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1 L’Osservatorio di Capodimonte nel XX secolo Massimo Capaccioli Dipartimento di Scienze Fisiche, Università di Napoli Federico II Osservatorio Astronomico di Capodimonte, Napoli Inaugurato nel 1819, l’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, già Real Specola Borbonica, da quasi due secoli costituisce un punto di riferimento per la cultura scientifica in Campania ed un presidio per le scienze del cielo, ancor oggi (sfortunatamente) unico 1 nell’intero Mezzogiorno continentale del Paese. Per meglio comprendere la storia recente di questo stabilimento, primo in Italia ad essere edificato ex novo – diversamente dalle Specole di Bologna, Padova, Milano e Palermo, ospitate in edifici pre-esistenti, successivamente adattati alla funzione – ci sembra opportuno riassumere il contesto internazionale in cui esso si trovò ad operare 2 . Nel corso del XIX secolo, con poche eccezioni gli Osservatori astronomici professionali 3 si occuparono di astrometria, ossia della determinazione accurata delle posizioni stellari e delle effemeridi planetarie, della misurazione del tempo e delle latitudini, con finalità dichiaratamente 1 Sul territorio nazionale ci sono attualmente 12 Osservatori Astronomici, già enti autonomi dipendenti dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica e, dal gennaio 2002, associati al neo-costituito Istituto Nazionale di Astrofisica. Di questi ben 8 si trovano nel Centro-Nord (Bologna, Firenze, Milano, Padova, Roma, Teramo, Torino e Trieste), 3 nelle isole maggiori (Cagliari, Catania e Palermo), e solo uno nel Mezzogiorno continentale, l’Osservatorio napoletano di Capodimonte. 2 Per le vicende dell’Osservatorio nel secolo XIX, cfr.: G. PIAZZI, Ragguaglio del Reale Osservatorio di Napoli eretto sulla Collina di Capodimonte, Napoli, dalla Tipografia Francese, 1821; C. BRIOSCHI, Comentarj Astronomici della Specola Reale di Napoli , Napoli, Tipografia nella Pietà de’ Turchini, 1824-1826; A. DE GASPARIS, Sullo stato del R. Osservatorio di Capodimonte e sui lavori in esso eseguiti dal 1819 al 1883, Napoli, Tipografia dell’Accademia Reale delle Scienze, 1884; F. CONTARINO, Cenno storico del R. Osservatorio di Capodimonte in Napoli , Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1900, rist. anast. Napoli, Arte Tipografica, 1996; E. FERGOLA, R. Osservatorio Astronomico di Napoli , in Monografie delle Università e degli Istituti Superiori, Roma, Tipografia Operaia Romana Cooperativa, 1913, vol. II, pp. 583-610; A. BEMPORAD, Cenno storico sull’attività dell’Istituto nel primo secolo di vita, Napoli, Tipografia Raffaele Contessa e fratelli, 1929; T. NICOLINI, Il Reale Osservatorio Astronomico di Capodimonte a Napoli , in «Coelum», X (1940), pp. 136-141; Osservatorio Astronomico di Capodimonte a Napoli , in MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE, Osservatori Astrofisici-Astronomici e Vulcanologici italiani, Roma, 1956, pp. 109-135; M. RIGUTTI, Breve storia dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, in Annuario 1976 , Napoli, Giannini, 1976, pp. 31-57; ID., L’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, Napoli, in Il Meridione e le scienze (secoli XVI-XIX) . Atti del Convegno, Palermo, 14-16 maggio 1985, a cura di P. Nastasi, Palermo, Tipografia Luxograph, 1988, pp. 79-94; L’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, a cura di M. Rigutti, Napoli, Fausto Fiorentino, 1992; E. OLOSTRO CIRELLA, Per una storia dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte: gli anni dal 1735 al 1812, in «Memorie della SAIt», vol. 66 (1995), pp. 795-812; Inventario di Archivio dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte 1802-1948 , a cura di C. Carrino ed altri, Napoli, Arti Grafiche Licenziato, 1999; M. CAPACCIOLI e E. STENDARDO, Storia dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte: l’età dei Borbone, in «Giornale di Astronomia», vol. 27, n. 3 (2001), pp.16-25; M. CAPACCIOLI e G. LONGO, La Scienza nel Periodo Borbonico, ovverosia l’Occasione Mancata , in L’architettura ai tempi dei Borbone, a cura di A. Gambardella, Napoli, ESI, in stampa 2002. 3 L’astronomia è da sempre una scienza praticata con spirito amatoriale da una vasta schiera di dilettanti, ma anche – e con perfetto atteggiamento scientifico – da parte di privati che, in qualche caso, hanno potuto disporre di strumenti di qualità confrontabile se non addirittura migliore di quelli a disposizione degli astronomi professionisti, stipendiati da sovrani e potenti oppure operanti in Osservatori astronomici finanziati dallo Stato o da un’Università.

L’Osservatorio di Capodimonte nel XX secolo · negli spettri stellari intorno al 1890 dagli astronomi Hermann Karl Vogel e Julius Scheiner dell’Osservatorio di Potsdam, e da James

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L’Osservatorio di Capodimonte nel XX secolo

Massimo Capaccioli

Dipartimento di Scienze Fisiche, Università di Napoli Federico II

Osservatorio Astronomico di Capodimonte, Napoli

Inaugurato nel 1819, l’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, già Real Specola Borbonica, da

quasi due secoli costituisce un punto di riferimento per la cultura scientifica in Campania ed un

presidio per le scienze del cielo, ancor oggi (sfortunatamente) unico1 nell’intero Mezzogiorno

continentale del Paese. Per meglio comprendere la storia recente di questo stabilimento, primo in

Italia ad essere edificato ex novo – diversamente dalle Specole di Bologna, Padova, Milano e

Palermo, ospitate in edifici pre-esistenti, successivamente adattati alla funzione – ci sembra

opportuno riassumere il contesto internazionale in cui esso si trovò ad operare2.

Nel corso del XIX secolo, con poche eccezioni gli Osservatori astronomici professionali3 si

occuparono di astrometria, ossia della determinazione accurata delle posizioni stellari e delle

effemeridi planetarie, della misurazione del tempo e delle latitudini, con finalità dichiaratamente

1 Sul territorio nazionale ci sono attualmente 12 Osservatori Astronomici, già enti autonomi dipendenti dal Ministerodell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica e, dal gennaio 2002, associati al neo-costituito IstitutoNazionale di Astrofisica. Di questi ben 8 si trovano nel Centro-Nord (Bologna, Firenze, Milano, Padova, Roma,Teramo, Torino e Trieste), 3 nelle isole maggiori (Cagliari, Catania e Palermo), e solo uno nel Mezzogiornocontinentale, l’Osservatorio napoletano di Capodimonte.2 Per le vicende dell’Osservatorio nel secolo XIX, cfr.: G. PIAZZI, Ragguaglio del Reale Osservatorio di Napoli erettosulla Collina di Capodimonte, Napoli, dalla Tipografia Francese, 1821; C. BRIOSCHI, Comentarj Astronomici dellaSpecola Reale di Napoli , Napoli, Tipografia nella Pietà de’ Turchini, 1824-1826; A. DE GASPARIS, Sullo stato del R.Osservatorio di Capodimonte e sui lavori in esso eseguiti dal 1819 al 1883, Napoli, Tipografia dell’Accademia Realedelle Scienze, 1884; F. CONTARINO, Cenno storico del R. Osservatorio di Capodimonte in Napoli , Torino, UnioneTipografico-Editrice, 1900, rist. anast. Napoli, Arte Tipografica, 1996; E. FERGOLA, R. Osservatorio Astronomico diNapoli , in Monografie delle Università e degli Istituti Superiori, Roma, Tipografia Operaia Romana Cooperativa, 1913,vol. II, pp. 583-610; A. BEMPORAD, Cenno storico sull’attività dell’Istituto nel primo secolo di vita, Napoli,Tipografia Raffaele Contessa e fratelli, 1929; T. NICOLINI, Il Reale Osservatorio Astronomico di Capodimonte aNapoli , in «Coelum», X (1940), pp. 136-141; Osservatorio Astronomico di Capodimonte a Napoli , in MINISTERODELLA PUBBLICA ISTRUZIONE, Osservatori Astrofisici-Astronomici e Vulcanologici italiani, Roma, 1956, pp.109-135; M. RIGUTTI, Breve storia dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, in Annuario 1976 , Napoli,Giannini, 1976, pp. 31-57; ID., L’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, Napoli, in Il Meridione e le scienze(secoli XVI-XIX) . Atti del Convegno, Palermo, 14-16 maggio 1985, a cura di P. Nastasi, Palermo, TipografiaLuxograph, 1988, pp. 79-94; L’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, a cura di M. Rigutti, Napoli, FaustoFiorentino, 1992; E. OLOSTRO CIRELLA, Per una storia dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte: gli annidal 1735 al 1812, in «Memorie della SAIt», vol. 66 (1995), pp. 795-812; Inventario di Archivio dell’OsservatorioAstronomico di Capodimonte 1802-1948 , a cura di C. Carrino ed altri, Napoli, Arti Grafiche Licenziato, 1999; M.CAPACCIOLI e E. STENDARDO, Storia dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte: l’età dei Borbone, in«Giornale di Astronomia», vol. 27, n. 3 (2001), pp.16-25; M. CAPACCIOLI e G. LONGO, La Scienza nel PeriodoBorbonico, ovverosia l’Occasione Mancata , in L’architettura ai tempi dei Borbone, a cura di A. Gambardella, Napoli,ESI, in stampa 2002.3 L’astronomia è da sempre una scienza praticata con spirito amatoriale da una vasta schiera di dilettanti, ma anche – econ perfetto atteggiamento scientifico – da parte di privati che, in qualche caso, hanno potuto disporre di strumenti diqualità confrontabile se non addirittura migliore di quelli a disposizione degli astronomi professionisti, stipendiati dasovrani e potenti oppure operanti in Osservatori astronomici finanziati dallo Stato o da un’Università.

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pratiche, e di dinamica planetaria: una scienza, quest’ultima, ai confini tra matematica, fisica ed

astronomia. Di tutto ciò resta una chiara traccia nel testo che dominò la cultura e la formazione

degli astronomi di quel secolo: il Treatise on Astronomy di John Herschel, che apparve nel 1833 e

fu poi ristampato numerose volte4. Qui le due discipline che sarebbero divenute il centro delle

ricerche nel Novecento, l’astronomia siderale (cioè lo studio delle stelle) e la cosmologia (lo studio

dell’universo extragalattico da un lato, e dall’altro del cosmo nel suo insieme), erano relegate agli

ultimi capitoli e trattate ad un livello puramente qualitativo.

La natura sostanzialmente conservatrice dell’astronomia di quei tempi è esemplificata da

un celebre episodio che, mentre da un lato segnò il culmine della scienza newtoniana, dall’altro

sembra riassumere in sé i principali problemi della scienza dell’Ottocento. Nel novembre del 1845

l’astronomo Urbain Jean Joseph Le Verrier presentò all’Académie des Sciences di Parigi una breve

relazione nella quale egli spiegava le anomalie tra le posizioni del neo-scoperto pianeta Urano

previste teoricamente e quelle effettivamente osservate, ipotizzando la presenza di un corpo posto a

distanza ancora maggiore: un pianeta sconosciuto, di cui Le Verrier riusciva tuttavia a prevedere la

posizione con notevole accuratezza. La notizia di questa strabiliante congettura – all’apparenza di

respiro più adatto al Secolo dei Lumi che all’Ottocento conservatore – varcò la Manica e raggiunse

anche l’Astronomo Reale, George Biddell Airy. Solo allora questi si decise a prendere in

considerazione un manoscritto consegnatogli alcuni mesi prima da un giovane laureato di

Cambridge, John Couch Adams, nel quale si giungeva a conclusioni pressoché identiche. Ma Airy

riteneva che la scoperta di un nuovo pianeta – un avvenimento che oggi collocheremmo nell’ambito

della cosiddetta scienza fondamentale, utile “solo” a produrre conoscenza – non fosse compito di

un’istituzione finanziata con fondi pubblici, qual’era per l’appunto l’Osservatorio Reale di

Greenwich5, e chiese dunque ad un professore di Cambridge, James Challis, di occuparsene. Challis

non diede il giusto peso alla richiesta. Nel frattempo Le Verrier aveva interessato al problema

Johann Gottfried Galle, astronomo all’Osservatorio di Berlino, che la notte del 23 settembre 1846

riuscì per primo a “snidare” il nuovo pianeta, ricalcando così le gesta di Friedrich Wilhelm Herschel

e Giuseppe Piazzi e passando giustamente alla storia.

4 J. F. W. HERSCHEL, Treatise on astronomy , London, Longman, 1833. Il Treatise on astronomy era l’estensione diun lungo articolo scritto da John Herschel per la Cabinet Cyclopaedia, che egli ampliò ulteriormente negli Outlines ofAstronomy del 1849. Cfr. D. LARDNER, The Cabinet Cyclopaedia, London, Longman, 1830-32, 9 voll.; J. F. W.HERSCHEL, Outlines of astronomy , London, Longman, 1849.5 E’ bene ricordare che i primi Osservatori astronomici finanziati con fondi pubblici erano nati nella seconda metà delSeicento con il compito di coadiuvare le marinerie militari e mercantili di paesi quali Olanda, Francia ed Inghilterra,dove già da secoli l’astronomia era coltivata come scienza dai privati e nelle università. Un’analoga motivazione è allabase del consenso accordato dai Borbone all’istituzione di una cattedra di astronomia a Napoli e poi alla realizzazionedell’Osservatorio di San Gaudioso, prima Specola pubblica partenopea. Cfr. M. CAPACCIOLI e G. LONGO, LaScienza nel Periodo Borbonico, ovverosia l’Occasione Mancata , cit.

3

In questa vicenda appaiono inestricabilmente fusi tre dei fattori dominanti la scienza

astronomica del XIX secolo: la relativa chiusura dell’ambiente accademico, una fede assoluta nella

dinamica newtoniana quale regina delle scienze 6 e la forte contrapposizione tra le comunità

scientifiche delle potenze dominanti. A questi fattori si deve aggiungere, per quanto attiene più

propriamente l’astronomia, un’interpretazione ancora molto restrittiva e meccanica del senso e del

ruolo degli Osservatori. Eppure, malgrado tutto ciò e grazie al lavoro di un manipolo di pionieri,

questo secolo segnò un drastico punto di svolta nei metodi e nelle finalità dell’indagine umana

sull’universo.

Già sul finire del Settecento, le ricerche di William Wollaston, e soprattutto di Joseph

Fraunhofer, avevano portato alla scoperta delle cosiddette righe d’assorbimento nello spettro solare:

sottili linee scure che solcano il ventaglio dei colori ottenuto scomponendo la luce del Sole con un

prisma. Mezzo secolo più tardi, con un rudimentale spettrografo visuale, il gesuita Angelo Secchi

avrebbe mostrato l’esistenza di una chiara sistematicità nell’aspetto degli spettri delle stelle: una

strada foriera di straordinari sviluppi, lungo la quale lo avrebbero seguito William Huggins e molti

altri. La natura delle righe osservate da Fraunhofer era stata chiarita da un chimico di Heidelberg,

Robert Wilhelm Bunsen, e dal fisico Gustav Robert Kirchhoff che, studiando gli spettri di fiamma

di vari composti, nel 1859 avevano mostrato come ogni elemento chimico abbia uno spettro

caratterizzato da ben precisi gruppi di righe: vere impronte digitali con cui era possibile

smascherare le “qualità” della materia sia in laboratorio che nelle vaste profondità del cosmo, ove

fosse stato accettato, in barba ad Aristotele, il principio dell’omogeneità del cosmo. Nello stesso

anno, infatti, Kirchhoff aveva anche spiegato i meccanismi di formazione delle righe, aprendo la

strada all’analisi chimica dei corpi celesti: una possibilità che, solo venti anni prima, il filosofo

francese Auguste Comte, nel suo Course de philosophie positive (1830-1842), aveva esplicitamente

escluso7.

Un altro avvenimento determinante era stata la misurazione delle prime distanze stellari,

nel 1837 ad opera dell’astronomo di origine tedesca Friedrich Georg Wilhelm von Struve

all’Osservatorio di Dorpat in Estonia e l’anno dopo da parte del tedesco Friedrich Wilhelm Bessel

all’Osservatorio prussiano di Königsberg. Tra l’altro, la determinazione delle distanze permise di

ricavare le prime stime sulle luminosità intrinseche degli astri e, di lì a poco, avrebbe spalancato la

via allo studio della struttura della Galassia e delle proprietà fisiche delle stelle.

6 Le Verrier era arrivato alla sua ipotesi fidando nell’infallibilità della dinamica newtoniana, poi falsificata da AlbertEinstein, e della legge di forza conosciuta come legge di gravitazione universale.7 A. COMTE, Course de philosophie positive, Paris, 1830-42, 6 voll. Già nel 1891 erano stati riconosciuti nello spettrosolare ben 36 diversi elementi chimici.

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Quasi contemporaneamente, nel 1842, il fisico praghese Christian Andreas Doppler,

traendo spunto da una nota esperienza di acustica8, aveva ipotizzato per la luce l’esistenza di un

fenomeno – una variazione del colore, o più precisamente della posizione delle righe spettrali, in

funzione della velocità radiale relativa 9 della sorgente luminosa rispetto all’osservatore – che si

sarebbe rivelato di estrema importanza ai fini degli sviluppi futuri dell’astronomia e della

cosmologia. Il fenomeno, oggi noto col nome del suo scopritore, venne rivelato per la prima volta

negli spettri stellari intorno al 1890 dagli astronomi Hermann Karl Vogel e Julius Scheiner

dell’Osservatorio di Potsdam, e da James Edward Keeler dell’Osservatorio Lick in California.

Oltre a consentire la misura delle velocità radiali degli oggetti celesti, l’effetto Doppler

permise anche di spiegare una strana scoperta effettuata nel 1887 da Edward Charles Pickering,

allora direttore dell’Osservatorio statunitense di Harvard. Pickering si era accorto che alcune righe

della stella Mizar nell’Orsa Maggiore presentavano periodici sdoppiamenti. Grazie a Doppler,

questa “danza” delle righe poteva essere facilmente spiegata supponendo che Mizar fosse un

sistema stellare doppio nel quale, per effetto del moto orbitale, quando una componente si avvicina

(dando luogo ad uno spostamento verso il blu delle righe spettrali), l’altra si allontana (generando

uno spostamento verso il rosso). La scoperta di questa nuova classe di oggetti – chiamati “doppie

spettroscopiche” in quanto non risolvibili nelle due componenti se non attraverso l’analisi degli

spettri – andò ad unirsi a quella effettuata nel 1785 dall’astrofilo inglese John Godricke delle doppie

fotometriche: astri in orbita l’uno intorno all’altro su di un piano accidentalmente orientato rispetto

all’osservatore in modo tale da causare periodiche eclissi di ciascuna componente da parte

dell’altra. Lo studio sistematico di questi oggetti permise di ricavare informazioni dirette sull’ultimo

parametro di cui ancora non si sapeva nulla (Sole a parte): le masse stellari.

Va comunque sottolineato che, a dispetto di questi ed altri straordinari risultati dell’appli-

cazione della fisica all’astronomia, per quasi tutto il XIX secolo quelli di astrofisica erano stati studi

isolati, condotti da pochi ricercatori dotati di strumenti particolarmente potenti e accurati: studi che

non erano mai entrati nella normale prassi di ricerca della maggior parte degli Osservatori. Ma il

quadro prese a mutare rapidamente sin dagli inizi del Novecento, grazie anche ad un’innovazione

tecnologica di un grosso impatto sulla ricerca astronomica: la fotografia. Sperimentata sin

dall’apparire dei primi dagherrotipi, era stata ufficialmente accettata come efficiente strumento di

ricerca nel 1882, quando l’astronomo scozzese David Gill aveva avuto l’intuizione di montare una

macchina fotografica in parallelo ad un telescopio dotato di moto orario e l’aveva usata per

8 Pare che egli sia stato indotto a riflettere sul fenomeno dopo aver notato il cambiamento di tono nella musica di unensemble che si trovava su un vagone ferroviario di un treno che gli era sfilato davanti.9 La velocità radiale relativa è la componente della velocità della sorgente nella direzione della congiungenteosservatore-sorgente, valutata assumendo che l’osservatore sia fermo. Essa è dunque la somma di due componenti,pertinenti rispettivamente ai moti della sorgente ma anche dell’osservatore.

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raccogliere un’immagine della grande cometa che era apparsa nei cieli quell’anno. Oltre la cometa,

la fotografia mostrava centinaia di immagini stellari. Non fu dunque difficile dedurne le potenzialità

ai fini dello studio sistematico delle posizioni e delle luminosità apparenti degli astri. Di lì a pochi

anni la fotografia venne anche applicata alla registrazione degli spettri degli oggetti celesti,

consentendone lo studio accurato e, soprattutto, il confronto sistematico.

Queste novità ebbero due effetti immediati, entrambi direttamente legati alle caratteristiche

del nuovo strumento tecnologico. La bassa efficienza delle emulsioni dell’epoca costringeva a

tempi di posa eccezionalmente lunghi (si pensi che il primo spettro della galassia di Andromeda

richiese un’esposizione complessiva di oltre 24 ore, suddivise ovviamente in più notti), che

potevano essere ridotti solo aumentando il diametro del collettore di luce. Quest’esigenza fu tra le

principali motivazioni per la realizzazione di telescopi di dimensioni via via sempre maggiori: una

corsa che dura ancora oggi e che ci ha portati dall’ormai favoloso 100 pollici di Mt. Wilson ai

correnti progetti per un Extremely Large Telescope con specchio equivalente di 100 metri di

diametro! Le immagini fotografiche, poi, consentendo di scorgere dettagli anche su oggetti molto

minuti, portarono alla scoperta di un complesso di fenomenologie molto più ricco di quanto non si

sospettasse in precedenza. Ciò stimolò la nascita di filoni di ricerca interamente nuovi quali, ad

esempio, l’astronomia extragalattica. Inoltre, la possibilità di conservare le immagini per uno studio

sistematico e differito rispetto all’osservazione al telescopio consentì l’avvio di indagini statistiche,

altrimenti impossibili, e contribuì alla creazione di gruppi di ricerca internazionali coinvolti in

progetti di ampio respiro e della durata di molti anni. Tale fu il progetto per lo studio della forma e

delle dimensioni della Galassia, intrapreso sul finire del secolo e completato nel 1901

dall’astronomo olandese Jacobus Kapteyn. Lo sforzo coordinato di una dozzina di Osservatori

distribuiti in tutto il mondo permise di ottenere una stima delle posizioni e della luminosità di oltre

un milione di stelle. Sorprendentemente, buona parte del lavoro fu svolto da Osservatori americani

che, per la prima volta, si inserivano con prepotenza nella ricerca astronomica internazionale.

Al suo affacciarsi, il XX secolo trovò una situazione in rapida evoluzione, con il baricentro

della ricerca scientifica che iniziava a spostarsi dal Vecchio al Nuovo Mondo. A differenza di ciò

che accadeva in Europa, dove la ricerca continuava a svolgersi all’interno di antichi istituti statali

cui era richiesta soprattutto la fornitura di servizi (ad esempio la misurazione e la conservazione del

tempo, le misure geodetiche, ecc.), negli Stati Uniti gli Osservatori astronomici crebbero intorno ai

grandi College, avvalendosi largamente delle donazioni di privati. Questi ultimi erano poco

interessati alle tediose ricerche di astronomia posizionale e molto di più all’assicurarsi quel ritorno

di immagine che solo i grandi strumenti potevano procurare. La mancanza di una tradizione

accademica radicata e conservatrice induceva, inoltre, ad esplorare le nuove rotte dell’astrofisica.

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Senza voler entrare nel dettaglio, ci si limiterà a ricordare alcune delle tappe salienti che, nel primo

quarto del secolo, segnarono il definitivo tramonto dell’astronomia posizionale rispetto a più

moderni settori d’indagine quali l’evoluzione delle stelle, la struttura della Galassia e la cosmologia.

Nel 1882, in seguito ad una donazione fatta dalla famiglia di Henry Draper, ricco ed

estroso medico americano con la passione per l’astronomia, l’Harvard College Observatory

intraprese uno studio sistematico degli spettri stellari (su materiale fotografico), che durò oltre

trent’anni e coinvolse, oltre al già menzionato Pickering, anche Annie Jump Cannon. Il frutto fu la

pubblicazione, negli anni tra il 1918 ed il 1924, dello Henry Draper Catalogue10, contenente le

magnitudini ed i tipi spettrali di circa 225-mila stelle. Nel 1905, e quindi molto prima della loro

pubblicazione, questi dati furono usati da Ejnar Hertzsprung, insieme ad altre informazioni quali ad

esempio la distanza, per ricavare la prima correlazione di valenza astrofisica tra temperature

efficaci, luminosità intrinseche e raggi stellari. Ritrovata indipendentemente dall’americano Henry

Norris Russell nel 1913 e nota per ciò come Diagramma di Hertzsprung-Russell o Diagramma H-R,

questa correlazione fu la base di tutti i successivi studi di evoluzione stellare. Pochi anni dopo, nel

1916, Albert Einstein formulò la sua “Teoria della Relatività Generale”, contenente gli strumenti

necessari a trattare analiticamente l’universo come un gas omogeneo e isotropo in equilibrio

dinamico col proprio campo gravitazionale. Le famose equazioni di campo di Einstein sarebbero

diventate subito una palestra per matematici e fisici di ogni paese, tra cui spiccano le figure del

sacerdote belga Georges Lemaître e del matematico russo Alexander Friedmann. Erano anni

particolarmente fecondi per le scienze della natura che, oltre alla Relatività, videro la nascita della

Meccanica Quantistica, la più grande, complessa e ardita teoria tra quante formulate dall’Uomo

nella sua lunga storia.

Sul fronte osservativo (che è quello che distingueva, e ancor oggi distingue, le scienze

sperimentali, appoggiate ai laboratori terrestri, dall’astronomia, condizionata da un pre-esistente ed

inalterabile “laboratorio celeste”), nel 1925 l’americano Edwin Powell Hubble dimostrò in modo

definitivo che le cosiddette “nebulose bianche” – oggetti estesi e traslucidi che si osservavano a

migliaia nei più potenti telescopi dell’epoca – erano in realtà sistemi stellari di dimensioni analoghe

o anche maggiori di quelle della Via Lattea. Non per nulla al libro in cui, nel 1936, raccontò di

questa e di altre sue grandi scoperte, Hubble volle dare un titolo esplicito, The realm of the

nebulae11: esso narrava dell’avverarsi della previsione kantiana degli “universi isola”. Nel 1929,

infine, lo stesso Hubble scoprì che le galassie tendono ad allontanarsi in senso radiale

dall’osservatore con velocità proporzionale alla distanza. Era un fatto a dir poco sorprendente per i

suoi ammiccamenti all’antropocentrismo, e che provava invece, in modo incontrovertibile, come la

10 A.J. CANNON, The Henry Draper catalogue, Cambridge (Mass.), The Observatory, 1918-24, 9 voll.

7

nostra esistenza si svolga entro un universo in rapida espansione: una scoperta successivamente

evolutasi nella contemporanea “teoria del Big Bang”. In poco meno di mezzo secolo, dopo aver

raggiunto, attraverso la termodinamica, la consapevolezza del divenire delle cose, l’Uomo era

riuscito ad abbattere completamente il mito dell’immutabilità dei cieli, di solida ed antica radice,

passando da una prima nozione di evoluzione applicata al Sistema Solare, suggerita nel 1879 da

George Darwin, figlio di Charles, a quella di evoluzione cosmica globale, mostrata da Hubble e già

teorizzata da Friedmann: una nuova coscienza che sbalordiva persino lo spinoziano Albert Einstein.

Questo fermento di attività e di idee nuove coinvolse anche l’Europa e di qui arrivò in

Italia, dove però si fermò ai grandi centri di ricerca astronomica del Nord del Paese che, pur senza

esser protagonisti delle trasformazioni in atto, grazie all’opera di un manipolo di illuminati maestri

seppero tenersi al passo ed ammodernare sia le strumentazioni che i temi di ricerca. Cosa che,

invece, non seppe o non volle fare l’Osservatorio napoletano, arroccato su posizioni scientifiche

superate e per ciò costretto, come vedremo, ad un serrato recupero nell’ultimo quarto del

Novecento.

Un’ultima considerazione prima di entrare finalmente “in medias res”: la storia che

cercheremo di ricostruire sarà principalmente scandita dalle biografie dei diversi direttori che

nell’arco degli ultimi cento anni si sono succeduti alla guida dell’Osservatorio. Il motivo è duplice:

con poche eccezion e sino agli ultimi decenni, i direttori hanno rappresentato le personalità

scientifiche dominanti – se non, in qualche caso, addirittura uniche – in un panorama culturalmente

non esaltante e comunque poco densamente popolato, dove gli astronomi furono sempre “rari

nantes in gurgite vasto”. Ma soprattutto essi hanno condizionato, per eccesso o per carenza di

temperamento, grazie alle loro vittorie politiche o in conseguenza delle loro sconfitte, le strategie

scientifiche in virtù delle quali, nel bene e nel male, s’è costruita la storia dell’Osservatorio 12.

11 E. HUBBLE, The realm of the nebulae, New Haven, Yale University Press, 1936.12 Per una ricostruzione della storia dell’Osservatorio nel XX secolo, cfr.: F. CONTARINO, Cenno storico del R.Osservatorio di Capodimonte in Napoli, cit.; E. FERGOLA, R. Osservatorio Astronomico di Napoli, in Monografiedelle Università e degli Istituti Superiori, cit.; A. BEMPORAD, Cenno storico sull’attività dell’Istituto nel primo secolodi vita, cit.; L. CARNERA, Sulla sistemazione futura della specola di Capodimonte, in Calendario del R. OsservatorioAstronomico di Napoli per l’anno 1934 (XII) , Napoli, Tipografia Arturo Nappa, 1934, pp. 49-56; ID., La Specola diCapodimonte negli anni 1932-33, in Calendario del R. Osservatorio Astronomico di Napoli per l’anno 1934 (XII) , cit.,pp. 57-66; ID., Ancora della futura sistemazione dell’Osservatorio di Capodimonte, in Calendario del R. OsservatorioAstronomico di Napoli per l’anno 1935 (XIII) , Napoli, Tipografia Arturo Nappa, 1935, pp. 51-58; E. GUERRIERI, LoStato attuale dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte ed il lavoro internazionale della variazione dellalatitudine, in «Rivista di fisica, matematica e scienze naturali», X, s. II (1936), nn. 7-8, pp. 284-289 e 309-316; T.NICOLINI, Il Reale Osservatorio Astronomico di Capodimonte a Napoli, cit.; Osservatorio Astronomico diCapodimonte a Napoli, cit.; M. RIGUTTI, Breve storia dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, cit.; ID.,L’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, Napoli, cit.; L’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, a cura di M.Rigutti, cit.; M. CAPACCIOLI, L’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, in Ritratto di Napoli, Napoli, FaustoFiorentino, s.d., pp. 245-249; Inventario di Archivio dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte 1802-1948, cit.Per gli ultimi cinquant’anni ci si è avvalsi anche dei ricordi di chi è nato e/o cresciuto nell’Osservatorio. Alcuneinteressanti notizie sono state rintracciate tra le pagine dei quotidiani dell’epoca, nei Rendiconti delle Accademie

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2. L’Osservatorio di Capodimonte nel XX secolo

Al volger del nuovo secolo, il direttore della Specola partenopea era l’ormai anziano Emanuele

Fergola. Nato a Napoli il 20 ottobre 1830 da una famiglia illustre che annoverava tra i suoi avi il

matematico Nicola ed il geodeta Francesco, curatore della prima “misura matematica” dell’Italia

Meridionale, Emanuele non seguì mai alcun corso di studi tradizionale. Educato privatamente, poté

tuttavia prendere lezioni dal massimo matematico napoletano del tempo, quel Nicola Trudi che era

divenuto famoso per una lunga polemica scientifica contro Vincenzo Flauti. Seppur privo di titoli

accademici, il suo talento era tale da guadagnargli, nel 1855 e quindi a soli venticinque anni, la

nomina di professore di Calcolo infinitesimale al Collegio Militare della Nunziatella e, nel 1860,

l’insegnamento di Introduzione al calcolo presso l’Università di Napoli. Nel 1863 venne chiamato a

ricoprire la cattedra di professore ordinario di Analisi Superiore e contemporaneamente fu

promosso astronomo assistente presso la Specola di Capodimonte, alla quale era stato ammesso

come “alunno”13 sin dal 1849 dall’allora direttore Ernesto Capocci14. Alla morte di questi, nel 1864,

Fergola divenne astronomo in seconda. Ci si sarebbe potuti attendere una rapida conclusione di una

carriera così folgorante con l’affidamento, a questo giovane rampante, della guida dello

stabilimento scientifico di Capodimonte; ma, all’epoca, la carica di direttore della Specola era a vita

e solitamente passava all’astronomo in seconda, che nel caso in questione era Annibale De

Gasparis, carico di gloria e di responsabilità, per la grandezza del suo predecessore.

Va detto che, a dispetto degli accadimenti storici e delle difficoltà indotte dalla transizione

politica dai Borbone ai Savoia, la Specola napoletana, pur di recente istituzione ma dotata di buoni

strumenti e di ottimi astronomi, godeva di una certa reputazione a livello nazionale. E’ interessante,

al riguardo, un passaggio di Poppi e Bonoli15, da cui si evince quale fosse il rango della specola

napoletane, o semplicemente presso gli eredi dei diversi personaggi che popolano la nostra storia, attraverso una ricercanient’affatto sistematica che lascia aperta la strada a possibili future scoperte.13 La notizia si apprende dal Reale Rescritto dei 21 Dicembre 1819: «L’oggetto principale dell’osservatorio, essendoquello di promuovere la scienza del cielo coll’osservazione continuata dei varj fenomeni celesti; ha trovato regolare S.M., ed ha approvato, che la gioventù studiosa, e desiderosa di conoscere a pieno questa scienza riceva tutti quei lumi, equei soccorsi che potrà l’osservatorio somministrarle. A quale oggetto l’Astronomo direttore fisserà due giorni lasettimana, nei quali l’Astronomo in secondo, prendendo per guida le lezioni di astronomia ad uso della Specola diPalermo, sia nel calcolo, sia nelle osservazioni, e maneggio degli strumenti, istruirà ed eserciterà quei giovani, che inqualità di allievi verranno ammessi dal Direttore, dopo che avranno documentato di aver fatto un corso ordinario dimatematica, almeno sino ai principj del calcolo infinitesimale, e di meccanica, e di esservisi distinti», in G. PIAZZI,Ragguaglio del Reale Osservatorio di Napoli eretto sulla Collina di Capodimonte, cit., p. 26.14 La data è incerta: alcuni propongono il 1843, altri il 1848. Tuttavia si propende per il 1849 perché è l’anno che silegge in E. FERGOLA, R. Osservatorio Astronomico di Napoli , cit., p. 587.15 F. POPPI e F. BÒNOLI, Per una storia dell’astronomia a Bologna: il XIX secolo. Atti del XXII Congresso Nazionaledi Storia della Fisica e dell’Astronomia, Genova-Chiavari, 6-7-8 giugno 2002, in stampa 2002.

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partenopea nella graduatoria degli Osservatori italiani: «Raggiunta la stabilità politica con l’Unità

del Paese, si aprì un nuovo problema per l’astronomia italiana. Sul territorio, fino a quel momento

molto frazionato, erano presenti numerose specole la cui gestione economica ricadeva sulle spalle

del nuovo Governo unitario, causando una forte dispersione dei finanziamenti, come ricorda anche

Giovanni V. Schiaparelli in una lettera ad Angelo Secchi del 1868, nella quale analizza la situazione

dell’astronomia nel nostro paese, sostenendo che “qui non si può mai ottenere nulla, e la causa sono

i troppi osservatori che abbiamo, per i quali il Governo spende una somma ragguardevole, senza

che perciò in nessuno si possa fare qualche lavoro importante di osservazione”. I molti osservatori –

dieci – di cui parla Schiaparelli devono la loro origine alla frammentazione dell’Italia in numerosi

stati ed al fatto che in molti di questi i governi locali avevano dato origine, almeno dagli inizi del

Settecento, ad istituzioni astronomiche. Era necessario, quindi, riorganizzare la ricerca astronomica

su scala nazionale mirando a centralizzarne le attività. A tal fine era possibile seguire due strade:

realizzare un nuovo osservatorio centrale, secondo l’esempio dell’Observatoire Royale in Francia o

del Greenwich Royal Observatory in Inghilterra, oppure riordinare in modo razionale ed efficiente

gli osservatori preesistenti. Il primo a muoversi in questa seconda direzione fu Pietro Tacchini16

che, nel 1874, sottopose una relazione al Ministro della Istruzione Pubblica sullo stato

dell’astronomia italiana, proponendo un progetto che prevedeva la suddivisione delle dieci specole

in tre categorie: nella prima categoria - osservatori astronomici dediti alla ricerca - rientravano

l’Osservatorio di Napoli, Milano, Palermo e Firenze, nella seconda - osservatori universitari - quelli

di Padova, Roma (Campidoglio) e Torino, nella terza - osservatori meteorologici - quelli di

Bologna, Parma e Modena. A questa relazione fece seguito una riunione, tenutasi a Palermo nel

1875 in occasione della XII Riunione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze, tra i

direttori dei principali Osservatori astronomici italiani, in cui fu approvata la proposta di Tacchini e

si delinearono le linee guida per il decreto a firma del ministro Bonghi del marzo 1876 che

riordinava le specole italiane»17.

Passato a Capodimonte, il Fergola prese ad occuparsi di ricerche che, pur rimanendo nella

tradizione classica degli studi di matematica, di astronomia posizionale e di meccanica celeste, gli

fecero guadagnare una notevole reputazione in Italia ed all’estero. Contrariamente all’uso dei tempi,

Fergola non fu uno scrittore particolarmente prolifico, né tantomeno prolisso. La sua produzione

scientifica complessiva consta di soli 49 lavori, tra cui particolarmente importanti furono,

nell’ambito della matematica pura, Ricerca sull’espressione di una derivata qualunque di una

funzione in termini delle derivate della funzione inversa del 1857 e Sopra due formole di Calcolo

differenziale del 1858. Si trattava di contributi assolutamente innovativi. Fino ad allora, infatti, i

16 Direttore dell’Osservatorio di Palermo, fondato e diretto dal Piazzi.

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trattati relativi a questo ramo della matematica avevano semplicemente fornito regole per il calcolo

della derivata prima dell’inversa di un’assegnata funzione, e si erano limitati ad accennare al

procedimento con cui calcolare le derivate di ordine superiore al primo. Fergola pervenne invece a

formule più generali che permettevano di calcolare le derivate di qualsiasi ordine di una data

funzione. Un altro scritto degno di nota, pubblicato nel 1862, si intitola Sulla risoluzione per serie

delle equazioni trinomie di grado qualunque, con il quale Fergola contribuì alla risoluzione per

serie delle equazioni algebriche, pervenendo a serie convergenti che esprimono le radici di una

qualunque equazione trinomia, a coefficienti reali o complessi. A partire dal 1864, per effetto degli

incarichi ricevuti all’Osservatorio, Fergola si dedicò a lavori di natura prevalentemente

astronomica, che riscossero grande consenso nella comunità scientifica del tempo. In particolare,

nel 1869, in collaborazione con padre Angelo Secchi, misurò la differenza di longitudine tra Napoli

e Roma per mezzo della trasmissione telegrafica dei passaggi, ottenendo con tale metodo, usato per

la prima volta in Italia, un risultato di grande precisione. A Fergola spetta, inoltre, il merito di aver

preso l’iniziativa perché fossero studiate le eventuali variazioni delle latitudini quando era ancora

radicata l’opinione della loro invariabilità, e di avere più tardi promosso un’intesa internazionale

allo stesso scopo, proponendo un piano razionale di osservazioni che si prestava alla scoperta delle

variazioni di latitudine, tanto a lungo che a corto periodo. Per quanto riguarda questa seconda classe

di variazioni, Fergola rivendicò in seguito, nel 1890, in una lettera diretta al generale Ferrero,

Presidente della Commissione Geodetica Italiana 18, il merito di Arminio Nobile, astronomo di

Capodimonte, di aver constatato nel 1885 una variazione annua di latitudine, così come si evince

dalla sua memoria sulle Ricerche numeriche sulla latitudine del R. Osservatorio di Capodimonte. Si

trattava di ricerche di grande interesse, condotte con grande serietà, competenza e autentica

genialità19, ma diametrali rispetto agli incalzanti studi di astrofisica che in Italia avevano come soli

interpreti Pietro Tacchini a Palermo e poi al Collegio Romano, e Virginio Schiaparelli a Merate.

Grazie a queste e ad altre ricerche, nel 1877 Fergola ottenne la medaglia d’oro della

Società Italiana delle Scienze detta dei XL ed entrò a far parte delle più importanti Accademie

scientifiche italiane. Nel 1889 venne nominato socio corrispondente della Società degli

Spettroscopisti Italiani20 e, dal 1889 al 1891, fu Rettore dell’Università di Napoli. Finalmente, nel

1889 Fergola successe a De Gasparis nella direzione della Specola, e nel 1890 fu trasferito alla

cattedra di Astronomia, resasi vacante. Da un uomo di sessanta anni, carico di doveri e gravato di

17 Regio Decreto n. 3037 del 12/03/1876.18 Per la lettera al generale Ferrero, cfr. P. LEONARDI CATTOLICA, Emanuele Fergola , in «Atti dell’AccademiaPontaniana», s. II, XXI (1916), necrologia n. 2, p. 8s.19 Cfr. L. PINTO, Arminio Nobile (1838-1897) , in «Rendiconto dell’Accademia delle Scienze Fisiche e Matematiche diNapoli (3), III (1987), pp. 138-143, ora ripubblicato a cura di D. Randazzo, in «Giornale di Astronomia», v. XXIII, n. 1(1997), p. 30ss.

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molti incarichi, ci si sarebbe forse potuti aspettare un impegno ridotto. Ed invece Fergola seppe dare

una volta di più ampia prova della sua energia fisica ed intellettuale. Mettendo a frutto il proprio

prestigio personale, riuscì a procurare ingenti finanziamenti e diede l’avvio ad un radicale lavoro di

rinnovamento e potenziamento sia della strumentazione che degli edifici della sua Specola.

Innanzitutto acquisì due nuovi strumenti: un telescopio zenitale costruito dall’artigiano tedesco

Wanschaff, ed uno strumento dei passaggi proveniente dalla ditta Bamberg. Fece poi costruire una

nuova cupola, la cosiddetta “torre occidentale” (ancora visibile sul piazzale antistante l’Osservatorio

e che oggi ospita un piccolo planetario didattico), e vi installò l’equatoriale di Fraunhofer, un

telescopio rifrattore con una lente di 20 cm di diametro. Apportò, inoltre, notevoli miglioramenti

alle cupole orientale ed occidentale ed si procurò vari strumenti di minore importanza, tra cui uno

strumento dei passaggi trasportabile, costruito anch’esso dalla Bamberg, che oggi è tra i pezzi di

maggior pregio esposti nel Museo degli Strumenti Antichi dell’Osservatorio 21. In tutti questi lavori

venne assistito da un meccanico di eccezionale valore, quello stesso Pasquale Moreno che negli

anni successivi avrebbe ottenuto un brevetto per la realizzazione di una macchina per la costruzione

dei cerchi graduati22.

L’acquisto del telescopio zenitale di Wanschaff permise al Fergola – negli anni 1893-1894

ed in collaborazione con l’Osservatorio del Columbia College di New York, posto sul medesimo

parallelo di Capodimonte e fornito di uno strumento gemello – di determinare con una serie di

osservazioni simultanee la variazione della latitudine a Napoli e di dedurre un nuovo valore della

costante di aberrazione.

Nel 1890, Fergola assunse come alunno Vittorio Alberti, che poi divenne secondo

astronomo aggiunto, e, nel 1897, in seguito alla morte prematura di Arminio Nobile e al

pensionamento di Faustino Brioschi, fu costretto ad un forzato ricambio del personale. Vincenzo

Tedeschi passò da secondo a primo assistente, ed entrarono a far parte dell’organico

dell’Osservatorio l’assistente Vittorio Nobile – secondogenito di Arminio ed eccellente meccanico

celeste – ed Eugenio Guerrieri. L’organico scientifico era completato dall’astronomo in seconda

Francesco Contarino e dagli assistenti Filippo Angelitti, un valente matematico e meccanico celeste,

Raffaele Pepere e Orazio Lazzarino. Nel 1905, Fergola fu nominato senatore del Regno e, nel 1909,

in seguito all’entrata in vigore del decreto governativo che introduceva il pensionamento per i

professori universitari ed anche per i direttori degli Osservatori autonomi, rinunziò spontaneamente

ad ogni incarico per ritirarsi a vita privata. In segno di stima e di affetto nei confronti del decano dei

20 Da cui, nel 1920, sarebbe derivata la Società Astronomica Italiana.21 Cfr. il sito Web http://oacosf.na.astro.it/oacmedia/museo.22 Anch’essa conservata presso il Museo degli Strumenti Antichi dell’Osservatorio. L’esemplare esposto permetteva direalizzare cerchi graduati con un diametro massimo di 46 cm. Moreno ne costruì anche uno di dimensioni moltomaggiori, di cui oggi rimane solo il basamento di legno.

12

matematici e degli astronomi, la Facoltà di Matematica indisse nel 1910 una sottoscrizione

nazionale per istituire il premio Fergola da assegnare, ogni quattro anni, ad un giovane laureato

dell’Università di Napoli che si fosse distinto negli studi, in particolare nell’esame di astronomia.

Morì il 5 aprile del 1915.

A Fergola successe, nel 1910, come direttore incaricato il mite Francesco Contarino.

Questi era nato a Reggio Calabria nel 1855 e, grazie ad una borsa di studio, si era laureato in

matematica ed ingegneria presso l’Università di Napoli. Dopo avere insegnato per un breve periodo

Fisica e meteorologia presso il R. Istituto Superiore Agrario di Portici, nel 1878 era stato assunto

come assistente presso l’Osservatorio ed aveva ottenuto la libera docenza in Astronomia e l’incarico

universitario di Geodesia. Pochi anni dopo fu anche assunto come ingegnere dal Comune di Napoli,

dove venne molto apprezzato per alcune sue idee geniali ed innovative quali, ad esempio,

l’invenzione di un sifone adottato nel sistema fognario cittadino. Malgrado Contarino non avesse la

statura intellettuale dei suoi predecessori, il suo lavoro scientifico rivela una sorprendente

originalità e varietà di interessi. Oltre ad occuparsi dei tradizionali problemi di geodesia e di

astronomia di posizione, egli si interessò pure di osservazioni cometarie, di magnetismo terrestre e

di eclissi solari. Non a caso, sotto la sua direzione gli astronomi dell’Osservatorio iniziarono

timidamente a discostarsi dai settori a loro abituali occupandosi, tra l’altro, di osservazioni di stelle

novae, di comete e della ricerca e studio di pianetini: incursioni in quella nuova astronomia che era

destinata a primeggiare nel nuovo secolo. Il suo lavoro più importante fu però la pubblicazione, nel

1911, insieme a Fergola e Angelitti, di un impegnativo lavoro svolto in collaborazione con la

Columbia University di New York, sui Risultati delle osservazioni fatte per la novella

determinazione della costante dell’aberrazione e della latitudine del Reale Osservatorio di

Capodimonte negli anni 1894, 95, 96, 97, 98, che contribuì alla risoluzione definitiva del problema

della variazione della latitudine. Come il suo illustre predecessore, anche il Contarino, durante i due

brevi anni di direzione, cercò di ampliare il parco di strumenti di cui era dotato l’Osservatorio. A lui

si devono gli acquisti di un pendolo di Riefler con campana pneumatica, di un cronografo stampante

della Société Génévoise e del micrometro impersonale di Repsold. Sollevato nel 1912 dall’incarico

di direttore pro tempore, Francesco Contarino rimase in servizio presso la Specola di Capodimonte

sino al 1921. Collocato in pensione, continuò tuttavia a rivestire cariche ufficiali come, ad esempio,

quella di segretario del Reale Istituto di Incoraggiamento di Napoli, fino a pochi anni prima della

morte, sopraggiunta nel 1933. A lui si deve, tra l’altro, una gradevole storia dell’Osservatorio

Astronomico di Capodimonte23.

23 F. CONTARINO, Cenno storico del R. Osservatorio di Capodimonte in Napoli, cit.

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A questo punto vale la pena di soffermarsi un attimo per confrontare ciò che succedeva

presso la Specola napoletana con ciò che, invece, stava accadendo nel resto del mondo occidentale,

e di cui abbiamo già fatto breve cenno nell’introduzione: un abisso tra un’astronomia vecchia e

tecnologicamente arretrata ed un’astrofisica rampante e rivoluzionaria, che il nuovo direttore, il

senese Azeglio Bemporad, nominato nel 1912, avrebbe forse potuto colmare se fosse rimasto a

Napoli più a lungo, anticipando di oltre mezzo secolo la trasformazione dell’Osservatorio in un

moderno istituto di ricerca. Infatti Bemporad, come Giuseppe Armellini a Roma, più che un

astronomo era un astrofisico. Di religione ebraica, si era laureato in matematica presso la Scuola

Normale di Pisa. Aveva lavorato come assistente presso l’Osservatorio di Torino e soggiornato a

lungo (1900-1903) presso gli Osservatori di Potsdam e di Heidelberg, dove aveva iniziato ad

occuparsi di meccanica celeste. Nel 1904 era stato nominato assistente presso l’Osservatorio

Astrofisico di Catania, dove prese ad occuparsi di numerosi e diversi problemi di matematica pura e

di astronomia vera e propria, come la rifrazione atmosferica e la fotometria di comete e della corona

solare. Ebbe tra l’altro un ruolo primario nel completamento della parte assegnata all’Osservatorio

di Catania del Catalogo astrofotografico: la porzione di sfera celeste compresa tra +45° e +55° di

declinazione: un lavoro immane, che durò più di trent’anni, durante i quali furono acquisite oltre

4000 lastre fotografiche e misurate le posizioni e le magnitudini di 175-mila stelle. Nel 1910

Bemporad vinse il premio regio per l’astronomia conferito dall’Accademia Nazionale dei Lincei e,

due anni dopo, il concorso per la direzione dell’Osservatorio di Napoli.

Al suo arrivo a Capodimonte trovò un ambiente ostile e, a giudicare da quanto sarebbe

accaduto negli anni successivi, a dir poco restio ad accettare una qualsiasi forma di innovazione. Il

personale scientifico, oltre naturalmente al Contarino che era tornato a ricoprire il ruolo di secondo

astronomo, consisteva ormai in personaggi solidamente radicati in una prassi di ricerche classiche e

di routine: gli astronomi aggiunti Giovanni Zappa e Vittorio Nobile – quest’ultimo figlio d’arte ed

egli stesso studioso molto dotato24 – e gli assistenti Eugenio Guerrieri ed Orazio Lazzarino.

Bemporad si sforzò invano di svecchiare l’ambiente, proponendo ai suoi collaboratori la

partecipazione al Catalogo astrofotografico, e suggerendo loro nuovi temi di ricerca quali, ad

esempio, le osservazioni fotometriche di stelle novae e variabili, e le osservazioni pireliometriche e

attinometriche del disco solare. Al riguardo, acquisì anche molti nuovi strumenti: un fotometro di

Toepfer con lampadina di confronto (sistema Rosenberg), un pireliometro di Abbott, un

apparecchio di Cooke per la misurazione delle lastre astrofotografiche e, cosa sorprendente per i

tempi, persino tre calcolatrici meccaniche (che ancora si conservano nel Museo). Cercò anche di

24 V. NOBILE, Postulati fondamentali e sistemi di riferimento per la dinamica dell’ammasso galattico, in «Memoriedella SAIt», n.s., IV (1928), pp. 204-229. Notevole, per ampiezza e modernità, è questo lavoro, pubblicato due soli annidopo la scoperta delle galassie da parte di Edwin Hubble e della rotazione galattica da parte di Jan Oort.

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migliorare le strutture e la logistica dell’Osservatorio. Furono costruiti dalle fondamenta gli alloggi

del custode e del portinaio sulla salita della Riccia, la cui rampa venne rifatta in bella pietra lavica,

ed ampliate le abitazioni degli astronomi e l’officina meccanica. Vennero anche aggiunte alle

estremità dell’edificio monumentale della Specola, nello stesso stile e con l’uso delle stesse pietre,

due sale destinate rispettivamente alla direzione ed alla biblioteca; la fabbrica disegnata da Stefano

Gasse in bello stile neoclassico perdeva un po’ delle sue giuste proporzioni, a vantaggio di un

maggiore spazio per le attività istituzionali. Forse, nel violare le linee del monumento, lo schietto

Bemporad aveva ben in mente le dure parole di Piazzi ad Oriani: «Molto però mi duole che finora il

lavoro consista principalmente in bugne, imposte, triglifi, cornicioni, ecc., di travertino, onde

rivestire l’edifizio. Ma senza di ciò io sarei lapidato. I Napolitani sono persuasi che una pomposa e

ricca fabbrica, cui si dia il nome di specola astronomica, sia tutto ciò che demanda la Scienza»25.

Il risultato di questi sforzi fu che nel 1917, in piena crisi bellica, Lazzarino lasciò

l’Osservatorio per passare all’Università di Cagliari. Un anno dopo Zappa se ne andava, chiamato a

dirigere l’Osservatorio privato di Teramo. Infine, nel 1920, anche Nobile lasciò Capodimonte per

una cattedra all’Università di Napoli. Nel tentativo di aggiornare gli interessi scientifici dell’Istituto,

nel 1921 Bemporad assunse un nuovo assistente, Salvatore Aurino, e nel 1924 promosse Guerrieri

secondo astronomo cui si aggiunse, per effetto del trasferimento da Cagliari, Giulio Bemporad. Nel

1925 egli fece passare Aurino astronomo aggiunto e, nel 1926, assunse Mario Merola come

assistente. Qualche anno dopo accettò pure come assistenti volontari avventizi – una sorta di

contrattisti – Alfonso Fresa, Leonardo Genovese, i fratelli Maria ed Alberto Viaro, G. Viola, C.

Spanò e C. Pasquarè. Ma le sue fatiche valsero a ben poco. L’ambiente accademico napoletano si

oppose in modo violento ad ogni tentativo di riforma della Specola, e la polemica raggiunse toni

roventi, giungendo a coinvolgere la stampa locale. Sul Roma della Domenica del 16 maggio del

1926, ad esempio, Bemporad scriveva: «… Ma mentre nulla vi è di strano nella specializzazione di

un astronomo, diventa grave la… fossilizzazione permanente di un istituto in un solo ramo della

scienza! … E quanto all’astrofisica poi, non è (mi permetta il Prof. Torelli) una parte

dell’astronomia “oggi in voga” … press’a poco come i capelli alla garçonne; ma quella parte della

scienza che si sforza di raggiungere la conoscenza sulla istituzione e sulla “vita” dell’universo,

attraverso indagini sulle proprietà fisiche degli astri, che sono “in voga” per lo meno fin dai tempi di

Herschel, che vuol dire da un secolo e mezzo fa; per lo meno dai tempi del Biot, che scriveva il suo

Traité d’astronomie physique nel 1811; per lo meno dai tempi di quel Padre Secchi giustamente

ricordato dal prof. Torelli, che vuol dire da 70 anni fa. E’ un bel pezzo, caro ed illustre Professore, è

un bel pezzo che “si voga”! E non è niente affatto vero che all’astrofisica siano dedicati “speciali

25 Corrispondenza Astronomica fra Giuseppe Piazzi e Barnaba Oriani, a cura di G. Cacciatore e G. V. Schiaparelli,

15

Osservatori” come quello di Catania, unico ricordato dal prof. Torelli. Le più illustri rocche forti

dell’astronomia classica prenda Greenwich, prenda Berlino, prenda Bonn, prenda Poulkovo, prenda

Parigi, prenda da noi, Milano, Padova, Firenze e Bologna, tutte oggi si dedicano (e non da oggi) a

quella astronomia fisica che Ella dichiara “in voga” quasi che fosse poco serio, da parte di un

Osservatorio “classico” come Capodimonte, lasciarsi trascinare dalla corrente!»

Che l’opposizione, questa volta, non fosse interna ma esterna, da parte di uno sclerotizzato

ambiente culturale napoletano, non ci sono dubbi. Gli astronomi dell’Osservatorio, infatti, nel

tentativo di smuovere le acque cercarono di sensibilizzare l’opinione pubblica e fondarono, nel

1924, l’Associazione Urania. In linea con lo spirito delle più avanzate società scientifiche del

mondo transalpino e anglosassone, questa associazione si occupava di divulgazione e “public

outreach”, secondo una consuetudine avviata a Capodimonte già da Giuseppe Piazzi26, il cui ruolo

Bemporad riconosce esplicitamente in una lettera al Presidente del Club Escursionisti di Napoli del

febbraio 1918: «...per merito insigne dell’astronomo fondatore Padre Piazzi quest’Osservatorio

astronomico, unico in ciò fra i dieci congeneri che abbiamo in Italia possiede una Costituzione

fondamentale che fra l’altro fa obbligo espresso al direttore di promuovere in tutti i modi la

divulgazione della scienza astronomica»27.

Sotto l’egida di Urania si organizzavano conferenze, serate di osservazione pubbliche e

visite guidate, si pubblicavano articoli ed opuscoli divulgativi e, cosa molto importante, si

concorreva con mezzi morali e materiali (versamento di una quota annuale da parte dei soci di Lire

50) all’indispensabile rinnovamento degli strumenti, degli apparati accessori e dell’arredo

scientifico della Specola. Alla grande passione per la scienza e per l’astronomia in particolare,

Bemporad associava una sensibilità sociale a dir poco sorprendente per i tempi e per l’ambiente,

come dimostra questo appunto di suo pugno ad un anonimo avvocato, del 20 ottobre 1927: «[…]

proprio ieri una certa signora umilmente presentatasi all’O. en touriste mi ha detto che all’O. di

Brera in Milano è rigorosamente vietata l’ammissione del pubblico a visite serali. Anche qui [a

Milano, 1874, Lettera CLVIII (Napoli, 22 aprile 1818).26 Nella lettera del Sottosegretario di Stato, Ministro degli Affari Interni, al Direttore generale dei R. OsservatoriAstronomici di Napoli e Palermo, Giuseppe Piazzi, dell’11 novembre 1820, si legge: «Mi ha fatto Ella conoscere confoglio del 6 del corrente mese, che converrebbe per mezzo di un avviso di far noto alla gioventù desiderosa d’istruirsinell’astronomia che dalla metà di novembre in poi due volte la settimana le sarà prestata ogni maggiore assistenza nelReal Osservatorio di Capodimonte. In riscontro l’autorizzo a promulgare l’avviso che propone, e che è conforme alleantecedenti determinazioni di Sua Maestà». ARCHIVIO STORICO DELL’OSSERVATORIO ASTRONOMICO DICAPODIMONTE (d’ora in poi: ASOAC), ATTIVITÀ SCIENTIFICA. Servizi, B. 4, f. 5. A tal proposito, cfr. pure M.T.FULCO e E. OLOSTRO CIRELLA, La divulgazione nella storia di Capodimonte e la storia dell’Osservatorio nelladivulgazione oggi. Atti del XXII Congresso Nazionale di Storia della Fisica e dell’Astronomia, Genova-Chiavari, 6-7-8giugno 2002, cit.27 ASOAC, CORRISPONDENZA PRIVATA. Bemporad, B. 1, f. 1.

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Capodimonte] era vietata prima della mia venuta. Io ho creduto di dover cambiare sistema, perché

l’O. è mantenuto dal Governo e le tasse le paghiamo tutti! »28.

Bemporad stava maturando la consapevolezza dell’inutilità dei suoi sforzi, tanto che nel

luglio 1926 scriveva: «Non si può vivere di soli ricordi. Non si possono chiudere gli occhi dinanzi

al fatto che la suppellettile scientifica di questo Osservatorio è la stessa di settanta anni fa, mentre i

progressi della tecnica astronomica sono tali che perfino gli strumenti giganteschi costruiti in

America venti anni fa si considerano ormai come antiquati. Non si possono chiudere gli occhi

dinanzi al fatto che, per potenza di strumenti equatoriali, il nostro Osservatorio è sceso ormai in

coda a tutti gli Osservatori italiani e resta persino indietro a qualche Osservatorio privato»29. E poco

più tardi, nel 1927, così rispondeva, «non già con intenzione di amara ironia, ma con perfetta

serietà», all’invito del Principe Ginori Conti di partecipare, col suo Osservatorio, alla prima

esposizione nazionale di storia della scienza: «Illustre Principe, veduto il programma […], penso

che l’Osservatorio di Capodimonte potrà figurarvi non solo degnamente, ma addirittura in uno dei

posti d’onore, perché qui tutto è storico, per non dire preistorico»30. Scoraggiato, nel 1933 lasciò la

direzione di Napoli per assumere quella dell’Osservatorio di Catania. Nella città siciliana, memore

della passata esperienza, continuò a dedicarsi con grande passione sia all’attività di divulgatore

della scienza astronomica sia all’attività di scrittore-poeta, mettendo a frutto le sue profonde

conoscenze letterarie. Deposto nel 1938 in seguito alla promulgazione delle infami leggi razziali, fu

reintegrato nel 1943, dopo la caduta del regime fascista, ma non riuscì a riprendere l’attività

scientifica a causa di una grave malattia. Morì l’11 febbraio del 1945.

Alla direzione della specola napoletana gli era frattanto succeduto Luigi Carnera che, come

si vedrà, avrebbe subito provveduto a spegnere ogni residua velleità di riforma e a riportare

l’Osservatorio nel solco delle sue tradizionali attività. Nato a Trieste il 14 aprile del 1875, Carnera

si era laureato in matematica a Pisa e, dopo avere svolto alcune ricerche nel campo della

matematica pura, nel 1899 era entrato come assistente volontario all’Osservatorio di Torino per

specializzarsi in astronomia posizionale. Dal 1890 al 1903 aveva soggiornato presso l’Osservatorio

di Heidelberg, dove aveva collaborato con Max Wolf, che considerava il suo vero maestro, e presso

l’Osservatorio di Strasburgo. In questo periodo Carnera si era occupato soprattutto di stelle variabili

e della ricerca di nuovi asteroidi, ma già nel 1903 prese ad interessarsi della misurazione delle

latitudini presso la stazione osservativa del Servizio Internazionale delle Latitudini (SIL) di

Carloforte. Messosi subito in evidenza per le sue conoscenze e per le sue capacità organizzative, nel

28 ASOAC, ATTIVITÀ SCIENTIFICA. Servizi, B. 4, f. 5.29 Cfr. G. LONGO e G. BUSARELLO, La ricerca astronomica dalla fondazione al 1969 , in L’OsservatorioAstronomico di Capodimonte, a cura di M. Rigutti, cit., p. 95.30 ASOAC, ATTIVITÀ SCIENTIFICA. Strumenti, B. 3, f. 5.

17

1905 fu inviato dal SIL in Argentina per fondare, ad Oncativo, una nuova stazione osservativa posta

a 180° di longitudine dalla stazione gemella di Bayswater in Australia. Rientrato in Italia nel 1908,

dal 1910 al 1918 insegnò astronomia presso il Reale Istituto Idrografico della Marina di Genova e,

nel 1919, in seguito all’annessione di Trieste, ebbe la direzione di una locale stazione specializzata

nelle misure di cronometria, meteorologia e sismologia. In quattro anni di duro lavoro, Carnera

riuscì a potenziare la dotazione strumentale dell’Istituto ed a far sì che esso venisse riconosciuto dal

governo italiano come Osservatorio astronomico e, nel 1924, ne fu nominato primo direttore.

Non sorprende, quindi, che Luigi Carnera apparisse come la persona ideale per placare gli

esacerbati animi della comunità accademica napoletana; così, nel 1932, fu chiamato a Napoli per

ricoprire, oltre che la carica di direttore della Specola, anche la cattedra di Astronomia generale e

sferica presso l’Università di Napoli e quella di Astronomia geodetica presso l’Istituto Universitario

Navale. Le motivazioni della sua chiamata, e soprattutto la sua totale chiusura verso ogni nuovo

fermento culturale, rendono difficile valutare positivamente l’opera del Carnera; eppure non si può

affermare che egli sia stato un cattivo direttore.

Aiutato dal tecnico Vincenzo Cassella, che si era trasferito con lui da Trieste, diede avvio

ad una radicale ristrutturazione della strumentazione esistente e ad una risistemazione dei locali. Il

vecchio cerchio meridiano di Repsold fu smontato e le ottiche inviate alla ditta Zeiss di Jena per

esservi ripulite. Dopo una totale revisione delle parti meccaniche, che comportò anche il

rifacimento del piede dello strumento e dei cerchi verticali, il Repsold venne collocato all’interno di

una nuova cupola ordinata alla ditta Bombelli ed eretta a circa 30 metri dall’edificio monumentale.

Furono migliorati gli strumenti per la registrazione cronografica e la dotazione dell’officina

meccanica. Lo strumento dei passaggi di Bamberg fu spostato all’esterno dell’edificio principale,

entro un casotto appositamente costruito, e venne realizzata una cabina isolata per alloggiarvi la

preziosa collezione di pendoli dell’Osservatorio. Come unica concessione all’astrofisica, Carnera

fece riattare il vecchio rifrattore di Dollond e lo dotò di uno spettrografo Steinhel per lo studio delle

protuberanze solari e di una camera fotografica Meyer-Salmoiraghi per lo studio del Sole. Ma l’idea

di Carnera era di trasportare a Capodimonte, accanto al vecchio Osservatorio astronomico, sia

l’Istituto di fisica terrestre che quello di geodesia. Per questa trasformazione, unica nel suo genere

in Italia, Carnera si rivolse all’architetto A. Sanariga che mise a punto un progetto, mai realizzato.

Nel 1936, l’Unione Internazionale Geodetica e Geofisica stabilì che l’Osservatorio divenisse la sede

centrale del SIL, e nominò Carnera suo direttore. Per alcuni anni Capodimonte si trovò ad essere il

centro di un filone di ricerche obsoleto, ma pur sempre di grande rilevanza, e non a caso Paolo

Vocca, che dal 1931 al 1932 era stato direttore della Stazione di Carloforte, nel 1935 chiese il

trasferimento dall’Osservatorio di Brera a quello di Napoli. Dal 1936 al 1941, il personale

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dell’Osservatorio, pur ridotto ad un esiguo manipolo (Giulio Bemporad se n’era andato nel 1933,

Aurino nel 1935 e Maria Viaro nel 1937, rimpiazzati prima dall’assistente Tito Nicolini e poi dal

volontario Riccardo Barbatelli), pubblicò oltre un centinaio di lavori di astrometria; quindi l’attività

subì un arresto forzoso dovuto al fatto che il conflitto in corso impediva l’arrivo a Napoli dei libretti

di osservazione raccolti dalle varie stazioni.

Nel 1943, dopo aver ospitato alcuni pezzi di artiglieria tedesca, la Specola venne occupata

una prima volta dagli inglesi ed una seconda dagli americani, che vi installarono alcune postazioni

contraeree. Gli astronomi ed il personale tecnico furono evacuati e le attività non poterono

riprendere fino al 1946. La guerra lasciò l’Osservatorio in cattive condizioni, ma non perché avesse

subito danni irreparabili; anzi, gli occupanti si erano comportati con grande senso di responsabilità,

evitando di arrecare danni alle strutture ed alle attrezzature. Il problema era che Carnera, con il suo

carattere autoritario e con la sua arrogante convinzione dell’assoluta superiorità dell’astronomia

posizionale rispetto a quella teorica e all’astrofisica, aveva scoraggiato i migliori intelletti

dell’università partenopea dall’intraprendere studi astronomici, e veniva così a mancare il

necessario ricambio di personale scientifico. A ciò va aggiunto che la ricerca bellica, unita ai

progressi della tecnologia nel settore della misurazione del tempo, avevano ulteriormente svuotato

di contenuti quelle ricerche che, da sempre, sembravano essere il destino ineluttabile

dell’Osservatorio.

Nel 1948, con l’andata fuori ruolo di Carnera, la sede centrale del Servizio Internazionale

delle Latitudini passò all’Osservatorio di Pino Torinese, all’epoca diretto da Gino Cecchini – un

altro Normalista aperto all’astrofisica –, e la direzione di Napoli venne affidata ad un astronomo

giovane ed entusiasta, Attilio Colacevich. Nato a Fiume il 25 luglio 1906, aveva perso il padre ed il

fratello maggiore durante un’escursione sul Monte Bianco e si era ritrovato, ancor ragazzo, a

doversi fare carico della conduzione della famiglia. Trasferitosi a Firenze per studiare sotto la guida

di Giorgio Abetti, grande patron della nascente astrofisica italiana, vi si era laureato in fisica,

discutendo un argomento pionieristico per quei tempi: la variabilità delle stelle Cefeidi. Nel 1935

aveva vinto una borsa di studio che gli aveva permesso di trascorrere un anno all’Osservatorio Lick

in California. Di ritorno in Italia, aveva ottenuto la libera docenza in astronomia, ed era stato inviato

per il rituale periodo di studi astrometrici alla stazione di Carloforte. Nel 1948 vinse il concorso

nazionale per la cattedra di astronomia presso l’Università di Napoli e, con essa, ottenne anche la

direzione dell’Osservatorio. Per la prima volta un vero astrofisico era alla guida dell’Osservatorio

napoletano. Sarebbe stato lecito aspettarsi un radicale cambiamento d’indirizzo, ma purtroppo le

cose non andarono così, e la nuova direzione non cambiò granché le cose. Ciò fu in parte dovuto

alle usuali resistenze dell’ambiente scientifico locale verso ogni forma d’innovazione e, in parte, al

19

fatto che Colacevich non si adattò mai del tutto ad una realtà molto diversa da quella in cui era

cresciuto. Per tutto il resto della sua breve vita continuò a sperare in un trasferimento a Firenze e

mantenne ad Arcetri il baricentro dei propri interessi scientifici. Dal 1949 al 1950 lasciò

l’Osservatorio nelle mani di Aldo Kranjc, suo aiuto-astronomo, e tornò negli Stati Uniti. Poco dopo

il suo ritorno, nel 1952, decise di avviare un moderato programma di rinnovamento dell’obsoleta

strumentazione disponibile, ed installò sul glorioso Fraunhofer un fotometro fotoelettrico (il primo

ed unico in Italia) con un registratore a penna. Malgrado si trattasse di un telescopio vecchio di oltre

un secolo, Kranjc e Alfonso Fresa, entrato come astronomo nel 1952, riuscirono ad ottenere

affidabili curve di luce per numerose stelle variabili. Nel 1952 fu chiamato a Napoli anche Mario

Castellano, un ex-ufficiale di marina che, insieme a Tito Nicolini, iniziò ad adoprarsi per riportare a

Napoli la sede centrale del SIL. Castellano si era formato sotto la guida di Friedrich Melchior,

all’epoca la massima autorità nel campo dell’astronomia posizionale e direttore dell’Osservatorio

belga di Uccle.

Il 1953 fu un anno molto difficile per l’ormai piccola comunità degli astronomi napoletani.

Già sul finire del 1952 Colacevich aveva accusato i primi sintomi di una malattia incurabile che ne

avrebbe provocato la morte, a soli 47 anni, il 24 agosto del 1953. Lo stesso anno, stroncato da una

crisi cardiaca durante un soggiorno ad Uccle finalizzato a preparare la campagna d’osservazione

internazionale prevista per il 1957-1958, morì Castellano e, pochi giorni dopo, morì anche Paolo

Vocca, nel frattempo divenuto professore di Idrografia presso l’Istituto Universitario Navale. A

commento della morte di Colacevich, Otto Struve, direttore del Dipartimento di Astronomia

dell’Università di Berkeley, scrisse: «Egli fu uno dei più attivi astronomi europei, e le sue

cognizioni di spettroscopia stellare ne facevano un membro particolarmente apprezzato del distinto

gruppo di astrofisici italiani. Il suo valore era degno dei suoi famosi predecessori, Secchi, Respighi,

Abetti ed altri […]31». Il valore di Colacevich fu riconosciuto anche dall’Accademia dei Lincei che,

nel 1955, gli assegnò, alla memoria, il premio nazionale Presidente della Repubblica per

l’Astronomia. Il 19 dicembre 1953, la direzione dell’Osservatorio venne affidata a Tito Nicolini.

Nato il 26 luglio 1899 a Pozzaglia Sabina vicino Rieti, Nicolini era cronologicamente e di

fatto un uomo di un altro secolo. In un’epoca in cui la fisica rappresentava il fulcro della ricerca

astronomica, Nicolini era innanzitutto un matematico, disciplina in cui si era laureato presso

l’Università di Roma, ed uno specialista di astronomia posizionale e di meccanica celeste. Durante

la Prima Guerra Mondiale si era arruolato come ardito ed aveva ricevuto una medaglia al valore;

quindi, dopo un breve periodo di insegnamento nelle scuole medie superiori, era entrato come

assistente incaricato alla Stazione di Carloforte, per rimanervi fino al 1937. Nel 1938, si era

20

trasferito a Napoli, dove Carnera lo aveva incaricato del servizio orario e, in particolare, della

sincronizzazione del pendolo di Barraud con il pendolo principale Rifler della Società Volturno,

appaltatrice della gestione della rete di orologi stradali napoletani. Dopo pochi anni Nicolini aveva

iniziato a collaborare alle attività del SIL e ad insegnare astronomia presso l’Università di Napoli e

l’Istituto Universitario Navale. Nel 1948 giunsero le promozioni prima ad astronomo aggiunto e poi

ad astronomo. La direzione di Nicolini si articolò in due periodi. Un primo, dal 1953 al 1955, in cui

fu direttore incaricato in attesa che venisse espletato il concorso per l’assegnazione della cattedra di

astronomia lasciata vacante da Colacevich, ed un secondo, più lungo e come direttore effettivo, dal

1957 al 1969.

Nell’interregno, la direzione andò al calabrese Massimo Cimino. Nato a Nicastro nel 1908,

si era laureato in matematica a Roma nel 1933. Nominato nel 1943 aiuto astronomo presso

l’Osservatorio di Monte Mario, nel 1949-50 ottenne dal CNR una borsa di studio che gli permise di

andare a perfezionarsi negli Stati Uniti, negli Osservatori di Monte Wilson e Monte Palomar.

Rientrato in Italia, nel 1954 ottenne la cattedra di Astronomia all’Università di Cagliari e, nel

biennio 1956-57, la nomina a direttore dell’Osservatorio di Capodimonte. A partire dal 1958, e per

20 anni, fu direttore dell’Osservatorio romano di Monte Mario di cui riorganizzò l’attività

scientifica, promuovendo tra l’altro la realizzazione della Stazione osservativa di Campo

Imperatore.

Come si è detto, nel 1957 la direzione ritornò a Nicolini. Questi era un brav’uomo e di

certo aveva una profonda conoscenza dell’astronomia classica, ma non mostrò alcun interesse né

verso l’astrofisica né tantomeno verso le nuove strumentazioni che il resto del mondo iniziava a

sviluppare e a realizzare. Nel 1957 veniva lanciato in orbita il primo satellite artificiale e, in vari

angoli del mondo, entravano in funzione i primi telescopi di grandi dimensioni ed i primi

radiotelescopi; ma il nuovo direttore della Specola di Capodimonte sembrava saldamente

intenzionato a fermare l’orologio della storia e, anzi, a riportarlo indietro. Fece ritornare a Napoli la

sede centrale del SIL, riattò alcuni dei vecchi strumenti dei passaggi e lasciò lentamente ma

inesorabilmente decadere l’Istituto. Per farsi un’idea dell’indifferenza con cui veniva trattata la

moderna astrofisica, basti sapere che un telescopio Askania del diametro di 50 cm, acquistato nel

1963 e che avrebbe dovuto essere usato per misure fotometriche di stelle variabili – cioè per

qualcosa di diverso dalle misure di posizione – rimase nelle casse fino al 1970. A parziale giustifica

di Nicolini va detto che l’acquisizione della prevista sede per la stazione osservativa – una casa

della Gioventù Italiana ad Agerola, al confine tra le province di Napoli e Salerno – non era andata a

buon fine a causa dell’opposizione di alcuni funzionari ministeriali. Anche un filtro interferenziale

31 Cfr. G. LONGO e G. BUSARELLO, La ricerca astronomica dalla fondazione al 1969 , in L’Osservatorio

21

di Lyot, che era stato acquistato nel 1968 per essere montato al fuoco del telescopio Dollond per

osservazioni della cromosfera solare, era stato danneggiato all’atto dell’installazione e quindi

abbandonato in un deposito.

Col pensionamento di Fresa nel 1966, l’Osservatorio perse l’ultimo dei suoi ricercatori che

dell’astronomia avesse una visione un po’ meno restrittiva. Fresa aveva sempre cercato di

combinare le ricerche di astronomia classica con altre di diversa natura: soprattutto lo studio della

Luna e la fotometria stellare. Nel 1933 aveva anche pubblicato il volume La Luna. Movimenti -

Topografia - Influenze e culto, poi tradotto in molte lingue: uno straordinario successo editoriale

riconosciutogli anche dall’International Lunar Association che, nel 1974, gli intitolò uno dei crateri

del nostro satellite. Restavano Elio Fichera, entrato nel 1955 e ormai al massimo della carriera, e

Andrea Vassallo. A partire dal 1965, e in un breve volger d’anni, sarebbero entrati Santi Mancuso,

Leopoldo Milano, Antonio Pugliano e Ennio Badolati, tutti destinati a fare in seguito carriera

nell’università.

Nel 1969 Nicolini venne collocato a riposo. A ricoprire la cattedra di astronomia fu

chiamato Mario Rigutti, e con lui le cose iniziarono a cambiare. Nato a Trieste il 19 agosto del

1926, Rigutti aveva studiato a Firenze nello stesso periodo in cui, sotto la guida di Guglielmo

Righini, si formava parte di quella nuova generazione di astrofisici destinata a rivoluzionare

l’assopito ambiente dell’astronomia italiana: una generazione fortunata, che avrebbe potuto valersi

anche di maestri quali Livio Gratton a Roma, Mario Girolamo Fracastoro a Catania prima e poi a

Torino, e Leonida Rosino a Padova. Poco prima che Rigutti raggiungesse la sua nuova sede, Karl

Kiepenheur, direttore del Fraunhofer Institüt di Friburgo, gli inviò una lettera di congratulazioni per

l’assegnazione della cattedra universitaria, che si concludeva con un quanto mai significativo

viatico: «Good luck! Altogether I would not like to become director of such a prehistoric

Observatory».

In effetti, Rigutti trovò a Napoli un istituto ormai in rovina, con edifici malridotti e

strumenti scientifici già di per sé obsoleti, che l’incuria aveva reso inutilizzabili (con la sola

eccezione dello strumento dei passaggi). L’officina aveva una dotazione di macchinari sorpassati, e

persino la biblioteca era dispersa nei vari locali e nelle abitazioni degli astronomi. L’Istituto

mancava delle più elementari strutture, quali servizi igienici, depositi, ed una solida recinzione che

lo isolasse dal circostante, degradato quartiere. Anche il grande parco era stato progressivamente

invaso dalle famiglie di coloni cui, pochi anni dopo la fondazione dell’Istituto, il Demanio aveva

affittato una parte del terreno entro il comprensorio dell’Osservatorio perché vi coltivassero ortaggi

e frutta. Si racconta che, a qualunque momento del giorno e della notte, il comprensorio

Astronomico di Capodimonte, a cura di M. Rigutti, cit., p. 98.

22

dell’Osservatorio fosse frequentato da senzatetto, venditori ambulanti, cacciatori, e una miriade di

altri personaggi che nulla avevano a che fare con le attività istituzionali. «L’inizio della ripresa fu

assai duro e difficile» scrive lo stesso Rigutti. «Si potè contare solo sulle forze dell’Istituto e,

ovviamente, non su tutte, perché non tutti reagirono positivamente alle nuove proposte.

Sconvolgevano un sistema di vita oggi ben difficilmente comprensibile: tranquillo, da signorotti di

campagna, un po’ tronfi e riveriti nel popolare quartiere, ma a patto di non dar noia ai contadini e di

non ostacolare usanze antiche come la processione di Sant’Anna che entrava nel comprensorio con

banda e tutto e si fermava presso le abitazioni per la questua. Qualcuno tra gli astronomi reagì in

modo più o meno aperto, inequivocabilmente negativo, diciamo conservatore, rendendo il

rinnovamento anche più difficile»32.

Questo già di per sé disperante quadro era ulteriormente complicato dalla mancanza di una

scuola locale a cui poter attingere nuove forze, capaci di far fronte alle esigenze di una moderna

ricerca. Nicolini ed i suoi predecessori avevano contribuito a confinare l’insegnamento universitario

all’astronomia sferica e alla meccanica celeste. Ciò aveva allontanato da Capodimonte e

dall’astronomia gli studenti della pur brillantissima scuola napoletana di fisica, che altrove erano

invece l’obiettivo naturale degli insegnamenti di astronomia. Diversamente da sedi quali Padova,

Bologna e Firenze, l’offerta didattica era stata rivolta prevalentemente al settore delle matematiche,

e la mancanza di competenze professionali nei diversi settori dell’astrofisica aveva impedito lo

sviluppo di uno specifico gruppo di ricerca presso la locale Università. A Rigutti si presentò dunque

un duplice problema: riammodernare le strutture e potenziare l’organico dell’Osservatorio da un

lato e, dall’altro, promuovere la costituzione di un gruppo di fisici interessati a portare avanti

ricerche di tipo astronomico.

Il lavoro di riordino durò quasi un lustro e riservò non poche sorprese. Lentamente, dai

depositi dell’Osservatorio emersero veri e propri tesori che, una volta rimontati e restaurati, furono

custoditi in attesa di essere esposti nel Museo Storico, inaugurato nel suo primo allestimento nel

1992. Da ciò che restava della biblioteca furono estratti libri preziosissimi, e persino una copia in

ottimo stato di conservazione della mappa settecentesca della città di Napoli realizzata dal Duca di

Noja. Rigutti riuscì anche a dotare il suo Osservatorio di un sia pur modesto telescopio riflettore.

All’uopo si avvalse del fatto che, fino al 1983, le direzioni dell’Osservatorio di Napoli e di quello di

Teramo erano affidate entrambe all’ordinario della cattedra di astronomia dell’Università di Napoli.

In effetti, quello di Teramo era un Osservatorio privato, costruito nella seconda metà dell’Ottocento

da Vincenzo Cerulli, un ricco ed illuminato latifondista abruzzese che, nel 1917, lo aveva lasciato in

eredità allo Stato. Il suo strumento principale era un eccellente telescopio rifrattore con una lente del

32 M. RIGUTTI, L’Osservatorio Astronomico di Capodimonte dal 1970 , in L’Osservatorio Astronomico di

23

diametro di 40 cm, equipaggiato con un fotometro fotoelettrico. L’unico astronomo attivo era Piero

Tempesti che, malgrado l’isolamento, aveva saputo crearsi una solida reputazione come esperto di

variabilità stellare e come divulgatore. Nel 1972, Rigutti fece trasferire il telescopio Askania a

Teramo, per installarlo all’interno di una nuova cupola appositamente costruita, e lo dotò di un

fotometro fotoelettrico di nuova costruzione. Nello stesso anno, in seguito al lascito testamentario

dell’ingegnere napoletano Giuseppe Cenzato, fu possibile sostituire il vecchio Dollond con un

rifrattore Salmoiraghi del diametro di 20 cm e con 3 metri di lunghezza focale. Su di esso fu

installato il filtro di Lyot di cui si è già detto e che, nel frattempo, era stato fatto riparare dalla casa

costruttrice. Si trattava di strumenti di piccola dimensione, ma nel contesto napoletano significarono

una vera e propria rivoluzione: per la prima volta in trent’anni gli astronomi potevano finalmente

avvalersi di strumenti in grado di svolgere un lavoro modesto sì, ma significativo.

Per quanto invece riguarda il personale scientifico, non potendosi avvalere esclusivamente

di competenze locali, Rigutti portò con sé da Firenze una parte di quelle risorse umane che

avrebbero dovuto fare da volano per la definitiva nascita dell’astrofisica a Napoli. Entrarono a far

parte dell’organico dell’Osservatorio giovani e valenti ricercatori, per lo più specialisti di fisica

solare, settore in cui Rigutti aveva saputo conquistarsi una certa reputazione a livello internazionale:

Roberto Falciani, Bruno Caccin, Guglielmo Moschi, Umberto De Angelis, Luigi De Cesare,

Antonio Forlani e Giovanni Platania. E sul finire del 1972, l’Osservatorio si raccolse attorno ad un

progetto comune: l’osservazione dell’eclisse solare prevista per il giugno 1973. In pochi mesi

furono realizzati un telescopio solare di tipo Gregory con un diametro di 25 cm ed uno spettrografo

multiplo con tre diversi cammini ottici in grado di coprire simultaneamente tre bande spettrali, ed il

personale approntò tutti i materiali necessari per un’impegnativa spedizione ad Atar, in Mauritania.

L’impresa fallì a causa di una tempesta di sabbia che rese impossibile effettuare osservazioni

significative. Tuttavia, per la prima volta dopo tanto tempo, l’Osservatorio di Capodimonte si era

trovato coinvolto in prima persona in una moderna attività di ricerca. Per Napoli avrebbe potuto

significare molto ma, pochi mesi dopo il ritorno dall’Africa, il giovane gruppo iniziò a sfaldarsi.

Tensioni interne, dovute a diversità di vedute sul modo di gestire lo sviluppo dell’Osservatorio,

provocarono una virulenta polemica che trovò ampio spazio persino sulle pagine dei quotidiani

napoletani. Cominciò così un lento ma inesorabile esodo di personale scientifico dall’Osservatorio

all’Università. Ciò, mentre da un lato ebbe il benefico effetto di creare presso l’Ateneo napoletano il

primo nucleo di una scuola di astrofisica che fino ad allora non c’era mai stata, dall’altro lato fece

precipitare nuovamente l’Osservatorio in un isolamento che questa volta non riguardava solo la

comunità nazionale, ma anche l’ambiente accademico napoletano. Nel 1980, la legge di riforma

Capodimonte, a cura di M. Rigutti, cit., p. 113s.

24

dell’Università (DPR 382), con la introduzione della categoria dei professori associati, provocò

un’ulteriore emorragia di personale verso l’Università, e l’Osservatorio raggiunse un nuovo minimo

nella consistenza numerica del suo personale scientifico: solo 4 ricercatori tra il 1985 ed il 1986,

contro una quindicina alla fine degli anni ‘70.

Rigutti non si arrese e continuò ad adoprarsi per la crescita strutturale dell’Istituto,

riprendendo tra l’altro, e rivitalizzando, quella vocazione alla divulgazione e alla didattica che era

stata dei suoi illustri predecessori: soprattutto Piazzi, Capocci e Bemporad. Fu realizzato un primo

nucleo di centro di calcolo: dapprima solo un terminale remoto del centro di calcolo dell’Università

e poi una struttura autonoma, interamente dedicata al calcolo teorico e alla riduzione dei dati

astronomici. Nel 1983, in cooperazione con l’Osservatorio di Trieste, venne anche acquisito un

microdensitometro Perkins ed Elmer: dispositivo di alta precisione in grado di trasformare i negativi

fotografici in matrici numeriche di valori di densità. Questo strumento, per un breve periodo unico

nel suo genere in Italia, richiamò a Napoli molti ricercatori di altri istituti e contribuì a suscitare

interesse per la moderna riduzione e analisi dei dati. Nel 1989 venne anche aperto presso

l’Osservatorio, in collaborazione con l’Istituto Universitario Navale e sotto la direzione scientifica

di Ezio Bussoletti, un Laboratorio di Fisica Cosmica che ha oggi raggiunto dimensioni e risonanza

internazionali, e che ha rappresentato il passepartout per l’ingresso delle attività spaziali a

Capodimonte. E’ necessario sottolineare che gli interventi più radicali di quegli anni, la

realizzazione del grande auditorium e del museo storico, nonché l’avvio dei lavori per la

costruzione del Toppo di Castelgrande di cui si dirà tra breve, furono resi possibili da fondi

straordinari ottenuti autonomamente dall’Osservatorio ricorrendo a fonti di finanziamento locali ed

europee. Purtroppo, nonostante l’impegno personale di Rigutti e dei suoi più stretti collaboratori,

una parte non piccola dei lavori di ristrutturazione della vasta e prestigiosa sede vennero eseguiti

male o solo parzialmente: una “malaedilizia” di cui ancora oggi si pagano le conseguenze.

Il 17 aprile del 1982 segnò un punto di svolta per l’astronomia italiana. E’ di quella data la

pubblicazione del decreto del Presidente della Repubblica no. 163, relativo al Riordinamento degli

Osservatori Astronomici, Astrofisici e Vesuviano, in cui si muovevano i primi passi verso la riforma

del settore della ricerca astrofisica. Tra le altre cose, la riforma prevedeva il decentramento dei

concorsi, l’introduzione di organi decisionali nei singoli istituti, l’equiparazione del personale

scientifico degli Osservatori a quello universitario, e stabiliva anche che le direzioni non fossero più

a vita bensì a termine. Soprattutto, la riforma introduceva un organo nazionale, il Consiglio per le

Ricerche Astronomiche (CRA), presieduto dal Ministro dell’Università e della Ricerca, che, pur

non avendo formalmente alcun potere decisionale (in quanto organo consultivo del competente

Ministero), di fatto coordinava la maggior parte delle attività degli Osservatori italiani.

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Nel gennaio del 1993, su proposta del CRA, il Ministro dell’Università e della Ricerca

affidò allo scrivente la direzione dell’Osservatorio di Capodimonte, dove una dozzina di ricercatori

si trovavano impegnati su un vasto fronte: fisica solare, fisica stellare, fisica delle galassie, fisica del

mezzo interstellare e tecnologie astronomiche. Si trattava per lo più giovani che, a causa

dell’assoluta mancanza di massa critica e di strumenti di punta, stentavano a trovare un giusto

inserimento nel contesto nazionale ed internazionale.

3. L’Osservatorio oggi

Il terzo millennio si è aperto sotto i migliori auspici per le comunità astronomiche europea, italiana

e campana. Per quanto riguarda l’Europa, basterà ricordare che nel 1998, lo European Southern

Observatory (ESO), cioè il consorzio di nove stati (10 con l’ingresso dell’Inghilterra nel 2002) che

guida l’astronomia europea, ha inaugurato sul Cerro Paranal in Cile, il Very Large Telescope o

VLT. Uno strumento futuristico costituito da 4 telescopi, ciascuno del diametro di 8,2 m, in grado

di operare come un unico strumento del diametro equivalente di 16 metri. Al momento, il VLT è il

più potente strumento a disposizione dell’Uomo per indagare i più remoti segreti dell’universo, ed è

destinato a rimanere tale per almeno un altro ventennio. Il 29 giugno 1996, ponendo fine ad una

vicenda durata oltre un trentennio, l’Italia ha inaugurato sul Roque de Los Muchachos, a La Palma,

nelle Isole Canarie, il Telescopio Nazionale “Galileo” o TNG che, con i suoi 3.5 metri di diametro

ed attraverso l’adozione di tecnologie innovative, pone l’Italia su un piano di quasi parità rispetto

alle più forti comunità astronomiche internazionali. Come si vedrà nel seguito di questo paragrafo,

l’Osservatorio di Capodimonte ha dato e continua a dare un contributo non trascurabile ad entrambi

i progetti, presentandosi oggi come una delle realtà scientifiche emergenti nel nostro Paese.

Prima di delineare come ciò sia stato possibile, occorre precisare che, a partire dall’1

gennaio del 2002, come tutti gli altri Osservatori italiani, l’Osservatorio napoletano ha perso la

propria autonomia per divenire una sezione locale del nuovo Istituto Nazionale di AstroFisica

(INAF). Il grande lavoro svolto dal personale di Capodimonte nell’ultimo decennio ha fatto sì che

tale cambiamento avvenisse su un piano di parità, se non di strutture, almeno di dignità scientifica,

con i grandi Osservatori del Nord. In altre parole, un evento che avrebbe potuto rivelarsi disastroso

per un Istituto incapace di superare i limiti imposti dalla propria storia, ha finito per trasformarsi in

un’ulteriore garanzia di sviluppo per la Specola napoletana e, soprattutto, in un’assicurazione contro

quei fenomeni di chiusura e conservatorismo culturale che ne hanno penalizzato le vicende nel

corso del XX secolo.

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Attualmente, in Osservatorio sono operativi sei gruppi di ricerca: i cinque di cui si è già

detto, più un sesto gruppo, che si potrebbe definire trasversale agli altri, dedicato all’astronomia di

survey con strumenti a grande campo. La nascita di questo nuovo filone è legata al più importante

progetto in cui l’Osservatorio napoletano si sia mai impegnato: la costruzione del VLT Survey

Telescope o VST. Il VLT ha in comune con tutti gli altri telescopi della sua classe il problema

dell’identificazione degli oggetti da osservare: gli oggetti più deboli visibili sui vecchi atlanti

fotografici realizzati negli anni Cinquanta sono infatti ancora troppo brillanti per consentire di

sfruttare appieno le possibilità offerte dai grandi telescopi della nuova generazione. Si pone,

dunque, il problema di realizzare appositi telescopi a grande campo in grado di effettuare mappe dei

cieli molto più profonde e dettagliate di quelle sino ad oggi disponibili. Il VST è il primo telescopio

di questa nuova famiglia di strumenti; ha uno specchio del diametro di 2.6 metri ed un campo di

vista di oltre 1 grado quadrato (pari al quadrato che circoscrive quattro lune piene affiancate), che

sarà coperto da un innovativo rivelatore digitale composto da una matrice di circa un quarto di

miliardo di elementi fotosensibili, realizzato dal consorzio europeo Omegacam. Il VST è stato

concepito a Napoli ed interamente finanziato dall’Osservatorio di Capodimonte, per lo più

attraverso fondi finalizzati allo sviluppo del Sud; è stato progettato dal gruppo di tecnologie

astronomiche (TWG) dell’Osservatorio e, nel momento in cui si scrive, è in fase di avanzata

costruzione presso un gruppo di aziende campane. L’ESO sta invece realizzando le opere civili e le

infrastrutture, e curerà la futura gestione. Il VST sarà installato, sul finire del 2003, sulla sommità

del Cerro Paranal, a poca distanza dai quattro elementi del VLT, e produrrà circa 100 GB per ogni

notte di osservazione. Al fine di assicurare un corretto sfruttamento scientifico di siffatta mole di

dati, l’Osservatorio di Capodimonte ha già da tempo avviato una serie di progetti (in larga parte

finanziati dal MURST, dal MIUR e dalla Unione Europea), finalizzati all’acquisizione di “know-

how” in settori strategici quali le tecnologie avanzate per la riduzione dei dati, l’intelligenza

artificiale ed i database. A questi occorre aggiungere progetti pilota avviati in settori cruciali

dell’astronomia di survey quali, ad esempio, la ricerca di corpi minori del sistema solare, la

caratterizzazione evolutiva delle varie componenti della Galassia e la cosmologia osservativa.

Ma VST è solo il maggiore dei progetti tecnologici che hanno tenuto impegnato il TWG

nel corso dell’ultimo decennio. Tra gli altri, non si può non menzionare, la partecipazione alla

realizzazione del già menzionato Telescopio Nazionale Galileo, di cui il TWG ha curato la

movimentazione e parte dei controlli elettronici; la progettazione meccanica dello spettrografo

VIRMOS, un avveniristico spettrografo multifibre che è già entrato in funzione al fuoco del

secondo elemento del VLT e, soprattutto, il completamento della Stazione Osservativa del Toppo di

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Castelgrande che, con il suo telescopio (Toppo Telescope n.1 o TT1) dal diametro di 1.52 m è il più

grande strumento professionale a Sud di Roma ed il secondo per dimensioni nel Paese.

Senza volere entrare nel dettaglio delle altre ricerche, molte ancora in corso e soggette al

vorticoso divenire della scienza contemporanea33, ci si limiterà a ricordare che il personale

scientifico dell’Osservatorio è attualmente costituito da una sessantina di unità, di cui circa 25 di

ruolo ed il rimanente arruolato in base a contratti di collaborazione a termine e/o assegni di ricerca:

per lo più giovani fisici ed ingegneri prodotti da un’ormai robusta scuola astronomica napoletana,

anzi campana. Quale sarà il futuro dell’Osservatorio nessuno può dirlo, perché non è scritto nelle

stelle. Come sempre, esso dipende dalla virtù e dalla fortuna; ma questa volta, grazie a Dio, non

solo del suo direttore, bensì di un’intera squadra di ricercatori che – come amava ripetere ai suoi

allievi un grande maestro, Leonida Rosino – vengono pagati poco per un mestiere che farebbero

volentieri anche gratis.

Nel chiudere mi corre l’obbligo di fare una precisazione e di rivolgere qualche sentito

ringraziamento. Non essendo uno storico, ho trovato particolarmente difficile trattare un tema così

pesantemente intriso di attualità. Ove la mia incompetenza e/o la mia ignoranza avessero fatto torto

a qualcuno, o più semplicemente alla verità, me ne scuso anticipatamente. Questo lavoro non

sarebbe stato possibile senza l’aiuto determinante dell’amico e collega Giuseppe Longo, da sempre

al mio fianco nei momenti difficili e, nello specifico, miglior conoscitore di me delle “cose

napoletane”, per ragioni di sangue e per aver già scritto, insieme a Giovanni Busarello, il

bell’articolo su La ricerca astronomica dalla fondazione al 1969 nell’opera collettiva

L’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, edita nel 1992 per i tipi dell’Editore Fausto

Fiorentino: un articolo che, insieme all’Archivio storico dell’Osservatorio, riordinato nel 1997, è

stato la miniera cui ho attinto a piene mani per riempire queste pagine. Devo altresì ringraziare la

dott.ssa Emilia Olostro Cirella, bibliotecaria a Capodimonte e cultrice di storia della scienza, il dott.

Mauro Gargano, contrattista, e la dott.ssa Maria Teresa Fulco, addetta al “public outreach”.

33 Di queste ricerche si può avere documentazione attraverso gli Almanacchi e gli Annuari che, continuando un’anticatradizione, l’Osservatorio ancora pubblica, o consultando il sito Web dell’Osservatorio (http://www.na.astro.it/).