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Lineamenti di estetica PARTE PRIMA – “I GRANDI TEMI DELL’ESTETICA” di autori vari IMITAZIONE ED ESPRESSIONE – Sara Sivelli e Raffaella Colombo Il termine greco mimesis ha cambiato il suo significato nella storia dell’estetica ed è alla base della riflessione teorica sull’opera d’arte. Dal IV sec. a.C. le ARTI MIMETICHE comprendevano: - Danza - Musica - Poesia - Pittura - Scultura Queste erano accomunate da un processo imitativo; l’opera d’arte era considerata come uno “specchio” in cui si riflette il reale ed esso poteva essere: Una rappresentazione più o meno fedele del mondo: il fine dell’arte è quello di <<reggere lo specchio alla natura>> Un riflesso trasfigurato del reale. Questa seconda idea era già stata espressa da Aristotele nella Poetica ma diventa sempre più diffusa nel Settecento, quando la concezione mimetica si lega sempre più al concetto di espressione. Il concetto di mimesis è considerato rappresentazione di un archetipo preesistente ed è valutato nella sua componente espressiva: infatti il vero nodo è comprendere il rapporto tra ciò che viene rappresentato in un’opera d’arte e il senso più profondo, invisibile della rappresentazione stessa. Il concetto di mimesis nell’Antichità era connesso ai riti dionisiaci ed era riferito alle attività di musica, danza e canto compiute dal sacerdote. Dal V sec. a.C. inizia a indicare l’imitazione del mondo esteriore. Nel IV sec. a.C. invece erano in uso quattro concetti di imitazione: 1) L’originario rituale espressione 2) Il democriteo imitazione dei modi di agire della natura 3) L’aristotelico libera composizione dell’opera d’arte da motivi presenti in natura 4) Il platonico copia della natura Queste ultime due interpretazioni divennero concetti duraturi e fondamentali dell’arte. PLATONE usa il termine “mimetico” non solo per le arti ma anche per le pratiche umane: quindi sono mimetici: - Il rapporto tra arte e realtà - Il rapporto tra mente umana e relatà (anche il pensiero si struttura secondo rappresentazioni) Nel Libro X della Repubblica egli afferma che l’opera d’arte è lontana tre gradini dalla realtà: infatti l’arte mimetica fornisce una copia della realtà, che a sua volta è una copia del mondo delle idee. Secondo il pensiero platonico esiste un DEMIURGO che crea il mondo sensibile seguendo un principio imitativo e ispirandosi al mondo ideale ; lo stesso accade per l’artista quando crea un’opera, ma essa si allontana ancora di un livello dall’idea in quanto è copia di una copia. Nel Sofista la mimesis è definita come una produzione di immagini e ne esistono due tipologie: - ICASTICA: l’immagine rappresentata è fedele al proprio modello - FANTASTICA: l’immagine rappresentata si allontana dal proprio modello

Lineamenti Di Estetica

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Riassunto del manuale "Lineamenti di estetica"

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Lineamenti di estetica

PARTE PRIMA – “I GRANDI TEMI DELL’ESTETICA” di autori vari

IMITAZIONE ED ESPRESSIONE – Sara Sivelli e Raffaella Colombo

Il termine greco mimesis ha cambiato il suo significato nella storia dell’estetica ed è alla base della riflessione teorica sull’opera d’arte. Dal IV sec. a.C. le ARTI MIMETICHE comprendevano:

- Danza - Musica - Poesia - Pittura - Scultura

Queste erano accomunate da un processo imitativo; l’opera d’arte era considerata come uno “specchio” in cui si riflette il reale ed esso poteva essere:

• Una rappresentazione più o meno fedele del mondo: il fine dell’arte è quello di <<reggere lo specchio alla natura>>

• Un riflesso trasfigurato del reale.

Questa seconda idea era già stata espressa da Aristotele nella Poetica ma diventa sempre più diffusa nel Settecento, quando la concezione mimetica si lega sempre più al concetto di espressione. Il concetto di mimesis è considerato rappresentazione di un archetipo preesistente ed è valutato nella sua componente espressiva: infatti il vero nodo è comprendere il rapporto tra ciò che viene rappresentato in un’opera d’arte e il senso più profondo, invisibile della rappresentazione stessa.

Il concetto di mimesis nell’Antichità era connesso ai riti dionisiaci ed era riferito alle attività di musica, danza e canto compiute dal sacerdote. Dal V sec. a.C. inizia a indicare l’imitazione del mondo esteriore. Nel IV sec. a.C. invece erano in uso quattro concetti di imitazione:

1) L’originario rituale � espressione 2) Il democriteo � imitazione dei modi di agire della natura 3) L’aristotelico � libera composizione dell’opera d’arte da motivi presenti in natura 4) Il platonico � copia della natura

Queste ultime due interpretazioni divennero concetti duraturi e fondamentali dell’arte.

PLATONE usa il termine “mimetico” non solo per le arti ma anche per le pratiche umane: quindi sono mimetici:

- Il rapporto tra arte e realtà - Il rapporto tra mente umana e relatà (anche il pensiero si struttura secondo rappresentazioni)

Nel Libro X della Repubblica egli afferma che l’opera d’arte è lontana tre gradini dalla realtà: infatti l’arte mimetica fornisce una copia della realtà, che a sua volta è una copia del mondo delle idee. Secondo il pensiero platonico esiste un DEMIURGO che crea il mondo sensibile seguendo un principio imitativo e ispirandosi al mondo ideale; lo stesso accade per l’artista quando crea un’opera, ma essa si allontana ancora di un livello dall’idea in quanto è copia di una copia.

Nel Sofista la mimesis è definita come una produzione di immagini e ne esistono due tipologie:

- ICASTICA: l’immagine rappresentata è fedele al proprio modello - FANTASTICA: l’immagine rappresentata si allontana dal proprio modello

La condanna platonica alla mimesis, quindi, non entra in una posizione unitaria in quanto egli ci mostra anche il valore e la potenza attribuita all’arte. Le arti mimetiche, inoltre, hanno il potere di generare nei fruitori un’intensa risposta emotiva.

Platone parla anche di POESIA e la definisce il “frutto dell’invasamento del poeta”, che può dire molte cose belle che però possono sfuggire alla ragione, e che viene “contagiato” dalla potenza irrazionale delle Muse. Nel Libro III della Repubblica egli immagina una città ideale e perfetta retta dai filosofi e che non dà spazio ai poeti: il sapiente deve saper abbandonare la poesia anche se ne riconosce l’alto valore. Tuttavia la forma d’arte mimetica che più interessa e al contempo turba Platone è la TRAGEDIA.

ARISTOTELE invece riconosce un valore positivo alle arti mimetiche:

- Poesia: concepita come forma di TECHNE, attività controllata dalla ragione e riconducibile al principio di imitazione.

- Tragedia - Commedia - Epica - Poesia ditirambica - Pittura - Scultura - Musica: rappresentatica dell’ETHOS (= carattere)

Nella Poetica egli pone la mimesis a fondamento della natura umana: l’imitare è connaturato agli uomini fin dalla puerizia (e in ciò si distinguono dagli altri animali) e tutti traggono piacere dalle imitazioni, anche immagini esatte di qualcosa che in realtà dà fastidio vedere. L’arte mimetica, infatti, sa convertire una passione dolorosa in un piacere estetico, che nasce da due possibilità:

- Una ragione dipendente dal contenuto mimetico dell’opera, attraverso l’atto cognitivo di riconoscimento - Una ragione che fa riferimento alle qualità tecniche e sensibili dell’opera

Aristotele arriva ad affermare che la poesia più essere più filosofica e seria della storia in quanto può presentare qualcosa di verosimile oltre alla realtà, assumendo un significato universale.

PLOTINO l’arte non deve essere imitazione della natura ma imitazione dell’idea: nelle Enneadi egli afferma che l’arte crea imitando la natura, che a sua volta imita l’idea. L’artista quindi è un abile creatore in grado di imprimere alla materia un’idea di bellezza che già possiede dentro di sè, aggiungendo quel qualcosa che alla natura manca. Questa concezione sarà ripresa da Agostino e avrà molto successo anche nel Medioevo.

Nel Rinascimento il concetto di “imitazione” diviene un tema centrale nel dibattito sulle arti:

o Leon Battista Alberti parla dell’immagine-specchio come strumento utile al pittore per offrire una riproduzione della realtà attraverso un’immagine dell’oggetto reale differente e imperfetta.

o Leonardo da Vinci parla della mente del pittore che dovrebbe assomigliare a uno specchio che riceve e riproduce la realtà circostante.

Nel Quattrocento, invece, il concetto di mimesis si divide in una triplice visione dell’imitazione artistica:

1) Arte come imitazione della natura 2) Arte come imitazione dell’idea che guida l’artista 3) Arte come imitazione del classici, considerati unici modelli di bellezza

CHARLES BATTEUX con Le belle Arti ricondotte a un unico principio (1746) compie una svolta per il concetto di mimesis: il genio deve imitare la natura non così com’è ma come il gusto ( fine e giudice dell’arte) percepisce come possibile. Si tratta di un’imitazione della “bella natura”, rappresentata come se esistesse realmente. Quindi l’imitazione è strettamente connessa al concetto di ESPRESSIONE.

Nel Settecento il legame imitazione – espressione mette in crisi il concetto stesso di imitazione: l’artista viene concepito come osservatore attento in grado di rimettere in gioco l’esistente come rimeditazione di quello che il reale potrebbe essere; le opere d’arte diventano espressive, trasmettono qualcosa che non è del tutto dicibile.

Nell’800 il concetto di mimesis subisce più critiche:

- ROMANTICISMO: l’arte era concepita come compartecipe dello slancio creativo della natura stessa e doveva emulare la sua forza attiva e generatrice.

- HEGEL nell’Estetica denuncia il modello di imitazione in quanto l’opera d’arte deve essere, per lui, solo il mezzo con cui l’artista rivela la verità: l’arte, se si limita a imitare la natura, non potrà mai gareggiare con essa.

- REALISMO e NATURALISMO: vogliono fornire una rappresentazione oggettiva della realtà: - Emil Zola considera il romanzo una riproduzione fedele della struttura causale dell’universo. - Il naturalismo a teatro tenta di ricalcare sulla scena lo spazio reale: ad esempio il palcoscenico di Antoine per

lo spettacolo I macellai (1888) a Parigi imita la realtà nella maniera più compiuta e peretta.

Anche nel ‘900 alcuni movimenti artistici e artisti vedono tornare centrale il tema dell’imitazione:

- IPERREALISMO: tenta di annullare lo sguardo soggettivo dell’artista per fornire una visione oggettiva, fotografica del reale. Sono esempi chiari i paesaggi metropolitani di Richard Estes e le scultura di esseri umani immortalati in attività quotidiane di Duane Hanson.

- Nell’estetica novecentesca Gyorgy Lukacs pone il concetto di imitazione alla base dell’arte, che è un fenomeno sociale che riproduce mimeticamente la realtà cogliendone anche gli aspetti salienti. L’arte è uno specchio della realtà in grado di sviscerarne le dinamiche interne.

Tuttavia con le Avanguardie Storiche e per tutto il ‘900 fioriscono molte opere d’arte che si allontanano se non addirittura si oppongono all’idea di imitazione e rappresentazione:

� Antoni Artaud afferma che “il fine dell’arte deve essere quello di far danzare l’anatomia”: ricercare nel fare artistico un movimento armonico tra le diverse parti di un prodotto organico; l’opera d’arte non deve essere una rappresentazione possibile del reale.

� Mondrian crea delle composizioni pittoriche partendo dall’osservazione di alberi che vengono poi ridotti a forme elementari e geometriche: è la visione dell’artista sul mondo.

� Pablo Picasso inaugura con il CUBISMO la rappresentazione della simultaneità dei punti di vista sulla tela: un oggetto viene raffigurato da tutte le sue angolazioni, scomposto e ricomposto in cubi. Questa tecnica la si ritroverà anche nel FUTURISMO.

� Merleau-Ponty parla dell’immagine speculare come di un equivalente dell’immagine pitturale: ciò che lo specchio rimanda è l’invisibile sensibile dello sguardo altrui che resterebbe altrimenti nascosto. Così l’arte deve mostrare l’intimo metamorfico, l’essenza carnale e invisibile dell’oggetto. La presenza di specchi nei dipinti novecenteschi rompe ogni tipo di mimetismo con la realtà:

La reproduction interdite di Magritte (1937) mostra un uomo di fronte allo specchio il quale riflette la medesima visione dell’uomo di spalle.

Lying figure in a mirror di Francis Bacon (1971) mostra uno specchio che riflette l’interiorità in divenire di una figura strappata alla figurazione.

Se si considera la mimesis fusa con il concetto di espressione allora si può affermare che il rapporto arte-realtà conserva un nesso mimetico; se, invece, valutiamo la mimesis come imitazione del reale, l’arte contemporanea si svuota di gran parte del suo valore.

Un punto fondamentale per comprendere la fusione della nozione di mimesis in quella di espressione è l’estetica di PLOTINO: l’artista, per lui, deve superare la mera imitazione della natura per farsi imitatore dell’Idea attraverso l’espressione. Egli nelle Enneadi (300-305 d.C.) afferma che, poichè l’Uno non si lascia tradurre completamente in forme concrete, la produzione e l’azione sono:

- Un indebolimento, se dopo l’azione non rimane nulla. - Un accompagnamento, se dopo l’azione potremo contemplare una cosa superiore a quella prodotta.

Ogni emanazione dell’Uno-Dio è una discesa verso il basso, un processo continuo che produce una frattura fra generatore e mondo: il sensibile si colloca su un piano inferiore rispetto all’assoluto. La creazione artistica si fa ponte verso la realtà superiore capace di superare i confini della propria forma e i limiti del procedere razionale per aprirsi all’intuizione.

MARSILIO FICINO introduce, invece, la possibilità di intuire la bellezza dell’Uno attraverso l’arte: nella Teologia

platonica (1482) egli afferma che le opere dichiarano come l’uomo possa essere simile a Dio in quanto usa tutti i materiali del mondo come se ne fosse il signore.

GIORDANO BRUNO potenzia ulteriormente la facoltà di partecipazione dell’uomo a un universo aperto all’infinito: l’EROICO FURORE è la forza che spinge oltre i limiti, verso una conoscenza che cerca l’assimilazione a Dio. Tutto è infinito, partecipa a un insieme infinito e infinite sono le capacità creative umane. In Bruno, la contemplazione del divino diventa più un avvicinamento dell’umano al divino. “Fare”, per lui, significa:

� Indagare la natura alla ricerca della sua intima perfezione. � Portare alla luce i processi che permettono di esprimere perfezione e armonia nelle opere.

Il fatto che l’uomo possa avvicinarsi a Dio gli consente di riconsiderare il proprio ruolo creando una nuova rete di corrispondenze tra sè e la realtà.

FRANCESCO BACONE nel suo Novum Organum (1620) mira a un processo di scomposizione e ricomposizione della realtà alla ricerca della forma, della costituzione interna di un fenomeno e dei processi che l’hanno prodotto. L’arte è un momento fondamentale in questo processo: le opere sono strumenti del progresso umano e provano la capacità dell’uomo di portare alla luce una “nuova natura”.

Il concetto di mimesis, quindi, viene assorbito sempre più in quello di espressione, che significa esporre con parole, opere o immagini una porzione di realtà che attende di essere interpretata e rivelata.

SPINOZA è il più chiaro rappresentante della piena dignitò del concetto di espressione: con lui l’espressione cessa di emanare e di somigliare. Della sua filosofia parlerà Deleuze in Spinoza e il problema dell’espressione (1988). Nella prima parte dell’Etica (1677) Spinoza afferma che il mondo non è sottomesso a una causa superiore ed esterna, ma è definito da una sola e unica SOSTANZA, che coincide con Dio, costituita da un’infinità di attributi che esprimono un’essenza eterna e infinita: il mondo è Dio stesso e tutto ciò che è, è in Dio.

CARTESIO propone invece una diversa concezione di sostanza: anche per lui è ciò che non ha bisogno di nulla al di fuori di sè per esistere e quindi la sostanza è Dio; tuttavia egli assume altre due sostanze:

- La RES COGITANS: realtà del pensiero, inestesa e senza limiti - La RES EXTENSA: realtà dell’estensione propria del mondo materiale, finito e determinato.

Per il dualismo cartesiano mente e corpo si presentano come modi di una stessa realtà destinati a influenzarsi a vicenda (per Spinoza invece mente e corpo sono due tra gli infiniti attributi del Dio-Natura). Il mondo per Cartesio è liberamente creato da Dio e da esso resta separato e la vita è una conquista, una espressione di una grado maggiore di GIOIA, sotto la spinta del CONATUS (desiderio come sforzo di perseverarsi e di accrescere la propria potenza). Ne Le

passioni dell’anima (1649) Cartesio mostra la strada per porre il dominio della ragione sull’emotività, ed è in opposizione a questo trattato che Spinoza mostra il lento percorso da seguire per potenziare le passioni in affetto attivo di gioia massima.

Il pensiero di Spinoza ha effetti su:

� Goethe che considerava lo spinozismo come trionfo della naturalità in cui l’uomo si trova inserito come ente uguale agli altri;

� Diderot che nei Pensieri sull’interpretazione della Natura (1753) afferma l’esistenza di un’unica materia viva che forma tutte le cose e le mette in relazione tra di loro. Anche la nozione diderotiana di “genio espressivo” si rifà a Spinoza in quanto il vero artista deve portare alla luce, attraverso l’arte, i legami naturali che superficialmente sono nascosti.

Per poter considerare l’espressione una manifestazione di questo mondo bisogna riconoscere il reale in tutta la sua presenza.

LEIBNIZ è la chiave per comprendere la relazione tra Dio e il Mondo, grazie alla nozione di espressione, all’interno di un sistema fondato sull’attività monadica. Una MONADE è un centro di forza privo di parti materiali, unico, isolato, capace di rappresentarsi come tutto l’universo per la sua caratteristica percettiva. Il verbo “percepire”:

- Rimanda alla raffigurazione che ciascuna monade si dà della realtà esterna - Evoca il potere di esprimere questa realtà in un modo unico e particolare.

La MONADE SUPREMA, ovvero Dio, ha conferito armonia e corrispondenze all’infinito insieme di sostanze semplici dotate di diversi gradi di chiarezza percettiva. “Esprimere” per Libniz significa raffigurare e raffigurarsi in modo sempre nuovo lo stesso grandioso scenario. Nei Principi razionali della natura e della grazia (1714) egli afferma che ogni monade è lo specchio della natura ed esso crea e rimanda un’immagine unica che ha la forza del SIMBOLO poichè contiene in sè tutto il possibile. Il PRINCIPIO DI CONTINUITÀ indica proprio questa raffigurazione sempre nuova dello stesso scenario. L’espressione è una raffigurazione sempre nuova e metaforica del mondo: le monadi inferiori portano alla luce qualcosa di assolutamente nuovo, in quanto solo Dio ha un’assoluta APPERCEZIONE, possiede cioè il massimo grado di autocoscienza dell’universo. Lo sguardo “da nessun luogo” di Dio, quindi, comprende la totalità nella sua struttura costante, mentre lo sguardo del singolo individuo raccoglie il mondo a partire dalla sua posizione. Gli infiniti mondi che raccolgono il mondo dichiarano la grandezza di Dio. L’arte allora è una metafora dell’armonia del cosmo e il PIACERE ESTETICO che ne deriva è un avvicinamento alla comprensione della perfezione propria dell’universo. Ogni rappresentazione dell’universo che la monade dà è uno sguardo vero sul mondo: “è come se Dio avesse variato l’universo tante volte quante sono le anime”. L’universo è uno e sempre uguale ma infinite sono le possibilità di vederlo e le forme attraverso cui può essere rappresentato. Due termini chiave per una filosofia che afferma una struttura oggettiva come fondamento dell’universo sono:

- PROSPETTIVISMO - ESPRESSIONISMO

Seguendo la lezione leibniziana della teoria della conoscenza, Baumgarten nel 1750 darà inizio all’estetica come sapere autonomo con l’opera Aesthetic, definendola una “gnoseologia inferior” posta a metà strada tra la filosofia, la poetica e la retorica. Solo nelle Riflessioni sulla poesia del 1753 egli definirà questa disciplina con il termine “ESTETICA”, rendendo sostantivo l’aggettivo greco “aisthetike”.

Spinoza e Liebniz sono due filosofi che non si occuparono di estetica direttamente ma sono punti fondamentali per il concetto di espressione, in quanto entrambi hanno una nuova concezione metafisica del soggetto e del suo rapporto con il mondo. Il Seicento lascia in eredità un universo che non conosce fratture ma che con un gesto lascia l’individuo privo di punti di riferimento e immerso in una rete di fredde leggi geometriche. L’arte allora diviene luogo privilegiato per osservare la natura e per indagare i limiti e le possibilità di una conoscenza che muove dai sensi.

Il concetto di espressione avrà poi ulteriori sviluppi:

- Nel saggio Le Belle Arti ricondotte a un unico principio del 1746, Batteux afferma che esprimere non è dare semplicemente forma sensibile a qualcosa ma portare alla luce legami e sfumature che resterebbero altrimenti invisibili; l’artista fa emergere nuove potenzialità naturali con gesti e parole.

- Cassirer nel ‘900 parlerà di ESPRESSIONE SIMBOLICA avendo chiaro il legame tra vita ed espressione: i diversi ambiti della cultura umana sono manifestazioni dell’attività spirituale dell’uomo, della sua capacità di trasformare il mondo passivo delle IMPRESSIONI in un mondo della pura ESPRESSIONE SPIRITUALE. Il SIMBOLO è un elemento concreto che rimanda a un contenuto del pensiero più vasto: l’uomo percepisce la realtà esterna, reagisce ad essa e la interpreta costruendo nuove trame di senso.

L’ESPRESSIONE ARTISTICA É UNA FORMA PRIVILEGIATA DA CUI OSSERVARE L’ARTICOLAZIONE DEL REALE E LA MANIFESTAZIONE DEL POSSIBILE.

GENIO E CREAZIONE ARTISTICA – Claudio Rozzoni

CREATIVITÀ = Espressione polisemica che cambia di significato con il corso dei secoli. Si apre un dibattito sulla questione di considerare la creatività solo nell’ambito artistico o anche in altri ambiti.

GENIO = deriva dal latino “genius”, la cui radice si collega al verbo “gignere” che significa GENERARE: il genio fa riferimento alla divinità che veglia su un luogo, un popolo o un singolo individuo.

Si possono distinguere tre modelli di creazione:

1) CREAZIONE DIVINA 2) CREAZIONE UMANA 3) CREAZIONE ARTISTICA

Quando si parla di creazione, inoltre, bisogna tener sempre presenti quattro domande:

1) Chi crea? 2) Che cosa viene creato? 3) In nome di chi si crea? 4) Per chi si crea?

Per giustificare l’origine del mondo, esistono due modelli che l’hanno interpretata diversamente:

� MODELLO PLATONICO: presentato nel Timeo afferma che ci sono due fattori che esistono prima dell’atto della creazione:

• Il DEMIURGO

• La MATERIA

Il Demiurgo dà origine al cosmo a partire dalla contemplazione di idee eterne che si trovano a monte dell’atto creativo: il creato è per forza bello perchè si ispira a idee perfette.

� MODELLO CRISTIANO: contempla la creazione “ex nihilo”, dal nulla, resa possibile attraverso l’opera di Dio. Nulla esisteva prima della creazione. Questo è un modello di CREAZIONE ATTIVA, dove colui che crea vuole creare e sa cosa creare.

Si può quindi compiere un parallelo con il genio umano, che crea l’opera imitando un proprio modello mentale.

I Greci distinguevano tra:

- Arte � TECHNE - Poesia � POIESIS: considerata solo questa propriamente creativa, anche se non sarebbe molto appropriato

parlare di “creazione ex nihilo” in quanto si avvicinerebbe più a una concezione cristiana e non greco-romana.

Si deve quindi affrontare il problema dell’identità dell’autore, condivisa dai Greci ma non dai cristiani:

Teognide di Megara tra il VII e il VI sec. a.C. voleva salvaguardare la proprietà letteraria delle sue elegie apponendovi una SPHREGIS, una sorta di sigillo. Questo orgoglio dell’ingegno individuale, questo sentimento per la paternità dell’opera, sono sconosciuti ai cristiani in quanto per loro il vero e unico creatore è Dio.

Anche la poesia greca si caratterizza per la sua discendenza divina ma ciò non compromette l’emergere dell’individualità dei poeti: c’è un intreccio di creazione divina e umana. Già con Omero si pone il problema dell’origine del genio, diviso tra:

� ISPIRAZIONE DIVINA, che comporta un momentaneo stato di “uscita da sè” per accedere a una posizione privilegiata

� TALENTO INNATO, che è un dono, un insegnamento divino che si offre all’artista come possesso permanente.

Esempio perfetto di connubio tra queste due componenti è Pindaro, poeta dotto e ispirato nel quale si realizza una coalizione tra sapienza tecnica (SOPHIA) e talento naturale (PHYA).

PLATONE cambierà il suo pensiero a proposito della poesia grazie a questa riconsiderazione del valore dell’ispirazione divina:

- Nella Repubblica (Libro X) egli condanna la poesia come “copia della copia”. - Nello Ione invece, egli considera il poeta un “interprete di interprete” ma senza connotati negativi. La poesia

è animata da un entusiasmo e il poeta cattura l’intero processo della poesia stessa avvicinandosi alla divinità da cui deriva. È una sorta di trasmissione di potere che si propaga da una fonte. Per bocca del personaggio di Socrate, Platone afferma che è come se “una pietra, che Euripide chiamò Magnete e i più chiamano Eraclea, non solo attrae gli anelli di ferro, ma infonde in essi anche un potere tale per cui possono fare la stessa cosa che fa la pietra, cioè attrarre altri anelli”. Il Magnete coincide con la Musa che, nel momento in cui infonde ispirazione divina al poeta, lo priva dell’intelletto. Quindi non è per arte che si impara a poetare ma per ispirazione, e un poeta deve essere “fuori di senno” per essere ispirato: non serve la tecnica ai poeti, in quanto essi creano opere buono soltanto se non sono più sè stessi. Quindi il poeta è un interprete passivo

del Dio, che può comporre “il canto più bello per mano del poeta peggiore”, proprio per dimostrare che solo alla sua mano divina si deve la bellezza dell’opera. l’ultimo anello della catena a cui può arrivare l’ispirazione è lo spettatore.

ARISTOTELE collega la nozione di creatività con quella di PHANTASIA, e cioè l’IMMAGINAZIONE, facoltà rappresentativa che dipende dalle sensazioni, ed è un potere radicato nella dimensione estetica. Essa entra in gioco:

- Nel poeta EUPHYES: colui che possiede un talento naturale - Nel poeta MANIKOS: colui che riceve il potere della mania divina

I soggetti che per nautra tendono all’ispirazione poetica sono i MELANCONICI, poichè il loro “animo nero” induce una sospensione del senno che dà il libero corso alle buone creazioni. Questa idea sarà ripresa da Marsilio Ficino e nel Cinquecento proprio la figura del melancholicus rappresenterà uno dei ruoli che l’artista può assumere per raggiungere una maggiore dignità intellettuale e sociale. Il poeta quindi subisce la forza creativa ed è vittima della forza naturale. Per Aristotele, inoltre, non è sufficiente essere in preda alla mania divina per creare, ma bisogna sviluppare una tecnica che accompagni quell’istinto connaturato all’uomo che è l’IMITAZIONE: l’uomo attraverso una mimesis interpretativa coglie nella natura potenzialità nuove, sempre nel nome del VEROSIMILE, e cioè di ciò che potrebbe accadere.

Nel Settecento la riflessione sull’artista come interprete giunge a un punto di sviluppo decisivo: per l’illuminismo l’interprete è colui che a partire dal confronto con la natura illumina nuove porzioni di mondo; l’interprete stesso è natura e la “forza geniale” che lo guida è una energia sovraindividuale. L’interprete è quindi IMPERSONALE, come disegna DIDEROT nel Paradosso sull’attore. L’attore è un anello di trasmissione tra il poeta e il pubblico, è un mediatore che interviene con un proprio gesto (creatore ma impersonale) ed è un punto di incrocio fra ragione e sensibilità: un attore che nella passività riesce a trovare la possibilità di una risposta attiva. Ogni rappresentazione rinnova la catena energetica in ogni suo anello.

JEAN BAPTISTE DU BOS nelle Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura (1719) afferma che il genio ha un talento naturale ricevuto dalla natura ma deve comunque esercitarsi con studio e applicazione per arrivare a delle opere d’arte che emozionino lo spettatore. Non è la mano divina a guidare l’artista ma una dimensione naturale che fornisce ad esso una felice disposizione degli organi del cervello.

CHARLES BATTEUX nelle Le Belle Arti ricondotte a un unico principio (1746) afferma che il genio, seguendo un’IMITAZIONE PRODUTTIVA, imita la natura non così com’è ma dando un apporto nuovo e personale: il suo scopo è costituire il gusto dell’uomo di genio. Inoltre, il genio è un’eccezione che non conosce ripetizione ed è alimentato da un “energia vitale”.

Nell’Encyclopedie del 1757 la voce <<GENIO>> viene definita come una vastità d’intelletto, forza d’immaginazione (intesa come capacità di cogliere il possibile della natura) e vivacità d’animo. Gli uomini provano sensazioni vivaci soltanto dalla percezione di oggetti che hanno un rapporto immediato con i loro bisogni. Ma l’uomo di genio riceve continuamente delle idee dalla natura che suscitano in lui un sentimento: c’è quindi una deviazione dalla regola che

permette la formazione di qualcosa di geniale. Nel genio l’interpretazione diventa espressione e la trasgressione è necessaria per ottenere una regola nuova e condivisibile.

La riflessione sull’immaginazione viene affrontata in Gran Bretagna da:

- Francesco Bacone nel 1623 con Advancement of Learning - William Temple nel 1690 con il saggio Of Poetry dove si assiste alla NATURALIZZAZIONE della poesia: non c’è

ispirazione divina per i poeti ed essi possono contare solo sulla loro immaginazione - Joseph Addison nel 1712 con la raccolta di saggi intitolata Pleasures of Imagination ammette che il poeta con

una immaginazione cretiva dà vita a cose e persone mai viste; affronta così i principi di ORIGINALITÀ e CREATIVITÀ.

- William Sharpe nel 1755 con Dissertation upon Genius concepisce una potenzialità vuota che si riempie solo tramite l’esperienza: la natura dà la possibilità a tutti gli uomini di diventare geni con l’esperienza; diverse esperienze danno vita a diverse forme di genialità.

- Alexander Gerard nel 1774 scrive Essay on Genius e afferma che il genio è INVENZIONE, ben distinto dal talento. L’elemento che distingue il genio è un’immaginazione non sregolata. Nella creazione artistica, il GIUDIZIO svolge una funzione di controllo sulla coerenza dell’invenzione e il GUSTO ne misura la bellezza. C’è nel modello di Gerard una mediazione tra

� Natura a priori � Esperienza a posteriori

L’immaginazione genera idee che hanno un’esistenza indipendente: creare è comporre in modo originale. Poichè per Gerard l’artista non può creare queste composizioni a proprio piacimento, si apre una discussione intorno all’involontarietà della creazione stessa.

KANT attribuisce l’esclusiva prerogativa del genio alle BELLE ARTI. Egli definisce “genio” colui che dà la regola all’arte, e non colui che la segue: non serve seguire delle regole per la creazione artistica ma la natura offre all’uomo la propria mano. Il genio è in grado di produrre qualcosa che non potrebbe essere prodotto seguendo delle regole, e quindi deve essere dotato di un’ORIGINALITÀ ESEMPLARE, deve cioè porsi come modello. Con Kant si ha una rottura con la concezione settecentesca di “genio imitativo”: al genio non è concesso di imitare l’opera di un altro genio ma potrà soltanto mettersi al servizio della sua originalità esemplare; solo tradendo un genio si piò diventare genio. Il genio non imita la natura ma si fà strumento attraverso cui essa detta la propria regola e i propri modelli e tuttavia non potrà tramandare scientificamente il modo in cui ha realizzato il suo prodotto: non si può imparare la genialità e quindi ci può essere genio nell’arte ma non nella scienza. L’arte, quindi, con Kant rinuncia ai costrutti del concetto: “Suddividete l’opera fin che volete: non ne troverete l’anima, quell’elemento inspiegabile che solo è la cifra del genio”. Questo principio era già stato espresso da Platone nel dialogo Menone dove Socrate dimostrava di poter condurre uno schiavo totalmente ignorante a formulare il Teorema di Pitagora ma mai avrebbe potuto insegnargli a poetare. L’opera del genio ha un effetto sul nostro sentimento anche se non sentiamo lo SPIRITO dell’opera d’arte: osserviamo una bella opera ma non riusciamo a sentire tale perfezione.

Con il concetto di IDEA ESTETICA Kant intende quella rappresentazione della forza di immaginazione che dà occasione di pensare molto, senza che qualche CONCETTO possa esserle adeguato. L’artista espone un’opera d’arte che mette in moto il nostro pensiero ma non lascia che i concetti a nostra disposizione possano ricollegarsi alla rappresentazione che ci sta di fronte. La facoltà dell’immaginazione è propria del genio ed è una facoltà creativa. La natura offre la propria mano al creatore geniale per creare qualcosa che è altro da sè stessa: è una natura, quindi, che oltrepassa la natura. Nel GIUDIZIO CONOSCITIVO si scambiano i ruoli tra IMMAGINAZIONE e INTELLETTO: è l’intelletto che definisce chiaramente i limiti concettuali cui l’immaginazione si deve adeguare. Ma nel caso del genio, l’immaginazione è libera ed eccere i confini del concetto.

L’espressione del genio, anche se non è definibile concettualmente, deve essere comunicata agli altri: è in gioco la possibilità di comunicare qualcosa di indicibile.

Paolo d’Angelo ricorda che non bisogna considerare il passaggio tra il ‘700 e l’800 come una frattura per quanto riguarda la nozione di genio: infatti l’800 eredita dal secolo precedente

o La dimensione di esaltazione connessa alla nozione di genio, promossa dallo Sturm und Drang o Il connubio genio-gusto di matrice kantiana

SCHELLING nel Sistema dell’Idealismo trascendentale (1800) ritrova l’idea generata da due principi:

1) Quello attivo, conscio dell’azione libera dell’artista

2) Quello relativo alla dimensione naturale, passiva, incoscia dell’opera d’arte, che appunto appare come se fosse stata prodotta inconsciamente.

il genio quindi è un incontro tra ARTE (intesa come “tecnica”) e POESIA (intesa come ciò che nell’arte non può essere tramandato nè appreso). Il genio è ciò che sta sopra a entrambe e riguarda esclusivamente l’ambito artistico, tanto che Schelling opera una distinzione tra:

- TALENTO: sapere specializzato, isolato, unilaterale

- GENIO: facoltà multilaterale, universale, unificatrice

Tuttavia il momento di entusiasmo naturale del genio può essere controllata dall’intelletto: il processo creativo risulta essere il frutto dell’interazione fra ISPIRAZIONE e AVVEDUTEZZA.

Un elemento di distacco dal ‘700 invece è il mutato rapporto tra genio e gusto: tra questi due principi ci possono essere differenze di grado ma non qualitative. Non si dà gusto senza genio: il gusto sembra perdere la propria identità mutando qualitativamente in genio. Il genio quindi può comprendere già in sè il gusto, e quindi l’eccezionalità del genio trascina con sè le capacità riluttanti dell’uomo comune; oppure il gusto può essere considerato già genio, nel senso che se tutti possono arrivare ad apprezzare l’opera d’arte allora tutti possiedono un briciolo di genio e tutti sono artisti. L’800 in conclusione, decreta l’onnipotenza dell’artista.

Il Romanticismo origina:

• La possibilità di estendere la nozione di genio oltre il dominio dell’arte, fino alla scienza

• L’esclusività legata al campo artistico ( Hegel nonostante applicava la nozione di “genio” a tutte le funzioni dell’eccellenza inventiva, ammetteva il suo ruolo privilegiato alla creazione artistica).

SCHOPENHAUER ne Il mondo come volontà e rappresentazione (1818) afferma che solo nell’arte si possa dare genio in quanto l’arte è CONOSCENZA: l’arte è intuizione delle idee, puro contemplare le eterne essenze delle cose. Per esercitare tale sguardo contemplativo il genio dovrà lasciar cadere l’assennatezza: non esistono geni moderati.

In NIETZSCHE si susseguono tre idee diverse di genio:

1) Il genio è un solitario inattuale: esempio più chiaro è Wagner. La grandezza del momento produttivo dell’arte comporta una degradazione del pubblico.

2) Il genio è troppo umano e quindi si trova anche in ambiti non artistici 3) Introducendo il concetto di VOLONTÀ DI POTENZA egli esalta l’ebbrezza dell’artista di contro l’aridità del

dotto: è una filosofia della creazione basata sui concetti di FORZA e ENERGIA

Per quanto riguarda il tema delle IDEE coinvolte nella creazione il ‘900 prende spunti da:

� Schopenhauer, secondo cui le idee sono eterne e preesistono alla loro contemplazione da parte dell’artista; il genio scopre ciò che il VELO DI MAYA dei fenomeni nasconde agli uomini comuni.

� Nietzsche nega l’esistenza di un <<mondo dietro il mondo>>: la creazione quindi deve avere come risultato qualcosa di assolutamente nuovo dopo un confronto con il mondo sensibile, con la materia.

HENRI BERGSON nel saggio Pensiero e movimento (1934) riconduce l’idea che l’opera d’arte preesiste alla sua creazione, a un’abitudine connaturata di un movimento retrogrado impresso ad ogni affermazione vera: se un’opera nasce doveva prima esistere la possibilità che nascesse.

HANS-GEORG GADAMER in Verità e Metodo (1960) indaga lo statuto dell’opera d’arte a partire da un riferimento al GIOCO: l’opera d’arte è il soggetto dell’esperienza dell’arte modificata dall’artista. Autore e spettatore giocano con la VALENZA CONOSCITIVA: il riconoscimento di un’opera d’arte coincide con il ricordare qualcosa di già conosciuto, e quindi si parla di RICONOSCIMENTO CREATIVO.

MAURICE MERLEAU-PONTY insiste sulla dimensione passiva e non predeterminata della creazione: l’artista traduce in opera d’arte il mondo visibile e muto al quale tutti siamo aperti � il MONDO DELLA VITA. L’arte, quindi, ricrea un mondo preesistente dandogli forma e allora l’opera d’arte ci sembra una sconosciuta ma in realtà la riconosciamo.

GILLES DELEUZE presenta, attraverso la nozione di VIRTUALE, alcune indicazioni per definire quale sia il senso per cui si può parlare di preesistenza dell’opera d’arte. Egli distingue le nozioni di:

- POSSIBILE, è ciò che deve realizzarsi secondo un principio di uguaglianza: possibile e REALE sono uguali ma solo il secondo esiste.

- VIRTUALE, è ciò che deve attualizzarsi secondo un principio di divergenza

L’opera d’arte, allora, preesiste in una condizione virtuale e deve differenziarsi per attualizzarsi, per essere creata.

DINO FORMAGGIO nella Fenomenologia della tecnica artistica (1953) ripensa al significato di arte come TECHNE dal quale la riflessione sul procedimento creativo non può prescindere: il genio deve interagire con la materia e con la tecnica deve trasformarla in opera d’arte. Genio è natura proprio in quanto è sensibilità. La tecnica artistica si distingue dalla TECNICA DECADUTA, dal MESTIERE, dal MECCANISMO.

Il ‘900 sembra togliere alla nozione di genio l’aura divina, mitica che si può cogliere nel linguaggio comune. Molti artisti hanno potuto iniziare a rivendicare la dimensione impersonale del lotro statuto autoriale. Come disse Roland Barthes si assiste alla “morte dell’autore”. Michel Foucault in Che cos’è un autore? (1969) afferma che nel ‘900 è come se l’autore viene assassinato dalla sua stessa opera. C’è quindi un ritorno all’impersonalità autoriale e un’ascesa del CREATORE IMPERSONALE, una sorta di figura paradossale che crea sparendo, cercando di divenire impercettibile. Il vero “chi” della creazione pare diventare uno stile impersonale ma originale: il nome dell’artista viene superato per importanza dal suo stile. Sono esempi:

� Il romanzo in terza persona americano

� Andy Warhol che nelle sue immagini risulta l’assenza di ogni pretesa dell’artista di interpretarle al mondo ( si riconosce uno “stile Warhol” più che Andy Warhol in prima persona).

MARTIN HEIDEGGER rilegge l’etimologia di “arte” in quanto TECHNE e devia il discorso sul suo lato ARTIGIANALE: l’opera d’arte allora è il mettersi in opera della verità e l’artista nella grande arte rimane indifferente.

Gilles Deleuze e FELIX GUATTARI scrivono una sorta di testamento filosofico intitolato Che cos’è la filosofia? Nel 1991: essi attribuiscono all’arte la facoltà di pensare, come è attribuita anche alla filosofia e alla scienza: arte, filosofia e scienza pensano e creano. Esse sono forme del pensiero che danno vita a tre tipi di creazione:

1) La filosofia crea CONCETTI 2) La scienza crea FUNZIONI 3) L’arte crea PERCETTI e AFFETTI

L’arte possiede un proprio modello di ideazione ed è in grado di disfare quello strato protettivo che la nostra abitudine tesse in vista di fini pratici. L’artista crea un’opera che rappresenta, per il fruitore, un incontro capace di forzare il meccanismo del riconoscimento abituale. L’opera supera qualsiasi schema predefinito che lo spettatore può avere a disposizione per comprenderla. Un capolavoro per essere riconosciuto in quanto tale deve far trascorrere il tempo necessario per crearsi un pubblico in grado di apprezzarla. Non sono quindi, in conclusione, le figure estetiche a creare lo stile ma è lo stile che crea la figura estetica e le opere d’arte.

L’autore è un attore destinato a scomparire in favore dell’opera.

GUSTO E FRUIZIONE ESTETICA – Michele Bertolini

GUSTO= idea estetica dotata di coordinate temporali e storiche; emerge come oggetto teorico specifico dell’estetica nel ‘700, quando il piacere estetico provato di fronte a opere d’arte o della natura e il giudizio che dalla loro visione ne deriva, vengono interrogati nei loro fondamenti autonomi. Nel corso del XVIII sec. il gusto diventa oggetto di un’interrogazione filosofica esplicita e costante. L’autonomia del gusto si sviluppa in contemporanea allo sviluppo di:

- Salons - Accademie di Belle Arti - Gabinetti - Gallerie private - Collezioni pubbliche e private - Critica d’arte sempre più attenta

La teoria del gusto è attraversata da molte polarità:

1) OGGETTIVITÀ – SOGGETTIVITÀ 2) NATURALITÀ – STORICITÀ 3) SENTIMENTO – GIUDIZIO 4) SINGOLARITÀ – INTERSOGGETTIVITÀ 5) PARTICOLARITÀ – UNIVERSALITÀ

Il gusto non si deve confondere con l’esercizio della critica d’arte e nemmeno le sue trasformazioni storiche sono riconducibili alle variazioni degli stili artistici.

Nel Settecento si diffonde il termine “non so che” (in altre lingue è wit, esprit, witz, ingegno) che individua un sentire del soggetto legato alla vita emozionale dell’uomo e all’orizzonte del piacere e della gradevolezza, non per forza correlato al bello e alle arti. Tutte le sensazioni racchiuse nel concetto del “non so che” confluiranno nell’idea di gusto.

- LOCKE nel Saggio sull’intelletto umano (1690) riconosce che la mente umana ha il potere analogico di costruire rapporti tra le idee.

- LEIBNIZ nei Nuovi saggi sull’intelletto umano (1765) teorizza la presenza nella coscienza dell’uomo di piccole percezioni inconsce che formano il gusto

Il BUON GUSTO definisce un generale modo di sentire che si indirizza verso le belle arti e verso l’arte della conversazione. Era più un modello di educazione estetico, morale e sociale. Infatti in Francia e Inghilterra la nozione di gusto è intimamente connessa con le regole della società di uomini di buon gusto ( gentlemen e critici).

Questi due termini sono nodi teoretici che percorrono la nascita e lo sviluppo dell’estetica: - EMOZIONE= rinvia a una reazione passionale soggettiva spesso legata a una dimensione fisiologica - SENTIMENTO= rivela un atteggiamento conoscitivo del soggetto nei confronti dell’oggetto ponendosi a

fondamento di quel giudizio di gusto che pretende di avere valore universale - PASSIONE= trovano delle fonti storiche che analizzano il loro ruolo attivo nel generare un piacere estetico:

� CARTESIO con la sua “teoria delle passioni” espressa ne Le passioni dell’anima (1649) � MICHEL DE MONTAIGNE nei Saggi (1580-95) parla di SIMPATIA come espressioni della “muta

eloquenza” e del linguaggio dei gesti e degli sguardi comune all’uomo e agli animali L’estetica emozionalista riconosce alla teoria delle passioni di Cartesio l’avvio di due punti fondamentali:

1) Il piacere che l’uomo prova di fronte agli spettacoli tragici nasce dal sentimento di AUTO-SODDISFAZIONE derivante dalla generosità e dalla compassione del fruitore

2) La centralità dell’emozione come semplice fenomeno psicofisiologico indipendente da giustificazioni moralistiche

DU BOS è un autore che trova tre punti fondamentali nell’estetica:

1) L’immediatezza dell’emozione 2) Il coinvolgimento passionale nella fruizione estetica 3) La centralità dello spettatore

Le opere d’arte, per lui, devono colpire, emozionare, turbare e coinvolgere il pubblico che sa giudicare in maniera disinteressata e imparziale perchè si lascia abbandonare al coinvolgimento passionale. Perciò l’emozione trova nel sentimento il mezzo che gli permette di giudicare un’opera, in quanto esso è un organo giudicativo che rivela un rapporto conoscitivo tra il soggetto e le cose. Il sentimento rivela quel SENSO COMUNE condiviso da tutti gli uomini e si manifesta come una sorta di capacità naturale di fruire il bello. Il gusto, a differenza del genio e delle arti, non conosce una trasformazione storica e non progredisce col tempo: esso si può soltanto perfezionare attraverso l’esperienza, grazie ai confronti tra diverse opere d’arte. Le PASSIONI ARTIFICIALI non coinvolgono immaginazione, memoria e intelletto ma mantengono bloccata l’emozione nella sensazione. Du Bos allora chiama PIACERE PURO il godimento suscitato dagli spettacoli artistici in quanto privo di inconveniente che accompagnano le emozioni serie provocate dall’oggetto stesso. Per la liberazione del piacere estetico sono necessarie DISINTERESSE e DISTANZA dello spettatore dall’opera d’arte, che non deve quindi impegnare la mente con riflessioni e pensieri complessi. Il pubblico ricerca:

- Finzione del teatro - Storie interessanti - Soggetti riconoscibili - Emozioni patetiche - Il PIACERE DEL PIANTO

Du Bos allora confronta il sentire spontaneo comune del pubblico con l’aridio raziocinio della cultura dei critici: il primato del pubblico conosce una giustificazione che coincide con il riconoscimento della sensibilità come base di una nuova estetica e fondamento del vivere civile della società. In Inghilterra verso la metà del ‘700 il piacere prodotto dall’esperienza estetica viene rivolto nella direzione del PATETICO:

• ALEXANDER GERARD scrive nel 1759 Essay on Taste e identifica il gusto con alcuni poteri naturali dell’immaginazione accompagnati da giudizio e sensibilità di cuore. Il patetico è una qualità importante nelle opere di gusto.

• BURKE nell’Indagine sul bello e il sublime (1759) afferma l’universalità, la naturalità e l’oggettivismo del gusto, enfatizzando al massimo la sua dimensione passionale.

• HUME nella Regola del gusto (1757) rifiuta qualsiasi declinazione oggettiva della bellezza: essa esiste soltanto nella mente del fruitore e quindi ognuno percepisce una bellezza diversa.

L’esperienza estetica quindi ha chiaramente una natura emozionalistica: percepire il bello significa attivare uno stato emotivo piacevole.

La differenza tra GUSTO e BUON GUSTO apre una riflessione tra:

- Un gusto ISTINTIVO, naturale, comune a tutti gli uomini - Un gusto EDUCATO, raffinato, coltivato

Si pone così il problema della possibilità di un’educazione e formazione del buon gusto: problema affrontato soprattutto nell’estetica inglese, collegato alla ricerca dello “standard of taste” (=regola del gusto), ma anche nel contesto francese.

VOLTAIRE, ad esempio, interpreta il gusto intellettuale come metafora del gusto palatale e fisiologico: un punto di incontro fra NATURA e CULTURA. La DIMENSIONE SOGGETTIVA del gusto si allevia con la capacità giudicativo-valutativa che deriva dall’educazione, dallo studio dei modelli classici e dall’abitudine. L’uomo di buon gusto quindi rifiuta con assoluta prontezza il “cattivo gusto”.

La “querelle degli Antichi e dei Moderni”, che attraversa e divide il mondo intellettuale francese tra il 1687 e il 1715, espone già il problema del gusto e dei problemi che suscita.

I SOSTENITORI DEGLI ANTICHI (tra cui Nicolas Boileau e Madame Dacier) oltre a difendere il valore delle opere d’arte greche e romane, definiscono il canone del gusto attraverso l’applicazione di regole che il pubblico è in grado di afferrare e riconoscere in maniera immediata. Quindi per loro è ammissibile una trasformazione storica del gusto.

I SOSTENITORI DEI MODERNI (tra cui Charles Perrault e Antoine Houdart de la Motte) invocano invece la libertà del gusto, che non è sottomesso all rispetto scolastico di regole classicistiche, e quindi capace di sfruttare i progressi delle arti e delle scienze.

JEAN BAPTISTE DU BOS nelle Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura (1719) riconosce l’intersoggettività del gusto, riconducibile a variabili FISICHE (clima, ambiente, territorio) e STORICO-SOCIALI (abitudini, costumi, differenze culturali nazionali). Il gusto è capace di giudicare il valore delle opere indipendentemente dalla conoscenza intellettuale delle regole e dall’erudizione dei critici. C’è allora una collaborazione tra RAGIONE e SENTIMENTO, sbilancata a favore del sentimento.

Nell’Encyclopedie del 1757 alla voce “gusto” lavorano più mano, offrendo diverse riflessioni sul rapporto tra natura e cultura del gusto:

� Voltaire scrive un breve intervento � Montesquieu scrive un lungo saggio in cui distingue tra GUSTO NATURALE e GUSTO ACQUISITO, ponendo il

primo come condizione necessaria per il secondo. Questa polarità antropologica costitutiva della natura umana sarà presente nell’opera dell’autore intitolata Lo spirito delle leggi.

� D’Alembert scrive un testo conclusivo in cui conferma che il vero oggetto del gusto è la bellezza che colpisce solo gli animi sensibili e che richiede educazione, progresso e cultura, mentre la BELLEZZA NATURALE colpisce ugualmente tutti gli uomini. Questo modello quindi prevede una collaborazione tra la spontaneità sentimentale del genio e la potenza analitica della ragione e del giudizio.

La posizione di d’Alembert sull’aumento del piacere di gusto è una questione ampiamente dibattuta nell’estetica inglese, suscitando una polarizzazione:

Alcuni mirano a ricercare la regola del gusto a livello dello stesso gusto naturale (“natural taste”) : ad esempio BURKE nell’Inchiesta sul bello e il sublime (1757) definisce con il termine “gusto” quella facoltà della mente che è impressionata dalle opere dell’immaginazione e dalle belle arti. Egli riconosce tre poteri naturali ( SENSI, IMMAGINAZIONE e GIUDIZIO) che pongono l’essere umano in rapporto con gli oggetti stessi. Per Burke si potrebbe arrivare a definire una LOGICA DEL GUSTO, in quanto il piacere del gusto è lo stesso per tutti ma la sua varietà dipende da usi, abitudini e conoscenze culturali. Per Burke il giudizio ha perciò una funzione ambigua:

� Raffinamento culturale del gusto � Ostacolo all’attività universale del gusto naturale

Alcuni puntano a ricercare la regola del gusto a livello di un GUSTO SUPERIORE ( “true taste”) a quello naturale, cioè un gusto mediato dall’educazione e dalla cultura: HUME ne La regola del gusto (1757) afferma che superando il disaccordo che regna tra gli uomini riguardo ai gusti corporei e mentali si può arrivare a un corretto esercizio di gusto. Per Hume solo i CRITICI sono qualificati a esprimere un giudizio su qualsiasi opera d’arte e nel loro gusto colto e raffinato si può ritrovare un canone di gusto. i critici sono caratterizzati da:

� Ottima salute degli organi di senso � Delicatezza dell’immaginazione � Buon senso � Assenza di pregiudizi � Pratica � Esperienza

In Inghilterra l’interrogazione estetica del gusto coincide con un’analisi critica delle “facoltà” delle funzioni soggettive che appartengono al gusto. la facoltà del gusto inizialmente è identificata con il SENSO INTERNO della bellezza: è un’autonoma facoltà mentale che percepisce immediatamente il valore estetico gustandolo. Il senso interno del bello (“sense of beauty”) si distingue in modo sempre più netto dal SENSO MORALE. Le riflessioni inglesi sulla natura del gusto e dei rapporti tra gusto e giudizio si dividono in due correnti:

1) Una privilegia l’individuazione e la localizzazione di una specifica facoltà mentale ricevuta con l’esperienza 2) Una pensa il gusto come un’attività di cooperazione tra sensibilità, immaginazione e giudizio (è la linea di

pensiero vincente e dominante). Nella estetica tedesca la figura di BAUMGARTEN si muove dalla metafisica di Leibniz per distinguere:

o CONOSCENZA SENSIBILE CHIARA E CONFUSA o CONOSCENZA INTELLETTUALE CHIARA E DISTINTA

Egli attribuisce il giudizio sulla bellezza al giudizio sensibile, e non a quello intellettuale: il gusto allora è un’autonoma facoltà di giudizio che tende verso la perfezione della conoscenza sensibile.

MOSES MENDELSSOHN sviluppa un’analisi articolata delle diverse facoltà del soggetto ( conoscenza, volontà, sentimento) ponendosi come fine la loro delimitazione e i rapporti reciproci. Il gusto coincide con la facoltà di sentire e di apprezzare il bello, cioè un sentimento che rivela una ricca attività del soggetto che istituisce con il proprio oggetto una relazione di carattere contemplativo. È il concetto di ILLUSIONE ESTETICA. LESSING nella prefazione del Laocoonte (1766) si identifica con il CRITICO, che ha come oggetto di interesse l’esperienza concreta dell’arte e come fine quello di comprendere la singola opera d’arte nella sua specificità espressiva, linguistica e formale. Il filosofo invece ricerca la fonte unitaria e le regole generali del piacere umano e delle diverse manifestazioni artistiche. WINCKELMANN invece identifica il BUON GUSTO con la capacità del sentimento del bello nell’arteindividuando due strumenti fondamentali per perfezionare il dono naturale di sentire il bello artistico:

1) Un insegnamento che richiede la visione diretta degli originali dell’arte classica e moderna 2) La contemplazione costante di belle immagini e piacevoli visioni

KANT con la Critica del giudizio (1790) riafferma la centralità teorica del “gusto”, inteso come forza estetica di giudizio di cui la critica deve ricercare il principio a priori. Kant ritiene che il principio di determinazione del giudizio di gustoè SOGGETTIVO, irriducibile quindi al principio oggettivo dell’intelletto. Egli vuole dimostrare la differenza tra:

- GIUDIZIO ESTETICO

- GIUDIZIO CONCETTUALE (determinato dall’intelletto) che testimonia l’interesse del soggetto per l’esistenza dell’oggetto.

Secondo l’Analitica del bello il giudizio di gusto deve seguire quattro momenti: � QUALITÀ: un’oggetto è giudicato bello se ha un PIACERE DISINTERESSATO

� QUANTITÀ: un oggetto è giudicato bello se piace universalmente e senza concetto. Il fondamento di qusta universale soggettività è rappresentato dalla COMUNICABILITÀ del piacere. Quindi il giudizio di gusto è allo stesso tempo SINGOLARE ( una rosa è bella) e UNIVERSALE ( se legato insieme alle facoltà conoscitive della soggettivita � es: tutte le rose sono belle).

� RELAZIONE: un oggetto è giudicato bello se viene percepito secondo una finalità in cui manca la rappresentazione di uno scopo. La bellezza è la forma della finalità di un oggetto proprio in quanto essa viene percepita senza rappresentazione di un fine.

� MODALITÀ: un oggetto è giudicato bello se è riconosciuto come oggetto di piacere estetico.

Con la fine del ‘700 coincide la crisi del gusto come categoria filosofica prioritaria dell’estetica. Lo sviluppo della riflessione estetica appare spesso evolversi troncando le intenzioni kantiane. HEGEL fa coincidere il rifiuto del gusto con il sistematico rovesciamento della filosofia di Kant in favore della potenza dialettica della RAGIONE. Il rapporto di equilibrio tra:

- Il momento della creazione artistica - Il momento della ricezione estetica

Si rompe quando al carattere convenzionale del gusto viene contrapposta un’estetica del genio, le cui produzioni belle restano inaccessibili al gusto. L’incapacità e l’impotenza del gusto a giudicare i prodotti dell’arte saranno rimarcate nella seconda metà dell’800 da KONRAD FIEDLER che qualificherà il buon gusto con la morte di ogni vera produzione artistica stimolando le riflessioni delle Avanguardie storiche. SCHLEGEL porrà l’accento sulla differenza tra:

- GUSTO PRODUTTIVO e ATTIVO del genio - GUSTO IMPOETICO e IMPRODUTTIVO del fruitore, che osserva l’opera d’arte senza riuscire a diventare

artista. L’uomo di gusto viene sostituito dal CRITICO D’ARTE, dal FILOSOFO DELL’ARTE, aprendo il problema del gusto alle analisi dei rapporti tra arte e pubblico e della figura sociale dell’artista. Il gusto incarna la dimensione effimera di un bello che non può più riconoscersi nella sua esclusiva dimensione eterna, immutabile: si confonde così con le categorie della moda, del trucco, del momento e della modernità. La crisi del concetto di gusto è ulteriormente sollecitata:

� dalla prassi artistica del ‘900 � dalla disgregazione del concetto di arte � dalla perdita di centralità filosofica del concetto stesso di gusto e del suo valore universalizzante.

Il gusto non è più capace di porsi come referente unitario delle diverse forme di ricezione che l’arte sollecita soprattutto laddove la pratica artistica tende a violentare o respingere nel soggetto l’esercizio del gusto, provocando addirittura il DISGUSTO nel fruitore. CLEMENT GREENBERG afferma che: “Sembra che l’arte dopo Duchamp possa fare a meno del gusto” in quanto il problema della qualità e del valore investe l’identità e la definizione dell’arte stessa. Greenberg, promotore dell’espressionismo astratto e teorico del modernismo, ha sottolineato il ruolo della critica d’arte, del giudizio e della valutazione estetica nella difesa del valore dell’arte identificandolo con il MODERNISMO pittorico, che ricercava le condizioni di possibilità del proprio mezzo espressivo. Un’arte senza estetica rischia di diventare oggetto di una filosofia dell’arte. L’estetica della FRUIZIONE e della ricezion conosce tra l’800 e il ‘900 una ricca mole di ricerche e indagini soprattutto all’interno della CULTURA POSITIVISTA e nell’orizzonte di nuove scienze come la FISIOLOGIA, la PSICOFISIOLOGIA, la PSICOLOGIA e la SOCIOLOGIA DELLE ARTI. L’estetica francese e tedesca del ‘900 ha approfondito l’esperienza estetica del fruitore: l’incontro dello spettatore con l’opera d’arte si realizza attraverso i sensi, il corpo e la percezione, in virtù di un reciproco avvicinamento. HANS ROBERT JAUSS nel saggio Apologia dell’esperienza estetica (1972) afferma che il piacere investe tre momenti:

1) CREATIVO (“poiesis”) 2) RICETTIVO (“aisthesis”) 3) CATARSI (“katharsis” = momento comunicativo-sociale in cui l’osservatore viene liberato dai pregiudizi legati

agli interessi della vita pratica e riesce a comunicare)

Il fruitore contemporaneo è invitato a essere co-creatore, partecipante attivo in grado di interagire con le istanze delle

opere, completandole e integrandole, perchè lo statuto dell’oggetto artistico è diventato ambiguo.

ESTETICA E CULTURA VISUALE – Pietro Conte

Nel 1967 viene pubblicata una raccolta di saggi intitolata The linguistic turn curata da RICHARD RORTY che si offre come passaggio ai problemi del rapporto tra PAROLE, IMMAGINI e REALTÀ. Alla base di questa “svolta linguistica” c’è la convinzione che ogni questione filosofica è riconducibile e risolvibile sul piano del linguaggio: è il pensiero basilare della FILOSOFIA ANALITICA. Nei decenni successivi sono comparse altre opinioni sull’argomento:

GOTTFRIED BOEHM riallacciandosi alle riflessioni di Max Imdahl si voleva svincolare dal LOGOCENTRISMO sostenendo l’irriducibilità della sfera iconica a quella verbale: le immagini fanno cose diverse dalle parole e quindi non possono essere tradotte linguisticamente. Immagini e parole sono modi espressivi diversi e quindi dicono cose diverse: esiste una sorta di INTELLIGENZA ICONICA che permette agli artisti di emanciparsi dal linguaggio e dai testi canonici.

KONRAD FIEDLER alla fine dell’800 dà un contributo decisivo alla rivendicazione dell’autonomia dell’ambito iconico rispetto a quello verbale: sia il linguaggio che le parole sono manifestazioni di un’attività formatrice costitutiva di mondi. Ciò che si genera nella forma linguistica non ha esistenza al di fuori di essa e non può significare altro

A partire da riflessioni simili ha preso piede la cosiddetta SVOLTA ICONICA, che insiste sul fatto che le parole hanno un grande potere ma anche un grande limite, in quanto in essa si perde la dimensione del particolare; a loro volta anche le immagini hanno un immenso potere e un limite che coincide con la perdita dell’universale. Il LINGUAGGIO VERBALE e il LINGUAGGIO ICONICO sono orizzonti specifici di senso e spesso sono state intrecciate tra di loro: la pratica della ekphrasis non implica necessariamente uno svilimento dell’immagine: infatti leggere un’immagine non significa fraintenderla.

TRADURRE= tradire, riscrivere, reinventare

La SEMIOTICA DEL VISUALE abbraccia posizioni diverse accomunate dalla convinzione che un’immagine non esaurisce il proprio senso nel momento in cui viene creata: la creazione di un’immagine segna l’inizio di una storia che sarà poi caratterizzata dai diversi modi di vederla e leggerla. MIEKE BAL insiste sul fatto che la lettura di un’immagine è un’azione necessaria per la sua ricontestualizzazione affinchè essa diventi significativa in luoghi e tempi diversi. La METAFORA venne spesso utilizzata nella “crociata contro il panlinguisticismo”, soprattutto da Boehm che la considerava un’anomalia che a causa della sua <<polivocità cangiante>> minaccia di trasformarsi in <<una malattia rischiosa per la conoscenza>>. La sua imprecisione la sottrae a univoche formalizzazioni. Il linguaggio ordinario nel suo GRADO ZERO poggia spesso su metafore anche senza che ce ne rendiamo conto: Kant nella sua Critica del giudizio

affermava che “La nostra lingua è piena di esibizioni indirette secondo un’analogia, per cui l’espressione contiene un simbolo per la riflessione”. La metafora opera uno spostamento di senso, unisce termini e cose che apparentemente non potrebbero stare insieme e che invece rivelano un’inattesa affinità. Il termine ESPRESSIONE deriva da “ex-pressio” e indica la spremitura di un dentro da un fuori: osservando il fuori di qualcuno posso provare a trarre conclusioni sul suo dentro. Gli elementi esteriori sono significativi in quanto indizi di processi interiori che sono accessibili a loro volta soltanto da elementi esteriori. Per capire fino in fondo un’altra persona dovremmo immedesimarci in lui senza residui, cosa impossibile nè auspicabile in quanto è sempre necessario mantenere una certa distanza e freddezza. EMPATIA deriva dal greco “empatheia” ed è un termine che accoglie diversi fenomeni accomunati dall’immedesimazione che non arriva mai a farsi completa identificazione. SIMPATIA è un termine che nel ‘700 trova diverse osservazioni:

� DAVID HUME nel Trattato sulla natura umana (1739/40) afferma che le menti umane sono tutte simili e quindi tutti provano emozioni simili

� EDMUND BURKE nella Inchiesta sul bello e il sublime (1757) definisce la simpatia come una sostituzione con un altro umano: proviamo le sue sensazioni.

� DU BOS nelle Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura (1719) si era soffermato sul carattere pre-riflessivo della simpatia: capiamo, ci immedesimiamo e proviamo le stesse emozioni di altri.

� HERDER nel trattato Sul conoscere e il sentire dell’anima umana (1778) afferma che soltanto nella profondità del nostro amor proprio sta il grado della nostra simpatia nei confronti degli altri e che possiamo sentire noi stessi sono negli altri.

Il termine EINFÜHLUNG è stato definito un “termine equivoco” da Theodore Lipps e una “espressione sbagliata” da Edmund Husserl. È composto dal prefisso EIN (=dentro – Uno) e dal sostantivo FÜHLUNG (=feelings – sentimenti) e indica quindi il sentirsi, al tempo stesso, dentro l’altro e tutt’uno con l’altro. Moritz Geiger distingue tra:

• EMPATIA DELL’UMANO (condizione che coinvolge due soggetti umani)

• EMPATIA DEL SUBUMANO (condizione che coinvolge un soggetto umano e un ente non umano) si divide in: o IDRAULICO: il soggetto travasa il proprio stato d’animo su un oggetto (ad esempio un soggetto

melanconico osserva un paesaggio e lo definisce malinconico perchè ha travasato su di esso il proprio stato d’animo)

o ANALOGICO – FENOMENOLOGICO: un oggetto è strutturalmente configurato in un certo modo (un paesaggio è effettivamente melanconico)

I NEURONI SPECCHIO sono una particolare classe di neuroni visuo-motori situati nella corteccia premotoria ventrale e nel lobo parietale inferiore: sono deputati all’elaborazione di informazioni relative ai comportamenti altrui ed entrano in funzione in occasione di un’azione finalizzata COMPIUTA e di un’azione PERCEPITA. Quando osserviamo determinate azioni si attivano gli stessi circuiti neuronali che sarebbero coinvolti se fossimo noi stessi a compiere quell’azione. Il gruppo di ricercatori su questi neuroni era guidato da Giacomo Rizzolati. Allo stesso tempo Antonio Damasio avanzava l’ipotesi di un CIRCUITO SOMATICO DEL COME-SE: il nostro cervello è in grado di farci sentire come se stessimo effettivamente provando stati corporei o emotivi che in realtà stiamo solo immaginando. I neuroni specchio si attivano quando osserviamo immagini statiche di azioni o emozioni e raffigurazioni di oggetti o nature morteche stimolano il meccanismo di SIMULAZIONE MOTORIA. Vittorio Gallese e David Freedberg nel saggio Movimento, emozione ed empatia nell’esperienza estetica (2007) hanno ipotizzato che si può parlare di SIMULAZIONE INCARNATA anche nel caso dell’ARTE ASTRATTA e delle opere non figurative, anoggettuali: hanno portati come esempio i dipinti (“Dripping”) di Jackson Pollock. Da queste opere lo

spettatore è coinvolto somaticamente a ripercorrere le tracce motorie lasciate dal pennello dell’artista. Le reazioni empatiche automatiche costituiscono un livello basico di reazione alle immagini e alle opere d’arte. SEMIR ZEKI scrisse nel 1994 The Neurology ok Kinetic Art, indicato come testo fondativo della NEUROESTETICA: un programma massimalista che si propone di spiegare il processo creativo come manifestazione delle funzioni e del funzionamento del cervello. Gli artisti di arte cinetica hanno indagato l’organizzazione del cervello visivo, in quanto tale arte ha svalutato il ruolo della forma e del colore per concentrarsi sul movimento: i neuroni che rispondono al movimento ignorano altro elemento visivo. La neuroestetica è chiamata a dimostrare:

- Che tutte le arti visive obbediscono alle leggi del cervello visivo - Cche le arti visive hanno la funzione generale di acquisire conoscenze - Che gli artisti sono in un certo senso NEUROLOGI che esplorano la potenzialità del cervello visivo

“I pittori fanno esperimenti; ma se un quadro piace anche ad altre persone essi hanno afferrato un fatto generale riguardante l’organizzazione neurale delle vie visive che suscita piacere” Si sono diffuse poi alcune critiche alla neuroestetica:

LUCIA PIZZO RUSSO in riferimento all’affermazione precedente, dimostra che essa è valida con qualsiasi soggetto, purchè l’operazione riscuota il gradimento altrui: allora saremmo tutti neurologi.

ELIO FRANZINI rimarca che se la funzione dell’arte è un’estensione delle funzioni cerebrali allora ci si trova su un piano di FUNZIONALISMO GENERALIZZATO che può essere applicato ogni campo umano del fare e sapere.

ANNALISA STACCHINI ribadisce che le zone cerebrali che si attivano per consentirci di apprezzare un quadro sono le stesse che ci permettono di vedere qualsiasi oggetto colorato.

Quindi bisgna riconoscere l’autonomia dei due campi di indagine: estetica e neurologia. Nel 2001 esce nelle sale cinematografiche il film Final Fantasy, film d’animazione reso realistico con un lavoro di revisione digitale: ma non riscuote il successo sperato perchè i personaggi virtuali sono realisti allo stesso tempo eccessivamente e insufficientemente: hanno fattezze umane ma non riescono a riprodurne fino in fondo la naturalezza dei movimenti e le variazioni nell’espressione delle emozioni. Il VIRTUALE cerca di simulare il REALE ma fallisce. Questo sentimento fu definito da SIGMUND FREUD con il termine di PERTURBANTE, sentimento di spaesamento che poggia sula possibilità che qualcosa di familiare subisce un’imprevista modifica e si faccia improvvisamente estraneo e inquietante. Nel 1906 la stessa convinzione fu sostenuta da ERNST JENTSCH che riconduceva il perturbante a una “mancanza di orientamento”: la pura arte dovrebbe evitare in giusta misura l’assoluta e completa imitazione della natura perchè può facilmente insorgere disagio. Anche EDMUND HUSSERL si riferì al perturbante indicandolo come l’esatto opposto del piacere estetico. Tuttavia nell’arte contemporanea qualcosa è cambiato: quasiasi oggetto può assurgere allo statuto di opera d’arte e quindi l’eccesso di somiglianza non è più un problema; il READY-MADE ha aperto la strada all’IPERREALISMO che dagli anni Sessanta del ‘900 trova tra i suoi materiali preferiti la cera: le immagini sono percepite come se fossero esseri viventi tanto che sono molti i musei di Madame Tussaud dove sono esposte statue, appunto di cera, che ricalcano alla perfezione molti personaggi famosi. Anche la Body Art ha messo ulteriormente in crisi la tradizionale distanza tra arte e realtà. JEAN BAUDRILLARD ha individuato nel ready-made l’antenato delle tecnologie virtuali e del reality show: la TV e i media sono usciti da tempo dal loro spazio mediale per investire dall’interno la vita reale. L’immagine non può più immaginare il reale perchè coincide con esso, la realtà tende a mutarsi in un simulacro rendendo problematico differenziare il vero dal falso, il reale dall’immaginario.

PARTE SECONDA – “IL SISTEMA CATEGORIALE” di Maddalena Mazzocut Mis

PREMESSA

Le categorie estetiche nascono in quanto modificazioni del bello, inteso come VALORE ESTETICO; esse sono dei veri e propri principi che possono essere giustificati partendo dal sistema arte e dalla storia dell’estetica. La morte “dell’arte bella” ha originato un modo diversificato di giudicare l’arte stessa. Esiste un sistema PLURICATEGORIALE:

- In un ambito OGGETTIVISTICO, dove il valore estetico si sezza in singoli valori autonomi - In un ambito SOGGETTIVISTICO, dove il valore estetico si fonde con l’ambito della fruizione e dei vari modi

che essa incarna di fronte all’opera d’arte Il sistema categoriale dell’estetica da una parte potrebbe comprendere poche categorie (bello, brutto, sublime e tragico) ma dall’altra si potrebbe affermare che esiste una categoria estetica per ognuna delle opere d’arte esistenti. CHARLES LELO cerca di fare ordine e indica come categorie estetiche:

• BELLO

• GRANDIOSO

• GRAZIOSO

• SUBLIME

• TRAGICO

• DRAMMATICO

• SPIRITUALE

• COMICO

• RIDICOLO Queste categorie possono essere raggruppate secondo:

o INTELLIGENZA = percezione di rapporti sensbili o ATTIVITÀ = suggestione di volontà libera o SENSIBILITÀ = sentimento piacevole di accrescimento della vitalità personale o collettiva o ARMONIA

IL BELLO E IL BRUTTO

Dal ‘700 risulta necessaria una teorizzazione del brutto, riprendendo il tema già affrontato da Aristotele del perchè la visione di un qualcosa di sgradevole può provocare piacere. Nel 1674 BOILEAU scrive il III canto della sua Art Poetique e fa intendere che a suo parere il piacere suscitato dalla rappresentazione del brutto risiede nel modo in cui il soggetto viene imitato: l’artista quando rappresenta qualcosa che in natura è brutto la trasforma e quindi essa può provocare piacere in chi la osserva. La riflessione sul BRUTTO coinvolge diversi panorami europei e tutti sono d’accordo nel sostenere la dignità, il valore specifico e la peculiarità del brutto: esso non è semplicemente l’opposto del bello: pertanto è possibile rappresentare aristicamente il brutto così che esso susciti un sentimento simile a quello del sublime. CHARLES BATTEUX ne Le Belle Arti ricondotte a un unico principio (1746) sosteneva che il brutto nell’arte ha la funzione di mantenere l’imitazione fedele al modello naturale. Il brutto può provocare piacere in uno spettatore consapevole che si tratta di finzione; egli distingue tra:

- PIACERE DEL PENSIERO: suscitato da opere che, in quanto perfette, assorbono e trasformano le imperfezioni - PIACERE DEL CUORE: sottoposto a sentimenti forti ( amore e odio)

L’arte ha la doppia funzione di: - Stimolare l’EMOZIONE - Allontanare l’EFFETTIVA PERCEZIONE del perciolo, che procura spavento

EDMUND BURKE nella Inchiesta sul bello e il sublime (1757) sostiene che l’imitazione coinvolge tanto più quanto si avvicina alla realtà: la bellezza viene da lui distinta dalla PROPORZIONE e dalla PERFEZIONE. Egli in apertura alla sua opera accusa il trattato di LONGINO di confondere tra loro le idee di BELLO e SUBLIME e di applicarle a oggetti profondamente diversi e talvolta di natura opposta. Nell’edizione dell’Inchiesta del 1759, Burke scrive un’introduzione intitolata Sul gusto: in essa si evince che l’unico rimedio alla confusione che regna fra bello e sublime scaturisce da un’accurata indagine sulle PASSIONI:

- Viene sviluppata l’indagine sulle passioni che “portiamo in seno” - Viene sviluppata l’analisi delle reazioni soggettive nei confronti dell’oggetto estetico e l’esame delle proprietà

degli oggetti in grado di suscitare le stesse passioni. Bello e sublime sono qualità sensibili che generano reazioni soggettive e hanno valore universale e oggettivo. La bellezza colpisce l’occhio dello spettatore quanto più essa rappresenta il nuovo: il vero contrario della bellezza è la bruttezza. La bellezza è una qualità che agisce meccanicamente sulla mente umana attraverso i sensi suscitando un sentimento d’amore; il brutto, al contrario, suscita un PIACERE NEGATIVO, un SENTIMENTO MISTO che è proporzionale al terrore suscitato dal soggetto rappresentato e alla distanza fra opera e fruitore. MOSES MENDELSSOHN nei suoi Principi fondamentali delle Belle Arti (1757) ammette la liceità delle passioni sgradevoli analizzando i MODELLI SPIACEVOLI in natura, in grado di suscitare un SENTIMENTO MISTO tra piacere e ripugnanza che penetra più a fondo della gradevolezza del mero piacere. L’imitazione quindi non ha più come scopo la perfezione, la rappresentazione del bello ma la produzione di complesse esperienze estetiche. La SENSIBILITÀ determina l’esteticità dell’oggetto e quindi la sua perfezione. La bellezza per Mendelssohn comprende tuttò ciò che i sensi possono rappresentare come perfetto. GOTTHOLD EPHRAIM LESSING nel Laocoonte, ovvero dei confini della pittura e della poesia (1766) nota che la bellezza è solo uno dei tanti modi tramite cui l’artista può suscitare un interesse, in quanto anche l’azione sgradevole può provocare lo stesso effetto. Egli fa una distinzione tra la rappresentazione del personaggio di Laocoonte in poesia (Virgilio) e scultura. Il poeta può liberamente inserire il brutto nella sua opera in quanto essa è composta da blocchi separabili che preparano meglio il fruitore, mentre lo scultore deve limitare la raffigurazione del brutto in quanto egli può catturare solo un istante dell’evento intero e se sceglierà proprio il momento più sgradevole trasmetterà il medesimo sentimento al fruitore. Lo scritto che viene indicato come svolta nel ‘700 verso un’estetica del brutto è Sullo studio della poesia greca (1795) di FRIEDRICH SCHLEGEL. Egli per primo parlò del brutto come di un elemento specifico dell’arte moderna sostenendo la necessità di una teorizzazione di tale problema. Il brutto acquista dignità di VALORE ESTETICO in quanto nella modernità c’era un’immensa ricchezza di rappresentazioni del reale nel suo massimo disordine e quindi esso era indispensabile alla compiutezza della rappresentazione artistica, per la quale il bello diventa solo un mezzo. Il pubblico in quell’epoca era interessato soltanto a contenuti nuovi e impuri in cui ci sono diversi generi:

• CARATTERISTICO

• INDIVIDUALE

• INTERESSANTE

• PICCANTE

• IMPRESSIONANTE

• INSULSO

• BRUTTO

• RIPUGNANTE

• ORRIDO

• ECCENTRICO Tutte questi generi che producono shock hanno una giustificazione: il soggetto moderno ha sganciato l’arte dall’universalità, dal necessario, e l’ha destinata a finalità extraestetiche, facendone uno strumento utile alla realizzazione di stimoli violenti. La rappresentazione poetica dell’orrore dimostra che è possibile esprimere artisticamente il brutto a condizione che il poeta sia dotato della facoltà morale della libertà: senza la facoltà dell’espressione delle idee estetiche (propria del genio) non è possibile rendere sensibile, nell’arte, il SOPRASENSIBILE. La vera bruttezza è legata al vizio. KANT nella Critica del giudizio (1790) ammette la liceità del brutto. Il genio quindi sarà la facoltà di rendere sensibile il vizio, la negazione della libertà, il REGNO INFERNALE. A questo proposito molti autori che hanno contribuito allo sviluppo della “teoria del brutto” hanno ricevuto l’influsso del Paradiso perduto (1667) di John Milton. Questa opera è

un modello di poesia che, grazie alle parole, supera il mondo sensibile e dà rappresentazione a ciò che i sensi non potrebbero mai cogliere nel corso della vita terrena. Il Paragrafo 48 della Critica kantiana, contempla proprio la rappresentazione bella di oggetti che in natura sono brutti: Kant riconosce la superiorità dell’arte sulla natura e il suo stesso carattere distintivo in poesia e pittura ma non in scultura, in quanto essa è molto più vicina alla realtà; quindi lo scultore può avvalersi dell’ALLEGORIA. PIETRO VERRI nel Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1773) espone la tesi che in tutte le arti si esprime originariamente un sentimento di DOLORE. Il piacere è definito come una cessazione del dolore e quindi da quest’ultimo il piacere acquista una sua coonfigurazione. Esistono due forme di piacere e due di dolore:

o PIACERE FISICI o PIACERE MORALI o DOLORI FISICI o DOLORI MORALI

Tutti questi tipi hanno in comune il fatto di fondarsi su DOLORI INNOMINATI, cioè sentimenti la cui origine non può essere ulteriormente determinata perchè non sono esattamente localizzabili: essi sono il FONDAMENTO DELL’ANIMA, la quale è spinta dal solo fine di liberarsene. Verri non si è dedicato al problema del brutto ma è importante la sua tesi per la quale un artista deve essere in grado di provocare “piccole sensazioni dolorose” e farle rapidamente cessare per tenere lo spettatore sempre animato da una speranza di sensazioni gradevoli. Anche la contemplazione delle arti ha la sua fonte in un sentimento originario del dolore: infatti se l’uomo si trovasse in una condizione di soddisfazione morale non sentirebbe l’esigenza di dedicarsi all’arte. Se l’uomo è veramente lieto, soddisfatto e vivace è insensibile alle arti belle. Per dimostrare questa tesi è stato portat come esempio la MUSICA, che può suscitare piacere e liberare l’anima dai dolori innominati. La melodia, infatti, attrae l’essere umano e provoca:

� Piacere fisico � Godimento fisico � Elevazione dell’anima � Caldo entusiasmo

Nella musica l’immaginazione è attiva e il ruolo dell’ascoltatore è più rilevante di quello del compositore: il primo può scoprire bellezze ignote al secondo. Se la musica tuttavia è priva di dissonanze è insopportabile in quanto le consonanze la rendono regolare, senza difetti. KARL ROSENKRANZ fu l’autore dell’Estetica del brutto (1853) e teorizzò che BELLO e ARTE non coincidono necessariamente e il BRUTTO può assurgere a categoria estetica autonoma. Il brutto risiede nella natura stessa dell’Idea che, lasciando libera la sua manifestazione, pone la possibilità del negativo. Esteticamente il brutto (RELATIVO) deve sempre riflettersi nel bello (ASSOLUTO). L’arte è tanto più alta quanto più sottomette il brutto: quando l’ordine trionfa sul disordine. Il NEGATIVO nella sua mera astrazione non ha alcuna forma sensibile e quindi è diverso dal brutto. Quest’ultimo, essendo negazione del bello, ne condivide l’elemento sensibile e quindi deve essere trattato secondo le leggi generali che regolano il bello, che però sono turbate dalla sua presenza. Un possibile riscatto del brutto è individuato nella CARICATURA che può ristabilire armonia, funzionando da vertice in cui il brutto si rovescia in COMICO. La caricatura è l’apice del brutto e trapassa in comicità in quanto lo deforma a tal punto da renderlo innocuo. Quindi il vertice della produzione artistica, per Rosenkranz, è lo HUMOUR, che ha la capacità di esprimere lo sviluppo della libertà, il male e il brutto. Occorre una esagerazione delle forme per ristabilire l’armonia. THEODOR ADORNO rovescia la tesi di Rosenkranz e nella sua Teoria estetica (1970) sostiene la necessità del “salvataggio estetico” del brutto, che acquisisce sempre maggior autonomia per la sua CARICA DISSACRATORIA. Il trionfo della ragione nasce negando la conciliazione e il superamento del brutto attraverso una sublimazione nel bello; per Adorno il brutto risulta superiore al bello, che si riduce a mera convenzionalità senza conflitti, e quindi ne rivendica la positività del valore estetico. Con SCHOPENHAUER il brutto irrompe in modo decisivo nell’estetica. Per lui il brutto è la volontà stessa, l’essenza metafisica del mondo, il dolore. Il compito dell’arte è quello di raggiungere l’essenza del mondo (la volontà cieca causa di dolore in tutti i regni della natura) superando il mondo fenomenico. Il bello, invece, è una nozione a priori che concerne il contenuto dei fenomeni: l’artista mostra quella beltà che tutti conoscono e che nella rappresentazione sorpassa la natura stessa. Il genio riconosce anticipatamente ciò che la natura realizzerà con estrema perfezione e purezza. Ma solo il genio greco, per Schopenhauer, è stato in grado di rappresentare il prototipo elevato della figura umana. Egli introduce il tema dell’ECCITANTE, incarnazione della corruzzione dell’arte contemporanea. L’eccitante rompe il rapporto idilliaco tra genio e fruitore, seduce la volontè e fa discendere lo spettatore dalla contemplazione

pura, richiesta per ogni percezione del bello. Lo spettatore cos’ diventa bisognoso, dipendente dal volere. L’eccitante per Schopenhauer si trova specialmente:

� Nella NATURA MORTA dei pittori olandesi � Nelle FIGURE NUDE della pittura storica e nella scultura

Nel corso del ‘900 si sono rintracciate le radici del brutto:

- Nella rivoluzione industriale - Nell’alfabetizzazione delle masse del mondo occidentale che hanno iniziato a richiedere nuovi tipi di

intrattenimenti culturali facilmente accessibili Le AVANGUARDI STORICHE rivendicavano come unico criterio estetico il valore della novità e dello shock: quindi esse deformano e disgregano le forme arrivando a un’idea di BRUTTO ASSOLUTO e identificando l’arte con ogni forma possibile. Viene cancellata la distanza tra arte e realtà.

� La POP ART riutilizza le immagini delle pubblicità, del cinema, dei rotocalchi, della TV per riproporle al pubblico sottoforma di ICONA

� L’AZIONISMO VIENNESE e la BODY ART richiedono al fruitore una vera e propria trasformazione: egli, davanti a uno spettacolo doloroso, sanguinante, dimentica il privilegio della contemplazione ed entra in gioco.

� MERLEAU-PONTY definisce la materia dell’arte la CARNE (macellata e vivente). Si sviluppano diverse produzioni sul corpo che giungono ai limiti della mutazione, della metamorfosi, dell’ibrido, del CYBORG, del post-umano:

Stelarc si esibisce in delle performance in Rete in cui il pubblico decide e dirige i movimenti da fargli compiere con il corpo. La sua performance Visioni parassite si propone come un esperimento di innesto tecnologico sul corpo tramite la Rete Internet: il corpo è l’interfaccia su cui pensare una rete di connessioni

Orlan fonda la sua arte sulla nozione di CORPO CADUCO: nel 1990 egli si è sottoposto a una serie di operazioni chirurgiche con lo scopo di trasformarsi in un nuovo essere simile ai modelli classici (Venere, Diana, Europa, Psiche, Monna Lisa) e ha intitolato questa “performance” The Reincarnation

of Saint Orlan. Artisti come lui non lavorano sulla violenza ma sul fatto di violentare chi guarda le loro opere: vuole esserci un coinvolgimento diretto dello spettatore

Con l’arte contemporanea si impone un nuovo tipo di fruizione che rimanda al vissuto e che eccita i sensi in modo diverso e disinteressato. L’arte non è più contaminazione tra generi ma a volte un percorso fin troppo scontato: è un’ARTE CONTAMINATA che si diffonde fuori dai canali specializzati. L’estetica ha il grande e difficile compito di capire che cosa questa arte stia chiamando in causa e quale debba essere l’atteggiamento da parte del fruitore.

IL SUBLIME E IL TRAGICO Nell’Età Imperiale fu scritto un importantissimo Trattato sul sublime che non riportava la firma del suo autore e perciò quest’ultimo venne definito Pseudo-Longino. Nel trattato il SUBLIME viene definito come l’elevatezza e l’eccezzionalità del discorso. Il sublime conduce i fruitori all’esaltazione, poichè esso sovrasta qualsiasi ascoltatore. La nostra anima viene elevata per natura sotto la spinta del vero sublime e si riempie di gioia superba. Il GENUS SUBLIME, a differenza della tradizionale dottrina retorica, non si divide in tre GENERA DICENDI:

1) GENUS HUMILE 2) GENUS MEDIUM 3) GENIUS SUBLIME

Il subblime, piuttosto, racchiude due aspetti: 1. Ascoltatore è allo stesso tempo umiliato ed esaltato 2. Al terrore subentra l’elevazione al divino.

Soltanto chi è capace di questa elevazione sperimenta il sublime. Nel ‘600 e nel ‘700 il trattato dello Pseudo-Longino torna ad aver successo grazie alla traduzione effettuata da BOILEAU: Riflessioni critiche su qualche passaggio di retorica di Longino (1674) è una vera e propria interpretazione e traduzione composto inizialmente da nove Riflessioni. Questa edizione scatena subito un dibattito:

PIERRE DANIEL HUET nella Demonstratio Evangelica (1679) afferma che il <<FIAT LUX>> è il passo della Genesi (1.3) in cui si narra della luce � <<Dio disse: “Sia la luce”. E la luce fu>>. Huet è convinto che lo stile

non è sublime, è troppo semplice rispetto al contenuto del passo. E proprio dal dibattito sul FIAT LUX la querelle sul sublime prende avvio. Huet riconosce quattro tipi di sublime:

• Il SUBLIME DELLE PAROLE si oppone e sovrappone al SUBLIME DEL CONTENUTO

• Il SUBLIME DELLE COSE dipende invece dalla grandezza e dalla dignità del soggetto

• Il SUBLIME DELL’ESPRESSIONE rientra nell’ambito dell’oratore e segue una precettistica

• Il SUBLIME DEL PENSIERO BOILEAU risponde con una decima Riflessione e con una Refutation nella quale sostiene che il sublime è una

meraviglia che colpisce e si fa sentire, proprio come accade con il passo FIAT LUX, che stimola un’elevazione dell’animo e fa piacere. Per Boileau lo stile sublime può richiamare anche la semplicità in quanto l’aspetto che ha più valore nel sublime è l’ENERGIA. Boileau riconosce allora tre tipi di sublime:

• Il SUBLIME DELLE PAROLE

• Il SUBLIME DELL’ESPRESSIONE

• Il SUBLIME DEL PENSIERO A partire dal ‘700 il sublime assume lo statuto di categoria estetica in quanto contrapposto alla centralità del bello. BURKE definisce il sublime come DELIGHT= piacere misto a terrore prodotte da alcune proprietà particolari presenti in natura. Esso suscita la passione attraverso parole oscure e indefinite. Partendo dalla riflessione di Locke egli mira alla descrizione del sentimento e della passione che trovano il proprio culmine nella tesi dell’unità tra mente e corpo: il sublime agisce su entrambi. Il “delight” suscitato dal sublime non è un diletto puro ma va unito ad una certa inquietudine. Allora il sublime è una sensazione ambivalente che ci attira e ci respinge. L’esperienza del sublime differisce da quella del bello sia qualitativamente che quantitativamente: è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire. Il sublime burkiano spinge verso i propri confini la rappresentazione e le possibilità soggettive di un soggetto a cui viene esplicitamente chiesto di sopportare lo spettacolo più che di apprezzarne le qualità mimetiche. Un “orrido rappresentato” e un “orrido vissuto” si differenziano:

- Per gradi diversi di emozione - Per la consapevolezza che nel primo caso si tratta di una finzione mentre il secondo è realtà, e quindi è più

impressionante, potente, sconvolgente ma anche interessante (porta come esempio il pubblico di un teatro: se nello spettacolo si assiste a un’esecuzione capitale e fuori dal teatro c’è una vera esecuzione dello stesso tipo, allora il pubblico preferirebbe assistere all’orrido vero piuttosto che a quello rappresentato).

L’IMMUNITÀ è la condizione senza la quale non può sopraggiungere il diletto: se il sublime si basa sul terrore bisogna indagare come una qualunque specie di diletto può derivare da una causa ad esso contraria (apparentemente). Tutto ciò che minaccia la nostra integrità fisica, psichica e morale fa contrarre i muscoli, crea spasmo ed eccitamente; questa sensazione si trasforma in un SENTIMENTO SUBLIME quando si riesce a convertire la realtà in rappresentazione ponendo l’oggetto a distanza. Si distingue perciò tra ciò che è realmente terribile e la sua conversione in rappresentazione. il terrore è necessario al sublime ma non è sufficiente in quanto uno stato di terrore che non può essere convertito in rappresentazione non produce alcun diletto, che nasce dal sollievo nel momento in cui lo spettatore riesce a stornare il dolore. Il dolore ha come fine quello di produrre diletto. Le idee di dolore e di morte sono impressionanti e noi non siamo mai completamente liberi dal terrore; il piacere segue la nostra volontà e quindi proviamo piacere in molte cose che hanno forza inferiore alla nostra: ma siccome non ci sottoponiamo spontaneamente al dolore, esso è inflitto da un potere superiore. Il sublime burkiano è PASSIONE in un senso essenziale: riguarda il rapporto del soggetto con se stesso nel profondo di un dolore. Il sublime è una CATEGORIA DELL’ESPERIENZA perchè designa un modo di percepire il mondo a partire da un mondo sconvolto in seno al quale un’energia che rimane oscura è comunicata mediante l’intervento di “monumenti”. LESSING nel Laocoonte (1766) contrappone al metodo di Burke, al rifiuto delle passioni, la considerazione che non si possono sottoporre i nostri sentimenti a leggi universali: ogni sentimento è legato a migliaia di altri che ne determinano la singolarità. Non si può quindi ipotizzare un SENTIMENTO PURO. La poesia è l’arte che rappresenta il sublime grazie alla semplice parola e al suo effetto sulle passioni. KANT fa rientrare la riflessione sul sublime nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (1764). La sua riflessione è fondata sulla CRITICA TRASCENDENTALE il cui scopo è stabilire i fondamenti dotati di validità universale e che rendono possibile formulare giudizi sul bello e sul sublime. Il vero fondamento del sublime naturale e artistico è l’idea del SOPRASENSIBILE, oggetto della ragione e del sentimento. La Critica del giudizio presenta il passaggio dalla facoltà di valutare il bello alla facoltà di valutare il sublime naturale. Esamina analogie e differenze:

ANALOGIE: o Suscitano piacere in sè e per sè o Presuppongono un giudizio di riflessione o Il piacere procede dall’immaginazione e dal suo accordo con intelletto (nel caso del bello) e ragione (nel caso

del sublime) DIFFERENZE:

o La bellezza naturale riguarda la forma dell’oggetto; il sublime riguarda anche un oggetto privo di forma o Il bello è esibizione di un concetto di intelletto; il sublime è esibizione di un concetto della ragione o Il bello presuppone l’intensificazione del sentimento vitale; il sublime è un momentaneo impedimento in cui

l’animo è attratto e respinto dall’oggetto o Il rapporto con la finalità: la bellezza naturale è finalità nella forma; il sublime si oppone ala finalità nella

relazione con la forza di giudizio o L’origine della sublimità si può localizzare nell’animo; l’origine del bello è nella natura

Solo un animo colmo di idee soprasensibili può essere condotto a un sentimento sublime da una intuizione sensibile. La natura suscita maggiormente l’idea del sublime quando si mostra in preda al caos, al disordine, alla devastazione poichè in queste condizioni essa rivela la sua grandezza e potenza. La finalità del sublime è quella di suscitare un sentimento indipendente dalla natura. Il fondamento del sublime naturale deve essere cercato in noi stessi e nel modo di pensare. Kant suddivide il sublime in:

� MATEMATICO � DINAMICO

Il sentimento del sublime è un movimento dell’animo connesso con la valutazione dell’oggetto e si riferisce alla facoltà conoscitiva o di desiderare. Il sublime è generato dall’attribuzione all’oggetto naturale di una disposizione matematica o dinamica dell’immaginazione. L’immaginazione pone il nostro stato di gioia e di tranquillità in una relazione di dipendenza da condizioni fisiche: allora l’emozione prodotta da spettacoli naturali sublimi è collegata al nostro stato di INSICUREZZA. Nell’IMMAGINAZIONE RIPRODUTTIVA si trova l’origine dello stupore, del raccapriccio e dell’orrore che si avvicinano allo spavento e al terrore. L’ORRORE è stato definito:

� Da ROSENKRANZ una sottocategoria del brutto, molto vicino al sublime. L’orrido manifesta un’intima e ineliminabile disarmonia che ci respinge, ci ripugna in quanto deformità che nella bruttezza del suo movimento produce nuove deformità. Egli distingue tra:

� INSULSO= lato ideale dell’orrendo, negazione dell’intelletto � NAUSEANTE= lato reale dell’orrendo, negazione della bella forma del fenomeno � ORRIDO PRATICO= è il male che per diventare possibilità estetica deve riflettersi simbolicamente

nella bruttezza della forma, esprimersi come azione � MALE= è il brutto radicale, assoluto, etico e religioso. Si divide tra:

� MALE CRIMINOSO � MALE SPETTRALE � MALE DIABOLICO

Sublime e orrido ci respingono mostrando, ostentandola, la loro INACCESSIBILITÀ � Da BURKE la faccia oscura del sublime � La cancellazione di ogni bellezza nella manifestazione sensibile; come il sublime è l’opposto del bello, così

l’orrore è l’opposto del brutto Orrore e sublime non sono contrapposti in quanto partecipano della stessa natura: l’orrido non esemplifica le caratteristiche del brutto perchè qualunque cosa che produce terrore è anche capace di provocare il sublime. Il TRAGICO struttura la sua categoria estetica a partire dall’incontra e dalla separazione con il sublime. La riflessione sulla tragedia trova in ARISTOTELE una chiara definizione: la tragedia è l’imitazione di un’azione seria e compiuta di vicende che suscitano pietà e paura e che mettono capo alla depurazione di queste emozioni. Il MOMENTO CATARTICO si gioca all’interno del racconto in cui la vita (o la felicità) di personaggi non colpevoli è posta in pericolo: il destino ha quindi un ruolo di primo piano. Le riflessioni sul tragico prendono sempre come modello la tragedia greca che diventa così il bersaglio polemico.

KARL JASPERS sostiene in Del tragico (1952) che l’uomo attinge la sua più vera essenza ritrovando, nella catastrofe, il suo autentico io: perciò il fenomeno tragico è necessario nella storia dell’uomo. Lotta, colpa, esperienza romantica del naufragio sono manifestazioni del tragico. La tragedia si incontra/scontra con la riflessione etica e religiosa; il cristianesimo mette in evidenza il tema della dialettica della lotta inconciliabile tra bene e male. Varie sono le soluzioni: FRIEDRICH SCHILLER in Dell’arte tragica (1792) coinvolge la sfera etica e quella estetica e definisce il tragico come il momento del conflitto tra MORALITÀ e SENSIBILITÀ: dal rapporto di un oggetto con la nostra facoltà sensibile deriva il dispiacere che noi proviamo negli affetti sgradevoli. Nella tragedia si rende manifesto lo scontro tra ambito morale e istinto egiostico che si risolve nel PIACERE. Si ha piacere nel momento in cui il sentimento egoistico della nostra individualità si indebolisce e ci si apre a quella sublime disposizione dello spirito. L’affeto triste agisce più liberamente quanto più l’animo è indipendente dall’istinto egoistico. L’arte tragica, allora, raggiunge il suo fine quando oggettiva l’indipendenza morale dalle leggi della natura: l’arte ha EFFETTI MORALI. In Della ragione del godimento procurato da

oggetti tragici (1791) Schiller sottolinea il rapporto tra tragico e sublime. Il contrasto tra l’oggetto del sublime e la nostra facoltà sensibile ci rende consapevoli dell’esistenza della RAGIONE. L’arte tragica dà voce al sovrasensibile rappresentando la libertà della ragione dalle leggi della natura. La sottomissione al destino propria della tragedia greca è per gli uomini liberi umiliante. Quindi Schiller contrappone alla ragione il destino della classicità e la sua rappresentazione nella tragedia. FRIEDRICH HÖLDERLIN dà una definizione al tragico che si allontana dalla posizione di Aristotele per avvicinarsi a quei parametri interpretativi secondo cui il tragico è una sorta di annientamento dell’idea nella realtà. Egli seguì l’insegnamento di JOHANN GOTTLIEB FICHTE, secondo cui l’Io è diviso tra un IO SOGGETTO e un IO OGGETTO ed esiste una tensione ineliminabile tra Io e Natura. Holderlin suggerisce un’alternativa: lo Spirito scopre cha la scissione soggetto-oggetto si è verificata all’origine dell’AUTOCOSCIENZA e l’Io è possibile solo attraverso questa separazione. L’ESSERE ASSOLUTO, unione tra oggetto e soggetto può essere raggiunto solo con il tragico, organo supremo dell’intuizione intellettuale. Nella potenza unificante della natura risiede il nucleo tematico del pensiero. La tragedia è lo strumento che porta a cogliere lo scontro perpetuo degli elementi. HEGEL parla di una SIMBOLICA DEL SUBLIME indicando nel SIMBOLO l’unico mezzo per esprimere la concettualità. (Invece SCHELLING colloca il sublime sullo stesso piano dell’Assoluto e lo tratta insieme al tema dell’identità della FORMA, che considera una dimensione di conoscienza determinata dalle facoltà dell’intelletto). La filosofia di Hegel costituisce il luogo per eccellenza del sublime anche se ad esso riserva poco spazio. Il sublime è ciò in cui l’esposizione dell’idea si manifesta in quanto soppressione dell’esposizione. L’arte del sublime coincide con l’ARTE SIMBOLICA. Il tragico, che appartiene al bello e non al sublime, in Hegel si fonda su una condizione eroica, su un conflitto, che trova una soluzione nel superamento del suo stato di contraddizione. Nell’Estetica (1836/38) egli divide la POESIA DRAMMATICA in:

- Dramma - Commedia - Tragedia, caratterizzata da:

• Serietà di fini etici sostanziali

• Monoliticità dei caratteri Questi elementi in collisione generano il conflitto che si risolve con un esito tragico, ristabilendo armonia. Allora il sublime e il tragico non possono mai coincidere.

ARTHUR SCHOPENHAUER nel Mondo come volontà e rappresentazione (1844) intende il sublime come risultato di due diversi tipi di coscienza:

o Annientamento della volontà o Tutto esiste nella nostra rappresentazione (anche il nulla)

La tragedia appartiene al sentimento del sublime perchè quando assistiamo ad essa vorremmo distogliere la nostra volontà dalla vita in quanto l’oggetto tragico è costituzione del mondo. Il soggetto estetico, liberandosi dalla sua individualità pratico-quotidiana, dimentica la propria singolarità in quanto legata alla volontà e si riduce a intuizione che si perde nell’oggettività dell’idea. Il piacere estetico allora è gioia generata dalla pura conoscenza intuitiva in contrapposizione alla volontà. Lo spirito tragico si risolve in:

� Abnegazione della volontà alla vita � Accettazione della morte

NIETZSCHE assegna alla dimensione estetica una funzione diversa; egli concepisce il BRUTTO e il DISARMONICO come elemento imprescindibile e originario di una METAFISICA DELL’ARTE. egli introduce l’idea della metafisica come POESIA CONCETTUALE. Proprio il mito tragico deve convincere che perfino il brutto e il disarmonico sono un gioco artistico. Nietzsche fu fortemente influenzato da Holderlin tanto che nel 1861 scrive il componimento scolastico Lettera al mio amico in cui gli raccomando la lettura del mio poeta preferito consigliano la lettura proprio di Holderlin dal quale apprende:

1) La contrapposizione netta tra orrore delle barbarie, in cui è spofondato il popolo tedesco, e la bellezza della natura

2) L’amore per la grecità idealizzata 3) L’idea che la musica è e deve essere interrotta da dolorose dissonanze così da provocare una piacevole

sensazione uguale a quella provocata dal godimento del mito tragico 4) Il bello, per poter essere tale, sorge dal superamento del brutto da cui scaturisce

Altro influsso decisivo Nietzsche lo riceve da SCHOPENHAUER e dallo scritto di FRIEDRICH ALBERT LANGE Storia del

materialismo e critica del suo significato per il presente (1866). Qui si legge che il MONDO DEI SENSI è il prodotto della nostra organizzazione e i nostri organi corporei sono immagini di un oggetto sconosciuto: quindi la nostra organizzazzione rimane sconosciuta per noi. La conseguenza che Nietzsche ne trae è un invito a concedere libertà speculativa ai filosofi, il cui compito consiste nell’elevare il genere umano. Nietsche scrive che Schopenhauer loda dolori e disgrazie come un dono meraviglioso per la negazione del volere; filosofia e musica quindi elevano in quanto riescono a liberarci dalle “scorze terrene”: allora condizione necessaria di questo processo di elevazione è il dolore stesso. La figura di Richard Wagner è per Nietzsche l’esemplificazione più viva di ciò che egli chiama GENIO. Dal 1868 Nietzsche forma un nuovo concetto di metafisica ed egli tenta di unificare due concezioni:

- Metafisica come regno della verità assoluta e rientra nella sfera delle esigenze umane (religiosi e poeti) - Metafisica come verità relativa, in quanto il sapere non può essere assoluto (scienziati)

Dai frammenti sulla Teleologia a partire da Kant (1768) emerge l’attrazione di Nietzsche per i limiti della conoscenza: allora la metafisica diventa arte della poesia concettuale. Su questo sfondo si staglia anche la riflessione sulla TRAGEDIA GRECA: egli riconosce due componenti:

1) APOLLINEO, simbolo del sogno, delle arti plastiche, delle divinità olimpiche 2) DIONISIACO, simbolo dell’ebbrezza, della musica, delle feste di Dioniso

Nella tragedia attica queste due correnti generano una suprema forma d’arte, stando in equilibrio; esse raggiungono il massimo splendore nella tragedia sofoclea. La tragedia giunge alla massima esaltazione delle sue forze grazie anche allo “spirito della musica”. Successivamente inizia un periodo di decadenza quando l’equilibrio si rompe e il dionisiaco fa spazio al socratico. La decadenza della tragedia greca coincide, per Niesche, con la decadenza della civiltà greca. Nell’artista tragico il brutto, il disarmonico, il dionisiaco, svolgono una funzione importante in quanto generano un piacere superiore a quello provocato dalla sfera apollinea, dal piacere totale dell’illusione. Al mito tragico è attribuito un fine metafisico di trasfigurazione che lo allontana dalla mera imitazione della realtà naturale. L’arte perciò non ha radici morali ed è imitazione della natura solo in un primo momento poichè successivamente essa invita a volgere lo sguardo verso l’aspetto tragico della vita. Il fenomeno originario dell’arte dionisiaca è reso comprensibile grazie al significato della DISSONANZA MUSICALE che è usata artisticamente per rendere il concetto di “ voler udire e insieme bramare di oltrepassare lo stesso udire”.

IL MELODRAMMA, IL GROTTESCO E IL KITSCH

La caregoria estetica del MELODRAMMA trova le sue radici teoriche nel Settecento, quando pubblico e critica iniziano ad apprezzare le prime forme di melodrammatico rivolte al PATETICO. Il tema dell’EMPATIA, della relazione tra il “non so che” e in sentimento collettivo e condivisibile sono alla base di questa analisi. Il giudizio dei fruitori diventa universale, collettivo, empatico: così l’emozione sarà sempre condivisibile. L’autore tuttavia ha sempre la consapevolezza che il fruitore rimane un uomo del suo tempo e allora il presente deve compiacere e la quotidianeità viene esaltata e portata all’estremo: il compito dell’autore diventa compiacere il fruitore. Il linguaggio del melodramma allora si orienta su tonalità altissime, su registri iperbolici e ricchi di vocaboli mutuati dalla lingua della lirica, esaltando in tal modo il momento drammatico e indirizzando il lettore verso una “forma bassa del sublime”. Tra le fonti del melodrammatico si individua il SUBLIME PATETICO, diverso:

- dal SUBLIME DI SITUAZIONE di Diderot che attribuiva importanza al linguaggio gestuale: il teatro del ‘700 infatti utilizzava la PANTOMIMA come mezzo espressivo ed era necessaria l’esasperazione dei movimenti. Il gesto è capace di comunicare emozioni e ha le sue regole: dev’essere sentito, visto, chiaro, controllato. Il gesto per Diderot deve essere sublime, dato che le parole non possono avvicinarsi ad esso, ma senza eccessi.

- dal SUBLIME A DISTANZA di Burke. L a categoria del melodrammatico ha le sue radici nel saggio di DIDEROT Elogio di Richardson, autore di Pamela, di

Clarissa e di Grandison (1761) in cui egli afferma che i testi di Samuel Richardson attirano per l’attenta osservazione della natura umana e per la capacità di utilizzare l’esperienza a favore della verità. Clarissa (1747/48) è il testo che segna la nascita della RELIGIONE DELL’AMORE SENTIMENTALE (il patetico). Richardson riconduce alla natura i segreti più profondi e inconfessabili del cuore umano che presenta la contraddizione tra VIZIO e VIRTÚ. La virtù viene sedotta e quindi si trasforma in vizio. L’eroina è l’incarnazione della virtù che, per essere tale, conosce i sotterfugi del vizio. TRAMA: Clarissa, giovane di estrazione borghese, è insidiata dall’aristocratico Lovelace, che, non riuscendo a piegare la sua virtù, la possiede dopo averla narcotizzata. Clarissa muore come una martire, incarnando il simbolo della virtù e dell’innocenza perseguitate. Sade nelle sue Idee sul romanzo (1800) a proposito di Richardson afferma che quando si lavora a un romanzo bisogna ritrarre la natura e il cuore dell’uomo, ma non la virtù, che è solo una delle tendenze del cuore. Quindi non facendo trionfare la virtù si riesce a sedurre il lettore: essa deve trovare ostacoli, combattere con un nemico quale il vizio per straziare l’animo del lettore/spettatore. Pamela – La virtù premiata (1740) era considerato il caposaldo della futura narrativa sentimentale. L’eroina è una graziosa cameriera di 16 anni che, resistendo a diversi tentativi di seduzione, riesce a sposare il suo ricco padrone. Pamela è l’archetipo della DONNA ROSA che fiorirà nel ‘900. In questo testo il richiamo alla sessualità si mescola al senso di colpa, anche se alla fine c’è una obbligata e drammatica riparazione autopunitiva che si avvia verso il piacere patetico del pianto. L’elogio diderottiano a Richardson autorizza il patetico, l’arte del melodrammatico moderno ad assurgere a valore d’arte. KANT invece non è d’accordo e preferiva la lettura del Robinson Crusoe di Daniel Defoe (1719) in quanto il gusto che rende apprezzabile l’opera di Richardson ( il Sir Charles Grandison – 1753) dipende strettamente dal sentimento. Gli estimatori del melodramma non avranno vita facile: CHARLES NODIER è uno dei pochi a esporsi apertamente favorevole al genere melodrammatico, che dai primi anni dell’800 riempie i teatri parigini. In quel periodo era ancora forte l’esigenza di giustificare moralmente il melodramma, il grottesco e gli altri generi nascenti. Era diffusa anche la censura di opere moralmente riprovevoli come il dramma di Victor Hugo Le roi s’amuse. Inoltre gli autori erano consapevoli di produrre “opere di consumo” che richiedono il riconoscimento del valore morale, vista l’impossibilità di raggiungere lo statuto artistico. Era definito un TEATRO DI CONSUMO che richiede:

- un linguaggio semplice e diretto - Immagini immediate - Temi fruibili, divertenti, stranianti che facciano dimenticare gli anni della Rivoluzione - Pene, duelli, amori, intrighi si risolvono nei migliori dei modi

Il melodramma e la LETTERATURA POPOLARE rispondono alle attese di un pubblico vasto in cerca di divertimento. La produzione artistica quindi è legata a una logica di mercato. Il melodramma teatrale è:

• Un ibrido che nasce in un determinato periodo storico

• Esasperato da aspetti di “parata”: danza, musica, balli

• Uno sviluppo del DRAMMA BORGHESE, che aziona un movimento verso il sentimentalismo e la rappresentazione di un falso realismo dove fondamentali sono il colpo di scena, il caso, il destino, gli intrighi

• Un genere che ha una tipologia di personaggi ben definita: TIPIZZAZIONE con opposizioni binarie sostenute da forme ingenue di incomprensioni:

o Giovane onesto (eroe) – arrivista senza scrupoli (antagonista) o Fanciulla perseguitata (eroina) – donna fatale / vile seduttore / arrivista senza scrupoli (antagonisti) o Aiutante fedele – aiutante infido

• Fondato su storie che hanno funzioni consolatorie e istruttive in un senso esemplificativo e dimostrativo. La storia devve far sorgere la domanda <<E se capitasse a me?>>, così che il fruitore possa partecipare al gioco.

• Basato su un COLPO DI SCENA necessario per aumentare la tensione e creare l’attesa, sempre coerente con la struttura scelta: non è consentito il tradimento

Eugene Sue compone i Misteri di Parigi (1842/43) e dopo la loro lettura Edgar Allan Poe afferma che l’autore, e con lui il suo testo, è caratterizzato da una totale mancanza dell’ARS CELARE ARTEM: lo scrittore avverte sempre il lettore che sta per introdurre qualcosa di straordinario o di sconvolgente, senza perciò un colpo di scena.

Il melodramma non è un genere innovativo in quanto presenta un eccesso di referenza, di realtà, di enfasi: un SUBLIME PATETICO che non supera mai i limiti della sua esistenza. Dal ‘700 in poi si impone uno stereotipo che venne ben definito da Stendhal in Racine e Shakespeare (1823), dove si esalta il nuovo e si critica il vecchio come schematico, ripetitivo e convenzionale: a un livello basso si trova il vecchio, il già visto, il già conosciuto, non il brutto. Nella lotta MANICHEA tra bene e male, il melodramma si schiera a favore del bene per la sua moralità e per i valori. Ma con VICTOR HUGO si ha una rottura con il manicheismo anche se le sue opere hanno una struttura melodrammatica: ad esempio I miserabili (1862) è un romanzo popolare che narra episodi scabrosi del sottosuolo parigino ma non può essere considerato un melodramma in quanto da esso è separato dalla categoria estetica del GROTTESCO. Il grottesco si oppone al classico, alla regola: è un genere di rottura, d’innovazione che ha bisogno di essere inserito in un contesto storico che ne giustifichi la rinascita. Hugo nella prefazione al Cromwell (1827) fa uno schema tra:

1) ETÀ PRIMITIVA: “l’uomo si sveglia appena nato e la poesia si sveglia con lui”. Questo periodo è dominato dalla poesia, dalla fantasticheria e dal sogno metamorfco.

2) ETÀ ANTICA: in cui si sono verificati movimenti socio-politici che si rispecchiano anche nella poesia che passa da LIRICA a EPICA “e partorisce Omero”.

3) ETÀ MODERNA: segnata dal CRISTIANESIMO, che svolge una funzione fondamentale perchè rivela all’uomo la verità, “gli mostra che egli è duplice, che vi è in lui un animale e un’intelligenza, un’ANIMA e un CORPO”. L’uomo moderno scopre così di essere “homo duplex” con un’anima e un corpo che formano la sua doppia identità. L’uomo nel suo insieme quindi appare lacerato interiormente nella dimensione angelica e in quella bestiale, che si oppongono in una lotta fratricida senza vincitore. Un’esempio a riguardo è il personaggio di Quasimodo che ha un corpo deforme che racchiude un’anima sublime. Hugo cerca di dare a grottesco una base antropologico-etica rifacendosi al dualismo cristiano.

Nel dramma di Hugo il gioco del contrasto viene condotto all’estremo, l’ostentazione dei contrasti non conduce a una loro armoniosa riconciliazione e non si placa entro una risoluzione che implichi la prevaricazione di una polarità sull’altra. Questa opposizione di contrasti si rivela come un elemento d’armoniosa relazionalità all’interno di un’unità superiore garantita dalla funzione stessa dell’arte. il simbolismo elementare che sorregge il melodramma si rivela nel dramma un sistema complesso di significati. In Notre Dame de Paris (1831) il grottesco è il criterio che determina tutta la narrazione: esso non è sommato ai personaggi o alla rappresentazione, ma sono gli stessi personaggi, i paesaggi e le trame ad assumerne la manifestazione più pura. Nell’episodio del Papa dei Pazzi sono presenti tutte le possibili forme dell’umana bruttezza con smorfie ghignanti, mille espressioni umane, versi sgrazianti... Tutto ciò richiama alla mente la frasi di Hugo: “Il bello non ha che un tipo: il brutto ne ha mille”. Il grottesco coinvolge e plasma tutto, i corpi ma anche le forme architettoniche: Quasimodo infatti è diventato un tutt’uno con la Cattedrale, anch’essa unione di grottesco e sublime. La MASCHERA è il punto di arrivo del potenziale espressivo grottesco. L’interiorità si rovescia in esteriorità rappresentando la verità del soggetto con l’identificazione e la caratterizzazione intima e profonda del personaggio. La maschera è il segreto disvelato della personalità dei protagonisti del dramma: ogni profondità nascosta si capovolge in ostentazione provocatoria. Per definire le caratteristiche del KITSCH si citano:

� ACCUMULAZIONE � RIPETIZIONE � SINESTESIA � LIRIZZAZIONE

Elementi che definiscono anche il melodrammatico: entrambe sono categorie “trasversali” poichè necessitano di un’indagine che passi attraverso l’arte tutta. Tuttavia sono categorie estetiche diverse:

� Il kitsch è un’espressione leggera e fugace del desiderio di evasione, non vuole resistere al passare del tempo ma vuole compiacere il presente: è una categoria basata sull’EFFIMERO, come maggior parte dell’arte contemporanea. Il kitsch è caratterizzato da un comunicazione estemporanea, veloce, morta nel momento che si consuma. Il melodramma invece si ripete e rimane nel tempo. Elisa di Rivombrosa è un adattamento kitsch della Pamela di Richardson, vera fondatrice (insieme a Clarissa) del melodrammatico.

Melodramma e kitsch non sono la sola espressione del cattivo gusto. Nel kitsch si trova un mondo sentimentale, dove la commozione è servita facilmente, dove lo scopo è distrarre non impegnare e in cui c’è un “razionale ricettario per imitazioni” che devono piacere al pubblico e compiacerlo. Quindi

esiste nel kitsch uno stretto rapporto con il pubblico e con il suo assenso: ci sono perciò moltissimi stereotipi e clichè (vocaboli prefabbricati, espressioni sentite e risentite, atteggiamenti, situazioni...). Come l’esigenza romantica veniva appagata dai romanzi cavallereschi o di avventure, oggi c’è un’esigenza che viene saziata con le telenovelas. Il rapporto kitsch-innovazione è complesso in quanto le novità del kitsch non saranno mai rivoluzionarie, anche se esso richiede spesso una rinnovazione tecnica di livello: colpi di scena, meccaniche della scenografia, effetti speciali. Il kitsch non si può identificare del tutto con il PACCHIANO di Hauser, anche se ne condivide alcuni aspetti. Il pacchiano è la facile via di accesso alla realizzazione di sogni e illusioni, è di per sè cattivo gusto, è pseudoarte, arte in una forma a buon mercato, rappresentazione falsificata e bugiarda, è l’antiartistico che è stato creato come tale. Quindi anche la distinzione tra arte e kitsch è complessa. Kreuzer in La paraletteratura: un tema di ricerca (1967) ha individuato elementi che caratterizzano il kitsch che però non reggono per la distinzione tra esso e l’arte, in quanto sono propri anche della letteratura alta. Alcuni elementi del kitsch:

� Prevedibilità � Rassicurazione � Musica � Espressioni � Spot promozionale � Riassunto della puntata precedente e di quella seguente � Anticipazioni � Descrizioni del contesto � Clima � Colore del cielo

L’opera kitsch soddisfa e si dimentica, conforta il fruitore e non mette mai in crisi i suoi valori e il rapporto col mondo. Il fruitore attende con trepidazione quello che d fatto sa già: il meccanismo identificativo avviene facilmente, aiutato dal media televisivo che appunto fa della FICTION un appuntamento abituale. Le storie parlano “a noi e di noi” per preservare e ricostruire un senso comune della vita quotidiana soprattutto nella società contemporanea dove la rapidità dei mutamenti e la diversità dei contesti di esperienza possono causare spaseamento. Il linguaggio dei sentimenti è la carta vincente dell’emozione: la pianificazione della morte di un personaggio, ad esempio, può essere occasionale oppure può essere studiata come soluzione a un calo di ascolti. Gli stessi meccanismi legati a tecniche di programmazione sono sfruttati anche nei romanzi rosa: le case editrici intervongono sull’ambito creativo dell’autore per imporre come costruire o proseguire la caratterizzazione di alcuni personaggi. Il kitsch è funzionale al sistema arte e obbliga a un ripensamento della relazione opera-fruitore. L’immediatezza e univocità imputate al kitsch non sono elementi in grado di scacciarlo dalla sfera dell’arte.