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Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

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Page 1: Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

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Redazione: III D Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio Cabrini, Matteo Cobianchi, Alessandro

Dalla Chiesa, Elena De Benedetti, Chiara Delmonte, Riccardo Ferri, Veronica Guerci, Alina Ivanylo, Chiara Longhi,

Cecilia Massimo, Lisa Pantaleoni, Alessandro Pasqua, Stefano Peri, Bianca Pezzani, Maria Caterina Pinelli, Dario

Reverberi, Riccardo Riva, Filippo Savi, Federico Sello, Sara Signorini, Alessandro Sorba, Pietro Toso, Davide

Zecca.

IV D Francesca Bacchi, Alain Ben Rejeb, Edoardo Bernini, Alessia Borrini, Pietro Canuti, Alberto Corradi, Alex

Dalla Fiora, Marco Dedja, Vittoria Ferrari, Eleonora Fontana, Matteo Leporati, Agata Magni, Nicola Pagani,

Alessandro Schianchi, Alessandro Simonini, Carlo Tanara, Lorenzo Urbanetto, Arianna Ziveri.

Liceo scientifico “Giacomo Ulivi”

anno scolastico 2014-2015

Editoriale: Alessandro Simonini

Copertina: Cecilia Massimo

Grafica: Arianna Ziveri

Coordinamento: prof.ssa Sandra Borsi

Page 3: Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

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Editoriale

di Alessandro Simonini

Parigi, 7 gennaio 2015. Strage nella sede del giornale sat irico Charlie Hebdo. L'11 settembre

della Francia.

Dopo l' attentato abbiamo deciso di informarci sul terrorismo di matrice islamica, in

part icolare sul gruppo terrorist ico dello Stato Islamico, recentemente venuto alla ribalta in

Siria e in Iraq dove sembra impossibile ipot izzare una pace duratura. Fin dall'inizio delle

nostre ricerche eravamo consapevoli che il richiamo alla religione islamica non doveva

portarci a confondere Islam e terrorismo: “I terrorist i offendono l' Islam più dei nemici

dell'Islam”(rettore moschea di Parigi).

Alcuni di noi si sono occupat i della libertà d' espressione e in part icolar modo della sat ira,

della sua storia e del suo ruolo nella società attuale oltre che del lavoro di art ist i e

disegnatori che si battono per l'affermazione di quest i valori nei loro Paesi e per la pace nel

mondo, aff inché si costruiscano pont i e non barriere.

Il nostro lavoro si pone quindi l'obiett ivo di fornire informazioni il più possibile verit iere per

aiutare i lettori a sviluppare un'opinione individuale su realtà attuali non facili da analizzare

e comprendere: per questa ragione sono state consultate font i diverse e raccolt i pareri di

important i personalità polit iche e intellettuali.

Invit iamo perciò i lettori a interpretare quello che leggono e a pensare con la propria testa,

senza farsi influenzare da alcuno stereot ipo.

Tunisi, 18 marzo 2015. Strage di turist i nel museo del Bardo. L'11 settembre della Tunisia.

Nairobi, 2 aprile 2015. Strage di student i al campus di Garissa. L'11 settembre del Kenya.

Quando stavamo impaginando questo numero unico il mondo è stato colpito da altri gravi

attentat i. Appare perciò evidente la necessità di una presa di posizione forte e decisa da

parte di tutto il mondo civile per impedire la definit iva affermazione dei progett i jihadist i in

Africa e Medio Oriente. Siamo di fronte a quello che alcuni politologi hanno definito uno

“scontro di civiltà”? Auguriamo ai lettori di riuscire a rispondersi, tenendo conto che in

quest i casi spesso non c'è una risposta giusta.

4 aprile 2015

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INDICE

Charlie Hebdo: reazioni e commenti

Cosa è successo

Cosa pensano i leader mondiali

Nel mondo musulmano

E noi?

Charlie Hebdo:

la reazione popolare

Parigi: il mondo in piazza

Altre manifestazioni

Sul web

Charlie Hebdo va a ruba

Polemiche

Reazioni psicologiche

Le reazioni dei ragazzi

Reclutamento Isis

I disseminatori

I siti web

La prigione

Imam erranti

L’”Autostrada jihadsita”

L’addestramento

Il profilo del jihadista

Una crisi di identità

Numeri

Isis: la strategia mediatica

1.Reti televisive

2.Internet

3.Jihad 2.0

Gli attacchi informatici

Una nuova strategia

I social più sfruttati dai jihadisti

4.Anonymous

Chi sono

Cosa fanno contro il Jihad

Origini estremismo

Cause

Principali movimenti terroristici

1. Al Qaeda

2.Boko Haram

3.Isis (IS)

L’Isis e l’Islam

Glossario

Versetti del Corano

Commento

Israele e Palestina

Il conflitto

La nascita del “Focolare nazionale”

L'espansione ebraica

La divisione della Palestina

Nascita di Israele

La Guerra dei Sei giorni

La Guerra del Kippur

L'occupazione dei territori

L’invasione del Libano

Gli Accordi di Camp David

La Prima Intifada

Nascita di Hamas

Gli accordi di Oslo

L'assassinio di Rabin

Nascita Autorità N.P.

Nuovi Accordi di Camp David

La Seconda Intifada

La costruzione del muro

L'operazione “Piombo fuso”

Operazioni militari e nuovi insediamenti

Israele: marzo 2015

La libertà di espressione

Un po’ di storia

Il rapporto di “Reporter senza frontiere”

Blasfemia nel mondo

Blasfemia in Italia

Diritto di satira: ci sono dei limiti?

Satira e potere

Cos’è la satira

La satira in Turchia

Libertà di satira

Michel Kichka

Nadia Khiari

Mana Neyestani

Libertà di espressione e mondo arabo

Libertà d' espressione e blasfemia

Shirin Neshat: denuncia attraverso l'arte

I giovani iraniani

Persepolis: la ribellione attraverso un cartone

Sotto il burqa: un libro per sensibilizzare

Le donne in Afghanistan e Iran

Parole come armi

Un film contro l’integralismo: Il destino

Page 6: Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

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Charlie Hebdo: reazioni e

commenti

Cosa è successo? Sono passati alcuni mesi dalla strage ed è necessario ricordare

quanto avvenuto. La mattina del 7 gennaio 2015 a Parigi, i fratelli

Said e Cherif Kouachi, cittadini francesi di origine magrebina,

assaltano armati la redazione parigina del settimanale satirico

Charlie Hebdo, uccidendo dodici persone fra le quali quattro

famosi vignettisti, “colpevoli” di avere preso in giro il profeta

Maometto: Charb, pseudonimo di Stéphane Charbonnier, 47

anni, direttore del giornale. Cabu, cioè Jean Cabut, 76 anni.

Tignous, ovvero Bernard Verlhac, 57 anni. Georges Wolinski, 80

anni, disegnatore, uno dei pilastri di Charlie Hebdo.

Il giorno dopo i fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly – autore della

strage nel negozio kosher di Parigi, avvenuta il giorno dopo –

vengono uccisi dalle teste di cuoio. Emerge da un video caricato

su youtube, che Coulibaly agiva per conto dell'ISIS e giustif icava

la sua azione contro la Francia colpevole di blasfemia e violenze

contro i musulmani.

La condanna per la strage nella sede del giornale satirico Charlie

Hebdo è unanime. A poche ore dall'assalto le reazioni si

susseguono senza sosta: mentre i sit i jihadisti lodano gli

assalitori, ricordando la "derisione" del settimanale nei confronti

di Maometto e il coinvolgimento militare della Francia nei Paesi

musulmani, l'Occidente si prepara ad una risposta.

Cosa pensano i leader mondiali? Il presidente francese, François Hollande, è arrivato subito sul

luogo dell'attentato, in pieno centro: "È terrorismo, non c'è

dubbio". Poche ore dopo, in diretta tv, afferma: "un vile

attentato" parlando alla Nazione e proclamando il lutto

nazionale. "Dobbiamo essere consapevoli che la nostra arma è

l'unità, niente potrà separarci. La Francia è grande e la libertà più

forte della guerra. Uniamoci e vinceremo, niente potrà farci

flettere dalla nostra determinazione. Dobbiamo essere compatti,

mostrare che siamo un Paese unito. Siamo in un momento

diff icile, sapevamo di essere minacciati perché siamo un Paese di

libertà. Viva la repubblica e viva la Francia". Il governo ha deciso

l'immediato aumento del livello di allerta per attentati

terroristici, polizia e gendarmi sono stati schierati davanti a

scuole, edifici pubblici e redazioni di giornali. "Dobbiamo

rispondere cercando gli autori di questo atto infame, arrestarli e

giudicarli e faremo tutto il possibile" assicura il presidente.

"Dobbiamo tutelare gli organi pubblici, le forze dell'ordine

saranno dispiegate ovunque mettendo in atto il piano

antiterrorismo".

L'ex presidente Nicolas Sarkozy, parla di "atto barbaro" e

"tragedia nazionale che sconvolge profondamente". "I colpevoli

di queste barbarie - continua - dovranno essere perseguiti e

puniti con la più estrema severità. Tutti i mezzi dello Stato

saranno messi in azione per neutralizzare i tre criminali all'origine

di questo atto".

Il mondo è attonito, l'attentato è il più grave in Francia dal 1940.

"Barbaro attacco", lo definisce anche il presidente della

Repubblica, Giorgio Napolitano. "Un gesto vile ed esecrabile,

che non colpisce semplicemente un giornale, ma uno dei pilastri

sui quali si basa la nostra civiltà: la libertà di stampa; nella lotta

contro il fanatismo, il terrorismo e tutte le forme di odiosa

violenza nei confronti di cittadini inermi, la Francia potrà sempre

contare sulla vicinanza e la fattiva collaborazione dell'Italia".

In una nota diffusa dal portavoce vaticano, padre Federico

Lombardi, si denuncia "la violenza omicida abominevole". Nel

dettaglio, si fa sapere che Papa Francesco esprime "la più ferma

condanna per l'orribile attentato che ha funestato Parigi con un

alto numero di vittime, seminando la morte, gettando nella

costernazione l'intera società francese, turbando profondamente

tutte le persone amanti della pace ben oltre i confini della

Francia". Papa Francesco partecipa nella preghiera alla

sofferenza dei ferit i e delle famiglie dei defunti ed esorta tutti ad

"opporsi con ogni mezzo al diffondersi dell'odio e di ogni forma

di violenza, f isica e morale, che distrugge la vita umana, viola la

dignità delle persone, mina radicalmente il bene fondamentale

della convivenza pacifica fra le persone e i popoli, nonostante le

differenze di nazionalità, di religione e di cultura".

“Non si uccide in nome di Dio, la libertà di stampa è essenziale

ma la religione non va offesa, non si può prendere in giro la fede

di un altro anche se non si reagisce con la violenza”. Papa

Bergoglio ha quindi sottolineato che la libertà di espressione

deve avere dei limiti, in quanto non si “giocattolizza la religione

degli altri, la libertà è diritto ma anche dovere”. Molto singolare

poi, la metafora utilizzata dal Pontefice per spiegare il concetto:

“È vero che non si può reagire violentemente ma se un amico

dice una parolaccia contro mia mamma, gli spetta un pugno”,

ribadendo che “ogni religione ha dignità ed io non posso

prenderla in giro“.

Un attacco "codardo e diabolico", lo definisce il presidente degli

Stati Uniti, Barack Obama. "Siamo con i francesi", rimarca

sottolineando come i terroristi abbiamo paura della libertà di

stampa visto che hanno organizzato una strage di giornalisti.

"L'islam è una religione pacifica ed è una sfortuna vedere questi

estremisti radicali ed aggiunge che gli Stati Uniti lavoreranno per

proteggere gli americani in casa e all'estero e sono consapevoli

del rischio di attacchi da parte di combattenti stranieri disposti a

dare la loro vita per la loro causa”. "Di volta in volta, la

popolazione francese ha difeso i valori universali. La Francia e la

magnifica città di Parigi, dove è avvenuto l'attacco, offrono al

mondo un esempio che durerà ben oltre la visione odiosa di

questi killer".

"Ogni americano è con voi", aggiunge il segretario di Stato

americano John Kerry. "Il mondo non si arrenderà ai terroristi.

Nessuno sa meglio della Francia che la libertà ha un prezzo", ha

affermato definendo le vittime della strage dei "martiri della

libertà". Condoglianze al Paese anche dal presidente russo

Vladimir Putin che condanna fermamente l'attacco di Parigi ed il

terrorismo in tutte le sue forme.

Nel mondo musulmano

Il rettore della grande Moschea di Parigi Dalil Boubakeur ha

condannato quest’atto barbarico e molti musulmani francesi

hanno espresso tutto il loro orrore. I musulmani sono stanchi di

essere sospettati, ostaggi di una crisi morale e identitaria. Sono i

primi a essere inorriditi dai crimini dell’ISIS e di Al Qaeda e sono

le prime vittime di questo terrorismo. “I terroristi offendono

l’Islam più dei nemici dell’Islam, che hanno insultato il Profeta

(Maometto) con i film o con vignette” e i musulmani devono

sforzarsi di “isolare, assediare, e per dirlo apertamente,

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sradicare” questi “gruppi takfiri” [il Takfirismo è un movimento

settario fondato nel 1971 che definisce eretici tutti i musulmani

che non condividono il suo punto di vista, legittimandone così

l’uccisione].

Questa l'opinione di Assan Nasrallah (v.foto), capo di Hezbollah

(partito politico sciita del Libano), le cui milizie combattono al

fianco delle truppe lealiste nella guerra civile siriana, in un

discorso tenuto in occasione della commemorazione della

nascita di Maometto. Questi gruppi di sunniti, ha proseguito,

“pongono una minaccia al nostro sangue, al nostro presente, al

futuro, al nostro onore, e hanno cominciato a portare una

minaccia all’Islam stesso. Il comportamento dei gruppi takfiristi

che affermano di seguire l’islam ha dato una visione distorta della

stessa religione, del Corano e della nazione islamica più di quella

fornita dai nemici dell’islam che hanno insultato il profeta”.

“Come possono pretendere questi gruppi di rappresentare l’Islam

se decapitano, sventrano e massacrano la gente e in Yemen

uccidono persone mentre commemorano la nascita del profeta?

Oggi la nostra nazione e la nostra religione si trovano ad

affrontare questa pericolosa minaccia”. In una nota inviata poi

alla TV al-Arabiya, Nasrallah ha ribadito che attaccare innocenti è

inaccettabile e deve essere condannato.

Anche Orhan Pamuk, intellettuale turco, (v.foto) si è schierato

contro il terrorismo. Sull'attentato di Parigi ha detto: ”Questo

attacco è un duro colpo per quelli che, come me, credono che i

musulmani possano vivere in pace accanto ai cristiani in Europa.

Questo attacco è un tentativo di uccidere questa speranza.”

Inoltre ha aggiunto che è fondamentale difendere la libertà di

parola, specialmente in un paese come la Turchia dove questo

diritto è limitato.

Se Nasrallah prende posizione contro gli estremisti, in Iran,

nazione sciita vicina ad Hezbollah, la Guida Suprema iraniana,

l’ayatollah Ali Khamenei, attacca i servizi di intelligence di paesi

“nemici” che, secondo la sua opinione, lavorano per dividere la

comunità islamica, alimentando le divisioni tra sunniti e sciiti. “Le

mani che seminano discordia tra sunniti e sciiti sono collegate ai

servizi di spionaggio dei nemici dell’islam”.

L’attentato terroristico di Parigi ha scatenato le reazioni della

comunità musulmana nel mondo e, se in Italia gli imam

condannano la strage nella redazione di Charlie Hebdo

sottolineando che la violenza mette a rischio soprattutto i fedeli

islamici, secondo Abdullah al-Athba, direttore di Al-Arab, il più

importante quotidiano del Qatar, quanto accaduto rappresenta

“una scusa della Francia per intervenire in Libia, quindi i

musulmani non devono scusarsi”. E ha poi aggiunto: “Non

scusatevi per un crimine che non avete commesso”.

… e noi? Nonostante non si trattasse del primo attentato in Europa e che il

livello d’allerta fosse alto sin da Natale, gli attentatori sono

riusciti nel loro intento, un attacco a due luoghi simbolo, la

redazione di un giornale satirico e un supermercato frequentato

da ebrei.

Un atto vile, oltre che crudele (non dimentichiamo infatti che le

vittime erano persone inermi). Un attacco alla libertà di tutti i

paesi democratici e civilizzati.

Su “La Repubblica” Ezio Mauro f irma l’editoriale e scrive: “Se

vogliamo che i morti di Parigi abbiano un significato morale e

polit ico anche per noi, oltre al significato simbolico e militare per

i terroristi, dobbiamo recuperare questa consapevolezza di ciò

che noi siamo. Si chiama Occidente, cioè quella parte della

cultura e del mondo che afferma di credere appunto nella

democrazia come pratica che regge la cosa pubblica e la

convivenza civile. Recuperata questa coscienza, dobbiamo

prendere atto che proprio a questa identità è stata dichiarata una

guerra.”

L'attacco è stato giustificato come un atto di vendetta in nome

del profeta Maometto; a nostro parere, però, non si è trattato

d'altro che di un tentativo disperato di far tornare a tremare

l'Occidente dall'ult imo grande attentato: l'11 settembre 2001,

l'ult imo in grado di mettere in ginocchio l'Occidente e l'unico in

grado di dimostrare che la grande potenza degli USA poteva

essere scalfita. L'evento ha rivelato il bisogno dell'Europa di

prepararsi concretamente ad eventuali attacchi terroristici, come

hanno già fatto gli Stati Uniti dopo l’ attentato del 2001. Occorre

peraltro ricordare che molti dei gruppi ribelli anti Assad, che poi

hanno dato vita all’ISIS, sono stati inizialmente sostenuti da

governi occidentali, in primo luogo gli USA.

Fino a che le grandi potenze continueranno a fomentare squilibri

mondiali e soluzioni belliche, quasi sempre per nascosti interessi

geopolit ici ed economici, la situazione continuerà a rimanere

instabile. E’ possibile e doveroso chiamarsi fuori da questo

scontro, provando a costruire ponti tra popoli, religioni e culture,

invece di acuire le divergenze.

Ma ora l’Occidente sarà costretto ad agire, anche se la via

militare non è l’unica e forse non sarebbe risolutiva in un

contesto così complesso.

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Charlie Hebdo:

la reazione popolare

Parigi: il mondo in piazza Domenica 11 gennaio 2015, la popolazione parigina è scesa in

piazza per dare il via alla più grande manifestazione di tutti i

tempi: leader politici di tutta Europa hanno affiancato il

presidente francese in una manifestazione silenziosa - da Place

de la Republique a Place de la Nation - a cui hanno preso parte

due milioni di persone, facendo di Parigi “la capitale del mondo

libero”. [“Il Giornale”]

In testa al corteo i sopravvissuti al massacro e i familiari delle

vittime. Nella foto, con la fronte bendata, il disegnatore Luz, che

realizzerà la prima copertina di Charlie Hebdo dopo l’attentato,

con Maometto che piange.

Tra la folla erano presenti anche numerosi bambini che

portavano al collo cartelli disegnati da loro: “Chi uccide è un

pazzo”, “I cattivi non ci fanno paura”. Altri slogan recitavano

“L’ Humanité avant la Réligione” o “Osiamo vivere insieme”. Ma

quello più diffuso era “Je suis Charlie”, scritto ovunque.

Il simbolo più presente naturalmente era la matita: matite vere,

di cartone, piccole o gigantesche, hanno dominato la

manifestazione.

Altre manifestazioni

Manifestazioni si sono tenute in altre città della Francia e

dell’Europa. Nelle foto sotto la manifestazione dei francesi

residenti a Parma e quella dei ragazzi musulmani di Treviso.

Nonostante si sentisse offesa dalle vignette di Charlie Hebdo,

una buona parte della popolazione musulmana infatti si è

discostata dai terroristi, criticando ciò che è successo e

condannando l'uso della violenza come arma per rispondere a

un'offesa.

In particolare Parma è stata palcoscenico di una manifestazione

della comunità musulmana locale con circa 400 partecipanti.

In segno di rispetto e di solidarietà verso la Francia, il Comune di

Parma ha deciso di esporre il vessillo francese in Municipio,

insieme a quello civico. Entrambe le bandiere rimarranno a

mezz'asta in segno di lutto.

La sera dell' 8 gennaio circa 150 persone si sono riunite in Piazza

A cura di: Alina Jvanylo, Alessandro Pasqua, Dario Reverberi, Riccardo Riva, Federico Sello, Davide Zecca (III D 2015) Bibliografia e sitografia: Parigi, Charlie Hebdo: condanna internazionale, 7

gennaio 2015 http://www.repubblica.it/esteri/

Parigi: attacco armato giornale Charlie Hebdo almeno 10

morti 5 feriti , 8 gennaio 2015

http://www.ilfattoquotidiano.it/

http://www.reset.it/rassegna-stampa-italia/siamo-tutti-

charlie

Page 9: Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

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Garibaldi dove Cgil, Cisl e Uil, appoggiati anche da altri sindacati,

hanno organizzato una manifestazione per ricordare le persone

uccise in nome di una follia terrorista, fondamentalista e

vigliacca. “La manifestazione era importante per testimoniare

solidarietà nei confronti dei familiari delle vittime e per dire che

anche Parma si ribella all'attacco di Parigi”. Queste sono le parole

di Paolo Bertoletti, in piazza in rappresentanza della Cgil, critico

anche verso l'intervento di un gruppo di manifestanti che hanno

espresso una condanna verso un Occidente che sfrutta gli

immigrati.

“Matite in alto. Per la libertà d'opinione”. È questo il titolo che

sulla Gazzetta di Parma apre l'articolo dedicato alla

manifestazione che i ragazzi delle sezioni musicali del liceo Attilio

Bertolucci hanno organizzato la mattina dopo l'attentato. Oltre a

voler dimostrare il loro impegno affinché non si ripetano massacri

del genere, i docenti, preoccupati dal fatto che molti giovani

potrebbero cadere in facili reazioni contro i propri compagni

islamici, affermano che è importante impegnarsi affinché non si

generi una “guerra” contro la comunità islamica.

Pino Agnetti sulla Gazzetta sostiene che, proprio perché la nostra

città vanta un rapporto speciale con Parigi e più in generale con la

Francia, sarebbe stato necessario anche un gesto che andasse

oltre le manifestazioni spontanee, come la proclamazione di una

giornata di lutto cittadino da accompagnare con altri gesti

simbolici , e non lasciare cadere troppo in fretta lo slogan “Je suis

Charlie”, ma farne la bandiera di una giornata di lutto. Queste

azioni non bastano certo a sconfiggere i terroristi, ma

servirebbero a superare divisioni e difficoltà interne che rischiano

di farci perdere questa guerra.

Sul web Nei giorni immediatamente successivi all'attentato sui social-

network si è diffuso l'hashtag "JE SUIS CHARLIE" in segno di

supporto per la redazione del giornale vittima dell'attacco:

milioni di utenti hanno condiviso foto e slogan aggiungendo

questo hashtag: i soggetti principali erano matite o musulmani,

uomini e donne, che esprimevano la loro estraneità all'evento e la

loro innocenza.

“Charlie Hebdo” va a ruba Il numero del giornale satirico stampato una settimana dopo

l’attentato, in cinque milioni di copie, va a ruba nelle edicole

francesi; tradotto in molte lingue o ripubblicato da giornali come

“Il Fatto quotidiano”, è presto esaurito anche nel nostro Paese e

subito ristampato.

La copertina, a sfondo verde con la scritta Tout est pardonné,

presenta un Maometto che piange e tiene in mano un cartello

con lo slogan “Je suis Charlie”.

Polemiche Una settimana dopo l’attentato di Parigi, il 14 gennaio 2015,

l’organizzazione terroristica Boko Haram ha sterminato 2000

persone nel nord della Nigeria. E’ la stessa organizzazione

responsabile del rapimento di più di 200 studentesse nigeriane.

Da più parti si è invocata una sensibilizzazione dell’opinione

pubblica mondiale pari a quella per la strage di Parigi. Ma ben

pochi sanno quello che è successo e che continua a succedere in

altri Paesi come il Pakistan, dove sono state distrutte dai talebani

decine di scuole e dove solo nel dicembre del 2014 i terroristi

hanno massacrato 141 persone, quasi tutti studenti figli di

militari. “An unequal world?” recita la vignetta qui sotto.

Certo va considerato l’alto valore simbolico della strage di Charlie

Hebdo, un attentato alla libertà di espressione nel cuore

dell’Europa democratica.

Reazioni psicologiche L'attentato ha provocato un clima di insicurezza generale, in

particolare nei parigini, molti dei quali si dichiarano favorevoli ad

una politica anti-immigrazione; temono soprattutto gli immigrati

delle banlieues, ritenuti pericolosi. (Cherif Kouachi era stato

arrestato durante un'operazione antiterroristica condotta nella

periferia parigina nel 2008). In realtà l'odio contro i magrebini ha

vecchie radici: risale infatti alla guerra d'indipendenza algerina

degli anni '60. Successivamente la Francia accolse migliaia di

immigrarti provenienti dalle ex-colonie: molti "stranieri" in

Francia sono cittadini figli di immigrati di seconda o terza

generazione. Gli atteggiamenti razzisti non si sono però spenti e

hanno in alcuni casi esasperato i figli degli immigrati a tal punto

da farli agire in modo violento: è il caso della rivolta delle

banlieues del 2005; dopo l'attentato a Charlie Hebdo le tensioni

sono riesplose, portando molti cittadini a guardare gli stranieri

con sospetto. Anche in Italia il pericolo dell’islamofobia è reale e solo la scuola e

la corretta informazione possono evitare il diffondersi di idee

false e controproducenti.

Le reazioni dei ragazzi Riportiamo alcuni testi di ragazzi di un liceo della nostra città, che

testimoniano la partecipazione alla tragedia e le tante domande

che si pongono i ragazzi come noi.

Il 7 gennaio “ogni cittadino civile è stato attaccato, colpito, offeso

dalla disumanità dell'odio più cupo e tremendo che si possa

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immaginare. […] Si parla di organizzazioni estremiste […]. E se il

problema fosse interno? Il disagio delle periferie che si riversa in

odio per il sistema. Non dimentichiamoci che dieci anni fa le

banlieues parigine andavano a fuoco. Solo un organismo può

evitare situazioni di questo genere: la scuola. Solo a scuola la

persona può prendere atto di valori che rimarranno indelebili

perché parte della sua educazione europea e laica. […] Solo con

progetti educativi di valorizzazione di quell'umanità offesa si

potranno evitare situazioni terribili come quelle vissute a Parigi."

[Stefano Bolzoni]

Francesca Parisi sottolinea che il tremendo attentato è accaduto

“nella città che non solo rappresenta il centro dell'Europa, ma è

simbolo della libertà di coscienza, pensiero e azione teorizzata

per la prima volta nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del

cittadino nel 1789. […] E’ una lotta, quella per la libertà, per nulla

conclusa.[…] Abbiamo capito che la guerra non è così lontana da

noi, al contrario è più vicina di quanto pensiamo. "

Purtroppo è così. Il 18 marzo 2015, quando stavamo per chiudere

questo numero unico, a Tunisi un attentato terroristico ad opera

di giovani forse tornati nel loro paese dopo aver combattuto in

Siria contro il regime di Assad (sono tremila i foreign fighters

tunisini) ha coinvolto anche cittadini italiani.

Reclutamento Isis

La presenza di jihadisti con passaporto dell’Unione Europea è

stata spesso sottovalutata e ridotta a un fenomeno isolato di

mancata integrazione. Dopo gli attentati a Madrid nel 2004 e a

Londra nel 2005, ma soprattutto dopo la diffusione su internet

dei video delle decapitazioni di prigionieri dall’estate del 2014, si

è capito che il problema coinvolge la seconda e terza generazione

d’immigrati. Gli assassini, infatti, parlano nei video in perfetto

inglese (o olandese o francese). L’inquietante sorpresa di

giovani, nati in occidente, pronti a partecipare alla Jihad , fa

nascere il desiderio di sapere chi sono i jihadisti europei, perché

sono partiti e come sono stati reclutati.

I disseminatori Il primo passo è il reclutamento ed avviene quasi sempre online

grazie ai «disseminatori» di Jihad ovvero volontari madrelingua -

francese, inglese o tedesco - che gestiscono forum attraverso cui

moltiplicano video e immagini e intercettano i simpatizzanti.

Sono centinaia, sfuggono ai controlli ed hanno piena libertà

d’azione dal Califfato, che ne sfrutta la motivazione ideologica

per infondere entusiasmo nelle reclute.

I siti web La radicalizzazione avviene, però, anche attraverso siti web e

pagine dei social network (Facebook, You Tube e Twitter per

esempio).Inoltre, l’uso di questi siti permette anche di abbassare

l’età media dei giovani reclutati, in genere dai 13-14 anni fino ai

ventenni. I siti sono preparati attraverso quella che potrebbe

essere definita una strategia di marketing: con l’uso sapiente

d’immagini e video si provocano le emozioni dell’utente, al punto

che il rifiuto della cultura occidentale - vista come traditrice e

infedele - e la partenza verso un teatro di guerra per portare aiuto

al fratello in difficoltà sembra l’unica soluzione possibile per un

vero credente.[cfr. su queste pagine l’articolo dedicato alla

strategia mediatica dell’Isis]

La prigione Un altro canale per la radicalizzazione e il reclutamento è la

prigione. Diversi jihadisti, che hanno combattuto all’estero o

compiuto attentati in patria, avevano abbracciato una versione

radicale dell’Islam in carcere. Le prigioni nel mondo in generale e

in Occidente in particolare sono divenute un terreno perfetto per

la predicazione e il reclutamento. I membri di gruppi islamisti

offrono amicizia e protezione a giovani condannati spesso per

reati minori, cominciando quel cammino che, alla loro uscita dalla

prigione, li porterà a brandire le armi contro una società che li ha

rifiutati e condannati.

Imam erranti Robert Musa Cerantonio, 29enne di padre calabrese e madre

irlandese, è uno dei più pericolosi imam itineranti in Europa.

Egli è lo stesso uomo che si fece una foto davanti alla basilica di

San Pietro con la bandiera di AlQuaeda; inoltre veniva accolto

come una star da molte comunità islamiche in Italia, fino

all’arresto, il 10 luglio 2014 nelle Filippine. Nell’agosto del 2014, in

Kosovo, è stato arrestato l’imam estremista wahabita Husein

Bilal Bosnic, dopo aver girato nel Nord-Italia.

Quest’ultimo è stato fondamentale nel processo di

radicalizzazione di Ismar Mesinovic, l’imbianchino che lasciò la

moglie e partì con il figlioletto di tre anni alla volta della Siria,

dove è morto lasciando il bambino nelle mani dell’IS.

A cura di: Alex Dalla Fiora, Nicola Pagani, Alessandro

Schianchi, Carlo Tanara (classe IV D 2014-2015)

Bibliografia e sitografia:

- P. Agnetti Parma metta il lutto per la strage di Parigi,

“Gazzetta di Parma” 9 Gennaio 2015

- Articoli di T. Giannotti e C. Rancati, “ Gazzetta di

Parma” 12 Gennaio 2015

-Atlante de la Repubblica, 19 gennaio 2015

- http://www.reset.it/rassegna-stampa-italia/siamo-

tutti-charlie

http://www.internazionale.it/storia/le-reazioni-in-tutto-

mondo-all-attentato-contro-charlie-hebdo

Page 11: Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

11

L’ «autostrada jihadista» Se un simpatizzante decide di partire per la Siria o l’Iraq, sale

quasi sempre su un volo per Istanbul o Ankara. La Turchia è

l’«autostrada jihadista» dal 2012 quando Ankara decise di

consentire il passaggio dei volontari anti-Assad. In particolare,

sono tre le città dove i volontari arrivano per essere presi in

consegna da cellule di Isis: Sanliurfa, Gaziantep e Adiyaman.

Si trovano ai confini con la Siria e alcuni hotel sono i punti di

incontro da dove partono le staffette per superarli. È la via che

ha consentito l’arrivo nel Califfato di almeno mille turchi e quasi

tremila occidentali, inclusi cinquanta o, forse cento, italiani.

L’addestramento Per chi arriva, la destinazione sono i campi di addestramento, di

cui i forum jihadisti diffondono i video. Si addestra all’uso di

kalashnikov, lanciagranate ed esplosivi, ma ci sono anche corsi di

corpo a corpo e indottrinamento ideologico. Si dorme sotto

tende dell’Us Army, rubate dall'Isis nelle basi dell’esercito

iracheno rifornito dagli americani. Chi termina l’addestramento

va a combattere a tempo indeterminato ma può decidere di

tornare nel Paese da cui è partito, per andare a trovare i

famigliari o per mettere a segno un piano definito, come i fratelli

Kouachi. Fra gli occidentali c’è chi cede allo stress e vorrebbe

disertare, ma la punizione del Califfo è feroce: fucilazione seduta

stante.

Il profilo del jihadista Ma chi è più sensibile al reclutamento? Esiste un profilo del futuro

jihadista?

Un recente studio fatto dall'agenzia No-Profit, Centre for the

Study of Radicalisation, ha eliminato l’immagine del terrorista

come povero, proveniente da classi disagiate e senza grandi

prospettive.

Alcuni degli autori di azioni terroristiche legate alla Jihad avevano

completato studi universitari e la maggior parte degli arrestati in

Europa per azioni terroristiche aveva un lavoro fisso. Quindi non

appare possibile definire una classe sociale di provenienza dei

reclutati europei. Secondo Edwin Bakker, esperto di terrorismo

del Clingedael, le tre categorie di persone più vulnerabili al

reclutamento jihadista sono:

1. nuovi immigrati

2. seconda o terza generazione d’immigrati

3. neoconvertiti

Il primo gruppo racchiude coloro che provengono dal Nord Africa

o dal Medio Oriente e arrivano in Europa come studenti o

rifugiati. In alcuni casi erano già stati sfiorati dalla

radicalizzazione jihadista, mentre altri si sono avvicinati al

jihadismo dopo l’arrivo in Europa.

Il secondo gruppo raccoglie i figli o i nipoti d’immigrati giunti in

Europa alla ricerca di un lavoro o di sicurezza. La maggior parte di

loro possiede un passaporto europeo e parla perfettamente la

lingua del Paese di residenza. Il terzo gruppo racchiude i

neoconvertiti che si avvicinano a una visione radicale dell’Islam

dopo essere diventati musulmani.

Una crisi di identità Secondo Kenan Malik, intellettuale indiano residente in Gran

Bretagna, ”l'islamismo radicale non è un movimento religioso,

ma è il modo in cui alcuni gruppi esprimono la loro barbarica

rabbia politica utilizzando a questo fine una certa interpretazione

della religione. I giovani jihadisti crescono estraniati dalla società

nelle nazioni europee nelle quali sono emigrati i loro genitori.

Ma la stessa cosa avviene anche nelle comunità dei Paesi

musulmani. Molti detestano costumi e tradizioni delle loro

famiglie: il motivo per cui si sentono disconnessi tanto dalle

società occidentali quanto dalle comunità musulmane e

abbracciano l'islamismo radicale non è religioso. Ha più a che fare

con una loro crisi d'identità. La jihad dà loro un senso di

appartenenza, una nuova identità: si riconoscono in obbiettivi

comuni spaventosamente chiari.”

Numeri Nel 2014 i numeri stimati degli stranieri trasferiti in Siria per

combattere a fianco dell'ISIS sono: più di 800 dalla Russia, più di

700 dalla Francia, circa 500 dal Regno Unito, 300 dalla Germania,

250 dall’Australia e dal Belgio, 120 dall’Olanda, più di 100 dagli

Stati Uniti, 100 dalla Danimarca, 50 dalla Norvegia e dall’Italia, 30

dall’Irlanda e dalla Svezia. 1400 europei che combattono in Siria.

Alcuni dei 50 italiani sono rientrati in patria dopo aver ricevuto

l'addestramento da parte dei terroristi e svolgono servizi di

logistica reclutamento. L'80% di loro non sono figli di immigrati,

ma italiani convertiti da poco all'Islam.

Page 12: Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

12

Un articolo dell’11 marzo 2015 segnala più di 3000 foreign

fighters che combattono in Iraq e Siria, di cui 65 partiti dall’Italia.

La cosa che più preoccupa oggi è che cerchino di rientrare nei

Paesi da cui sono partiti o in altri dell’area Shengen.

Isis: la strategia mediatica

L'Isis è riuscito a sfruttare televisione, internet e social network al

f ine di diffondere, attraverso immagini e video, il suo messaggio

che incita alla guerra santa e alla lotta contro i “crociati”.

Attraverso un efficiente e particolare sistema narrativo

semplifica e distorce la realtà, al f ine di dare un volto nuovo ai

nemici e creare un mondo in bianco e nero, dove loro

rappresentano il bene assoluto e tutt i gli altri il male. Infatti l'Isis,

allo stesso tempo, terrorizza i suoi nemici e recluta nuovi adepti

mostrando i vantaggi di militare nelle sue f ile.

1. Reti televisive Nel 1996 una nuova rete televisiva araba con sede in Qatar, Al

Jazeera, [il nome significa in arabo “isola, penisola”, e indica

solitamente l’Arabia Saudita] inizia a mandare in onda i suoi

programmi, “sconvolgendo lo spazio mediatico arabo, f ino a

quel momento frammentario, gestito da vari Paesi, o meglio da

varie dinastie interessate a conservare il proprio potere e a non

indispettire troppo il loro partner economico occidentale”. La

nuova rete di informazioni mostra le contraddizioni interne al

mondo arabo e i suoi problemi. Una delle questioni principali è

quella palestinese, la quale è diventata simbolo dell'ingiustizia

inflitta al mondo islamico da un ordine mondiale dovuto e

controllato dal quello occidentale. A differenza di molti altri

paesi islamici, che non mostrano mai Israele, Al Jazeera accoglie

spesso rappresentanti israeliani o intellettuali polit ici; in questo

modo viene dato un volto ad un "nemico", che è forte e potente e

questo rende più urgente la necessità di combatterlo.

Al Jazeera utilizza anche il potere evocativo delle immagini e

contribuisce a creare nuove mitologie. Ogni arabo, se muore è un

“martire”, mentre i morti occidentali e israeliani sono solo

“morti”. Il primo è l’incarnazione del vero e del giusto, il secondo

invece appartiene per sua natura all’universo del male e della

menzogna. Questo schema narrativo semplif ica e distorce la

realtà, ma ha un grande impatto sul pubblico.

La rete televisiva ha svolto e continua a svolgere un ruolo da

protagonista nella diffusione di f ilm e video delle agiografie post

mortem dei martiri per diffondere il loro messaggio, che incita

alla guerra santa e alla lotta contro i “crociati”. La nascita di stazioni Tv satellitari non ha significato un

cambiamento radicale nelle trasmissioni televisive arabe, anche

se ha moltiplicato la varietà delle trasmissioni, in quanto esse

ricorrono spesso alla demagogia, alla deformazione e

all’allarmismo che servono ad infiammare lo spettatore e trarlo

in inganno.

Per esempio Al Arabiya è un'emittente televisiva degli Emirati

Arabi Uniti, con sede a Dubai, fondata il 3 marzo 2003. L'emittente è nata da un f inanziamento di 300 milioni di dollari

statunitensi da parte dei proprietari della MBC (Middle East

Broadcasting Center), il gruppo libanese Hariri Group, più altri

investimenti dall'Arabia Saudita, Kuwait e dal Golfo Persico; nata

per contrastare la supremazia di Al Jazeera, la combatte usando

le sue stesse armi, cioè la tempestività nel fornire notizie e la

trasmissione dei f ilmati forniti dai militanti islamici che

compiono attentati o rapimenti.

2. Internet La nuova generazione di terroristi diffonde i suoi messaggi

soprattutto su internet, anche se poi le TV di tutto il mondo ne

riprendono i più scioccanti.

Già nel 2004 uno studioso analizzò sulla rivista di geopolitica

Limes quello che definiva “il Jihad elettronico”. Numerosi «siti

islamici» che “ trattano l’islam sotto i suoi diversi aspetti:

dottrinale, legale, storico, sociale, economico, culturale e

politico. È da questi portali generalisti che ci si avvia

all’esplorazione del jihad raccontato su Internet. Centinaia di siti,

di nomi, di link, di dati in arabo (lingua privilegiata dell’islam in

quanto lingua del Corano) costituiscono le trame di un intricato

tessuto nel quale si rischia facilmente di perdersi. Ma in questa

rete nella Rete è possibile comunque distinguere tre diverse

tipologie di siti: quelli che diffondono il pensiero dei vari

predicatori musulmani, quelli esplicitamente più militanti, anche

detti «jihadisti» e, infine, quelli che ospitano i «forum islamici».

Dopo la diffusione nell’estate del 2014 dei video delle

decapitazioni di prigionieri da parte dell’Isis, è balzata

all’attenzione mondiale l’abilità del califfato nel gestire un

efficiente apparato comunicativo e nell'utilizzare varie tecniche

per diffondere i propri messaggi sul web, secondo una precisa

strategia. Il messaggio è strutturato in due parti: la prima

consiste nello spaventare i nemici, nel sottolineare che nessuno è

A cura di: Giulio Cabrini & Matteo Cobianchi

(III D 2014-15)

Bibliografia e sitografia:

M.Venturini, Le tecniche psicologiche per reclutare gli

italiani, 26-8-2014 http://www.ilfattoquotidiano.it/

V.Piccolillo, Giovani e convertiti, chi sono i 50 italiani

dell’Isis, 14-8-2014 http://www.corriere.it/cronache/

D.Ferri, Come i jihadisti di Isis richiamano alle armi gli

europei, 27-6-2014 http://www.giornalettismo.com/

C.Cruciani, Isis, soldi e propaganda antioccidentale per

reclutare nuovi adepti, 7-1-2015 http://ilmanifesto.info/

M.Gaggi, La crisi di identità dei giovani musulmani in Noi

e l’Islam, “Corriere della Sera”, Milano, febbraio 2015

p.243

Page 13: Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

13

davvero al sicuro; la seconda invece punta ad ottenere nuovi

adepti. Per realizzare la prima vengono utilizzati principalmente

video di decapitazioni, per la seconda la tecnica è più sofisticata

e consiste nel mostrare i vantaggi del guerriero pubblicando foto

di piscine, ville di lusso e così via.

Viene inoltre mostrata la vita quotidiana di città controllate dal

Califfato, come Mosul in Iraq, rappresentate come organizzate e

civili e non oppresse da un regime oscurantista.

Hanno fatto scalpore in Occidente i servizi realizzati dall’inglese

John Cantlie, ostaggio dall’autunno 2012, che magnificano la vita

sotto il Califfato.

Queste attività sono coordinate da Ahmad Abousamra, ritenuto

lo stratega della comunicazione digitale dell'Isis.

L'Isis ha dimostrato di possedere sofisticate telecamere ad alta

definizione, di non tralasciare nessun dettaglio nei suoi video e di

aver imparato a sfruttare tutte le applicazioni più diffuse:

JustPaste per pubblicare i resoconti delle battaglie, SoundCloud

per gli audio, Instagram per le immagini, Whatsapp per grafici e

foto.

Una propaganda efficace e costosa, possibile anche grazie alla

nota ricchezza del Califfato.

Uno dei successi mediatici è stato il clip della decapitazione del

reporter americano James Foley, la cui ampia diffusione online ha

scatenato numerose polemiche. I jihadisti hanno reso fotogenica

una decapitazione in mezzo al deserto, con video e audio così

perfetti da sollevare dubbi riguardo alla veridicità delle

immagini. Di conseguenza, nonostante il contenuto atroce poco

"condivisibile", il video ha raccolto tantissime "condivisioni" e "mi

piace": non soltanto un appello all'Occidente, ma un "ottimo"

contenuto social.

Il primo intento della loro comunicazione infatti non è intimidire,

ma richiamare nuovi combattenti: una strategia efficace,

considerato che sono almeno 3000 i miliziani arrivati a

combattere da varie parti del mondo occidentale, tra i quali più

di 50 italiani.

La differenza tra i messaggi e gli articoli in arabo e quelli diffusi

in inglese, rivolti a una più ampia audience internazionale, è

considerevole. In lingua araba i miliziani si richiamano al dovere

islamico di unirsi alla missione jihadista; in inglese sostengono

che arruolarsi sia la chiave per una vita migliore. L'Isis ora sprona i

propri miliziani a bruciare i passaporti occidentali per stabilirsi

definitivamente nel nuovo stato islamico. [Nella foto, tratta da

un video di You Tube del settembre 2014, giovani miliziani

strappano il loro vecchio passaporto e lo bruciano: un rito di

passaggio che sancisce l’entrata dei nuovi jihadisti nello Stato

Islamico]

La maggior parte dei media si è concentrata solo sull'aspetto più

crudo della comunicazione dell'Isis, contribuendo ad alimentare il

terrore, ma la strategia mediatica dell’Isis ha molte facce.

3. Jihad 2.0

Gli attacchi informatici Dopo gli attacchi armati, l'ISIS e al Qaeda puntano su quelli

informatici. Arruolano hacker esperti, cresciuti in Occidente, che

utilizzano i social network alternativi per diffondere i suoi

proclami e i suoi messaggi.

A una settimana dagli attentati di Parigi, una serie di individui e

piccoli gruppi aveva già iniziato a colpire i suoi sit i web. Sotto la

bandiera di “OpFrance” l’ondata di attacchi informatici si è

protratta per alcuni giorni coinvolgendo sit i e giornali. “Sedicenti

affiliati al Califfato sono entrati nel profilo Twitter del quotidiano

americano Albuquerque Journal, postando un messaggio

minaccioso: “Siamo già qui, nei vostri Pc e nelle vostre case”.

Destino simile per la homepage della Malaysia Airways, su cui è

apparsa una scritta quasi ironica: “Errore 404-aereo non trovato.

Isis vincerà”.”

“Ma il raid più grave, simbolicamente, è quello avvenuto contro

gli account Twitter e Facebook del Comando Centrale delle

truppe Usa a Tampa. Anche qui sono comparse frasi come: “Lo

Stato Islamico vi insegue” e “guardatevi le spalle”. Nel caso

francese ad agire è stata una rete informale di squadre (crew) e

singoli, noti come AnonGhost, hacktivisti simili ad Anonymous,

che pubblicizzano i loro attacchi nei loro account Facebook e

Twitter.

Fondamentali sono gli hashtag: conquistando una città dopo

l’altra, Isis ha dimostrato che la guerra viene combattuta sia per

la conquista del territorio che della narrativa del messaggio. Due

sono stati quelli più utilizzati da quando Isis ha fatto la sua

comparsa: #Baghdad_is_liberated” and “#Iraq_is_ liberated”.

In Occidente si è cercato di porre freno al successo mediatico

della propaganda jihadista. Account e pagine vengono chiuse

regolarmente, sono stati lanciati hashtag del t ipo

#ThinkAgainTurnAway o #ISISMediaBlackout.

Ma ai contrattacchi social occidentali corrispondono decine di

altri hashtag lanciati dall'Isis: il 7 agosto 2014, dopo che il

Presidente Usa Obama dichiarò che avrebbe inviato degli aerei in

Iraq, su twitter è partita la campagna #AMessageFromISIStoUS,

con numerose minacce di ritorsioni agli Stati Uniti.

In alcuni casi, emerge anche un sostegno indiretto all’Isis da

parte di hacker musulmani scontenti della reazione francese alle

stragi. “OpFrance nasce per vendetta per come gli infedeli

(kuffar) si comportano con i musulmani e con l’Islam”, ha

spiegato a “l’Espresso” l’amministratore dell’account Twitter

Unite Islamic Cyber Force, aggiungendo di non avere connessioni

con l’Isis ma di sostenere il suo operato, arrivando a giustificare

le uccisioni di chi insulta il Profeta.

Gli attacchi informatici, come quello del sedicente Cyber

Caliphate, che ha infiltrato il profilo Twitter del comando

centrale del dipartimento della Difesa Usa, sono in realtà metodi

per dimostrare non tanto le abilità degli attaccanti, ma

Page 14: Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

14

soprattutto l’assenza di capacità negli attaccati. I gruppi

terroristici sono più interessati agli effetti sociali e polit ici delle

loro azioni online (propaganda e reclutamento) che a colpire

infrastrutture crit iche.

Il livello di hacking attuale dell’Isis è ancora abbastanza basso ma

potrebbe migliorare rapidamente. Oltre alla propaganda sui

social media, soprattutto su Twitter, l’Isis è impegnato a

insegnare ai propri militanti misure per proteggere la loro

identità online, creando siti protetti per scambiare messaggi

criptati in arabo e in inglese. Inoltre l'Isis sta progettando di

hackerare i canali televisivi occidentali e di infiltrarsi nella

versione russa di Facebook per estendere la propria propaganda

a nuovi mezzi. Molti utenti che utilizzavano celebri social

network per postare messaggi, immagini e video diffusi dal

gruppo terrorista islamico hanno visto il loro account sospeso.

L'Isis – scrive il Daily Mail – si è quindi sentita costretta a

pianificare una nuova strategia per veicolare i propri messaggi

propagandistici.

Una nuova strategia Come spiega il sito Usa Vocativ, cinque sono i pilastri della nuova

strategia. Nel primo e nel secondo viene teorizzata la necessità di

reindirizzare le comunicazioni su altre piattaforme che non siano

Twitter e YouTube. Al terzo punto si ipotizza addirittura la

costruzione di un server alternativo che possa gestire le

comunicazioni dello Stato Islamico. Poi, l’invito a sabotare i canali

televisivi occidentali perché immorali e a trovare un mezzo

alternativo alla piattaforma JustPaste per la pubblicazione dei

comunicati.

I social più sfruttati dai jihadisti

I jihadisti quindi preferiscono Google+ e Linkedin, social

network molto utilizzati ma meno sotto i riflettori. Su G+ inoltre

vengono sfruttate le funzioni di Picasa per la condivisione di

immagini e il Google Calendar per segnare le battaglie. Su

Linkedin, invece, è stato creato un profilo con l’elenco di tutti i

leader di Isis, compresi i caduti in battaglia. Altro social network

utilizzato è VKontakte, seconda piattaforma per numero di

utenti in Europa e assai diffuso in Russia. Qui sono stati

letteralmente trasferit i gli account di Twitter facendo copia e

incolla di cinguettii e link. E in poche ore sono stati recuperati i

seguaci persi.

Un modo di ovviare alla censura di Twitter e Facebook è stato

spostare la propaganda Isis su Diaspora, social nato nel 2010 a

impianto decentralizzato e aperto: conta un milione di utenti ed

è basato sulla creazione di “nodi” sociali decentralizzati –

chiamati Pod – che possono essere creati dagli utenti stessi e su

cui il social network non ha alcun controllo. Questo consente

quindi all’Isis di agire indisturbato, senza temere ripercussioni o

censure. Proprio in virtù della sua "apertura", infatti, non è

possibile rimuovere o censurare i contenuti degli utenti, quando

sconvenienti o pericolosi. I mezzi di comunicazione digitali

diventano quindi il veicolo ideale per comunicare la propria

versione dei fatti, il proprio messaggio e per reclutare nuovi

partecipanti alla guerra contro gli infedeli. Permettono infatti di

diffondere messaggi univoci, senza filtri e comunicare

direttamente con la propria fan base, senza che questa ne metta

in discussione la veridicità.

E’ stato da poco pubblicato uno studio (The Isis Twitter Census)

sulla demografia dei supporter del Califfato su Twitter: chi sono,

quanti sono e se prendono parte alla propaganda dell’Isis in

modo coordinato e strutturato. Inoltre i due autori si chiedono

quanto sia efficace la sospensione degli account pro-Isis.

“Ogni giorno ci sono più di 133mila tweet da 46mila profili, di cui

oltre 1.500 condividono 50 e più contenuti pro-jihad. Il jihadista

online tipico fa una media di 7 tweet al giorno, in tre casi su

quattro in arabo, e in uno su cinque in inglese e raggiunge la

media di 1004 follower. Buona parte dell’attività è riconducibile a

circa 79 utenti iperattivi dotati di un numero di profili Twitter che

oscilla fra i 500 e i 2000.”

Le cancellazioni dei profili secondo gli autori sono poco efficaci,

anche se hanno portato l’hastag preferito dal gruppo (il suo nome

in arabo) da 40mila tweet al giorno in settembre a 5mila a

febbraio. Sarebbe necessario che le cancellazioni raggiungessero

la struttura profonda della propaganda Isis su Twitter e che

”fossero le stesse piattaforme social ad adottare polit iche di

contrasto più mirate e consapevoli”. D’altra parte dai tweet si

possono ricavare molte informazioni utili, come i profili più

pericolosi per la propaganda e gli spostamenti dei jihadisti.

In conclusione, la nuova guerra non verrà combattuta

esclusivamente militarmente e per il controllo del territorio.

L’Occidente dovrà combattere anche per il controllo di internet,

da cui da un lato ricaverà informazioni utili alla lotta contro i

jihadisti, dall’altro dovrà arginare la diffusione virale della

propaganda, contrastando il reclutamento di nuovi adepti e

sostenitori.

4. Anonymous

Subito dopo gli attentati di Parigi viene caricato su Youtube il

video di rivendicazione di Coulibaly, uno dei terroristi. Ma

contemporaneamente entra in azione contro i sit i jihadisti

Anonymous:

WE are Anonymous

We are Legion

We do not Forgive

We do not Forget

Expect Us

Page 15: Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

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A cura di: Leonardo Bertini, Pietro Toso, Alessandro Dalla Chiesa (III D 2014-15) Bibliografia: - J. L. Esposito, Guerra santa? Il terrore in nome dell'Islam. V&P Università, Milano 2004

- G.Sale, Islam contro Islam, Jacka Book, Milano 2013

- M.Mari, La guerra della narrat iva: perché è così eff icace la comunicazione mediat ica dell’ISIS, 26 settembre 2014, chefuturo.it

- C.Piotto, Isis, propaganda 3.0. Tweet poliglott i, video in hd e riviste tradotte in inglese per diffondere i messaggi dei jihadist i all'Occidente, L'Huffington Post, 2 settembre 2014

- C. Frediani, Se il terrore corre sul web, L'Espresso, 5 Febbaraio 2015, pagine 60-61. - M. Schiaffino, Charlie Hebdo, Anonymous non si ferma: quinto giorno di attacchi ai siti jihadisti, 13-1-2015 http://www.ilfattoquotidiano.it/

- M. Serafini, G+ e LinkedIn, la nuova strategia di Isis in rete e sui social network, Corrriere della Sera, 25 agosto 2014. - F.Chiusi, La cyberguerra del Califfato, in “La Repubblica” 23 marzo 2015, p.17 L. Trombetta, Il jihad elettronico, in “Limes” n° 1,

2004 pp.43-51

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/isis-nuovo-

video-propaganda-lostaggio-magnifica-califfato-

1080156.html

http://vocidalsuq.tgcom24.it/2014/09/25/vita-nel-

califfato /

http://www.games969.com/wp-

content/uploads/2015/02/Anonymous1.jpg

Chi sono Anonymous è un fenomeno di Internet che identif ica singoli

utenti o intere comunità online che agiscono anonimamente - in

modo coordinato o anche individualmente - per perseguire un

obiettivo concordato.

Il termine viene utilizzato pure come "firma" adottata da gruppi

di hacktivisti, che intraprendono proteste e altre azioni sotto

questo appellativo f itt izio.

Il fenomeno, nato nel 2003, si ispira alla pratica della

pubblicazione anonima di immagini e commenti su internet.

Il concetto, inteso come "identità condivisa", si sviluppa nella

imageboard [sito che si basa sulla pubblicazione di immagini] di

lingua inglese 4chan dove il nickname "Anonymous" viene

assegnato ai visitatori che commentano senza identif icarsi.

Gli utenti delle imageboard cominciano ad identif icare

Anonymous con una persona reale e si diffonde così

l’idea di un collettivo di individui senza nome, in lotta contro

ingiustizie e poteri forti.

Cosa fanno contro il jihad

L’operazione lanciata da Anonymous (hasthtag

#OpCharlieHebdo) ha lo scopo di mappare tutte le informazioni

che si trovano sui siti legati agli estremisti e denunciare in modo

virale sui social gli account di jihadisti e terroristi, in modo che

vengano oscurati.

Una battaglia combattuta con attacchi che rendono

irraggiungibile il sito saturando la connessione (DDOS,

Distributed Denial of Service) o che portano al defacement, cioè

la sostituzione del contenuto dell’home page, per esempio con

vignette satiriche.

“Al quinto giorno di mobilitazione, sul canale IRC di Anonymous

dedicato all’operazione ci sono 400-500 utenti connessi, che

discutono delle azioni e si scambiamo consigli su come muoversi

per colpire i bersagli prescelti. […] Nel mirino oggi c’è

Kavkazcenter.com, un sito di news vicino all’estremismo islamico

che oggi, per esempio, ospita in home page un articolo con le

dichiarazioni del principe Charles-Philippe d’Orleans che prende

le distanze dalla campagna “Je suis Charlie” definendo Charlie

Hebdo un “volgare fogliaccio” espressione di una società

composta da “atei sinistrorsi”.[…]

Dove Anonymous può fare davvero danni alle organizzazioni

estremiste, è nel “deep web”, quella parte di Internet accessibile

solo attraverso il circuito Tor (software per la navigazione

anonima, ndr) e che viene usata, oltre che da dissidenti,

politici, giornalisti e attivisti per i diritti umani che agiscono in

paesi governati da regimi che controllano il web, anche dalle

organizzazioni clandestine legate all’Isis e ad altri gruppi

estremisti. Difficile, però, che si abbiano notizie “ufficiali”

riguardo questa parte dello scontro”.

Page 16: Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

16

Origini estremismo

Cause La nascita dei movimenti terroristici di matrice islamica nella

seconda metà del ‘900 è legata a diversi fattori. 1.Le ripetute

sconfitte degli arabi, a partire dalla dissoluzione dell’ultimo

Califfato, quello ottomano nel 1924. 2. La sudditanza politica da

Europei e Americani: i confini degli stati del Levante, della

Penisola Araba e del Maghreb sono stati disegnati in modo

artificiale e sono stati vissuti come un’imposizione delle potenze

coloniali per dividere l’intera umma, cioè la comunità dei

credenti. 3. Lo sfruttamento occidentale delle risorse petrolifere

di alcuni Paesi dell’area. Negli anni '50, così, nacque, ad opera di

alcuni intellettuali arabi, il progetto di rifondazione di uno stato

islamico analogo a quello creatosi dopo la morte di Maometto.

In questo scontro il concetto di jihad ha un ruolo chiave: viene

infatti strumentalizzato per legittimare le azioni contro

l'Occidente [vedi il glossario alle pagine seguenti]. Nel Corano,

tuttavia, esistono regole precise riguardo il jihad, che i terroristi

non rispettano: tra queste la proibizione di uccidere gli inermi, di

maltrattare i prigionieri, di danneggiare le case.

Uno degli esempi più noti di jihad (difensivo) è quello della

resistenza armata dei mujaheddin durante l'invasione russa

dell'Afghanistan (1978-1992, nella foto sotto mujaheddin in

Afghanistan nel 1984 ). Tra i guerriglieri vi erano anche alcuni

uomini che fonderanno movimenti terroristici, tra cui Osama Bin

Laden, che progettò l’attacco alle Torri Gemelle dell’11

settembre 2001.

Da singoli attentati e tentativi limitati di fondare Stati jihadisti,

come quello dei talebani in Afghanistan, si è ora passati ad un

progetto politico ambizioso: rifondare l’unità dell’Islam come

all’epoca di Maometto, quando non c’erano divisioni. E’ questo

l’intento dell’IS, lo Stato Islamico proclamato da Abu Bakr al

Baghdadi il 29 giugno 2014 (v.foto pagina seguente)

Come scrive Maurizio Molinari, nel recente saggio Il Califfato del

terrore, si è passati da una guerriglia rivoluzionaria a “una

dittatura con progetti di conquista globali”, che l’autore

paragona a quelli di Stalin e Hitler.

Principali movimenti terroristici

1.Al Qaeda Dopo la guerra in Afghanistan, Bin Laden fonda Al Qaeda, che

comincerà ad acquisire notorietà compiendo attentati contro

simboli del potere occidentale, come le ambasciate. Il

movimento si sviluppa progressivamente e accoglie seguaci da

tutto il mondo. Nel corso della sua attività, Al Qaeda ha compiuto

decine di attentati in paesi di quattro diversi continenti, tra cui

USA, Regno Unito, Somalia, Indonesia.

Dopo l'attentato dell'11 Settembre 2001, Osama Bin Laden

diventa il ricercato numero uno dei servizi segreti americani che,

dopo anni di ricerche, riescono a scovarlo ad Abbottabad, in

Pakistan, dove il terrorista viene ucciso il 2 maggio 2011.

Dopo la sua morte il comando passa ad Ayman al Zawahiri, ma

il movimento è in crisi per le perdite subite e per l’avanzata di altri

gruppi terroristici, come Boko Haram e Isis, che alla lotta contro

l’Occidente affiancano progetti territoriali. Recentemente

Ayman al Zawahiri ha lasciato liberi i suoi seguaci di aderire all’Is.

2.Boko Haram Lo scopo di Boko Haram (nome che significa ”l’educazione

occidentale è sacrilega, è proibita”) è quello di costituire uno

stato islamico nel nord della Nigeria, dove da anni compie

sanguinose azioni militari contro i cristiani e tutti quelli che

vengono ritenuti vicini all'occidente.

Il movimento minaccia anche gli stati limitrofi, che si sono

coalizzati con il governo nigeriano per contrastare i terroristi. Fra

le azioni più note dei guerriglieri di Boko Haram il rapimento nel

2014 di più di 276 studentesse nigeriane, quasi tutte ancora oggi

nelle mani dei terroristi, e il massacro di 2000 persone nel nord

della Nigeria una settimana dopo l’attentato di Parigi, il 14

gennaio 2015.

3.Isis (IS) Il movimento che mira alla creazione di uno stato islamico in Iraq

e nel Levante fu fondato dal terrorista Abu Mus'ab al Zarqawi,

capo di Al Qaeda in Iraq, ucciso in un raid americano nel 2006.

Nel 2010 la sua eredità fu raccolta da Abu Bakr al Baghdadi, che

riorganizzò il movimento e ne ampliò il progetto.

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17

Approfittando dei disordini creati in Siria dalla primavera araba

(2011), infatti, l'organizzazione, ribattezzata Isis (Stato Islamico

in Iraq e in Siria), ottenne sostegno militare e finanziario da parte

degli stati che appoggiavano i ribelli anti-Assad. L'obiettivo

dell'Isis, tuttavia, non era quello di combattere il dittatore siriano:

già nel 2012 i militanti dell’Isis operavano una guerra di conquista

territoriale attaccando villaggi, eliminando gli oppositori e poi

lasciando delle guarnigioni con il compito di amministrare i

territori conquistati. Attuavano quindi l'islamizzazione dell' area

attraverso l'imposizione della shari'a e ricostruivano acquedotti,

ponti, scuole. Nello stesso periodo alimentarono le tensioni tra

sunniti e sciiti in Iraq con ripetuti attentati contro gli sciiti,

minoranza al potere nel Paese e malvista dal resto della

popolazione.

Le azioni dell' Isis divennero di dominio pubblico a livello

mondiale nel giugno 2014, quando il grosso delle forze dello

Stato islamico ( circa 15000 uomini) attaccò una guarnigione

dell'esercito iracheno e occupò Mosul, seconda città irachena, e si

espanse fino alla piana di Ninive, provocando la fuga della

comunità cristiana. Il 29 giugno 2014 Al Baghdadi diffuse un

video dove annunciava la nascita dello Stato Islamico e la sua

nomina a Califfo. Da qui il nome di Califfato o IS, cioè

semplicemente Stato Islamico.

Nei mesi successivi il movimento diede prova della sua ferocia

con le decapitazioni di alcuni ostaggi occidentali. Le esecuzioni

provocarono la reazione di Stati Uniti e Regno Unito, che

iniziarono a condurre dei raid aerei nei territori controllati

dall'Isis. Ma vennero perpetrate anche stragi di sciiti, che

rientrano in un piano sistematico di genocidio di questa

minoranza musulmana. L' avanzata dei terroristi in Siria venne

ostacolata dai Curdi che, nonostante le difficoltà dovute

soprattutto all'ostruzionismo della Turchia nei loro confronti,

riuscirono a riprendere la città di Kobane, nel nord della Siria,

occupata dall’Isis. (gennaio 2015)

Nei territori conquistati i terroristi continuano a fare “pulizia” di

tutto quello che non è islamico (sunnita). Vengono colpiti anche

monumenti: all’inizio dell’estate 2014 il Ministro del Turismo di

Baghdad quantificava in circa 4370 i siti distrutti dai jihadisti tra

Mosul, Diyala, Kirkuk, Anbar e Salahuddin; bollettino difficile da

aggiornare, vista la difficoltà di reperire informazioni dai luoghi

occupati. Recentemente distrutti il sito archeologico della città

assira di Nimrud, capitale del regno di Assurbanipal II, nei pressi

di Mosul, raso al suolo con i bulldozer; reperti archeologici del

museo di Mosul. [Nelle foto a fianco l’antica statua assira

conosciuta come Lamassu, distrutta dall’IS nel marzo 2015; il sito

di Nimrud; statue distrutte nel museo di Mosul].

Alle testimonianze artistiche si aggiungono quelle culturali: in

febbraio i jihadisti hanno saccheggiato migliaia di volumi dalla

biblioteca di Mosul e hanno incendiato quelli della biblioteca

universitaria della città in un rogo acceso davanti agli occhi degli

studenti del campus. In marzo hanno fatto esplodere la biblioteca

pubblica, mandando in cenere 100.000 volumi, fra cui opere

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rarissime, riconosciute come patrimonio dell’umanità

dall’UNESCO. Su internet circolano video che documentano le atrocità del

Califfato, contro persone (massacri, decapitazioni, esecuzioni

compiute da bambini) e contro la cultura millenaria della

regione che fu culla della civiltà.

L'IS si è così costruita un'immagine attraverso i moderni metodi

di pubblicità e propaganda per perseguire il suo obiettivo: creare

uno stato islamico sulle orme di quello dell’VIII secolo. Ma,

osserva la Napoleoni, si tratta di “una organizzazione molto

pragmatica e moderna. Si muove nel presente, non nel passato”.

L’Isis e l’Islam

L’Isis e gli altri “terroristi sfruttano la religione islamica per

giustif icare e ispirare il proprio illegittimo e personale jihad, da

loro proclamato senza che ne abbiano autorità alcuna, e

condotto contro l'Occidente e anche contro gli stessi governi

musulmani” [V.E.Parsi]

Siamo in guerra, se non ve ne siete accorti, quella dichiarata

dall'ISIS è una guerra vera e propria, diff icile da ammettere solo

perché, come la maggior parte delle guerre moderne, non ha dei

veri e propri confini, un fronte preciso. Leggiamo su tutti i

giornali di questa guerra, il jihad, e spesso sentiamo crit ici,

polit ici, religiosi chiedersi le motivazioni e le radici di questo

conflitto.

E’ necessario, a nostro parere, conoscere alcune delle nozioni

fondamentali sulla religione islamica, per capire perché

dobbiamo distinguere Islam e terrorismo jihadista.

Prendiamo in considerazione alcune parole chiave del lessico

specifico e versetti del Corano.

Glossario Fatwa (pl.fatāwa) si intende un parere legale con cui il mufti

(giudice investito dell’autorità per farlo) regola una determinata

questione applicando il diritto islamico.

La più famosa fatwa fu pronunciata il 14 febbraio del 1989, 26

anni fa, dall’ayatollah Khomeini, il leader politico e religioso

dell’Iran, contro lo scrittore di origine indiana Salman Rushdie,

condannato a morte per aver scritto I versi satanici, un romanzo

in cui – secondo Khomeini – Rushdie insultava la religione

islamica e il suo profeta. Ancora oggi lo scrittore vive sotto scorta.

Da questo episodio viene l’errata interpretazione, diffusa in

occidente, della parola fatwa come sinonimo di condanna a

morte da eseguire prontamente.

Jihåd: reso erroneamente nelle lingue occidentali con «guerra

santa», significa letteralmente «lotta», «sforzo» compiuto «sulla

via di Dio» . La tradizione prevede quattro tipi di jihåd: con

l’«animo», con la «parola», con la «mano» e, infine, con la

«spada». I primi tre, rivolti ai singoli fedeli (con l’«animo») e

all’intera comunità islamica (con la «parola», con la «mano»),

sono considerati il «grande jihåd», volto alla pacificazione delle

proprie passioni e al mantenimento del benessere della

collettività. Quello con la «spada» è invece considerato il

«piccolo jihåd» ed è indirizzato all’esterno della comunità, sia

per difenderla da un’aggressione armata (J. difensivo), sia per far

trionfare la parola di Dio sui territori non islamici.(J.offensivo). Il

jihåd è obbligo individuale di tutti i credenti capaci di portare

A cura di: Edoardo Bernini, Alberto Corradi, Marco Dedja, Matteo Leporati, Alessandro Simonini (IV D 2014-2015) Bibliografia e sitografia: Loretta Napoleoni, ISIS Lo Stato del terrore, Feltrinelli, Milano 2014 Intervista a L.Napoleoni

http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/califfato-

holding-del-terrore.aspx

Maurizio Molinari, Il Califfato del Terrore, Rizzoli, Milano 2015 Voce Al Qaeda: Wikipedia http://www.theguardian.com/world/2015/mar/09/iraq

-condemns-isis-destruction-ancient-sites

http://www.finzionimagazine.it/news/approfondimento-news/lisis-contro-i-libri-e-il-patrimonio-artistico-delliraq/

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armi, ma solo in caso di aggressione. Nel J.offensivo l’ obbligo

ricade sull’intera comunità ed è sufficiente che solo un certo

numero di musulmani lo esegua personalmente. E’ proibita

l’uccisione degli inermi (donne, bambini, anziani, disabili

eccetera), vieta di distruggere i beni del nemico (tra cui, ad

esempio, le case) e obbliga a preservare la natura.

Questa la teoria, ma nell’evoluzione storica delle società

islamiche il concetto di jihåd offensivo e la sua applicazione

pratica hanno seguito percorsi diversi. Dal X secolo d.C. il

termine acquisisce il significato di «azione militare

religiosamente giustif icata al f ine di creare un ambiente

universale islamico» ovvero, «guerra santa». In un Islam

frammentato, diverse autorità locali proclamavano il proprio

jihåd, a volte anche contro lo stesso califfo. In periodo coloniale,

invece, (XIX-XX secolo) si diffuse l’idea del jihåd come strumento

di lotta anticoloniale ( jihåd difensivo, più polit ico che religioso;

cfr. per esempio la resistenza algerina antifrancese e quella

libica antitaliana).

Solo a partire dagli anni Settanta, con l’acuirsi del confronto tra

mondo arabo-islamico e Occidente (dalla guerra del 1967 con

Israele), il jihåd è diventato una vera e propria parola d’ordine

usata da gran parte di quei movimenti fondamentalisti che

hanno come obiettivo la lotta all’imperialismo occidentale e ai

regimi arabi alleati dell’Occidente. Dalla stessa radice g (j) h d

(=sforzo) deriva la parola mujahid .

Mujahid (pl. mujaheddin) indica “colui che mette in pratica il

jihad”. Nel lessico polit ico contemporaneo è sinonimo di

militante impegnato sul piano polit ico e/o militare. Il termine nel

recente passato denotava per esempio sia i combattenti

nazionalisti (vedi guerra di indipendenza algerina 1954-62) che

gli integralisti religiosi della lotta di resistenza antimonarchica

contro lo scià (Iran, 1971-79), o della guerriglia anticomunista in

Afghanistan (1978-92). Oggi i media italiani usano come

sinonimo “jihadista”.

Mujaheddin in Afghanistan nel 1984

Shari'ah: dalla stessa radice di shari’ ( la «via [dritta rivelata da

Dio]») ciò che Dio ha stabilito per regolare e valutare tutta

l’attività e la condotta del musulmano.

Quest’ultimo è sottoposto al dettato sciaraitico ovunque egli si

trovi, anche nei paesi non islamici. Le fonti sono: Corano, Sunna

(Raccolta dei detti del Profeta), e la giurisprudenza che ne è

derivata.

Oggi è quasi una ”parola magica ripetuta dai fondamentalisti”

(Haliday).

In alcuni paesi a maggioranza islamica come l’Iran e l’Arabia

Saudita, la Shari'ah non è considerata solo un codice di

comportamento etico, ma una fonte di diritto positivo (anche se

non l’unica). Su di essa si basa per es. la pena di morte per

blasfemia, apostasia, adulterio. Il fondamentalismo si appella ad

una più rigorosa applicazione del dettato sciaraitico in tutti gli

ambiti giuridici e considera la Shari'ah l’unica via giuridica da

percorrere.

Salafiyya, salafiti: movimento fondato negli ult imi decenni del

XIX secolo che considera le prime comunità di musulmani, gli

“antenati virtuosi” (salaf al-salihin), un modello per la creazione

di una nuova società. Se prima indicava le tendenze

modernizzatrici di riformatori islamici, dagli anni Settanta del XX

secolo indica una tendenza conservatrice presente nel mondo

arabo, in particolare nella penisola araba, ma ora espressa anche da Al Bagdadi, l’autoproclamato Califfo dell’Is.

Sunnit i (rosa chiaro) e sciiti (rosa scuro)

Sciismo: dall'arabo shi‛a «partito, fazione», sottinteso «di Alì” il

cugino e genero di Maometto, che entrò in conflitto coi suoi

successori e creò una setta separata. E’ il principale ramo

minoritario dell'Islam (circa il 10% della popolazione musulmana

mondiale, ma è la religione dominante in Iran). Lo sciismo non è

un’eresia (dottrina basata su interpretazioni contrarie alla

ortodossia) né un vero e proprio scisma (uscita, separazione)

nell’Islam, ma una frattura polit ica, derivante da questioni

relative alla successione del Profeta.

Sunnismo: dall’arabo sunnah (“tradizione, consuetudine”) è

l’orientamento religioso dell'Islam attualmente maggioritario che

comprende circa l’85- 90% del mondo islamico. Definisce

l’ortodossia in opposizione ai dissidenti (come gli sciit i) e in nome

del rispetto della consuetudine approvata da tutti e del modello

profetico.

La sunna si definì lentamente, nel corso di un processo che

condusse, alla fine del 10° sec., alla selezione delle tradizioni

accettabili e delle scuole legali che regolavano l’interpretazione

della legge sacra. I sunniti credono nell’eternità del Corano e

nella predestinazione (qadar), secondo la quale Dio ha previsto

ogni singolo atto ed evento della vita dei credenti.

Umma: nel Corano, la comunità dei credenti. Il termine, usato

anche in epoca preislamica, con vari significati, da quello

religioso a quello polit ico-ideologico, indicò la prima comunità

islamica costituitasi ai tempi del Profeta a Medina, da cui il senso

più generale di comunità islamica universale (ummat al-

islāmiyya), che comprende cioè tutti i paesi in cui vige la legge

islamica.

Con la nascita degli Stati-nazione anche nell’area mediorientale,

alcuni movimenti polit ici hanno utilizzato il termine umma per

tradurre il concetto di nazione, da cui ummat al-‛arabiyya,

«comunità araba», nel senso di nazione araba.

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20

Versetti del Corano Tra le sure [le 114 ripartizioni] del Corano sono vari versetti che

incitano alla violenza contro gli infedeli; non solo, sembra che il

popolo islamico debba prepararsi ad una battaglia contro coloro

che non professano l’islam. Seguono alcuni dei versetti che

abbiamo ritenuto più significativi riguardo a questo argomento.

“Non obbedire ai miscredenti; lotta invece con essi

vigorosamente.” (C.25:52)

“Uccideteli ovunque li incontriate e scacciateli da dove vi hanno

scacciato” (C.2:191)

“E combattili f ino a quando non ci sia più tumulto o oppressione,

e prevalga la giustizia e la fede in Allah ovunque e dovunque.”

(C.8:39)

“O voi che credete! Combattete i miscredenti che vi stanno

attorno, che trovino durezza in voi.” (C.9:123)

“Combattete coloro che non credono in Allah, che non vietano

quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato” (C.9:29)

“La ricompensa di coloro che fanno la guerra ad Allah e al Suo

Messaggero e che seminano la corruzione sulla terra è che siano

uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da

lati opposti o che siano esiliati sulla terra: ecco l’ignominia che li

toccherà in questa vita; nell’altra vita avranno castigo immenso.”

(C.5:33)

“Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete [raccogliere]

e i cavalli addestrati per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro

e altri ancora che voi non conoscete, ma che Allah conosce. Tutto

quello che spenderete per la causa di Allah vi sarà restituito e non

sarete danneggiati.” (C.8:60)

Commento Risulta chiara la crudeltà con cui la dottrina islamica condanna le

altre religioni; tuttavia bisogna tenere conto del contesto storico

in cui il Corano stesso fu scritto, periodo nel quale guerre sante

contro altre religioni erano all'ordine del giorno. Attualmente è

ancora più sbagliato prendere alla lettera queste frasi che

incitano la violenza, sapendo che la società e la cultura odierna

hanno compiuto un notevole progresso rispetto alle epoche

passate. Il fatto che i combattenti dell' ISIS prendano questi

versetti e li pongano alla base delle proprie azioni li differenzia

dall'essere semplici credenti islamici e li rende veri e propri

fanatici estremisti.

A conferma delle nostre osservazioni riportiamo qui un articolo

che ci ha segnalato la nostra insegnante. Parlando a un seminario

tenutosi alla Mecca il 22 febbraio 2015 sul tema "L'islam e la lotta

contro il terrorismo", Ahmed al-Tayeb, l’imam di Al-Azhar, la più

autorevole università del mondo islamico sunnita (in Egitto, al

Cairo), ha dichiarato che è urgente una radicale riforma

dell'insegnamento religioso fra i musulmani per contenere la

diffusione dell'estremismo religioso. L’imam ha sottolineato che

l'estremismo è prodotto da una "cattiva interpretazione del

Corano e della sunna". "Vi è stata un'accumulazione storica di

tendenze estremiste", che hanno portato alcune persone ad

abbracciare una forma errata dell'islam. "L'unica speranza per

recuperare l'unità della nazione musulmana [umma] - ha

aggiunto - è di contrastare in scuole e università questa tendenza

a bollare i musulmani come miscredenti". Il principe Khaled Al-

Faisal, governatore della Mecca, ha letto un discorso del re

saudita Salman. In esso il monarca custode dei due luoghi santi

dell'islam ha affermato che "il terrorismo è una piaga prodotta da

un'ideologia estremista". Esso è "una minaccia alla comunità

musulmana e al mondo intero".

A cura di: Raffaele Braniste, Riccardo Ferri, Cecilia Massimo, Stefano Peri, Alessandro Sorba (III D 2014-15) Bibliografia e sitografia - H. R. Piccardo (curatore), Il Corano, Newton & Compton, Roma 1996 - Glossario ragionato dei termini islamici, in “Limes” n°

1, 2004 pp.35-42

- F.Halliday, Glossario, in Cento miti sul Medio Oriente,

Einaudi, Torino 2006

- V.E.Parsi, Introduzione a John L. Esposito, Guerra

santa? Il terrore in nome dell'Islam. V&P Università,

Milano 2004, p.XI

- www.treccani.it - http://www.asianews.it/notizie-it/Imam-di-Al-Azhar:-Per-fermare-l%27estremismo-islamico-occorre-una-riforma-dell%27insegnamento-religioso-33541.html

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Israele e Palestina

Il conflitto tra gli ebrei d'Israele e gli arabi palestinesi è una

competizione aspra, crudele e nazionalistica, da sempre usata dalla

propaganda antioccidentale a sostegno delle rivendicazioni del

mondo arabo, in particolare dopo l’11 settembre 2001.

Abbiamo voluto approfondire la storia dello stato di Israele, per

capire se le affermazioni degli integralisti islamici abbiano qualche

fondamento o se si tratti solo di uno dei pretesti per legittimare le

azioni terroristiche nell’area mediorientale.

Il conflitto La causa del conflitto, che in Medio Oriente vede opposti

israeliani (di religione ebraica) e palestinesi (di fede musulmana),

è la volontà di entrambi i popoli di avere un proprio stato

all’interno del medesimo territorio. Il conflitto arabo-israeliano

abbraccia circa un secolo di tensioni politiche e di ostilità. Gli israeliani lo rivendicano in quanto 3.000 anni fa in Palestina

erano insediate tribù ebraiche di cui sono i discendenti. Già

durante la cattività babilonese (VI-V secolo a.C.) gli ebrei si

dispersero, lasciando liberi questi territori sui quali si insediarono

gli antenati dei palestinesi.

La diaspora ebraica si intensificò quando la regione fu

conquistata dai romani. In seguito la Palestina entrò a far parte

dell’impero ottomano, che si dissolse soltanto dopo la prima

guerra mondiale. Quando, a fine Ottocento, in Europa scoppiò

una nuova ondata di antisemitismo (“semiti” sono detti gli ebrei,

in quanto discendenti di Sem, figlio di Noè, ma anche gli arabi

sono semiti sotto il profilo linguistico ed etnico), Teodor Herzl, un

ebreo ungherese, fondò il movimento sionista, che sosteneva la

necessità per gli ebrei di ritornare nella Terra Promessa dove

fondare un loro stato. Inoltre, Herzl organizzò il primo convegno

sionista mondiale a Basilea nel 1897 e in esso furono poste le basi

per la graduale penetrazione ebraica in Palestina, grazie

all'acquisto da parte dell'Agenzia Ebraica di terreni per dar vita a

un'entità statale ebraica.

Tuttavia, fino alla promulgazione delle leggi razziali, pochi ebrei

erano partiti per la Palestina, amministrata dagli inglesi dopo la

prima guerra mondiale, dove essi convivevano pacificamente con

i Palestinesi. Dopo la seconda guerra mondiale, l’Occidente, che

provava un senso di colpa nei confronti della Shoah, decise che

era giunto il momento di costituire uno Stato Israeliano. Alla fine

del 1947 l’Onu deliberò che il 15 maggio 1948 sarebbe nato lo

Stato di Israele.

La nascita del "Focolare Nazionale" La Gran Bretagna con la Dichiarazione Balfour (1917) riconosceva

ai sionisti il diritto di formazione di un "focolare nazionale" in

territorio palestinese, diritto che venne interpretato come il

permesso di costituire uno stato autonomo ed indipendente.

Questo fu subito causa di attriti tra la popolazione araba

preesistente e i sionisti. Il futuro fondatore d’Israele David Ben

Gurion delimitava i territori in cui stanziarsi così: a nord fino al

fiume Lītānī in Libano e al Monte Hermon, a sud il Golfo di

‘Aqaba, a est tra Amman e ‘Aqaba e a ovest fino ad al-‘Arīš, città

del Sinai egiziano.

L'espansione ebraica Sotto il Mandato britannico l'immigrazione ebraica nella zona

subì un'accelerazione mentre l'Agenzia Ebraica - organizzazione

sionista che agiva grazie ai finanziamenti provenienti da

sostenitori esteri - operò velocemente per l'acquisto di terreni. Il

risultato fu un aumento della popolazione ebraica in Palestina

dalle 83.000 unità del 1915 alle 360.000 unità della fine degli anni

Trenta. Negli anni Venti e Trenta numerose furono le

dimostrazioni di protesta da parte dei movimenti palestinesi, che

sovente sfociarono in veri e propri scontri a tre tra l'esercito

britannico, i residenti arabi e i gruppi armati dei coloni ebrei.

Spesso gli attriti non erano dovuti all'immigrazione in sé, ma ai

differenti sistemi di assegnazione del terreno. Questo, unito alle

regole con cui venivano gestiti i terreni assegnati ai coloni, di

fatto toglieva l'unica fonte di sostentamento e lavoro a

moltissimi insediamenti arabi preesistenti. Con la Proposta della Commissione Peel del 1937 si parlava della

prima volta di divisione del Mandato in uno Stato palestinese e in

uno ebraico.

Verso la fine degli anni trenta, dopo la Grande Rivolta Araba e i

falliti tentativi di divisione della Palestina in due Stati, la Gran

Bretagna si pentì di aver sostenuto il movimento sionista e

cominciò a negare al sionismo quell'appoggio politico che aveva

garantito loro (cfr. il "Libro Bianco" del 1939). Ciò indusse gli ebrei

di Palestina a chiedere aiuto agli Stati Uniti. Con la seconda

guerra mondiale gli ebrei si schierarono con gli Alleati mentre

molti gruppi arabi guardarono con interesse l'Asse, nella

speranza che una sua vittoria servisse a liberarli dalla presenza

britannica. Dopo la guerra, si passò dai 360 mila individui della

fine degli anni Trenta ai 630 mila del 1947.

La divisione della Palestina La definitiva risposta delle Nazioni Unite alla questione

palestinese fu data il 29 novembre 1947 con l'approvazione della

risoluzione 181, che raccomandava la spartizione del territorio

conteso tra uno Stato palestinese, uno ebraico e una terza zona,

che comprendeva Gerusalemme, amministrata direttamente

dall'ONU.

La risoluzione però, invece di preparare la pace, fu la premessa

della guerra. Nel decidere su come spartire il territorio l'UNSCOP

( United Nations Special Committee on Palestine) per evitare

possibili rappresaglie da parte della popolazione araba, considerò

la necessità di radunare tutte le zone dove i coloni ebraici erano

presenti in numero significativo nel futuro territorio ebraico, a cui

venivano aggiunte diverse zone disabitate (per la maggior parte

desertiche) in previsione di una massiccia immigrazione

dall'Europa.

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Nascita di Israele La nascita ufficiale dei due Stati in Palestina non ebbe mai luogo.

Infatti, non appena i britannici ebbero lasciato la zona ponendo

fine al proprio mandato (maggio 1948) i sionisti dichiararono lo

Stato di Israele (subito riconosciuto da USA e URSS) e la Lega

Araba scatenò una guerra "di liberazione" contro Israele. Le

ostilità terminarono il 25 gennaio 1949, con una chiara vittoria

israeliana, grazie alla efficiente organizzazione militare e al

migliore armamento.

I palestinesi lentamente si riorganizzarono: nel 1959 nacque Al-

Fatah (sigla rovesciata di Ḥarakat at-Taḥrīr al-waṭanī al-filasṭīnī,

con l’omissione delle iniziali di al-waṭanī «nazionale», movimento

di liberazione nazionale palestinese) e nel 1964 l’Organizzazione

per la Liberazione della Palestina (OLP), slegata dai paesi arabi,

di cui divenne capo Yasser Arafat.(v.foto)

La Guerra dei sei giorni La cosiddetta "Guerra dei sei giorni" del giugno 1967 segna lo

spartiacque della storia del Medio Oriente. Consiste in un attacco

preventivo di Israele che distrusse inizialmente l'aviazione

egiziana e scatenò una successiva offensiva contro l'Egitto, la

Siria, la Giordania. Israele viveva un clima di isteria provocato dal

timore dell'accerchiamento e di un nuovo olocausto. La guerra ha

sancito l'irreversibilità dello status quo nei territori israelo-

palestinesi. Israele ha consolidato e legittimato la sua esistenza e

i palestinesi non possono evitare di riconoscere la realtà di

Israele.

Israele nel 1949 e nel 1967

(da La battaglia per Gerusalemme, Limes, 2010)

La Guerra del Kippur Nel 1973 Egitto e Siria attaccarono Israele, iniziò così la guerra

dello Yom Kippur. La data scelta per l’attacco fu il 6 ottobre,

giorno dello Yom Kippur, la festività più solenne del calendario

ebraico. Fu la più grande guerra combattuta in Medio Oriente

fino a quella del Golfo e portò alla crisi petrolifera del 1973, un

embargo delle esportazioni di petrolio nei paesi occidentali che

aggravò molto la crisi economica che in quegli anni aveva

cominciato a colpire Europa e Stati Uniti. Soprattutto nei primi

giorni, le perdite israeliane furono gravissime. Nel giro di una

settimana, però, l’esercito israeliano riuscì a riorganizzarsi e a

sfruttare la sua superiorità organizzativa e tecnologica. Le ostilità

terminarono definitivamente il 28 ottobre, quando ormai le

divisioni israeliane erano pronte a puntare sul Cairo. In

particolare, l’Egitto cominciò dopo la guerra a normalizzare i

rapporti con Israele e la conclusione del trattato di pace tra le due

nazioni nel 1979 portò all’espulsione dell’Egitto dalla Lega Araba,

durata fino al 1989.

L’occupazione dei territori Nel 1977 il partito laburista perse definitivamente il controllo che

aveva avuto dalla fondazione del paese. Il trionfo del partito di

destra Likud e i governi di Menachem Begin (1977-83) e di Yitzak

Shamir (1983-84 e 1986-92) portò ad una politica intransigente

nei confronti dei palestinesi che si tradusse nell’occupazione

ebraica delle terre, creando insediamenti e colonie ovunque nei

territori abitati da arabi, principalmente in Cisgiordania e nella

Striscia di Gaza. L’affermazione del fondamentalismo ebraico

fece sì che Israele negli anni successivi perdesse via via il

carattere laico che lo aveva contraddistinto dalla fondazione.

L’invasione del Libano Il 14 marzo 1978 Israele invase il Libano (“operazione Litani”) con

l’intento di creare una fascia di sicurezza all’interno del territorio

libanese (fino al fiume Litani) per tenere i propri villaggi di

frontiera al di fuori del raggio d’azione dell’artiglieria dell’OLP

che da una decina di anni aveva creato una base nel sud del

Paese, da cui attaccava il nord di Israele. Dopo la condanna

dell’ONU, (risoluzioni 425 e 426) fu creata la Forza di

Interposizione in Libano delle Nazioni Unite (UNIFIL) per

riportare la pace in Libano, ma gli israeliani non ritireranno le

proprie truppe dal sud del Paese fino al 2000.

Gli Accordi di Camp David Il 17 settembre 1978 fu sottoscritta un'intesa globale a Camp

David, negli Stati Uniti, dal capo di Stato egiziano A. Sadāt e dal

premier israeliano M. Begin con la mediazione del presidente

degli Stati Uniti J. Carter in vista di una soluzione del conflitto. La

cosiddetta “Impalcatura per la pace in Medio Oriente”aveva

come piattaforma convenuta la risoluzione n° 242 del Consiglio

di Sicurezza delle Nazioni Unite, che sostanzialmente imponeva

un negoziato tra le parti in guerra sulla base del ritiro delle forze

israeliane entro confini sicuri e riconosciuti, della fine di ogni

pretesa o stato di belligeranza, del rispetto e del riconoscimento

di sovranità, integrità territoriale e indipendenza politica di ogni

Stato della regione.

La Prima Intifada A partire dal 1987, nei territori occupati si alzò un moto popolare

(che prese il nome di Intifada, in arabo "brivido, scossa"), che

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23

cercava di combattere la presenza israeliana in Palestina. A

differenza di quanto era successo in passato, inoltre, la

sommossa nasceva proprio all'interno dello stato di Israele, in

Cisgiordania e nella striscia di Gaza, dove le condizioni di vita per

i palestinesi erano particolarmente dure.

L’ “Intifada delle pietre” scoppiò l'8 dicembre 1987, quando un

camion israeliano colpì due furgoni che trasportavano operai di

Gaza al campo profughi di Jabaliyya, uccidendone quattro. In

risposta la sera stessa, scoppiò una rivolta, in cui centinaia di

persone bruciarono gomme e attaccarono le Forze di Difesa

Israeliane. In breve la rivolta si espanse ad altri campi profughi

palestinesi e infine a Gerusalemme.

La repressione israeliana fu durissima, tanto che il 22 dicembre il

Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite condannò Israele per

avere violato le Convenzioni di Ginevra a causa del numero di

morti palestinesi in queste prime poche settimane di Intifada.

Nascita di Hamas La rivolta fu il terreno favorevole alla nascita di altre

organizzazioni estremiste , che si richiamavano esplicitamente

all’Islam contro il nemico assoluto (Israele). La più importante era

Hamas (acronimo arabo di "Movimento di Resistenza Islamico")

fondato a Gaza dallo sceicco Ahmed Yassin e da Khan Yunis,

entrambi esponenti delle fazioni palestinesi più integraliste.

Fu scatenata una serie di attacchi suicidi, il primo a Tel Aviv il 6

luglio 1989, contro il bus 405. La presenza di Hamas inasprì lo

scontro con le forze militari israeliane con un crescendo di

attentati terroristici suicidi. Da un punto di vista ideologico

Hamas si richiamava ai Fratelli Musulmani, ma le attività di quel

movimento, cominciate già nei primi anni '70, avevano ben altre

finalità. Il lavoro di queste organizzazioni, infatti, si concentrava

nell'istituzione di ospedali, sistemi di istruzione, biblioteche e

altri servizi in aiuto alle popolazioni palestinesi della Cisgiordania

e della Striscia di Gaza.

Gli accordi di Oslo Lo scoppio della Prima guerra del Golfo contro Saddam Hussein

(1991) convinse l’opinione pubblica internazionale che era

necessario accelerare il processo di pace. Il 13 settembre 1993

vennero firmati gli Accordi di Oslo: sembrò che il conflitto stesse

per finire, ma i nodi principali restavano irrisolti e rimandati a un

secondo turno di negoziati: la nascita di uno stato palestinese

indipendente, il ritorno dei profughi palestinesi, il controllo delle

scarse risorse idriche e lo status di Gerusalemme. Per la prima volta gli israeliani riconobbero nell’Organizzazione

per la Liberazione della Palestina l’interlocutore ufficiale che

parlava per il popolo palestinese e gli riconobbero il diritto di

governare su alcuni dei territori occupati. L’OLP da parte sua

riconobbe il diritto di Israele a esistere e rinunciò formalmente

all’uso della violenza per ottenere i suoi scopi, cioè la creazione di

uno stato palestinese. L’accordo conteneva anche un piano

specifico per mettere in atto una soluzione definitiva alla

“questione palestinese”.

Israele prometteva di ritirarsi da Gaza e dalla Cisgiordania e da

altri territori occupati militarmente. I palestinesi avrebbero

dovuto riconoscere Israele e rinunciare alla violenza. (nella foto

Bill Clinton, Rabin e Arafat) Il clima favorevole dovuto al reciproco riconoscimento di Israele e

dell’OLP portò alla firma nel 1994 di un accordo di pace fra Israele

e la Giordania. Ma il fondamentalismo ebraico non vedeva di

buon occhio accordi con i palestinesi.

L'assassinio di Rabin Nel novembre del 1995 il premier israeliano Yitzhak Rabin, che

in base agli accordi di Oslo (ribaditi a Washington alla presenza di

Clinton e del presidente egiziano Mubarak) proponeva un

parziale ritiro dai territori occupati, venne assassinato a Tel Aviv,

al termine di una manifestazione per la pace. Yigal Amir,

ultranazionalista cresciuto negli ambienti religiosi, dichiarò di

aver voluto uccidere, con Rabin, il processo di pace. Il ministro degli esteri Shimon Peres, stratega della pace insieme

a Rabin, assunse la carica di primo ministro, rappresentando così,

non solo simbolicamente, la continuità politica e la via negoziale

alla pace.

Nascita Autorità Nazionale Palestinese Ma Hamas otteneva sempre più ascolto presso la popolazione

araba mentre l’OLP perdeva consensi. Una serie di attentati

suicidi contro bus israeliani nel 1996 portò il Partito Laburista a

perdere le elezioni a favore del partito di destra Likud ( Benjamin

Netanyahu andò al governo).

Nelle zone che avrebbero dovuto diventare il futuro stato

palestinese cominciò una forma di autogoverno guidata

dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), presidente della quale

fu eletto nel 1996 Yasser Arafat.

Nuovi Accordi di Camp David Quando i laburisti tornarono al governo con Ehud Barak nel 1999

si aprirono di nuovo opportunità di pace. Israele si ritirò dal

Libano e nel luglio del 2000, sotto gli auspici del Presidente

Clinton, il Primo Ministro Barak e il presidente Arafat si

incontrarono a Camp David per raggiungere un accordo su uno

status permanente. Barak propose di abbandonare il 90% della

Cisgiordania, ma la proposta di Arafat di lasciar tornare i profughi

palestinesi in patria non poteva essere accettata da Israele, in

Page 24: Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

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quanto avrebbe significato avere un paese a maggioranza araba.

La Seconda Intifada La tensione ricominciò a salire e, nel settembre 2000, scoppiò la

seconda Intifada, scatenata da una provocatoria passeggiata

dell’allora candidato premier israeliano Ariel Sharon sulla

Spianata delle Moschee.

L’”Intifada di al -Aqsà” (nome della sacra moschea di

Gerusalemme) provocò molte vittime (solo fra maggio 2003 e

giugno 2004 furono uccisi 768 civili palestinesi e 189 israeliani).

Molto diversa dalla prima, in quanto non moto popolare ma moto

politico, organizzato di lotta armata.

La reazione del premier Ariel Sharon (dal gennaio 2001 al potere)

agli attentati suicidi fu durissima: distruzione delle case dei

terroristi, omicidi mirati contro i capi della resistenza palestinese,

controllo militare che impediva a molti palestinesi di lavorare e

quindi penalizzazione economica.

La costruzione del muro A questo si aggiunse dal 2002 la costruzione di un muro,

ufficialmente in difesa dei civili, in realtà anche per dividere le

une dalle altre le città arabe e penalizzare ulteriormente la loro

economia.

La barriera incluse molti insediamenti israeliani. Per Israele,

questa era autodifesa; per la Palestina, un'occupazione di

territorio illegale. Nonostante fosse illegittima dal punto di vista

del diritto internazionale, la costruzione del muro è proseguita

per anni.

Due graffiti di Bansky sul muro

Quando nel novembre 2004 morì Arafat e presidente dell’ANP

divenne il moderato Abū Māzen (di Al Fatah, partito fondato nel

1959 da Arafat) sembrarono aprirsi nuove opportunità per la

pace. Sharon nel 2005 annunciò di voler smantellare le colonie

ebraiche di Gaza.

Ma da un lato Hamas (che nel 2006 vinse le elezioni in Palestina)

e gli altri gruppi armati non erano controllati dall’ANP e non

rinunciarono alla lotta; dall’altro i fondamentalisti ebraici non

vedevano di buon occhio una politica moderata nei confronti dei

palestinesi.

Dopo reciproci attacchi e tregue, Israele lanciò una dura offensiva

contro la Striscia di Gaza, con l’intento di smantellare le basi

missilistiche palestinesi e chiudere i tunnel che collegavano la

Striscia all’Egitto.

L'operazione "Piombo Fuso" Israele (premier dal 2006 era Benjamin Netanyahu, che

nell’estate di quell’anno lanciò l’offensiva contro i militanti

libanesi di Hezbollah nota come seconda guerra Israelo-

libanese) fra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009, lanciò

l'offensiva denominata Cast Lead, Piombo Fuso. La Striscia di

Gaza venne bombardata per cinque giorni e successivamente fu

invasa dall'esercito israeliano. Nel primo giorno di

bombardamenti i morti furono tra i 200 e i 300 (il Sabato nero del

massacro). Alla fine dell’offensiva Gaza appariva un campo di

rovine: più di mille le vittime tra i palestinesi, molti dei quali civili.

L'Onu condannò l'aggressione con la risoluzione 1860 dell’8

gennaio 2009. Inoltre il Consiglio per i diritti umani aprì

un’inchiesta che verificò la violazione dei diritti umani della

popolazione palestinese.

Operazioni militari e nuovi insediamenti “Pilastro di sicurezza” è il nome in codice della campagna militare

iniziata il 14 novembre 2012 dalle Forze di Difesa Israeliane

contro i militanti di Hamas e del Movimento per il Jihad Islamico

in Palestina, come rappresaglia per il loro lancio di razzi. Venne

ucciso Ahmad al-Ja'bari, capo militare di Hamas, colpevole di non

aver voluto o saputo far rispettare il cessate il fuoco. La reazione

di Hamas fu quella di scatenare un massiccio lancio di razzi sulle

cittadine e gli insediamenti israeliani.

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Fra il 2012 e il 2014 gli aerei israeliani hanno continuato a colpire

la Striscia di Gaza con bombardamenti su depositi di armi e su

abitazioni. Israele inoltre ha proseguito la politica degli

insediamenti civili, da sempre fonte di tensioni con la

popolazione araba (nel 2013, novanta nuovi insediamenti vicino a

Ramallah).

Israele, marzo 2015

Il premier in carica Benjamin Netanyahu esce vincitore dalle

elezioni anticipate del 17 marzo 2015, e annuncia l'intenzione

di creare un governo "forte". “Il suo partito – il Likud – ha

ottenuto 30 seggi su 120 in Parlamento. Nel 2013 si era

fermato a 18. Gli avversari di centro-sinistra del Zionist

Camp, guidato dal laburista Isaac Herzog – dati in leggero

vantaggio dai sondaggi della vigilia – conquistano 24 seggi.

Terza forza del Paese il cartello dei partiti arabi, che ottiene

14 eletti.”

Gli arabi-israeliani infatti sono accorsi alle urne per votare

contro il premier. Nonostante la vittoria di Netanyahu,

quindi, queste elezioni segnano un risultato storico per la

coalizione araba.

Il segretario generale dell'OLP, Yasser Abed Rabbo, ha

dichiarato che Israele «ha scelto la via dell'occupazione e

della colonizzazione e non del negoziato e del

collaborazione». Anche la giornalista Diana Buttu, israeliana

di sangue arabo, pensa che non cambierà molto per i

palestinesi. A rischio dunque ancora una volta il processo di

pace.

Appena prima delle elezioni, il premier aveva dichiarato che

con lui non sarebbe mai nato uno stato palestinese; è allo

studio un disegno di legge che definisce Israele come "Stato

della Nazione ebraica": “la laicità dello Stato e il principio di

non discriminazione dei cittadini arabo-israeliani” verrebbe

così meno.

Israele, 18 marzo 2015: Benjamin Netanyahu annuncia la

vittoria elettorale

Il presidente degli Stati Uniti Barak Obama non è d’accordo

con le posizioni di Netanyahu e “continua a credere che una

soluzione a due Stati sia l’unica scelta per la difesa di Israele

se vuole restare un paese democratico.” Non si può

mantenere per sempre lo status quo né tantomeno estendere

gli insediamenti.[Intervista del 23 marzo 2015]

Per contrastare l’avanzata del terrorismo, inoltre, Obama

sostiene la necessità di un accordo con l’Iran, mal visto da

Israele.

La strada per la pace è ancora lunga.

A cura di: Francesca Bacchi, Alain Ben Rejeb, Alessia

Borrini, Vittoria Ferrari, Arianna Ziveri. (IV D 2014-2015)

Ultimo paragrafo S.Borsi.

Bibliografia e sitografia:

D. Condello, Israele-Palestina: storia della guerra "infinita"

e le sue vere origini. www.stopcensura.com

5 ottobre 2010.

Gli accordi di Oslo, vent'anni fa.www.ilpost.it

13 settembre 2013.

F. Halliday, Cento miti sul Medio Oriente. Einaudi, Torino

2005.

M. Campanini, Storia del Medio Oriente 1798-2005. Il

Mulino, Bologna 2006.

M. Toaldo, Piccolo atlante della disputa, in “Limes” La

Palestina impossibile n°5/ 2007.

U. De Giovannangeli, Il negoziato impossibile. dal

quaderno speciale di “Limes” La battaglia per

Gerusalemme, 2010.

E. Fedrizzi – A. Della Valentina, Dossier Terra.

Italia,Europa, Mondo. Minerva Scuola, Bologna 2012

T.Canetta, Il primo sconfitto è il processo di pace,

http://www.linkiesta.it/vittoria-netanyahu-israele-

conseguenze-palestina 18-3-2015

D.Buttu, Voto in Israele, vedrete che per noi palestinesi

non cambierà nulla, http://www.repubblica.it/esteri/2015/03/18

Foto Intifada, http://www.bocchescucite.org/le-

condizioni-per-la-prossima-intifada-ci-sono-gia/

http://www.repubblica.it/esteri/2015/03/23/news/la_sfida

_di_obama_a_netanyahu_quella_dei_due_stati_e_l_unic

a_scelta_-110251658/

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26

La libertà di espressione

Un po’ di storia

La libertà di manifestazione del pensiero parte dalle polis

dell’antica Grecia, dove la libertà di parola, detta parresìa,

coincideva con la facoltà di ogni cittadino di esprimere

liberamente la propria opinione durante le assemblee pubbliche.

Ma solamente con il XVII e XVIII secolo e con lo sviluppo del

pensiero liberale si giunse alla teorizzazione della libertà di

manifestazione del pensiero, che all’interno dello stato di

diritto garantiva la tutela delle minoranze.

Secondo Spinoza, teorico della libertas philosophandi, ogni Stato

in cui vige un regime democratico e non tirannico deve

assicurare ad ogni individuo la libertà di espressione.

Quest’ultima è un diritto inalienabile, la cui limitazione esterna,

imposta dallo Stato, ne segna la progressiva instabilità, mentre la

rinuncia spontanea all’esercizio di tale diritto fa retrocedere

l’uomo al rango di bestia.

La libertà di espressione divenne così componente principale del

“contratto sociale” e base di ogni democrazia. La libertà di

manifestazione del pensiero è divenuta principio di tutte le

Costituzioni democratiche, tra cui quella italiana.

La Costituzione italiana sancisce la libertà di manifestazione del

pensiero, che si esplica attraverso la libertà di stampa e la libertà

di parola, con l'Articolo 21, comma 1:

"Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio

pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di

diffusione".

L’articolo 21 segna una rottura con il passato, dopo il sistema di

censura del regime fascista.

La libertà di espressione è riconosciuta anche dalla

Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948:

"Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di

espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la

propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere

informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a

frontiere."

E’ ripresa dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei

diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU, 1950):

"Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto

include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di

comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte

delle autorità pubbliche , e senza considerazione di frontiera."

Il rapporto di "Reporter senza Frontiere"

Nell'annuale rapporto di Reporter Senza Frontiere, il World Press

Freedom Index, che dal 2002 elabora la classif ica dei Paesi in base

a una griglia di criteri che vanno dal pluralismo al numero di abusi

e aggressioni ai danni della stampa verif icatisi in un determinato

Paese, si registra una "regressione brutale" della libertà nel

mondo a causa dell'aumento delle aree di guerra.

Nel 2014 l'Italia scende al 73esimo posto, tra la Moldavia e il

Nicaragua, perdendo ben 24 posizioni dall’anno precedente.

La ragione, secondo il rapporto di Rsf, sono le sempre più

frequenti intimidazioni che i giornalisti subiscono, da parte da

parte di organizzazioni criminali e non solo.

In generale, il World Press Freedom Index segna un

peggioramento globale, come è possibile leggere nel report:

“Sotto attacco dalle guerre, dalle crescenti minacce di agenti

non statali, da violenze durante manifestazioni e dalla crisi

economica, la libertà dei media è in rit irata in tutti e cinque i

continenti”. Il peggioramento globale è “incontestabile”,

scrivono i ricercatori di Rsf, “nel 2014 c’è stata una drastica

caduta della libertà d’informazione. Due terzi dei 180 Paesi

censiti hanno avuto un risultato peggiore rispetto all’anno

scorso”.

In cima alla classifica della libertà d’informazione, come di

consueto, i paesi nordici: prima la Finlandia, seguita da Norvegia

e Svezia.

In fondo, anche qui senza sorprese, Turkmenistan, Corea del Nord

e, fanalino di coda, l’Eritrea. La Francia guadagna una posizione

fino al 38° posto, gli Usa ne perdono tre e vanno al 49°.

Blasfemia nel mondo

Fra gli argomenti su cui molti sono pronti ad accettare limiti

alla libertà di espressione ci sono quelli religiosi.

Nel 2012 l’Iheu (International Humanist and Ethical Union)

denunciò presso l’ONU l’inasprimento delle leggi contro la

blasfemia. Anche se è stata arginata la pretesa dei paesi

musulmani di approvare mozioni presso le Nazioni Unite per

condannare qualsiasi “offesa” alla religione, la Lega Araba nel

settembre del 2012 ripropose un accordo internazionale – assieme a Ue, Onu, Unione Africana e Organizzazione della

Conferenza Islamica – che penalizzasse “odio” religioso e

blasfemia.

“A farne le spese, soprattutto gli apostati, i non credenti e in

generale i laici, con una limitazione preoccupante della libertà di

espressione e di pensiero sotto il ricatto della sensibilità religiosa

offesa.[…] Si può pensare che certe espressioni satiriche rivolte

all’islam dal mondo occidentale siano discutibili, provocatorie,

fuori luogo”. Questo non può giustificare la violenza degli

attentati di Parigi, o di quello del 2004 in Olanda. E la paura di tali

reazioni non deve soffocare qualsiasi forma di critica nei

confronti della religione.

“Reporter senza frontiere” ha pubblicato nel dicembre 2013 un

dossier intitolato Blasfemia, l’informazione sacrif icata sull’altare

della religione, in cui registra molti casi di giornalisti accusati di

blasfemia per articoli che avevano a che fare con la religione.

A pagina 23, in particolare, si tratta del caso del 2005, relativo

alla pubblicazione in Danimarca di 12 vignette su Maometto,

ripubblicate in Francia da Charlie Hebdo, la più famosa delle quali

raffigurava il profeta con una bomba al posto del turbante. Alle

vivaci reazioni musulmane si unirono le richieste occidentali di un

maggior rispetto nei confronti delle religioni.

Solo la strage di Parigi del 7 gennaio 2015 ha posto in primo piano

la difesa della libertà di espressione.

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27

La bestemmia o blasfemia ingiuriosa e triviale, in quanto

offensiva del sentimento religioso dei rispettivi fedeli, è punita

nelle legislazioni penali vigenti in molti paesi sia teocratici sia

laici. In alcuni paesi la bestemmia non è un crimine. Per esempio,

negli Stati Unit i d'America essere perseguiti per questo crimine

violerebbe la Costituzione. Nel Regno Unito, precisamente in

Inghilterra e Galles, i reati di blasfemia sono stati abolit i nel

2008. In Europa, il Consiglio d'Europa ha raccomandato che i

paesi membri adottino leggi a favore della libertà d'espressione e

che quindi non perseguitino la blasfemia.

Nei paesi in cui è in vigore la sharia ed in altri paesi musulmani, la

blasfemia è invece un reato punibile con la pena di morte o con

anni di reclusione. In Pakistan la legge sulla blasfemia è

all’origine di molte violenze impunite contro cristiani e

musulmani sciit i, secondo l’ult imo rapporto di Amnesty

International sulla situazione dei diritt i umani nel mondo. (Vedi le proteste in Pakistan contro la legge, in base alla quale è

stata condannata a morte nel 2009 Asia Bibi, cristiana, ancora in

carcere nel marzo 2015; il marito e i cinque figli sono costretti a

vivere nascosti, ma continuano a chiedere la revisione della

legge e il sostegno della comunità internazionale).

Tutto ciò mostra come governi o fazioni radicali si impongano

attraverso il richiamo a presunte autorità superiori, opprimendo

altri punti di vista sulla religione, che vengono accusati di

blasfemia e di offendere i dogmi, i valori tradizionali e i

sentimenti dei fedeli.

Libertà di espressione e mondo arabo Le radici della visione della libertà di espressione nel mondo

arabo vanno ricercate in ambito politico e religioso.

Una frase emblematica è quella di Anjem Choudary, imam di

Londra per cui la libertà di espressione confluisce totalmente

nella adorazione di Allah, unico Dio : "L'islam non è pace, ma

piuttosto sottomissione ai comandi del solo Allah. Per questo i

musulmani non credono nell'idea della libertà d'espressione,

perché le loro parole e azioni sono determinate dalla rivelazione

divina e non basate sui desideri della gente".

Ai nostri occhi di occidentali, che viviamo la libertà come

prerogativa naturale dell'uomo, queste considerazioni paiono

incomprensibili. Da tempo, infatti, si è affermata la possibilità di

esprimere le proprie credenze senza cadere nel blasfemo.

Per l’imam Choudary, invece, la nuova copertina di Charlie

Hebdo, con Maometto che piange mostrando la frase Je suis

Charlie è "un atto di guerra". Il predicatore punta il dito contro la

vignetta, “sottolineando che ‘ridicolizzare’ il Profeta è un ‘attacco

al suo onore’ dal momento che la maggioranza dei musulmani

non lo rappresenta perché considerato un gesto blasfemo. Se un

simile comportamento venisse portato di fronte a un tribunale

della sharia, la legge islamica, comporterebbe la pena

capitale.[…] La copertina è ‘una sfacciata provocazione’, mentre

la gente dovrebbe essere ‘sensibile nei confronti delle emozioni e

dei pensieri dei musulmani’".

Blasfemia in Italia

Dal 1999 la bestemmia non ricade più tra i reati: è considerata un

illecito amministrativo. La versione vigente dell'articolo 724

("Bestemmia e manifestazioni oltraggiose verso i defunti") è la

seguente: «Chiunque pubblicamente bestemmia, con invettive o

parole oltraggiose, contro la Divinità, è punito con la sanzione

amministrativa da euro 51 a euro 309». Secondo alcuni, tuttavia,

anche la sanzione alla bestemmia comprometterebbe la libertà

di pensiero e di crit ica garantita dalla Costituzione italiana. A

questo proposito, in una sentenza della Corte di Cassazion3e del

27 marzo 1992 sull'articolo 724, si stabilisce che: « assurdo e

fuori di luogo è il voler ricondurre la bestemmia alla

manifestazione del pensiero e alla libertà costituzionalmente

garantita di tale manifestazione […]. Ciò che, invero, vien

sanzionato è il fatto di bestemmiare con invettive e parole

oltraggiose: non la manifestazione di un pensiero, ma una

manifestazione pubblica di volgarità.”

La bestemmia è quindi un’espressione di maleducazione che

poco ha a che fare con la religione o la libertà di espressione, ma

in un paese cattolico come l’Italia la sensibilità comune la tollera

più della satira su tematiche religiose.

Diritto di satira: ci sono dei limiti? In Italia, infatti, dopo la strage di Parigi, ci si è interrogati sugli

eventuali limiti della satira di fronte al sentimento religioso.

Riportiamo i punti salienti di un’intervista al professore Nicola

Colaianni, ordinario di Diritto ecclesiastico, italiano e comparato,

presso l’Università di Bari, già magistrato della Suprema Corte di

Cassazione e parlamentare.

Il professore crede che i limiti della satira debbano essere scelti

dai disegnatori satirici stessi, secondo il loro punto di vista,

i valori in cui credono e le battaglie che vogliono combattere.

Colaianni infatti smise di crit icare i Fratelli Musulmani dopo il 30

giugno 2013, da quando cioè non hanno più avuto il potere in

Egitto e hanno iniziato a essere vittime.

“La satira è una grande arma nelle mani dei deboli contro la

t irannia, ma non deve essere sacralizzata, altrimenti potremmo

finire con usarla contro chiunque ci sembri diverso, le mino-

ranze, le etnie o chiunque possa già soffrire di discriminazione.

Si può parlare di qualsiasi cosa attraverso la satira, anche della

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28

religione se è divertente, ha un senso, e fa pensare.

In Egitto per esempio fra le barzellette più famose ci sono quelle

sulla religione, alcune davvero irriverenti. Il contesto, il pubblico,

la comprensione reciproca e il rispetto possono far funzionare

qualsiasi cosa. Certo, è rischioso prendere in giro le cose in cui la

gente crede. L’Islam è più di qualche pagina di libro e di insegna-

menti, è parte integrante del modo in cui alcune persone capi-

scono il mondo, guardano al loro passato e al loro presente.

Prendere in giro questo […] può comportare confusione. Il senso

dell’umorismo si riferisce sempre alla vita vissuta, condivide rife-

rimenti e sottolinea assurdità in un modo che la gente possa

capirlo. Quindi varia in base alla cultura e alle esperienze vissute”.

Satira e potere

“A chi impugna mitragliatrici per sterminare matite, e a chiunque

si sottometta a qualcosa di diverso dalla propria coscienza, ci

piacerebbe spiegare che avventura faticosa e fantastica sia la

libertà. Ma non lo faremo, perché la libertà non si può

spiegare.[…] La forma estrema, per molti incomprensibile, di

libertà è la satira. Offensiva, provocatoria e irrispettosa per

definizione, ribalta ostinatamente il punto di vista, perciò è

detestata dai possessori di verità assolute e dai fautori delle

religioni.” [M.Gramellini]

Cos’è la satira

Ancorata ad una tradizione millenaria, la satira costituisce la più

graffiante delle manifestazioni artistiche. Basata su sarcasmo,

ironia, trasgressione, dissacrazione e paradosso “rivela e colpisce

con lo scherno o con il ridicolo concezioni, passioni, modi di vita e

atteggiamenti comuni a tutta l’umanità, o caratteristici di una

categoria di persone o anche di un solo individuo, che

contrastano o discordano dalla morale comune (e sono perciò

considerati vizi o difetti) o dall’ideale etico dello scrittore”.

Verte preferibilmente su temi di attualità, scegliendo come

bersaglio privilegiato i potenti.

La satira propriamente detta è una forma letteraria (singolo

componimento, più o meno breve; ma anche poema satirico,

romanzo satirico ecc.), ma si può esprimere anche attraverso

vignette, come quelle del giornale satirico francese Charlie

Hebdo.

Essendo una forma d’arte, il diritto di satira trova riconoscimento

nell’art. 33 della Costituzione Italiana, che sancisce la libertà

dell’arte. In molti Paesi del mondo, invece, tale libertà non è

garantita e talora è fortemente osteggiata. Abbiamo scelto la

Turchia.

La satira in Turchia

Sorta dalle ceneri dell'Impero ottomano nel 1923, la Turchia è

una Repubblica parlamentare. Le sue istituzioni sono state a

lungo fortemente condizionate dalle forze armate, il cui ruolo

politico venne fissato nella Costituzione da Kemal Atatürk e

ribadito nell'ultima Costituzione del 1982, emendata nel 1995. In

questi ultimi dodici anni, tuttavia, durante i quali Erdogan ha

ricoperto la carica di premier, il sistema di vita sociale in Turchia è

cambiato, rientrando in un più tradizionale orientamento

musulmano. Forte dei successi ottenuti in campo interno e

internazionale nel settore economico e della riduzione del potere

delle Forze Armate, Erdoğan è stato eletto presidente nell’agosto

del 2014. Sostenuto dal 50% di parlamentari dell'Akp (il suo

partito di centro destra islamista, Libertà e Giustizia) propone

“una nuova Costituzione”, redigendo una carta "liberale " che

possa essere “un riferimento per il mondo musulmano come via

dell'islam senza dittatura”.

In realtà la Turchia è ben lontana dall’essere un paese liberale.

Basta considerare la libertà di espressione: il rapporto di Reporter

senza frontiere del 2014 segnala la Turchia al 154° posto nel

mondo, dato che “molti giornalisti sono stati mandati in prigione

o si trovano ad affrontare un processo a causa del loro lavoro”. La

satira, se pure molto diffusa, costantemente subisce pressioni e

attacchi da parte del potere che è oggetto della critica. Oggi è

Erdoğan il soggetto privilegiato della satira. Nella vignetta del

famoso disegnatore Musa Kart la didascalia recita “Linguaggio

A cura di: Veronica Guerci, Bianca Pezzani, Caterina Pinelli (III D 2014-15) Un paragrafo a cura di Pietro Canuti (IV D 2014-15) Bibliografia e sitografia: Blasfemia, l’informazione sacrif icata sull’altare della religione http://en.rsf.org/religions/en.html Mappa sulla violazione della libertà religiosa nel mondo: (qui non riportata) http://acs-italia.org/wp-content/uploads/cartina-libert%C3%A0-religiosa.jpg Mappa sulla libertà di espressione nel 2014: http://en.rsf.org/ La legge sulla blasfemia nel mondo: http://www.lettera43.it/upload/editor/blasfemia%202.jpg L.M.Guzzo, Intervista a Nicola Colaianni, ordinario di

Diritto ecclesiastico a Bari 14-1-2015 “La Stampa”

Ridicolizzare il Profeta è un attacco al suo onore,

13/1/2015

http://www.osservatoreitalia.it/index.asp?art=2946&arg

=46&red=10

GB, imam Choudary: I musulmani non credono nella

libertà di parola, 9-1-2015

http://www.imolaoggi.it/2015/01/09/

http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/asia-bibi-il-dramma-della-famiglia.aspx

Page 29: Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

29

politico” mentre dalla bocca di Erdoğan, al posto della lingua,

esce una mano che spruzza gas urticante. Si tratta di un chiaro

riferimento all’uso di questo tipo di gas durante la repressione

poliziesca delle manifestazioni di protesta di Gezi Park nel 2013.

La seconda vignetta è del cartoonist Patrick Chappatte, ed è

stata pubblicata sul New York Times, ma ha messo nei guai un

professore che la mostrava durante una manifestazione a

Istanbul, in quanto considerata un insulto alla bandiera turca.

[da notare un uomo con la bandiera dell’Unione Europea che spia

Erdogan: si allude al fatto che si sta esaminando da tempo la

proposta di far entrare la Turchia nell’Unione Europea]

Quando il presidente Erdogan nel marzo del 2014 bloccò Twitter

con il pretesto della sicurezza nazionale, la rete si scatenò in una

campagna satirica contro le limitazioni della libertà di

espressione in Turchia con vignette e slogan.

Naturalmente anche la religione islamica non può essere oggetto

di satira in Turchia senza suscitare reazioni.

Bahadir Baruter, uno dei più noti disegnatori satirici del Paese,

collaboratore della rivista Penguen, nel 2012 è stato messo sotto

processo per aver pubblicato una vignetta ironica sulla religione;

per la violazione dell’articolo 216 del codice penale turco

(“denigrazione dei valori religiosi di un gruppo”) rischia un anno

di prigione.

Ha affermato Baruter: “Le riviste di satira e anche altre

pubblicazioni come quelle comuni sono messe sotto pressione

dalla legge. Per esempio io che pubblico, faccio l’editore e il

disegnatore ho subito dieci procedimenti giudiziari e sto

sostenendo un processo. [Quello relativo alla vignetta a fianco

riportata]

“Dei devoti musulmani pregano davanti alla scritta ‘non c’è nessun

Allah, la religione è una bugia’, uno di loro telefona col cellulare

direttamente a Dio per chiedere se può assentarsi dalla preghiera

prima del previsto”.

In Turchia la stampa non è libera e indipendente. Io vivo in un

paese che è laico ma il (mio) caso giudiziario è nato a partire da

un disegno. In un paese laico un disegno viene denunciato dalla

pubblica accusa e in un paese laico la corte mi ha messo sotto

processo. L’offerta di democrazia dell’AKP non è sincera.”

A cura di: Ana Botnari, Elena De Benedetti, Chiara Longhi, Filippo Savi (III D 2014-15) Bibliografia e sitografia: Voce “satira”: www. treccani.it

Massimo Gramellini, Checkpoint Charlie, “La Stampa”

9-1-2015

Filippo Cicciù, La satira in Turchia,

https://kebapconnection.wordpress.com/2012/05/14/l

a-satira-in-turchia/

Filippo Cicciù, Gli attacchi alla satira in Turchia: una

vecchia storia

https://kebapconnection.wordpress.com/2015/01/04/

Vignette: http://contents.internazionale.it/wpcontent/uploads/2014/03/erdogan.jpg http://www.rainews.it/dl/img/2014/03/310x0_1395401992430_turchia17.jpg http://www.ondebat.net/wp-content/uploads/2013/08/vignetta-baruter.jpg

Page 30: Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

30

Libertà di satira

“In generale, è diritto naturale dell'uomo quello di utilizzare la sua

penna e la sua lingua, a suo rischio e pericolo. Conosco molti libri

che hanno annoiato, non ne conosco nessuno che abbia fatto male

realmente a qualcuno.” François-Marie Arouet, detto Voltaire

In parallelo con gli avvenimenti di Parigi del 7 gennaio 2015 e

l’incombente minaccia dell'Isis viene risollevata la questione

della libertà di espressione e in particolare della libertà di satira.

In Italia come all'estero non si parla di altro. Da qui l'emergere di

pareri contrastanti a riguardo. Il giornalista e scrittore de “La

Repubblica” Corrado Augias scrive: “Continuo a pensare che

alzare le mani contro la satira manifesti solo che ci mancano le

parole o che prendiamo sul serio chi vuole farci del male o

provocarci. Riuscendoci in tal caso benissimo.”

Un altro scrittore con idee chiare riguardo il recente attentato è

Salman Rushdie: “L’arte della satira è forza di libertà contro la

tirannia e la disonestà. […] Credo fortemente nella libertà di

parola. Si può non avere simpatia per Charlie Hebdo ma ciò non

giustifica in alcun modo il loro omicidio né la critica al loro diritto

di parlare.”

Così si apre il nostro lavoro sulla libertà di satira per rivendicare

una libertà di parola che nei secoli ha subito attacchi ma che

finalmente è riuscita ad affermarsi, anche se ancora a rischio.

Abbiamo deciso di trattare le storie dei personaggi che stanno

dietro i fumetti di alcuni vignettisti di Cartooning for peace.

Vedremo come i protagonisti di queste satire abbiano in realtà

molto in comune con i loro autori e diventino portavoce dei loro

ideali.

Michel Kichka, nato in Belgio nel 1954, è uno dei maggiori

rappresentanti dei fumettisti israeliani (di cui presiede

l’Associazione). Illustratore e vignettista satirico, pubblica su

numerose testate giornalistiche e collabora con la televisione

israeliana e con quella francese. Docente presso la Bezalel

Academy di Gerusalemme – una delle più prestigiose scuole

d’arte al mondo – nel 2006 ha aderito al movimento “Cartooning

for Peace” e nel 2011 è stato nominato Cavaliere delle Arti e delle

Lettere dal Ministero della Cultura francese.

Riguardo la recente strage di Charlie Hebdo a Parigi, Kichka

riprende quel tragico 11 settembre 2001, richiamando la caduta

delle torri gemelle, in questo caso la libertà di satira del giornale

satirico francese. Nella seconda vignetta vediamo invece Cabu,

uno dei disegnatori uccisi nella strage, che dice: ”E’ duro essere

ucciso da degli idioti”.

A fianco riportiamo anche la vignetta disegnata da Kichka subito

dopo la strage del museo del Bardo di Tunisi, il 18 marzo 2015,

con il testo in francese che compare nel suo blog.

« Destruction des Bouddhas de la Vallée de Bâmiyân en

Afghanistan, destruction des mausolées musulmans à

Tombouctou, destruction des trésors du Musée de Mossoul,

attentats au Musée Juif de Bruxelles, attentats à Charlie Hebdo,

attentat au Musée Bardo de Tunis. Décidément, les terroristes

islamistes ont un attrait particulier, et particulièrement maladif,

pour l’Art. L’Art de tuer et de détruire, au demeurant. »

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31

Nadia Khiari, vignettista tunisina e docente di Belle Arti a Tunisi,

è stata insignita a Liegi della Laurea Honoris Causa per la sua

lotta per la libertà d’espressione, ha vinto diversi premi fra cui in

Italia nel settembre del 2014 il premio Satira politica, sezione

disegno satirico, a Forte dei Marmi.

Intervistata nel febbraio del 2014 nel suo paese, ha parlato del

suo personaggio, il gatto Willis from Tunis.

All’inizio, prima della Rivoluzione [2010-11], era solo un gatto, ma

dopo l’ultimo discorso dell’allora presidente Ben Ali prima della

sua fuga, il 13 gennaio 2011, l’ha usato per parlare della politica in

Tunisia. Ben Ali “ha tentato di calmare la popolazione e ha detto,

per mantenere il potere, che ci sarebbe stata libertà di

espressione”. Willis, nella prima vignetta, veste i panni dellʼex-

Presidente, che rivolgendosi ai suoi sostenitori, nelle sembianze

di tre topolini che esultano per il calo del prezzo del formaggio,

dice con aria soddisfatta “vi ho capito...”

In una vignetta successiva Willis-Ben Ali inneggia alla rivoluzione,

suscitando le risate di tutti.

Quel giorno, ha detto la Khiari “ho creato una pagina su

Facebook e ho condiviso il mio primo fumetto nella rete sul gatto

Willis, con l’intento di rappresentare l’attualità, di testimoniare

come si vive in Tunisia giorno dopo giorno, attraverso perché no,

un po’ di impertinenza”.

Sotto la dittatura di Ben Ali [presidente della Tunisia dall’87 al

2011] la critica non era permessa. Nonostante questo molti artisti

hanno lasciato parlare le loro matite ma hanno avuto

continuamente problemi, hanno subito intimidazioni, sono stati

vittime di violenze e hanno visto le porte del carcere spalancarsi.

La stessa Nadia Khiari ha subito intimidazioni per mesi da parte

di un gruppo estremista seguace di Ben Ali e ha rischiato il

carcere innumerevoli volte. “Si viveva tutti sotto una sorta di

oppressione. Come si può esprimersi sotto una dittatura senza

avere dei problemi?” La rivoluzione ha liberato i tunisini da quella oppressione.

“Siamo stati costretti a tapparci la bocca e a dimenticare. Io

penso che la rivoluzione possa essere paragonata al primo vagito

di un neonato, al primo grido di una creatura che può godersi la

sua prima boccata d’ossigeno per poi crescere ed essere libera di

esprimere il suo essere”.

Certo rimangono molti i problemi della Tunisia, da quello

economico a quello politico, con partiti che pensano a spartirsi il

potere. Ma la Khiari è fiduciosa, e intanto niente viene

risparmiato dalla sua critica.

Nell’autunno del 2014 in Tunisia si sono tenute libere elezioni,

che hanno portato ad un parlamento in cui siedono sia forze

laiche che religiose. La Tunisia è l’unico Paese coinvolto dalla

primavera araba che abbia una costituzione democratica.

L’attentato al Museo del Bardo di Tunisi, avvenuto il 18 marzo

2015, testimonia che il terrorismo non accetta l’affermazione

nell’area di forze democratiche e laiche (il primo obiettivo era il

Parlamento).

Riportiamo infine la vignetta dedicata dalla disegnatrice Nadia

Khiari alle vittime di Charlie Hebdo.

Page 32: Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

32

Mana Neyestani è nato a Teheran, in Iran, nel 1973. Da quando

aveva 16 anni disegna fumetti e vignette. Da alcuni anni vive in

esilio, a Parigi, sotto la protezione dell’Icorn, l’International Cities

of Refuge Network, la rete delle città che difendono la libertà

d’espressione.

A Parigi nel gennaio del 2013 incontra il giornalista italiano

Alberto Mattioli e gli racconta la sua storia, che ha disegnato

nella Graphic Novel Una metamorfosi iraniana.

Nel 2000, quando il governo iraniano chiude 17 giornali in un

colpo solo, smette di disegnare vignette satiriche e comincia a

disegnare per i bambini. «Lavoravo a “Iran Jomeh”, supplemento

settimanale del quotidiano “Iran”, finanziato dal governo. I

rapporti con la proprietà non erano facili, ma io ero tranquillo,

lavoravo per i ragazzi». L’incubo inizia un sabato del 2006.

«Avevo scritto una striscia buffa su dieci metodi per schiacciare

uno scarafaggio, protagonista un ragazzino che parla con

l’insetto. Purtroppo misi in bocca allo scarafaggio la parola

“namana”.

E’ un termine azero, della minoranza turca che vive nel nord del

Paese, da sempre nel mirino del regime. Però in Iran è una parola

gergale che usiamo tutti, un’espressione comune, che significa:

“Cosa? Cosa dici?”. Niente di strano». La minoranza azera, però,

la prende malissimo. Ci sono manifestazioni, scontri, scioperi:

«Gli azeri si considerarono insultati. Soprattutto, credo, perché

l’editore era il governo». Dieci giorni dopo, il vignettista e il suo

editore vengono arrestati. Direzione l’edificio 209 del carcere di

Evin. Qui li informano che nelle città azere la polizia ha sparato

sui manifestanti facendo morti e feriti. «Volevano che

confessassi, ma io non avevo nulla da confessare. Il famigerato

giudice Said Mortazavi mi chiedeva quanti soldi avevo ricevuto

dagli americani per scatenare i disordini, minacciandomi di un

interrogatorio “tecnico”. Tutti in Iran sappiamo cosa significa...».

In carcere, Neyestani resta tre mesi. Poi riceve un permesso di

uno. A sei giorni dalla scadenza, decide di fuggire insieme alla

moglie Mansoureh.

«Dallo Scià agli imam, abbiamo sempre vissuto sotto una

dittatura. E’ un problema culturale, più che politico. La voglia di

esprimersi c’è ed è diffusa. Ma non ci sono i mezzi, non ci sono

partiti, sindacati, media liberi. Per questo il regime cerca di

mandare all’estero chi pensa. Sa cosa si dice a Teheran? Che,

dopo il petrolio, gli intellettuali sono il principale prodotto

d’esportazione dell’Iran».

Molte sono le tematiche su cui si incentrano le satire originali di

Neyestani: alcune proclamano il concetto di “freedom”, libertà,

altre si riferiscono alla “morte” della democrazia. Molte di

queste satire contengono anche critiche a modi di pensare e

agire del passato come quello nazista, richiamando ad esempio la

brutalità dei tedeschi nei confronti degli ebrei e mettendo in

risalto attraverso un’ironia pungente le ingiustizie commesse.

A cura di: Pietro Canuti, Eleonora Fontana, Agata Magni, Lorenzo Urbanetto (IV°D 2014-2015)

Bibliografia e sitografia

- François-Marie Arouet, detto Voltaire, voce ”Liberté d’ 'imprimer”, Questions sur l’ Encyclopédie

- C. Augias, “La libertà di sat ira e la Legge”, “La Repubblica”, 17 gennaio 2015

- S. Rushdie, Lettura presso University of Vermont, “La Repubblica”, 17 gennaio 2015

- http://fr.kichka.com/

- Alberto Mattioli, “Kafka a Teheran, uno scarafaggio conduce all’esilio”, “La Stampa”, 10 gennaio 2013

- Libertà di satira: http://www.difesadellinformazione.com/57/il-diritto-di-satira/

- Cartooning for peace: http://www.cartooningforpeace.org/

- Nadia Zangarelli, Intervista a Nadia Khiari - Willis from

Tunis, 5-2-2014 http://www.globalproject.info/it/

Page 33: Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

33

Libertà di espressione e

mondo arabo: utopia o

realtà prossima?

L'individuo è padrone di pensare, esprimersi e agire come crede

necessario per il suo sviluppo personale. La libertà dell'individuo

è una condizione necessaria al progresso sociale. Avere la facoltà

di scelta è quello che distingue l'uomo dalle altre creature. Se

l'individuo non avesse la libertà di pensare, esprimersi ed agire, la

sua vita sarebbe simile a quella di un automa. La libertà di

espressione non deve avere alcun limite religioso; in Occidente

essa ci permette di esprimere critiche senza cadere nel blasfemo,

mentre i Paesi islamici dovranno ancora combattere per

ottenerla.

Ma non è solo la religione ad essere un argomento tabù in alcuni

Paesi. Abbiamo analizzato le figure di alcune artiste – fotografe,

registe, scrittrici – che hanno dedicato la loro opera soprattutto

al ruolo e alle condizioni delle donne nei Paesi in cui

l’imposizione della legge coranica o la persistenza di antiche

tradizioni rende difficile la loro vita e il rapporto con il mondo

maschile. Un Paese in particolare è al centro della nostra breve

indagine, l’Iran.

Shirin Neshat: denuncia attraverso l'arte Nata nel 1957 in Iran, è una fotografa e videoartista che si è

imposta a livello internazionale per la sua capacità di esplorare la

complessità delle condizioni sociali all’interno della cultura

islamica, rivolgendo un’attenzione particolare alla condizione

della donna.

Vissuta negli Stati Uniti dal 1974 al 1990,al suo ritorno in patria si

è resa conto delle radicali trasformazioni subite dalla società

iraniana e “senza rinnegare la sua duplice appartenenza al mondo

occidentale e a quello orientale, Neshat ha impostato un discorso

figurativo altamente poetico, capace di scuotere lo spettatore

con immagini e muti racconti: espressione di problematiche che

seppur connesse con l'islamismo ne oltrepassano i confini. I suoi

primi lavori (Women of Allah, 1993-97) sono fotografie in bianco e

nero di donne velate, primi piani di parti del corpo femminile

(volti, mani, piedi) sulle quali Neshat sovrascrive versi di

poetesse iraniane contemporanee, come F. Farrukhzād, che

mettono in discussione le qualità stereotipe associate alle donne

musulmane”.

“Realizza anche installazioni video in cui sono raccontate storie,

affidate quasi esclusivamente alla coreografia delle immagini e

alla musica, che rende più intensi gli stati emozionali. […]

Per es. in Rapture (1999) tratta della separazione dei generi,

contrapponendo un gruppo di uomini, che eseguono rituali

apparentemente assurdi in una fortezza, e un gruppo di donne

che vagano in un deserto fino a giungere alla spiaggia sotto la

fortezza e spingono una barca in mare, strumento del loro

destino, forse di morte, forse di libertà.”

Nel 2009 realizza il suo primo film, Women without men, basato

sul romanzo omonimo di Parsipur, che vince al Festival di

Venezia il Leone d’Argento.

Nelle sue fotografie mostra, attraverso immagini piene di

tensione, corpi velati di persone sottomesse che ogni giorno

devono fare i conti con la violenza ed il terrorismo.

Page 34: Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

34

I giovani iraniani Dal 1921 al 1979 l’Iran è stato governato dalla dinastia Pahlavi, un

regime autoritario, aperto alle ingerenze straniere, che portò

avanti dagli anni ’60 un programma di modernizzazione

economica e sociale, ma non riuscì ad evitare violente

contestazioni, di cui approfittarono i seguaci dell'ayatollah

Khumaini (Khomeini), che costrinsero lo Scià Reza Pahlavi alla

fuga.

Oggi, più di tre decenni dopo la rivoluzione, c’è una grande

divergenza tra la generazione che ha fatto la rivoluzione, con le

sue ideologie e il suo idealismo sociale, e la nuova generazione

nata dopo la rivoluzione, che si ispira soprattutto a un idealismo

individuale. Questa nuova generazione ha avuto un'educazione

islamica apparentemente lontana dalle influenze dalla società

occidentale; ma in realtà la sincronia di un islam politicizzato e

onnipresente nella vita quotidiana della popolazione con

l'inevitabile impatto delle culture straniere, enfatizzato dai vari

media, ha prodotto una desacralizzazione della religione. Ciò ha

determinato a sua volta un'ibridazione della società iraniana, che

nessuno poteva prevedere. Si è così diffusa la percezione che la

società iraniana sia entrata in una nuova era. I giovani iraniani

sono molto dubbiosi circa il loro avvenire in Iran. Dalle loro parole

traspare l'angoscia per la difficoltà di costruirsi una vita

indipendente. Per molti di loro il vago orizzonte futuro si situa

all'estero.

Persepolis: il film Il film traduce in cartone animato il graphic novel omonimo,

realizzato dalla giovane iraniana Marjane Satrapi, che vi descrive

vent’anni della propria vita. Oggi la Satrapi, che è anche regista

del film con Vincent Paronnaud, è costretta a vivere in Francia;

l’Iran ha protestato vivamente per la proiezione del film al festival

di Cannes del 2007 (dove vinse il Premio della giuria) e continua a

boicottarlo.

La piccola Marjane, bambina di nove anni già ribelle e

anticonformista, rifiuta le rigide regole della società iraniana,

soprattutto dopo la caduta del regime dello Scià e l’avvento della

cosiddetta rivoluzione islamica di Khomeini. Preoccupati per

l’incolumità della figlia, i genitori, quando compie 14 anni,

decidono di mandarla a studiare in Austria.

All’inizio l’esperienza austriaca è per Marjane piuttosto

traumatica perché gli altri studenti la identificano con quel

mondo fatto di fondamentalismo religioso cui lei si è ribellata,

ma con il passare del tempo riesce ad integrarsi. Alla fine della

scuola il richiamo verso le sue radici e la sua famiglia la spinge a

tornare in Iran, dove si sposa.

Ma le leggi dettate dal fondamentalismo non permettono a una

donna di essere libera, né di costruirsi una carriera artistica.

Neppure il matrimonio la soddisfa e Marjane riparte per l’Europa.

Solo a questo punto dal disegno stilizzato in bianco e nero si

passa al colore. Il film attraverso una storia individuale di

formazione affronta la memoria collettiva del Paese.

Persepolis: la ribellione attraverso un

cartone La storia privata di Marjane, infatti, si intreccia con la storia

politica dell’Iran e con le storie di tutti gli altri personaggi: quella

dei parenti uccisi dai pasdaran [i miliziani khomeinisti della

Page 35: Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio

35

rivoluzione islamica del 1979], degli amici mandati a combattere

la guerra contro l’Iraq [nel 1991] e dei giovani che, segnati dalle

atrocità della guerra, cercano disperatamente di ritagliarsi uno

spazio felice eludendo i controlli dei guardiani della rivoluzione.

Il viaggio di Marjane da bimba a donna adulta la porta a

scontrarsi con due realtà differenti: da una parte l’Iran che passa

da monarchia filo-occidentale a repubblica islamica integralista;

dall’altra un Occidente che, pur essendo libero, non è capace di

comprendere, un Occidente popolato da persone che, non

trovando una ragione di vita collettiva, si perdono nel labirinto

della individualità. Ma quello che risalta soprattutto è “cosa

significa essere donna in Iran, cosa si nasconde dietro un velo

nero imposto sulla bellezza e la complessità di una persona e di

un popolo”.[M.Fadda]

Persepolis ha la capacità di trasmettere le emozioni dell’autrice

(nella foto); le immagini ci inducono a solidarizzare con le

difficoltà della protagonista, a pensare e a riflettere a fondo sulla

storia dell’ Iran.

Sotto il burqa: un libro per sensibilizzare L’autrice del romanzo, pubblicato nel 2001, è Deborah Ellis, che

ha lavorato in varie parti del mondo collaborando a progetti di

sostegno alle popolazioni colpite dalla guerra. In particolare è

stata nei campi profughi in Pakistan, dove ha raccolto storie di

ragazze e donne costrette a portare il burqa; ne ha tratto un

romanzo la cui protagonista è Parvana, una ragazzina che porta

il chador, ma che dovrà portare il burqa, come la sorella più

grande e la madre.

Quando il libro fu scritto (nel 2000) l’Afghanistan era sconvolto

dalla guerra fra i talebani e l’Alleanza del Nord e pochi

conoscevano le sofferenze della popolazione civile di un paese

così lontano dalle vicende internazionali. Ma nel 2001, dopo

l’attentato di New York, Bin Laden si rifugiò in Afghanistan e gli

USA invasero il paese. Divennero famose parole come talebani e

burqa e il libro venne tradotto anche in italiano.

La scrittrice vi denuncia la sofferenza delle donne afgane,

obbligate a vivere sotto un velo che copre ogni centimetro

quadrato del loro corpo impedendo loro persino i movimenti e

lasciando una piccola rete davanti agli occhi. Il racconto è

ambientato a Kabul, tra bombardamenti e violenza, soldati col

turbante e donne col burqa.

Parvana è una ragazzina di 11 anni che vive in una stanza con i

suoi genitori, le sorelle Nooria e Maryam, e il piccolo Ali. Lei e la

sua famiglia hanno dovuto trasferirsi più volte a causa dei

bombardamenti che hanno ucciso il fratello maggiore, Hossian, e

hanno fatto perdere una gamba al padre. Per le strade di Kabul

girano i talebani che hanno imposto il burqa alle donne, la barba

agli uomini, e che hanno proibito il lavoro o la scuola alle ragazze.

Perciò Parvana, ogni giorno, accompagna il padre a lavorare al

mercato, dove egli legge e scrive lettere per gli analfabeti. Un

altro compito quotidiano della ragazzina è andare ad attingere

l’acqua dal pozzo:

”La mamma e Nooria dovevano indossare il burqa ogni volta che

uscivano, e non era possibile che trasportassero un secchio d’acqua

su per quelle scale sconnesse indossando il burqa. E poi era

pericoloso per le donne uscire per strada senza essere

accompagnate da un uomo. Parvana sapeva che toccava a lei

andare a prendere l’acqua perché nessun altro in famiglia poteva

farlo.”

Un giorno, un gruppo di soldati talebani rapisce il padre di

Parvana senza motivo. Per il bene della sua famiglia è costretta a

tagliarsi i lunghi capelli neri e a vestirsi come un maschio per

poter lavorare al posto del padre. Anche la madre decide di

tornare a lavorare per un giornale e con l’aiuto di un’amica, la

signora Weera, riesce ad raggiungere Mazar-e-Sharif, con la

scusa di dover maritare la figlia maggiore. Il padre viene rilasciato

e Parvana parte con lui per raggiungere Mazar, caduta in mano ai

talebani, alla ricerca della sua famiglia.

Parvana ricorda spesso una storia che le raccontava il padre,

quella della coraggiosa Malali, che per ottenere la libertà

dell’Afghanistan, guidò le truppe in guerra. Nei momenti di

difficoltà prova ad immedesimarsi in Malali che è il simbolo del

coraggio. Quando parte con il padre alla ricerca del resto della

famiglia, gli chiede se viaggerà come ragazza o ragazzo. Il padre

le risponde: “Scegli tu, sarai comunque la mia piccola Malali”.

Nel salutarli la signora Weera mostra loro delle copie della rivista

di sua madre, che tiene nascoste sotto il burqa:

“Dì a tua madre che molte copie di questa rivista stanno per essere

spedite alle donne di tutto il mondo. Lei ha contribuito a far sapere

al mondo che cosa succede in Afghanistan. Assicurati che lo sappia.

Quello che ha fatto è molto importante. E dille che abbiamo

bisogno che torni per lavorare al prossimo numero”.

Il messaggio della scrittrice è molto profondo e invita a riflettere

sulla richiesta d’aiuto delle donne afgane.

Le donne in Afghanistan e Iran Anche se oggi, dopo l’intervento della missione internazionale

(l’International Security Assistance Force o Isaf ha concluso il

proprio compito alla fine del 2014) la situazione in Afghanistan è

migliorata e il Paese ha un presidente ed un parlamento eletti,

non si può parlare ancora di democrazia. Il terrorismo ha ripreso

piede via via che le forze occidentali si vanno ritirando.

Inoltre, come attestava la politica afgana Malalai Joya nel

2012,“su una popolazione di 27 milioni di afgani, circa 22 milioni

vivono sotto la soglia di povertà, e la condizione delle donne è

allarmante. Il governo, sostenuto dagli Stati Uniti, è composto

da personaggi corrotti, signori della guerra e signori della droga,

con idee retrograde e fondamentaliste che non li rendono molto

diversi dai talebani, ed il paese si colloca ai primi posti fra i paesi

più corrotti al mondo”.

Per quanto riguarda l’Iran, riportiamo le parole dell’attivista

Masih Alinejad (foto della pagina seguente) che vive in esilio dal

2009, fra New York e Londra, per le minacce subite in seguito alle

sue inchieste sulla brutalità del regime. Ha creato un blog che

raccoglie le foto delle iraniane a capo scoperto, per mostrare il

vero volto dell’Iran. “Essere donna in Iran è una battaglia

continua. Devi lottare ogni giorno per affermare diritti basilari.

[…] Quando ti vogliono zittire non attaccano mai le tue opinioni.

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36

Puntano sempre alla tua sessualità. Ti chiamano brutta perché

pensano sia un modo per spezzarti. Ti chiamano prostituta. Io

sono stata diffamata in ogni modo”. Alinejad ha appena ricevuto

a Ginevra il premio per i diritti delle donne, il Women’s Right

Award. Intervistata da Anna Lombardi ha detto che le donne che

postano sul suo blog le foto a capo scoperto “rischiano il carcere

e anche peggio. Ma è un rischio che prendono per essere se

stesse. Essere donne in Iran è pericoloso comunque. Con le foto

hanno trovato un modo per unirsi e farsi sentire.”

Dalle testimonianze che abbiamo raccolto su questi due Paesi,

Iran e Afghanistan - nei libri, nel film e negli articoli - possiamo

concludere che il diritto di esprimere liberamente qualsiasi

pensiero non è di tutti, e in particolare non è ancora riconosciuto

a tante donne, costrette a una prigionia eterna sotto un velo nero

o private del diritto di esprimere le proprie opinioni.

Ma le donne combattono per ottenere questi diritti, anche a

costo di perdere tutto.

Le parole come armi La lirica è il genere letterario per eccellenza del mondo arabo, che

si esprime in una lingua dal lessico ricco e musicale. Nata in epoca

preislamica come genere contraddistinto da regole, ritmi e metri

codificati e inalterabili, la poesia araba ha subito una vera e

propria rivoluzione a partire dagli anni '40 del Novecento, per

opera di una donna, l’irachena Nazik al Mala’ika (1923-2007) che

seppe coniugare l’impegno a favore della poesia in versi liberi con

quello sociale e culturale a favore dell’emancipazione della

donna.

Con coraggio la poetessa denuncia le vessazioni subite dalle

donne, l’isolamento, il delitto d’onore. Vedi per esempio La

maledizione del tempo, dove si riflette sull’uccisione di una

ragazza per riscattare l’onore della famiglia che lei con il suo

comportamento aveva compromesso: ”Verrà l’alba e di lei

chiederanno le ragazze / dove l’hai vista? Risponde il bruto

«L’abbiamo ammazzata» / abbiamo lavato l’onta della vergogna

dalla nostra fronte.[…] / vicine del quartiere, ragazze del villaggio /

impasteranno il pane con le nostre lacrime di paura / ci taglieremo

le trecce, scoloriremo le mani / perché le loro vesti restino bianche e

pure / niente sorriso, niente gioire, non ci volteremo perché il

pugnale / nelle mani dei nostri padri e dei fratelli ci controlla / e

domani chi sa quale deserto / non si levi per lavare l’onta?”

La sua poesia si fa sempre più cupa. “La natura è ostile e il

deserto diventa metafora della solitudine e dell’ineluttabile

sofferenza umana”.

Per concludere il nostro lavoro abbiamo scelto la poesia Canto

d’amore per le parole, un inno alla magia e all’incanto della

creazione letteraria, ma che vogliamo leggere anche come un

inno alla libertà di espressione.

“[…] Perchè abbiamo paura delle parole / quando tra di loro vi sono

parole simili a campane invisibili,/ la cui eco preannuncia nelle

nostre vite agitate / la venuta di un'epoca di alba incantata,

intrisa d'amore e di vita?/ Ci siamo assuefatti al silenzio./ Ci siamo

paralizzati, temendo che il segreto possa dividere le nostre labbra./

Abbiamo pensato che nelle parole giaceva un folletto invisibile,/

rannicchiato, nascosto dalle lettere dalle orecchie del tempo./

Abbiamo incatenato le lettere assetate,/ vietando loro di diffondere

la notte per noi / come un cuscino, gocciolante di musica, sogni,

e caldi calici./ Perchè abbiamo paura delle parole? / Tra di loro ne

esistono di incredibile dolcezza / le cui lettere hanno estratto il

tepore della speranza da due labbra,/ e altre che, esultando di gioia

si sono fatte strada tra la felicità momentanea di due occhi /

inebriati./ Parole, poesia, teneramente / hanno accarezzato le

nostre gote, suoni / che, assopiti nella loro eco, colorano una

frusciante, / segreta passione, un desiderio segreto./ Perchè

abbiamo paura delle parole? / Se una volta le loro spine ci hanno

ferito, / hanno anche avvolto le loro braccia attorno al nostro collo

e diffuso il loro dolce profumo sui nostri desideri./ Se le loro lettere ci

hanno trafitto / e il loro viso si è voltato stizzito / ci hanno anche

lasciato un liuto in mano / e domani ci inonderanno di vita./ Su,

versaci due calici di parole./ Domani ci costruiremo un nido di sogno

di parole,/ in alto, con l'edera che discende dalle sue lettere./

Nutriremo i suoi germogli con la poesia/ e innaffieremo i suoi fiori

con le parole./ Costruiremo un terrazzo per la timida rosa / con

colonne fatte di parole,/ e una stanza fresca inondata di ombra,

protetta da parole./ Abbiamo dedicato la nostra vita come una

preghiera / chi pregheremo... se non le parole?”

A cura di: Chiara Delmonte, Lisa Pantaleoni, Sara Signorini ( III D 2014-2015) Penultimo paragrafo S.Borsi.

Bibliografia e sitografia: Suarez Villegas , J.C. La libertà di espressione e il rispetto dei sentimenti religiosi https://periodicos.ufsc.br/index.php/ethic/article Masserat Amir Ebrahimi e Ziba Jalali Naini, I giovani alla ricerca dello spazio perduto, in L'Iran tra maschera e volto Limes n°5/ 2005

Scheda film Persepolis http://www3.ti.ch/DECS/sw/temi/scuoladecs/index.php?fuseaction=scuole. M.Fadda, Persepolis in “Cineforum” n°466 2007 “Shirin Neshat” www.Treccani.it

http://www.nodalmolin.it/Afghanistan-oggi-sguardo-di-donne, 7 dicembre 2012 A.Lombardi, Intervista/L’attivista Masih Alinejad, in esilio, ha creato un blog che raccoglie le foto delle iraniane in “La Repubblica” 23 marzo 2015 p.19 Antologia della poesia araba a cura di F.M. Corrao, La Biblioteca di Repubblica, Milano 2004 Nazik al Mala’ika Canto d’amore per le parole, http://www.larecherche.it/testo.asp?Tabella=Proposta_Poesia&Id=268

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Un film contro l’integralismo:

Il destino

Film contro l'integralismo di ogni epoca del maggior cineasta

del mondo arabo (l’egiziano Yussef Chahine, 1926-2008). Il film,

del 1997, precede l’11 settembre 2001, che ha portato

all’attenzione mondiale l’integralismo islamico, ma il regista lo

conosce bene: nel 1993 in Egitto era stato condannato il suo film

L’emigré, solo perché la storia raccontata assomigliava a quella di

Giuseppe (e non si deve rappresentare al cinema un profeta).

Trama Cordoba, 1195. Il filosofo Averroè accoglie il giovane Joseph,

fuggito dalla Francia dopo che il padre, traduttore delle opere del

filosofo arabo, è stato bruciato sul rogo. Il cenacolo di Averroè è

frequentato anche dai figli del califfo Al-Mansour, Nasser e

Abdallah. Il primo è innamorato di sua figlia, mentre Abdallah,

che ama la musica e la danza, ha una relazione con la figlia del

cantore gitano Marwan. Confuso sul suo destino e la sua identità,

Abdallah si lascia convincere ad entrare nella setta di integralisti

al servizio dello sceicco Riad. Essi avversano apertamente

Averroè e rovinano anche i rapporti del filosofo con il califfo, di

cui è giudice e consigliere. La sua biblioteca personale viene data

alle fiamme. Ma i testi ricopiati dai suoi discepoli sono portati al

sicuro da Nasser in Egitto, appena in tempo, dato che il califfo

condanna Averroè all’esilio e le sue opere al rogo. Il filosofo lascia

Cordoba, mentre i suoi libri sono bruciati in piazza, ma egli sa che

sono salvi. "Il pensiero ha le ali / nessuno può arrestare il suo volo".

Averroè E’ il nome con cui è noto Muhammad Ibn Rushd (1126-1198),

filosofo e scienziato arabo spagnolo. Il film non si sofferma tanto

sull’opera di divulgatore e commentatore di Aristotele, quanto

sul suo intento di dimostrare la conciliabilità tra ragione e fede.

Averroè distingue l'ambito dell'indagine razionale, che aspira alla

verità scientifica, da quello della rivelazione coranica, il cui fine è

l'edificazione spirituale dei fedeli. Scrive il filosofo Umberto Curi:

"Una luce di razionalità e tolleranza, di equilibrio e assennatezza,

di tutela della tradizione e di apertura al nuovo. Intellettuale

poliedrico, versato nei più diversi campi del sapere, giudice e

medico di corte, astronomo e teologo, fra i maggiori esponenti di

quell'ampio e discusso movimento di pensiero denominato

falsafa, nel quale convergono le maggiori personalità della

ricerca filosofica islamica fra Duecento e Trecento […]. Averroè è

assunto dall'autore egiziano come protagonista di un racconto in

cui la ricostruzione storica e biografica è esplicitamente piegata a

finalità 'pedagogiche' strettamente connesse con le

problematiche odierne.

Come otto secoli fa, anche oggi dovremmo guardarci dal

soggiacere al fanatismo e all'intolleranza, dalla tentazione di

subordinare la necessaria libertà dell'indagine razionale alla

cortigianeria del potere. Come allora, anche oggi dovremmo

'aristotelicamente' evitare gli opposti eccessi del

fondamentalismo religioso e del mero conformismo utilitaristico,

perseguendo invece con tenacia il 'giusto mezzo' effettivamente

praticato dal filosofo arabo: rispetto della tradizione e insieme

autonomia della riflessione razionale; scrupolosa osservanza

delle leggi e insieme saggia moderazione nella loro applicazione;

riconoscimento dell'autorità, ma senza alcuna servile

sottomissione. [...] Per comunicare questo messaggio di

tolleranza e tenere insieme Oriente e Occidente, Cristianesimo e

Islam, fede e ragione il regista sceglie il modulo espressivo del

doppio: due i roghi, che aprono e chiudono il film, doppi i

personaggi e gli eventi. Inoltre non è casuale il riferimento alla

figura di Averroè. Si può anzi affermare che nessuna altra figura

avrebbe potuto compendiare gli intendimenti di Chahine meglio

del filosofo arabo. [...] Più che limitarsi ad affermare la

superiorità dell'indagine razionale rispetto all'apparato simbolico

e retorico proprio della religione, Averroè legittimava entrambe

le forme di ricerca, assegnando ad esse funzioni e destinatari

differenti: la falsafa doveva essere coltivata dai filosofi, con

l'avvertenza di non comunicare al volgo spiegazioni allegoriche

dei testi sacri, onde non ingenerare scetticismo negli intelletti più

deboli, mentre la milla era a sua volta rispettata come

espressione di una pia credenza popolare, di per sé non in

conflitto con le conclusioni della dimostrazione filosofica, né in

linea di principio discordante dalla ricerca dell'inscindibile unità

della verità."

Il film Il modulo espressivo del doppio è evidente fin dall’incipit: al rogo

sotto le mura di Carcassonne, ad una civiltà oscurantista e ad una

religione distorta (che anticipano i tempi dell’ Inquisizione) si

contrappone la casa-cenacolo di Averroé a Cordoba, centro di

elaborazione di cultura e di libera circolazione di idee, ma anche

di esperienza di vita, che non trascura le gioie della tavola, della

musica e della danza. Le donne non sono sottomesse, ma parte

attiva della vita familiare. La vivacità dei costumi, la sensualità

delle danze, la musica e le canzoni celebrano la gioia di vivere.

A questo modello di civiltà laica si contrappone la setta degli

integralisti: vestiti di verde come le bandiere dell’Islam, sono

intolleranti come i cristiani della prima scena. A loro il regista

attribuisce tecniche di reclutamento e di obnubilazione delle

coscienze e della ragione, che fanno riferimento ai

fondamentalismi del presente. “Il vuoto interiore costruito

attraverso la cancellazione della cultura e dei sentimenti (il

“deserto” in cui si conclude il percorso iniziatico), slogan e parole

d’ordine ossessivamente ripetuti che si sostituiscono

all’articolazione dei concetti, una sorta di militarizzazione delle

coscienze, di narcosi collettiva programmata per la violenza.”

[Vecchi]

A livello visivo l’uso della macchina a mano per la scena girata

all’interno del castello della setta rende bene l’offuscarsi della

coscienza del giovane Abdallah.

Rincresce che un film così importante non sia stato ripubblicato in DVD, rendendone diff icile la visione in Italia.

A cura di: prof.ssa Sandra Borsi

Bibliografia:

Umberto Curi, Lo schermo del pensiero, Raffaello Cortina

Editore, Milano 2000 pp.115-123

Paolo Vecchi Il pensiero ha le ali in “Cineforum n° 372 p.16

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