-50mg/dL. Ciò riduce il rischio di ipoglicemia nei periodi inter-prandiali ed ècompatibile con un controllo glicemico globale ottimale sulla base di valori di HbA1ccompresi fra 6,0 e 7,0%. Deve essere utilizzato un modello di terapia insulinica coniniezioni giornaliere multiple di insulina o con microinfusori a velocitàprogrammabile. In generale, la terapia insulinica prevede la somministrazione diinsulina ad azione rapida a ogni pasto e dell’insulina ad azione intermedia (NPH)prima di coricarsi. Le dosi di insulina da utilizzare dipendono dal contenuto dicarboidrati dei pasti. Il fabbisogno di insulina è in genere modesto a colazione(≈0,05-0,10 IU/kg), mentre è più elevato a pranzo e cena (0,15-0,20 IU/kg). Nel casoin cui l’intervallo di tempo fra il pranzo e la cena sia abbastanza lungo (>6 ore) puòessere utile aggiungere una piccola dose di insulina NPH (0,05-0,10 IU/kg) a pranzoper migliorare la glicemia prima di cena. In questo caso, la dose di insulina ad azionerapida della cena dovrebbe essere ridotta di 1-2 unità per ridurre il rischio diipoglicemia dopo il pasto serale.Durante la notte non è sempre semplice ottenere un controllo glicemico ottimale.Infatti, a causa della sensibilità insulinica che cambia (maggiore nelle prime ore dellanotte rispetto alle prime ore del mattino) e della scarsa affidabilità dell’insulinaNPH, il rischio di ipoglicemia è maggiore durante la notte, in particolare durante leprime ore della notte. Ciò si verifica più frequentemente quando l’insulina NPHviene iniettata insieme alla insulina ad azione rapida prima di cena. Per mimimizzareil rischio di ipoglicemia notturna è opportuno somministrare la dose di insulinaNPH prima andare a letto (per es. alle ore 23). La dose di insulina NPH è di circa0,15-0,25 UI/kg.Molti pazienti preferiscono sostiture l’insulina ad azione rapida con l’analogo lisproche è caratterizzato da un assorbimento cutaneo molto più veloce e da una più

Figura 2Concentrazioniplasmatiche di

adrenalina eglucagone durante

ipoglicemia a gradiniin soggetti non-

diabetici, e in ungruppo di pazienti

diabetici conipoglicemia

asintomatica prima,dopo due settimane

e dopo tre mesi diprevenzione

scrupolosadell’ipoglicemia.

Durante lo studio laglicemia veniva

progressivamenteridotta da 85 mg/dL

al tempo 0, fino a 45mg/dL al tempo 360

minuti

basaln = 12 non-diabetic n = 8 IDDM volunteers

2 weeks3 months

MINUTES

PLASMA GLUCAGON

PLASMA ADRENALINE

0 60 120 180 240 300 360

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precoce biodisponibilità insulinica. Queste caratteristiche rendono l’impiegodell’analogo particolarmente utile per il controllo post-prandiale della glicemiarispetto all’insulina ad azione rapida. Per questi motivi, l’analogo vienesomministrato solo pochi minuti prima del pasto (invece dei 20-30 minuti attesidopo l’iniezione della insulina ad azione rapida) migliorando lo stile di vita deipazienti. Tuttavia, poichè la durata d’azione dell’analogo è più breve di circa 2-3 ore,l’analogo deve essere miscelato con una dose di insulina NPH ad ogni pasto perprevenire l’iperglicemia prima del pasto successivo (8). Il rischio di ipoglicemia, inparticolare di ipoglicemia notturna, è generalmente ridotto utilizzando l’analogolispro rispetto all’insulina ad azione rapida (9).Infine, è estremamente importante istruire il paziente sull’utilità delladeterminazione della glicemia pre-prandiale quale guida per la scelta della dosedi insulina. Nel caso in cui il paziente sia affetto da ipoglicemia asintomatica èopportuno deteriorare intenzionalmente il controllo glicemico (valori di glicemiaprima dei pasti compresi fra 150 e 200 mg/dL) per un periodo di circa 2-3settimane. Tale periodo è sufficiente perchè il cervello possa recuperare lafisiologica funzione di percepire l’ipoglicemia non appena si manifestil’ipoglicemia sistemica, con conseguente generazione dei sintomi di allarmedell’ipoglicemia e secrezione degli ormoni controregolatori. Dopo questoperiodo, si può ripristinare la terapia insulinica intensiva mirando agli obiettiviglicemici sopra ricordati e prevenendo scrupolosamente il ripetersi di episodi diipoglicemia.

BIBILIOGRAFIA

1. The Diabetes Control and Complications Trial Research Group: The effect of intensivetreatment of diabetes on the development and progression of long-term complicationsin inslin-dependent diabetes mellitus. N Engl J Med 329, 977-986, 1993

2. Bolli GB: From physiology of glucose counterregulation to prevention of hypoglycemia intype I diabetes mellitus. Diab Nutr Metab 4, 333-349, 1990

3. PE Cryer: Hypoglycemia. Pathophysiology, Diagnosis and Treatment. Published byOxford University Press, Inc 1997, p. 37-52

4. Heller SR, Cryer PE: Reduced neuroendocrine and symptomatic response to subsequenthypoglycemia after one episode of hypoglycemia in nondiabetic humans. Diabetes 40,223-226, 1991

5. Boyle PJ, Kempers SF, O’Connor AM et al: Brain glucose uptake and unawareness ofhypoglycemia in patients with insulin dependent diabetes mellitus. N Engl J Med 333,1726, 1995

6. Fanelli CG, Epifano L, Rambotti AM et al: Meticulous prevention of hypoglycemianormalizes the glycemic thresholds and magnitude of most neuroendocrine resposnsesto, symptoms of and cognitive function during hypoglycemia in intensively treatedpatients with short-term IDDM. Diabetes 42, 1683-1689, 1993

7. Gold AE, MacLeod KM, Frier BM: Frequency of severe hypoglycemia in patients withtype I diabetes with impaired awareness of hypoglycemia. Diabetes Care 17, 697-703,1994

8. Bolli GB: Prevention and treatment of hypoglycaemia unawareness in type 1 diabetesmellitus. Acta Diabetol 35, 183-193, 1998

9. Ahmed ABE, Home PD: The effect of insulin analog lispro on nighttime blood glucosecontrol in type 1 diabetic patients. Diabetes Care 21, 32-37, 1998

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ATTIVITÀ FISICAGerardo CoriglianoAssociazione Nazionale Italiana Atleti Diabetici (ANIAD)

Io non vi parlerò degli aspetti fisiopatologici che pur sono importanti per definire leconoscenze che sottendono i programmi educativi; dando per scontato che siano atutti note possiamo parlarne in discussione. Non vi parlerò degli aspetti educativi delbinomio attività fisica/diabete di tipo 2 per la brevità del tempo che mi compete equindi entro subito in argomento per quanto riguarda diabete insulino-dipendente.Intanto sgombriamo il campo, chiariamo una cosa, il diabetico insulino-dipendentenon determina una diminuzione quantitativa di attività fisica abituale; quindi l’ideache molti di noi hanno che il diabetico faccia meno attività fisica è un’idea chescientificamente è stata dimostrata falsa. Questo è un articolo apparso su DiabetesCare: soltanto i pazienti portatori di microinfusore, forse per l’ingombro dellamalattia, forse per l’instabilità stessa del diabete hanno una diminuzionequantitativa di attività fisica.Come la tazzina di caffè della nota pubblicità televisiva che allunga la vita, anchel’esercizio fisico regolare allunga la vita.Questo è un lavoro di Moy, fatto a Pittsburgh, è durato circa 20 anni e voi vedetecome, in modo coerente, vi sia un rapporto inversamente proporzionale fraprevalenza di mortalità e quantità di attività fisica spesa settimanalmente: questicinque quintili sono da meno di 500 calorie alla settimana a più di 2500 calorie allasettimana per attività motorie e sportive. Quindi anche salire le scale, andare allavoro a piedi e così via, veniva calcolato in questo lavoro.Quando programmiamo un’attività fisica, dobbiamo porci sempre il problema delrapporto rischio-beneficio.In questa immagine noi vediamo una ipotetica safety-zone, una zona di sicurezzaper un diabetico giovane senza complicanze.E vedete come a un aumento dell’intensità e della durata dell’attività fisica siaccompagni solo tardivamente un aumento del rapporto rischio-beneficio, delrischio in qualche modo. Quindi vi è un’ampia zona di sicurezza. Ma se andiamo aun paziente più avanti negli anni, con delle complicanze microvascolari iniziali,vedete come si stringe la safety-zone e quanta maggiore prudenza noi dobbiamoavere nel consigliare, nello scegliere il tipo di attività fisica.Vedete come a un piccoloincremento della intensità si accompagni un notevole aumento del rapporto rischio-beneficio.Nella diapositiva ci sono le raccomandazioni dell’American Diabetes Associationper iniziare un’attività fisica in pazienti affetti da diabete di tipo 1 e tipo 2; cerco diriassumervela. Per prima cosa: cerca le complicanze, fai un’attenta valutazione dellecomplicanze micro e macrovascolari e fai un elettrocardiogramma da sforzo se hai ildiabete di tipo 1 da più di 15 anni, o se sei tipo 1 con più di 30 anni, o tipo 2 conun’età maggiore di 35 anni. E poi importanti informazioni sul tipo di attività fisica:deve essere aerobica (e ci ritorneremo), deve essere regolare (due o tre volte lasettimana), la durata non deve essere mai troppo elevata (20-60 minuti), l’intensità50-70% della VO2 massima. Come si fa, mi direte voi, così nei nostri ambulatori atrovare la VO2 massima? È semplice, calcolate 220 meno l’età del paziente in anni,

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se ha 20 anni c’è 200, il cento per cento della sua VO2 massima teorica. Se voilavorate al 50-70% deve fare un esercizio fisico con una frequenza che vada da 100a 140. E ancora valuta la spesa energetica e così via.Le raccomandazioni per evitare problemi sono quelle di effettuare sempre uncorretto riscaldamento e di seguire poi tutte le norme educative sulla prevenzionedelle ipoglicemie e sull’adeguamento dei carboidrati. Norme che non possonoessere standardizzate ma che sono variabili da paziente a paziente, e quindi èfondamentale che il paziente abbia conoscenza del suo specifico atteggiamentometabolico in rapporto all’attività fisica, e si vada formando proprio una capacità diadattamento che sia assolutamente personalizzata.Allora cominciamo a vedere programmi di educazione per il tipo 1. Qui è ad Atene,congresso internazionale della International Diabetes Athletics Association,settembre del ‘98. Io ritengo, diciamo, basandomi sull’esperienza ultradecennale, chel’educazione per esercizio fisico non possa essere fatta nell’ambulatorio, nelloscorrere continuo delle visite che noi facciamo, ma deve avere un posto privilegiatoe da una decina d’anni noi organizziamo dei corsi di sport allo scopo di insegnare aidiabetici di tipo 1 ad adattare e personalizzare l’apporto alimentare in carboidrati inparticolare e il fabbisogno insulinico in rapporto all’attività fisica ma non l’attivitàfisica in generale, al tipo, alla durata, all’intensità, all’ora del giorno in cui viene fatta.E, ancora, un obiettivo è quello di formare negli ultimi tempi diabetologi sugli aspettifisiopatologici, clinici, psicologici, pratici ed educativi di questo binomio. Sonoaspetti che non vengono spesso trattati nell’ambito degli studi di specializzazione,che vengono forse più facilmente imparati sul campo. 15-20 partecipanti, omogeneiper tipo di diabete di entrambi i sessi, che abbiano capacità di autogestione, cheabbiano un minimo di allenamento e il sito deve essere evidentemente una localitàche abbia nella stessa struttura alloggi, refettori e impianti sportivi. In genere vienefatto nei pressi di Napoli, al Monte Faito, ma abbiamo fatto delle riunioni anche nelVeneto e in Sicilia recentemente. Il corso dura 4 giorni e il team deve essere costituitoda un diabetologo, una dietista, un infermiere, come sempre, ma vedete qui unpreparatore atletico perché noi insegniamo non solo come si adatta e come sigestisce il diabete ma anche come si fa lo sport in rapporto all’essere diabetico.Un diabetico-guida sportivo può essere di grande ausilio e il diabetologo diventa inqualche modo discente e docente perché diventa il tutor di alcuni diabeticipartecipanti e nello stesso tempo è discente perché viene lì per imparare.La didattica è quella dell’insegnamento sul campo, quindi noi facciamo un’attivitàfisica che è prevalentemente ludica e per qualche tratto anche agonistica a moderatolivello, mattina e pomeriggio per quattro giorni e nel tardo pomeriggio, in serata,vengono fatte delle discussioni, si affrontano gli argomenti, partendo sempredall’esperienza pratica vissuta da qualcuno quella giornata, in modo tale che si arrivaal generale e partendo dal particolare, dall’ipoglicemia che quel giovane ha avuto inquel giorno e quindi svisceriamo perché l’ha avuto, quale è stato l’errorenell’adeguamento insulinico e alimentare, e così via. Un questionario di valutazioni,delle conoscenze viene somministrato ovviamente per cercare di capire se siamoriusciti a insegnare qualcosa.È evidente che il momento dell’autocontrollo è momento fondamentale, esso deveessere fatto in tutti i momenti possibili, non vissuto masochisticamente come ilmodo di pungersi il dito, ma proprio come una volontà precisa di capire per nonsbagliare.Vedete, un momento di autocontrollo ancora più particolare, e quando parlo diautocontrollo non mi riferisco solo all’autocontrollo glicemico, ma di tutte quellecomponenti che influiscono sulla glicemia. Qui vedete un paziente che controlla espegne il suo microinfusore in previsione di una seduta di esercizio fisico in acqua.

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Il programma educativo prevede nozioni sulla fisiopatologia dello sforzo muscolare,sull’adattamento dell’insulina, dell’apporto alimentare, siti d’iniezione, timing e, inparticolare, c’è tutto un nuovo filone di valutazione per quanto riguarda i pazientiche usano analoga lispro perché cambia la cinetica e quindi cambia il timingdesiderato, desiderabile per l’esercizio fisico. Scelta del tipo di attività in rapporto aeventuali iniziali complicanze.I vantaggi sono quelli dell’apprendimento facilitato, della sdrammatizzazione delnostro rapporto, diciamo, pur non rinunciando al ruolo di medico e quindi al ruolodi diabetologo; noi cerchiamo di empatizzare il nostro rapporto e quindi, in qualchemodo, di averne dei vantaggi nella disponibilità al colloquio e alla collaborazione cheavviene successivamente nella vita quotidiana.Ancora vantaggi: rilievo immediato dei progressi raggiunti (questi pazienti in quartagiornata spesso riducono del 40% la dose d’insulina); possibilità di approfondireargomenti raramente trattati, per esempio scelta della calzature; programmi diallenamento e così via; alimentazione specifica in preparazione di una gara.Possibili ricadute pratiche: migliore qualità della vita sicuramente; migliore sicurezzadi sé; probabilmente anche migliore compenso e una accettazione attiva del diabetepuò essere la conseguenza di tutto questo stile di vita che fa sentire molto meno unmalato cronico il nostro diabetico.E queste sono una serie di nozioni “un po’ prendi e porta a casa” che potremorivedere, a voi tutti note. Per esempio non fare attività quando la glicemia è moltoalta, ma possiamo discutere di questo.Alcuni aspetti pratici di tipo organizzativo. Che cosa facciamo propriomaterialmente per organizzare, oltre che far organizzare questi corsi di sport? Vipresento l’ANIAD. Per chi non la conoscesse è l’associazione nazionale italiana atletidiabetici, fa parte dell’International Diabetes Athletics Association e riunisce idiabetici sportivi, atleti in gergo anglosassone, sportivi in generale e medicidiabetologi che sono interessati alla materia.Molti preparatori sportivi anche sono interessati. Questo è il nostro presidente, PaulaHarper, diabetica insulino-dipendente di Phoenix, Arizona, che è una sportiva dilunga data.E questa è letteratura che si fa sull’argomento di tipo educativo. Probabilmente nonmolti la conoscono, ma esiste una rivista americana, una spagnola “Sport y vida”,una di lingua francese “Le défi”, la sfida, poi tedesca, inglese e questa nostra che sichiama “Sport e Diabete”, questo bollettino che faticosamente ogni 4 mesi cerco diinviare ai diabetici e ai diabetologi interessati all’argomento.Una delle nostre finalità è quella di insegnare come si fa una seduta di attività fisicae questo è importante che voi lo trasferiate ai vostri pazienti. Una corretta seduta perun diabetico deve prevedere 2 minuti per un check della glicemia, 5 minuti per unafase di riscaldamento, la sessione di esercizio vera e propria, e poi una fasedefatigante, importante in cui si riduce l’intensità, un fase facoltativa di stretch e uncontrollo della glicemia ancora due minuti.Ancora tre diapositive e ho concluso e queste sono importanti. Per darvi unmessaggio e far sì che voi lo trasferiate ai vostri pazienti: non tutte le attività sonouguali sul piano metabolico e quindi sul piano dell’effetto che ci si aspetta in terminidi glicemia. Quelle anaerobiche a-lattacide, quelle di brevissima durata e di grandeintensità utilizzano sostanze energetiche diverse dal glucosio, hanno un dispendioenergetico di poche decine di calorie, quindi non hanno alcun effetto sulla glicemiae hanno un forte impatto sul sistema cardiovascolare. Quindi sono attività che nonsono utili.Quelle invece anaerobiche lattacide, quelle di durata media, utilizzanoprincipalmente glicogeno e quindi danno rischio di ipoglicemia, sono poco

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ecologiche perché producono scorie come l’acido lattico e hanno anche un certoimpatto sul sistema cardiovascolare.Ma allora qual è l’attività che noi dobbiamo raccomandare in termini anche dieducazione, di messaggio educativo? Le attività aeorobiche a-lattacide, cioè quelledi durata e non di potenza: le corse, lo sci, la marcia, il ciclismo, di scarsa intensità edi lunga durata. Qui la fonte energetica principale è il glucosio e solo tardivamenteviene utilizzato glicogeno. Il dispendio energetico è di centinaia di calorie, l’effettosulla glicemia è una riduzione progressiva e prevedibile, quindi ideale per il diabeticoe vi è poi tutta una serie di effetti positivi che sono legati al metabolismo lipidico, allafitness, alla migliore attività recettoriale dell’insulina.Quindi l’attività fisica prolungata, effettuata al di sotto della soglia anaerobicaindividuale predeterminata, effettuata in condizioni di controllo metabolico, sembraessere quella che meglio si adatta alla condizione di diabetico. E, cosa nontrascurabile, essa può essere proseguita fino a 40-50 anni e più: questo è importantein una prevenzione a lungo termine delle complicanze macrovascolari del diabetico.Questa è la partenza della maratonina, qui stiamo proprio a Maratona, qui c’è ilfuoco sacro di Atene, appunto nell’ultimo congresso IDAA, ci sono dei diabetici ealcuni diabetologi.La conclusione è questa. L’esercizio fisico intrapreso consapevolmente, costringeall’autocontrollo, se non lo vuoi pagare sulla tua salute, educa alla continuaautovalutazione dell’apporto energetico, abitua il paziente a escogitare soluzioniterapeutiche in rapporto al mutevole fabbisogno insulinico, quindi è una palestra perl’autogestione e lo allena a una disciplina di vita.C’è una immagine finale, vi ho detto che non avrei parlato dei diabetici di tipo 2,questa è una donna anziana, obesa che si rifiutava ostinatamente di fare anchequalche centinaio di metri, e John Day vi ha parlato di coinvolgimento anche deifamiliari, adduceva motivi “vado in ipoglicemia”, una volta andando a messa andòin ipo “non vedo bene, urto contro tanti ostacoli”; l’ultima diapositiva vi mostra unostrumento che si può anche brevettare “bastone per camminata di anzianadiabetica”che porta un alloggiamento per una bottiglina con coca-cola e un piccoloclacson per farsi largo nella strada!

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DIABETE E GRAVIDANZAAnnunziata LapollaDipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Cattedra di Malattie del Metabolismo, Universitàdi Padova

La gravidanza è un momento molto particolare per la donna, durante questoperiodo essa infatti attraversa una serie di fasi emotive che vanno dall’accettazionedella gravidanza, all’attaccamento al feto, all’identificazione del feto come individuo,cui segue poi l’adattamento al ruolo materno. Molte donne, manifestano ancheinsicurezza su questo nuovo ruolo richiesto e questo si verifica in modo piùaccentuato nelle donne affette da patologie croniche quali il diabete, perché in essec’è anche la paura che il proprio stato di salute possa in qualche modo incideresull’andamento della gravidanza e sul feto.Le donne affette da diabete in gravidanza possono essere suddivise in due categorie:quelle con diabete preesistente alla gravidanza (diabete di tipo 1, diabete di tipo 2 eridotta tolleranza ai carboidrati) e quelle in cui il diabete diagnosticato per la primavolta durante la gravidanza (diabete gestazionale e ridotta tolleranza ai carboidratidurante la gravidanza).Nonostante l’introduzione della terapia insulinica e il miglioramento del follow-upmaterno e fetale abbiano ridotto drasticamente, negli ultimi quarant’anni, lamorbilità e la mortalità materna e fetale, rimangono tuttavia alcuni problemiimportanti legati alla gravidanza nelle pazienti con diabete di tipo 1 e 2, qualiun’elevata incidenza di anomalie congenite nei neonati di madre diabetica, ela gestione della cosiddetta “gravida dif-ficile”, cioè quella che si presenta agravidanza già avanzata e che non è col-laborante (tab. I). D’altra parte, anche ildiabete gestazionale, condizione di al-terata tolleranza ai carboidrati che vienediagnosticata per la prima volta durante lagravidanza, è ancora correlata a unaelevata frequenza di morbidità materna(preclampsia, ipertensione, taglio cesareo)e fetale (macrosomia, ipoglicemia, ipocalcemia, sindrome da distress respiratorio,iperbilirubinemia) oltre che a una elevata incidenza di complicanze a distanza nellamadre (diabete, ridotta tolleranza ai carboidrati) e nel nato (obesità, alterazioni dellatolleranza ai carboidrati).È quindi di notevole importanza agire in queste pazienti con un corretto approccioeducativo e uno stretto follow-up clinico.

Diabete pregravidicoPossiamo dividere le donne con diabete pregravidico in 2 gruppi: quelle chepianificano la gravidanza, che sono soprattutto le donne con diabete di tipo 1, equelle che non pianificano la gravidanza, che nella maggior parte dei casi sonodonne con diabete di tipo 2.Nel primo caso deve essere fatta una valutazione basale preconcepimento che deve

Nonostante i successi ottenuti nella gestione della diabetica gravidarestano alcuni problemi:• alta incidenza di anomalie congenite nei neonati• “gestione” della diabetica con complicanze severe• “gestione” della gravida “difficile”, che si presenta tardi per

partorire e/o non è collaborante

Tabella IProblemi attuali

del diabete in gravidanza

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comprendere la valutazione delle condizioni fisiche della paziente, del controllometabolico, del tipo e grado delle complicanze croniche del diabete, e unavalutazione ostetrica.Si deve poi verificare quali siano le conoscenze che la donna e il partner hanno neiconfronti sia del diabete e delle sue complicanze che della gravidanza; questevalutazioni sono indispensabili per effettuare una corretta programmazione delconcepimento.L’“obiettivo preconcepimento”che il nostro team si prefigge di ottenere, attraversoun approccio educativo costante e sistematico, sono: la donna deve sapere che lagravidanza deve essere programmata, che deve concepire in buon controllometabolico, che il concepimento in cattivo controllo metabolico aumenta il rischio dimalformazioni per il feto, e che perciò, se non fosse in buon controllo metabolico, èmomento più opportuno, infine nel caso sia affetta da diabete di tipo 2 devesmettere gli antidiabetici orali e fare terapia insulinica. La donna diabeticanaturalmente deve sapere anche che è importante seguire, durante la gravidanza,un’alimentazione corretta e condurre una vita tranquilla e che, se la gravidanzaviene programmata e seguita costantemente nel tempo, sarà possibile avere unparto normale e allattare come tutte le altre donne. La donna diabetica deve sapereanche prima di intraprendere una gravidanza quali sono i rischi per suo figlio didiventare diabetico e che è importante valutare l’eventuale presenza di complicanzecroniche del diabete. Anche se si tratta di donne già diabetiche che dovrebbero giàsaper monitorare il proprio diabete, dobbiamo in ogni caso accertarci che losappiano fare in modo “consapevole”, che sappiano autoiniettarsi correttamentel’insulina, correggere le eventuali ipoglicemie e mettere in pratica corretticomportamenti alimentari.In questo contesto, è fondamentale, da parte dei componenti del team, unatteggiamento disponibile e sereno per ottenere la collaborazione della paziente epoterla convincere che può avere comunque una gravidanza normale. Il teamdiabetologico deve aiutare la donna ad affrontare la gravidanza con la maggiore serenitàpossibile e deve farle capire che non è sola e che in ogni caso vi è la disponibilità delteam ad aiutarla a risolvere i problemi che di volta in volta possono intervenire.Purtroppo non tutte le donne affette da diabete si presentano per programmare unagravidanza, capita infatti ancora frequentemente di dovere seguire donne che sono giàin gravidanza e sono soprattutto donne con diabete di tipo 2. In questo caso devonoessere valutati al più presto il controllo metabolico della donna, il tipo e il grado dellecomplicanze croniche eventualmente presenti, le conoscenze e il grado di accettazionedel diabete e della gravidanza in corso, se vi è stata una eventuale programmazionedella gravidanza o se il concepimento è stato casuale. È importante anche valutare qualisono le conoscenze del partner nei confronti del diabete e della gravidanza.Gli obiettivi a breve termine che dobbiamo ottenere in queste pazienti sono ilraggiungimento di un buon controllo metabolico, la correlazione degli eventualicomportamenti errati in termini di automonitoraggio, di autoiniezione, eprevenzione delle crisi ipoglicemiche. Nello stesso momento, è giusto che la donnasappia che vi sono dei rischi per lei e per il feto, rischi collegati al diabete e alleeventuali complicanze da cui è affetta e, se la donna decide di portare a termine lagravidanza, tutto questo deve essere ottenuto in modo tale che la gravidanzacomunque sia vissuta serenamente.

Diabete gravidicoLa terza tipologia di paziente che dobbiamo seguire e monitorare, è quella costituitadalle donne con diabete gestazionale. In questo caso siamo di fronte a donne sane

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che vengono inviate al Servizio Diabetologico per eseguire accertamenti diagnosticinei confronti del diabete e, nella nostra esperienza, la maggior parte di queste donnesono inviate dai Consultori Familiari. Tali donne di solito hanno eseguito unminicarico di glucosio risultato positivo e devono essere sottoposte alla curva dacarico orale di glucosio; le loro conoscenze del diabete perciò sono scarse.Gli obiettivi educativi che in questo caso perseguiamo devono essere rivoltiinnanzitutto a far prendere coscienza alla donna di questa sua nuova condizione.Deve poi sapere quali sono i parametri da controllare e quali sono gli obiettivimetabolici da raggiungere; deve sapere che la normoglicemia riduce il rischio dicomplicanze sia per lei che per il feto e che per ottenere questo è importante seguireun piano alimentare corretto. Deve, infine, essere informata che nonostante tutto,potrebbe aver bisogno della terapia insulinica nel corso della gravidanza.Anche in questo caso la donna deve essere a conoscenza di quali sono i fattori dirischio legati al diabete gestazionale e di come li può modificare; deve sapere inoltreche spesso questo tipo di diabete scompare dopo il parto, ma che c’è un rischioelevato per lei negli anni successivi alla gravidanza di avere un diabete o alterazionidella tolleranza ai carboidrati e che per questo motivo è indispensabile che dopo lagravidanza esegua dei controlli periodici per la valutazione, appunto, della tolleranzaai carboidrati.Alla donna bisogna inoltre insegnare a fare l’automonitoraggio, a seguire un correttoschema di alimentazione, ed eventualmente a iniettarsi l’insulina.Il team educativo deve assolutamente tenere presente che ha di fronte una donnache sta affrontando una gravidanza associata a una complicanza totalmente a leisconosciuta, per tale motivo deve aiutarla a superare i suoi negativi stati d’animo. Eper questo è indispensabile che la donna sappia che in qualsiasi momento si puòrivolgere al team, cioè all’insieme di quelle persone che si devono occupare di leidurante tutto il corso della gravidanza.Infatti, da quanto su esposto, emerge chiaramente che l’approccio alla donnadiabetica gravida non può esser fatto solo dal diabetologo, ma che è indispensabileil coinvolgimento di un team multidisciplinare. Questo team dovrebbe esserecostituito da un diabetologo, un ginecologo, un infermiere esperto, una ostetrica,una dietista.Questo sarebbe sicuramente il team ideale: il nostro team è formato da duediabetologi, tre infermieri esperti e da una dietista. Quel che mi preme sottolineareè che, affinché l’approccio educativo possa essere efficace nei confronti della gravida,i comportamenti del team devono avere un uguale rispetto delle abilità e delleconoscenze, devono essere tutti in grado di soddisfare i bisogni della paziente,devono avere spirito collaborativo, devono avere la possibilità di interagire l’uno conl’altro in modo che alla donna, e questo è importantissimo, vengano dateinformazioni uniformi che la aiutino a condurre la gravidanza il più serenamentepossibile.L’approccio educativo del team deve essere volto ad affrontare tutti gli aspetti relativialla gestione della paziente, a capire quale è il grado di accettazione della malattia edi cooperazione della stessa (tab. II). Per raggiungere tali obiettivi devono esserecoordinati e prestabiliti una serie di incontri tra i componenti del team in modo dadefinire obiettivi comuni. Alla paziente deve essere assicurata una disponibilità extrain modo che essa possa rivolgersi tranquillamente al team in caso sopravvenisserodubbi e/o problemi particolari.Questo approccio educativo e di follow-up, risulta di notevole importanza sevogliamo risolvere almeno in parte alcuni problemi ancora collegati alla gravidanzacome precedentemente discusso. A tal proposito, in un recente articolo pubblicatosu Diabetes Care (21, 1998), Holing e coll. hanno valutato, retrospettivamente,

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l’outcome di 90 gravidanze con diabete ditipo 1 e hanno riscontrato che solo il 39%delle gravidanze erano programmate. Tra ifattori più importanti che contribuiscono atale elevata frequenza di gravidanze nonprogrammate sono emerse le svantaggiosecondizioni economiche, il cattivo rapportocon l’équipe multidisciplinare di cura, lascarsa educazione nei confronti deldiabete, delle complicanze e della gravi-

danza, lo scarso supporto del partner, il desiderio elevato di realizzarsi diventandomadri.Perciò la maggior parte delle donne che non avevano programmato la gravidanza, inrealtà sapevano che per ottenerla era indispensabile un buon controllo metabolico,ma avevano sottovalutato il problema e soprattutto perché non avevano instauratoun buon rapporto con le persone che le seguivano; esse riferivano infatti di averavuto quasi la sensazione che queste persone sconsigliassero loro la gravidanza ”apriori”. Se le pazienti invece si rendono conto di poter condividere il loro problemaanche con il team diabetologico affrontano meglio la gravidanza; sicuramente se icomponenti del team sono in grado di interagire sia tra loro sia con la donna irisultati saranno efficaci.

RingraziamentiRingrazio i componenti del mio team di approccio educativo alle gravide: Dott.ssa Maria Grazia Dal Frà- Infermieri Professionali: Rosanna Toniato, Federica Capovilla, Antonella Bortoletto - Dietiste:Antonella Barison, Paola Barison.

Per ottenere un ottimale approccio educativo del team ci deveessere:• uguale rispetto delle abilità e delle conoscenze• uguale grado di capacità di soddisfare i bisogni delle pazienti• collaborazione, interazione e comunicazione tra tutti i componenti

del team• uniformità di informazioni alla gravida

Tabella IIApproccio educativo

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IL PESO DELLE TECNOLOGIE INFORMATICHEIN AMBITO EDUCATIVOGiacomo VespasianiDiabetologia, San Benedetto del Tronto

L’informatica non è di per sé una scienza che risolve i problemi, è una scienza chepuò aiutare alla soluzione di alcuni problemi ma, purtroppo, o per fortuna, è unascienza che mette lo zampino in tutte le varie branche dello scibile.L’informatica si applica in tantissimi campi tra cui la Sanità; nell’ambito della Sanitàsi può applicare alla medicina interna, ai laboratori e... alla diabetologia.All’interno della diabetologia si può interessare di ciascuna branca - dalla dietetica,al piede e così via - senza però essere in grado di risolvere completamente ciascunodi questi aspetti specialistici, ma potendo essere utile in ciascuna di queste.Il successo di un intervento informatico, qualunque esso sia, si misura soltanto conun parametro: la diffusione. Cioè quante persone usano quel sistema (quandoparliamo di Windows conosciamo tutti di cosa si parla). Non ci sono parametri dibellezza, di utilità... la diffusione è l’unica. Soltanto se si riesce a diffondere vuol direche quella cosa che si è fatta era utile, che serviva, era necessaria. Se una cosa è utile,ma non raggiunge un livello di diffusione vuol dire che in fondo non era poi cosìutile o che non era realizzato, o assistito bene.Fatta questa premessa, è importante capire perché ancora oggi, nel mondo delladiabetologia, e nel mondo dell’educazione in modo particolare l’informatica non haraggiunto una diffusione consistente; quali sono le possibili ragioni che giustificanoquesta difficoltà nella diffusione?Spesso gli informatici alle nostre richieste ci rispondono: “Si può far tutto, riusciamoa risolvere qualsiasi problema, basta prendere questa tecnologia e applicarla”.Nel dire ciò non si rendono conto che l’utilizzazione di tecnologie avanzate (ilriconoscimento vocale, l’analisi delle immagini, rete di PC...) con i pochi e vecchicomputer che abbiamo in ospedale, non sono applicabili nella pratica.Questo è un primo errore che viene fatto in genere da chi programma e dagliingegneri che si interessano dell’argomento.Ma anche noi medici commettiamo un altro errore che è quello di illuderci chel’informatica ci possa risolvere completamente un problema clinico organizzativo.Questo, oltre che essere inutile, perché non è così, è dannoso in quanto dopo chenoi abbiamo maturato questa convinzione, e con tanto entusiasmo andiamo adaffrontare un problema tramite un software che è bello, è simpatico, si presentabene, spesso ci accorgiamo che le nostre aspettative sono mal riposte e quindi dallafase di entusiasmo si passa alla fase di disillusione e quindi all’abbandono.Vediamo ora quali sono i vantaggi che nel campo dell’educazione si possono otteneredall’informatica.▲ L’attrazione per la novità e la presentazione grafica. Se voi mettete un ragazzino difronte a un computer, solo per il fatto che si tratta di è un computer, lui è attratto. Ese noi vogliamo far passare un messaggio, la buona disposizione dell’utente puòessere molto utile.▲ La presentazione grafica è altrettanto importante, non dimentichiamo però chequesto è come incontrare una bellissima donna per strada che senz’altro è un’ottimapresentazione ma poi è molto importante anche parlarci.

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▲ La ripetibilità nel tempo. Nell’ambito dell’educazione noi sappiamo, per esperienzacomune, che le prime due, tre volte che si ripetono dei corsi educativi vengonosempre molto bene. Ma poi a causa della ripetitività, passati alcuni mesi, il nostromessaggio si impoverisce nei contenuti. Il tipo di informazione che noi diamo è lametà di quello che noi abbiamo dato all’inizio, se non lo riaggiorniamo o non loriattiviamo. Ebbene, questo problema nell’informatica non c’è nel senso che èripetibile, è standard, può essere ripetuto nel tempo.▲ Il livello informativo noto. Se noi utilizziamo un sistema informativo di qualsiasitipo possiamo giudicarlo sufficiente, insufficiente, ma anche in questo caso si è nellecondizioni di poterle integrare in maniera ottimale.▲ L’assenza dell’emozione da esaminatore. Pensate a un questionario informatizzato.Una cosa è fare un colloquio con una persona e avere lo stress dell’esaminatore eun’altra cosa è trovarsi davanti a un computer e avere il tempo di ragionare e di darele risposte.▲ Fa risparmiare il tempo dell’operatore sanitario. Questo è un punto che bisognachiarire molto bene. Il tempo che l’operatore risparmia è quello di ripetere le cosestandard. Questo non vuol dire che l’operatore non ci deve essere, ma che solo unaparte della sua attività può essere demandata a questo “stupido” e “ripetitivo”computer.Accanto a questi vantaggi, però, ci sono degli svantaggi.▲ Paura del computer. Quando ho detto “attrazione”forse ho dimenticato di dire cheforse questa attrazione arriva fino a 25 anni, 30 anni; se noi parliamo a persone al disopra di questa età, forse la possibilità che ci sia un’incapacità, una repulsione neiconfronti del computer, è elevata, e questa repulsione così diffusa taglia di netto lamaggior parte degli utilizzatori nel campo dell’informatica e dell’educazione.▲ La rigidità dell’informazione. Abbiamo detto che l’informazione derivante da unprogramma è nota, è altrettanto vero che i programmi, nonostante siano elastici,siano completi, sono estremamente rigidi: se manca un’informazione all’interno diun software non ce la mette nessuno. Non ce la mette nessuno perché per fare unprogramma ci vogliono mesi, anni e una volta che è stato fatto, una modificasignifica altro tempo a livello di mesi e anni, anche se la modifica è piccola. Esistedunque una rigidità dell’informazione nonostante che il programma sia completo edelastico.▲ Insufficienza quale mezzo di terapia educativa. Non possiamo demandare tuttal’educazione all’informatica. Ma sapere di non sapere è già un vantaggio, il rischiomaggiore è che l’informatica diventi un alibi educativo. Ovvero io metto adisposizione un bel computer, quattro computer, un proiettore, quello che vogliamo,e dico che faccio ‘educazione. Questo è veramente pericolosissimo perché barricarsidietro a un mezzo informatico per dire “io faccio l’educazione”è assolutamente falsoe inaccettabile.▲ Rapporto 1 computer - 1 paziente. Nei nostri centri di diabetologia i computer sicontano sulla punta delle dita di una mano, quando siamo fortunati. I pazienti sonotanti. Se noi pensiamo a un questionario informatizzato - davanti a un computer unpaziente - ci rendiamo conto che praticamente è impossibile farlo.

Vediamo ora quali sono state le ultime esperienze informatiche a cui ho avuto lafortuna di poter collaborare nella realizzazione e sperimentazione.▲ I giochi tematici per bambini. I bambini sono attratti dai videogiochi. Allora, qual èil modo migliore per educare un bambino? Sfruttare questa attrazione e trasformarlain un’opportunità. Sono stati fatti in passato dei giochi educativi utili (CapitanNovolet e altri software disponibili negli Stati Uniti).Con il mio gruppo abbiamo potuto sperimentare e contribuire a realizzare un gioco

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sull’alimentazione che ha lo scopo di insegnare la composizione degli alimenti(Dietisk).Si tratta di un gioco tipo “Tetris”basato sul concetto di impilare il nome dell’alimentopresentato sulla colonna giusta indicante la sua componente nutrizionalecaratterizzante ( proteine, glicidi, lipidi, fibre e alcol e oligosaccaridi). In questo modogli alimenti vengono presentati casualmente, c’è un punteggio, ci sono dei suoni, deirumori, si fanno dei punti.Il gioco diventa sempre più veloce e difficile mettendo alla prova le conoscenzasull’argomento e presentando il punteggio totalizzato.

I questionari informatizzatiTutti noi conosciamo, ricordiamo un software di sei, sette anni fa, che era proprio unquestionario dove c’erano delle domande, ma anche i primi approcci educativi eranoquesti: una domanda, risposte multiple, il paziente cliccava su una delle risposte, sela risposta era giusta si passava alla domanda successiva, se la risposta era sbagliatasi tornava a una spiegazione che permettesse di migliorare l’informazione.Questo sistema tagliava fuori tutti i diabetici con età al di sopra dei 30 anni, diciamol’80% dei nostri diabetici. Nonostante tutto ancora oggi i questionari cartacei sonoancora utilizzati per valutare le conoscenze del diabetico. È però a tutti noto quantosia indaginoso e lungo rielaborare i questionari stessi, tanto indaginoso che nellapratica clinica non vengono utilizzati.Per questa ragione si è realizzato un programma di lettura automatica deiquestionari cartacei.Su gentile concessione del Prof. Erle e della Dott.ssa Corradin, abbiamo preso ilquestionario da loro realizzato e lo abbiamo stampato “tipo schedina del totocalcio”dove per rispondere basta annerire nelle apposite aree.Questo sistema che vantaggio ha? Il paziente ha a disposizione il mezzo cartaceo, che è quello che normalmenteutilizza, e quindi quella quantità di pazienti che avevamo eliminato perl’informatizzazione la riprendiamo perché gli diamo un mezzo familiare (la carta).Però, informatizziamo la lettura. Questo foglio viene messo su uno scanner e inquesto modo facciamo leggere automaticamente decine e decine, di questionari alcomputer. Vengono quindi prodotte risposte nelle quali si legge se ci sono rispostegiuste o sbagliate. Per le risposte giuste il programma da una risposta di conferma,mentre, se ci sono risposte sbagliate, dice: “Guarda che hai sbagliato è questol’argomento che devi ristudiare”. Ovviamente questo non basta ma serve perattivare con l’utente un colloquio specifico.Il sistema può anche essere utilizzato per fare un follow-up nel tempo. Il pazientequesta volta avrà totalizzato 50 punti sul questionario della dieta, 100 punti su quelladell’ipoglicemia, 20 punti sul piede: la prossima volta gli faccio rifare il questionario,vedrò se il mio intervento educativo ha aumentato le conoscenze sul piede o no equindi l’educazione potrebbe essere quantizzata un po’ come la glicemia, come ilpeso, come l’emoglobina glicosilata.Il corso interattivo: noi tutti abbiamo esperienza di videocassette educative, di librieducativi. Esiste un CD (compact disk) realizzato dall’ADA che comprende una seriedi corsi, di lezioni magistrali, di lezioni su un argomento, di esercitazioni. È un corsointerattivo che nasce simile a quello che si era detto del questionario, del rapporto1:1, domanda e risposta, se giusta si va avanti, altrimenti si torna indietro, marealizzato in maniera molto più avanzata e multimediale..I più moderni approcci dal punto di vista informatico sono i siti Internet informativi.Il sito Internet informativo è altrettanto importante, un vantaggio che tutti quanti

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possono accedere a un unico computer e questo serve a standardizzare leinformazioni.Per il forum di discussione su Internet, ovvero la discussione, si lancia un argomentosu Internet e si discute sull’argomento. Questa metodica ha una crescenteapplicazione ma una diffusione ancora non elevata.In conclusione, la interpretazione informatica dei bisogni in campo educativo è unargomento di grande interesse e sviluppo. Ancora oggi poche sono le applicazioni inreale utilizzazione e per questa ragione è necessario compiere in questo specificosettore un grande sforzo informatico e sanitario.

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FORMAZIONE DEGLI OPERATORI INDIABETOLOGIA: ESPERIENZA PRATICA IN UNISTITUTO DI RIABILITAZIONE GERIATRICAEmanuela OrsiIstituto Geriatrico P. Redaelli, Vimodrone, Milano

L’incidenza del diabete mellito nel soggetto anziano è piuttosto rilevante e, tantonella fase post-acuta che in corso di malattie intercorrenti, è molto frequente ilrilievo di una tendenza verso lo scompenso glicemico. Tra i diversi fattori che diconseguenza devono essere considerati, la dieta è sicuramente uno moltoimportante. È pertanto fondamentale che il personale sanitario, che prende in caricoil paziente per la riabilitazione, sia in grado di monitorare e gestire questoparametro.Unitamente alla collaborazione con una dietista, sono stati analizzati i bisogni e iproblemi degli operatori dei reparti, nell’ottimizzare questo compito. Tra i bisogniemergevano le frequenti richieste di modifica del menù per i degenti diabeticimentre, tra i problemi, rilevati con interviste al personale ed assistendo alladistribuzione dei pasti, emergevano una mancanza d’informazione corretta (es.: ilpaziente diabetico, anche quando normopeso, deve mangiare solo cibi sconditi),“false credenze“ (es.: l’unica frutta consentita è la mela renetta) e una porzionaturadelle pietanze assolutamente soggettiva.È stato quindi organizzato un corso di formazione dove gli obiettivi generali erano:• sensibilizzare il personale sull’importanza dell’alimentazione nel diabete mellito,• fornire una corretta informazione su nutrienti e “dieta per diabetici”,• effettuare una corretta porzionatura del cibo durante la dispensa,gli obiettivi specifici erano:• informare correttamente su:

- patologia diabetica- nutrienti- razioni di scambio

• addestrare correttamente a:- distribuire le pietanze (cosa?)- razionalizzare le porzioni (quanto?)

Il target era rappresentato dagli operatori dei reparti (infermieri professionali eausiliari socio-assistenziali) e dagli operatori della cucina.Il mandato dalla Direzione era di formare 100 operatori: dato che il personaleinteressato era di circa 300 unità, con un meccanismo a cascata, organizzando degliincontri di reparto, si contava di far arrivare i messaggi fondamentali a tutti.La progettazione del corso elaborata dalla dietologa e dalla dietista, prevedeva 10incontri di 2 ore ciascuno e la realizzazione prevedeva:• questionario distribuito all’inizio del corso, per valutare il livello di conoscenze;

tempo di compilazione 15 minuti;• lezione teorica: svolta dalla dietista o dalla dietologa, con proiezione di lucidi;

argomenti trattati: i nutrienti, il contenuto calorico, il concetto di porzione, la dietadel diabetico; durata 15 minuti;

• parte interattiva: condotta dalla dietista con l’ausilio della lavagna a fogli mobili:

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veniva chiesto ai partecipanti di stilare una lista di alimenti contenentiprevalentemente alcuni nutrienti piuttosto che altri. Lo scopo era di far emergereil concetto di razione di scambio e allenare i partecipanti a individuare gli alimentisostituibili fra loro; la creazione della lista inoltre, rappresentava già unaproduzione del gruppo; tempo 45 minuti;

• esercitazioni pratiche: coordinate dalla dietista con la supervisione della dietologa ela collaborazione del personale della cucina, che forniva alimenti cotti e crudi. Gliobiettivi erano di arrivare a una porzionatura razionale, e non più soggettiva, dellepietanze, garantita anche dall’utilizzo di strumentazione idonea, nonché creare lerazioni di scambio. Ai partecipanti, suddivisi in piccoli gruppi di 3 persone, venivaconsegnato un esercizio scritto, insieme al materiale per la distribuzione (mestoligraduati, stoviglie, bilance): tempo 45 minuti.

La verifica del corso viene fatta in differenti momenti:• immediatamente con la realizzazione della lista di scambio degli alimenti;• periodicamente valutando la compilazione dei diari alimentari nei reparti per la

stima dell’introduzione calorica e nutrizionale dei pazienti; inoltre, è stata previstauna supervisione da parte della dietista durante la dispensa, insieme al personale,utilizzando le bilance per confermare nel tempo la correttezza delle grammature;

• dopo 6 mesi, infine, è prevista la compilazione dello stesso questionario propostoall’inizio del corso.

A distanza di un anno, sarà programmato un incontro di rinforzo e in futuro sarannoripetute diverse edizioni dello stesso corso per tutti gli altri operatori, in quanto èdiventato parte della formazione permanente dell’Istituto.

BIBLIOGRAFIA

European Association for the Study of Diabetes: DESG Teaching Letters, 1997Erle G, Corradin H: Il diabete e l’educazione. Casa Editrice Ambrosiana, 1997Orsi E, Musacchio N: Nutrizione clinica e terapia dietetica. McGraw-Hill, 1996Day LL, Assal JP: Educazione al paziente diabetico. In: Il diabete mellito: Trattatointernazionale. Ed. Mediserve, 1994

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Tavola RotondaS. Squatrito (Catania)G. Monesi (Rovigo)E. Guastamacchia (Bari)A. Piaggesi (Pisa)H. Corradin (Vicenza)A. Corsi (Genova)M. Trento (Torino)E. Benaduce (Torino) non pervenuto

Valutazione degli interventi

educativi

1 ° C O N G R E S S O R O C H E P A T I E N T C A R E

DIABETOLOGIAGIORNALE ITALIANO DI

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LA VALUTAZIONE DEI PROCESSI EDUCATIVISebastiano SquatritoIstituto di Medicina Interna e di Malattie Endocrine e del Metabolismo, Università di Catania

Tutto quello che è collegato alla “valutazione”è spesso contornato da un certo mistero eda una certa diffidenza legata alla nostra difficoltà di “metterci in discussione”. Io credoinvece che bisogna rivedere queste posizioni e considerare la valutazione semplicementeper quello che è: il controllo di obiettivi che noi stessi abbiamo precedentemente fissati.Considerata in questi termini la valutazione diventa un problema facile da gestire e, sevengono adottate delle tecniche corrette evengono rispettati certi criteri, sarà piùobiettiva e più affidabile.La valutazione costituisce una tappaessenziale di qualunque processo edu-cativo (fig. 1). Stilare un programmaeducativo senza predisporre una valu-tazione di tutte le sue tappe, ha molteprobabilità di fallimento.

Obiettivi generali dellavalutazionePrima di scegliere uno strumento di misuraè necessario sapere che cosa vogliamomisurare. Gli obiettivi generali di unavalutazione sono:– verificare l’acquisizione di competenze– controllare la qualità dei programmi e l’efficacia degli insegnamenti– informare i docenti sulla qualità del loro insegnamento.Stabiliti questi obiettivi generali, possiamo definire cosa vogliamo valutare(i discenti, i programmi, i docenti) e in funzione di che cosa.Quest’ultimo rappresenta il punto centrale dei processi di valutazione.Sulla base di quanto detto precedentemente, la valutazione deve essere attuata infunzione degli obiettivi educativi. Risulta evidente pertanto che la definizione di questi“obiettivi educativi”rappresenta una tappaessenziale di un processo di valutazione.

Definizione degli obiettivieducativiL’educazione è un processo continuo il cuiscopo essenziale è quello di facilitaremodifiche stabili del comportamento chesono il risultato di tre momentifondamentali:– sapere– saper fare– saper essere

Figura 1

Spirale dell’educazione

Pianificazione di unsistema di valutazione

Definizione degliobiettivi educativi

Attuazione dellavalutazione

Preparazione eattuazione del programma

IN FUNZIONE DI CHE COSA VALUTARE

GLI OBIETTIVI EDUCATIVI• Sapere

- Memorizzazione di conoscenze- Interpretazione di dati- Soluzione di problemi

• Saper fare- Acquisizione di gesti e attitudini

• Saper essere- Modifica di abitudini comportamentali

Tabella I

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Le modificazioni del comportamento che ci si sforza di ottenere costituiscono gliobiettivi educativi (tab. I).Vorrei sottolineare che “il sapere”non consiste solo nell’acquisizione di conoscenze,ma anche nella capacità di integrarle tra di loro e utilizzarle in un processo di sintesiche porti a una risposta adeguta ai diversi problemi.Il “saper fare” rappresenta invece la capacità di acquisire gesti e attitudini relativi aobiettivi essenziali, pertinenti e realistici.Se questi due obiettivi primari (sapere e saper fare) saranno raggiunti, si potràarrivare alla modifica delle abitudini comportamentali.

Come valutareCiasun metodo di valutazione presenta dei vantaggi e degli inconvenienti a secondadel tipo di obiettivo che si vuole verificare, e il contesto nel quale si effettua ilcontrollo. Bisogna comunque disporre di strumenti di misura che rispondano a certequalità affinché i risultati siano significativi.Caratteristiche principali di uno strumento di misura devono essere:- validità: grado di precisione con la quale uno strumento misura quello che

vogliamo misurare- affidabilità: costanza con la quale uno strumento misura una determinata variabile- obiettività: grado di concordanza tra i giudizi espressi da esaminatori indipendenti

e competenti su ciò che costituisce una risposta corretta- praticabilità: tempo necessario per la costruzione della prova, la somministrazione

e la valutazione dei risultati

Ambiti della valutazioneUno strumento di misura deve essere scelto in funzione degli obiettivi e dell’ambitoda misurare (conoscenze, gesti, attitudini, programmi):Conoscenze

Livello 1 memorizzazione comprensioneLivello 2 interpretazione di datiLivello 3 soluzione di problemi

GestiLivello 1 imitazioneLivello 2 padronanzaLivello 3 automatismo

AttitudiniLivello 1 imitazioneLivello 2 rispostaLivello 3 interiorizzazione

L’ambito che più frequentemente viene sottoposto a valutazione è quello delleconoscenze, anche se non è certamente il più importante. In questo campo sipossono valutare diversi livelli:1. prove che valutano la memorizzazione- quiz a scelta multipla- DRAB (domande a risposta aperta breve)2. prove che valutano la capacità di interpretare i dati- presentazione di dati clinici con successiva formulazione di domande con quiz ascelta multipla3. prove che valutano la capacità di risolvere problemi- problemi a soluzione sequenziale.

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Strumenti di valutazioneDato il breve tempo a disposizione non potrò parlare di tutti gli strumenti divalutazione, ma mi soffermerò su quelli più frequentemente utilizzati.Tra le prove di valutazione delle conoscenze le più usate sono i quiz a scelta multiplaQuesti metodi presentano dei vantaggi e degli svantaggi.Vantaggi:- verificare un gran numero di conoscenze- esplorare la capacità di memorizzazione, comprensione e sintesi- obiettività nella correzione- automazione della correzioneSvantaggi- rischio di verificare dettagli insignificanti- difficoltà nella costruzioneNella preparazione di questi quiz questi aspetti vengono spesso sottovalutati e perquesto non si attribuisce ad essi la giusta valenza.Possono essere:- a scelta libera- a scelta semplice- associativi- di tipo causa-effettoPer quel che riguarda la valutazione del “saper fare”e delle attitudini, il metodo piùutilizzato e più rispondente alla verifica di tale obiettivo è quello delle “griglie divalutazione” o “check list”. Questi strumenti consentono di verificare tutte lecomponenti di un’azione.Più complesso è il problema della valutazione delle attitudini, del “saper essere”perché questa passa attraverso l’osservazione di comportamenti che si assumonoquale espressione del modo di essere:- puntualità, assiduità- interesse- grado di motivazione- senso di responsabilità- capacità di relazione

Valutazione dell’insegnamentoInfine, l’ultimo, ma non meno importante aspetto della valutazione, riguarda lavalutazione dell’insegnamento, cioè il giudizio che i discenti esprimono sul nostromodo di insegnare.A questo proposito vorrei citare l’affermazione di Cochran (pedagogo americano)che dice: “un insegnamento deve sempre essere ritenuto inefficace fino a verifica delcontrario”.La valutazione dell’insegnamento da parte dei discenti deve rappresentare uno degliobiettivi primari di ogni processo valutativo. Ha lo scopo di:- controllare l’efficacia dell’insegnamento- informare i docenti sulla qualità del loro insegnamento al fine di poterlo

migliorare.Si attua attraverso: - l’analisi dei risultati delle prove di valutazione- per identificare insufficienze nelle conoscenze e nel comportamento dei discenti- per evidenziare errori legati alla formazione che hanno ricevuto- l’uso di “questionari di opinione”

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Attenzione va posta nella formulazione di questi questionari. Essi devono:- contenere l’aspetto che si vuole valutare- formulare le domande in positivo- contenere un numero di domande limitato- essere anonimi- essere somministrati a un campione adeguato.Concludo con l’affermazione di Miller (pedagogo americano) che ci fa capire qualedeve essere l’importanza da attribuire alla valutazione: “modificare un programmaeducativo e le tecniche di insegnamento senza cambiare il sistema di valutazione con ogniprobabilità non servirà a nulla”.Cambiare il sistema di valutazione senza modificare il programma di insegnamentoha una ripercussione maggiore sulla natura e la qualità dell’apprendimento chemodificare il programma senza modificare la valutazione.

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L’AMBIENTE EDUCATIVO

Gabriella MonesiUnità Operativa di Diabetologia e Malattie Metaboliche, Ospedale di Rovigo

“L’educazione terapeutica deve permettere al paziente diabetico di acquisire emantenere le capacità che gli consentono di realizzare una gestione ottimale dellapropria vita con la malattia”(1).Una medicina che si propone ciò ha fatto propria la distinzione che esiste trapatologia acuta e patologia cronica, con i modelli culturali e assistenziali sottesi.Infatti nella patologia acuta l’approccio è tutto in mano al medico che ordina,gestisce, decide e conclude l’atto medico; e la malattia è acuta, visibile, esterna, conun rapporto medico-paziente di gratitudine, con un’identità medica chiara, e unapreparazione biotecnologica.Nella patologia cronica, spesso la malattia è silente o nascosta, magari presente datempo, con il medico che deve portare il paziente a contare su di sé, a prenderedecisioni autonome e coerenti ogni giorno per la gestione della propria malattia, einstaura una relazione medico-paziente impostata non sul livello della “gratitudine”ma su una relazione “adulto-adulto”, con una attività psico-pedagogica oltre chetecnica. In questo ambito ha motivo e ruolo l’intervento educativo, che diventaterapeutico. L’intervento educativo deve avvenire in un ambiente educativo che siain sintonia con l’educazione terapeutica, la contenga e la faciliti.In tale situazione ha senso perciò parlare di “ambiente educativo” che deve esserericercato, creato e verificato all’interno di un Servizio di Diabetologia.Non è possibile quindi pensare che l’attività educativo-terapeutica sia quellaconfinata o esaustiva dei vari gruppi educativi (per bambini, gravide, insulino-dipendenti, obesi e piedi) o con il singolo nel momento acuto dell’esordio dellamalattia, e non sia invece un’esigenza, una prassi che entra di diritto e permea ilmodello assistenziale del paziente diabetico e che quindi è sottesaall’organizzazione del Servizio, all’allocazione delle risorse, alla distribuzione deitempi assistenziali, al quotidiano rapporto operatore-paziente. Il messaggioeducativo infatti non è semplicemente “persuasivo” per la sua forma, ma per uncomplesso processo di presentazione e di decodifica.Secondo Bettelheim infatti, il successo di ogni attività umana è facilitato da unambiente particolare (2).Ambiente fisico e terapeutico, intendendo con ciò tutto l’insieme di conoscenze,convinzioni, sentimenti, azioni, organizzazione, distribuzione dei tempi e attoricoinvolti.L’ambiente è quindi il chi dice, cosa, a chi, con che effetto.Ecco che per creare e mantenere un ambiente educativo nel percorso diagnostico-terapeutico al Servizio di Diabetologia è fondamentale rispondere a questedomande.“Il chi dice” individua l’autorevolezza della fonte che propone l’educazioneterapeutica. Non può essere che il medico cura e l’infermiere educa; o che solo unmedico dell’équipe o solo un infermiere educano. Ma tutto il team di cura deveessere coinvolto, attraverso tutti gli operatori e i ruoli presenti, con un rinforzocontinuo del messaggio e il reciproco accreditamento della fonte. In modo tale cheil messaggio percepito sia univoco e rinforzato dalla coralità degli operatori.

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“Il che cosa”è il contenuto del messaggio complessivo che viene dato al Servizio, conl’inserimento dell’intervento educativo tra le priorità del Servizio, e questaimpostazione permea il rapporto con il paziente e non è residuale o marginalerispetto ai messaggi terapeutici proposti. Il messaggio è importante sia per le cosedette, ma anche per ciò che non diciamo.Se noi pensiamo al percorso di un nostro paziente al Servizio (tempi dedicati eprocedure), e ai contenuti dei messaggi che riceve, emerge che l’ambiente èorientato in senso prevalentemente “metabolico”.In tale situazione è difficile fare transitare, ad esempio, il messaggio che “il piede èun problema del diabetico”e non solo la glicemia, e che al piede va posta la stessaattenzione o un’attenzione prioritaria in presenza di alcune situazioni cliniche. E taleproblema ha cittadinanza specifica al Servizio. Ciò ha una funzione sia di rinforzorispetto alle proposte educative, che di riferimento per il paziente e la famiglia.“A chi?” Il messaggio educativo va portato al paziente tenendo presente anche lafamiglia. Infatti essa può proiettare attitudini sanitarie sia positive che negative suisuoi membri in caso di insorgenza di una malattia.Se la famiglia, o membri significativi di essa, ritengono che la malattia è passibile diun trattamento in grado di determinare un miglioramento, essa stimolerà il membromalato della famiglia, in maniera tale da influenzare il comportamento sanitario.È la somma di tutte le interazioni familiari che può condizionare il comportamento

sanitario del membro diabetico dellafamiglia.Al contrario, se il trattamento vieneritenuto inefficace secondo il modelloculturale-sanitario familiare, l’effetto sulpaziente sarà negativo, indipendente-mente dalla realtà dei fatti in tema diterapia (3).La più frequente influenza familiarenegativa nei confronti del diabetico, eanche quella più correlabile, è rappre-sentata dalla scarsa informazione sani-taria.Quindi è determinante il coinvolgimentodella famiglia oltre che del paziente. Ipercorsi presso il Servizio debbonoconsiderare tempi e risorse dedicati a ciò:al contatto con la famiglia: all’accoglienzadei membri della famiglia; ai contenuti deimessaggi; ai tempi dedicati; allo spazio peraccoglierli; agli operatori messi a dispo-sizione; all’organizzazione di gruppieducativi per i familiari.Questo “interlocutore” diventa strategicoper creare e sostenere l’ambienteeducativo.“Con che effetto”: è la verifica del feedback.Nello schema di comunicazione unidire-zionale o lineare, emittente → ricevente, si

ha una semplice trasmissione di messaggio. Il ricevente ascolta, cerca di capire ilmessaggio ricevuto, lo decodifica e fa la traduzione del messaggio.Anche in questa semplice lettura, la circostanza in cui viene ricevuto il messaggio e

PROGETTO VERIFICA

Identifico destinatari e caratteristiche

Identifico i bisogni dell’utente

Stabilisco le finalità educative

Formulo gli obiettivi specifici

Individuo lerisorse

Programmo dettagliatamentecontenuti e metodi

Pianifico le tecnichedi valutazione

Realizzo l’intervento dieducazione alla salute

Verifico i risultati

Tabella I

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il contesto in cui si colloca, interagiscono col messaggio e influenzano la scelta deicodici che verranno impiegati per deco-dificarlo.Quindi l’ambiente nel quale viene posto ilmessaggio educativo ne influenza lalettura e l’adesione.Va anche in tale ambito sottolineata lanecessità di una continuità educativa e unacoerenza educativa interna, per gli effettiche tale situazione può avere sul paziente.Dobbiamo considerare come emittente sial’operatore sanitario che “l’ambiente” dalquale nasce tale messaggio.Ma la valutazione dell’effetto comprendeanche la verifica del messaggio di ritorno,il feedback E → R .L’attenzione a ciò ci permetterà sia divalutare l’effetto del messaggio, sia diriorganizzare la nostra proposta educativa.Ed in questo l’emittente e il ricevente siturnano nel rispettivo ruolo, e ciò trasforma una comunicazione in una relazionesociale e crea l’ambiente educativo, per il riverbero di comunicazioni e discussioniinterne che ciò sollecita. Ambiente contenitore e suggeritore di questa relazione.L’ambiente “educativo” va quindi ricercato e identificato nella sua specificitàall’interno e parallelo a ogni progetto educativo. In tale senso la classica procedura(tab. I) utilizzata per programmare e verificare l’intervento educativo (4) va applicataanche per “rivisitare”e programmare “l’ambiente”educativo.Dovremo elaborare degli indicatori di risultato da porre a verifica del nostroambiente educativo, indicatori sia di esito che di processo.Scendendo più al dettaglio, un esempio di tale modo di procedere può essereapplicato per gli interventi educativi per la prevenzione delle lesioni del piedediabetico.Da una parte imposteremo la verifica dell’intervento educativo, distinguendo traindicatori di processo e di esito.Negli indicatori di esito e di processo dell’intervento educativo, riteniamo che sianoquesti i selezionabili (tab. II).Così come imposteremo la verificadell’ambiente educativo utilizzandopropri indicatori di processo e di esito(tab. III).Essi ci permettono di avere unavalutazione di come si svolge e vienepercepito il “percorso” assistenziale delnostro paziente all’interno del Servizio.In particolare nella valutazione di esitosarà utile verificare se noi conosciamoquanti e quali pazienti del nostroServizio sono effettivamente a rischioper lesioni ai piedi; quanti ne abbiamoinvitati ai corsi educativi; quanti hannoaccettato l’invito sia al corso che alleverifiche successive (dopo sei mesi,

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INTERVENTO EDUCATIVO per la prevenzione delle lesioni ai piedi

VERIFICA DELL’INTERVENTO

INDICATORI

DI PROCESSO DI ESITO

Conoscenze Grado di lesioneIspezione piede Percentuale di recidiveCura delle unghie Numero e tipo di amputazioniCura igiene dei piediTrattamento ipercheratosiUtilizzo fonti di caloreUso scarpe e calze idonee

Tabella II

INTERVENTO EDUCATIVO per la prevenzione delle lesioni ai piedi

VERIFICA AMBIENTE EDUCATIVO

INDICATORI

DI PROCESSO DI ESITO

Chi dice Pazienti elegibili (a rischio)Che cosa Pazienti invitatiA chi Pazienti partecipantiCon che effetto (il feedback) Familiari presenti (corso e

verifica)Percentuale di ricaduteGrado lesioneAmputazioni

Tabella III

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE130

dopo un anno e dopo due); la percentuale delle ricadute di questi pazienti; dellerecidive di lesioni e il grado di lesione e le amputazioni; oltre che il numero deifamiliari che avevano partecipato a questi incontri.Infatti se è molto discordante il numero di diabetici presenti, rispetto a quelli invitati,e quelli invitati rispetto a quelli elegibili per evidenti fattori di rischio, ciò pone ungrosso interrogativo sul “chi dice, cosa, a chi”, sulla credibilità del percorsoterapeutico che proponiamo al nostro Servizio, pone la necessità di rivedere ilmessaggio educativo che il nostro ambiente propone.La stessa procedura di ricerca di indicatori specifici dell’ambiente educativo, quiproposta per l’intervento educativo per la prevenzione delle lesioni ai piedi, va fattain parallelo per ogni gruppo educazionale che organizziamo.Accanto agli indicatori di esito dell’intervento educativo per i diabetici insulino-dipendenti, o per i ragazzi, o i gruppi educazionali sull’alimentazione nei diabeticiobesi, o per i gruppi dei diabetici insulino-trattati, vanno posti gli indicatori per laverifica dell’ambiente educativo. E saranno anche qui indicatori di processo e diesito.Ciò trasformerà veramente il nostro modello assistenziale per il malato cronico dovel’ambiente concorre all’educazione terapeutica, che assume così i connotati delineatidall’OMS: “L’educazione terapeutica del paziente deve permettere al paziente diacquisire e mantenere le capacità che gli consentono di realizzare una gestione dellapropria vita con la malattia. L’educazione terapeutica del paziente è pertanto unprocesso continuo, integrato nell’assistenza sanitaria. Essa è centrata sul paziente;include la consapevolezza strutturata, l’informazione, l’apprendimentodell’autogestione della cura e il sostegno psicosociale riguardanti la malattia, iltrattamento prescritto, l’assistenza, l’ospedale e gli altri ambienti assistenziali, leinformazioni riguardanti le organizzazioni coinvolte nella cura, il comportamento incaso di salute e di malattia. Essa è finalizzata ad aiutare i pazienti e le loro famigliea comprendere la malattia e il suo trattamento, a cooperare con gli operatori sanitari,a vivere una vita sana e a mantenere o migliorare la loro qualità di vita”(1).

BIBLIOGRAFIA

1. Report of a Who Working on Therapeutic Patiente Education: Continuing educationprogrammes for healtheare proveders in the field of prevention of chronic disease. Who-Euro, Copenhagen, 1998

2. Bettelheim B: Psichiatria non oppressiva. Feltrinelli ed, 19763. Braga G: La comunicazione verbale. Angeli, Milano, 1985, p. 674. Eweles L, Simnett I: Educazione alla salute: una metodologia operativa. Milano Sorbona

ed, 1990

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1° CONGRESSO ROCHE PATIENT CARE 131

INFLUENZA DEI CORSI DI EDUCAZIONESANITARIA SU ALCUNI ASPETTI PSICOLOGICI(ANSIA E DEPRESSIONE) DI PAZIENTIDIABETICIEdoardo GuastamacchiaIstituto di Clinica Medica, Endocrinologia e Malattie Metaboliche, Università di Bari

Gli aspetti psicologici che si accompagnano al diabete mellito tipo 1 e tipo 2 sonostati oggetto di numerosi studi, sia in passato che recentemente. Comprendiamotutti quale sia l’importanza da parte del diabetologo di avere una conoscenza inquesto campo per i rapporti che egli ha con il paziente diabetico che a sua voltainstaura dei rapporti complessi con la malattia, con il medico stesso e con l'ambientefamiliare e sociale.Al contrario, rari, pochissimi dati noi abbiamo relativamente a una verifica degliaspetti psicologici dopo un corso di educazione sanitaria.In un lavoro del 1997 (Psychological and metabolic improvement after an outpatientteaching program for functional intensified insulin therapy (FIT) di Langewitz W,Wossner B, Iseli J, Berger W pubblicato su Diabetes Research and Clinical Practice),per esempio, uno dei pochi lavori che ho trovato sull’argomento, si sottolinea comedopo un corso di educazione mirante a migliorare la capacità di autogestione deipazienti diabetici, per quanto riguarda l’insulino-terapia intensiva funzionale, cifosse un miglioramento sia metabolico sia degli aspetti emotivi quali l’ansia e ladepressione; miglioramenti significativi, a dispetto anche di una qualità della vitapiuttosto sacrificata.Proprio per la rarità dei dati, ho rispolverato uno studio fatto da noi tempo fa epubblicato sul Giornale Italiano di Diabetologia che esaminava 40 soggetti diabeticidi tipo 1 di cui 25 maschi e 15 femmine di età media di 19,1±4,1 anni e con unadurata media di malattia di 5,7±5,2 anni.A questi pazienti furono somministrati sia dei questionari a scelta multipla (per unavalutazione nozionistica) sia delle scale di autovalutazione dell’ansia e delladepressione di Zung. I risultati furonopiuttosto interessanti. Nel 60% di questipazienti, infatti, l’apprendimento risultòsoddisfacente per la maggior parte degliargomenti trattati (teoria, pratica iper-glicemia, attività fisica, terapia, igiene delcorpo); significativo fu il miglioramentodelle nozioni sulla ipoglicemia, sul-l’alimentazione e igiene dietetica (figg. 1 e2). Per l’aspetto emotivo si evidenziaronodei livelli medi di ansia e depressione dibase superiori alla norma (rispettivamente43,2±10,1% e di 47±12,2%).A un’analisi più approfondita dei datirisultò una suddivisione del campione in

Figura 1Percentuali di

risposte esatte, primae dopo il corso, di

tutti i pazientiesaminati

100

80

60

40

20

0

Risp

osta

esa

tta %

prima

dopoP< 0,0001

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quattro categorie (tab. I). La prima categoriacomprendeva 24 pazienti che presentavanoun significativo miglioramento delleacquisizioni nozionistiche, associato a unasignificativa riduzione dell’ansia e delladepressione. Dai colloqui avuti in seguito dauna psicologa con i pazienti di questacategoria emerse che essi attribuivano lariduzione dei livelli d’ansia e di depressioneal fatto che con il miglioramento delle loroconoscenze potevano meglio gestire lapropria malattia evitando o ritardandol’insorgenza delle temute complicanze.Inoltre, a detta dei pazienti, la parteci-pazione al corso in piccoli gruppi, permet-

tendo uno scambio di informazioni tra i partecipanti e il confronto di esperienze esituazioni simili, ha svolto un ruolo non trascurabile nel migliorare le condizioniemotive dopo il corso. I pazienti appartenenti al II sottogruppo hanno affermato chel’aver trattato argomenti relativi alle complicanze della malattia ha influenzatonegativamente i 2 aspetti emotivi; essi si sono dichiarati molto preoccupati per le lorocondizioni di salute future e hanno, durante il colloquio, espresso considerazionipessimistiche al riguardo.Alla III categoria appartengono quei soggetti che hanno presentato unacontraddittorietà dei risultati, la cui probabile spiegazione può essere fornita daicolloqui; infatti a questo sottogruppo appartengono soggetti che hanno focalizzato laloro attenzione sull’uso dei microinfusori idealizzandone le possibilità terapeutiche eottenendo, quindi, un beneficio psicologico ma uno scarso apprendimentonozionistico, conseguenza dell’insufficiente attenzione prestata agli altri argomentitrattati. Infine i livelli immodificati di ansia e depressione rilevati nell’ultimosottogruppo potrebbero essere riferiti a delle preesistenti strutture di personalità,scarsamente sensibili al messaggio educativo: i pazienti appartenenti a questacategoria hanno presentato dei livelli medi basali elevati di ansia e depressione,rispettivamente di 51±3,7% e di 57±4,5%.Da quando detto si evidenzia che una critica e obiettiva revisione delle modalità e deicontenuti dell’informazione mediante una verifica nozionistica e psicologica semprepiù accurata, è indispensabile per rivedere i programmi ed approfondire aspetti e

risultati poco chia-ri, adattando l’in-segnamento allenecessità indivi-duali dei pazienti.Discrete modifica-zioni nell’accet-tazione della ma-lattia possono es-sere ottenute an-che mediante in-terventi di tipo pe-dagogico, possi-

bilità questa non realizzabile se si tratta di influenzare aspetti strutturali dellepersonalità per loro natura scarsamente suscettibili a interventi a carattere educativo.Concluderei con un messaggio a tutti di tenere nel futuro più presente la psicheperché ci preoccupiamo del corpo, ritenendo forse la psiche poco importante.Invece, vorrei riportare la nostra attenzione su questo aspetto perché sappiamo benequanto la psiche possa, nel bene e nel male, influenzare il corpo.

Gruppi Numero Età Numero risposte corrette S.A.S. S.D.S.

prima dopo prima dopo prima dopo

1 24 17,5±5,5 319* * 552* 43,4±10 x 37,6±6,2 48,8±12,6 x 41,2±112 6 18,9±4,5 87** * 129** 48,1±11,4 xx 66,2±26,5 50,5±7,7 xx 54,3±2,63 5 20,5±2,9 58*** n.s. 72*** 33,5±8,5 xxx 30,1±1,8 34,9±8,8 xxx 31,2±3,54 5 19,5±3,7 60*** * 112*** 51±3,7 n.s. 51±3,7 54,8±4,5 n.s. 54,8±4,5

*Su un numero totale di 576 domande; **Su un numero totale di 144 domande; ***Su un numero totale di 120domande; x p=0,0001; xx p = 0,01; xxx p=0,031; * p<0,0001

Tabella IRiassuntiva dei

risultati ottenuti neiquattro sottogruppi

Figura 2Percentuali di

risposte esatte, primae dopo il corso,

relative ai singoliargomenti trattati

100

80

60

40

20

0

Rispo

sta es

atta %

* P< 0,0001

SignificativitàTe

oria

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prima dopo

* n.s.* * * n.s.* *

Argomenti:

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LA VALUTAZIONE DEGLI EDUCATORIAlberto PiaggesiUO di Malattie del Metabolismo e Diabetologia, Azienda Ospedaliera Pisana

Il problema della valutazione degli educatori è uno degli aspetti più complessidell’intera materia dell’educazione per i pazienti diabetici.La qualità e l’efficacia degli interventi educativi rivolti ai pazienti dipende infatti inmodo diretto dal livello di formazione degli educatori, che a sua volta comprendeaspetti cognitivi, aspetti prassici, aspetti metodologici e aspetti emotivo-comportamentali.Negli Stati Uniti già da tempo sono stati fissati degli standard per definire i requisitiminimi degli interventi educativi, e la American Diabetes Association (ADA) harecentemente rivisto questi standard, che sono stati pubblicati nell’edizione per il1999 delle “Clinical Practice Recommendations”(1, 2).Secondo quanto si può leggere al punto 10.1, le caratteristiche di un educatore,perché possa essere definito tale, sono: essere un operatore sanitario professionista,e aver cumulato almeno 16 ore di educazione che comprenda una combinazione didiabete, principi educativi e strategie comportamentali (tab. I).Tale definizione non entra nel merito di che cosa debba conoscere o saper farel’educatore, né del come tali competenze gli siano state trasmesse, e risponde più aesigenze certificative che non scientifiche.In Europa non vi sono attualmente standard paragonabili, né probabilmente ve nesaranno, poiché la filosofia è diversa: piuttosto che stabilire pragmaticamente unlivello minimo, la tendenza è piuttosto quella di indiviudare i criteri di valutazioneche possano verificare la capacità el’efficacia sia degli interventi educativi siadegli educatori (3). In Italia il GruppoItaliano di Studio per l’Educazione sulDiabete (GISED), ha negli anni passaticostituito il punto di riferimento culturalein campo diabetologico sull’educazione eha prodotto, nel corso degli anni, una seriedi strumenti anche di valutazione, cheriflettevano il mutare delle posizioniculturali riguardo il ruolo dell’educatore. Tali strumenti possono essere classificaticome strumenti cognitivi, strumenti prassici e strumenti pedagogici (tab. II).Nei primi anni ’80 fu messo a punto un questionario, successivamente validato suuna vasta popolazione, che investigava gli aspetti cognitivi dell’educazione, erappresentò il primo strumento utilizzabile sia per i pazienti che per gli educatori,cui si affiancava ovviamente la verifica diretta.Successivamente, soprattutto in relazione agli interventi formativi strutturalieffettuati sia sulle équipe diabetologiche,che su gruppi di infermieri professionalidiabetologici e non, furono elaboratistrumenti volti a verificare gli aspettiprassici del processo educativo, quelli cioèrelativi all’acquisizione di competenze

Standard 10.1: Program instructors are health care professionalwith a valid license, registration, or certification andwho are Certified Diabetes Educators or havecompleted at least 16 h of approved continuingeducation that includes a combination of diabetes,educational principles and behavioural strategies.

Tabella IStandard dell’ADA

circa i requisiti di uneducatore sul

diabete

Strumenti cognitivi Questionari, verifica cognitiva direttaStrumenti prassici Checklist valutativa, simulazioneStrumenti pedagogici Metaplan, Role-Playing, Griglie

Tabella IIGli strumenti

per la valutazione

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precise, quali il saper fare uno stick per laglicemia, il saper correttamente miscelaree somministrare l’insulina e saper trattareuna crisi ipoglicemica (4).Nella tabella III è riportata a titoloesemplificativo una “checklist” che siriferisce alla valutazione della sequenza dioperazioni necessarie all’esecuzione diuno stick per la glicemia; una operazionecomplessa è stata scomposta in unasequenza di operazioni semplici, e solol’esecuzione completa di tutte leoperazioni nella sequenza corretta, vieneconsiderata come risultato soddisfacente.Applicando questa checklist, la per-centuale di infermieri che eseguiva cor-rettamente uno stick, in un campione danoi studiato, era del 33% contro il 74% chenello stesso campione rispondeva cor-rettamente a tutte le domande su questoargomento (5).Fin qui la valutazione degli educatoriseguiva il modello cosiddetto “curriculare”,presupponeva cioè che l’educazione deipazienti consistesse meramente nellatrasmissione di nozioni e competenzetecniche dal docente al discente, e quindiche fosse sufficiente verificare che ildocente possedesse le nozioni e lecompetenze per valutarne la validità.

Negli anni ’90 si è invece progressivamente fatta strada la consapevolezza chel’educazione è un processo interattivo con un pesante portato emotivo che di fattocondiziona anche le altre componenti, e che non può non essere preso inconsiderazione quando si valuti l’educatore (6).

Lo strumento valutativo probabilmentepiù idoneo a questo scopo è costituito dauna griglia che tenga conto di tutti gliaspetti pedagogico-comportamentali cheentrano in gioco nel rapporto educativo: larelazione verbale, l’uso del materialedidattico, il modello comportamentale,l’emotività (tab. IV).Applicando l’osservazione guidata daquesta griglia a un intervento educativo èpossibile costruire una curva di ciascunparametro, a esempio nel tempo, nel corsodello svolgimento dell’intervento stesso,oppure dare una valutazione mirata sulla

persona dell’educatore, attribuendo un punteggio complessivo, che tenga conto deidiversi parametri.Probabilmente, man mano che il dibattito scientifico proporrà sempre nuovi e piùdifferenziati aspetti dell’educazione all’attenzione degli spcialisti, nuovi strumentivalutativi verranno impiegati per la valutazione degli educatori.

Questa lista ha la funzione di verificare l’esatta sequenza dioperazioni necessarie per eseguire correttamente uno stick per laglicemia.1. Predisporre i materiali necessari:

- Confezione di sticks- Reflettometro (o contasecondi)- Pungidito- Cotone con disinfettante- Cotone asciutto

2. Verificare la data di scadenza degli sticks3. Verificare l’efficienza e la pulizia del reflettometro4. Effettuare le procedure di calibrazione del reflettometro*5. Disinfettare il polpastrello6. Lasciar evaporare il disinfettante7. Pungere la faccia laterale del polpastrello8. Ottenere una grossa goccia di sangue9. Coprire completamente con la goccia spessa l’area reattiva

10. Far partire il contasecondi11. Prepararsi ad asciugare12. Asciugare completamente la goccia esattamente dopo 60

secondi13. Eliminare eventuali residui dall’area reattiva14. Inserire completamente la striscia nella fessura del reflettometro15. Leggere il risultato16. Estrarre la striscia e verificare visualmente sulla scala

colorimetrica17. Registrare il risultato sulla cartella del paziente con l’ora18. Eliminare il materiale usato19. Chiudere la confezione degli sticks20. Spegnere il reflettometro

*Solo la prima volta che lo strumento viene adoperato durante la giornata

Tabella IIIChecklist valutativaper l’esecuzione di

uno stick per la glicemia

Tabella IVGriglia per l’analisidegli aspetti peda-gogico-comporta-

mentali del processoeducativo

Parla, interrompe Dialoga con i pazienti Ascolta i pazientii pazienti

Usa sussidi didattici Fa usare i sussidi Elabora i sussidi condidattici ai pazienti la collaborazione

dei pazienti

Impone modelli Concorda modelli Fa discutere icomportamentali comportamentali pazienti sui loroai pazienti con i pazienti comportamenti

Non dà spazio alla Tollera l’emotività Accoglie la emotivitàemotività dei pazienti dei pazienti dei pazienti

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BIBLIOGRAFIA

1. Mitchell Funnell M, Haas LB: National Standard for Diabetes Self-ManagementEducation Program. Diabetes Care 18, 100-114, 1995

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3. American Association of Diabetes Educators (AADE): Diabetes Education: a corecurriculum for health professional. 3ed printing, AADE, 1992

4. Piaggesi A, Bini L. Castro Lòpez E, Giampietro O, Schipani E, Navalesi R: Knowledge ondiabetes and performance among health professional in non-diabetological department.Acta Diabetol 30, 25-28, 1993

5. Piaggesi A, Schipani E, Ceraudo AM, Baccetti F, Campi F, Navalesi R: Diabetologic in-service education for health professionals from non-diabetological departments. ActaDiabetologica 33 (4), 277-283, 1996

6. Lawrance PA, Dowe MC, Perry EK, Strong S, Samsa GP: Accuracy of nurses inperforming capillary blood glucose monitoring. Diabetes Care 12, 298-301, 1989

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VALUTAZIONE DELLA METODOLOGIA DEGLI INTERVENTI EDUCATIVIHerta CorradinDocente di Sociologia, Diploma Universitario per Infermiere, Università di Padova

Davanti al compito che mi è stato assegnato, mi sono subito chiesta: valutazione dimetodologie già applicate? di nuove metodologie? Non esiste pressoché letteraturasull’argomento specifico tranne la Guida Pedagogica del Guilbert (OMS) e la rivistaPedagogica Medica. Anche nell’attività didattica non si è ancora teorizzato ilprocesso di valutazione di metodologie e metodi. È il caso, ad esempio, dei diplomiuniversitari.La coppia Erle, è noto infatti che nel campo dell’educazione sanitaria lavoriamoinsieme, ha fatto un percorso di riflessione, di ricerca e di confronto per unaconferma sui dati di esperienza. Per noi educazione significa formazione, anche peril malato e familiari, come abbiamo sostenuto fin dal nostro primo libro “Educazionesanitaria col diabetico”, 1986, all’ultimo “Il diabete e l’educazione”- Metodologia eobiettivi”, 1997.La valutazione è parte integrante della progettazione considerata come l’insieme ditutti i momenti che concorrono al processo formativo. La valutazione va considerata.– nei termini dell’ex ante, come analisi dei bisogni e dei fattori di rischio, come

definizione degli obiettivi con la scelta di quelli prioritari, come analisi delle risorsedei vincoli, della fattibilità dell’intervento, come contributo alla scelta deicontenuti, del metodo, come definizione dei criteri di accettabilità dei risultati;

– nei termini dell’in itinere, che consente la riconsiderazione delle scelte progettualidimostrando così come gli ambiti del processo formativo – progettazione evalutazione – siano fortemente interconnessi, sia sul piano teorico che su quelloempirico:

– nei termini dell’ex post, come attenzione ai risultati conclusivi, allo scopoessenzialmente di verificare l’efficacia delle strategie dell’intervento alla finedell’attività, ma anche a distanza di tempo per avere una percezione migliore deirisultati attraverso un’analisi dei loro impatti (a livello educativo, organizzativo,economico, eccetera).

La valutazione rinvia costantemente alla progettazione e viceversa; entrambe fannoriferimento ai contesti di azione, agli obiettivi, alle decisioni, alle azioni cherealizzano l’intervento e ai risultati.

I problemi di metodo della progettazione e della valutazioneÈ importante ed è necessario ridefinire i due ambiti metodologici: la progettazionee la valutazione, che svolgono funzioni insopprimibili, per liberarle dai vincoli dellevisioni iper-razionali e tecnocratiche proprie di molti approcci moderni.La progettazione – non dettata da formule rigide da applicare comunque – va vistacome un processo di azione orientato al cambiamento, basato sull’apprendimentoche coinvolge tutti i partecipanti. Serve una metodologia flessibile, orientata dacriteri non deterministici.

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Anche per la valutazione è poco praticabile una cultura burocratica centrata sulragionamento obiettivo-risultato, su tecniche che siano fondate solo sullamisurazione quantitativa degli scarti tra risultati e obiettivi, dato che gli effetti di unintervento formativo tendono a produrre risultati non riducibili agli obiettivipredeterminati.Oggi, in maniera realistica ed efficace, si tende a considerare la valutazione come unprocesso di ricerca per ricostruire induttivamente dagli effetti dell’intervento ilsistema di relazioni che gli attori implicati hanno creato, così da comprendere tuttala ricchezza dei risultati.

Che cosa significa allora valutare?Una pluralità di significati che ci aiutano ad ampliare la nostra prospettiva diragionamento.▲ Criticare, giudicare - Formulare giudizi; presuppone l’esistenza di criteri condivisiampiamente, di un’autorità indiscussa del giudicante; esige una legittimazione.▲ Misurare - Accertare da parte degli educatori l’apprendimento di conoscenze estabilirne il grado attraverso l’attribuzione di punteggi; analizzare gli scarti –determinati in maniera quantitativa – tra gli obiettivi di un intervento e i suoirisultati. Le tecniche utilizzate comunemente non riescono a cogliere le dinamichedel processo.▲ Controllare - Verificare e accertare costantemente sulle fasi del processo pertenerlo sotto osservazione e assicurarne la regolarità. C’è una concezione delcontrollo che è legata al metodo sperimentale classico, fondato sulla precisione, laconstatazione obiettiva e la misurazione statistica e c’è una visione meno rigida delcontrollo da parte delle scienze sociali (ad esempio la psicologia sociale e lo studiodegli atteggiamenti).Col metodo classico, il soggetto controllato viene considerato come separato da chiosserva e controlla; per le scienze sociali, invece, i due soggetti non sono scindibiliperché entrambi implicati nel processo. Ma un’analisi valutativa non deve esserepartecipante e implicante la relazione formatore-paziente? Pare allora necessariointerpretare il controllo in modo da recuperare la dimensione processuale e larelazione tra i partecipanti. Osservare, ascoltare e interpretare con un riorientamentodel corso d’azione.Il controllo diventa così opportunità importante di apprendimento. Conl’elaborazione dei dati acquisiti dal controllo si può fare l’analisi del funzionamentodella formazione per produrre conoscenze di tipo diagnostico in grado di cogliereproblemi e criticità del processo. È importante giungere alla formulazione diproblemi.▲ Interpretare - Valutare come porre il problema del significato di ciò che si fa e quindicomprendere l’intervento in tutte le sfumature possibili, così che la valutazionediventa il momento chiave dell’azione, l’essenza stessa. Non può essere alloraidentificata con un bilancio di comportamenti, di riuscite, di fallimenti. È unaprospettiva delle scienze sociali contemporanee che puntano all’analisi delledimensioni qualitative che caratterizzano le dinamiche dei processi educativi. Le partidell’intervento si capiscono solo alla luce del tutto, ma il tutto è compreso solo in basealle parti. L’interpretazione, proprio come esperienza basata sulla comunicazione esulla relazione, non è riducibile a metodiche di tipo oggettivistico. Non postula unapolarità radicale tra soggetto conoscente e soggetto conosciuto. È pertanto unaprospettiva che arricchisce e amplia i significati della valutazione che è un processonon definibile secondo schemi precostituiti. L’azione valutativa ha un carattere dipratica trasformativa e il processo formativo ha un carattere di globalità circolarità.

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La valutazione come ricercaLa valutazione come processo di analisi per cogliere, attraverso un procedimentoinduttivo di ricerca, le strategie, i comportamenti e l’intreccio delle relazioni tra gliattori implicati nel processo, diventa uno strumento di apprendimento e dicambiamento nella misura in cui favorisce l’arricchimento cognitivo edesperienziale che consegue alla riflessione critica sul processo da parte degli attoriimplicati e favorisce la scoperta delle innovazioni che si producono. C’è unpassaggio a logiche di tipo qualitativo così da arrivare a comprendere processo erisultati.Una particolare prospettiva di ricerca è l’analisi qualitativa. La sociologia della saluteconsidera la persona nel suo mondo di vita quotidiano che è fatto di percezione, dibisogni, di affetti, di sentimenti, di relazioni familiari e sociali, e pone l’interazione,lo scambio comunicativo nelle sue molteplici manifestazioni come oggetto specificodell’analisi qualitativa.La comprensione dell’intervento educativo passa prioritariamente per l’analisi deicomportamenti e considera l’intervento in una prospettiva olistica in cuipartecipanti, azioni e contesti relazionali, sono assunti come un tutto che è maggioredella somma delle sue parti.

La valutazione sul piano operativoPer passare ora al piano operativo, mi pare opportuno riferirmi a un modello diprogettazione e valutazione che ritengo ancora valido. È un modello dal percorsopasso-passo, flessibile, per cui si può modificare quello che si fa e mettere in motoun meccanismo che permette di far meglio e di sapere quando c’è bisogno difarlo. È il modello del sociologo della comunicazione Braga, che ho descritto nellibro “Sociologia della salute e metodologia dell’educazione sanitaria”, 1990,centrato sui ruoli di osservazione, decisione, azione e controllo. Rappresenta unaprospettiva metodologica in cui l’attenzione valutativa si sposta sul controllocostante del processo d’azione e l’azione formativa può essere considerata allastregua di un sistema – cioè un insieme di parti interconnesse che interagisconoin modo organizzato – sulle cui modalità di funzionamento è possibileintervenire attraverso il controllo per correggere indirizzi e comportamenti infunzione di scopi predeterminati. Molti modelli valutativi correnti hanno fatto efanno riferimento a questo modello con successo.Rispetto ai modelli basati sulla valutazione obiettivi e risultati, il modello“comunicazione-azione”, come lo chiama Braga,“formativo-adattativo”come lochiamano altri, sposta l’accento dal risultato al controllo del processo e lavalutazione diventa un dispositivo per gestire il programma.Peraltro se andiamo a vedere e a constatare nell’esperienza, come sia vissutaoggi la valutazione, quale concezione se ne abbia, constatiamo un cambiamentonel processo valutativo dovuto a un passaggio lento e culturale da criteri dimisurazione a criteri di comprensione. Lo si avverte anche nei luoghi dellaformazione.Un esempio: ho voluto fare una prova con un gruppo di 80 studenti del terzocorso del diploma universitario per infermieri nell’ultima ora di lezione di questosemestre. Abbiamo lavorato sulla ricerca di valutazione del metododell’intervento educativo, ne è scaturita una griglia di domande che hannoconfermato la stretta interconnessione tra i due ambiti metodologici –progettazione e valutazione – e per la valutazione il riferimento al processo diformazione e agli esiti.

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Considerazioni conclusiveA mio avviso è importante arrivare presto a una concezione più moderna dellavalutazione per non vivere una dicotomia. Infatti si sono avuti progressi notevoli alivello di progettazione anche per la diffusione sul territorio nazionale di iniziative diformazione centrate sui nuovi approcci terapeutici al paziente cronico, con larelazione di aiuto e il Counseling, che stanno portando gli operatori verso le nuovefrontiere dell’empowerment, l’aiuto alla persona ad acquisire capacità di autocontrolloe autogestione con la consapevolezza che può prendere in carico se stessa.Occorre dilatare i confini della valutazione anche attraverso la ricerca. Non siamomacchine ma operatori pensanti, capaci di creare anche nuovi modelli organizzativie metodologici; il paziente non può più essere escluso dalla valutazione e dalprocesso di crescita culturale.

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LA VALUTAZIONE DEGLI INTERVENTIEDUCATIVI INTENSIVI

Andrea Corsi, Enrico TorreDipartimento di Medicina Recupero e Rieducazione Funzionale, UO Malattie Metaboliche eDiabetologia, Ospedale La Colletta, Arenzano

La finalità di questa breve esposizione è di portare alla discussione dei presentialcune considerazioni che sono scaturite nel tentativo di valutare, nella filosofia dellaverifica e revisione di qualità, un’attività peculiare che conduciamo. Si trattadell’effettuazione di corsi residenziali che di per sé, certo, non sono una novità, senon che nel nostro caso sono rivolti a pazienti affetti da diabete di tipo 1 adulti.L’obiettivo è quello comune a tutti gli interventi educativi: migliorare le capacità diautogestione della malattia, e quindi migliorare il compenso metabolico, nellasperanza di ridurre le complicanze.Gli obiettivi didattici specifici erano stati stabiliti in base alle deficienze conoscitiveche i singoli operatori avevano rilevato nei colloqui con i pazienti. Alla fine del corsoi partecipanti avrebbero dovuto sapere: indicare gli alimenti equivalenti in contenutoglicemico per la programmazione dei pasti, individuare il tipo e la quantità deglialimenti da assumere in corso di esercizio fisico, modificare l’apporto insulinico incorso di malattia febbrile.La metodologia didattica era quella ben nota “interattiva”,“centrata sul discente”,secondo il modello di Guilbert.Il metodo di insegnamento prevedeva: lezioni verticali su: contenuto in nutrienti deicibi e distribuzione dei carboidrati; lavori in piccoli gruppi al “Metaplan”su: “lista discambio” degli alimenti contenenti carboidrati, compenso dell’attività fisica,modificazione della dieta in corso di malattie intercorrenti, correzionedell’ipoglicemia; lavori in piccoli gruppi con discussione collegiale su situazioni difrequente riscontro nella vita quotidiana: “a cena al ristorante”,“la partita di tennis”,“la gita al mare”; discussione guidata delle scelte operate dal menu del ristorante.La verifica dell’insegnamento è stata effettuata somministrando il questionario delGISED validato da Erle, che costituisce ancora l’unico strumento validato in italianoa nostra disposizione.La verifica dell’efficacia del corso sull’assetto metabolico è stata effettuataconfrontando il valore di emoglobina glicata, misurata prima e sei mesi dopo ilcorso, e il numero di ipoglicemie lievi e severe, rilevate nella settimana precedentel’ultima visita prima del corso e nella settimana precedente la visita a sei mesi dalcorso.Dopo l’intervento i risultati sono stati positivi, come era ampiamente prevedibile.Se analizziamo infatti la letteratura sui risultati degli interventi educativi, sono rarele testimonianze di inefficacia sugli “outcome”metabolici. Semmai si può riscontrareuna mancanza di correlazione tra livello di conoscenza e miglioramento deiparametri di compenso, ma questi risultano quasi sempre migliorati. Ciò può trovarespiegazione sia nel ben noto effetto che la sola “osservazione di coorte” determinanel migliorare i parametri di osservazione, sia nell’efficacia che hanno altri fattoridiversi dalla semplice conoscenza. Questi sono individuabili nella motivazione

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particolare che i partecipanti a un gruppo possiedono, nel maggior supportopsicologico che il team offre nel corso di un intervento educativo, nello sviluppo didinamiche di gruppo e di qualche sorta di auto aiuto nel gruppo.Sorge quindi legittimo il dubbio se sia effettivamente utile valutare la conoscenzadiabetologica dei pazienti e vi sono autori convinti che sia preferibile indagare invecele capacità di modifica dei comportamenti. Appare di sicuro più consono alla finalitàdi ogni intervento educativo che il paziente migliori le proprie capacità di “coping”edi “problem solving”piuttosto che acquisisca nozioni sulla malattia. Se si considerapoi il tempo che si impiega nella somministrazione e nella correzione deiquestionari, si può certamente ritenere che la valutazione della conoscenza, almenocon gli strumenti fin qui adoprati, non sia un mezzo adeguato alla valutazioneroutinaria della qualità dei nostri interventi. Va peraltro rilevato che anche per lavalutazione delle capacità di “coping” e di “problem solving” non ci risultanodisponibili strumenti validati.La scelta dei parametri di valutazione dell’andamento metabolico vede comeindicatore “obbligatorio” il valore di HbA1c, risultando questo l’indicatore criticodell’evoluzione delle complicanze. Il numero degli episodi ipoglicemici, cherappresenta un indice di stabilità glicemica, costituisce pure un parametroessenziale. Altrettanto importanti, ai fini della prevenzione delle complicanze,risultano i fattori di rischio per la macroangiopatia, lipidi ematici, pressione arteriosae BMI che nei nostri interventi non abbiamo valutato, essendo i relativi valorisempre nell’ambito della norma in tutti i partecipanti i quali, va ricordato, erano tuttidi età inferiore a quaranta anni.Più incerti sono in letteratura i risultati sul compenso metabolico a lungo termine,con diverse testimonianze di insuccessi. Ciò è dovuto alla difficoltà di mantenere lamotivazione a mettere in pratica le proprie conoscenze e le proprie capacità a lungonel tempo. Le divergenze che si riscontrano possono essere attribuibili a differentiapprocci psicologici da parte del team diabetologico. Incontestabili sono invece irisultati se si valutano “end-points” che riguardano le complicanze acute(chetoacidosi, amputazioni) o i ricoveri, dove l’aspetto educativo-istruttivo èpreminente rispetto a quello educativo-motivazionale.Si potrebbe quindi concludere che non sia corretto valutare un intervento educativointensivo sulla base degli outcome clinici, il cui raggiungimento richiede sempre unlungo e difficile processo di trasformazione delle conoscenze in comportamenti, eche si debba invece semplicemente valutarlo sulla base del raggiungimento degliobiettivi didattici. D’altro canto è evidente come sarebbe esagerato aspettarsi da unprogramma educativo intensivo un cambiamento nelle capacità, negli atteggiamentie nella motivazione che possono invece solamente svilupparsi come parte integrantedell’interazione continua tra operatori diabetologici e paziente.Possibile semmai, anche se non estremamente probabile, è che un interventoeducativo intensivo possa contribuire al miglioramento dei parametri di benesserepsicologico attraverso il quale si potrebbe avviare un miglioramentonell’autogestione. È tuttavia aperta la discussione se sia il benessere psicologico amigliorare l’autogestione o se le migliorate capacità di autogestione conducano adun miglior benessere psicologico. È comunque diffusa l’impressione che ci siaun’associazione tra educazione, migliore autogestione e migliore atteggiamentopsicologico, che sono indipendenti dai miglioramenti dei parametri di controllometabolico. Va comunque sottolineato come sia importante non porsi delleaspettative esagerate da un intervento per definizione “intensivo”, in un campo cosìcomplesso che riguarda la qualità della vita. La stessa modifica dei comportamenti,che spesso viene indagata attraverso la valutazione dell’adeguatezza dell’esecuzionedell’autocontrollo glicemico e della regolarità della dotazione del tesserino

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identificativo di malattia o altro ancora, è difficilmente attribuibile all’effetto di unintervento generalmente limitato nel tempo.Alcune considerazioni poi sono doverose riguardo alla “strutturazione”dell’intervento. Se questo, come nel nostro caso, viene effettuato nel corso dellausuale attività assistenziale, la valutazione verrà fatta confrontando i parametriprescelti, prima e dopo l’intervento educativo. Non sarà costituito cioè un “gruppo dicontrollo” e il disegno dello “studio” sarà del tipo “one group, pretest-posttest”.L’errore sistematico in cui si può incorrere è che i risultati che osserveremo possanoessere modificati da altri tipi di intervento cui sia sottoposto il nostro campione. Peresempio azioni più generali di educazione sanitaria, svolti nell’area di nostracompetenza, potrebbero migliorare le conoscenze dei nostri pazienti. Personalmenteritengo queste eventualità poco probabili, ma in teoria non è facile escludernel’effetto, specialmente se la valutazione avviene a lungo termine. È ovvio invece chel’errore non c’è se si indirizza la valutazione non sugli outcome clinici ma su quellididattici, come dicevamo prima. Questo errore infine sarebbe escluso se sistrutturasse un intervento con un gruppo di controllo. Ma anche in questo caso sirilevano problemi importanti. Per prima cosa emerge la maggior difficoltàorganizzativa che poco si adatta all’attività clinica dei servizi diabetologici, insecondo luogo si impone una considerazione etica che non consentirebbe, nellamaggior parte dei casi, di escludere una quota di pazienti da un intervento ritenutostrettamente pertinente alla pratica assistenziale. Ma la domanda cruciale è seancora esiste la necessità di dimostrare che un intervento educativo sia efficace dalpunto di vista assistenziale. Perché se, come sembrano dimostrare la maggior partedei lavori e recenti metanalisi, gli interventi educativi sono nel complesso “efficaci”,si può evitare di impostare studi complessi, lontani dalla pratica clinica e indirizzarela nostra valutazione alla qualità del nostro operato. In altri termini, ancora, valutarel’intervento intensivo dal punto di vista dell’efficacia didattica misurando soprattuttole capacità di “coping”e “problem solving”dei pazienti.

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VALUTAZIONE DEGLI INTERVENTI EDUCATIVI.LE CONDOTTE DI RIFERIMENTO

Marina Trento, Pietro Passera, Marco Tomalino, Massimo PortaDipartimento di Medicina Interna, Università degli Studi di Torino

La ricerca e la messa a punto di un intervento educativo richiede di assumerecriticamente o di costruire ex novo gli strumenti per accertare le capacità, le abilità,le performance dei soggetti studiati (1, 2). Si tratta di riuscire a stabilire criteri emodalità in grado di analizzare e rappresentare le condotte (3) dei soggettimedesimi, relativamente al processo di apprendimento considerato.Sul piano della programmazione si tratta di assumere quadri di riferimento (4)concettuali e operativi, ampi e flessibili, capaci di prendere in considerazione ilsoggetto nella sua totalità (4, 5).Nonostante ciò nell’ambito dell’educazione sanitaria, nei confronti della personadiabetica vengono ancora proposti interventi basati sulla convinzione, più o menodichiarata, che basti far conoscere ai pazienti gli effetti negativi del lorocomportamento sulla salute, a breve o a lungo termine, per indurli a modificarlo eche basti somministrare questionari o test per capire se si sta operando bene (6).Questi tipi di interventi si basano su una teoria ingenua del funzionamento dellapsiche del soggetto, la quale presuppone che le persone si comportino in termini dicosti e benefici, e siano perciò facilmente disponibili al cambiamento. Ed è davverostupefacente quanto denaro e quanti sforzi siano stati spesi partendo da unaconcezione così cognitivamente errata. Tra l’altro occorre ricordare che, per unfenomeno di “consonanza cognitiva”, le persone tendono a ignorare le informazionie le conoscenze che sono contrastanti con le loro azioni quando si rendono contoche è per loro emotivamente e socialmente difficile cambiarle (6). A questoproposito vorrei riportare alcune delle espressioni che spesso mi rivolgono lepersone diabetiche che afferiscono all’ambulatorio: “ma... perché devo fare le visite, icontrolli... non sento niente, sto bene”, espressioni di questo tipo possono scoraggiare esolo se gli operatori sanitari sono pronti a comprendere le difficoltà che esistononelle proposte di cambiamento è possibile che qualcosa accada e che il soggettopossa cambiare (7). In realtà promuovere il cambiamento di una condotta (8, 9)implica una modificazione profonda. Cruciale in tale modificazione è il significatoche la persona attribuisce alle proprie condotte e azioni (10). Attribuire e modificareun significato a qualcosa implica, da parte del soggetto, la messa in gioco di processi:cognitivi, affettivi e sociali. Cognitivi, perché cambia il modo di considerare lacondotta, la conoscenza relativa alla condotta e al suo uso; affettivi, perché si devonomutare abitudini consolidate e antiche; sociali, perché la trasformazione, ilcambiamento non avviene in solitudine, ma in un contesto sociale.Dobbiamo renderci conto che curarsi bene con il diabete richiede modifiche dicomportamenti, l’acquisizione di nuove abitudini e l’abbandono di abitudiniantiche. Per la maggior parte delle persone non è facile: significa aggiustare ilproprio quadro di riferimento (4, 5) in relazione a obiettivi di vita, rapporto con il cibo,tradizioni, norme e credenze assai radicate sulla salute. A questo propositodobbiamo ricordare che molte condotte che sono, su base scientifica, valutate

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negative per la salute immediata o futura dell’individuo, rivestono al contrario unvalore positivo per la persona che le mette in atto e per il gruppo sociale diappartenenza. Il significato positivo attribuito a una condotta nociva per la salute èuno degli aspetti più importanti da modificare in un progetto di educazione allasalute e questo deve essere preso in considerazione affinché il progetto possafunzionare (11).Negli ultimi anni queste posizioni e orientamenti sono entrati nellaprogrammazione di alcuni interventi educativi nei confronti della persona diabetica(12). Nel tempo, infatti si è delineata l’esigenza di individuare processi educativi,integrati al processo terapeutico (13), capaci di sensibilizzare l’individuo sulla suacondizione così da permettergli di comprendere la malattia (14-15), conoscerla eagire sulle diverse situazioni, individuare i problemi e trovare le proprie soluzioni,relativamente al contesto in cui vive ed opera; si è cercato di trovare soluzioni diverseper valutare tali cambiamenti.Sulla base di queste conoscenze e orientamenti in questi anni è stato condotto unostudio, clinico, randomizzato e controllato su “Educazione terapeutica per gruppi nelfollow-up di pazienti con diabete non insulino-dipendente e non insulino-trattati”(16) presso il nostro Ambulatorio. Si voleva verificare se interventi educativistrutturati e programmati svolti su piccoli gruppi (17) (10 soggetti/casi) potesserofavorire l’abbandono di condotte antiche ed errate e promuovere l’acquisizione dinuove condotte più adeguate e corrette rispetto alle precedenti, e se ciò potessemigliorare i livelli di salute dei soggetti stessi. Un gruppo di controllo continuò levisite convenzionali con il tradizionale rapporto medico/paziente e con interventieducativi individuali minimi. Nella messa a punto dell’intervento educativo è stataprevista una osservazione (18) iniziale che ha permesso di conoscere le condotteattuate dai pazienti a cui l’intervento era rivolto: che cosa le persone fanno inconcreto, vale a dire quali condotte sono realmente messe in atto e quali abitudini econoscenze sono del soggetto. Questa iniziale raccolta di informazioni ha costituitola diagnosi educativa (19), successivamente è stata formulata la programmazione dellarelazione terapeutica: conoscendo i reali bisogni del paziente potevamo ipotizzare erealizzare l’intervento educativo, centrando l’intero processo su colui che apprendee sulle sue caratteristiche: che cosa insegnare, a chi, come e con quali tempi. Altromomento cruciale dell’intervento è stata la valutazione: che cosa valutare, come equando. Si trattava di riuscire a pensare e costruire o individuare strumenti emodalità capaci di misurare e di descrivere processi in atto, come i pazienticambiavano e acquisivano condotte nuove, salvaguardandone la dinamica e ilsignificato originale (9).L’ipotesi di lavoro prevedeva che se il soggetto diabetico sa come comportarsi, ossiaè in grado di mutare abitudini errate nel corso della giornata, in termini dialimentazione e valutazione del proprio stato di salute, ciò può tradursi in unmiglioramento obiettivamente misurabile dei suoi:– controllo metabolico,– comportamenti igienico-alimentari,– acquisizione di nuove condotte e miglioramento dello stato di benessere

psicofisico.Obiettivi dell’intervento educativo erano quelli di fornire ai pazienti gli strumentiper migliorare le abitudini alimentari e l’autogestione della propria malattia, così daessere in grado di affrontare la realtà quotidiana senza precludersi nulla a causa deldiabete.Le variabili esaminate, all’inizio e alla fine dello studio sono state:– HbA1c, peso, glicemia a digiuno,– le conoscenze specifiche (questionario GISED),

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– la qualità di vita (questionario DQOL),– le condotte nei confronti della malattia (Condotte di Riferimento - CdR - versione

1.0).Per quanto riguarda i questionari GISED (20) e Qualità di Vita (DQOL) (21-22),questi erano già stati validati e utilizzati nel corso di altri studi, in ogni caso vennecalcolata la coerenza interna (omogeneità) applicando il Coefficiente Alpha diCronbach (23), cioè il grado di accordo delle risposte alle domande relative a unastessa dimensione, che diede esito positivo:GISED (38 items) - Totale dei pazienti 1ª somministrazione alpha 0,88 - 2ª somministrazione alpha 0,88Il GISED (20) questionario per la valutazione delle conoscenze, dei comportamentie degli atteggiamenti del soggetto diabetico non insulino-dipendente, aveva subitodelle modifiche per questo specifico studio. Originalmente era stato ritenuto ricco ditermini tecnici che potevano diventare di non chiara e facile comprensione per ilpaziente. Le modifiche apportate avevano l’obiettivo di semplificarne la lettura e lasomministrazione. Anche in questo caso l’omogeneità del questionario originale èstata mantenuta.DQOL (39 items) - Totale dei pazienti 1ª somministrazione alpha 0,70 - 2ª somministrazione alpha 0,82Il questionario era stato sviluppato per la misurazione della qualità di vita neipazienti diabetici di tipo 1 e utilizzato nel DCCT (24). Si tratta di un questionarioautosomministrato, costituito da quattro test parziali (soddisfazione, impatto,preoccupazioni generali, preoccupazioni legate al diabete), per un totale di 46domande, a ciascuna delle quali il paziente deve rispondere utilizzando una scalaLikert a 5 punti. Tradotto e validato in italiano per tipi 1 era stata successivamentedimostrata la sua applicabilità e affidabilità anche per i tipi 2 (21).Nello specifico erano state modificate alcune domande, mentre altre: paura disposarsi e non trovare lavoro, erano state omesse del tutto. Ciò nonostante, ilCoefficiente Alpha è rimasto lo stesso della validazione originale svolta per lo studioDCCT (22).Condotte di Riferimento (CdR 1ª versione - 16 items)Totale dei pazienti1ª somministrazione alpha 0,71 - 2ª somministrazione alpha 0,70Il questionario Condotte di Riferimento era stato costruito appositamente perquesto studio. In questo caso l’équipe non era interessata al soggetto come a coluiche “sapeva fare delle cose”o a colui che “sapeva essere”, si voleva piuttosto, esserein grado di capire e verificare se il soggetto aveva compreso ciò che gli stavaaccadendo e se le sue condotte, psichiche e conoscitive, fossero pertinenti allasituazione che stava vivendo. Nell’elaborazione dell’intervento si era creata lanecessità di stabilire criteri (1, 2) in grado di rilevare le condotte conoscitive relativeal processo di apprendimento (25, 26) considerato e verificare come queste sitrasformassero in un nuovo stile di vita. Per evidenziare e rappresentare le capacità,abilità e performance del soggetto era necessario servirsi di dispositivi di analisipluridimensionali, capaci di cogliere i diversi aspetti della persona; inoltre i criteridovevano essere espliciti, controllati e controllabili. Da queste esigenze e posizioninacque e prese forma il questionario “Condotte di Riferimento”.Per Condotte di Riferimento (CdR) si intende la capacità di un soggetto di agire suuna situazione, individuare il problema e trovare la propria soluzione, relativamenteal contesto o alla situazione in cui si trova a operare.Le condotte possono essere intese come atteggiamento, ossia come unadisposizione mentale di fronte a un determinato problema. Il termine condotta,infatti, non può essere usato come sinonimo di comportamento. Mentre

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quest’ultimo fa riferimento all’insieme delle azioni e reazioni abituali maautomatiche di un organismo all’ambiente, la condotta fa riferimento a unatteggiamento interiore da cui quelle azioni e reazioni discendono. Ad esempio, unapaziente diabetica ci disse una volta di sottoporsi spontaneamente all’esameannuale del fondo dell’occhio, perché “La diabete mangia la vista”. Quella signora,contestualmente al proprio sistema di riferimento, aveva acquisito le motivazioni ela condotta corretta per la prevenzione della cecità. Se, al contrario, il suocomportamento non fosse dettato da un convincimento interiore, ma solamentedall’imitazione di modelli esterni o dal seguire passivamente un’informazione,basterebbe un evento negativo qualsiasi (consiglio del vicino, attesa eccessiva inambulatorio, personale sanitario indisponente) per arrestare il processo positivo.Le domande individuate per il questionario, proposte con la formula di “cosa farebbese...”, implicano che il soggetto abbia attivato condotte psichiche e conoscitive e,contestualmente, risposte pertinenti al sistema di riferimento, al contesto,all’ambiente che potrà essere di volta in volta diverso, ma in cui vive. La valutazionedei risultati ci permise di osservare che all’inizio dello studio il questionario CdRcorrelava con:

GISED r=0,67, p<0,001Scolarità r=0,42, p<0,001BMI r=-0,27, p<0,01Età r=-0,20, p<0,05

mentre il GISED correlava con:Scolarità r=0,55, p<0,001BMI r=-0,23, p<0,05

In seguito all’intervento educativo, al termine dell’anno, erano migliorati, neisoggetti che avevano seguito sessioni educative continue e strutturate, ma non neicontrolli, gli score nei questionari CdR e GISED (p<0,001 per entrambi) el’emoglobina glicata era migliorata nei casi rispetto ai controlli (p<0,05). Dasottolineare che le modificazioni delle Condotte di Riferimento nei pazienti seguitinei gruppi correlavano con l’entità del calo dell’HbA1c (r=-0,31, p<0,005). Neipazienti seguiti in gruppi di educazione lo score finale delle CdR non correlava piùcon la scolarità, suggerendo che l’intervento fosse riuscito a supplire alla carenzainiziale. Da sottolineare che il 15% dei pazienti era analfabeta e che il 30% avevasolo studi elementari.Questi dati preliminari e questo primo anno di studio hanno permesso di rilevareche setting educativi in grado di favorire l’apprendimento permettono di migliorarei livelli di salute dei pazienti. Così come si è puntuali nell’identificare condizionifavorevoli l’apprendimento, altresì è importante individuare strumenti capaci dimisurare i molteplici aspetti del paziente, le variazioni inerenti l’acquisizione dicondotte di salute più adeguate.

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