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85 Linee guida per la gestione del cinghiale con particolare riferimento alle strategie di prevenzione dei danni Silvano Toso INFS (Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica) Ringrazio la Regione Piemonte di avermi invitato a questo convegno. Cercherò di dare un’idea delle linee guida per la gestione del cinghiale che l’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica ha messo a punto negli scorsi anni, consapevole dell’importanza di questa specie in tutti i sensi, sia in positivo che in negativo, nel contesto della gestione faunistico-venatoria italiana. Certamente il cinghiale rappresenta una delle specie più problematiche della fauna selvatica di interesse gestionale presente nel nostro paese, ma l’analisi della letteratura e i contatti con gli enti gestori anche di altri paesi europei ci dimostrano che il caso italiano non è unico. Anche in gran parte del resto d’Europa il cinghiale rappresenta una specie problematica. La specie ha un impatto sulle attività agricole importante, probabilmente il maggiore nell’ambito delle specie selvatiche, basti dire che nel caso italiano oltre l’80% dei rimborsi dei danni causati da fauna selvatica è attribuito a questa specie, con punte a volte ancora maggiori in certe Regioni, minori in altre. La spesa complessiva media annua a livello nazionale, da dati del 1999-2000, è stata di 2.240.000 euro, ma non sembra, dai dati che stiamo raccogliendo proprio in questi mesi per l’aggiornamento della banca dati nazionale sulla gestione degli ungulati, che il trend sia in diminuzione, anzi probabilmente è in lieve ulteriore aumento. Il costo dato dai rimborsi dei danni e dalle spese di prevenzione per cinghiale abbattuto in caccia (questi sono dati dell’ATC BO3 1 sul quale noi abbiamo operato un lavoro lungo, di quasi sette anni di gestione sperimentale del cinghiale) è di 285 euro. Oltre all’impatto sulle attività agricole il cinghiale determina anche un impatto sulle zoocenosi, cioè sulle comunità animali che convivono nelle aree in cui è presente questa specie; l’impatto è diretto, perché il cinghiale è anche un predatore di uova e piccoli di uccelli che nidificano a terra e di giovani mammiferi, ma è un impatto anche indiretto perché il cinghiale normalmente viene cacciato con forme di caccia contenitiva che genera un 1 ATC BO3: Ambito Territoriale di Caccia Bologna 3

Linee guida per la gestione del cinghiale con particolare … · 394/91, quindi parchi nazionali e regionali, ma anche le Aree Protette definite dalla Legge 157/92, quindi le oasi

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85

Linee guida per la gestione del cinghiale con particolare riferimento alle strategie di prevenzione dei danni

Silvano Toso

INFS (Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica)

Ringrazio la Regione Piemonte di

avermi invitato a questo convegno.

Cercherò di dare un’idea delle linee guida

per la gestione del cinghiale che l’Istituto

Nazionale per la Fauna Selvatica ha

messo a punto negli scorsi anni,

consapevole dell’importanza di questa

specie in tutti i sensi, sia in positivo che in

negativo, nel contesto della gestione

faunistico-venatoria italiana.

Certamente il cinghiale rappresenta

una delle specie più problematiche della

fauna selvatica di interesse gestionale

presente nel nostro paese, ma l’analisi

della letteratura e i contatti con gli enti

gestori anche di altri paesi europei ci

dimostrano che il caso italiano non è

unico. Anche in gran parte del resto

d’Europa il cinghiale rappresenta una

specie problematica.

La specie ha un impatto sulle attività

agricole importante, probabilmente il

maggiore nell’ambito delle specie

selvatiche, basti dire che nel caso italiano

oltre l’80% dei rimborsi dei danni causati

da fauna selvatica è attribuito a questa

specie, con punte a volte ancora maggiori

in certe Regioni, minori in altre.

La spesa complessiva media annua a

livello nazionale, da dati del 1999-2000, è

stata di 2.240.000 euro, ma non sembra,

dai dati che stiamo raccogliendo proprio

in questi mesi per l’aggiornamento della

banca dati nazionale sulla gestione degli

ungulati, che il trend sia in diminuzione,

anzi probabilmente è in lieve ulteriore

aumento.

Il costo dato dai rimborsi dei danni e

dalle spese di prevenzione per cinghiale

abbattuto in caccia (questi sono dati

dell’ATC BO31 sul quale noi abbiamo

operato un lavoro lungo, di quasi sette

anni di gestione sperimentale del

cinghiale) è di 285 euro.

Oltre all’impatto sulle attività agricole il

cinghiale determina anche un impatto

sulle zoocenosi, cioè sulle comunità

animali che convivono nelle aree in cui è

presente questa specie; l’impatto è

diretto, perché il cinghiale è anche un

predatore di uova e piccoli di uccelli che

nidificano a terra e di giovani mammiferi,

ma è un impatto anche indiretto perché il

cinghiale normalmente viene cacciato con

forme di caccia contenitiva che genera un 1 ATC BO3: Ambito Territoriale di Caccia Bologna 3

86

disturbo durante le braccate. Infine, il

cinghiale determina anche un impatto con

la gestione faunistico-venatoria, in quanto

si genera una monopolizzazione del

territorio da parte delle squadre di caccia,

che costituiscono oggi un blocco sociale

in grado di condizionare gli amministratori

locali, non sempre con decisioni corrette.

Un problema che è complesso non può

essere affrontato in maniera semplice,

ma va affrontato con una strategia

articolata. Questa strategia si basa su

alcuni punti fermi:

− le norme, sia regionali che

regolamenti provinciali;

− gli strumenti di programmazione:

bisogna capire dove si vuole arrivare

e quali sono gli obiettivi e poi agire di

conseguenza, questo sia a livello di

territorio vasto, vedi il caso delle carte

di vocazione faunistica, a livello

regionale oppure a territorio

intermedio, i piani faunistico venatori

provinciali e regionali, ma anche i

piani di assestamento faunistico

nell’ambito di ciascuna unità

territoriale di gestione, siano essi

ATC2, CA3 o aziende faunistiche;

− gli strumenti gestionali sono un altro

elemento importante e vanno dal

monitoraggio dei danni, della

2 ATC: Ambito Territoriale di Caccia 3 CA: Comprensorio Alpinio

prevenzione attuata, delle popolazioni

di cinghiali, dello sforzo di caccia e dei

carnieri - infatti questi sono gli

elementi conoscitivi che ci consentono

di monitorare costantemente non solo

la presenza della specie, ma anche

l’impatto che questa specie ha sia sul

piano economico che su quello

sociale -, al miglioramento delle

tecniche di prelievo che, a mio

giudizio, andrebbe introdotto per far sì

che il prelievo, sia quando si tratta di

controllo, sia quando si tratta di caccia

vera e propria, consenta di arrivare a

un rapporto costi-benefici più

intelligente e più efficiente rispetto a

quanto avviene oggi.

Uno degli elementi chiave per

migliorare la gestione del cinghiale nel

nostro paese è quello di vedere questa

gestione come una gestione integrata tra

Aree Protette e aree in cui invece la

caccia è consentita. È necessario

affrontare il problema più difficile:

superare la sindrome dell’assedio, perché

non v’è dubbio che gestire il cinghiale,

che è una specie ad alta vagilità4, in un

territorio che è un mosaico di aree di

caccia e di Aree Protette, a vario titolo

(sia le Aree Protette definite dalla Legge

394/91, quindi parchi nazionali e

regionali, ma anche le Aree Protette

definite dalla Legge 157/92, quindi le oasi

4 Vagilità: capacità media di spostamento

87

di protezione, le zone di ripopolamento e

cattura) è una sfida non piccola.

In pratica succede che l’area utilizzata

da una popolazione di cinghiali

tranquillamente sta a cavallo dei confini

tra Aree Protette e territorio cacciabile e

quindi si creano due fronti (figura 92): il

fronte interno con danni nel parco (i nostri

parchi quasi mai racchiudono ambienti

dove non esistono attività antropiche, in

particolare agricoltura, più o meno

importanti dal punto di vista economico-

sociale), dall’altra c’è un fronte esterno

dei rapporti con la gestione condotta nel

territorio cacciabile: ovviamente il modo in

cui viene gestito il cinghiale nel territorio

cacciabile ha delle ripercussioni non

piccole anche sulla gestione del cinghiale

internamente alle Aree Protette.

Credo, a questo punto, che sia

necessaria una strategia nazionale di

gestione che veda coinvolti diversi

soggetti: Aree Protette, ambiti territoriali

di caccia e aziende faunistico-venatorie e

aree contigue. Sottolineo questo concetto

delle aree contigue che è presente nella

normativa nazionale, nella Legge 394/91,

perché potrebbe avere un’importanza

notevole nel migliorare la gestione anche

di questa specie.

Cosa succede? L’effetto spugna: è

quello dato dal fatto che soprattutto le

Aree Protette istituite ai sensi della Legge

157/92, cioè oasi di protezione e zone di

ripopolamento e cattura, fungono da

area protettaarea utilizzata dalla

popolazione

Il fronte interno: danni nel parcoIl fronte esterno: rapporti con la gestione

condotta nel territorio cacciabile

area protettaarea utilizzata dalla

popolazione

Il fronte interno: danni nel parco

Il fronte interno: danni nel parcoIl fronte esterno: rapporti con la gestione

condotta nel territorio cacciabile

Figura 92: "Sindrome dell’assedio” per le popolazioni di cinghiale

88

spugne che attraggono i cinghiali durante

la stagione di caccia dal territorio

cacciabile all’interno delle Aree Protette e

a caccia chiusa rilasciano cinghiali da

questi rifugi temporanei verso il territorio

ove non è più presente la caccia e quindi

non è più presente la pressione data dalla

caccia sulle popolazioni. Una possibile

soluzione di questo problema dovrebbe

essere affrontata anche a livello

normativo a nostro giudizio: noi pensiamo

che, soprattutto per quanto riguarda le

ZRC5 e in parte anche nel caso delle

oasi, sia giunto il momento di affrontare

una modifica dell’articolo 10 comma 4

della Legge 157/92, consentendo il

prelievo del cinghiale con tecniche a

basso impatto ambientale anche

nell’ambito di questi istituti, che in realtà

sono pensati non tanto come istituti di

protezione come i parchi, ma sono

strutture territoriali finalizzate alla

gestione venatoria e spesso destinate

alla produzione naturale di fagiani, di lepri

e di altre specie che risentono in maniera

negativa della pressione esercitata dal

cinghiale, e fungono proprio, nel ciclo

annuale, da zone di rifugio temporaneo

che non consentono di programmare in

maniera credibile la gestione del cinghiale

che, appunto, è una specie con una

vagilità piuttosto elevata.

5 ZRC: Zona di Ripopolamento e Cattura

Per quanto riguarda la funzione delle

aree contigue ai Parchi, sapete che la

Legge 394/91 definisce le aree contigue

come una sorta di fascia cuscinetto tra

l’area protetta vera e propria e il territorio

dove invece si svolge l’attività venatoria.

Purtroppo le aree contigue nel nostro

paese sono rimaste sostanzialmente sulla

carta e non sono mai state tradotte in

gestione pratica. Credo che uno dei

problemi fondamentali per cui le aree

contigue non sono mai partite sia quello

della residenza venatoria: la Legge dice

che la caccia nelle aree contigue è

consentita esclusivamente ai cacciatori

residenti nei Comuni del Parco. Questo è

stato un freno notevole alla costituzione e

alla gestione delle aree contigue e penso

invece che, piuttosto che basare

l’accesso alle aree contigue dal punto di

vista venatorio sulla residenza

anagrafica, sarebbe molto più intelligente

basarlo su una residenza venatoria tale

per cui i cacciatori che cacciano nell’area

contigua, anche se arrivano da Comuni

esterni al Parco, caccino secondo un

regolamento che sia finalizzato alle

precipue funzioni dell’area contigua

stessa. Penso che le aree contigue

potrebbero in questo senso avere una

funzione notevole di sperimentazione e di

crescita culturale di nuove forme di

gestione più avanzate, perché, se

analizzate bene la norma, le aree

89

contigue possono gestire anche in

maniera del tutto innovativa rispetto a

diverse prescrizioni di legge a cui invece

gli ATC o gli stessi Parchi devono invece

sottostare. Quindi è un’occasione

mancata che andrebbe invece ripresa in

maniera seria.

L’approccio generale per una gestione

del cinghiale dovrebbe essere quella di

una gestione flessibile che tiene conto del

contesto ambientale ed umano. Il

cinghiale è una delle specie più flessibili

che conosciamo. Non accetta un

approccio rigido alla gestione. E’

necessario adottare una gestione

“adattativa” che tiene conto

dell’esperienza pregressa, dei fatti positivi

e degli errori commessi e continuamente

si adatta in maniera rapida all’evolvere

delle popolazioni e degli impatti che

queste popolazioni hanno sulle varie

risorse umane, vuoi l’agricoltura, vuoi, più

in generale, la società umana che

condivide il territorio occupato dai

cinghiali.

La gestione, appunto, deve essere

adattativa e l’obiettivo generale,

contrariamente a quanto si sente dire

spesso e si legge, non è tanto, in astratto,

la riduzione delle popolazioni, ma è la

riduzione dei problemi. Spesso le due

cose non sono legate in maniera

assolutamente univoca e un esame

critico della situazione attuale del nostro

paese ci può far dire, credo, che il

cinghiale non merita la gestione a cui

viene sottoposto, una gestione

abbastanza schizofrenica.

Infine vi è la necessità di supportare la

gestione con una buona ricerca

applicabile ed applicata. Sottolineo

applicata perché purtroppo, anche sulla

nostra pelle, abbiamo vissuto esperienze

di una ricerca estremamente calata nella

realtà gestionale, tesa a risolvere i

problemi di gestione del cinghiale, che ha

dimostrato di essere una soluzione

vincente anche sperimentalmente, ma

che poi, per ragioni di altra natura, non è

stata poi applicata successivamente.

Quindi si deve chiudere una sorta di

cerchio virtuoso che partendo dagli

obiettivi attraverso la gestione ne fa una

verifica e ritorna agli obiettivi.

Per quanto concerne le Aree Protette

va detto che l’Istituto, su commissione del

Ministero dell’Ambiente, aveva alcuni

anni fa prodotto delle linee guida per la

gestione del cinghiale nelle Aree protette6

e i principi di queste linee guida, devo

dire, sono stati capiti, accettati , in larga

misura applicati dalle Aree protette: c’è

stato un fiorire di esperienze in anni

recenti sulla gestione del cinghiale nei

6 Linee guida per la gestione del cinghiale nelle aree protette - S. Toso, L. Pedrotti - Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, Ist. Naz. per la Fauna Selvatica “Alessandro Chigi” - Quaderni di Conservazione della Natura - 2001

90

Parchi che hanno avuto nelle linee guida

un supporto, credo, abbastanza

importante. Tuttavia, non ovunque la

situazione, anche nell’ambito delle Aree

protette è così positiva: in diversi casi si

brancola ancora un po’ nel buio e in una

situazione criticabile dal punto di vista

soprattutto dell’approccio.

Le tecniche di prelievo nelle Aree

protette hanno visto la cattura con

chiusini e trappole come un elemento

importante, che ha dimostrato di essere

una tecnica di prelievo molto efficace,

cioè con un ottimo rapporto costi-benefici,

e che nella maggior parte dei contesti

ambientali funziona molto bene. Le altre

tecniche possono svolgere un ruolo di

affiancamento delle catture più o meno

importante in funzione di fattori

ambientali, temporali e di dimensione

umana. Cosa intendo con questo? Che

alcuni Parchi hanno preferito adottare

una strategia che tenesse conto sia delle

tecniche di cattura, ma anche

dell’abbattimento da parte di cacciatori

abilitati e coordinati dal Parco stesso,

seguendo per altro il dettato di un

emendamento alla 394 che prevede che

gli abbattimenti tesi a compensare

squilibri nelle popolazioni all’interno dei

Parchi debbano vedere come protagonisti

prioritari cacciatori locali. Questo, a mio

modo di vedere, se non si parte da una

visione ideologica delle cose, non è

scandaloso di per sè, semplicemente va

affrontato in maniera chiara e con onestà

intellettuale, dicendo che le trappole

funzionano altrettanto bene o forse

meglio, tuttavia, per ragioni sociali, si

preferisce utilizzare un altro sistema

oppure affiancarlo alle catture.

Nelle Aree protette diversi aspetti

tecnici dei prelievi, come catture e

abbattimenti, possono e debbono essere

migliorati attraverso regolamenti,

protocolli omogenei per la raccolta dei

dati, filiere di utilizzo degli animali

prelevati, corsi per operatori e quant’altro.

Chiaramente ci sono ancora molte cose

da fare e da perfezionare, anche

nell’ambito delle Aree protette, per quanto

riguarda la gestione del cinghiale, tant’è

vero che il Ministero dell’Ambiente ha

commissionato all’Istituto, proprio

recentissimamente, un riaggiornamento

delle linee guida su cui stiamo proprio in

questi mesi operando e penso che alla

fine di quest’anno, massimo inizio del

2007, usciranno le nuove linee guida che

terranno proprio conto dell’esperienza

maturata dagli stessi Parchi in questi

anni.

Le informazioni derivanti dai capi

prelevati debbono essere utilizzate per

monitorare la dinamica delle popolazioni:

il cinghiale è una specie assai mobile,

cioè si presta assai poco a stime

quantitative attraverso il contatto diretto

91

con gli animali, mentre le informazioni

che si possono ottenere dai capi abbattuti

o catturati sono preziose e ci possono

dare una buona idea se gli standard di

raccolta delle informazioni e di

elaborazione dei dati sono corrette sul

trend e sull’evoluzione delle popolazioni

locali di questa specie.

Per la gestione venatoria del cinghiale

si può far riferimento ad una nostra

specifica pubblicazione, che è stata

diffusa a tutte le amministrazioni regionali

e provinciali italiane, che ha tenuto conto

proprio di quel lavoro di studio applicato a

un’ATC del bolognese e che è, credo,

riuscito a dare una idea di come può

essere implementata nella pratica una

strategia solistica, complessiva di

gestione di questa specie.

Gli strumenti di programmazione nel

territorio cacciabile devono partire da

scelte che fondamentalmente sono

politiche, nel senso più neutro della

parola; vanno definite linee rosse e

territori a densità agricolo-forestale

tendente a zero, quindi aree di rimozione:

non è pensabile accettare la presenza di

popolazioni di cinghiale in aree in cui il

90% del territorio agricolo-forestale è

interessato da coltivazioni di importanza

economica, come seminativi o frutteti. Ma

anche nel territorio dove le popolazioni di

cinghiali sono accettabili come presenza,

in quanto l’agricoltura non è così

pressantemente presente, vanno tuttavia

definite densità obiettivo, quindi un livello

di danni accettabile per ciascuna unità di

gestione e ciascun distretto di gestione.

Per ottenere questi obiettivi è necessario

attuare prelievi nelle zone di rimozione,

che vanno operati da soggetti non

appartenenti alle squadre di caccia,

altrimenti si realizza una sorta di loop, di

circolo vizioso che ha ampiamente

dimostrato di non raggiungere gli obiettivi

che ci si prefigge.

Va favorita una responsabilizzazione

globale di ciascuna squadra rispetto alla

gestione del cinghiale nel proprio distretto

di caccia e questo è possibile solo se

esiste una diretta responsabilizzazione su

un preciso territorio: la rotazione delle

squadre è un elemento che contrasta

fortemente con questo obiettivo, che

invece è molto importante.

Gli abbattimenti più la prevenzione

devono dare come risultato il

mantenimento della densità obiettivo: in

pratica si prova con una pressione

venatoria stabilita a priori, anche al buio;

se volete, inizialmente, si verifica quanto

quella pressione venatoria è riuscita a

limitare o meno la quantità di danni

presenti nel distretto di gestione e, sulla

base delle informazioni derivanti dai capi

abbattuti, soprattutto dall’esame della

struttura di popolazione tramite le

mandibole degli animali abbattuti e gli

92

uteri delle femmine per verificare la

produttività annuale, si stabilisce il piano

di prelievo successivo.

Solo in questo modo è possibile in

maniera adattativa raggiungere gli

obiettivi di un corretto rapporto tra

popolazione di cinghiale e altri usi del

territorio.

L’altra chiave perché questa strategia

stia in piedi è che i danni che eccedono il

tetto massimo stabilito devono essere

pagati dalle squadre di caccia. So che la

cosa non è particolarmente gradita dal

mondo venatorio, ma è l’unica soluzione

che, dove è stata applicata, ha dimostrato

di riuscire a contenere questo tipo di

problema, cioè bisogna spezzare il circolo

vizioso che si è purtroppo innestato in

molte aree del Paese. Carniere elevato

significa densità elevata; carnieri elevati

per molti anni non possono sussistere se

non c’è una elevata densità di cinghiali.

Come fa il mondo venatorio interessato al

cinghiale per mantenere questo tipo di

situazione? Sospende il prelievo anche

prima della fine della stagione venatoria

quando ritiene che ci siano ormai pochi

cinghiali, mantiene delle sorte di rifugi,

anche se non hanno i cartelli, dove a

caccia non ci si va mai, praticamente, e

fungono da serbatoi che rilasciano i

cinghiali successivamente e, infine,

esistono ancora in varia misura, in certe

aree meno, in altre di più, immissioni

abusive e addirittura in qualche caso (sto

parlando di alcune Province dell’Italia

meridionale) legali. È chiaro che

prevedere immissioni di una specie che

ha mediamente il 180% di incremento

utile all’anno e rappresenta un problema

gestionale notevole dà un po’ il senso

della schizofrenia della gestione

faunistico-venatoria che in questo Paese

molto spesso si realizza.

Gli strumenti gestionali partono dal

monitoraggio. I dati relativi a danni e

prevenzione andrebbero georeferenziati e

informatizzati, per quanto riguarda

tipologia, localizzazione e costi; ma poi,

ovviamente, va monitorata la

popolazione. Parlare di censimenti di

cinghiali è abbastanza assurdo,

soprattutto su territori vasti; è possibile

però avere delle stime relative di

abbondanza attraverso due elementi: il

rapporto tra carnieri conseguiti e sforzo di

caccia, e la raccolta e l’esame accurato

delle mandibole e degli uteri dei capi

abbattuti.

La gestione deve essere

continuamente adattativa e si nutre di

queste fonti di informazione. Deve essere

adattativa perché se noi siamo

abbastanza ben in grado di prevedere i

ritmi di crescita e i trend di una

popolazione di caprioli o di cervi, non

siamo affatto in grado di fare questo nel

caso di una popolazione di cinghiale, che

93

per sua natura è soggetta ad amplissime

fluttuazioni interannuali.

Questa strategia però non può essere

attuata se non si realizza anche una

collaborazione del mondo venatorio

interessato al cinghiale. Non è pensabile

un muro contro muro; è necessaria

un’opera di convincimento, di lavoro

insieme per fare in modo che una

strategia di questo tipo possa essere non

solo accettata, ma anche

sostanzialmente supportata dal mondo

venatorio, perché è chiaro che il rapporto

tra carniere di sforzo di caccia e

mandibole utili non si possono ottenere

se non attraverso la collaborazione dei

fruitori delle popolazioni di cinghiale.

Nel nostro lavoro, di cui ho accennato

in precedenza, sono anche mostrate le

schede di raccolta dei dati, abbiamo

mostrato esempi di trend dei danni in

rapporto alle diverse tipologie di istituto in

cui i cinghiali erano presenti nell’ATC

sperimentale in cui abbiamo lavorato.

Evidentemente va fatta un’analisi

accurata dell’uso del suolo a livello di

unità gestionali, che poi si deve tradurre

nella definizione di aree a vocazionalità

differenziata. Nel caso, ad esempio,

dell’ATC BO3 (figura 93) c’era un’area

non vocata, un’area quindi di rimozione

(in rosso), un’area a minore vocazionalità

(in giallo) e un’area a maggiore

vocazionalità (in bianco), in cui le densità

obiettivo potevano essere maggiori

rispetto a quelle della fascia intermedia;

da questo si può arrivare alla densità

obiettivo, quindi alla densità di carniere o

al livello di danni accettabile nell’ambito di

ciascuna unità di gestione.

Nell’esempio in figura 94 si vede l’ATC

BO3 con una zona di rimozione (in

bianco), mentre una fascia intermedia

definisce carnieri di 3-5 capi / 100 ha; le

aree invece meno problematiche, in

quanto meno interessate da

un’agricoltura produttiva, possono anche

prevedere carnieri di 6-10 capi / 100 ha.

Area non vocata (rimozione)

Area a minore vocazionalità

Area a maggiore vocazionalità

Area non vocata (rimozione)

Area a minore vocazionalità

Area a maggiore vocazionalità

Figura 93: Aree a vocazionalità differenziata (ATC BO3)

94

Infine è importante migliorare le

tecniche di prelievo, come vi dicevo,

anche diversificando le tecniche. Il

cinghiale in Europa si caccia in tanti modi

diversi, mentre in Italia la caccia al

cinghiale è quasi completamente

monopolizzata dalla braccata, che non è

l’unica forma possibile ed è quella che

probabilmente ha anche il rapporto costi-

benefici in termini di sforzo di caccia e

carniere raggiungibile meno interessante;

può essere affiancata dalla girata e dalla

caccia selettiva.

La stessa braccata può essere

sostanzialmente migliorata attraverso la

tracciatura preventiva degli animali: non

ha molto senso slegare i cani in un’area

in cui non si sa se i cinghiali ci sono o no,

in quanto ciò rappresenta un dispendio di

energie e un disturbo indesiderabile.

Va fatto molto lavoro sui cani,

privilegiando la qualità rispetto al numero,

quindi attraverso la selezione e

l’addestramento, e vanno privilegiate

mute omogenee per razza e soprattutto

per modalità di lavoro.

Infine vanno stabilite regole di prelievo

stringenti per mantenere una struttura di

popolazione accettabile: ricordo che le

analisi dei carnieri operate nel nostro

Paese ci dicono che nelle popolazioni

cacciate è difficilissimo trovare animali

che superino i 2-3 anni; abbiamo, per

effetto dell’attività venatoria, un

ringiovanimento artificiale delle

popolazioni che chiaramente poi ha

anche delle ripercussioni sulla struttura di

popolazione, sul tipo di incremento e sulla

dannosità delle popolazioni nei confronti

delle attività agricole.

Riassumendo lo schema è il seguente:

1. definizione degli obiettivi;

2. acquisizione delle conoscenze

sull’unità di gestione;

3. valutazione delle potenzialità socio-

ecologiche del territorio;

4. valutazione del conflitto sociale;

5. raccolta dei dati su danni e

prevenzione, sulla popolazione e

sull’attività di prelievo;

6. azioni per la riduzione del conflitto

sociale;

Zona di rimozione3-5 capi/100 ha6-10 capi/100 ha

Zona di rimozione3-5 capi/100 ha6-10 capi/100 ha

Zona di rimozione3-5 capi/100 ha6-10 capi/100 ha

Figura 94: Densità obiettivo (carniere/livello di

danni) per distretto (ATC BO3)

95

7. organizzazione delle attività gestionali

sulla base di queste informazioni;

8. analisi dei dati;

9. verifica del raggiungimento degli

obiettivi;

10. se è il caso, ridefinizione degli stessi

obiettivi.

Vi ringrazio molto per l’attenzione.

96

I cervidi e il patrimonio agro-forestale: esempi d’impatto nel sud-est della Polonia

Jakub Borkowski

Forest Research Institute, Section of Forest Ecology and Wildlife Management

Buon pomeriggio a tutti.

Vorrei partire con una battuta di un

famoso ricercatore che ha partecipato al

convegno sulla biologia forestale che si è

tenuto diverso tempo fa’. Si parlava di un

palloncino che era volato nel cielo e che

si era perso; non c’era nessuno a cui

potesse chiedere informazioni e poi

finalmente incontrò una persona che

camminava lì vicino, quindi si fermò e

chiese: ”Mi scusi signore, dove mi trovo?”

(vorrei ricordare che, all’epoca in cui è

avvenuto il convegno, non esisteva

ancora il GPS) e il signore rispose: “Sei in

Montana”, “Ma io ho bisogno delle

coordinate precise”, “Allora devi rivolgerti

a qualcuno che abbia le conoscenze

adatte, a qualcuno di esperto”, “Ma mi

sembra che lei sia un ricercatore: lo

capisco dal fatto che lei mi ha dato delle

informazioni assolutamente inutili!”.

Questo per dirvi come l’attività del

ricercatore, e quindi l’attività di gestione

forestale, spesso e volentieri è molto

complessa e non si riescono a dare le

risposte giuste, ma io credo che l’attività

che noi svolgiamo sia molto importante.

Io mi sento molto vicino alle attività di

gestione forestale, che significano non

soltanto mettere in pratica la teoria ma,

soprattutto, avere la possibilità di attuare

nella realtà le idee che sono alla base

della sostenibilità e tutto ciò che è

necessario per la protezione e la

prevenzione.

L’argomento di cui vorrei parlare oggi

riguarda i fattori che influenzano e

contribuiscono ai danni da cervo su pino

silvestre nella Polonia sud-occidentale,

zona in cui nel 1992 un incendio

vastissimo colpì ben 10.000 ettari. Si

trattò quindi di una superficie molto vasta,

come non si era mai verificato in tutta

Europa, per cui l’esperienza che riguarda

quest’area è notevolmente importante,

soprattutto per quanto concerne il

rapporto con la fauna selvatica, in

particolare quella costituita dai cervi.

Altro motivo per cui quest’area è

particolarmente importante è che i danni

provocati da quest’incendio non sono mai

stati esaminati in Europa fino ad ora, per

cui ci può fornire diversi elementi

interessanti in proposito. Ci sono alcuni

studi che sono stati effettuati negli Stati

uniti, ma credo che comunque le

97

caratteristiche di quei territori siano

diverse dalle nostre. Forse in Europa

esiste solo uno studio di questo genere.

Tra gli impatti della fauna selvatica

sulla vegetazione forestale vi è lo

scortecciamento, un’abitudine tipica del

cervo rosso, sia dei maschi, sia delle

femmine, che va ad influenzare

soprattutto il pino silvestre; questa infatti

è una delle specie di alberi più diffuse in

Polonia e in Europa, motivo per cui la

fauna selvatica, ed in particolare i cervi

rossi, mangiano la corteccia, soprattutto

nei periodi invernali quando non riescono

a trovare altre risorse.

Nella foto 95 si vede un paesaggio

piuttosto comune nella nostra zona.

L’innevamento dura per diverso tempo,

per cui lo scortecciamento è rilevante,

rappresentando la corteccia una risorsa

fondamentale di cibo per la fauna;

ovviamente questo comportamento si

tramuta in un problema non indifferente

per la gestione dell’area forestale. Non

solo il pino silvestre, ma a volte anche le

querce vengono private della corteccia

dagli animali.

Figura 95: Alberi di pino silvestre con evidenti

scortecciature da cervo rosso

Ci sono diverse zone colpite da questo

problema, anche foreste oramai piuttosto

antiche, come ad esempio popolamenti

con vecchie querce, che sono riuscite a

sopravvivere all’incendio.

In queste zone si possono riscontrare

tre tipi di habitat principale; vi sono due

diversi tipi di boschi di pino: in un caso si

tratta di rimboschimenti, quindi di

formazioni di origine artificiale, e in un

altro caso invece di rinnovazione

naturale; abbiamo inoltre alcuni casi che

riguardano boschi di betulle. Sebbene la

betulla sia stata impiantata più di recente,

tuttavia cresce più rapidamente rispetto ai

pini silvestri.

Lo studio dei danni da

scortecciamento, che è stato effettuato

tra il 1999 e il 2000, ovvero 6-7 anni dopo

il grande incendio, si era posto due

obiettivi principali. Il primo obiettivo è

stato quello di confrontare i danni nei

rimboschimenti rispetto a quelli nelle

foreste con rinnovazione naturale; a

98

questo riguardo si può notare come nelle

esperienze americane dopo un incendio

si trovi una grande quantità di materiale

bruciato e quindi chi si occupa di gestione

forestale riesce a trovare una zona di

studio molto interessante per la presenza

di diversi animali, anche in numero

elevato; l’affermarsi della rinnovazione

vegetale in questo caso è pressoché

impossibile.

Un altro obiettivo dello studio è stato

quello di verificare se le condizioni di

sicurezza offerte dai ripari, che dipendono

dall’età del rimboschimento, influenzino

l’intensità dei danni e soprattutto, quindi,

considerare se la densità abbia

importanza oppure no; quindi si è voluto

cercare di capire, sebbene fino ad ora si

siano effettuati diversi studi soprattutto

sui pini silvestri, se l’entità del danno

dipenda dalla densità degli alberi e se

l’età dell’albero sia collegata a queste

azioni di scortecciamento. E’ stato infatti

rilevato che spesso i cervi vanno a

mangiare la corteccia che è più tenera,

quindi l’età dell’albero riveste una certa

importanza.

Abbiamo cercato di capire in che modo

l’altezza dell’albero effettivamente possa

influenzare la tendenza allo

scortecciamento da parte di questi

animali e soprattutto se esistano risorse

alternative importanti per la fauna

selvatica. Abbiamo considerato quindi

quella che è una risorsa fondamentale,

ovvero il cibo, e il riparo che viene fornito

dagli alberi a questa fauna selvatica.

Abbiamo constatato che, effettivamente,

l’altezza gioca un ruolo fondamentale,

perché quando viene superato un certo

livello la corteccia si indurisce, quindi non

viene più mangiata dagli animali e gli

alberi forniscono, allo stesso tempo,

riparo. Ci sono buone ragioni per credere

che l’altezza degli alberi potrebbe essere

molto importante per la valutazione dei

livelli di scortecciamento. Nel grafico in

figura 96 si può vedere la densità del

gruppo campione di cervi rossi nelle

formazioni a betulla e a pino silvestre.

Figura 96: Densità del gruppo campione di cervi

rossi nelle formazioni a pino silvestre e a betulla

Nel primo anno dello studio, ovvero nel

1999 (lo studio della densità degli animali

è stato condotto per più anni e non per il

solo periodo 1999–2000 citato in

precedenza), abbiamo rilevato dei dati

contrari rispetto a quelle che erano le

0

20

40

60

80

1997 1998 1999 2000

Npe

llet g

roup

s/1

km * *** ns ns

Pino silvestre Betulla

0

20

40

60

80

1997 1998 1999 2000

Npe

llet g

roup

s/1

km * *** ns ns

Pino silvestre Betulla

99

aspettative iniziali, perché la densità di

cervi rossi era inferiore nelle zone

bruciate rispetto a quelle intatte; questo

probabilmente era dovuto al fatto che, nel

corso del primo anno, gli alberi presenti

nelle zone bruciate erano piuttosto bassi

e non riuscivano a costituire un riparo

adatto per i cervi ma, nel momento in cui

gli alberi sono cresciuti, hanno assunto

un’attrattiva molto maggiore e quindi sono

stati apprezzati di più dalla fauna

selvatica locale. Ecco perché abbiamo

capito quanto potesse essere importante

l’altezza degli alberi nel processo di

scortecciamento.

Abbiamo quindi confrontato betulle e

pini silvestri; le betulle, come detto in

precedenza, crescono più velocemente e,

di conseguenza, i pini silvestri, che erano

più bassi, venivano utilizzati di meno. Nel

1999–2000 la differenza tra le formazioni

a pino silvestre e quelle a betulle era

notevole. Quindi abbiamo analizzato il

processo di crescita dei pini silvestri e ci

siamo accorti che c’era un rapporto molto

stretto tra lo scortecciamento provocato

dai cervi rossi e l’altezza degli alberelli di

pino silvestre.

Nel grafico in figura 97 si vede

l’intensità di scortecciamento a seconda

della zona di rinnovazione e si può

vedere come lo scortecciamento nelle

zone bruciate (in rosso) fosse inferiore

rispetto alle zone non bruciate (in blu),

molto probabilmente perché la

disponibilità e l’accessibilità alla corteccia

era migliore in queste zone, mentre nelle

altre gli animali non riuscivano ad avere

un accesso facile per alimentarsi.

Figura 97: Densità del gruppo campione di

cervi rossi nelle formazioni bruciate e non bruciate

Nella tabella 1 possiamo vedere altri

risultati molto significativi, ovvero che non

si è rilevata nessuna differenza nel livello

6.1 6.92000 9.7 8.81999

Artificial regenerationNatural regeneration Year Burned area

23 Unburned forest

Tabella 1: Intensità di scortecciamento in funzione dell’area e del tipo di rinnovazione

010203040506070

1997 1998 1999 2000

Npe

llet g

roup

s/1

km * ns ns ns

Zone bruciate Zone non bruciate

010203040506070

1997 1998 1999 2000

Npe

llet g

roup

s/1

km * ns ns ns

Zone bruciate Zone non bruciate

100

di scortecciamento tra le zone

rimboschite e quelle con rinnovazione

naturale degli alberi, per lo meno nel

secondo anno di studio.

L’età del pino silvestre è un altro

fattore molto importante per determinare

l’intensità di scortecciamento. Nel primo

anno dello studio era ovvio che, se i pini

erano più alti, i danni da scortecciamento

sarebbero stati superiori; però, nel

secondo anno dello studio, si è verificato

che all’inizio si manteneva la stessa

tendenza, ma poi, nel momento in cui il

pino cresceva, non c’era un aumento dei

danni, per le ragioni descritte in

precedenza.

Per quanto riguarda la densità di

alberi, ci si potrebbe aspettare che questa

possa essere un fattore importante per

l’intensità dei danni; ad esempio, è molto

più facile che vi siano dei danni nel

momento in cui l’accesso da parte della

fauna selvatica alle piante risulta più

semplice; tuttavia, non esiste

effettivamente un rapporto tra la densità

degli alberi e l’intensità di

scortecciamento. Avremo comunque

modo di approfondire questo aspetto in

seguito.

Nel grafico in figura 98 si mostra il

rapporto tra le zone a rimboschimento

artificiale e quelle a rinnovazione

naturale, dove di nuovo si nota una

differenza dovuta all’età degli alberi: quelli

che nel 2000 avevano 6 anni

dimostravano un forte collegamento con

l’intensità di scortecciamento e di

conseguenza con la densità degli alberi.

Figura 98: Intensità dei danni da

scortecciamento nei rimboschimenti artificiali in

relazione alla loro età

Una parte molto interessante dello

studio riguarda i dati quantitativi sul

rapporto tra l’altezza degli alberi e

l’intensità di scortecciamento. Nelle zone

a rinnovazione naturale si è registrata

una correlazione notevole tra l’altezza

degli alberi e l’intensità di

scortecciamento, soprattutto nel primo

1999

Pre-thicket age (years)

Deb

arki

ng(%

)5 6 7 8

0

10

20

30

405 - 6 p>0,05

6 - 7 p>0,05

5 - 7 p<0,001(5+6+7) - 8 each case

p<0,001

1999

Pre-thicket age (years)

Deb

arki

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)5 6 7 8

0

10

20

30

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5 - 7 p<0,001(5+6+7) - 8 each case

p<0,001

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30

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6 - 7 p>0,05

5 - 7 p<0,001(5+6+7) - 8 each case

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10

20

30

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5 - 7 p<0,001(5+6+7) - 8 each case

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2000

Pre-thicket age (years)

Deb

arki

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)

0

5

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15

20

6 7 8 9

6-7 p>0,05; 6-8 p<0,016-9 p<0,01; 7-8 p<0,058-9 p>0,05

2000

Pre-thicket age (years)

Deb

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)

0

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6 7 8 9

6-7 p>0,05; 6-8 p<0,016-9 p<0,01; 7-8 p<0,058-9 p>0,05

0

5

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20

6 7 8 9

6-7 p>0,05; 6-8 p<0,016-9 p<0,01; 7-8 p<0,058-9 p>0,05

101

anno di studio; purtroppo però i dati

raccolti non erano sufficienti per diventare

significativi nell’anno successivo.

Il grafico in figura 99 riguarda l’altezza

degli alberi e l’intensità dello

scortecciamento e si è potuto verificare

ulteriormente come l’altezza degli alberi

giochi un ruolo fondamentale. In quasi

tutte le classi di età, nel corso del primo

anno di studio, il rapporto è sempre stato

molto significativo, mentre nel 2000

questo rapporto è stato significativo solo

per gli alberi più giovani per poi ridursi nel

momento in cui l’altezza è aumentata.

Quindi le conclusioni che possiamo

trarre da questi dati sono, innanzitutto,

che la percentuale di scortecciamento per

i pini a rinnovazione naturale è molto

simile a quella degli alberi da

rimboschimento artificiale.

In secondo luogo, la densità degli

alberi non è un fattore così importante

nell’influenzare l’intensità dello

scortecciamento né nelle zone a

rimboschimento artificiale né in quelle a

rinnovazione naturale.

Inoltre, le condizioni di riparo e di

sicurezza offerte agli animali influenzano

notevolmente l’intensità dello

scortecciamento; il rapporto, però, arriva

solo fino a un certo punto: nel momento

in cui si supera l’altezza di 180 cm questo

stretto legame scompare

automaticamente. Infatti, siccome gli

animali si sentono più al sicuro al di sotto

delle piante più alte, lo scortecciamento

finisce perché tendono a considerare quei

luoghi come zone di riparo. Quindi, nel

momento in cui l’altezza dell’albero

supera un determinato livello, la corteccia

non viene più danneggiata ma gli alberi

vengono considerati come degli utili ripari

per la sicurezza del cervo rosso.

1999RS=0,44, n=34, p<0,05

Mean height 1.5m

0

5

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30

35

40

1,2 1,4 1,6 1,8 2 2,2Tree height

Deb

arki

ng(%

)

1999RS=0,44, n=34, p<0,05

Mean height 1.5m

0

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1,2 1,4 1,6 1,8 2 2,2Tree height

Deb

arki

ng(%

)2000

RS=0,20, n=35, p>0,05Mean height 1.8m

0

5

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20

25

1 1,5 2 2,5 3Tree height

Deb

arki

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)2000

RS=0,20, n=35, p>0,05Mean height 1.8m

0

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25

1 1,5 2 2,5 3Tree height

Deb

arki

ng(%

)

Figura 99: Relazione tra altezza degli alberi e intensità dei danni da scortecciamento nelle

foreste a rinnovazione naturale

102

Per quanto riguarda le implicazioni

relative alla gestione forestale, la

rigenerazione naturale deve essere

sostenuta e promossa il più possibile,

vista l’intensità dello scortecciamento e la

totale assenza di differenze tra le zone

rivegetate artificialmente e quelle no.

Quello che si è potuto verificare è però

come certe “attività” naturali siano più

intense nelle zone a rinnovamento

naturale, rispetto a quelle dove il

rimboschimento è stato effettuato

dall’uomo.

Inoltre, questo sarebbe il modo più

economico per proteggere le foreste dallo

scortecciamento, in quanto non c’è

bisogno di usare strutture artificiali, né di

creare dei ripari artificiali, perché con la

rinnovazione naturale si forniscono sia il

cibo che il riparo per gli animali. Questo

significa che gli addetti alla gestione delle

aree boscate hanno un minore impegno

lavorativo, da questo punto di vista.

Bisogna seguire il flusso naturale delle

foreste.

Da un lato i cervi vengono considerati

come l’ostacolo principale allo sviluppo

della vegetazione forestale, ma

potrebbero essere invece usati proprio

per ridurre e prevenire i danni.

Unitamente a questo, bisogna

effettuare le operazioni di pulizia intorno

agli alberelli il più tardi possibile, in

maniera da poter sfruttare al massimo la

rinnovazione naturale per poi scegliere in

seguito quelle che sono le zone che

richiedono effettivamente una pulizia a

seconda della densità degli alberi. Quindi,

quando la foresta è molto giovane,

bisogna sì effettuare qualche operazione

di pulizia, togliendo alcuni individui, ma

senza eccedere: ritardando un po’ il

diradamento avremo la possibilità di

avere più alberi che ci consentiranno le

attività successive, perché solo con un

certo numero di piante che effettivamente

siano soggette allo scortecciamento

riusciremo ad avere un’azione più

efficace in futuro, limitandoci a rimuovere

solo gli alberi soggetti a scortecciamento

e la cui qualità potrebbe essere inferiore

e, quindi, influenzare negativamente le

attività successive.

Inoltre, la percentuale degli alberi

protetti dallo scortecciamento dovrebbe

essere aumentata insieme ad un

aumento dell’altezza degli impianti, ma

solo fino ad un massimo di 180 cm,

cercando il più possibile, quindi, di

mantenere un livello di protezione.

Nella foto 100 si vede un esempio di

come possiamo proteggere gli alberi dallo

scortecciamento: è possibile utilizzare dei

ripari plastificati installati direttamente

sulle piante (sono protezioni piuttosto

flessibili, quindi si adattano allo sviluppo

dell’albero).

103

Figura 100: Sistema di protezione degli alberi

dallo scortecciamento

In Polonia sta diventando sempre più

comune l’adozione delle recinzioni (foto

101); inizialmente, nel primo anno,

l’utilizzo delle recinzioni a scapito dei

dissuasori olfattivi potrebbe risultare un

po’ più costoso, ma dopo il primo anno si

può dire che si ammortizzano perché

rimangono solo i costi di manutenzione.

Figura 101: Recinzioni

Infatti, rispetto ad altre forme di

protezione che devono essere rinnovate

sistematicamente (ad esempio i

dissuasori olfattivi), con le recinzioni si ha

una protezione più costante e più

efficace; ecco perché l’adozione di

recinzioni, soprattutto in Polonia, è

diventata sempre più comune.

Ritengo che abbia avuto degli effetti

abbastanza positivi, ma solo in alcune

zone. Ad esempio, nella Polonia del nord

alcuni anni fa si è verificata una tempesta

molto forte che ha colpito una zona

boscata di valore notevole e diversi ettari

di territorio sono stati distrutti; in

quell’area si è deciso di utilizzare la

recinzione anche se, a mio parere, in

questo caso non era molto utile, perché

non c’erano molti impianti e la zona era

troppo grande per poter installare una

recinzione così vasta. Quindi anche

l’utilizzo della recinzione richiede il giusto

studio.

Nelle foto 102 e 103 vediamo altri

strumenti per la protezione degli impianti,

soprattutto per le specie a crescita lenta,

come le spirali, che possono essere

utilizzate a protezione delle piantine. Altre

protezioni possono essere invece

applicate a specie che crescono più

velocemente. Questi strumenti non

richiedono ulteriori interventi perché si

decompongono naturalmente.

104

Figure 102-103: Sistemi di protezione degli alberi

dal brucamento

105

Le esperienze di prevenzione dei danni causati da ungulati e da avifauna

Lorenzo Galardi

ARSIA (Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione del settore Agricolo-

forestale della Regione Toscana)

Buona sera a tutti. Innanzitutto vorrei

ringraziare la Regione Piemonte per

l’invito che mi ha rivolto.

Nel mio intervento introdurrò

l’argomento cercando anche di mettere a

fuoco il ruolo dell’ARSIA, l’Agenzia

regionale che in Toscana si occupa del

settore agricolo-forestale, dopo di che vi

illustrerò due esperienze che abbiamo

realizzato nella nostra Regione,

riguardanti la prevenzione dei danni

causati da fauna selvatica, una nei

confronti della fauna ungulata e l’altra

relativa ai danni arrecati da avifauna.

È necessaria una piccola premessa:

quando si vengono ad avere delle

interazioni tra insediamenti antropici e

popolazioni animali non si possono non

venire a creare delle situazioni particolari,

che possono essere sia situazioni di

vantaggio, sia di svantaggio, chiaramente

da un punto di vista antropocentrico.

Comunque sia, si possono avere delle

situazioni sinergiche che si vengono a

creare che in questa sede sono quelle

che ci interessano meno, e d’altro canto

invece possiamo avere delle situazioni di

competizione, che saranno prese

maggiormente in considerazione

nell’intervento.

Entrando un po’ più nello specifico, mi

occuperò in particolar modo del danno

“classico”, ovvero il danno arrecato alle

colture agro-forestali; infatti, quando si

parla di danni, questi possono essere di

vario genere e si possono venire a creare

delle situazioni di conflitto in ben altri

contesti, non ultimo quello che riguarda il

traffico stradale.

È necessaria una premessa; mi

riallaccio a quanto è stato detto negli

interventi che mi hanno preceduto sui

danni che deve sostenere in termini di

risarcimento la Regione Piemonte,

riportando in figura 104 i dati per dare

un’idea dell’ordine di grandezza dello

sforzo economico che la Regione

Toscana deve sostenere in termini

monetari per la rifusione dei danni: siamo

sull’ordine annuale dei 3,5-4,0 milioni di

euro, ed è una voce ad alta incidenza sul

bilancio.

Quindi, a fronte di questo quadro che

comunque risulta avere una certa criticità,

106

si è in qualche modo attivata una

sensibilità politica da parte dell’istituzione

in cui mi trovo ad operare e, in questo

senso, sono state attuate delle iniziative,

volte sia a collaudare che a trasferire

delle soluzioni innovative, che è un po’ la

funzione principale dell’ARSIA.

Non entro nel merito, ma sono state

attuate una serie di iniziative che hanno

preso in considerazione l’uso di repellenti,

di recinzioni elettrificate, ma anche altre

forme di dissuasione; ci siamo occupati

anche degli incidenti stradali.

Vorrei illustrare per sommi capi e in

estrema sintesi qual è la metodologia di

approccio progettuale che l’Agenzia

utilizza nell’affrontare una problematica.

Un primo step prevede l’individuazione di

esperienze significative a livello italiano,

europeo ed internazionale; una volta che

queste esperienze sono state individuate,

si contatta il soggetto depositario di

queste informazioni; dopo di che, quando

sono state acquisite, queste nuove

conoscenze vengono messe in pratica e

vengono collaudate in contesti ben

specifici; una volta avvenuta la fase di

collaudo (che chiaramente si spera sia

avvenuta in modo positivo), si passa al

trasferimento delle tecniche apprese e

validate, attraverso canali divulgativi che

possono essere di vario genere.

La prima esperienza, come già

accennato in precedenza, riguarda la

prevenzione ed il contenimento danni

mediante l’utilizzo di recinzioni

elettrificate, rivolte a mammiferi di una

certa dimensione, prevalentemente

ungulati. L’articolazione progettuale,

rifacendomi a quanto appena detto sul

modo di operare dell’Agenzia, prima di

tutto ha previsto l’individuazione di

esperienze significative a livello

internazionale, grazie alla quale è emerso

il ruolo molto importante dell’allora ONC-

Office National de la Chasse7, organismo

governativo francese che ha competenze

in merito alla gestione faunistica. C’è

stato quindi un contatto approfondito con

questo Ente, dopo di che abbiamo

valutato l’adattabilità delle tecniche

francesi alle realtà toscane. Infine, siamo

passati all’ultima fase e abbiamo

trasferito le conoscenze acquisite,

7 Office national de la chasse et de la faune sauvage (ONCFS) - http://www.oncfs.gouv.fr/

0

500000

1000000

1500000

2000000

2500000

3000000

3500000

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2001 2002 2003 2004

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500000

1000000

1500000

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3000000

3500000

4000000

2001 2002 2003 2004

Figura 104: Prevenzione danni su colture

agro-forestali – La rifusione danni è una voce

altamente incidente sul bilancio della

Regione Toscana.

107

attraverso due pubblicazioni8, che sono

disponibili presso l’ARSIA.

In questa prima esperienza abbiamo

utilizzato delle recinzioni elettriche per

contenere prevalentemente ungulati e in

particolare il cinghiale, che hanno ripreso

esattamente quanto sperimentato

dall’ONC negli ultimi trent’anni, quindi con

una cognizione molto approfondita della

problematica. Gli elementi che

compongono una recinzione elettrificata

sono un elettrificatore, dei picchetti che

servono a sostenere tutto il sistema, degli

isolatori attraverso i quali passa un

conduttore ed infine il conduttore stesso.

Gli elettrificatori utilizzati nella nostra

esperienza sono di tre tipologie, che sono

quelle classiche reperibili in commercio: a

corrente, cioè alimentati dalla rete (a

220V), ad accumulatore a batterie

ricaricabili (a 12V) e poi a pila (a 9V);

hanno delle caratteristiche abbastanza

diverse e consentono di elettrificare delle

distanze molto variabili. Gli elettrificatori a

pila sono i meno potenti e solitamente

vengono utilizzati per una difesa

parcellare; ad esempio, il piccolo

imprenditore agricolo che ha una vigna di

ridotte dimensioni di solito ricorre alla pila;

diversamente, se si deve fare un fronte di

8 “I danni causati dal cinghiale e dagli altri ungulati alle colture agricole. Stima e prevenzione” – Quaderno ARSIA 5/99 “La prevenzione dei danni alle colture da fauna selvatica. Gli ungulati metodi ed esperienze” - Santilli F. [et al.] - Libro ARSIA 16 - 2002

svariati chilometri, ad esempio per

separare una zona boscosa da una

agricola, si utilizzerà l’elettrificatore a

corrente, che eroga una potenza molto

più elevata. Molto spesso accade che si

scelga un elettrificatore sbagliato per un

determinato caso: spesso esiste una

certa disinformazione anche da parte dei

venditori che consigliano determinati

apparecchi per il contenimento della

fauna selvatica; in effetti la fauna

selvatica, e in particolare gli ungulati,

richiedono solitamente delle potenze

(ovvero i Watt che l’apparecchio può

erogare) molto più elevate rispetto alla

fauna domestica: di solito, gli elettrificatori

che si usano per il contenimento di un

bovino sono 10 volte meno potenti

rispetto a quelle che si dovrebbero usare

per il contenimento di un cervo o di un

cinghiale. L’efficacia dell’apparecchio si

può desumere non tanto dal voltaggio,

cioè dalla tensione che viene erogata

(infatti è possibile trovare elettrificatori

che arrivano a tensioni di 10.000V in

cresta), quanto piuttosto dal wattaggio; è

infatti più difficile trovare degli

elettrificatori che eroghino potenze

superiori ai 3-4 Watt, che sarebbero quelli

di solito necessari per contenere un

animale quale il cinghiale o il cervo.

L’effetto dolore che viene provocato

sull’animale non è legato alla tensione ma

alla potenza, che si esprime in Watt.

108

Gli interventi che abbiamo realizzato

hanno previsto l’installazione di recinzioni

in cinque ATC9 toscani, scelti in modo

che rappresentassero tutte le realtà della

Regione; infatti abbiamo ATC che si

affacciano sul mare, quindi caratterizzati

da un clima mediterraneo come quello

dell’Alta Maremma (Grosseto6), oppure

nella zona del Parco nazionale delle

Foreste Casentinesi come nel caso

dell’ATC Arezzo1, o ancora nella zona

del Chianti dove abbiamo l’ATC Firenze5;

abbiamo quindi uno spaccato di tutte le

realtà ambientali toscane. All’inizio

dell’esperienza sono state realizzate ben

126 recinzioni per un totale di copertura

di oltre 150 km. Sono state protette

colture di vario genere, colture erbacee

autunno-vernine e primaverili-estive, ma

anche in alcuni casi colture arboree

specializzate. L’installazione e la

manutenzione sono state approntate in

varie forme, ma solitamente si sono

instaurate delle collaborazioni tra gli

agricoltori e i cacciatori, cosa peraltro non

facile. C’è stata una supervisione e un

monitoraggio continui da parte dei tecnici

dell’ARSIA e una strategica opera di

sensibilizzazione che è stata avviata

attraverso degli incontri tra agricoltori,

cacciatori e comitati degli ATC.

L’ATC Arezzo1, come accennato in

precedenza, è un ATC montano e,

9 ATC: Ambito Territoriale di Caccia

quando sono iniziate le esperienze nel

2000, era un caso particolare, perché tra

le colture tutelate classiche, quali vigna,

frumento, girasole e mais, avevamo

anche degli alberi di Natale che erano

brucati e danneggiati in particolare dal

cervo; in questo caso è stata installata

una recinzione un po’ particolare rispetto

a quelle canoniche che si vedono per il

cinghiale, in quanto si tratta di una

recinzione molto più alta, su cinque fili, ed

è stata riscontrata una riduzione del

100%. Negli altri casi, frumento, uva,

girasole, abbiamo avuto quasi sempre

ottimi risultati; abbiamo avuto un po’ di

problemi sul mais, in cui la riduzione dei

danni è stata solo del 53%.

L’ATC Firenze5 si colloca nella zona

meridionale della Provincia di Firenze,

quindi il Chianti fiorentino, e capite bene

che è una zona che ha un’importanza

notevole per quanto riguarda l’impatto

che il cinghiale può creare. Qui sono

state realizzate soltanto tre recinzioni e

abbiamo avuto una riduzione di danno

sull’uva del 75%.

L’ATC Grosseto6, che corrisponde

all’Alta Maremma, ha installato 93

recinzioni per 102 km complessivi,

andando a tutelare una serie variegata di

colture; in particolare, nel caso del

vigneto abbiamo ottenuto una riduzione

del 94%.

109

Nell’ATC Pisa14 sono state create

solamente 4 recinzioni, ma sono state

monitorate in modo particolarmente

valido e i risultati che abbiamo ottenuto

sono stati lusinghieri, in quanto abbiamo

avuto una riduzione del 100% sia sul

mais, sia sul girasole, sia sul frumento.

Un ultimo caso, quello dell’ATC

Siena19, che è l’appendice meridionale

della Provincia di Siena e quindi della

Toscana, e che confina con la Provincia

di Viterbo e quindi con il Lazio, è un caso

particolare perché non sono state

realizzate parcelle come negli altri ATC

ma è stata realizzata una sorta di “Linea

Maginot”, di addirittura 16,8 km, che

mirava a interrompere il flusso di cinghiali

che da un Parco della Provincia di Viterbo

tutte le notti si riversavano nei seminativi

della Provincia di Siena, nella Valle del

Paglia. Qui abbiamo avuto una riduzione

(si tratta di un dato aggregato) del 95%

dei danni.

I dati citati relativi alla riduzione dei

danni negli ATC oggetto di studio non

hanno valore scientifico, da un certo

punto di vista, perché non sono stati

elaborati statisticamente, infatti non

c’erano i presupposti per poterlo fare,

però un’indicazione di massima sulla

validità delle recinzioni elettriche penso

che comunque si possa far emergere.

Le conclusioni che abbiamo tratto da

questa prima esperienza sono che si

vede, da tutto ciò, che non si può

disconoscere un’adattabilità delle

recinzioni elettriche agli ambienti più

disparati ed eterogenei. Sicuramente

l’applicazione di queste metodiche ha

un’importanza strategica anche a livello

sociale ed economico, andando ad

attenuare delle tensioni e dei conflitti che

spesso e volentieri si vengono ad

instaurare tra il mondo agricolo e il

mondo venatorio. Se ben realizzata,

quindi se ben costituita in partenza nei

suoi singoli elementi, se monitorata

costantemente e calata in un contesto

oggetto di gestione, una recinzione

elettrica può determinare una riduzione

drastica del danno fino all’azzeramento.

Sarebbe presuntuoso demandare alla

sola attività di contenimento con la

recinzione elettrica gli esiti di una

gestione complessiva; infatti la mia idea,

e non penso di essere il solo a pensarla

così, è che la prevenzione non è e non

può essere considerata uno strumento

sostitutivo di un’attività gestionale

complessiva ma bensì un efficace

elemento su cui questa si può basare e

può essere una componente di una serie

di interventi necessari ad un approccio

“olistico” alla problematica.

La seconda esperienza riguarda

invece la prevenzione dei danni provocati

110

da avifauna. È stato appunto avviato un

progetto in collaborazione tra l’ARSIA e il

Parco di Migliarino- S. Rossore-

Massaciuccoli che si trova nella zona

costiera delle Province di Pisa e Livorno.

Come è possibile vedere nel grafico in

figura 105, i danni da avifauna hanno una

certa incisività sul bilancio della Regione

Toscana essendo pari al 21% in media

negli ultimi anni. Quindi è una

problematica che ha un suo peso e per

questo ha innescato una certa percettività

da parte delle istituzioni, tant’è che è

stata attivata anche nei confronti

dell’avifauna, come in quelli degli

ungulati, una serie di iniziative.

Anche in questo caso il modo di

lavorare dell’Agenzia è stato lo stesso già

enunciato in precedenza.

Il primo punto quindi è stato quello

dell’individuazione delle esperienze più

significative e in questo caso è stata

considerata una sperimentazione

abbastanza particolare, realizzata in

Inghilterra, relativa ad un pallone (foto

106).

Il collaudo è avvenuto nel Parco

regionale della Tenuta presidenziale di S.

Rossore, oggi in gestione alla Regione

Toscana.

Cervidi ed altri ungulati14%

Lepre2%Nutria

1%

Indeterm.3%

Istrice2%

Cinghiale57%

Avifauna21%

Cervidi ed altri ungulati14%

Cervidi ed altri ungulati14%

Lepre2%

Lepre2%Nutria

1%

Indeterm.3%

Istrice2%

Istrice2%

Cinghiale57%

Cinghiale57%

Avifauna21%

Avifauna21%

Figura 105: Suddivisione percentuale

dell’incisività dei danni da fauna sul bilancio della

Regione Toscana

Figura 106: Helikite, pallone testato in Inghilterra

per la prevenzione dei danni da avifauna

A ciò è seguita la redazione di un

quaderno divulgativo10 inerente

quest’esperienza.

Questo pallone è stato testato in

Inghilterra ma da qualche anno trova

ampia diffusione anche negli Stati uniti e

viene chiamato helikite, dove heli sta per 10 Un nuovo metodo ecologico per la prevenzione dei danni da uccelli alle colture agricole - F. Santilli [et alt.] - Quaderno ARSIA 4 - 2004

111

helium, in quanto è un pallone gonfiato a

elio, e kite sta per aquilone. È un pallone

di mylar, con un diametro di circa 70 cm,

dotato di una vela stabilizzatrice che gli

consente, essendo gonfiato a elio, di

volare fino a una certa altezza, di solito

con un volo utile fino a 60 m che è meglio

non superare, e non essendo stabilizzato,

ma fluttuante in continuazione a seconda

delle brezze e delle correnti ascensionali,

difficilmente può indurre assuefazione

sulle popolazioni ornitiche, in quanto non

riescono ad abituarsi a questa presenza,

variando in continuazione il suo

dinamismo.

La Tenuta presidenziale di S. Rossore

è di 4.800 ha, di cui 3.000 ha a bosco e

ben 1.800 ha a seminativo; è oggetto di

danneggiamenti alle colture agronomiche

ma anche alla rinnovazione forestale,

soprattutto da parte di ungulati, ma anche

molto da parte delle popolazioni ornitiche;

in particolar modo la nostra esperienza

ha testato questo helikite nei confronti di

una popolazione svernante di

colombaccio, che nella zona è molto

numeroso in inverno perché l’habitat è

eccezionale, da un certo punto di vista, e

anche climaticamente è una zona molto

mite e per questo è ben frequentata da

tanti migratori svernanti.

Sono stati individuati due

appezzamenti, distanti tra loro 700 m, di

circa 20 ha l’uno e in uno sono stati

collocati due palloni, nell’altro invece non

è stato collocato nulla, in quanto utilizzato

come appezzamento testimone. La zona

in cui sono collocati i due campi

sperimentali, notoriamente e da molti anni

è frequentata da stormi di colombacci con

migliaia di esemplari. È stata eseguita la

semina di orzo, anche se in un periodo

anomalo, ovvero ai primi di febbraio, in

quanto lo scopo non erano prove di tipo

agronomico ma si voleva verificare

l’efficacia del pallone. Una volta collocati i

due palloni c’è stata la scomparsa degli

stormi di colombaccio. Nella cartina in

figura 107 si può vedere indicato in rosso

il posizionamento degli helikite

nell’appezzamento verde, mentre in blu

l’appezzamento di controllo: dal momento

di posizionamento dei palloni, il numero

dei colombacci si è azzerato e sono

riapparsi solo alla fine del periodo di

studio con valori minimi.

112

Figura 107: Cartina con l’indicazione

dell’appezzamento con helikite e

dell’appezzamento di controllo

Riassumendo, abbiamo monitorato

una fase preliminare in cui abbiamo

rilevato una presenza di colombacci

simile nei due appezzamenti, dopo di

che, in una fase di post-collocamento dei

palloni, abbiamo notato un immediato

allontanamento degli animali per almeno

25 giorni. Nei 30 giorni totali di studio vi è

stata una presenza media di 2,2 individui

nell’appezzamento con helikite, a fronte

di 500,8 individui in media

nell’appezzamento di controllo.

È stato importante anche stimare la

distanza di fuga degli animali, ovvero la

distanza a cui si tenevano gli animali nei

confronti del pallone, perché questo ci da

un’idea dell’efficacia dello strumento in

termini di raggio d’azione.

La superficie protetta è legata

chiaramente all’etologia della specie

(questo lo sappiamo a livello di

bibliografia) però abbiamo visto che in

particolare sul colombaccio l’area protetta

può andare, per un singolo pallone, dai 7

ai 10 ha.

Questo sistema di prevenzione dei

danni è economicamente competitivo, in

quanto un pallone costa più di 100

sterline, ma al costo unitario si

contrappone un’elevata superficie

protetta, a differenza, ad esempio, di

palloni predator che sono stati testati ed è

risultata la necessità di 7-10 fino anche a

15 palloni all’ettaro.

Ci sono anche degli inconvenienti,

purtroppo, nell’uso dell’helikite: non può

essere utilizzato su aree coperte da

vegetazione arborea o arbustiva, o dove

passano delle linee elettriche, ma

occorrono aree libere, come appunto un

terreno appena seminato. Venti superiori

ai 32 km/ora o pioggia o basse

temperature fanno sì che il pallone non si

alzi e quindi questo può costituire un

problema. Tendono a sgonfiarsi e quindi

ogni 7-10 giorni solitamente occorre

intervenire e rigonfiarli. Le bombole di elio

non sono molto semplici da reperire, sono

113

pesanti ed il trasporto può generare

qualche problema a livello legale. Infine, i

palloni possono essere oggetto di

danneggiamenti e furti, ma questo fa

parte degli inconvenienti di un po’ tutti gli

strumenti e apparecchi che vengono

utilizzati.

Vi ringrazio per l’attenzione.

114

I sistemi di contenimento delle popolazioni di nutrie Roberto Cocchi

INFS (Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica)

Ringrazio la Regione Piemonte e

l’Osservatorio faunistico per l’opportunità

che mi offre di illustrare il quadro della

situazione per quanto riguarda la

gestione della nutria, con particolare

riferimento agli aspetti legati alle misure

volte alla limitazione dei danni arrecati dal

roditore.

La nutria (Myocastor coypus) è un

roditore d’origine centro-americana che è

stato introdotto in diversi Paesi

sostanzialmente per finalità commerciali

(produzione di pellicce). In Italia

l’allevamento per la pelliccia (il cosiddetto

castorino) ha conosciuto una vasta e

capillare diffusione soprattutto negli anni

‘70 ed ’80. Diverse aziende agrarie

allevavano stock più o meno numerosi di

nutrie. La diffusione di questi nuclei

allevati è stata estremamente vasta sul

territorio italiano. Questo è proseguito fino

a che, la perdita d’interesse commerciale

per la produzione di pellicce ha costretto

alla progressiva dismissione degli

allevamenti, con relativa liberazione dei

soggetti in natura. Questi sono stati i

precursori di altrettanti nuclei naturali ed

auto riproduttivi che via via hanno dato

luogo a popolazioni sempre più estese e

numerose, diffuse su ampie porzioni del

territorio italiano.

Nella cartina in figura 108 è illustrato

l’areale di distribuzione della specie

aggiornato all’anno 1999. Esso si articola

in due macro aree continue che coprono,

la prima, la Pianura Padana e la fascia

alto e medio adriatica e, la seconda, la

dorsale tirrenica dalla Liguria sino al

Lazio. Vi sono poi una varietà di nuclei di

dimensione sostanzialmente inferiore

ubicati in Italia centrale, sulle isole

maggiori e in comprensori prealpini.

Molteplici sono le ragioni del successo

che la specie ha conosciuto in Italia, così

come in diversi altri Paesi d’introduzione,

ad iniziare da un potenziale biotico di

prim’ordine: la dimensione media delle

Figura 108: Distribuzione della

nutria in Italia (1999)

115

figliate si aggira intorno alle cinque unità

e l’età di conseguimento della maturità

sessuale è precoce (sei mesi per i

maschi). Inoltre vi è una capacità

d’adattamento a tipologie ambientali che

trovano ampia diffusione (residui ambienti

naturali di zone umide e aree artificiali ad

agricoltura intensiva provviste di una rete

di canali irrigui e di bonifica). Vanno

considerati inoltre altri due elementi che

hanno contribuito non poco a determinare

lo status attuale del roditore: l’iniziale

capillare diffusione artificiale che la

specie ha conosciuto e la tardiva presa di

coscienza del problema da parte degli

organismi competenti.

Le tipologie di conflitti ascrivibili alla

nutria sono diverse. Anzitutto va

menzionato il rischio di riduzione della

biodiversità causato dalla presenza di

una specie alloctona e come tale

potenziale elemento di alterazione

strutturale delle biocenosi locali in cui è

stata introdotta. Non a caso la nutria è

inserita nell’elenco IUCN delle 100 specie

invasive più pericolose a livello globale11.

Anche in Italia si assiste a prelievi a

scopo alimentare attuati dal roditore su

vegetazione acquatica naturale o semi-

naturale con alterazione della struttura e

della distribuzione di alcune comunità 11 "100 de las Especies Exóticas Invasoras más dañinas del mundo. Una selección del Global Invasive Species Database”, Lowe S., Browne M., Boudjelas S., De Poorter M., Noviembre 2004. Sito web: www.issg.org/bookletS.pdf

biotiche, nonché su uccelli acquatici con

distruzione dei nidi e predazione delle

uova. Sono stati documentati episodi a

carico di popolazioni di Mignattino

piombato, Svasso maggiore e Tuffetto.

Altro conflitto ascrivibile alla nutria è

quello inerente gli asporti di produzioni

agricole ubicate in prossimità di corsi

d’acqua. Le coltivazioni maggiormente

attaccate sono barbabietola da zucchero,

granoturco, riso ed ortaggi. Per

fronteggiare questi danni economici le

Amministrazioni locali delegate alla

gestione faunistica sono chiamate a

rispondere ad un crescente numero di

richieste d’intervento.

Infine vi sono i problemi di natura

idraulica dovuti allo scavo di gallerie e

tane operato dalle nutrie sia su sponde di

corsi d’acqua naturali (fiumi), sia su

arginature pensili (fuori terra) di canali

irrigui. Quando le tane sono concentrate

e numerose vi è il rischio di

collassamento delle banchine, con

conseguente esondazione, in occasione

di ondate di piena.

Si ipotizza anche un possibile

problema di natura sanitaria legato al

rinvenimento, su una percentuale di

individui, di anticorpi di Leptospira che,

come noto, è una zoonosi. In realtà studi

condotti al riguardo non hanno consentito

di isolare Leptospira per cui la nutria è

116

considerata solamente un veicolatore

secondario della patologia che si diffonde

attraverso le urine e quindi l’acqua, alla

stregua di altri roditori che frequentano gli

stessi ambienti (ratti in particolare).

In comprensori dove la nutria conosce

densità particolarmente elevate, può

rappresentare un pericolo per la viabilità

stradale; ci sono segnalazioni di

ribaltamento di mezzi agricoli a seguito

del passaggio su sentieri “minati” dalle

sottostanti tane di nutria.

Con l’aiuto delle immagini dalla 109

alla 111 passiamo in rassegna le tipologie

ambientali dove si verificano più

frequentemente i problemi. Nell’ordine:

zone umide naturali di dimensioni più o

meno estese dove la problematicità è

rappresentata dal possibile impatto sulle

biocenosi locali.

Ci sono poi le perforazioni ripetute e

concentrate di canali irrigui interrati di

portata limitata e quelle inerenti canali di

primaria portata con arginature pensili.

Infine gli alvei fluviali possono essere

interessati da situazioni a rischio in

presenza di perforazioni di tane e gallerie

operate anche da nutrie.

La nutria è specie naturalizzata vivente

in stato di libertà sul territorio italiano e

come tale considerata fauna selvatica ai

sensi dell’art. 2 della Legge nazionale n.

157/92. Questo status giuridico consente

Figura 110: Perforazioni ripetute su

canali interrati di portata limitata

Figura 111: Collassamento di una

porzione di scarpata

Figura 109: Zone umide naturali: impatto

sulle biocenosi locali

117

la possibilità di applicare anche alla nutria

gli strumenti previsti dagli articoli 19 e 26

della suddetta Legge relativi al controllo

numerico di popolazioni di fauna selvatica

omeoterma che arrecano danni. In

generale gli strumenti previsti dalla norma

per la limitazione dei danni sono: la

prevenzione mediante impiego di efficaci

misure incruente, il controllo numerico

cruento ed il risarcimento monetario dei

danni.

L’adozione di efficaci misure di

prevenzione dei danni volte ad anticipare

il verificarsi dell’evento dannoso deve

rivestire un ruolo prioritario nell’ambito di

una corretta strategia di gestione della

problematica. Purtroppo non sempre è

possibile individuare azioni dotate di un

buon rapporto costi/benefici. E’ evidente

che misure preventive con costi unitari

superiori rispetto al danno che intendono

escludere o con efficacia scarsa non

possono essere prese in considerazione.

Su questo tema credo ci sia molto da fare

anche per quanto riguarda la necessaria

validazione delle tecniche condotte

attraverso una rigorosa sperimentazione

in campo.

Un’azione di prevenzione dei danni

agricoli cagionati da nutria prevede il

ricorso all’impiego di un filo elettrificato

posto a circa 15 cm da terra con cui

perimetrare le colture passibili di asporto.

Il limite di questa misura è che non può,

per ovvie ragioni, essere adottata

ovunque e quindi ancora una volta andrà

impiegata con raziocinio privilegiando le

situazioni suscettibili di maggior danno

(colture di pregio).

Una tecnica di prevenzione utilmente

impiegabile per limitare il danno idraulico

causato dalle perforazioni da nutria

consiste nella protezione fisica delle

arginature mediante sistemi meccanici. In

realtà da tempo nel settore idraulico si

opera in questo senso; si pensi ai

“primitivi” sistemi di protezione delle

sponde arginali con palizzate in legno

oppure alla più “moderna”

cementificazione delle stesse. In tempi

più recenti sono state messe a punto

tecniche sicuramente impattanti sotto il

profilo ecologico garantendo, nel

contempo, un elevato grado d’efficienza.

Si tratta di operare una preventiva

riprofilatura della sezione delle arginature

e di stendere poi una rete metallica di

maglia adeguata con funzione anti-

intrusiva opportunamente ancorata in

punta ed al piede. Questi si configurano

come interventi risolutivi in virtù della loro

ampia durata temporale. Tuttavia si tratta

ancora d’azioni isolate e puntiformi e ciò

a causa principalmente dei costi che sono

piuttosto elevati. La protezione

meccanica delle arginature sta comunque

conoscendo un certo impulso negli ultimi

anni soprattutto nel contesto di situazioni

118

di canali irrigui di primaria portata con

arginature pensili. Qui il ricorso a misure

di prevenzione mediante adozione

d’efficaci interventi può profilarsi come

intervento vincente anche sotto il profilo

economico, se solo lo si confronta con i

costi di ripristino relativi ai non rari eventi

calamitosi di esondazione di corsi

d’acqua.

Una sperimentazione da noi condotta

riguardante l’impiego di reti metalliche

sulle arginature di un canale interrato ha

consentito di apprezzare la

rinaturalizzazione spontanea delle

sponde da parte di vegetazione erbacea

successivamente all’ultimazione della

posa della rete. Nella successiva

stagione estiva abbiamo avuto modo di

osservare la presenza anche di

vegetazione naturale flottante

(Ceratophyllum).

Un’applicazione che sta riscuotendo un

certo interesse è quella della cosiddetta

“ingegneria naturalistica”. Sul tema

specifico della protezione di sponde di

canali viene proposto l’impiego di

soluzioni ibride d’intervento che

contemplano l’accostamento di materiale

protettivo inerte (rete) ad una parte viva

(vegetazione erbacea, arbustiva e

arborea) con valenza riqualificante dal

punto di vista ecologico e paesaggistico.

Per quanto riguarda il controllo

numerico (rimozione) della nutria attuato

sul territorio italiano ai sensi dell’art. 19

della legge n. 157/92, il grafico in figura

112 riporta i quantitativi annui riferiti al

periodo 1995-2000 durante il quale l’INFS

ha condotto un’indagine conoscitiva

mirata a quantificare i costi della gestione

Trappola

0

10.000

20.000

30.000

40.000

50.000

60.000

70.000

1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001

46% 54%

TOT: 220 688

Sparo

0

10.000

20.000

30.000

40.000

50.000

60.000

70.000

1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001

70.000Totale

Trappola

0

10.000

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70.000

1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001

46% 54%

TOT: 220 688

Sparo

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1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001

70.000TotaleTotale

Figura 112: Nutrie rimosse nel periodo 1995-2000

119

della nutria in Italia. Nel nostro Paese le

nutrie vengono rimosse con tecniche

selettive ed efficaci. Nel 54% dei casi

indagati le Amministrazioni delegate

hanno impiegato specifiche gabbie-

trappola; nei restanti casi si è fatto ricorso

all’abbattimento con arma da fuoco da

parte di personale incaricato nell’ambito

di piani di controllo numerico predisposti,

gestiti e controllati dalle Amministrazioni

competenti.

A fronte della conduzione di queste

azioni, la dinamica dei danni agricoli solo

in rari casi denota una chiara inversione

di tendenza. In realtà il dato complessivo

riferito all’ambito nazionale evidenzia

come i danni continuino a crescere

nonostante lo sforzo profuso. Questo

potrebbe dipendere da una serie di fattori,

tra i quali il sotto dimensionamento dello

sforzo esercitato che probabilmente non

è in grado di incidere in misura

apprezzabile sulla consistenza e sulla

distribuzione della nutria. Da questo

punto di vista, anche il ritardo con cui gli

interventi di rimozione fisica hanno avuto

inizio gioca un ruolo non secondario.

La situazione evidenziata dai dati

esposti sembra quella di Amministrazioni

che operano interventi di contenimento

numerico della nutria sulla spinta di

crescenti pressioni sociali ma che solo

raramente riescono ad ottenere risultati

concreti (contenimento dei danni). D’altra

parte va detto che, considerato lo status

attuale della specie, l’obiettivo dichiarato

è tutt’altro che banale: si tratta di operare,

in ambiti territoriali spesso neanche tanto

0

500.000

1.000.000

1.500.000

2.000.000

2.500.000

3.000.000

3.500.000

4.000.000

1995 1996 1997 1998 1999 2000

TotaleCosti

Ripristinoarginature

Controllonumerico

Indennizzodanni agricoli0

500.000

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2.500.000

3.000.000

3.500.000

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1995 1996 1997 1998 1999 2000

TotaleCosti

Ripristinoarginature

Controllonumerico

Indennizzodanni agricoli

Figura 113: Costi di gestione della nutria

120

limitati, uno sforzo di rimozione superiore

all’incremento utile annuo delle

popolazioni.

L’indagine INFS ha inteso quantificare

anche il costo della gestione della nutria

in Italia. Nel grafico in figura 113 è

riportata la dinamica delle tre tipologie di

costo in cui è stata frazionata la spesa di

gestione del roditore (indennizzo,

controllo numerico e ripristino arginature).

Questi dati derivano da interviste

condotte presso tutti i principali referenti

nazionali in tema di gestione faunistica ed

idraulica (Regioni, Province, Consorzi di

bonifica, Magistrati delle acque). I costi

totali evidenziano una crescita quasi

esponenziale nel periodo indagato dovuta

soprattutto alle spese di ripristino di

arginature idrauliche. Questa voce di

spesa rappresenta l’entità di gran lunga

più importante rispetto alle altre

costituendo il 75% del totale. I costi della

gestione idraulica vanno considerati

“conservativi” essendo stati esclusi dal

conteggio alcuni casi di importanti episodi

d’esondazione avvenuti nel periodo

d’indagine. Un dato di questo genere, da

un lato, contribuisce ad elevare

fortemente il costo “sociale” della nutria

collocandolo su valori monetari di gran

lunga superiori rispetto al mero costo di

indennizzo monetario e del controllo

numerico; dall’altra parte, probabilmente

per la prima volta in Italia, emerge

l’importanza del costo idraulico

determinato dalla nutria che, di norma,

non viene monitorato a livello di

competenze faunistiche (Uffici caccia).

L’efficacia delle azioni di controllo

numerico risulta estremamente variabile

in funzione di una serie di fattori. Oltre a

quelli più sopra accennati riconducibili

sostanzialmente alla dimensione dello

sforzo (quantità e qualità del personale e

degli strumenti impiegati), anche aspetti

ecologici ed idraulici giocano un ruolo non

trascurabile. A parità di sforzo profuso, si

è visto che in comprensori ove sussiste

un sostanziale isolamento idraulico si

assiste ad un più celere decremento

dell’indice di cattura (nutrie catturate per

100 notti trappola) a causa

presumibilmente di un meno rapido

reclutamento d’immigrati (lago Trasimeno

vs. Campotto). Analogamente può essere

interpretato il differente rapporto

sforzo/efficacia di interventi di controllo

numerico condotti in due ambienti della

Riserva Naturale Valenza (piccola zona

umida vs. canale). Nella zona umida è

stato possibile eradicare la nutria in sei

settimane. La ricolonizzazione del

territorio è stata scarsa. In questo

contesto si apprezza uno sforzo

contenuto e un’elevata efficacia

dell’intervento. In un canale irriguo

limitrofo all’area precedente si è invece

avuto un successo di trappolaggio

121

disomogeneo con una consistente e

rapida rioccupazione del territorio nel

corso dell’anno successivo da parte di

nutrie provenienti da aree adiacenti. Ciò

ha comportato uno sforzo elevato e

un’efficacia scarsa.

In realtà per le nutrie i canali e, più in

generale, i corsi d’acqua a lento deflusso

svolgono una fondamentale funzione

equiparabile a quella delle nostre

autostrade: vengono utilizzati come vie

primarie di spostamento, oltre che come

ambiti in cui intrattenere relazioni sociali

ed attività trofiche. Ciò significa che, a

parità di altri requisiti, le aree interessate

da una capillare rete di canalizzazione

offrono possibilità di uno spostamento più

celere da parte delle nutrie risultando, di

conseguenza, più difficile ridurre

stabilmente le consistenze numeriche del

roditore.

Ciò non significa che laddove le

arginature di canali e corsi d’acqua siano

interessati dallo scavo di gallerie da parte

delle nutrie non si possa fare ricorso ad

efficaci tecniche di protezione (reti).

Occorre tuttavia avere ben chiaro che

questi interventi impediscono la

perforazione ma non escludono la

possibilità di utilizzare i corsi d’acqua

quali vie di transito. Questo è uno dei

riscontri emersi a conclusione di un’altra

indagine condotta dall’INFS in Provincia

di Rovigo nel biennio 2002-2003 che ha

inteso saggiare le reazioni

comportamentali di un campione di nutrie

munite di radio collare, in una tratta

sperimentale di un canale sottoposto alla

stesura di una rete protettiva. I collari

sono stati installati, previa iniezione di

una sostanza ad azione anestetica,

nell’ambito di quattro sessioni di cattura,

marcaggio e ricattura. La tecnica ha

consentito di monitorare, ad un buon

livello di dettaglio, gli spostamenti degli

animali prima, durante e dopo la stesura

della recinzione secondo un determinato

protocollo di acquisizione dei fix. I dati

consentono di evidenziare situazioni

comportamentali piuttosto disomogenee

che spaziano da casi di individui che

hanno operato una rimozione immediata

e irreversibile dell’area frequentata

successivamente al collocamento della

rete, a casi invece dove si assiste ad una

sostanziale stabilità delle aree

frequentate dalle nutrie. Qui in realtà le

tane sono state spostate

successivamente al collocamento della

rete ma a distanze piuttosto limitate

(nell’ordine di alcune decine di metri) per

cui si ha una situazione di sostanziale

stabilità dell’area di riferimento degli

animali nonostante la stesura delle reti.

Sembra che aspetti demografici quali l’età

ed il ruolo sociale possano influenzare

questo tipo di scelte. In questo senso i

giovani sembrano più propensi a fare

122

spostamenti anche importanti, mentre i

soggetti adulti gerarchicamente dominanti

sono più inclini a stabilizzarsi in zone

poco disturbate. Purtroppo la limitatezza

del campione non consente di avere

conferme dal punto di vista statistico.

La rete metallica a doppia torsione a

maglia esagonale di 6x8 cm esercita

un’efficace azione anti-intrusiva sulle

arginature dei canali dove è stata

collocata e può prevenire il verificarsi di

rottura di arginature conseguenti a

pressioni idriche eccezionali. Non è

tuttavia in grado di esercitare un

impedimento al transito delle nutrie nelle

acque del canale trattato. Si è osservato

inoltre un trasferimento delle gallerie e

delle tane dai canali trattati ad altri

contigui posti anche a distanze ridotte. La

sola protezione delle arginature con rete

non rappresenta un efficace metodo di

contenimento numerico del roditore,

semmai uno strumento complementare al

controllo numerico.

E’ convincimento dell’Istituto Nazionale

per la Fauna Selvatica che una strategia

nazionale di gestione della nutria

dovrebbe contemplare obiettivi

diversificati in ragione dello status

distributivo della specie prevedendo, nei

comprensori dell’Italia centro-

settentrionale, dove l’areale è

sostanzialmente continuo, interventi di

limitazione numerica finalizzati a ridurre

gli impatti ecologici ed economici. Invece

nei siti interessati da localizzazioni ancora

puntiformi e di limitata estensione vale la

pena verificare la possibilità di condurre

azioni con finalità eradicativa, previa

redazione di piani di fattibilità. In entrambi

i contesti andrebbero altresì implementati

gli interventi di protezione idraulica delle

arginature di tratti di corsi d’acqua a

rischio mediante il posizionamento di

efficaci sistemi di prevenzione.

123

I danni al patrimonio forestale: monitoraggio e prevenzione Alberto Dotta

Consorzio Forestale Alta Valle Susa

Grazie a tutti.

Io lavoro in Alta Valle Susa; il

Consorzio Forestale è un ente di gestione

delle proprietà comunali e, ovviamente,

all’interno delle attività legate alla

gestione del patrimonio forestale, ci

siamo trovati a doverci interrogare su

quale fosse il rapporto tra ungulati e

foresta e soprattutto che aspetti potesse

avere la presenza degli ungulati in

rapporto ai modelli gestionali delle foreste

che noi applichiamo, alla selvicoltura e a

tutti gli aspetti che derivano dalla gestione

del patrimonio comunale. Questa

relazione dovrebbe affrontare questi

aspetti e potremmo partire da alcune

considerazioni di ordine storico, in quanto

l’Alta Valle Susa, che è situata nelle Alpi,

nella Provincia di Torino, è stata

caratterizzata, un po’ come tutte le vallate

alpine, da eventi storici che l’hanno

portata ad avere alla fine del 1800 un

patrimonio faunistico estremamente

povero, legato soprattutto alla presenza

del camoscio, mentre gli altri ungulati

erano presenti in misura estremamente

ridotta. Questo è stato un aspetto

importante che ha sicuramente colpito

anche i predatori. Nelle nostre vallate

alpine iniziamo il 1900 con un patrimonio

molto povero dal punto di vista della

fauna ungulata. Questo perché le vallate

alpine sono state intensamente abitate e

coltivate e tutte le attività legate al

pascolo e la competizione negativa per gli

ungulati selvatici con gli animali domestici

hanno sicuramente contribuito a

impoverire notevolmente il panorama

faunistico.

Rispetto a questa situazione, oggi ci

troviamo in condizioni estremamente

diverse per quanto riguarda il contesto

socio-economico: l’uomo, pur essendo

numericamente presente allo stesso

modo, è localizzato in altre zone e ha

interessi economici diversi che ricadono

ormai marginalmente sull’agricoltura e

sulla selvicoltura, che sono

completamente diverse rispetto al

passato. Di conseguenza anche il

patrimonio faunistico è cambiato. Gli

animali domestici stanno diminuendo,

magari non come numero ma come

concentrazione e dislocazione, mutano le

condizioni ambientali e anche le

esperienze di reintroduzione degli

ungulati selvatici hanno fatto sì che questi

animali si trovassero in un ambiente

124

molto diverso da quello esistente prima

della loro notevole diminuzione. Gli

ungulati hanno quindi trovato un

ambiente tutto sommato favorevole per

loro: non c’erano predatori, il contesto

antropico socio-economico era

completamente diverso; per questi motivi

tutte le esperienze di reintroduzione di

ungulati, anche nell’ Alta Valle Susa,

hanno portato a esperienze di notevoli

incrementi di popolazione in tempi

relativamente brevi.

Come in tutti i sistemi in cui l’uomo

mette le mani, anche il sistema alpino che

ci siamo trovati a gestire è caratterizzato

da un disequilibrio, favorito anche dalle

attività socio-economiche dell’uomo sulle

Alpi e quindi gli ungulati si sono trovati ad

avere a che fare con un territorio

sicuramente molto diverso da un

ambiente naturale. Ricordiamo che

attualmente le zone “vergini” sulle Alpi,

soprattutto su quelle piemontesi, ma

anche su tutte le altre Alpi, con la sola

eccezione di alcune zone in Slovenia,

sono molto poche. Gli ungulati si trovano

quindi in ambienti fortemente modificati e

sicuramente per loro favorevoli. I primi

casi ed esperienze di reintroduzione di

ungulati avvengono, anche in Alta Valle

Susa, all’interno di aree protette: negli

anni ’60 nel Parco del Gran Bosco di

Salbertrand vengono reintrodotti alcuni

ungulati, i quali si sono fortemente

incrementati. Essendo degli erbivori, gli

ungulati si cibano nella loro dieta di un

insieme variegato di specie, fra cui

ovviamente anche quelle forestali e

conseguentemente si è subito osservato,

in maniera anche semplicemente visiva,

come questi aspetti sia comportamentali,

sia alimentari, avessero un’incidenza nei

confronti del patrimonio forestale.

Per questo motivo in Alta Valle Susa si

è iniziato a monitorare cosa stava

effettivamente succedendo, anche perché

le posizioni erano, in alcuni casi,

estremamente allarmistiche da parte degli

amministratori locali che vedevano la

rinnovazione forestale mangiata, i boschi

sparire; si era creata una posizione molto

conflittuale e quindi sono stati fatti i primi

inventari dall’Università degli Studi di

Torino, con la collaborazione della

Provincia di Torino e di tutte le

amministrazioni coinvolte, chi

fattivamente, chi monetariamente.

Gli anni ’80 vedono il primo inventario

dei danni in Alta Valle Susa, il primo di

questo genere in Provincia di Torino, che

è stato poi replicato nel 2001 nel corso

della redazione del Piano Forestale

Territoriale, che nel disegno della

pianificazione forestale regionale è la

pianificazione forestale di secondo livello

dalla quale poi devono discendere i piani

aziendali delle singole proprietà.

125

Questo Piano ha visto ripetuta,

volutamente con le stesse metodologie

del primo inventario, l’analisi dei danni e

quindi i due risultati sono paragonabili e

raffrontabili. Ora vi illustrerò i dati del

secondo inventario (tabella 2); stiamo

valutando la riedizione a breve di un

nuovo monitoraggio dei danni e

quest’anno, durante la redazione di un

Piano di Assestamento di un Comune

della zona, abbiamo già acquisito alcuni

dati per confrontare soprattutto la

presenza dei predatori, rilevando così dei

dati interessanti.

Tabella 2 Dati del secondo inventario forestale

(Piano Forestale Territoriale, CFAVS – Regione

Piemonte, 2001)

75.3Latifoglie nobili

55.2Faggio

29.6Pino uncinato

42.3Abete rosso

18.1Pino cembro

96.2Abete bianco

30.4Pino silvestre

54.1Larice

Percentuale di rinnovazione danneggiata

Specie

75.3Latifoglie nobili

55.2Faggio

29.6Pino uncinato

42.3Abete rosso

18.1Pino cembro

96.2Abete bianco

30.4Pino silvestre

54.1Larice

Percentuale di rinnovazione danneggiata

Specie

Quelli che consideriamo danni al

patrimonio forestale sono di tre tipi:

− brucamento,

− scortecciamento,

− sfregamento.

Su questi effetti sulle cortecce abbiamo

già visto dei dati estremamente

interessanti nell’intervento relativo

all’esperienza in Polonia, ma sicuramente

in Alta Valle Susa, dove sono presenti

quasi tutte le specie che si ritrovano sulle

Alpi, osserviamo una distribuzione non

omogenea di questi danni nei confronti

della rinnovazione. Sicuramente ci sono

piante che risultano più colpite e piante

che risultano molto meno colpite, sia per

le loro caratteristiche di appetibilità e sia

perché in alcuni casi, come ad esempio il

pino cembro, queste specie crescono in

ambienti che soprattutto nel periodo fine

invernale - primaverile, ovvero nei periodi

più critici in cui gli ungulati hanno più

bisogno di un’alimentazione di soccorso,

si trovano in condizioni di protezione da

parte della neve e risultano meno

danneggiate. All’opposto abete bianco,

larice e abete rosso sono specie che

risentono in maniera maggiore dei danni

arrecati dalla fauna ungulata.

Per quanto riguarda le specie forestali

alpine, il danno da brucamento (foto 114)

è uno dei più impattanti, in quanto spesso

se il brucamento viene ripetuto porta a

morte la pianta e, come vedremo, questo

è un aspetto abbastanza preoccupante

soprattutto per l’abete bianco, per il quale

il ripetuto brucamento delle gemme causa

la morte della pianta.

126

Figura 114: Danni da brucamento

I dati dell’ultimo inventario confermano

quanto già indicato nel primo, ovvero che

è difficile attribuire la responsabilità del

danno da brucamento ad una specie

ungulata particolare. Se ne possono

invece conoscere gli effetti sulle piante:

ad esempio il 96% della rinnovazione di

abete bianco risulta brucato. Questo è

sicuramente un dato significativo per noi,

in quanto ritroviamo all’incirca la stessa

distribuzione generale dei danni, con le

specie più tipiche del piano subalpino,

come il pino cembro, poco brucate,

mentre quasi tutte le specie del piano

montano risultano fortemente brucate.

I danni da sfregamento (foto 115) sono

danni comportamentali, cioè sono riferiti

allo sfregamento dei palchi sul fusto degli

alberi e questi sono tipi di azioni degli

ungulati completamente diverse rispetto

ai brucamenti. In Alta Valle risultano più

sensibilmente interessate da questi danni

le piante che crescono più lentamente,

perché, come veniva espresso nella

relazione del collega Jakub Borkowski sul

pino silvestre, le piante che crescono più

lentamente hanno un periodo più lungo di

esposizione a questo tipo di danni; quindi

il pino cembro, che in Alta Valle in media

impiega circa 30 anni ad arrivare a 1,5 m

di altezza, è sicuramente una specie che

può essere interessata da questi danni.

Figura 115: Danni da sfregamento

Per quanto riguarda la specie ungulata

responsabile, suddividendo le piante in

classi di altezza, per gli esemplari in

prima classe, cioè con altezze fino a 1,5

m, è più interessante l’azione del capriolo

rispetto al cervo, mentre per classi

superiori, fino a 10 cm di diametro, e

quindi ben superiori a 1,5 m di altezza,

cambiano i rapporti e il cervo diventa la

specie principale, per motivi di

dimensione dell’ungulato.

127

Per i danni da scortecciamento (foto

116) derivanti da azione alimentare, legati

alla rimozione della corteccia con i denti

da parte degli ungulati selvatici, stiamo

facendo dei monitoraggi con l’Università

degli Studi di Torino sulla risposta da

cicatrizzazione che le piante hanno nei

confronti di questi danni (foto 117).

Figura 116: Danni da scortecciamento

In questo caso la specie più

interessata è l’abete bianco, un po’ meno

le altre specie che sono presenti

all’interno delle nostre foreste. Anche in

questo caso l’attribuzione corretta

riferisce quasi il 100% dei danni al cervo.

Il secondo inventario evidenzia

un’incidenza percentuale (tabella 3) di

quasi un 72% per il brucamento, mentre

lo scortecciamento risulta

percentualmente poco significativo e lo

sfregamento rappresenta quasi il 20%.

Tabella 3: Incidenza percentuale delle tre tipologie

di danno

71.7%Brucamento

19.4%Sfregamento

5.3%Scortecciamento

Incidenza percentualeTipologa

71.7%Brucamento

19.4%Sfregamento

5.3%Scortecciamento

Incidenza percentualeTipologa

Nell’ottica di valutare come queste

azioni generino delle conseguenze a

livello gestionale, è estremamente

interessante anche un altro aspetto,

ovvero la letalità (tabella 4), cioè l’analisi

della mortalità generata nei confronti della

rinnovazione forestale da questi tipi di

azione. Sicuramente lo sfregamento è

quello che genera una letalità abbastanza

significativa; globalmente il brucamento è

causa del 14% di letalità della

rinnovazione colpita, con l’eccezione

dell’abete bianco in cui quasi il 100%

Figura 117: Risposta da cicatrizzazione in

alberi colpiti da scortecciamento (CFAVS –

UNITO)

128

delle piante brucate dopo un po’ di tempo

arriva a morte; per quanto riguarda lo

sfregamento, la letalità sembra essere più

legata allo sfregamento del cervo rispetto

a quello del capriolo.

Tabella 4: Letalità percentuale suddivisa per tipo

di danno e per specie maggiormente incidenti

35.3%Sfregamento Capriolo

41.2%Sfregamento Cervo

14.3%TOTALE

26.7%Sfregamento

13.8%Scortecciamento

14.2%Brucamento

Letalità %Tipo di danno

35.3%Sfregamento Capriolo

41.2%Sfregamento Cervo

14.3%TOTALE

26.7%Sfregamento

13.8%Scortecciamento

14.2%Brucamento

Letalità %Tipo di danno

Entriamo ora nella valutazione di

questi danni. Rispetto all’analisi effettuata

negli anni ’80, l’approccio nostro come

gestori è completamente diverso:

all’inizio, anche sulla scorta di una

valutazione “emotiva”, l’azione degli

ungulati veniva considerata un danno di

per sè, perché si arrivava da una

situazione di disequilibrio in cui gli

ungulati non c’erano e

conseguentemente anche la popolazione

e noi gestori delle foreste non ci

rapportavamo in alcun modo con questo

tipo di fauna, ma abbiamo dovuto iniziare

a rapportarci e ovviamente all’inizio tutto

veniva considerato danno, con una

visione molto antropocentrica.

Essendo però gli ungulati selvatici una

componente dell’ecosistema, dobbiamo

tener conto che comunque una parte di

usura alimentare e comportamentale ci

deve essere. Abbiamo quindi iniziato ad

affrontare, anche in accordo con altri

gestori e in particolare con l’Università

degli Studi di Torino, la problematica,

cercando di capire come la presenza di

questi ungulati potesse incidere sul

territorio, perché, al di là della valutazione

numerica dell’inventario dei danni,

ovviamente ci si rendeva conto che non

in tutte le situazioni uno stesso

comportamento dava risultati analoghi.

Il primo aspetto, che vede sempre

l’uomo come soggetto principe, è quello

che, trovandoci in un ambiente montano,

assegnamo alle foreste un insieme di

funzioni, cioè ci attendiamo che le foreste

svolgano molteplici funzioni. Questo è

sicuramente un aspetto importante

perché dobbiamo valutare come l’azione

degli ungulati permetta o no alla foresta di

assolvere le funzioni che noi ci

aspettiamo da questa. Qui però subentra

un altro problema, ovvero che le funzioni

che l’uomo, soprattutto sulle Alpi,

assegna alle foreste sono varie e

soprattutto hanno una validità limitata nel

tempo; facendo un esempio molto

semplice, sicuramente fra alcuni anni, se

129

il petrolio continua ad aumentare di

prezzo, le richieste nei confronti di legna

da ardere saranno talmente diverse da

quelle attuali e anche sulle Alpi ci si

interrogherà su modelli gestionali delle

foreste diversi da quelli attuali. Quindi, la

validità delle scelte degli indirizzi

gestionali che noi diamo alle foreste varia

velocemente nel tempo. Negli anni ’60

non si pensava assolutamente che le

foreste avessero un’importanza

economica come quella che hanno

attualmente, basti pensare che allora il

valore di 1 mc di legname sulle Alpi

equivaleva più o meno a uno stipendio,

ora 1 mc di legname in piedi vale 20 euro,

quindi immaginate la differenza. Questo

per illustrare la complessità del processo

decisionale all’interno dell’attribuzione

delle funzioni alle foreste e ovviamente

questo processo decisionale, che si è un

po’ ribaltato negli ultimi anni, nasce

innanzitutto dalla valutazione se esiste o

no una funzione di protezione nei

confronti dei pericoli naturali e, solo dopo

aver escluso la presenza di una funzione

di protezione, si può discriminare se le

foreste sono in grado di produrre

legname o di poter evolvere liberamente

per conto loro senza nessun intervento

da parte dell’uomo, oppure se possono

essere destinate alla fruizione.

Ovviamente all’interno di questo processo

di definizione delle funzioni sono di

primaria importanza anche le destinazioni

naturalistiche – in Alta Valle Susa sono

presenti 18 Siti di Interesse Comunitario e

Parchi regionali – e quindi la complessità

del processo decisionale è notevole.

Questa è la situazione dei boschi in Alta

Valle Susa: il 24% dei boschi svolgono

una funzione di protezione dei versanti;

un 23% assolve una funzione di

protezione dei versanti, ma con possibilità

di attuare modelli selvicolturali che

prevedano anche la raccolta

economicamente vantaggiosa del

legname; un 24% può essere ancora

destinato alla produzione di legname; un

interessante 17% di superficie ha evidenti

interessi per una gestione naturalistica

delle foreste; un 9% può evolvere

liberamente senza alcun intervento e

condizionamento da parte dell’uomo e un

3% è destinato alla fruizione.

In che modo, allora, poter affrontare la

valutazione se sia o no un danno l’azione

degli ungulati? Partiamo ad esempio dalla

necessità di gestione naturalistica

all’interno delle Aree Protette e dei Siti di

Interesse Comunitario: in questi ambiti

bisogna valutare se l’impatto degli

ungulati può in alcuni casi limitare la

diffusione o provocare la scomparsa di

alcune specie forestali. Questo è il caso

del Gran Bosco di Salbertrand, in cui la

presenza di ricchi boschi di abete bianco

ha determinato l’istituzione di un Parco

130

naturale. Se noi partiamo dalla

considerazione che l’Alta Valle Susa,

come quasi tutte le Alpi, ha una ricchezza

floristica e una biodiversità tra le più

elevate all’interno dell’Europa, la tutela di

questa biodiversità rappresenta un

aspetto che deve essere correttamente

valutato. Per quanto riguarda invece gli

aspetti forse più importanti, ovvero quelli

di protezione dei versanti, gli indirizzi

sono contenuti nella pianificazione a

livello di area vasta delle foreste. Lo

scopo del gestore è quello di mantenere

nel tempo la capacità di protezione del

versante; molto spesso si tratta di foreste

con elevata dinamica, quindi con

presenza di zone in rinnovazione, foreste

giovani, che assolvono meglio la capacità

di protezione dei versanti. In questi ambiti

un’azione nei confronti della rinnovazione

deve essere valutata nei confronti del

mantenimento in efficienza di questa

funzione. Lo stesso per i modelli

selvicolturali che si applicano in questi

popolamenti: sono tutti modelli

selvicolturali che, sulla scorta anche delle

indicazioni di una selvicoltura più

prossima alla natura, prevedono sempre

la rinnovazione di tipo naturale all’interno

delle foreste, la rinnovazione su piccole

aree e una gestione che permetta di

mantenere una buona copertura del

terreno e un’elevata dinamica all’interno

delle cenosi forestali, in modo da

assicurare la funzione di protezione in

modo continuativo nel tempo. Per quanto

riguarda invece la produzione di legname

si è passati da modelli selvicolturali tipici

degli anni ’50-’60 con estesi tagli raso e

rinnovazione posticipata artificiale a

modelli selvicolturali in cui viene

privilegiata, se non prescritta, la ricerca

della rinnovazione naturale. Anche in

questo caso, la presenza degli ungulati

deve essere valutata rispetto alla

capacità o meno di assolvere la funzione

di produzione di legname.

Ecco che quindi, sulla scorta di quanto

capitato presso altre strutture di gestione,

ci si è interrogati se già la semplice

definizione di danno fosse sufficiente e

idonea a descrivere quello che

succedeva; nel Piano Forestale

Territoriale abbiamo recepito numerose

indicazioni che si trovano in letteratura e

siamo transitati a un approccio di tipo

diverso, cioè abbiamo definito che, in

ogni caso, dato atto che gli ungulati ci

sono e che quindi, come tali, fanno parte

anche dell’ecosistema della foresta, per

ogni tipologia di popolamento forestale in

relazione anche alla funzione assegnata,

ci potesse essere una soglia di danno

sostenibile, ovvero abbiamo definito una

soglia di danno al di sotto del quale non è

pensabile che vengano arrecati problemi

al mantenimento in efficienza delle

funzioni che noi ci attendiamo dalle

131

foreste, mentre al di sopra di questa

soglia possono esistere dei problemi.

Arrivare a definire queste soglie

ovviamente è un problema abbastanza

articolato. In bibliografia gli esempi non

erano tanto legati a situazioni montane e

alpine, caratterizzate dalla ricchezza

floristica all’interno di popolamenti

forestali e dalla presenza di crescita lenta

delle piante, ma si riferivano a situazioni

abbastanza diverse dalla nostra.

Abbiamo quindi cercato in qualche modo

di arrivare a definire per ogni tipologia

forestale (in Regione Piemonte tutte le

foreste sono catalogate all’interno di tipi

forestali), in funzione del mantenimento in

efficienza delle funzioni assegnate alle

foreste, quale potesse essere la soglia di

danno accettabile, considerando il danno

sulla percentuale della rinnovazione

presente.

I dati riportati in tabella 5 sono relativi

alle tipologie forestali che riescono a

sostenere l’usura che gli ungulati danno

nei confronti della rinnovazione forestale.

Tabella 5: Tipologie forestali con danno

riscontrato minore della soglia di danno

accettabile

35,00%21,14%Pineta di Pino uncinato

30.00%29,61%Pineta endalpica di gretodi pino silvestre

35,00%33.45%Pineta Mesalpico-Endalpicaacidofila a pino silvestre

Soglia di danno accettabile

Danno riscontrato

Tipi forestali

35,00%21,14%Pineta di Pino uncinato

30.00%29,61%Pineta endalpica di gretodi pino silvestre

35,00%33.45%Pineta Mesalpico-Endalpicaacidofila a pino silvestre

Soglia di danno accettabile

Danno riscontrato

Tipi forestali

Questi sono dei popolamenti che, in

Alta Valle, crescono soprattutto su

stazioni su versanti meridionali e sono

parte delle pinete, sia endalpiche che

crescono lungo i greti, sia acidofile a pino

silvestre (per chi conosce, nella zona tra

Exilles e Salbertrand). Presentano una

soglia di danno accettabile in quanto, allo

stato attuale, dai dati dell’inventario, ciò

che gli ungulati consumano della

rinnovazione forestale risulta sostenibile,

ovvero noi osserviamo che il

popolamento evolve anche in presenza di

questo tipo di componente

dell’ecosistema senza che si riscontrino

dei problemi alla sua dinamicità. Ad

esempio la pineta acidofila presenta un

33% di danno a fronte di una soglia di

danno accettabile del 35%; lo stesso vale

per le pinete di pino uncinato che, forse

anche per problemi alimentari, risultano le

pinete meno colpite.

132

Nella tabella 6 vediamo riportati i

popolamenti in cui ci può essere una

soglia di allerta.

Tabella 6: Tipologie forestali con danno

riscontrato di poco maggiore alla soglia di danno

accettabile

35,00%39.47%Larici-cembreto aCalamagrostis villosa

20,00%31,21%Pineta endalpicamesoxerifiladi pino silvestre

30,00%32,70%Pineta Endalpica basifila dipino silvestre

Soglia di danno accettabile

Danno riscontrato

Tipi forestali

35,00%39.47%Larici-cembreto aCalamagrostis villosa

20,00%31,21%Pineta endalpicamesoxerifiladi pino silvestre

30,00%32,70%Pineta Endalpica basifila dipino silvestre

Soglia di danno accettabile

Danno riscontrato

Tipi forestali

In questi tipi forestali troviamo un

danno riscontrato vicino alla soglia di

danno accettabile. E’ il caso delle pinete

più frequenti, quelle situate tra Oulx e

Bardonecchia, e delle pinete sui versanti

nord in cui si riscontra una dinamica di

rinnovazione molto vivace, con abete

bianco, abete rosso e larice, e in cui il

danno è stato riscontrato superiore alla

soglia di danno accettabile. Ci sono poi i

lariceti con pino cembro, a quote inferiori,

in cui il danno riscontrato è vicino alla

soglia di danno accettabile. La gestione di

questi popolamenti deve essere

particolarmente attenta, deve proseguire

il monitoraggio, ma il gestore deve sapere

che in qualche caso occorre valutare

anche delle scelte gestionali diverse

rispetto a quelle applicate.

Nella tabella 7 sono riportati i

popolamenti in cui - e qui la parte del

leone la fanno le abetine di abete bianco -

l’usura è ben maggiore rispetto a quanto

potrebbe essere il danno accettabile

all’interno di questi popolamenti.

Tabella 7: Tipologie forestali con danno

riscontrato molto maggiore della soglia di danno

accettabile

25,00%49,85%Laricetosu rodereto-vaccinieto esu pascolo

25,00%51.24%Pecceta endalpica apino silvestre e larice

18.00%85,24%Abetina meso-trofica

15,00%92.24%Abetina eutrofica

Soglia di danno accettabile

Danno riscontrato

Tipi forestali

25,00%49,85%Laricetosu rodereto-vaccinieto esu pascolo

25,00%51.24%Pecceta endalpica apino silvestre e larice

18.00%85,24%Abetina meso-trofica

15,00%92.24%Abetina eutrofica

Soglia di danno accettabile

Danno riscontrato

Tipi forestali

Lo stesso riguarda anche i lariceti su

rodereto-vaccinieto e su pascolo che,

proprio anche per le loro caratteristiche di

presenza di rinnovazione molto sporadica

e delicata, sono popolamenti abbastanza

colpiti.

Capite quindi come questo approccio

ha premesso di monitorare, perimetrare e

entrare nel dettaglio del comportamento

133

degli ungulati nei confronti dei

popolamenti forestali, rispetto a quanto

poteva essere un’analisi pura e semplice

del danno dal monitoraggio effettuato.

Questo permette di attuare delle

attenzioni, legate al segnale di pericolo:

sicuramente i popolamenti tra Oulx e

Bardonecchia, sul versante nord, e

soprattutto la zona di Salbertrand ed

Exilles, dove sono presenti le abetine e

alcuni popolamenti di larice nella testata,

sono le zone in cui è prevista

un’attenzione nei confronti dei danni degli

ungulati. Questa è sicuramente cosa ben

diversa rispetto ad avere la totalità

dell’Alta Valle Susa posta a rischio di

collasso per la presenza di ungulati.

Passando all’ultima parte, cioè la

prevenzione, vediamo cosa, in sostanza,

viene fatto.

Per prima cosa, già da un po’ di anni,

nelle abetine stiamo passando a modelli

gestionali che non prevedono più la

necessità di estese superfici in cui

aspettarsi la rinnovazione naturale. Come

è noto, i popolamenti forestali evolvono

attraverso fasi che sono quelle di

rinnovazione, di crescita, di

invecchiamento e di collasso e occorre

fare in modo che i nostri popolamenti

forestali si arricchiscano di strutture varie,

in modo tale da non avere necessità

estese di messa in rinnovazione, ma da

avere dei popolamenti che solo per

piccole zone abbiano necessità di messa

in rinnovazione. Un popolamento più

articolato, in cui si può scalare nel tempo

la necessità di rinnovazione, fa sì che i

disturbi esterni, tra cui possiamo

includere gli ungulati, non siano così in

grado di arrecare problematiche diffuse e

uniformemente distribuite, tali da creare,

se presenti, problemi alla dinamica

forestale. Questo discorso vale per tutti i

pericoli naturali e questa attenzione

genera sicuramente degli effetti positivi a

livello di gestione.

Un’altra cosa che facciamo è quella di

cambiare approccio, perché noi forestali

abbiamo sempre fretta: entriamo in un

bosco, vediamo che non c’è la

rinnovazione e cadiamo nel panico!

Ovviamente, questo è legato anche al

fatto che i modelli gestionali prevedono

sempre ormai la presenza di rinnovazione

naturale e, se non ne vediamo, ci viene

l’ansia! Ecco che, invece, un altro aspetto

legato alla prevenzione è quello di avere

un approccio più attendista, cioè di

sapere aspettare e non prevedere, se

non strettamente necessario, una messa

in rinnovazione, che, in presenza di

ungulati selvatici, potrebbe avere dei

problemi. Applicare modelli gestionali

estensivi e molto incisivi, in alcune zone,

genera comunque delle problematiche,

mentre un approccio più prossimo alla

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natura, nella gestione delle foreste sulle

Alpi, come sta avvenendo un po’

dappertutto, può essere interessante.

La prevenzione si basa anche sul fatto

di favorire e di non ostacolare la presenza

del lupo e degli altri predatori che, per

fortuna, sono presenti all’interno del

nostro territorio e che contribuiscono a un

riequilibrio all’interno del vasto panorama

faunistico presente nell’Alta Valle di Susa,

quindi il loro contributo è estremamente

positivo. Questo genera però dei problemi

con il modo venatorio, non tanto con i

gestori degli istituti faunistici, quanto nei

confronti del singolo cacciatore che,

magari per la presenza di predatori, vede

meno gli ungulati.

Un altro aspetto legato alla

prevenzione è legato al fatto di produrre,

come abbiamo visto anche nell’intervento

relativo alla Polonia, misure attive, quali

recinzioni o altro. Sicuramente sulle Alpi

esistono problemi di costi di questi

sistemi e infatti vengono utilizzati come

ultima possibilità, proprio quando non ci

sono altre soluzioni, in quanto sono molto

costosi; inoltre a causa della presenza

della neve che spinge sulle recinzioni e,

in qualche caso, le abbatte o le

danneggia, risulta molto difficile e poco

praticabile l’utilizzo di questi sistemi.

Nel caso in fotografia 118 è possibile

vedere una zona in cui sono state usate

recinzioni.

Figura 118: Recinzioni

Si tratta di una zona in cui uno

schianto da vento su circa 60 ettari ha

completamente allontanato la copertura

forestale; in questo caso per diversi

motivi si è resa necessaria la

realizzazione di queste recinzioni, ma, se

non succedono casi come questo, di

evidenti problemi esterni alla corretta

gestione del bosco, non facciamo mai

ricorso a questo sistema. Un altro caso in

cui siamo ricorsi alle recinzioni è quello di

Exilles, in cui un incendio ha prodotto un

allontanamento della copertura forestale

a monte di un paese creando problemi di

protezione diretta del centro abitato.

L’altro aspetto, anche se potrebbe

essere quello più scontato, ma che

stiamo portando avanti grazie sia al

Parco del Gran Bosco di Salbertrand, sia

al CA TO2 (che è l’ente gestore della

fauna in Alta Valle Susa), è quello di

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essere riusciti a comunicare le diverse

esigenze e a far contemplare all’interno

dei Piani di gestione della fauna il

monitoraggio dei danni e le analisi che

noi abbiamo effettuato sul danno

sostenibile. In questo modo, anche nella

definizione dei Piani di abbattimento o nei

Piani di gestione della fauna, chi deve

provvedere alla gestione della fauna sa e

comprende all’interno dei propri piani il

monitoraggio che noi abbiamo effettuato

sul popolamento forestale. Questo per noi

è un aspetto molto interessante, perché

fa sì che i diversi gestori del territorio

colloquino e si rendano partecipi della

gestione integrata del territorio e questo è

un aspetto abbastanza decisivo, per noi,

per la gestione corretta del territorio.

Grazie.