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LA PRIMA BANDIERA AMERICANA, CON LE ALLORA 13 STELLE. IN DATA 4 LUGLIO 1776, IL SECONDO CONGRESSO CONTINENTALE DICHIARÒ L’INDIPENDENZA DELLE 13 COLONIE DALL’INGHILTERRA. THOMAS JEFFERSON COMPILA LA DICHIARAZIONE D’INDIPENDENZA, SANCENDO LA NASCITA DEGLI STATI UNITI. 54 M LUGLIO 2013 CORBIS

L'italiano Sogno Americano

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Gli Stati Uniti celebrano il 4 luglio la propria Dichiarazione d’indipendenza, nella quale si sancirono il diritto alla vita, alla libertà e alla felicità. Ma in pochi sanno che quest’ultimo squassante anelito è frutto del genio di Gaetano Filangieri

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LA PRIMA BANDIERA AMERICANA, CON LE ALLORA 13 STELLE. IN DATA 4 LUGLIO 1776, IL SECONDO CONGRESSO CONTINENTALE DICHIARÒ L’INDIPENDENZA DELLE 13 COLONIE DALL’INGHILTERRA. THOMAS JEFFERSON COMPILA LA DICHIARAZIONE D’INDIPENDENZA, SANCENDO LA NASCITA DEGLI STATI UNITI.

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Le conquiste dell’Occidente

L’ITALIANOSOGNO AMERICANO

DI STEFANO D’ANNA

Gli Stati Uniti celebrano il 4 luglio la propria Dichiarazione d’indipendenza, nella quale si sancirono il diritto alla vita, alla libertà e alla felicità. Ma in pochi sanno che quest’ultimo squassante anelito è frutto del genio di Gaetano Filangieri

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’AMERICA È IN FESTA per il suo 237° compleanno, ma l’American dream mostra i segni dell’età e i guasti di troppi tradimenti. I di-ritti alla felicità, alla vita, alla libertà, solennemente sanciti dalla storica Dichiarazione dei 13 Stati Uniti rischiano di restare un’e-pigrafe tombale sulla speranza dell’umanità di poter, un giorno,

realizzare una società prospera e felice. Dai Pilgrim fathers agli immigranti siciliani dei primi del ’900 e fino a oggi, l’America ha rappresentato nell’im-maginario collettivo il sogno di un mondo nuovo, privo delle brutture che attraverso i secoli hanno irrimediabilmente corroso la vecchia Europa. Forse gli intenti di coloro che sbarcarono dalla Mayflower furono veramente que-sti, ma la realtà è che nella stiva della loro nave trasportavano i vecchi stru-menti di tortura. Erano i segni premonitori, crudeli anticipatori di una sto-ria infinita di eccidi, ferocia e sangue che avrebbe ripetuto se stessa con ag-ghiacciante specularità nel nuovo mondo.

Il 4 luglio l’America si ferma per celebrare se stessa. La sua festa non è so-lamente una ricorrenza solenne, come per noi il 25 aprile o il 2 giugno, ma un giorno connesso a quanto per ogni americano c’è di più sacro. È la celebrazio-ne di un culto laico che trascende etnie, religioni, culture, tradizioni e fonde in un unicum i 50 Stati Uniti d’America. È l’Indipendence day commemorati-vo della storica Unanime dichiarazione d’indipendenza fatta, appunto, il 4 lu-glio 1776 dai 13 Stati, vero atto di nascita degli Usa. In essa, come un gioiel-lo in uno scrigno, è contenuta la Dichiarazione dei diritti dell’uomo che san-cisce il diritto alla vita, alla libertà e, per la prima volta nella storia dell’umani-tà, il diritto a perseguire la felicità. È una rivoluzione nella rivoluzione, l’atto di una pazzia luminosa che fionda il pensiero moderno, razionale, cartesiano, ol-tre i confini del sogno e traccia l’asintoto irraggiungibile di un’utopia politica che è ancora motore del mondo. A partire da questa data si forma il bozzolo del sogno americano da cui sarebbe nato quel modello di vita che avrebbe in-vaso un mondo in bianco e nero, sull’orlo del suicidio e poi di fatto dilaniato da due guerre, con la sua prorompente vitalità, il suo sovversivismo in technicolor convogliato dai film, la Coca-Cola, il chewing-gum, i blue jeans, le automo-bili, la televisione e la musica. Per centinaia di anni, fino ai primi decenni del secolo scorso, l’Europa ha dominato la scena del mondo con la sua scienza, la tecnica, l’economia, con la sua cultura e la potenza militare e politica. Quando ha raggiunto il culmine della sua terribile storia di guerre, divisioni, pregiudi-zi religiosi e razziali ed errori insensati, sono bastati pochi anni per vederne il crollo. Nella storia del mondo non si è mai assistito alla caduta di un’intera ci-viltà nel giro di un così ristretto numero di anni. Le grandi civiltà dell’Orien-te, la civiltà greca, quella romana, lo stesso impero britannico, sono passate dal loro massimo splendore al declino in un periodo di tempo infinitamente più lungo di quanto non sia avvenuto per l’Europa. Con le due guerre mondia-

li, gli americani divennero nell’immaginario collettivo i paladini della libertà e della sicurezza dell’Occidente, e il loro divenne il Paese dove a ogni uomo era data la possibilità di dare concretezza all’impossibile, la never-never-land dal-le praterie sconfinate simbolo delle infinite occasioni che là si potevano coglie-re. Per troppi anni, gli stessi americani non hanno voluto cogliere altri aspetti della loro realtà: le contraddizioni interne, i leader bruciati giovani, gli intrighi internazionali e gli scandali politici (Watergate, sexgate), finanziari (dai casi Enron e World.com fino ai misfatti della banda Bernard Madoff ), per arri-vare al terrorismo. Questo, dalla caduta delle Torri in poi, è stato il fenomeno che più ha incrinato «il senso di ottimismo» e la fede nell’immancabile Hap-py ending che sono stati i cardini del sogno americano. I provvedimenti anti-terroristici, il Patriot act I emesso nel 2001, sei settimane dopo l’attentato, e il Patriot act II del 2006 hanno di fatto assottigliato, quando non eliminato, i di-ritti inalienabili che i Padri fondatori avevano sigillato nel Bill of Rights. Tutti questi elementi, nel loro insieme, hanno progressivamente sottratto all’Ame-rica l’orgoglio compresso nel grido «I am american» paragonabile solo a quel Civis romanus sum che gonfiava il petto dei cittadini dell’Impero, somma dei diritti e dei privilegi legati alla cittadinanza, garantiti dalle leggi e fatti osser-vare con forza e rigore in ogni terra soggetta all’imperio romano, fosse pure la più remota. Quando hanno paura, gli americani guardano in alto. Non per ra-gioni logiche, non per credenze religiose o fatti geopolitici, ma perché questo ha dettato l’oracolo cinematografico in 70 anni di messaggi ipnotici in cellu-loide e per altri trenta, gli ultimi, di deliri digitali.

Hollywood ha smesso da tempo di essere la fabbrica dei sogni e ormai tra-duce in film gli incubi collettivi dell’umanità, proiettando sul grande schermo l’infinito caleidoscopio delle sue emozioni negative e della sua immaginazio-ne distopica delle World towers dell’11 settembre è soltanto il segno visibile di una lunga degradazione dei valori e delle aspirazioni originali che si sono gradualmente essiccati trasformandosi in cupidigia, in volontà di potenza e, non infrequentemente, in sfruttamento e sopraffazione. La conflittualità, la criminalità, un’economia che è una macchina di morte, con al centro l’indu-stria bellica più grande del mondo, vanno in direzione opposta agli ideali di dignità e di libertà che sono stati i valori fondanti di quel sogno americano che ha fatto battere il cuore della nostra civiltà. Quando una società ha un numero di obesi che ha superato di molti punti il 50% non ha bisogno dei talebani per conoscere il sabotaggio e il disastro. L’America è uno stato d’es-sere. E tuttavia ogni 4 luglio a tanti anti-americani di maniera, ai profeti di sciagura e alle cassandre professioniste, va ricordato che l’America non è solo una nazione, e tantomeno va ridotta a un luogo, a un’espressione geografica, a una terra tra due oceani. Essa è in realtà la materializzazione di un sogno che ha radici lontane, che tutti noi portiamo in una piega segreta dell’essere,

L{A PARTIRE DAL QUEL GIORNO DEL 1776 CREBBE IL COMUNE SENTIRE DI UNA NAZIONE}

IN ALTO, I RITRATTI DI ALCUNI DEI PADRI RICONOSCIUTI DEGLI STATI UNITI D’AMERICA, DELLA DICHIARAZIONE D’INDIPENDENZA ED EX PRESIDENTI DELLA NAZIONE. DA SINISTRA, JOHN ADAMS (1735-1826); THOMAS JEFFERSON (1743-1826), PRINCIPALE AUTORE DELLA DICHIARAZIONE; JAMES MADISON (1751-1836); JAMES MONROE (1758-1831). CO

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nella parte più profonda, migliore di noi. L’America è quel so-gno di bellezza e di felicità che i nostri padri sognarono oltre 3mila anni fa sulle coste dell’Attica e nel cui liquido amnio-tico ancora nuotiamo, feto di quell’età di giganti. L’Ameri-ca è quella parte di noi che ancora aspira a un mondo nuo-vo, che crede nella felicità, che ha giurato di essere libera. Se l’America ha fallito, dobbiamo darcene la colpa e riconosce-re che quel sogno non abbiamo saputo nutrirlo né difender-lo. Dobbiamo riconoscere inoltre che non siamo ancora pron-ti a vivere in quello stato d’essere, in quella condizione di spiri-to, né come individui né come specie. L’America è ancora una vol-ta un esperimento fallito, parte dell’inesausta storia di tentativi fatti per creare una società giusta e felice, che già Platone registrava e profetizzava nella sua opera somma di teoria politica, La Repubblica:

Felice la terra i cui f ilosof i sono re e i cui re sono f ilosof i.Fino ad allora le città e la razza umana

non smetteranno mai di ammalarsi.E neppure potrà mai realizzarsi il nostro ideale

di una società prospera e ben organizzata.Con l’occasione del 4 luglio, nel fare gli auguri all’America, prendiamo at-

to di alcune sue conquiste fondamentali, come il genio dell’organizzazione e la fede nell’istruzione e nella tecnologia, in cui hanno saputo investire più di ogni altro. Ma l’elemento grandioso, per il quale dovremo per sempre essere grati agli Stati Uniti è l’affermazione di quel diritto al perseguimento della felicità mai prima sancito in alcuna Carta o Dichiarazione. È il vagito di una nuova umanità, un’idea luminosa talmente sovversiva da far saltare dai cardini tutto l’impianto mentale della vecchia umanità. Chi ne è il padre? La Dichiarazio-ne d’indipendenza ha un padre napoletano. Nell’ottobre 1999 era mio ospite nella casa di Monte San Quirico, nel verde della bella collina lucchese, un ami-co americano, un sociologo di Oxford. Il discorso cadde su quel documento dell’umanità che è la Dichiarazione d’indipendenza americana. Trovavo stra-ordinario, e lo dissi al mio amico, che nel lontano 1776 un gruppo di uomi-ni, sia pure illuminati da patriottismo ed entusiasmo filosofico, nel redigerlo, avessero potuto concepire tra i diritti inalienabili di ogni essere umano il di-ritto alla felicità, il diritto a ricercarla, a perseguirla. Raccontai come, fin dal-la prima volta che ne avevo letto, «il diritto alla felicità» mi aveva affascinato e quest’affermazione solenne mi era apparsa come una di quelle epigrafi scrit-te nei cieli, un grido di libertà destinato a echeggiare per sempre nel concer-to universale della storia e nel cuore di ogni uomo. Manifestai la mia ammi-razione per un Paese, allora nascente, che si era mostrato capace di concepire un fine così alto e di perenne validità, un asintoto ideale verso cui ogni uomo

e la storia tutta avrebbero teso all’infinito, per sempre. L’altro ele-mento per me di stupore, e lo dissi con aperta ammirazione, era il fatto che nella Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo, contenuta nella Dichiarazione d’indipendenza, la libertà e la felicità fossero concepite come una conquista dell’individuo e non come l’effetto di un’azione collettiva o di riforme prodot-te da governi, leggi o istituzioni. Se ne ricavava l’idea che la ve-

ra rivoluzione, l’unica possibile, era una «rivoluzione individua-le», il sovvertimento di idee e convinzioni, uno shock del pensiero

che un uomo crea in se stesso, intenzionalmente. Si tratta per que-sto di un evento intimo, una sommossa silenziosa che può avvenire so-

lo nella solitudine dell’essere. Rivoluzioni, guerre, sommosse, hanno lascia-to tutto com’era e nei secoli sono tutte miseramente fallite perché fondate sul-la convinzione superstiziosa che il cambiamento si potesse produrre dall’ester-no. Erano queste le riflessioni e le parole che animavano la nostra conversa-zione quella sera d’inverno. Ed essa sarebbe rimasta un semplice scambio d’i-dee tra amici se a un certo punto il sociologo americano non avesse riporta-to en passant una notizia straordinaria e per me completamente nuova: la Di-chiarazione aveva avuto una precedente stesura che in quel punto cruciale re-citava: «L’uomo ha diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà». L’inserimen-to di quest’ultimo diritto (come disse il mio amico) era nato da una proposta di John Locke che, tuttavia, non aveva convinto Benjamin Franklin, il padre della Rivoluzione americana. Questi fece allora qualcosa di straordinario. In-viò una delegazione di due ambasciatori in Italia, con la bozza della Dichiara-zione, l’atto di nascita di quella nuova nazione, e la missione di incontrare chi avrebbe saputo completarla.

Ero affascinato dagli insperati sviluppi di quella conversazione. Stavo per-correndo a ritroso la traccia che poteva condurre all’origine di quell’idea che avrebbe trasformato la felicità da concetto visionario, da chimerica aspira-zione e wishful thinking, a diritto naturale, inalienabile e inviolabile dell’uo-mo e della ragione. La mia ricerca, partita dal dubbio che un principio di tale profondità fosse stato concepito in una terra agli albori della sua individuali-tà, ancora in lotta con le tribù indigene, trovava conferma. Stavo percorren-do il Nilo alla ricerca delle sue mitiche fonti. Avrei voluto conoscere i no-mi di quei due ambasciatori e soprattutto chi fossero venuti a incontrare in Italia, chi secondo il loro presidente avrebbe avuto lo storico compito di so-stituire l’espressione di Locke. Intensificai le mie ricerche, ma sembrava che quest’informazione fosse stata ingoiata dalle sabbie del tempo e fosse impos-sibile saperne di più. D’altronde non trovai libro che la riportasse, né ricerca che l’avesse accertata. Quel 1999 stava chiudendosi così, lasciando irrisolto quell’affascinante enigma che continuò a occupare i miei pensieri per giorni.

{A PARTIRE DAL QUEL GIORNO DEL 1776 CREBBE IL COMUNE SENTIRE DI UNA NAZIONE}

SOPRA, GEORGE WASHINGTON (1732-1799), PRIMO PRESIDENTE AMERICANO. IN ALTO, LA FIRMA A FILADELFIA DELLA DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA IN UN QUADRO DI JOHN TRUMBULL. SI RICONOSCONO JOHN ADAMS, ROGER SHERMAN, ROBERT LIVINGSTONE, THOMAS JEFFERSON, BENJAMIN FRANKLIN, BENJAMIN THOMPSON E JOHN HANCOCK.ALI

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ALTO, TRE IMMAGINI DELLA DIETRICH IN ABITI MASCHILI. DA SINISTRA, IN FRAC IN UNA SCENA DEL FILM «MAROCCO» (1930); IN UNIFORME DA UF IN ABITI MASCHILI. DA SINISTRA, IN FRAC IN UNA SCENA DEL FILM «MAROCCO» (1930); IN UNIFORME FICIALE DI MARINA IN «LA TAVERNA DEI SETTE PECCATI» (1940); IN SMOKING, CON

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QUI SOPRA, IL GIURISTA NAPOLETANO GAETANO FILANGIERI (1752-1788), BRILLANTE AUTORE DE «LA SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE». FU DI FILANGIERI L’IDEA DI INSERIRE IL DIRITTO ALLA FELICITÀ NELLA DICHIARAZIONE AMERICANA. IN ALTO, «THE BIRTH OF OLD GLORY» DI EDWARD PERCY MORAN. A FIANCO, LA RIPRODUZIONE DEL DOCUMENTO ORIGINALE.

Le conquiste dell’Occidente

i lì a poche settimane, nel dicembre del 1999, dovetti recarmi a Napoli per attività legate alla creazione di un nuovo campus e al progetto di fondare una facoltà di Economia e Filosofia in collaborazione con l’Istituto di studi filosofici. In quell’occasio-ne visitai Palazzo Serra di Cassano, sede dell’Istituto, che ospi-

tava la mostra allestita per il bicentenario della Rivoluzione napoletana. Quella che fu chiamata «la rivoluzione dei filosofi» e che doveva condurre al martirio un’intera classe intellettuale tra le più colte e illuminate d’Europa. Quell’anno la testa pensante di un’intera nazione fu tragicamente recisa e il suo cuore pal-pitante si fermò per secoli. Appresi che quel palazzo era rimasto chiuso per 200 anni, dal giorno in cui il giovane figlio, rampollo dell’antichissima e nobile fa-miglia Serra, fervente seguace delle idee repubblicane, cadde martire di quella repressione. In quelle ampie sale stupendamente decorate mi sembrò che ancora echeggiassero le parole di Gaetano Filangieri, il Pla-tone di Napoli, e gli ideali repubblicani che infervorarono que-gli uomini e donne che avevano giurato di voler vivere liberi o morire. Tra le opere esposte m’impressionò uno dei qua-dri che rappresentava un condannato dal volto nobile, lo sguardo sognante e, alle sue spalle, il boia. Senza il parti-colare del capestro tra le mani di quest’ultimo sarebbero sembrati una coppia di giovani amanti, lascivamente vi-cini. In quella sola opera mi sembrò racchiuso il destino dei martiri, dei visionari d’ogni tempo, l’eterna lotta tra in-dividuo e moltitudine, e in quell’immagine l’emblema del-la fine di quel sogno di libertà che recise il fiore della cultu-ra napoletana ed europea. Provai una vertigine del pensiero.

Fu in quell’occasione che incontrai Gerardo Marotta, l’av-vocato-filosofo che insieme ad altri intellettuali napoletani aveva fondato l’istituto, 25 anni prima. Mi ricevette tra i suoi tesori: isole, ar-cipelaghi di libri che nelle stanze più ampie formavano le pareti di inestricabi-li labirinti dove mi aggiravo seguendolo e ascoltando i cento progetti che aveva per il suo istituto. Discussi con lui l’idea di fondare insieme una facoltà per eco-nomisti-filosofi che sarebbero stati al timone delle imprese del futuro. Quando gli dissi del mio interesse per le radici filosofiche della Costituzione americana, mi fece dono di un libricino, appena edito, ultima pubblicazione dell’Istituto: un omaggio a Gaetano Filangieri e alla sua opera La scienza della legislazione. Quella sera stessa ne divorai il contenuto. Non potevo crederci. In quelle pagi-ne c’era l’informazione che cercavo. Dagli archivi del Museo Filangieri, tenu-ti blindati fino a quel momento, era emerso che Franklin aveva inviato il testo della Costituzione degli Stati Uniti a Gaetano Filangieri usando due interme-diari di suggestivo valore simbolico: Luigi Pio, diplomatico napoletano a Pari-

gi, sostenitore di Robespierre, e l’abate Leonardo Panzini che aderì alla Repub-blica e ne fu rappresentante presso il Direttorio. Meravigliosamente, le tessere di quel mosaico stavano trovando il loro posto. Allo scadere esatto di due secoli, nel Palazzo Serra di Cassano, mi veniva rivelato quel prezioso segreto. In quel-le stanze erano risuonate le idee che ora ritrovavo in quelle pagine. I due fram-menti di quella storia rimasti separati per centinaia di anni, come i due pezzi di un amuleto, ora si riunivano proiettando una luce abbagliante. Ora sapevo che l’idea del diritto alla felicità era nata dall’intelligenza e dalla passione civile di Fi-langieri, una delle voci più alte della coscienza europea. Fu lui l’ispiratore, il legi-slatore-filosofo, il padre della Rivoluzione che non vide a causa della sua mor-te prematura. Benjamin Franklin l’aveva ricevuta da lui e incastonata, come un gioiello, insieme al diritto alla vita e alla libertà, in quella Unanime dichiarazio-ne dei tredici Stati Uniti d’America. Tra «l’uomo ha diritto alla felicità», conia-

to da Filangieri, inserito nel testo della Dichiarazione, e «l’uomo ha dirit-to alla proprietà», proposto da Locke, passano eternità.

L’ascesa che gli Usa conosceranno tra le nazioni della terra, la capacità di assimilare uomini d’ogni nazione, attirati da quel pro-

fumo di libertà, trovano origine in quel granello di immortalità, in quel seme luminoso inserito nella Dichiarazione. Da qui si sviluppa l’economia e la potenza degli Stati Uniti. Il Diritto al-la libertà diventa più americano della bandiera a stelle e strisce e l’espressione più alta dei principi e della missione di quel Pa-ese. Filangieri, idealista e geniale giurista, muore nel 1788, a 35

anni. La sua opera in sei volumi La Scienza della legislazione subi-to tradotta in tedesco, poi nelle maggiori lingue europee e in rus-

so, gettò una lama di luce sul buio di quella fine secolo di oppres-sioni. Essa fu il manifesto e accese la miccia della rivoluzione del ’99.

Quando, a seguito di questa, la moglie con i suoi due figli dovette riparare a Parigi fu ricevuta da Napoleone che le mostrò il posto d’onore che La Scienza della legislazione occupava sul suo tavolo di lavoro. La passione civile di Filan-gieri l’aveva spinto a credere che la felicità dei popoli fosse raggiungibile attra-verso il cambiamento delle leggi, la repubblica, la democrazia, la liberalizzazio-ne delle istituzioni politiche e civili. In realtà la felicità non può essere data, tra-smessa, insegnata. È una conquista intima, individuale. Può avvenire solo qui e ora. Non possiamo essere felici ieri, non possiamo essere felici tra un mese o un anno. La felicità è la consapevole decisione di quest’istante... infinito, irripe-tibile. Concludo con una notizia che mi ha fatto riflettere. L’istituto di Gerar-do Marotta, diploma d’onore del Parlamento europeo, definito dall’Unesco nel 1993 «senza pari al mondo», ha chiuso i battenti nell’agosto scorso per mancan-za di fondi. Ha dovuto abbandonare il Palazzo di Serra Cassano per morosità e i suoi 200mila volumi sono finiti in un capannone. Sic transit gloria mundi.

D{GLI IDEALI DI UN NAPOLETANO STREGARONO FRANKLIN}

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SE AL FIORENTINO AMERIGO VESPUCCI DOBBIAMO la scoperta del-la baia dell’Hudson, dove sarebbe sorta New York, e il nome del Nuovo Mondo, a un altro toscano (meno noto, ma non per que-sto meno importante) come Filippo Mazzei si deve riconoscere

la paternità di una parte rilevante della Dichiarazione d’indipendenza de-gli Stati Uniti d’America. Della sua figura ne parlano spesso nei due mon-di, dove pure sono stati emessi francobolli celebrativi con minor astio (ver-sante statunitense) di quanto accadde per Antonio Meucci, un altro fioren-tino, inventore del telefono con buona pace di Graham Bell. Nato a Poggio a Caiano (tra Firenze e Prato) nel 1730, Mazzei morì a Pisa nel 1816, dopo una vita avventurosa che lo portò in Turchia, Polonia, Inghilterra, Francia e appunto America. Fu medico, filosofo e saggista italiano, ma per una se-rie di combinazioni, come l’incontro con Benjamin Franklin nei circoli lon-dinesi frequentati da illuministi e liberali, divenne amico personale di Thomas Jefferson (futuro terzo presidente degli Stati Uniti) che conosceva sin dal suo trasferimento in Virginia, nel 1773. Non è dato sapere, con certezza, quale fosse la natura del-le sue relazioni con ben cinque presidenti degli Stati Uni-ti. Certo, la frequentazione dei freemasons (i fratelli mu-ratori, diciamo pure la massoneria londinese) fu alla base dei rapporti transoceanici, ivi inclusi contatti per riforni-re di armi e munizioni gli eserciti che conquistarono l’in-dipendenza. Comunque sia, lo spessore delle frequenta-zioni americane spinse l’attivissimo Mazzei, giunto con intenzioni imprenditoriali, nella vita politica dell’efferve-scente colonia della Virginia. Il toscano fu autore di libelli contro l’opprimente dominazione inglese, dove si inneggiava alla libertà e all’eguaglianza. Eletto speaker dell’assemblea par-rocchiale dopo sei mesi dal suo arrivo in Virginia, Mazzei otten-ne la possibilità di esporre le sue idee sulla libertà religiosa e politica a un oratorio composto anche da persone umili e ignoranti, che lo ascoltavano in religioso silenzio. Un suo scritto, Instructions of the Freeholders of Albemarle County to their Delegates in Convention, redatto come istruzioni per i delega-ti della contea di Albemarle alla convenzione autoconvocatasi dopo lo scio-glimento forzato dell’assemblea della Virginia imposto dal governatore in-glese, fu utilizzato dallo stesso Jefferson come bozza per il primo tentativo

di scrittura della costituzione dello Stato della Virginia.Altri testi di Mazzei furono tradotti in inglese dallo stesso Jefferson, il

quale rimase influenzato da tali ideali, tanto da ritrovare successivamente alcune frasi di Mazzei trasposte nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America. Per la precisione, proprio al toscano si deve una delle

frasi più celebri della Dichiarazione: «Tutti gli uomini sono per natura libe-ri e indipendenti», concetto ripreso in tutte le costituzioni democratiche eu-ropee del XIX e XX secolo. Durante la sua permanenza nel Nuovo Conti-nente, Mazzei prese parte alle varie fasi dell’indipendenza (come pure scri-ve Oriana Fallaci nel suo ultimo libro Il cappello pieno di ciliegie), senza mai perdere la convinzione della validità delle libertà individuali, in piena sinto-nia con le tesi illuministiche. Anzi, in seguito al suo rientro in Toscana, nel 1778, cercò di perorare la causa del giovanissimo governo americano presso il Granduca Pietro Leopoldo (per ottenere prestiti economici), ricavando-ne solo sospetti di attività antimonarchica che lo costrinsero a tornare ne-gli Stati Uniti. Mazzei, è certificato, fu amico di George Washington, John Adams, James Madison, James Monroe e, come detto, di Thomas Jefferson, ovvero dei primi cinque presidenti degli Stati Uniti (con quest’ultimo man-

tenne un rapporto epistolare per molti anni). Provò anche a innestare tralci di vite e radici d’ulivo in una

Virginia le cui temperature mal si conciliavano con le con-suetudini toscane. Lui che aveva affrontato mille traversie

(dai corsi di medicina presso l’ospedale fiorentino di San-ta Maria Nuova dai quali era stato espulso nel 1751 per miscredenza, fino all’accusa di aver introdotto in Tosca-na nel 1765 dei libri proibiti), lui che si era trasferito in Virginia nel 1773 acquistando nella contea di Albemarle la tenuta Colle (non distante dalle terre di Monticello di Jefferson) per «coltivare e produrre vino, olio, piante d’a-

grumi e seta» e che aveva raccolto capitali locali e «assun-to» persino schiavi neri (come riporta la Treccani), parte-

cipò agli scontri dei «patrioti» delle 13 colonie che il 4 luglio 1776 cambiarono il corso della storia. Nel settembre di quell’an-

no scrisse «Le istruzioni per i delegati alla Convenzione» prima di tornare a Firenze e, successivamente, di nuovo in Virginia. Infine una cu-

riosità che esula dai riscontri documentali: fu probabilmente per ispirazione dello stesso Mazzei che, nel 1777, i neonati Stati Uniti d’America adottarono l’attuale bandiera ispirandosi proprio a quella di Ugo di Toscana, consiglie-re dell’imperatore Ottone III nel X secolo. Lo stemma del marchese tosca-no era infatti composto da tre strisce argento (o bianco) su fondo rosso che producono sette bande. La differenza è data dalla «rotazione» delle bande da verticali a orizzontali; dopodiché il primo presidente americano, Washing-ton, basandosi sull’importanza della simbologia bianco-rossa nei liberi Co-muni della Toscana, avrebbe portato a 13 il numero delle bande, come quel-li degli stati fondatori dell’Unione. Come scritto si tratta di una suggestione. Mentre è certa l’influenza di Filippo Mazzei sul documento di quel 4 luglio.

Le radici della civiltà

LA LIBERTÀDEL SUPERTUSCAN

Filippo Mazzei fu amico di Washington, Adams, Madison, Monroe e Jefferson. Difese l’indipendenza degli uomini con un documento che, dalla contea di Albemarle, approdò nell’incipit della più celebre dichiarazione scritta nel 1776

DI GIANLUCA TENTI E MARCO FERRI

SOPRA, FILIPPO MAZZEI IN UN’IMMAGINE DEL FRANCOBOLLO AMERICANO DA 40 CENTESIMI, CELEBRATIVO DEL 1980 (250ESIMO ANNIVERSARIO DELLA NASCITA). NELLA PAGINA A FIANCO, I SIMBOLI DEL DOLLARO AMERICANO: TREDICI (GLI STATI FONDATORI) STELLE, FRECCE, FOGLIE E STRISCE SULLO SCUDO DELL’AQUILA. DR

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SISTEMARE CROMIA DOLLARO ALLEGATO

I BIANCHI + PULITI I VERI FILO - GIALLO