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L'imitazione nel Quattrocento e nel Cinquecento (di Franco Pignatti) Indice generale Premessa .............................................................................................................................................. 1 L'imitazione secondo Petrarca: la prima lettera a Boccaccio .............................................................. 1 L-imitazione secondo Petrarca: la seconda lettera a Boccaccio .......................................................... 3 L'imitazione umanistica: modelli e lingua ...........................................................................................4 L'imitazione secondo Poliziano: eclettismo e soggettività ..................................................................5 L'imitazione secondo Cortesi: un solo modello (e ottimo) ..................................................................6 L-imitazione a Roma: archeologia e filologia ..................................................................................... 7 L'imitazione eclettica di Filippo Beroaldo .......................................................................................... 8 Il partito dei ciceroniani romani e la posizione di Giovanni Francesco Pico ......................................9 La posizione di Pietro Bembo ........................................................................................................... 10 Erasmo critica la posizione ciceroniana ............................................................................................ 11 L-imitazione e la retorica secondo Giulio Camillo ........................................................................... 13 Il confronto tra Giraldi Cinzio e Calcagnini ......................................................................................14 La posizione di Bartolomeo Ricci e Bernardino Partenio ................................................................. 15 L'imitazione nell'età dell'aristotelismo dominante ............................................................................ 15 Premessa L'imitazione ha un ruolo centrale e strategico tra le istituzioni culturali del Rinascimento, e il dibattito che si incentra su di essa nel corso di oltre due secoli costituisce il terreno elettivo per l'elaborazione dei valori etici ed estetici che caratterizzano l'intera epoca. L'imitazione non si esaurisce infatti nella messa a punto di una teoria dello stile o di una prassi compositiva, ma acquista una valenza globale in grado di plasmare la nuova civiltà dei Moderni nella sua sostanza profonda, concettuale e anche mentale, determinando la frattura antropologica con l'età precedente. Il dato fondativo dell'identità rinascimentale, ossia la riscoperta degli Antichi e l'emergere da essi di forme e contenuti estetici e morali che parlano alla sensibilità dei Moderni in ideale continuità, al di là dei secoli e oltre la rivelazione cristiana, pone le basi per un'acquisizione complessa e problematica della categoria di "riuso", forgiato e articolato da una gamma di valori che non riguardano solo l'atto concreto della creazione artistica, ma si propongono universalmente come "forma del vivere". I concetti di equilibrio, misura, simmetria, selettività, norma, canone, sistema ideale entro cui sussumere i concetti di bellezza e di virtù, sono le componenti di quella cultura che va sotto l'etichetta di Classicismo, e che rappresenta il massimo prodotto della cultura cinquecentesca: ed è proprio l'istituto dell'imitazione ad averne consentito la lunga durata, ben oltre i confini dell'età rinascimentale, lungo l'intera civiltà d' Antico regime, fino al rovesciamento dei valori e all'opzione per il moderno teorizzata dal Romanticismo. L'imitazione secondo Petrarca: la prima lettera a Boccaccio Quale incunabolo del dibattito quattro-cinquecentesco sull'imitazione si possono considerare due epistole diFrancesco Petrarca a Giovanni Boccaccio, datate ottobre 1359 e 28 ottobre 1365 (Familiares, XXII 2 e XXIII 19), entrambe riguardanti passi del Bucolicum carmen, il poema composto, in latino, da Petrarca tra il 1346 e il 1348, e poi ritoccato fino al 1366, sui quali l'attenzione dell'autore si appunta perché ricordano troppo da vicino passi dell' Eneide e delle Metamorfosi. Gli emendamenti comunicati dal poeta all'amico costituiscono il pretesto per una riflessione intorno al rapporto con gli autori e al modo con cui devono essere presi a modello. Nella prima lettera Petrarca parte da una considerazione solo in apparenza paradossale, e cioè che sia più frequente errare in ciò che ci è familiare piuttosto che in ciò che conosciamo superficialmente. Infatti non ha riconosciuto a prima vista nei suoi versi l'impronta di Virgilio e di

L'Imitazione nel Quattrocento e Nel Cinquecento

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L'Imitazione

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L'imitazione nel Quattrocento e nel Cinquecento (di Franco Pignatti)

Indice generalePremessa ..............................................................................................................................................1L'imitazione secondo Petrarca: la prima lettera a Boccaccio ..............................................................1L-imitazione secondo Petrarca: la seconda lettera a Boccaccio ..........................................................3L'imitazione umanistica: modelli e lingua ...........................................................................................4L'imitazione secondo Poliziano: eclettismo e soggettività ..................................................................5L'imitazione secondo Cortesi: un solo modello (e ottimo) ..................................................................6L-imitazione a Roma: archeologia e filologia .....................................................................................7L'imitazione eclettica di Filippo Beroaldo ..........................................................................................8Il partito dei ciceroniani romani e la posizione di Giovanni Francesco Pico ......................................9La posizione di Pietro Bembo ...........................................................................................................10Erasmo critica la posizione ciceroniana ............................................................................................11L-imitazione e la retorica secondo Giulio Camillo ...........................................................................13Il confronto tra Giraldi Cinzio e Calcagnini ......................................................................................14La posizione di Bartolomeo Ricci e Bernardino Partenio .................................................................15L'imitazione nell'età dell'aristotelismo dominante ............................................................................15

Premessa

L'imitazione ha un ruolo centrale e strategico tra le istituzioni culturali del Rinascimento, e ildibattito che si incentra su di essa nel corso di oltre due secoli costituisce il terreno elettivo perl'elaborazione dei valori etici ed estetici che caratterizzano l'intera epoca. L'imitazione non siesaurisce infatti nella messa a punto di una teoria dello stile o di una prassi compositiva, maacquista una valenza globale in grado di plasmare la nuova civiltà dei Moderni nella sua sostanzaprofonda, concettuale e anche mentale, determinando la frattura antropologica con l'età precedente.Il dato fondativo dell'identità rinascimentale, ossia la riscoperta degli Antichi e l'emergere da essi diforme e contenuti estetici e morali che parlano alla sensibilità dei Moderni in ideale continuità, aldi là dei secoli e oltre la rivelazione cristiana, pone le basi per un'acquisizione complessa eproblematica della categoria di "riuso", forgiato e articolato da una gamma di valori che nonriguardano solo l'atto concreto della creazione artistica, ma si propongono universalmente come"forma del vivere". I concetti di equilibrio, misura, simmetria, selettività, norma, canone, sistemaideale entro cui sussumere i concetti di bellezza e di virtù, sono le componenti di quella cultura cheva sotto l'etichetta di Classicismo, e che rappresenta il massimo prodotto della culturacinquecentesca: ed è proprio l'istituto dell'imitazione ad averne consentito la lunga durata, ben oltrei confini dell'età rinascimentale, lungo l'intera civiltà d'Antico regime, fino al rovesciamento deivalori e all'opzione per il moderno teorizzata dal Romanticismo.

L'imitazione secondo Petrarca: la prima lettera a Boccaccio

Quale incunabolo del dibattito quattro-cinquecentesco sull'imitazione si possono considerare dueepistole diFrancesco Petrarca a Giovanni Boccaccio, datate ottobre 1359 e 28 ottobre 1365(Familiares, XXII 2 e XXIII 19), entrambe riguardanti passi del Bucolicum carmen, il poemacomposto, in latino, da Petrarca tra il 1346 e il 1348, e poi ritoccato fino al 1366, sui qualil'attenzione dell'autore si appunta perché ricordano troppo da vicino passi dell'Eneide edelle Metamorfosi. Gli emendamenti comunicati dal poeta all'amico costituiscono il pretesto peruna riflessione intorno al rapporto con gli autori e al modo con cui devono essere presi a modello.Nella prima lettera Petrarca parte da una considerazione solo in apparenza paradossale, e cioè chesia più frequente errare in ciò che ci è familiare piuttosto che in ciò che conosciamosuperficialmente. Infatti non ha riconosciuto a prima vista nei suoi versi l'impronta di Virgilio e di

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Ovidio, autori con i quali ha la massima familiarità, ma si è svelata solo dopo una rilettura attenta;la mancanza di originalità gli sarebbe invece balzata agli occhi se la conoscenza degli autoririutilizzati fosse stata più superficiale. Petrarca introduce qui un'idea del tutto originale diimitazione: passa da un criterio quantitativo, legato alla consuetudine scolastica degli autori, a unoqualitativo, che chiama in causa la stessa dimensione affettiva dell'imitatore e il dialogo elettivo coni modelli prescelti. In altri termini emerge l'idea di un'imitazione che non è a posterioririspetto allamaturazione intellettuale ed emozionale dell'autore moderno, ma è parte integrante della suacrescita interiore, in una sorta di rapporto pedagogico che instaura un legame personale tra scrittoremoderno e antico. Le due immagini cui Petrarca ricorre per descrivere i due tipi di imitazionepraticabile, servono a individuare la doppia tipologia del rapporto imitativo (quello che restasemplice ripresa esteriore, e quello che pratica una vera e propria metabolizzazione dello stile delmodello, e che penetra a fondo nella personalità dell'imitatore, la plasma, la condiziona in unaforma di immedesimazione che acquista caratteri di globalità): "Legi semel apud Ennium, apudPlautum, apud Felicem Capellam, apud Apuleium, et legi raptim, propere, nullam nisi ut alienis infinibus moram trahens. Sic pretereunti, multa contigit ut viderem, pauca decerperem, pauciorareponerem, eaque ut comunia in aperto et in ipso, ut ita dixerim, memorie vestibulo; ita ut quotiensvel audire illa vel proferre contigerit, non mea esse confestim sciam, nec me fallat cuius sint; que abalio scilicet, et quod vere sunt, ut aliena possideo. Legi apud Virgilium apud Flaccum apudSeverinum apud Tullium; nec semel legi sed milies, nec cucurri sed incubui, et totis ingenii nisibusimmoratus sum; mane comedi quod sero digererem, hausi puer quod senior ruminarem. Hec semichi tam familiariter ingessere et non modo memorie sed medullis affixa sunt unumque cumingenio facta sunt meo, ut etsi per omnem vitam amplius non legantur, ipsa quidem hereant, actis inintima animi parte radicibus, sed interdum obliviscar auctorem, quippe qui longo usu et possessionecontinua quasi illa prescripserim diuque pro meis habuerim, et turba talium obsessus, nec cuius sintcerte nec aliena meminerim" (Petrarca 1942, IV, pp. 105-106).Traduzione del testo latino

Petrarca rifugge dall'appropriarsi delle spoglie altrui e professa la preterintenzionalità dei casi diriuso di sintagmi altrui rintracciabili nei suoi versi, dovuti appunto all'elevata consuetudine con gliautori prediletti. Il contenuto rivoluzionario dell'epistola sta nella consapevolezza che lo stile è unfatto complessivo che si conforma alla personalità del suo inventore e non può essere trasferito conun atto meccanico ad altri.

Le immagini degradate dell'istrione, capace di incarnare molti caratteri ma privo di uno proprio, equellaesopica della cornacchia che si fa bella delle penne del pavone, servono a colpire non tantomoralisticamente l'atto di appropriarsi di suppellettili altrui, quanto l'inutilità di tale operazione,l'equivoco di fondo che le sottostà tra arido plagio e proficuo dialogo a distanza tra ingegni affini:"Vitam michi alienam dictis ac monitis ornare, fateor, est animus, non stilum; nisi vel prolatoauctore vel mutatione insigni, ut imitatione apium et multis et variis unum fiat. Alioquin multomalim meus michi stilum sit, incultus licet atque horridus, sed in morem toge habilis, ad mensuramingenii mei factus, quam alienus, cultior ambitioso ornatu sed a maiore ingenio profectus atqueundique defluens animi humilis non conveniens stature. Omnis vestis histrionem decet, sed nonomnis scribentem stilus; suus cuique formandus servandusque est, ne vel difformiter alienis iindutivel concursu plumas suas repetentium volucrum spoliati, cum cornicula rideamur. Et est sanecuique naturaliter, ut in vultu et gestu, sic in voce et sermone quiddam suum ac proprium, quodcolere et castigare quam mutare cum facilius tum melius atque felicius sit" (Petrarca 1942, IV, pp.106-107).

Traduzione del testo latino

Come risolvere dunque questa aporia tra un'imitazione che, se autentica, deve essere così profondae totale da costituire una comunione tra spiriti remoti nel tempo e nello spazio attraversoil mediumimperituro dello stile, e d'altro canto rivendica l'autonomia della propria individualità intermini tanto assoluti? Con un ulteriore sequenza di immagini Petrarca propone l'idea della diversitànell'eguaglianza, di una dipendenza nell'autonomia, di essere moderni seguendo l'insegnamento

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degli antichi: "Sum quem priorum semitam, sed non semper aliena vestigia sequi iuvet; sum quialiorum scriptis non furtim sed precario uti velim in tempore, sed dum liceat, meis malim; sumquem similitudo delectet, non identitas, et similitudo ipsa quoque non nimia, in qua sequacis luxingenii emineat, non cecitas non paupertas; sum qui satius rear duce caruisse quam cogi per omniaducem sequi. Nolo ducem qui me vinciat sed precedat; sint cum duce oculi, sit iudicium, sit libertas;non prohibear ubi velim pedem ponere et preterire aliqua et inaccessa tentare; et breviorem sive itafert animus, planiorem callem sequi et properare et subsistere et divertere liceat et reverti" (Petrarca1942, IV, p. 108).

Traduzione del testo latino

L-imitazione secondo Petrarca: la seconda lettera a Boccaccio

Nella seconda lettera a Boccaccio Petrarca elogia il suo segretario Giovanni Conversini, il quale,oltre a copiargli scritti in grafia chiara e leggibile e a tenere in ordine le sue carte, mostra uningegno dotato e un'indole virtuosa e modesta. Giovanni si dedica alla composizione e ammirasoprattutto Virgilio, al punto di inserire passi del poeta nei suoi versi. Questo fatto provocal'ammonimento del maestro, che rimprovera al discepolo non il difetto di arte e di conoscenza degliautori, ma al contrario l'eccessiva aderenza a quei modelli non riesce ad esprimere quanto di"proprio" e diverso da "ogni altro" alberga nel suo animo di uomo moderno: "curandum imitatori utquod scribit simile non idem sit, eamque similitudinem talem esse oportere, non qualis est imaginisad eum cuius imago est, que quo similior eo maior laus artificis, sed qualis filii ad patrem. In quibuscum magna sepe diversitas sit membrorum, umbra quedam et quem pictores nostri aerem vocant,qui in vultu inque oculis maxime cernitur, similitudinem illam facit, que statim viso filio, patris inmemoriam nos reducat, cum tamen si res ad mensuram redeat, omnia sint diversa; sed est ibi nescioquid occultum quod hanc habet vim. Sic est nobis providendum ut cum simile aliquid sit, multa sintdissimilia, et id ipsum simile lateat ne deprehendi possit nisi tacita mentis indagine, ut intellegisimile queat potiusquam dici. Utendum igitur ingenio alieno utendumque coloribus, abstinendumverbis; illa enim similitudo latet, hec eminet; illa poetas facit, hec simias. Standum denique Senececonsilio, quod ante Senecam Flacci erat, ut scribam scilicet sicut apes mellificant, non servatisfloribus ses in favos versis, ut ex multis et variis unum fiat, idque aliud et melius" (Petrarca 1942,IV, p. 206).

Traduzione del testo latino

L'imitazione come problema si pone, dunque, subito con autorevolezza, al momento della svoltaepocale di cui Petrarca è protagonista, sia per la sua esperienza della soggettività sia per la suapercezione dell'antichità come altro dall'età presente. Appoggiarsi alla tradizione era sempre stata lapremessa ineliminabile per ogni scrittura letteraria, ma ora che l'antico torna a rinascere non puònon essere il veicolo per esprimere una sensibilità compiutamente moderna. Per questo l'imitazione,dal momento stesso in cui diventa un fattore significativo, costituisce un problema critico. Se fino aPetrarca il riuso di scrittori del passato aveva costituito una prassi corrente, e se il farcire un testocon echi e frammenti di altri autori non era stato percepito come motivo di discussione o discandalo, ora il riaffiorare della voce degli Antichi in una composizione originale diventa oggetto didubbio: si tratta di ripetizione passiva e di sterile servitù ai classici, o il riuso delle loro parole e delloro stile concorre a esprimere un nuovo contenuto? La sorpresa di Petrarca di fronte ai passi bennoti di Virgilio e di Ovidio sfuggitigli dalla penna e rintracciati solo mediante una lettura attenta,tradiscono un'inquietudine profonda di fronte alla sostanza culturale e soggettiva del problema, checonsiste nell'urgenza di porsi, nella comunicazione, come soggetto individuale autonomo eautodefinito. Petrarca avverte in maniera lacerante l'impasse tra la necessità di seguire le orme deiclassici e l'istanza di un contenuto moderno che si deve esprimere attualizzando e personalizzandol'insegnamento degli Antichi: come il figlio si distacca dal padre e il viaggiatore segue la guidasenza essergli legato. D'altro canto è significativo che Petrarca non riesca a spingersi oltre leambiguità del linguaggio figurato, elaborando una chiara definizione retorica o stilistica dei modi edei limiti dell'imitazione, che restano nelle due lettere a Boccaccio indefiniti e problematici, così

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come in una forma del tutto individuale è risolto il problema di una selezione degli autori daproporsi come modelli. La metafora delle api autorizza in certa misura l'eclettismo, e con questosignificato sarà topica negli scritti degli anticiceroniani nelle dispute quattro'cinquecentesche, ma ècomunque troppo poco perché si possa parlare di una vera e propria teoria sistematicadell'imitazione in Petrarca. Lo stesso stile delle opere latine di Petrarca conferma la sostanzialeassenza di un modulo imitativo chiaramente orientato. È chiaro che Cicerone ha influito molto sullasua scrittura, ma molta parte vi ha Seneca (nelle opere morali), Livio(nell'Africa), Virgilio(nelle Eclogae), e non mancano nel suo latino barbarismi, neologismi, costruzioni poco pure, frasitoscane latinizzate. Per questa ragione, il giudizio degli umanisti sullo stile di Petrarca fugeneralmente sfavorevole. Così, ad esempio, si esprime Paolo Cortesi: "Huius sermo nec estLatinus, et aliquanto horridor; sententiae autem multae sunt, sed concisae, verba abiecta, rescompositae diligentius quam elegantius" (Cortesi 1973, p. 18: "La sua lingua non è latino classico,ma piuttosto rozzo, i concetti poi sono molti, ma concisi, le parole trascurate, l'esposizione piùdiligente che elegante"); ed Erasmo: "Bulephorus. Reflorescentis eloquentiae princeps apud Italosvidetur fuisse Franciscus Petrarca, suae aetate celebris ac magnus, nunc vix est in manibus:ingenium ardens, magna rerum cognitio, nec mediocris eloquendi vis. Nosoponus Fateor. Atqui estubi desideres in eo lingae latinae peritiam, et tota dictio resipit saeculi prioris horrorem." (Erasmo1965, 3053'3059: "B. Del Rinascimento in Italia sembra che l'iniziatore fosse Francesco Petrarca,uomo celebre e grande al tempo suo, ma che ora si prende in mano a mala pena: ingegno ardente,grande cultura e non mediocre vigore di stile. N Lo riconosco. Di lui però vi sono passi nei qualidesidereresti maggiore perizia nel latino, e tutto il suo stile risente della durezza del secoloprecedente"). Ma in questa sostanziale irresolutezza dello stile, che tiene Petrarca al di qua dellegrandi acquisizioni filologiche dell'Umanesimo quattrocentesco, resta come motivo di novità lasicura individuazione di un concetto destinato a lunghissima durata nella cultura europea: lo stile èl'uomo.

L'imitazione umanistica: modelli e lingua

Cicerone si impone con tempestività tra i prosatori quattrocenteschi come modello di eloquenza,tuttavia anche gli autori che predicano la devozione all'oratore latino sono lontani dal riprodurre connitidezza il suo stile e restano attestati piuttosto su un'imitazione dei contenuti e delle forme testuali(l'epistola, ildialogo), che di un ripristino organico dei fatti della scrittura. Filippo Villani dàdi Coluccio Salutati il seguente giudizio: "Nel testo delle prose ha già acquistato tanta dignità, chemeritamente si può nominare scimmia di Cicerone" (Villani 1826, p. 14); ma per ilciceroniano Paolo Cortesi, apostolo di un'imitazione ciceroniana, gli scritti di Coluccio meritano ungiudizio solo limitativo: "numquam ab orationis asperitate moestitiaque abesse potuit" (Cortesi1973, p. 18: "non si poté sottrarre da uno stile oratorio aspro e asciutto"); e ancora: "Colucciiepistolae vix semel leguntur, quae tum in honore erant, non apparent" (Cortesi 1973, p. 24: "lelettere di Coluccio a mala pena si leggono una volta, opere che un tempo erano onorate ora sonoignorate"). Il ruolo di iniziatore dell'imitazione ciceroniana nel Quattrocento è attribuitoaGasparino Barzizza: umanista particolarmente impegnato nell'insegnamento, nutrì interesse pervari autori (Seneca, Plauto, Terenzio, Livio, Claudiano), ma si dedicò in particolare alle opereretoriche diCicerone, disponibili fino al secondo decennio del Quattrocento in testimoni parziali eincerti. Ne curò un'edizione secondo la tradizione mutila, tentando di integrarla nelle parti lacunosecon integrazioni segnate in margine (che si mostrarono a posteriori di scarsa acribia), e nel 1421poté consultare tra i primi il codice con i testi completi scoperto nella cattedrale di Lodi. Nel Decompositione, scritto verso il 1420, raccolse principi di retorica e di stilistica ricavatiprincipalmente da Cicerone e da Quintiliano e diede inizio alla tradizione incentrata sul primatodell'oratore latino. Pur fondando quasi esclusivamente la propria preparazione retorica sui due retorilatini, Gasparino Barzizza non praticò tuttavia un'imitazione indistinta e l'aderenza al modello variaa seconda del tenore dei suoi scritti. Nelle Epistolae ad exercitationem accomodatae, raccolta diesempi epistolari destinata all'insegnamento, l'ossequio allo scrittore latino è più stringente; nelleorazioni l'argomento religioso porta con sé l'influsso degli scrittori cristiani; nelle lettere familiari

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infine la scrittura è meno sorvegliata e accoglie espressioni vicine alla lingua parlata. Barzizza halasciato altresì un trattatello De imitatione, datato al 1413'1417 e probabilmente destinato al figlioprediletto Guiniforte, che consiste in una serie di consigli destinati a chi apprende la composizionelatina per conseguire uno stile elegante.

L'imitazione secondo Poliziano: eclettismo e soggettività

Dopo che al centro dell'interesse degli umanisti italiani era stato a lungo il problema di elaborareuno stile robusto ed efficace, il primo vero confronto intorno all'imitazione ciceroniana fu quelloche oppose Angelo Poliziano e Paolo Cortesi. Questi aveva compilato una raccolta di lettere diuomini illustri, che inviò all'amico perché giudicasse se fossero degne della pubblicazione. Larisposta si fece attendere e fu sferzante: Poliziano dichiarò in una breve e asciutta epistola di essersipentito di avere perduto il suo tempo a leggere la raccolta, indegna dell'attenzione di un uomo coltoe che non meritava di essere stata compilata da un uomo dotto come Cortesi. Di seguito l'epistolaprende il tono di una vero e propriopamphlet contro i sostenitori dell'imitazione esclusivadi Cicerone. A costoro, che chiama, volgendo in negativo l'immagine usatada Villani per Salutati, simiae Ciceronis("scimmie di Cicerone"), Poliziano oppone la sua avversitàa un ideale estetico fondato sulla rigida imitazione di un modello: "Mihi certe quicumque tantumcomponunt ex imitatione, similes esse vel psittaco vel picae videntur, proferentibus quae necintelligunt. Carent enim quae scribunt isti viribus et vita; carent actu, carent affectu, carent indole,iacent, dormiunt, stertunt. Nihil ibi verum, nihil solidum, nihil efficax. Non exprimis, inquit,aliquis,Ciceronem. Quid tum? non enim sum Cicero; me tamen, ut opinor, exprimo. Sunt quidam preterea,mi Paule, qui stylum quasi panem frustillatim mendicant, nec ex die solum vivunt, set ei indiem;tum nisi liber ille praesto sit, ex quo quid excerpant, colligere tria verba non possunt, sed haec ipsaquoque vel indocta iunctura vel barbaria inhonesta contaminant. Horum semper igitur oratiotremula, vacillans, infirma, videlicet male curata, male pasta, quos ferre profecto non possum;iudicare quoque impudenter audentes, hoc est de illis quorum stylum recondita eruditio, multiplexlectio, longissimus usus diu quasi fermentavit" (Poliziano 1952, p. 902).Traduzione del testo latino

La consapevolezza di non essere Cicerone, l'esortazione a "natare sine cortice" ("nuotare senzasalvagente"), a usare il proprio giudizio, il rischio di inibire l'ingegno innato con un'imitazionetroppo stretta (non può correre velocemente chi si preoccupa di mettere il piede nelle orme altrui enon osa uscire dalla via segnata!), sono tutti concetti presenti già nelle letteredi Petrarca a Boccaccio. Nel secolo che separa l'intervento di Poliziano da quelle, la persuasioneche lo stile sia specchio della personalità dell'autore si è consolidata, e lo smantellamento che illatino umanistico aveva portato a termine dell'impalcatura asettica e meramente concettuale dellatino della Scolastica aveva visto prevalere, alla data in cui scrive Poliziano, le ragioni di unapoesia e di una prosa d'arte latine in cui Petrarca muoveva in maniera illuminata appena i primipassi. Ma che valore aveva allora per Poliziano riaffermare, intorno all'imitazione, ragioni che eranostate di Petrarca in una temperie tanto diversa? L'ideale stilistico di Poliziano è a favore di undichiarato e maturo eclettismo, che trae le sue origini dagli studi filologici condotti sui testi latini egreci non solo del periodo classico, ma anche della latinità argentea e della patristica. In più luoghiPoliziano esprime la sua avversità verso le costrizioni di un magistero stilistico soffocante e la suapropensione per autori poco letti o misconosciuti, spesso difficili e bisognosi di curefilologiche, aiquali egli si rivolge con la curiosità per i fenomeni eterodossi e con il gusto per la varietà e per lanovità. La sua vocazione a una poesia visiva, la sua insistenza su moduli descrittivi e sulla ricchezzadi particolari, il suo gusto alessandrino per l'intarsio prezioso di tessere difformi, così evidentenelleStanze, ma anche nelle Sylvae e nelle prove ai limiti del virtuosismo delle elegie Inscabiem e In febrem, esprimono una costituzionale incompatibilità sia con una misura stilisticabasata sulla selezione e sullo scarto, sia con un uso gerarchizzato delle differenti storie (e valori)delle lingue letterarie, latina come volgare. Poliziano era conscio quant'altri mai delle differenzediacroniche (nel tempo), diatopiche (nello spazio) e diastratiche (nei livelli sociali) che correvano

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tra i vari autori e periodi della letteratura latina; ciò che gli appare impossibile è separare dalmomento della composizione artistica la conoscenza filologica di questa storia composita evariegata di testimonianze e depauperarne la ricchezza espressiva ed erudita a favore dell'imitazionedi un solo autore. L'ideale estetico di Petrarca (di un lettura in profondità degli Antichi per poter poiprocedere sulla propria strada) risulta nella sostanza confermato, ma quanto più irrobustito da unaconoscenza impareggiabile degli autori e dalla coscienza della mobilità storica e della plasmabilitàdella lingua. Il dialogo che Petrarca immaginava di intrattenere con gli Antichi, e che sperimentò ineffetti nelle epistole dirette a grandi letterati dell'antichità, non era più un dialogo privato, damisurare sulla lunghezza d'onda dell'interiorità del poeta, sulle sue interne mozioni, sulle risonanzevibratili della sua personalità, così come avveniva nel Secretum tra Francesco Petrarca esant'Agostino, ma diventa dialogo polifonico in cui la personalità dell'autore emerge soprattutto perla capacità di variare, di contaminare, di esaltare le risonanze tra esperienze diverse.

L'imitazione secondo Cortesi: un solo modello (e ottimo)

La replica di Cortesi conserva un equilibrio, impostato a gravità e compostezza, diverso dallascrittura mobile e provocatoria di Poliziano. La misura più lunga e il tono didascalico della rispostasi spiegano con la necessità di argomentare a fondo, con una concezione dello stile chiara emetodica, che si proponesse come modello persuasivo e praticabile. Il primo obiettivo è quello discongiurare l'immagine dell'imitatore come scrittore privo di personalità e di una propria misuradello stile, capziosamente prodotta da Poliziano. Alle degradanti immagini zoomorfedell'interlocutore, Cortesi contrappone, ampliandola, la metafora filiale già presente in Petrarca:"Similem volo, mi Politiane, non ut simiam hominis, sed ut filium parentis. Illa enim ridiculaimitatrix tantum deformitates et vitia corporis depravata similitudine effingit; hic autem vultum,incessum, statum, motum, formam, vocem denique et figuram corporis repraesentat, et tamen habetin hac similitudine aliquid suum, aliquid naturale, aliquid diversum, ita ut cum comparenturdissimiles inter se esse videantur" (Cortesi 1952, p. 906).Traduzione del testo latino

Ma lo spessore qualitativo rivendicato alla prosa ciceroniana si allarga nella proclamazione delvalore assoluto dell'imitazione, che si delinea come principio universale su cui impostare la paideia,cioè la formazione culturale e letteraria dei giovani (institutio), che resta la funzione primaria diogni umanista: "Nam et omnis doctrina ex antecedenti cognitione paratur, et nihil est in mente quinfuerit prius in sensibus perceptum. Ex quo intelligitur omnem artem naturae esse imitationem, sednatura fieri ut ex eodem genere dissimilitudo nascatur. Homine enim cun inter se dissimiles sint,similitudine coniunguntur, et quamquam alii coloratiores, alii pallidiores, alii venustiores, aliiproceriores sint, una tamen est omnibus figura et forma. Illos autem quibus aut crus, aut manus, autbrachia desunt, non omnino ex hominum genere excludendos, sed aut mancos aut claudosappellandos putarem. Sic eloquentiae ars una est ars, una forma, una imago. Qui vero ab eadeclinant, saepe distorti, saepe claudi reperiuntur" (Cortesi 1952, p. 908).

Traduzione del testo latino

Per la concezione organica dello stile, che Cortesi ha ben ferma, la scrittura ondivaga e poliedrica diPoliziano rappresenta una strada fuorviante, in cui le bellezze sono affastellate senza unità earmonia e l'idea della perfettibilità dello stile si involve in un gioco caleidoscopico disensazionalismi accattivanti ma fallaci: "Fieri enim non potest quin varia ciborum genera maleconcoquantur, et quin ex tanta coluvione dissimillimi generis inter se verba collidantur. Nec minushuius corruptae orationis asper concursus aures ferit, quam ruentium lapidum fragor aut strepitusaut quadrigae transcurrentes. Quid enim voluptatis afferre possunt ambiguae vocabulorumagnificationes, verba transversa, abruptae sententiae, structura salebrosa, audax translatio nec felix,ac intercisi de industria numeri? Quod necesse est his omnibus accidere, qui ex singulis sensus etverba eruunt et neminem imitantur. Horum sane omnis oratio est tamquam Hebraeorum domus,quibus sunt ad quoddam tempus diversorum hominum bona oppignerata" (Cortesi 1952, p. 210).

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Traduzione del testo latino

È evidente che una cornice comune unisce i due letterati: quella di una concezione moderna dellostile, per cui questo non è semplice ornamento, bensì veste esteriore di cui si ammantano i concetti,il veicolo attraverso il quale essi sono accessibili, e perciò la realtà esteriore dei verba ("parole") ètutt'uno con la sostanza metafisica delle res ("cose"). Ma in questa intesa si contrapponevano dueconcezioni inconciliabili. L'una, legata alla genialità di un grande filologo (Poliziano) e aun'immaginazione poetica vivida e fortemente descrittiva, destinata a concludersi nell'esperienza delsuo creatore; l'altra (di Cortesi), basata su ideali di regolarità e di misura, fatta apposta perimboccare la via dell'impegno scolastico e accademico, fino alle degenerazioni iperboliche epedantesche che vedremo, e a giocare appieno il suo ruolo nella allora nascente cultura delClassicismo, dalla quale un'esperienza come quella di Poliziano è, invece, destinata a essere allafine esclusa, per evidente (in seguito) incompatibilità.

L-imitazione a Roma: archeologia e filologia

L'imitazione ciceronianae della latinità classica più in generale trova la sua consacrazione nellaRoma dei primi decenni del Cinquecento. La Curia pontificia era divenuta polo d'attrazione perschiere di letterati e artisti italiani e laboratorio di una cultura sovraregionale, che trovava solidoterreno di sviluppo nelle vestigia del mondo classico riaffioranti nell'Urbe e nella teorizzazione diun recupero artistico e letterario del mondo antico.La cultura classica si proponeva come un punto di riferimento ideale per un ceto di letterati che,messa in questione l'esistenza stessa dei principati italiani con la crisi politica dell'ultimo decenniodel Quattrocento, volgeva a Roma le speranze di una sopravvivenza come categoriaprofessionalmente autonoma, e a Roma portava l'esigenza di una superiore sintesi culturale eartistica, in quanto al di sopra delle contingenze dei tempi, che i forti contenuti antichistici,tradizionalmente vivi nella cultura romana, sembravano offrire, tanto più ora che erano rivisitati allaluce della nuova cultura del neoplatonismo.

La struttura secolarizzata della Chiesa e la politica mecenatizia condotta da Giulio II e dai due papimedicei, Leone X e Clemente VII, almeno fino al trauma del Sacco del 1527, sembrò garantire lapossibilità di affermazione di questa tendenza, nella quale le istanze storiche si intrecciavano aspinteutopiche e a vagheggiamenti della nuova età dell'oro, e si agitavano problemi fondamentali,come quello del volgare, della restituzione di forme letterarie antiche (la tragedia conla Sofonisba di Trissino; la commedia con la Calandria del Bibbiena), della riscoperta delle articlassiche (il ritrovamento della statua del Laocoonte, la lettera di Castiglione e Raffaello a papaLeone X sulle rovine di Roma), dell'imitazione.

Il diffondersi a Roma di una forte cultura classicistica, che identificava nella Chiesa l'istituto storicomillenario che di per sé collegava il presente alla cultura e alle forme politiche perfettedell'antichità, serviva a sacralizzare l'apparato secolare che la religione aveva assunto nella prassidella Chiesa cattolica.

La persuasione preriformistica che la fede non albergasse solo in interiore hominis ("all'internodell'uomo") legittimava un protocollo curiale ridondante e denso di significati simbolici, i cuimomenti rituali ' orazioni, encomi, discorsi d'apparato, solennizzazioni di avvenimenti pubblici,politici, liturgici, rappresentazioni sacre e profane, processioni, parate - richiedevano un impiegoretorico fuori del comune, al quale i letterati romani erano chiamati a contribuire con funzionipolitico'culturali ben precise.

Per scrittori ed eruditi come 'Tommaso "Fedra" Inghirami', Blosio Palladio, Battista Casali,Lorenzo Grana, il ripristino in queste occasioni del linguaggio e dei contenuti dell'antico era volto arafforzare la dottrina e la pratica cristiana in una prospettiva universalitica e sincretica, in cui losmarrirsi della specificità trascendente del verbo evangelico corrisponde al suo assorbimento in unprovvidenzialismo cosmico nel quale il cristianesimo è parte apicale, ma le formae ("forme") ei colores ("colori") antichi ne costituiscono il linguaggio più fascinoso e perfetto, dal quale lo stesso

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Cristianesimo è illuminato e arricchito.

Il decorativismo oratorio, non di necessità sempre entro i limiti del latino classico, in cui si declinal'imitazione nei letterati dell'Accademia Romana non serve pertanto un ideale esclusivamenteestetico e una funzione epidittica. Lungi dalla tensione elegiaca, che pervade ad esempiol'archeologia di Flavio Biondo, dove ha tanta parte il tema delle ruinae ("rovine"), il travestimentoclassicistico cui sottopongono gli apparati secolari di cui si era dotato lo Stato della Chiesa e glistessi contenuti spirituali del Cristianesimo, propone, con diversi modi e intensità a seconda degliautori, l'utopia della Chiesa come società perfetta e sintesi illuminata di ogni sapere e si esplicaconcretamente agli occhi dei contemporanei nello splendore e nella grandiosità del centro di tantouniversalismo, cioè la Roma restaurata dai letterati e dagli artisti dell'Accademia Romana, arteficidella palingenesi, in quanto rinascita, della cultura pagana nell'illuminazione della religione rivelata.

L'imitazione eclettica di Filippo Beroaldo

Idolo polemico dell'Accademia Romana fu la scuola bolognese che ebbe il suo maestro in FilippoBeroaldo il Vecchio, autore di una serie di lavori filologici (commentia Plinio, Cicerone, Properzio, Svetonio,Apuleio; oltre ad Annotationes; a Declamationes; aitrattati De optimo statu e De felicitate), che ottennero il riconoscimento degli studiosi e il plausodegli studenti. L'autore per eccellenza, secondo Beroaldo, è Apuleio: il commento beroaldianoall'Asino d'oro, uscito a Bologna nel 1500, costituì l'inizio della fortuna letteraria del romanzo nelCinquecento, ma nello stile dello scrittore africano, fuori dalla misura classica, composito e fiorito,l'umanista trovò un modello congeniale che praticò nella sua scrittura. Beroaldo attinge a tutti gliautori della latinità, dagli scrittori arcaici a Boezio, con programmatica disattenzione per normegrammaticali o paradigmi stilistici e con una propensione fortissima alla contaminazione e allaridondanza, che rende la sua scrittura uno strumento duttile ed espressivo, plasmabile secondo gliumori del suo estroso e affascinante inventore, ma anche artificioso e manierato, bizzarro eimprevedibile, in una parola al di fuori di ogni unità dello stile, di chiarezza e regolaritàdell'espressione. Agli antipodi dell'esigenza di pulizia e di nitore formale avvertita dai ciceroniani,le opere di Beroaldo e dei suoi discepoli sono un continuo fiorire di parole rare, arcaiche e disusate,accostate a vocaboli classici (ultramundanus, egestosus, sequestratus, auricularius), di vociinventate (secretarius,galleria, sclopus, girandola), di lemmi greci latinizzati(mythicon, historicon), astratti, derivati (aliquantulum, blandiloquentulus), nonché di una sintassiirregolare e frammentata, costellata di concetti, traslati, anafore, pleonasmi, epiteti, antitesi, e cosìvia, in un armamentario verbale e retorico teso alla spettacolarità e al lusso. Questa tendenzaassume toni ancora più marcati ed estremi negli allievi di Beroaldo, tra i quali spicca GiovanniBattista Pio. Apprezzabile commentatore di classici - Lucrezio,Flacco, Plauto ', nel capitolo XXVdegli Annotamenta scrive una difesa della linea eclettica del maestro, nella quale risuona iltema polizianescodella personalità dell'espressione, ma coniugato all'idea estetizzante di unflorilegio degli stili che sta ad autorizzare un'indiscriminata licenza contaminatoria: "Non malosimitatores aemulamur, quos brutum pecus vocat Horatius, qui solum Ciceronem perlegent tanquamselectum Deum, caeteros, ut Tertullianus verbis utar, tanquam bulbos reprobos abiicientes. FaveoCiceroni utpote eruditorum eloquentissimo, illius sermonis nectarei felicitatem admirari non desino;non eo tamen fui ut caeteros explodendos ducam; sed hoc iudico cuique suum dicendi modumpeculiaremque stilum a natura comparatum, et sicuti viridissimum et amoenissimum pratumdiversicolori flore fit illustrius, ita Romanorum eloquium disparibus dicendi characteribusexornatum splendet, quippe cum singulo auctori dos sua domesticaque facundia natura sit innata"(Pio 1505).Traduzione del testo latino

Il partito dei ciceroniani romani e la posizione di Giovanni Francesco Pico

Una posizione distinta va assegnata nel fronte dei ciceroniani a Pietro Bembo e a Iacopo Sadoleto,i quali mantennero una posizione defilata e di equilibrio rispetto alle polemiche e agli atteggiamenti

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più apertamente esornativi del classicismo romano. Il comune servizio nella Cancelleria pontificiasotto Leone X, Clemente VII e (solo il Sadoleto) Paolo III, diede particolare diffusione al lorostile: i brevi scritti da Bembo uscirono a stampa costituendo un modello di indiscussa autorità (nel1535). Oltre a Bembo e a Sadoleto, Andrea Alciato, Celio Calcagnini, 'Giovanni Battista Egnazio',sono gli esponenti di un ciceronianismo illuminato e cosmopolita con i quali il grande antagonistadegli umanisti romani, l'Erasmodel Ciceronianus, si astenne dall'entrare in contesa, o perché necomprendeva le ragioni, o perché preferì affidare all'epistolario le occasioni di dissenso, o perché intutti i casi riteneva conveniente tenerlo distinto dai ciceroniani più oltranzisti. Bembo in verità nonera esente dalle mende per cui Erasmo è largo di critiche con altri letterati. Basta sfogliare le paginedella Historia veneta per scorgervi la stessa patina antica applicata a istituzioni, termini, espressionimoderne care ai ciceroniani di stretta osservanza: i senatori della Repubblica Veneta sono patresconscripti ("padri coscritti"); duchi e ducati reges ("re") eregna ("regni"); i re della Persia e dellaTurchia reges Armeniae ("re di Armenia") e Thraces ("Traci"); Dio è designato con il collettivo diiimmortales ("dei immortali"); la Vergine con dea ("dea"); fides ("fede") è sostituitocon persuasio ("persuasione"); morituro peccata remittere ("rimettere i peccati a chi sta permorire") con deos superos Manesque illi placare ("placare gli dei superiori e i Mani"), e così via.Ma oltre che per le prove di egregio stilista ciceroniano, Bembo ha un ruolo importante per lapolemica intorno all'imitazione che lo oppose tra lo scadere del 1512 e l'inizio del 1513 a GiovanniFrancesco Pico. Il dibattito tra Bembo e Pico scorre sul filo di tre lettere scambiate tra i dueletterati (solo le prime due, quella iniziale di Pico e la risposta di Bembo, hanno motivi d'interesse;la terza, senza data, non costituisce che una replica da parte di Pico delle ragioni già ampiamenteesposte nella prima lettera), per cui andrà preliminarmente osservata l'adozione della formaepistolare per un'occasione prettamente tecnica e argomentativa, remota dalregistro famigliare proprio della comunicazione epistolare, a testimoniare la duttilità di questogenere di scrittura nel Rinascimento. Nella lettera che dà inizio alla disputa, in data 19 settembre1512, Pico parte dalla teoria platonica delle idee innate per affermare che in ciascuno di noi sonoinsite, oscurate dalle componenti personali e terrene, le idee delle cose e tra queste l'idea universaledel bello. Anche l'idea del bello scrivere, come le altre, è somministrata dalla natura, che inseminain noi un'immagine della bellezza eterna; questa, anche se resa imperfetta e oscurata dal connubiocon il corpo, è guida per riconoscere il bello negli altri e in noi stessi. Essendo innata, la bellezzanon si apprende, pertanto, seguendo regole e precetti, ma basta assecondare la propensionedell'animo volta al bello, coltivando l'immagine di bellezza insita in forma individuale, attraversol'imitazione degli autori in cui essa si vede riflessa in maniera insigne, ma non è possibile chequalcuno realizzi il possesso completo della bellezza, attingibile, in quanto sostanza ideale, solo informa incompiuta nella vita terrena. Gli altri autori si offrono come un campionario di formepregevoli alle quali attingere seguendo la propria innata intuizione di bellezza, che grazieall'esempio è possibile nobilitare ed innalzare più pura e nitida verso l'idea, ma non già conformaremediante l'imitazione alle forme che essa ha assunto negli altri autori. Lo stile non è per Pico unvalore autonomo, al centro della sua concezione non sta l'elocutio o la dispositio, bensì l'inventio,che dà la preminenza nell'imitazione poetica all'intuizione individuale. Ciascuno scrittore crea unsuo stile personale, trascegliendo ciò che di buono trova negli autori secondo l'intuizione dell'ideadel bello stile che egli ha maturato nella sua mente, diversa da quella di coloro che sono oggettodella sua imitazione. I veri imitatori traggono ispirazione dal proprio animo e si servono dei pregialtrui come materiale per le loro composizioni: "Sequi debemus proprium animi instinctum, etinditam innatamque propensionem: deinde variis aliorum virtutibus unum quiddam corpuscoagmentare" (Bembo'Pico 1954, p. 67: "Dobbiamo seguire il proprio istinto dell'animo e l'interioreinclinazione innata, e poi consolidare in un unico corpo ricorrendo alle virtù altrui"); "Ex animo quitrahunt suo, et qui ex multis aliorum in eloquendo virtutibus unum quasi corpus eloquentiaeconficiunt: ii optime dicuntur imitari, non furari aut mendicare" (Bembo'Pico 1954, p. 68: "quelliche traggono dal proprio animo e che creano una sorta di unico corpo di eloquenza dalle virtù dimolti che eccellono nella parola: costoro diciamo che imitano perfettamente e non che rubano omendicano"). Non siamo dunque dinanzi all'ennesima riedizione del concetto

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individualisticopetrarchesco o alla riproposizione dell'eclettismo erudito di Poliziano: non è lametafora dell'ape che sugge da tutti i fiori l'emblema di questo discorso, ma piuttosto l'apologo, dimatrice platonica, del pittoreZeusi (da Cicerone, De inventione II, 1, 1'5), il quale, quando dipinseil ritratto di Elena nel tempio diGiunone a Crotone, scelse cinque modelle diverse per riprodurrenel ritratto cui lavorava la parte più bella di ciascuna di esse. Pico propone un approccio alproblema della creazione artistica in sostanza non umanistico: nella sua concezione lo stile diventaun prodotto originale, sia pure formato da materiali preesistenti (un muro disfatto e ricostituito congli stessi mattoni non è uguale), ma sempre inedito perché corrisponde ad un contenuto che èdiverso. L'acquisizione dello stile di un autore mediante l'imitazione non porta con sé la visione delmondo di quell'autore ma è solo un fatto esteriore che riguarda la sfera espressiva senza toccarela res ("la cosa"). Per questo non è utile e non importa fissarsi sulle orme di un solo autore, giacchési imiteranno le sue parole ma non il suo mondo ideale; allora tanto vale allargare l'orizzonte alleparole e ai costrutti di tutti i buoni autori in vista della creazione di un proprio stile inedito forgiatoper esprimere la propria intuizione estetica.

La posizione di Pietro Bembo

Nella risposta del 1 gennaio 1513 Bembo prende le distanze da Pico, in primo luogo da un punto divista metodologico. Egli non discute la teoria delle idee innate, in quanto si tratta di una questionefilosofica, e non si sente di avere una preparazione adeguata, ma chiama in causa la sua competenzaletteraria per affermare che non esiste in noi innata un'idea del bello scrivere, ma che piuttosto essa,come tutte le altre idee, è presente in Dio, come attributo della sua perfezione. Pertanto non si trattadi coltivare la propria intuizione individuale del bello, né di sforzarsi di avvicinarsi il più possibilealla divina e universale bellezza insita nel Creatore attraverso l'esempio di coloro che vi sonoriusciti in maniera egregia. Ma se si seguono più autori, bisogna imitarne lo stile in generale o trarnesolo il meglio da ciascuno? Nel primo caso è impossibile arrivare a uno stile unitario e ci si esponea un'irrazionale eterogeneità; nel secondo caso, imitare brano a brano i singoli pregi espressivi deivari autori eccellenti e sommarli tra loro, come sosteneva Pico, non comporta la creazione di unasintesi espressiva omogenea, atta a esprimere l'universo spirituale di un autore. Bembo ripristinadinanzi al suo interlocutore il metodo e la mentalità umanistica: non è pensabile che si imiti illessico senza assimilare le costruzioni, il giro sintattico, i colori retorici, eccetera. Lo stile sipresenta come un organismo, in cui è riflessa l'identità spirituale dello scrittore e ogni aspetto ha unruolo funzionale: non è pensabile estrarne una parte e comporre per semplice addizione un altrostile originale. A differenza di Pico, lo stile, per Bembo, non è un fatto funzionale e accessorio cheriveste il concetto, bensì è l'accesso al pensiero; impadronirsene equivale a stabilire un dialogoprofondo con l'autore, penetrare nei recessi della sua personalità, riviverne i pensieri e le mozioni,ristabilire quell'unità nella diversità che vige tra padre e figlio. È evidente che tutto ciò non puòavvenire che attraverso la dedizione incondizionata a un solo autore, frutto di un'elezione basata suaffinità caratteriali, consolidate poi da una consuetudine di studi che assorbe integralmente leenergie dell'imitatore, perché coincide con la sua formazione, con la sua educazione letteraria e,infine, con la sua stessa maturazione intellettuale. In questo modo lo stile diventa, nei termini dellapedagogia umanistica, habitus ("abito"), cioè un costume acquisito con l'esercizio che sisovrappone alle attitudini naturali fino a costituire un uso costante e consolidato del carattere.Pertanto, se l'imitazione si configura in questi termini e lo stile è un tutto unitario da imitareglobalmente, sarà logico rivolgersi all'autore che per purezza di lingua, integrità di dottrina, vastitàd'interessi costituisce il modello più elevato di prosa latina e ad esso ispirarsi con tutte le forze perelevare il proprio stile. Rispetto al ciceronianismo estremista ed esclusivo dei suoi tempi, tuttavia,Bembo mantiene una posizione equilibrata. Se Cicerone è esempio massimo della prosa latina, e daseguire con la massima devozione, accanto a lui altri scrittori (a esempio Virgilio, indiscussomodello nella poesia eroica, Cesare, Sallustio, Livio, Celso, Columella) meritano la qualifica dieccellenti e se ne raccomanda la lettura e la meditazione. Bisogna però stare in guardianell'applicarsi agli autori mediocri, che possono distrarre dallo studio del migliore. Bembo porta aesempio la sua esperienza personale. All'inizio dei suoi studi, di fronte alla scelta tra autori sommi e

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autori mediocri ha pensato di imitare all'inizio i mediocri per poi volgersi, una volta irrobustite lesue capacità, allo studio più arduo dei sommi. Ma allorché passò a questi ultimi rimase sorpreso diavere assimilato così profondamente la natura dei mediocri, che ciò costitutiva un ostacoloall'apprendimento dello stile sommo. Perciò ha dovuto fare ogni sforzo per disimparare quantoaveva assimilato fino a quel momento, per dedicarsi totalmente allo studio del solo Cicerone. Inbreve, egli è giunto alla conclusione che bisogna imitare tutto il complesso della forma e delle suesingole parti di un solo autore, e del migliore: seguire gli altri autori, per quanto buoni, non è,infatti, che un inutile attardarsi sulla via della perfezione, su cui è avanzato più di tutti Cicerone. Mail culto di Cicerone è temperato nella visione di Bembo da un'idea di imitazione cui si connettestrettamente il concetto di emulazione. A una prima fase di formazione sugli scritti ciceroniani,seguirà il tentativo di eguagliare il suo stile e infine lo sforzo per superarlo. Il modello ciceronianonon è elevato a supremo e inarrivabile esempio di bellezza formale, oggetto di fanatismo e diadorazione idolatrica, ma è un valore migliorabile sulla via della perfezione dell'idea, che in quantoattributo divino resta inattingibile all'uomo nella sua interezza. Emerge in definitiva una concezioneartificiale del linguaggio, teorizzata da Bembo anche nelle Prose della volgar lingua a sostegno delvolgare: la lingua d'arte è sottratta al divenire storico, che volge fatalmente alla corruzione e inclinaa funzioni meno nobili e contingenti, per essere proiettata nella dimensione estetica astorica dellaperfezione formale, coltivata sull'esempio massimo di un modello unico - Cicerone per la prosalatina, Virgilio per la poesia; Petrarca e Boccaccio per la poesia e la prosa volgare - da emulare, ese si è capaci, da oltrepassare. Il senso della polemica che divise due letterati di primo piano nellaRoma all'inizio del secondo decennio del Cinquecento è ben diverso da quella di circa un ventennioprima tra Poliziano e Cortesi. Lì si trattava di umanisti impegnati a difendere due diverseconcezioni dello stile su un piano metodologicamente comune, pur nella grande diversità dei metodie dei gusti. Se quello poteva sembrare, e storicamente di fatto fu, uno dei passaggi fondativi delclassicismo cinquecentesco, nella polemica tra Bembo e Pico si confrontano due diversi modi diintendere la cultura e la comunicazione letteraria. Il prevalere della linea bembiana significòl'esaurimento delle opzioni sperimentali, contaminatorie, eterodosse caratteristiche degli autoriumanistici, quelle che avevano avuto l'interprete più geniale in Poliziano, ma soprattutto instaurò lacentralità della cultura letteraria, che costituisce il principale alimento del fenomeno delClassicismo nel Cinquecento. Se si sposta lo sguardo su settori diversi dalla poesia e dalla prosad'arte, nella cultura letteraria cinquecentesca la concezione esclusivamente stilistica su cui Bembocostruisce il suo ideale selettivo di imitazione è destinata a subire una netta revisione, quandol'aristotelismo subentra al neoplatonismo e, a metà secolo, destituisce l'arte come luogoprivilegiato di intuizione dell'idea, per conferirgli un ruolo paritario accanto alle altre discipline.

Erasmo critica la posizione ciceroniana

Uno degli eventi più importanti nel dibattito intorno all'imitazione è rappresentato dal Ciceronianussive de optimo dicendi genere di Erasmo da Rotterdam, pubblicato nel 1528 (Basilea, J. Froben),che contiene una satira tagliente del fanatismo dei seguaci di Cicerone, ma va oltre i termini dellatradizionale contesa tra eclettismo e imitazione di un modello unico, per additare, nel culto dellaforma celebrato dagli avversari e nel patetico, ma pericoloso, travestimento con le vestigiadell'antichità del mondo contemporaneo e dei contenuti del Cristianesimo, il rischio di un nuovopaganesimo, come se la vera fede fosse indegna di essere esposta con le parole sue proprie, in virtùdel suo intrinseco messaggio di verità e di salvezza. Quando compose il Ciceronianus Erasmo nonera a conoscenza delle lettere De imitatione tra Pico eBembo; le conobbe in seguito, e dalla terzaedizione dell'opera inserì un cenno a esse. Anche se alcune idee sembrano affini a quelle svolte daPico, la sua posizione è ben diversa da quella del letterato italiano, da cui lo tiene distinto la teoriainnatistica e più in generale l'impostazione filosofica con cui viene trattata la questione. Benpresenti a Erasmo sono invece le lettere tra Poliziano e Cortesi, che utilizzò riconoscendosi nelleposizioni del primo. L'opera, in forma dialogica, consiste nella conversazione fra tre personaggid'invenzione: il ciceronianus Nosopono, l'anticiceroniano Buleforo e Ipologo, figura più opaca dellealtre due, che si professa anch'egli ciceroniano, ma più tiepido di Nosopono, e si converte

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abbastanza facilmente alle tesi di Buleforo. La prima parte del dialogo è occupata dal causticoritratto di Nosopono, che non ha perso a distanza di secoli tutta la sua efficacia satirica: era uncarattere gioviale, allegro, socievole, bene in salute; ora invece è invaso da una malattia che loconsuma: ama l'eloquenzaciceroniana ed è determinato a possederla o a morire nel tentativo. Haconsacrato la sua vita a questa impresa. Da sette anni non legge che opere di Cicerone e rifuggedagli altri autori perché non lo distraggano dal culto dell'unico sommo. Ha affisso ritratti dell'autorenon solo nello studio e nella cappella di casa, ma su tutte le porte; ne porta con sé l'effigie incisa supietre preziose, lo sogna di notte. In sette di anni di studio ha approntato tre strumenti attraverso iquali crede di avvicinarsi alla purezza dell'eloquio ciceroniano. In un primo lessico, cosìvoluminoso che due robusti facchini non riescono a trasportarlo, ha raccolto tutte le parole diCicerone con le loro flessioni, le derivazioni e le composizioni; di ogni parola ha indicato il luogo,la carta, il rigo, se si trova all'inizio, al centro, in fine di rigo. Nella flessione delle parole ha distintocon colori diversi quelle che si trovano in Cicerone e quelle che non sono state usate:cosìamabam ("amavo") si potrà usare, ma non amabatis ("amavate"); amor, amores ("amore","amori"), ma non amorum ("degli amori"); ornatus, ornatissimus ("ornato", "ornatissimo"), manon ornatior ("più ornato"); perspicio ("osservare con cura"), ma non dispicio ("osservare attorno"),eccetera. In un secondo lessico, più vasto del precedente, Nosopono ha notato frasi, sentenze, motti,esempi, similitudini, immagini, eccetera, tutte rigorosamente desunte dalle opere di Cicerone. In unterzo lessico, ancora più vasto, sono schedati tutti i ritmi e i piedi con cui Cicerone apre un periodoo lo chiude. Dopo avere concluso questa immane opera di catalogazione, Nosopono si dedicaall'imitazione con abnegazione sacrale. Compone solo di notte; il suo studio è situato nella parte piùriposta della casa, non ha preso moglie e ha rifiutato ogni ufficio sia religioso che secolare; quandodeve scrivere osserva il digiuno; scrive con estrema sobrietà, preferendo la qualità alla quantità. Sedeve comporre una lettera, prima butta giù il contenuto come viene, poi consulta i tre indici pertrascegliere vocaboli, frasi, sentenze, ritmi adatti a quei pensieri e scrive un periodo per notte. Lalettera non avrà più di sei periodi, sarà riconfrontata dieci volte con gli indici e lasciata in uncassetto per essere riesaminata a distanza di tempo. Se tutte queste cure fan sì che Nosopono scrivapoco, egli parla ancor meno per timore che senza riflessione esca dalla sua bocca qualcosa di nonciceroniano. Per le faccende di tutti i giorni adopera il fiammingo o il francese, se è costretto asostenere una discussione ha pronte a memoria una serie di formule tratte dai libri di Cicerone concui si cava d'impaccio. Quando deve pronunciare un discorso impara tutto a memoria prima, nonimprovvisa mai. La potente ironia erasmiana ha fatto di Nosopono un personaggio di rara efficacia,nel quale la satira si fonde, a rendere più incisiva la macchietta, con la denuncia dell'ingenuitàpatetica e della follia del ciceroniano a tutti i costi. Ma a parte la messa alla berlina di atteggiamentireali (l'uso di lessici, il labor limae, cioè "il lavoro di lima", la prevalenza della dispositio edell'elocutio sull'inventio), in cui gli umanisti di fede ciceroniana potevano riconoscersi, e perquesto sentirsi non a torto oltraggiati, la critica erasmiana colpiva più in profondità, battendo inbreccia le distorsioni dell'imitazione intesa come valore assoluto. Risuonano negli argomenti diErasmo critiche già note, che prendono però un senso nuovo e più globale. Cicerone ha i suoi vizibiasimati dagli Antichi e visibili ai Moderni, a che pro imitarlo in maniera tanto incondizionata daprendere da lui anche ciò che è reprensibile? Le sue opere ci sono giunte mutile e imperfette oalterate dalla tradizione, che senso ha fare un idolo di un autore che non ci è davanti nella suapurezza originaria? Perché rifiutarsi di usare parole non presenti in Cicerone, quando magari egli leusò nelle opere andate perdute? Inoltre egli non trattò tutte le materie e tutti gli stili: seguire il suoesempio significherebbe precluderci tante forme espressive e limitare la nostra creatività. Imitare,per Erasmo, non significa riprodurre Cicerone in tutto e per tutto: come lo scrittore latino ha imitatoi Greci, formandosi uno stile personale ed esprimendo il suo pensiero, così noi moderni dobbiamoimitare Cicerone per formare un'opera originale. Votarsi a una riproduzione feticistica è un attovano, che serve solo ad alimentare dispute oziose su fatterelli grammaticali tra dotti, suscitareinvidie, conquistare vuoti trionfi oratori. Infine, lo stile di Cicerone era nato in un età storica e in unclima culturale del tutto diversi dai nostri tempi e dalla nostra cultura: non può essere applicatomeccanicamente a nuovi tempi e a una nuova realtà. Erasmo agisce da coscienza critica

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dell'Umanesimo italiano, che, dopo avere sostenuto in maniera rivoluzionaria la centralità dello stilenella creazione letteraria, ne aveva fatto un idolo, dimentico che l'eloquenza non può essere unvalore indifferente ai contenuti e che lo stile è plasmato sulla sostanza del pensiero. Qui si appuntala critica più radicale del ciceronianismo. La pretesa di considerare barbari tutti i vocaboli che nonsono in Cicerone, e il travestimento classicheggiante che i ciceroniani applicano ai termini dellareligione cristiana non sono solo un patetico tentativo antiquario, ma rivelano la tendenza arimuovere con il latino degli autori che hanno conosciuto il Cristianesimo anche i contenuti dellavera religione. Erasmo ammonisce che se non si accolgono i vocaboli, le immagini, la sintassi degliautori cristiani, si finisce per non accettarne anche la religione: il messaggio centrale dell'opera,esibito sin dal riferimento a san Girolamo nel titolo, è tutto qui. Restaurare pervicacemente lalingua degli Antichi, oltre che essere un'operazione antistorica, rappresenta anche il rifiuto diaccettare il disegno provvidenziale di Dio che ha voluto che l'arte e la sapienza classica fosserosostituite dalla rivelazione cristiana. Dagli autori dell'antichità non si deve prescindere, ma nellaconsapevolezza dei limiti della ragione naturale che sono loro propri e che sono superatidall'illuminazione divina su cui poggia la dottrina cristiana. La vera rinascita dell'antichità nonavviene nella sua riproposizione maniacale e antistorica, ma nella capacità di attualizzarel'insegnamento dei classici in forme nuove. L'unico modo di potersi dire seguaci di Cicerone è,dunque, di comportarsi come egli si comportò: trarre dai vari autori quanto di buono è in loro eformare uno stile personale, adattando le parole ai pensieri e non il contrario. Al di là delle divisionitra le epoche e le scuole, emerge in Erasmo l'utopia di un'integrità della cultura alla luce della"filosofia di Cristo", e il problema teologico della verità si salda con le istanze di tolleranza e diuniversalismo, capisaldi dell'umanesimo cristiano dello scrittore.

L-imitazione e la retorica secondo Giulio Camillo

Il trattatello Della imitazione di Giulio Camillo Delminio prende l'avvio da ampi apprezzamentidi Erasmo e dall'opinione che nel suo dialogo abbia esercitato le "divine forze del suo ingegno",piuttosto che espresso i suoi autentici convincimenti. Camillo però non si impegna nell'esame delleposizioni esposte nelCiceronianus e procede per suo conto a elaborare un'autonoma teoriadell'imitazione che con quella dell'umanista olandese, così come dei suoi contraddittori italiani, haben pochi punti in comune. Camillo propone, infatti, un concetto di imitazione che ambisce a essereuniversale, fondato su un sistema topico che è il medesimo alla base del grande progetto retorico delsuo Teatro della memoria, elaborato negli stessi anni, e che presuppone come punto di partenzaun'idea di imitazione non solo linguistica, innovativa rispetto al livello grammaticale e retorico sulquale si era collocata sinora la disputa. Camillo distingue fra tre livelli in cui può essere articolato ildiscorso: quello proprio, quello traslato e quello topico. Il primo livello non pone problemi dimetodo, dato che è quello della referenzialità, dal quale nessuna espressione può prescindere. Neltraslato non abbiamo parimente problemi se la parola figurata non ha il marchio d'autore ed èentrata nella lingua corrente (ardor al posto di amor, a esempio); ma quando il traslato ècaratteristico di un autore, allora l'imitatore, se si impadronisce di quella figura, è esposto al rischiodi "ladroneccio". L'imitazione topica contempla una sorta di soluzione generativa, dato che consistenell'imitare l'artificio sottostante al traslato adoperato dal poeta e sulla base di quello formare altreimmagini inedite. Il gioco inventivo intorno al topos individuato sotto la molteplicità delle metaforeprocede per Camillo non in maniera anarchica e incondizionata, ma secondo la classificazione dellatopica oratoria (argomenti antecedenti, conseguenti, similitudine, cagione, effetto, aggiunti veri efinti, eccetera), cosicché l'imitazione camilliana, confezionata su misura del linguaggio poetico enon di quello oratorio, sfugge a un rigoglio immaginifico incontrollato, per indirizzarsi entro icanali della misura classicistica, e lo sbocco in un linguaggio concettistico e manieristico èscongiurato. L'autorità del modellociceroniano poggia su basi grammaticali, che richiamano le tesiantinnatistiche di Bembo. L'ideale perfezione dello stile di cui è depositario Cicerone nasce da unprocesso di affinamento cui concorsero gli autori precedenti e che ebbe nell'oratore latino il suoapice, secondo il disegno di un'evoluzione storica della lingua che la vede sottoposta a un ciclonaturale di ascesa, acme, decadenza. Non ha senso allora indagare le tracce di bellezza sparse in

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vari autori tra loro poco conformi, per giunta in una lingua che ha concluso il suo ciclo storicoproduttivo, quando esiste un paradigma di perfezione nel quale tale opera di amalgamento e dicompattazione della tradizione è stata portata a termine in modo mirabile: "Chi imita un perfettoimita la perfezion di mille raunata in uno, e tanto meglio quanto in quell'uno essa perfezion apparcontinuata, non in una sola parte della composizione composta, sì come in alcun di que' primiauttori veder si potea. Debbiamo ancor pensar che non imitando alcun perfetto ma noi medesimi, innoi medesimi non possa esser se non quel poco di bello che la natura e 'l caso può dar ad uno"(Camillo 1970, p. 248). Un punto fondamentale distingue tuttavia il trattatello Dellaimitazione dall'idea umanistica presente a Bembo: l'imitazione è per Camillo un fattoeminentemente tecnico, da riportare comunque alla macchina universale del suo Teatro, checompendia in luoghi tutte le figure possibili della retorica, e non il veicolo per penetrarenell'interiorità del personaggio: la "natura dell'autore non può essere imitata già mai, ma solamenteque' consigli che da lei procedono" (Camillo 1970, p. 250). La teoria dell'imitazione camillianarappresenta pertanto una forte innovazione rispetto ai canoni entro i quali si era mantenuta ladiscussione sino a quel momento. La misura ciceroniana, che era stata un fatto essenzialmentegrammaticale e stilistico, viene immessa in un sistema concettuale inedito e volto al moderno, oltreil ruolo comunque subalterno della emulazione. L'eredità petrarchesca del legame paterno'filiale edel dialogo tra imitatore e imitato, che presuppone una sintesi personale di tale rapporto, lasciaspazio a un disegno che vuole essere sistematico e universale, e soprattutto fornire il dispositivo peruna espressione originale e creativa, nella quale l'uso dell'artificio sia autorizzato dalle fonti antiche,ma serva all'invenzione dei moderni.

Il confronto tra Giraldi Cinzio e Calcagnini

Le epistole che si scambiarono sull'imitazione nei primi mesi del 1532 Giovan Battista GiraldiCinzio eCelio Calcagnini non hanno nulla del tono contraddittorio che caratterizzava i precedenticasi di confronto tra letterati (Poliziano Cortesi e Bembo Pico).Il ventottenne Giraldi Cinzio, da poco addottoratosi allo Studio di Ferrara, scrive al professore CelioCalcagnini una epistola Super imitatione, costruita retoricamente come richiesta, affinché questi siesprima sul problema; e infatti Calcagnini replica con una succinta, ma succosa, Super imitationecommentatio, in cui dissente dalle idee esposte dall'allievo, ma senza che la diversità di veduteprenda i toni di una contrapposizione netta.

Giraldi Cinzio si attesta su posizioni in sostanza bembiane. Non è possibile che, prelevando lesingole parti perfette dai diversi autori tra loro dissimili, si crei uno stile unitario e organico;giacché Cicerone ha mostrato l'ottimo stile oratorio, portando a perfezione la lingua latina,eleggeremo lui nell'imitazione è lo seguiremo, così come è ragionevole in battaglia seguire ungenerale strenuo ed esperto. Se è giusto imbeversi dello stile e dell'eloquenza ciceroniana, ciò nonvieta di frequentare altri autori anteriori e successivi, inferiori per eleganza a Cicerone: da essi sipossono pure attingere parole e sentenze utili ad ornare il discorso, purché vengano convertiteall'imitazione ciceroniana e in essa si omologhino allo stile armonioso e perfetto dell'oratore latino.

La Commentatio di Calcagnini si apre con una considerazione sulla necessità dell'imitazione chesposta il problema a un livello non convenzionale rispetto a quello su cui si era situato GiraldiCinzio. Prima di essere un'esigenza estetica, l'imitazione è una necessità storica. Essa è stata in tuttele età necessaria, perché non è pensabile il progresso nelle arti senza che gli uomini si proponganogli esempi dei predecessori, dai quali progredire, ma meno urgente era il bisogno di imitare quandoi rudimenti dell'eloquenza erano radicati e stabili. Nell'età moderna, in cui il buon latino è decadutoa causa delle popolazioni barbariche che invasero l'Impero romano e per il diffondersi del volgare,l'imitazione dei monumenti della buona latinità diventa indispensabile.

Ma a Calcagnini, come principale effetto della decadenza della purezza e dell'arte del dire antica,sta a cuore segnalare il divorzio che si è venuto a determinare tra sapienza ed eloquenza. Dopo chesi è cessato di imitare i buoni autori, si è verificato il divorzio tra bello stile e pensiero; la filosofia,che è il dono più elevato che gli dei hanno concesso agli uomini, è stata deturpata da un'elocuzione

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degradata e inelegante e i dotti hanno impiegato tutte le loro energie nella speculazione, separandoquello che per natura non si potrebbe scindere è cioè gli "orationis et rationis consortia" ("i connubidi discorso e ragione").

La posizione di Bartolomeo Ricci e Bernardino Partenio

Con i De imitatione libri tres di Bartolomeo Ricci da Lugo (Venezia, Figliuoli di Aldo, 1545)l'argomento esce del tutto dal terreno delle diatribe tra sostenitori di idee opposte e si assesta nelleforme esaurienti e didascaliche, ma anche minori e compromissorie, del trattato. L'antitesitra natura e ars, da cui muove il discorso, pone le basi per una soluzione compromissoria, per cui lacomponente soggettiva dell'inventio e quella oggettiva dell'imitazione tendono a equilibrarsi inmaniera conciliativa, ancorché la propensione, per così dire antropologica, di Ricci sia favorevolead accentuare il peso della seconda. L'imitazione è infatti operazione mentale sofisticata, propriadell'uomo, dalla quale procede il progresso nelle varie discipline e che rappresenta il suggelloartificiale delle arti umane, che non si possono accontentare della sola natura. Più interessante dalpunto di vista teorico il trattato Dell'imitazione poetica di Bernardino Partenio(Venezia, G.Giolito, 1560), nel quale l'orizzonte problematico e metodologico cambia sensibilmente. Concepitocome un dialogo di cui sono interlocutori Trifone Gabriele, Giovan Giorgio Trissino e PaoloManuzio, lo scritto di Partenio dimostra una visione del problema radicalmente diversa da quelladei trattatisti che lo precedono. L'abbandono della vexata quaestio ciceroniana fa sì che in questaopera l'imitazione abbia un rilievo soprattutto stilistico, invece che linguistico, e sia proposta, al diqua di retaggi filosofici ed estetici, eminentemente come un fatto riguardante la prassi compositiva;ed è componente primaria della poesia insigne attraverso tutte le epoche, a prescindere dallaproposizione di un modello astorico di perfezione. Il ricco dossier citazionale che correda il trattato,con esempi che spaziano dalla letteratura antica a quella contemporanea, riflette la trasversalità cheassume per Partenio il concetto di imitazione e l'indifferenza ad aspetti puristici e grammaticali. Ladiscussione prende avvio da un problema eminentemente concreto - se sia opportuno imitare e finoa che punto ci si possa spingere senza essere considerato plagiario ', ma Partenio non è tantointeressato ad argomentare a sostegno dell'imitazione contro un'ipotesi eclettica, bensì si orientaverso una teoria generale degli stili fondata filosoficamente, nella quale l'imitazione ha un ruoloimportante ma non fondativo. Di fatto essa, intesa come componente primaria della creazionepoetica, più che un problema teorico in sé costituisce una sorta di cavallo di Troia, mediante il qualedare il via a una catalogazione retorica del linguaggio poetico, alla quale Partenio procededimostrando una solida conoscenza dei testi teorici antichi e moderni, ignorati dai precedentitrattatisti sull'imitazione.

L'imitazione nell'età dell'aristotelismo dominante

Con l'Imitatione poetica di Partenio siamo ormai a una data avanzata nel secolo, quandol'imitazione intesa alla vecchia maniera aveva perso la capacità di calamitare in maniera esclusival'attenzione e le energie degli autori. La conoscenza, a partire del decennio quaranta'cinquanta,della Poetica di Aristoteleaveva sottoposto a critica la concezione platonizzante dell'arte, in cuiessa giocava un ruolo decisivo e tendeva ad assorbire in sé l'intero processo della creazione. Neidecenni precedenti l'insistenza sul principio estetico della perfezione formale, dalle caratteristiche divolta in volta enciclopediche e filologiche, politico'civili, estetiche, talora con coloriture mistiche etrascendentali, aveva messo al primo posto laretorica come diciplina eminente dell'espressione, e lostile era divenuto la sede pressoché esclusiva del fare artistico. Privilegiare l'approccio retoricoall'arte significava accettare l'eredità soverchiante che gli Antichi avevano tramandato in quelsettore, rispetto a un lascito in campo poetologico e di teoria filosofica della letteratura più labile ofinora trascurato. Il risorgere dell'Ars poetica di Orazio e poi della Poetica di Aristoteleriproponeva nel secondo quarto del secolo una concezione razionale e tecnica dell'arte, cheestendeva le possibilità di una trattazione sistematica a settori della creazione artistica che eranostati sinora esaminati solo parzialmente dal punto di vista retorico. Fabula, ethos ("costume") dei

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personaggi,elocutio, decorum, convenienza, fine dell'arte, definizione di poetiche specifiche deigeneri, necessità o meno del verso e così via, sono tutti aspetti di un mutato orizzonte problematicoche l'idea tradizionale di imitazione stilistica non poteva più servire. Inoltre le basi razionalistichesu cui si reggeva il sistema aristotelico, nei suoi interpreti più puri tendevano a sovvertire lamentalità palingenetica insita nell'idea di imitazione elaborata dall'Umanesimo, mettendo indiscussione la dicotomia tra Medioevo e Rinascita che era stata alla base di quella cultura.L'universalismo di un sistema letterario fondato sulla ragione naturale tende a estrarre i generi e leopere dal loro corso storico e a presentarli nel loro essere sostanziale, per cui l'imitazione dei datiformali degli Antichi è sottoposta al regime di necessità statutaria che governa le singole espressionipoetiche e non presuppone un rapporto soggettivo e volontaristico con le fonti. In questo contesto diridistribuzione dei rispettivi domìni nell'opera artistica, la retorica deve cedere parecchio terrenoalla poetica; basta un semplice controllo, quantitativo e qualitativo, sui principali trattati di poeticaa partire dalla metà del secolo - la Quinta e sesta divisione della poetica di Giovan GiorgioTrissino, la Poetica d'Aristotele vulgarizzata e sposta di Lodovico Castelvetro, i Discorsi delpoema eroico di Torquato Tasso - per constatare la dislocazione subalterna delle questioniretorico'stilistiche e metriche. Ma pur sempre l'assioma secondo cui il prodotto letterario non èfrutto dell'arbitrio del singolo e dell'incondizionata forza inventiva individuale, ma poggia invecesul riuso dei contenuti e dei ritrovati formali precedenti, persiste come indiscusso fondamentodell'arte fino alle stagioni estreme del Rinascimento e costituisce il grande lascito di questa età allesuccessive, destinato a persistere lungo tutta la lunga durata della civiltà d'Antico regime.Articolazione di un sistema degli stili, codificazione dei generi, tassonomia delle tipologie minori edelle cellule minime del discorso (proverbi, detti, motti, apoftegmi, esempi, parabole, eccetera),persistenza di apparati retorici altamente sofisticati, sono queste tutte voci di un universo creativoche resta compatto nelle sue articolazioni istituzionali e nel quale, anche laddove il rapportopaterno'filiale teorizzato agli albori del Rinascimento si perde, sopravvivono comunque comefondamento insopprimibile dell'esercizio delle lettere il rapporto privilegiato con la tradizione, ilconfronto con i modelli, la variazione e la citazione come canoni estetici basilari.