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Luce

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Mauro Mattiolo, sentimentale

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MAURO MATTIOLO

LUCE

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LUCE Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-500 Copertina: Immagine di Antonello Crosta.

Prima edizione Marzo 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

A chi ha visto nascere questa storia e a chi la ascolterà.

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1 I suoni nascevano all’improvviso e correvano lontano, senza trovare ostacoli. Lo spazio che mi stava davanti li accoglieva e rispondeva con un respiro regolare. Assecondavo la mia natura, registrando ogni dettaglio di ciò che stavo ascoltando. Nell’attimo esatto in cui decise di parlare percepii l’aria che prendeva forma dentro alla sua gola e riconobbi il meccanismo delicato che si metteva in moto annunciando l’arrivo della voce. «Marco, vieni con me.» La sua mano si posò sopra la mia e io mi alzai per seguirla. La vita che mi aveva dato un giorno continuava a scorrere, da lei a me, ogni volta che mi toccava. «Vieni» mi ripeté, e nell’aria vibrò una nota divertita; le piaceva ciò che stava per fare. Sapeva di regalarmi una piccola gioia. «Ci sono» risposi, e le camminai appresso strusciando i piedi nudi sul terreno tiepido e farinoso, solo per assaporare quel contatto gradevole. Un giorno, tanto tempo prima, avevo scoperto il segreto del suo sorriso. Da allora conoscevo la piega che assumevano le sue labbra, sapevo distinguere il lieve schiocco che si produceva nell’istante in cui si separavano. Ecco, il suolo era diventato compatto e umido, un passo ancora e l’onda fredda aveva raggiunto la punta dei piedi. Soffocai un urlo di sorpresa, anche se sapevo che sarebbe accaduto da un momento all’altro; ridemmo insieme. Si allontanò, ma ero certo che la sua attenzione non mi aveva abbandonato. Lasciai che le onde scavassero la sabbia sotto i miei piedi, poco per volta. Voci e altri rumori lontani arrivavano sulle ali del vento, il volo di un gabbiano si rivelò d’improvviso in un suono acuto che trovò subito riscontro nella memoria. Lei aspettava che il mio buonumore si manifestasse, ansiosa di condividerlo. Mi atteggiai in una smorfia ed eccola arrivare, una risata di cuore, come quando ero bambino e avevo scoperto che quel gesto la

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rendeva felice. Finsi di perdere l’equilibrio, mulinai le braccia per riguadagnarlo e lei si avvicinò. «Mamma, aiutami!» esclamai, inscenando una parodia del terrore. Lo facevo solo per richiamarla accanto a me, per sentire il suo braccio attorno alla vita. Restammo così, immobili, ad ascoltare il mare. Quando ho deciso di raccontare la mia storia, il pensiero è corso a quel pomeriggio sulla spiaggia, l’ultimo di una breve vacanza sul finire dell’estate, a quelle ore di sole avvolte nei suoni del mare e del vento in cui sarebbe stato facile perdersi e dimenticare. Invece, il senso di quei momenti è rimasto dentro di me, proprio al centro di tutto ciò che è accaduto prima e dopo. Dentro al vuoto piacevole di quel pomeriggio si avvertiva il presagio della calma che stava per finire, e mentre ci cullavamo nell’idea confortevole di poter bastare l’uno all’altra per sempre, mentre immaginavamo il futuro augurandoci di vivere altri momenti simili, non potevamo sapere che sarebbe stato proprio il battito d’ali di una farfalla a spingerci in una direzione imprevista.

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2 «Sì, signora, forse un buco riesco a trovarlo…» Una pausa, qualcuno stava insistendo all’altro capo della linea. Mia madre si aggirava per casa a passi rapidi, sostenendo una conversazione che avevo ascoltato tante volte. Si fermò in piedi davanti a me e tentò di spiegare. «No, al giovedì no, forse al mercoledì, poi se qualcuno degli altri rinuncia magari possiamo spostare.» Un sospiro per ritrovare la pazienza necessaria. «Va bene signora, vedrò quello che posso fare. Per ora fissiamo la prima lezione, mercoledì prossimo alle diciotto. Grazie ancora, sì, grazie. Buona giornata anche a lei. A presto, a mercoledì.» Il breve beep del tasto che chiudeva la comunicazione fu seguito da una profonda inspirazione, la stessa aria venne emessa immediatamente dopo, modulata in un lieve soffio. Dentro a quel sibilo, che avrebbe voluto esprimere soprattutto fastidio, non mi sfuggì quella nota di compiacimento che conoscevo bene. «Eccone un’altra» dopo questa constatazione partì con la parodia della telefonata appena conclusa «…e me la deve prendere per forza… e altrimenti non saprei dove mandarla… e la signora Conti mi ha detto che lei è così brava… e bla, bla, bla.» Sapevo che fingeva di lamentarsi, in realtà adorava il fatto che un’altra famiglia si fosse rivolta a lei per l’ennesimo caso disperato. Decisi di prenderla un po’ in giro, sovrapposi la mia voce alla sua e proseguii al suo posto. «Sa, l’anno scorso ha avuto difficoltà, mi ha preso il debito e quest’anno vorrei evitare, sa com’è. Ma è una ragazza in gamba, ha bei voti in tutte le materie, be’ quasi tutte, la colpa è dell’insegnante che non sa spiegare… bla, bla, bla.» «Piantala di sfottere!» mi interruppe «questa storia è ancora più patetica. Era già d’accordo con la Santoni, ma la Santoni è caduta e si è rotta il femore. Poverina, avrà centodue anni, è andata in pensione da

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un pezzo. Tu pensa che sfortuna, adesso mi telefoneranno tutti i suoi, che casino!» «Eh sì, una sfiga micidiale» provai a insistere, ma lei non raccolse. «La madre è un’amica della Luisa Conti, capisci, non posso non prenderla.» «Eh sì, non puoi non prenderla, mamma, non puoi proprio.» «Non posso davvero! Adesso vedo, mi organizzo» e si mise a sfogliare l’agenda; non so come ma in quel libro c’era una soluzione per tutti, dentro a quelle pagine il tempo si espandeva fino ad abbracciare le esigenze del mondo intero. Mia madre è un’insegnante e questo significa molto più del semplice fatto che si tratta del suo lavoro; lei è nata per insegnare. Se anche non me lo avesse raccontato, sarebbe stato ugualmente facile immaginare la sua passione di bambina per i libri e i numeri, il suo incedere sicura attraverso i vari gradi della scuola passando da una soddisfazione all’altra. Sempre la prima della classe, sempre ricoperta di elogi e lanciata verso nuovi traguardi. Il suo modo spietatamente organizzato eppure prodigiosamente leggero di affrontare i problemi astratti e concreti l’ha portata, quasi senza sforzo, in quel luogo felice della sua vita dove la piccola Elisa ha incontrato ciò che voleva essere fin dall’inizio: la professoressa Martini. Da allora, mia madre ha preso per mano centinaia di ragazzi cercando di trasmettere loro l’amore per la conoscenza e lavorando, giorno dopo giorno, per far sì che la matematica li appassionasse, li incuriosisse, o almeno non li terrorizzasse. «La cosa più folle è come ha fatto la Santoni a farsi male. Vuoi saperlo?» «Si è lanciata con il deltaplano?» «No, stupido, ha la passione per l’entomologia. Era in montagna e stava cercando di catturare una farfalla, ma sul più bello la farfalla se n’è volata via e lei è caduta in una scarpata. L’hanno salvata con l’elicottero…»

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3 Jo era entrata nella mia vita quando non avevo ancora vent’anni. Ci siamo incontrati come se tutto fosse stato organizzato perché accadesse, e in un certo senso era davvero così. Da allora lei non mi aveva quasi mai abbandonato, ce ne andavamo a spasso ogni volta che era possibile, giocando, scherzando oppure lasciando soltanto che il tempo evaporasse, un attimo dopo l’altro. Io stavo seduto su una panchina al fresco e lei, lì accanto, mi faceva sentire la sua presenza senza bisogno di parlare. Jo era prima di tutto un’amica fedele e sincera, di quelle che non s’incontrano spesso, con lei non c’era bisogno di chiedere. Avevo capito fin dal principio che avrebbe fatto qualunque cosa per me, e a volte mi veniva da pensare che lei lo desiderasse ancor prima di conoscermi. In cambio di tanto amore le bastava solo un po’ di attenzione. Quando l’avevo accarezzata per la prima volta il suo calore mi era sembrato subito speciale, non assomigliava a nulla di ciò che avevo toccato fino ad allora, la vita scorreva dentro di lei a una velocità che per me non era nemmeno immaginabile. Jo si entusiasmava per nulla e quando mi vedeva non aveva nessuna paura di mostrarmi quanto era felice, poche cose mi facevano sentire bene quanto essere accolto da lei rientrando a casa. Anche quel giorno di settembre stavo passeggiando sotto il sole del pomeriggio e Jo era con me. I cani abbaiavano al nostro passaggio, al di là delle recinzioni. Abitavo a Brado, una frazione di Cosago; io e Jo conoscevamo a memoria strade e case del nostro paese, l’avevamo attraversato in lungo e in largo decine di volte e sapevamo cosa aspettarci a ogni passo. I due alani che scorrazzavano nel giardino della villa lungo la salita che porta al cimitero, avrebbero latrato minacciosi scorgendoci in lontananza per poi accompagnarci ringhiando fino al momento in cui ci avrebbero perso di vista; il botolo della casa all’angolo vicino al ponte sull’autostrada avrebbe tentato di sorprenderci aspettando che fossimo vicini prima di far esplodere la sua voce stizzosa; il pastore tedesco amico di Jo sarebbe corso incontro a

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noi e avrebbe atteso che lei si avvicinasse per ricevere le sue effusioni e anch’io l’avrei accarezzato sulla testa, senza alcun timore. Avremmo camminato lungo il viale alberato e piegato a destra per raggiungere i giardini pubblici e Jo si sarebbe fermata accanto al parco giochi dove mia madre mi portava da bambino. Anch’io ero sceso da quello scivolo, tenendo ben stretta la mano che mi accompagnava fino all’atterraggio nella sabbia, e avevo dondolato piano sull’altalena spinto da lievi tocchi sulla schiena. Ascoltammo le urla dei bambini, le chiacchiere delle madri e il primo fresco della giornata che scendeva di soppiatto nascondendosi nell’ombra degli alberi. Poi ci dirigemmo verso casa, sfiorati dal suono scoppiettante dei motorini e dalla fretta contagiosa dell’ora in cui le fabbriche e gli uffici si svuotano. Nonno Daniele trafficava in giardino, quando si accorse del nostro arrivo mi salutò con quel tono sommesso che conoscevo bene. Slegai Jo e lasciai che gli corresse incontro. «Brava, lei» disse il nonno, difendendosi dall’assalto gioioso. Il respiro accelerato di Jo si spandeva nell’aria e la sua corsa frenetica intorno a noi ci fece ridere. Terminato il cerimoniale dei saluti, m’inginocchiai davanti a Jo, le accarezzai il muso allungato sollevandole scherzosamente le orecchie cadenti, proprio come avevo fatto il giorno del nostro primo incontro, solo due anni prima. «Va, per te è ora di cena.» E lei si allontanò, richiamata da qualcosa alle mie spalle, quasi certamente un segnale del nonno. Entrai in casa e salii le scale fischiettando.

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4 Un profumo sconosciuto, floreale e lievemente aspro, mi accompagnò salendo i gradini. Arrivato in cima mi fermai ad ascoltare le parole di mia madre che filtravano dalla cucina. Sapevo esattamente qual era la scena che si stava svolgendo oltre la porta chiusa; seduta al tavolo da pranzo stava mia madre e alla sua destra la nuova allieva. Una voce calma, in cui si poteva avvertire l’accenno di un sorriso, spiegava come risolvere un problema matematico. Mamma snocciolava i vari casi possibili, presentandoli come inevitabili conseguenze delle premesse: collegamenti logici elementari, comprensibili a chiunque. Quello era uno dei segreti del suo metodo: convincerti che fosse facile. Le labbra mi si piegarono in un sorriso obliquo; ero stato seduto anch’io per molte ore, proprio dove ora si trovava quella ragazza, a lasciarmi affascinare e istruire. Se quel tono suadente non avesse funzionato, la sua voce sarebbe presto diventata di metallo e avrebbe pizzicato le corde più profonde dell’orgoglio fino a raggiungere, se necessario, la fonte inesauribile del senso di colpa. Semplicemente, non le avrebbe permesso di fallire, come aveva fatto con me e innumerevoli altri studenti. Mi divertiva pensare alla metamorfosi in atto, l’ennesima di cui quella cucina e quel tavolo sarebbero stati testimoni. Imboccai il corridoio che conduceva alle camere ma un suono nuovo accarezzò la mia curiosità costringendomi a fare marcia indietro. «Forse ho capito» disse la ragazza. Le parole parvero restare per un istante in equilibrio precario, quasi per dare corpo alla sua incertezza. Mentre svolgeva un altro esercizio, s’intuì soltanto lo scorrere nervoso della penna sulla pagina e mi ritrovai a sperare che quel silenzio continuasse, che non fosse necessario intervenire per correggerla, che lei avesse capito davvero. «Brava, è proprio così che devi fare, anche se proprio all’ultimo passaggio hai fatto un errore di calcolo. Ma va bene così, è un buon inizio.»

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«Grazie Elisa, prima di oggi non ci avevo capito un tubo.» La chiamava già per nome, come prima o poi facevano tutti. Ecco un altro modo in cui riusciva a convincerli: io non sono un’insegnante come gli altri, io sono tua amica, ed era vero. «Facciamone subito un altro» propose la ragazza, e mi parve fosse stupita del suo stesso entusiasmo. Provai la tentazione di entrare, era una cosa che facevo spesso e che mia madre accettava di buon grado; nel corso degli anni avevo conosciuto molti di quei ragazzi e con alcuni ero ancora in contatto. Ero stato un bambino curioso, ammesso ad ascoltare quelle lezioni incomprensibili. Poi, poco per volta, ero diventato uno studente che sapeva esattamente come si sentivano e poteva fermarsi un minuto a scherzare con loro. Appoggiai le dita sulla maniglia, vinto dalla tentazione di concedermi un momento di leggerezza. «No, così non va» disse mia madre, senza alcuna impazienza «ricontrolla quello che hai appena scritto.» Fu sufficiente per farmi cambiare idea e mi allontanai sforzandomi di non ascoltare più. La sera, a cena, sedevamo nella stessa cucina in cui si tenevano le lezioni, io, la mamma e il nonno. Non sempre il nonno mangiava con noi ma quella volta la mamma aveva insistito; il ticchettio di tre forchette che infilzavano maccheroni punteggiava la quieta armonia prodotta da tre persone che masticavano senza parlare. «Com’è quella nuova?» chiesi con il tono annoiato di chi cerca un qualsiasi argomento di conversazione, mentre in realtà è punto da una fastidiosa curiosità. Lei si era appena alzata per sparecchiare e non rispose subito. Ebbi l’impressione che stesse meditando attentamente le parole da usare. Giudicare era una parte del suo mestiere e non amava farlo a cuor leggero. «Non è una sciocca. È abbastanza inspiegabile che abbia lacune così gravi, ma è presto per dire.» Qualcosa era rimasto in sospeso, come se proprio all’ultimo si fosse trattenuta dall’aggiungere un dettaglio importante. «Che classe fa?» provai a insistere, nella speranza di sapere qualcosa in più. «La quarta» si affrettò ad aggiungere, ma sembrava ancora sovrappensiero.

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Poco dopo le parole che aveva cercato di non pronunciare scivolarono dalle sue labbra, quasi avessero peso proprio, e galleggiarono nell’aria per qualche istante prima di perdere consistenza: «È molto bella…»

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5 Nonno Daniele e mamma non ne parlavano mai, o almeno non lo facevano in mia presenza. Per anni la figura di nonna Celeste era stata un mosaico composto da pochi frammenti isolati, scollegati tra loro e difficili da interpretare. Quelle informazioni le avevo raccolte fin dall’infanzia ogni volta che una scheggia di verità si era staccata dalla pietra che sembrava racchiudere il mistero della nonna: una frase enigmatica del nonno, un discorso ascoltato di nascosto, una risposta evasiva di mia madre. Cosa potevo pensare di una persona che non aveva mai fatto parte della mia vita e che non veniva nominata se non sottovoce? Non c’erano né parenti né una tomba da visitare, nessun aneddoto da raccontare nelle riunioni familiari e nemmeno un oggetto che mi parlasse di lei. Eppure ero certo che i nonni avessero vissuto insieme, crescendo la loro unica figlia, fino al giorno fatidico che aveva sconvolto ogni cosa. Potevo solo immaginare ciò che era successo, ma pensavo che dovesse essersi trattato di un evento tragico, un diluvio così violento da cancellare il mondo che esisteva prima. Anche mio padre aveva fatto parte di quel cerchio di omertà, soprattutto per rispetto di mia madre, credo. Un giorno, ero ormai un adolescente, decise che fossi abbastanza grande da capire o forse si rese conto che la verità mi avrebbe fatto soffrire meno dell’incertezza in cui stavo vivendo. Eravamo noi due soli, in un mattino piovoso, racchiusi dentro a un guscio d’intimità che poche altre volte avevamo condiviso. Lui, seduto davanti a me, prese a raccontarmi i fatti nella loro terribile semplicità. «Un mattino tua madre e tuo nonno si sono svegliati e nonna Celeste non c’era più. Non ha lasciato nulla di scritto né alcun tipo di messaggio, le sue cose erano ancora tutte lì. Elisa non aveva ancora tre anni.» Quella storia di abbandono mi aveva riempito lo stomaco di un’emozione disperata che richiedeva uno sfogo immediato, il pianto era arrivato da sé.

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Mio padre aveva preso un respiro profondo prima di continuare. «So cosa stai pensando. Tu e tua madre… ma non è la stessa cosa.» Anche per lui era stato necessario interrompersi e aspettare che la commozione si dissolvesse come un profumo troppo intenso. «Tuo nonno è un brav’uomo» aveva detto poi, schiarendosi la gola «ha cresciuto sua figlia come meglio non sarebbe stato possibile, tu lo sai più di chiunque altro.» Quella stessa sera avevo bussato alla porta del nonno, trovandolo seduto sul divano che leggeva il giornale con la radio accesa. Mi ero ritrovato a sperare che avesse voglia di raccontarmi una storia, una qualsiasi di quelle che già conoscevo, volevo sentire la sua voce bassa e leggermente rauca che rievocava la giovinezza, la passione per il calcio, il lavoro in falegnameria, le marachelle di mia madre da bambina, sempre facendo attenzione a non sfiorare il buco nero che aveva inghiottito una parte della sua vita. Quel giorno, finalmente, mi sentivo in grado di comprendere il suo pudore, il senso di mistero che avvolgeva le sue parole, semplici eppure capaci di resistere nella memoria come l’aroma dei sigari che usava fumare. Il nonno mi aveva accolto come sempre, gli faceva piacere quando sgattaiolavo in casa sua la sera, aveva ridacchiato contento mentre mi offriva una bibita e poi si era messo a leggere a voce alta un articolo delle pagine sportive, commentandone alcune parti in modo colorito. D’un tratto gli era sfuggito uno sbadiglio e avevo capito che non aveva voglia di parlare; più tardi, dopo aver posato il giornale, si era addormentato ascoltando il notiziario della radio. Mentre respiravo l’aria di quella stanza, intrisa dell’odore di legno e tabacco che il nonno portava sempre con sé, mi sforzavo di ricordare, di collegare tutti gli indizi che avevo collezionato, ingenuamente convinto di poter comprendere proprio lì, in quel momento, ciò che era accaduto: perché la nonna li avesse abbandonati e se era possibile che tornasse, prima o poi. Me n’ero andato, infine, senza svegliare il nonno, carico di tutti i segreti che gravavano su quella casa e fiero di poterne portare anch’io il peso, insieme a chi lo aveva fatto per tanto tempo.

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6 Aspettavo l’alba sdraiato nel letto, le braccia intrecciate dietro al capo, attraversato da una malinconica inquietudine di cui mi sfuggiva il significato. La pioggia iniziò a cadere in un momento imprecisato della notte. Le gocce battevano sui vetri con un ritmo incostante che pareva doversi interrompere da un momento all’altro e invece continuò senza sosta per l’intera giornata. Trascorsi il pomeriggio leggendo e scrivendo al computer accompagnato da un persistente senso di noia. Il campanello annunciava l’arrivo degli studenti di mia madre, un’ora dopo l’altra; quel suono acuto e improvviso mi sorprendeva ogni volta, obbligandomi a constatare che avevo girato a vuoto attorno alla stessa frase per un tempo indefinito. Alle cinque del pomeriggio il rumore della pioggia camminava ormai sui nervi, metodico come un giovane boyscout in fila; la sua insistenza pareva il dispetto di una divinità capricciosa che si divertiva a ricordarci quanto l’estate fosse effimera. Presto le lezioni sarebbero ricominciate e le mie passeggiate spensierate con Jo sarebbero state un ricordo; cullato da queste recriminazioni infantili mi abbandonai sul letto e il ronzio dei pensieri si spense nel sonno. La realtà mi venne a trovare sotto forma di un fastidioso trillo elettrico; era arrivato un altro studente. Mi ritrovai a imprecare con la bocca impastata, inforcai gli occhiali e mi strofinai energicamente la sommità del capo con il palmo della mano, cercando una via d’uscita dal torpore in cui ero immerso. Mentre rimettevo in moto i pensieri soppesando le mie alternative, presi una caramella dal cestino sulla scrivania. Tirai un lungo sospiro e uscii dalla stanza; l’odore della pioggia era entrato in casa insieme ai ragazzi che avevano attraversato l’ingresso e salito la scala. Quell’atmosfera umida soffocava ogni altra sfumatura dispersa nell’aria eppure, da qualche parte là in mezzo, una traccia del profumo che stavo cercando era sopravvissuta. Seguii quell’indizio fino alla porta della cucina e

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questa volta non mi curai delle voci che provenivano dall’interno, afferrai la maniglia ed entrai, senza sapere cosa avrei detto o fatto dopo. Mi diedi dell’idiota mentre ascoltavo me stesso pronunciare un saluto annoiato. «Ciao, mamma.» «Cosa c’è, Marco, ti serve qualcosa?» rispose senza calore, dovevo averla interrotta in un passaggio importante della sua spiegazione. «Niente, è che non so cosa fare. Ti spiace se mi siedo sul divano e vi ascolto?» Ero fermo sulla porta e senza comprenderne il motivo mi ritrovai a negoziare una tregua con il battito del mio cuore che non voleva saperne di rallentare. «Va bene» concesse, ancora un poco infastidita «ma non interromperci più.» Girai attorno al tavolo e mi lasciai cadere sul piccolo divano addossato alla parete. «Lei è Francesca» aggiunse mia madre, come se mi avesse appena fatto un enorme favore. La ragazza seduta al suo fianco soffocò una risata dissimulandola con un colpo di tosse. Mi voltai mentre pronunciavo il mio nome e le tesi la mano in modo un po’ teatrale. Rispose con altrettanto sussiego e mi resi conto di quanto fossi stato ridicolo. Le nostre mani s’incontrarono e si strinsero a conclusione di quella presentazione tanto formale da risultare buffa. «L’aguzzina qui ti sta torturando per bene? Non ti preoccupare ci sono passato anch’io…» «Tua madre è bravissima, non è per niente un’aguzzina.» Solo a quel punto realizzai che la sua mano era ancora prigioniera della mia; la lasciai andare all’improvviso, sentendomi definitivamente un idiota.

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7 La prima volta che avevo baciato una ragazza mi era sembrato una specie di esperimento scientifico, la sua curiosità e la mia avevano reagito come due sostanze chimiche provocando una nuvola di emozione che si era dissolta senza quasi lasciare traccia. Si chiamava Carla, una compagna delle medie. In modo assai poco originale il fatto avvenne durante una festa di compleanno. Lei si sedette accanto a me e chiese se mi andava di farlo. Non posso dire che non mi battesse il cuore quando le sue labbra si appoggiarono sulle mie, ma è altrettanto vero che non provavo nulla per Carla, né prima né dopo il bacio. Al liceo mi innamorai di un’altra compagna di classe e la corteggiai in modo tanto discreto che lei non se ne accorse mai. I biglietti romantici e le poesie che avevo scritto per lei erano rimasti sempre al sicuro in un cassetto, li avevo strappati tutti quando avevo saputo da un amico in vena di confidenze crudeli che la ragazza per cui avevo perso la testa era stata vista mentre si baciava con il suo maestro di tennis. Non potevo nemmeno essere certo che fosse vero ma decisi comunque di consumare una terribile vendetta per quel tradimento: la distruzione dell’intera produzione letteraria a lei dedicata mi parve un gesto abbastanza melodrammatico per l’occasione. Ricordo ancora il gusto con cui avevo lacerato i fogli spargendone i brandelli per tutta la stanza e la preoccupazione, subito dopo, che un frammento di quelle sciocchezze potesse sfuggire all’accurata ricerca in cui mi ero impegnato e finire in mano a mia madre. Il giorno dopo mi pentii di aver consumato quell’olocausto ma ormai era fatta. Anche senza prendere in considerazione quelle che di tanto in tanto cercava di procurarmi l’amico Robin, c’erano state altre occasioni; più di quante me ne aspettassi, in verità, ma non mi ero mai sentito davvero coinvolto. C’era sempre un ostacolo, una nota stonata che impediva di farmi avanti anche quando era evidente che, se ne avessi trovato il coraggio, sarebbe accaduto qualcosa. Impiegavo molto tempo a decidere se mi potevo fidare di una persona e spesso questo mi faceva

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arrivare in ritardo. D’altra parte avevo i miei motivi per essere diffidente; ho sempre saputo che non è facile essere davvero sinceri con me. Dunque, per avere quasi ventidue anni, le mie esperienze in fatto di ragazze a quel punto erano quantomeno deficitarie. Non che fosse così strano per uno come me, ma se fino a un certo punto avevo accettato questa situazione con filosofia, al tempo in cui incontrai Francesca la cosa iniziava a bruciarmi più di quanto volessi ammettere. Quel giorno, dopo averle stretto la mano, ero sprofondato nel divano e avevo assistito alla lezione ostentando indifferenza; in realtà non mi perdevo un dettaglio e attendevo con impazienza che Francesca parlasse solo per il piacere di ascoltarla. Rispondeva alle domande di mia madre con decisione, quando si rendeva conto di aver assimilato un nuovo concetto sorrideva divertita, come se non le sembrasse vero di esserci arrivata con tanta facilità; la voce si abbassava e si faceva più scura, se invece doveva ammettere di non aver capito, ma non ci girava mai intorno, lo diceva e basta. Io pensavo alle parole con cui mi aveva ridicolizzato, alla sua mano dentro la mia, al piccolo dolore che avevo provato nel lasciarla andare. “È troppo poco” dicevo a me stesso “non è possibile che basti così poco per…” Mi sarei preso a pugni perché sentivo che presto mi sarei reso ancora ridicolo, e più promettevo a me stesso che non sarebbe accaduto più mi rendevo conto che era inevitabile. «Ciao» la salutai alla fine della lezione, con tutta la dignità che mi riuscì di raccogliere. «Ciao» rispose con ovvia naturalezza mentre se ne andava. A quel punto persino una parola tanto banale, pronunciata da lei, sembrava assumere un significato imprevedibile. È così che è andata quella prima volta, e non importa quanto io possa apparire sciocco né quanto sia difficile credermi o riconoscersi nel mio racconto. In fondo non importa nemmeno come sia finita questa storia. L’idea che quel giorno sia stata seminata una speranza è troppo tenera e struggente per non conservarla tra i miei ricordi più preziosi.

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8 Tre anni prima, quando avevamo discusso del mio futuro, non aveva nemmeno cercato di nascondere la sua delusione. «Non ti devi accontentare di questo, tu puoi fare molto di più.» «La decisione è presa, mamma, e non mi sto accontentando.» Non era stata una scelta facile, l’avevo soppesata per mesi, ponendomi le stesse domande con cui sapevo che lei mi avrebbe torturato. La conoscevo troppo bene. «Potevamo parlarne, almeno» aveva detto, tentando di far leva sul mio senso di colpa. «Avanti, dillo: “Con tutto quello che ho fatto per te”.» Può sembrare incredibile, lo so, ma mi pareva di essere un giocatore di scacchi che conosce in anticipo tutte le mosse dell’avversario. Era una partita che avevo giocato un milione di volte nella mia testa e, soprattutto, potevo contare su un vantaggio inestimabile: lei mi aveva ampiamente sottovalutato, era del tutto impreparata al fatto che io potessi contraddirla. «Tu hai talento, puoi fare qualunque cosa, diventare una persona importante, essere un esempio…» si trattenne dal proseguire, doveva aver già letto sul mio viso che il suo accorato appello non sortiva alcun effetto. «Mamma io non sono un esempio di niente, non ho niente da dimostrare, se non che me la posso cavare da solo come chiunque altro. Voglio essere indipendente e voglio che accada il più presto possibile. Essere un granduomo, non mi interessa.» Sospirò, per nulla convinta, e iniziai a sentire aria di lacrime. Speravo che me le avrebbe risparmiate, almeno quelle, ma anch’io avevo un’arma che avevo deciso di usare solo in caso di estrema necessità. Non avrei voluto dirglielo ma alla fine mi aveva costretto. «In fondo anche tu, mamma, cosa sei? Con tutto il rispetto, sei una professoressa di matematica. Anzi, scusa, una bravissima professoressa di matematica, ma niente più di questo. Hai una mente brillante che ti

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avrebbe potuto aprire un sacco di porte, se solo ci avessi provato, ma tu volevi insegnare.» Mi fermai un attimo, temendo che le mie parole avessero causato un danno irreparabile, anche se ormai era troppo tardi per ripensarci. «Tu non diresti di te stessa che ti sei accontentata, hai fatto ciò in cui credevi. Ciò che ti rende più orgogliosa è il fatto di aiutare quei ragazzi, non t’importa dei soldi che avresti potuto guadagnare, del rispetto che avresti potuto ottenere facendo un mestiere diverso. Ti ammiro per questo ma, devi concedermelo, anch’io ho il diritto di fare ciò in cui credo.» Il suo respiro era accelerato, rabbioso. Le bruciava da morire essere battuta al suo stesso gioco da un ragazzo di diciannove anni, ma io ero il suo allievo prediletto e avevo imparato bene: la dignità viene prima di ogni altra cosa. Credo fosse anche un po’ orgogliosa di me, ma faceva di tutto per nasconderlo. Pur di non arrendersi, giocò un’ultima carta disperata. «Fammi un ultimo favore, me lo devi; parlane con tuo padre.» «Fisioterapista, è questo che vuoi diventare» disse mio padre, seduto dalla parte opposta del tavolo. Eravamo soli in casa, circondati da una quiete tanto perfetta che ogni parola sembrava un sacrilegio compiuto all’interno di un tempio. «Laurea breve, tre anni» proseguì, dato che io non rispondevo. Recitava la parte che mia madre gli aveva affidato, era facile immaginare come lo avesse indotto a farlo. La mia strategia funzionava a meraviglia; io rimanevo muto e lui era sempre più in difficoltà. «Se è per i soldi, lo sai, non c’è problema.» Tacque per un po’, ed era come se implorasse una mia reazione, di qualunque genere, un appiglio per capire come avrebbe potuto convincermi, ma il mio ostinato silenzio aveva proprio quel significato: non c’è niente che tu possa fare. «Se vuoi essere indipendente, guadagnare dei soldi mentre studi, posso capirlo. Un posto nella mia azienda posso trovartelo in qualunque momento, magari part-time…» Uno spezzone di fiato gli uscì dalle narici all’improvviso, era esasperato. «Senti, Marco, tua madre crede molto in te e anch’io sono convinto che tu abbia un grande talento. Ci sono tutte le condizioni perché tu possa

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prendere una laurea prestigiosa, con calma, senza nessuna pressione, puoi farcela. Io e tua madre non riusciamo a capire perché non vuoi. Puoi farlo anche dopo questa laurea breve, allora potrai comunque tentare di fare qualcosa in più. Promettimi che ci penserai, promettimi almeno questo.» Gli sorrisi, era arrivato esattamente dove volevo. «È proprio quello che ho intenzione di fare.» Il sollievo attraversò la stanza come un vento leggero.

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9 Prima di ricominciare a frequentare l’università incontrai Francesca altre volte. Facevo in modo di essere presente al suo arrivo, la incrociavo lungo le scale o all’ingresso mentre scendevo fingendo di avere fretta, oppure, se il tempo era bello, l’aspettavo in giardino ed ero ancora lì quando usciva al termine della lezione. Ci scambiavamo un saluto e io cercavo di intavolare un discorso qualsiasi per trattenerla un attimo in più. Rideva alle mie battute con un abbandono che sembrava sincero, ma dentro al vuoto che si creava subito dopo non era difficile riconoscere la sua impazienza di andarsene. Andò meglio quando le presentai Jo. «Che bella che sei, come ti chiami?» Mentre le parlava come se potesse davvero ottenere risposta, l’accarezzava con l’affetto innocente che si riserva agli animali. Si piacquero subito e non era così scontato, perché Jo era spesso diffidente con chi mi avvicinava. «Si chiama Jo, è la mia migliore amica.» «Di che razza è? Non me ne intendo molto, assomiglia al cane di una mia amica. Fammi pensare, è un Labrador?» «Golden retriever» precisai. «Sei proprio una bella bionda, sai?» l’uggiolare di Jo confermava che era nata un’amicizia. Dopo quella volta si salutavano sempre con calore. Jo le abbaiava piano in segno di riconoscimento, un onore riservato solo a chi faceva parte della nostra cerchia, e le andava incontro per ricevere la sua razione di complimenti. Sapevo che quei brevi incontri non conducevano da nessuna parte, ma non riuscivo a farne a meno. Aspettarla era la parte migliore, pensare a ciò che avrei potuto dirle, sperare in un progresso qualsiasi, poi tutto accadeva in fretta ed evaporava subito dopo che lei se n’era andata. La sera gironzolavo nella mia stanza con le mani in tasca, cercando inutilmente un motivo valido per continuare a comportarmi in quel

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modo; mi ripromettevo di non farmi trovare in casa la settimana successiva, ma quando arrivava il giorno atteso ingannavo di nuovo me stesso dicendomi che volevo incontrarla solo una volta ancora. La settimana prima che ricominciassero le lezioni, mi sentivo sollevato. Ricordavo come nei due anni precedenti il ritmo di quella vita di studio e lavoro mi avesse travolto fino a farmi dimenticare tutto il resto. Uscire di casa presto al mattino, presenziare alle lezioni, passare ore in ospedale per il tirocinio, preparare gli esami. Finalmente ritornerò alla realtà, mi dicevo. Il caso offrì un’ultima occasione e non ebbi forza di rifiutarla. Quel pomeriggio fu mia madre a chiamare dalla cucina, c’erano alcune istruzioni da riferire al nonno prima che uscisse di casa. La porta era aperta e la lezione di Francesca da poco terminata. Prima di rivolgersi a me, la mamma le assegnò dei compiti e aggiunse alcune raccomandazioni. C’era qualcosa di nuovo nell’aria, come se le distanze tra loro si fossero accorciate e avessero condiviso una cosa importante, una confidenza tra donne. Francesca si alzò, raccolse i quaderni e se ne andò senza dire nulla. Scese le scale in fretta, come se corresse sotto la pioggia. Solo quando fu arrivata in fondo sembrò accorgersi di avermi evitato e prima di uscire urlò verso l’alto: «Ciao Marco, a mercoledì prossimo.» Non sapeva che sarebbero passati mesi prima che ci fossimo incontrati ancora. Avrei dovuto essere almeno un poco felice per quella sorta di appuntamento che mi aveva dato, ma il tono della sua voce non lasciava spazio a illusioni; erano parole di circostanza, pronunciate mentre pensava già ad altro. Trovavo incomprensibile quel comportamento così sfuggente, tutto a un tratto, ma non avevo elementi a sufficienza per trovare una spiegazione. «C’è qualcosa che non va con Francesca?» chiesi a mia madre quella sera, mentre eravamo a tavola. «Perché vuoi saperlo?» rispose con una punta di allarme. «Non so, mi è sembrato che non fosse allegra come al solito.» «Francesca ha i problemi di una ragazza della sua età, niente di preoccupante.» E il suo tono mi convinse a non insistere.

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10 Andrea era sdraiato sul lettino. Mentre le mie mani accompagnavano i movimenti del suo ginocchio destro, ci scambiavamo commenti sulle partite della domenica. «È stato un bel gol?» chiesi, e lui si entusiasmava nel descrivere l’azione riempiendo il racconto di particolari. Andrea era un tifoso sfegatato e un calciatore dilettante ma, sopra ogni cosa, era il mio primo vero paziente. Si era infortunato in un terribile incidente stradale e aveva subito un intervento molto delicato. Seguivo la sua riabilitazione sotto la supervisione di Giuliana, il mio tutor, che a un certo punto mi aveva detto: “Adesso puoi andare avanti da solo. Sai tutto quello che c’è da sapere, non puoi sbagliare. Io comunque sarò sempre qui”. Ancora oggi, quando ci penso, sento il calore della sua mano appoggiata sulla spalla. Le cose imparate in quegli anni iniziavano ad avere un senso; avevo attraversato l’aria densa delle ore di lezione, la fatica dello studio, l’ansia degli esami e il lento processo di affinamento delle capacità manuali proprio in attesa di quel giorno. Era arrivato il momento di aiutare qualcuno che aveva davvero bisogno di me. Non mi si chiedeva di fare nulla per cui non fossi stato preparato, Giuliana aveva ragione, ma non era questo il punto. Ascoltavo le percezioni trasmesse dalle mie dita, cercavo di leggere nell’atteggiamento di Andrea ogni segnale del suo stato. Un tremito accompagnava il dolore e un soffio ne indicava la discesa al di sotto della soglia per lui tollerabile. Quando ricominciava a parlarmi sapevo che si era rilassato e iniziavo a tenere conto del tempo che gli potevo concedere prima di riportarlo di nuovo nel territorio della sofferenza. Mi stupivo di quanto fosse facile prevedere tutto ciò che gli sarebbe accaduto, come se le sue sensazioni fossero soltanto una diretta conseguenza delle mie. Quello che avveniva dentro al suo corpo sembrava passare prima attraverso di me e non facevo nessuna fatica a interpretarlo; a quel tempo pensavo che fosse soltanto il frutto dello

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studio scrupoloso di ciò che mi era stato spiegato, delle ore passate a leggere e rileggere ogni riga dei libri di testo, ogni appunto, fino a comprendere tutto con tale chiarezza da poterlo richiamare alla memoria in qualsiasi momento. C’era di più, ovviamente, e riguardava il mio modo di essere ma non ero ancora in grado di rendermene conto. Queste prime conferme, per quanto incoraggianti, non furono la parte più esaltante del periodo trascorso con Andrea. Per aiutare davvero una persona a uscire da una difficoltà non basta essere disponibili: il consiglio dato a un amico, l’insegnamento impartito a un alunno o la cura somministrata a un paziente, perché abbiano l’effetto che speriamo, devono passare attraverso un canale privilegiato il cui ingresso è spesso difficile da trovare. Non esiste una regola per ottenere la chiave che apre quella porta, possiamo usare parole o gesti, mostrare la nostra generosità ed esibire la nostra competenza ma, alla fine, la fiducia somiglia a una farfalla capricciosa che è inutile illudersi di poter catturare, possiamo solo aspettare che sia lei a venire da noi. Quando Andrea si sdraiò davanti a me per la prima volta era nervoso e taciturno; mi affidava il prezioso distillato di un’enorme sofferenza e non sapeva bene come comportarsi. Mentre iniziavo a farlo muovere con delicatezza, scoprivamo di avere la stessa età e alcuni interessi in comune e ci rendevamo conto, senza bisogno di farne parola, che tutto questo era nulla in confronto al fatto di condividere ciò che più unisce gli uomini. Molti reduci di guerra negano di aver mai combattuto in nome di un concetto astratto come la patria o l’onore e ricordano di aver trovato la forza per andare avanti nell’amico che piangeva accanto a loro, in preda allo stesso terrore. Andrea e io sapevamo di essere uniti da un’esperienza comune e per questo ci intendemmo subito. La paura del futuro che lo aveva atteso pazientemente fuori dalla sala operatoria al risveglio dal trauma era sorella di quella che io mi portavo dentro fin dalla nascita. Per questo, quando alla fine della seduta Andrea mi disse semplicemente: “A domani”, quella sensazione leggera si posò sulla mia fronte ed ebbi la certezza che non sarebbe più volata via.

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11 L’avevo tanto sperato e alla fine accadde per caso, durante le vacanze di Natale. Ero uscito con Jo in una giornata asciutta, tagliata da quel vento che l’inverno usa per ricordare a tutti la sua presenza. Gli ultimi resti di una nevicata ormai vecchia di quattro giorni scricchiolavano ancora sotto i piedi costringendomi a una prudenza supplementare. Ci stavamo dirigendo verso i giardini seguendo il solito percorso e pregustavo il momento in cui avremmo occupato la nostra panchina preferita. Immaginavo che la temperatura non ci avrebbe permesso di sostare a lungo ma non volevo rinunciare a quel momento perché mi ricordava le nostre passeggiate durante la bella stagione. A parte i doveri delle festività, come la solita imbarazzante cena della Vigilia a casa di mio padre e la giornata di Natale trascorsa con la mamma e il nonno, da quando erano finite le lezioni ero rimasto per lo più rinchiuso in camera a studiare. Quel mattino mi ero alzato già stanco dopo una notte inquieta e avevo capito quasi subito che non sarei riuscito a mantenere la concentrazione necessaria; verso le dieci avevo deciso di uscire a farmi schiaffeggiare dall’aria fredda, nella speranza di recuperare un po’ di energia. Qualcuno urlò il mio nome da lontano. Era Francesca. Avevo pensato spesso a lei mentre viaggiavo in treno, nelle pause tra una lezione e l’altra o la sera, prima di scivolare nel sonno. Col passare delle settimane quei pensieri si erano diradati fino a farmi credere che l’avrei dimenticata. Il mio nome, pronunciato dalla sua voce, spazzò via come polvere il tempo trascorso e l’illusione di potermi liberare di lei. Ero fermo ad aspettarla e, mentre si avvicinava, la gioia iniziò a scivolare sulla mia pelle in rivoli tiepidi. Anche Jo la riconobbe e fu la prima a salutarla. «Come stai?» chiese Francesca con un calore che non mi aspettavo, intanto si chinava ad accarezzare Jo. «Bene, grazie. Adesso ancora meglio!» mi lasciai sfuggire «e tu? Tutto bene? Ormai sarai diventata un genio della matematica.»

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«Quasi» rispose ridendo «per ora mi accontento della sufficienza, ma se penso a quanto era dura senza l’aiuto di tua madre… sarei dovuta venire prima da lei.» Una bolla d’indecisione si materializzò tra noi e fu lei ad allontanarla. «Dove stavi andando di bello?» «Ai giardini, mi accompagni?» Pochi minuti dopo eravamo seduti sulla mia panchina preferita, quella dove sedevo spesso con Jo al fianco, e conversavamo come se l’avessimo fatto milioni di volte. Scoprii che abitava nella frazione di San Quirico, i giardini che avevo sempre frequentato erano più o meno a metà strada tra casa sua e la mia e anche lei da bambina scendeva dallo scivolo e giocava sulle giostre dello stesso parco. Scherzammo sul fatto che potevamo esserci incontrati proprio in quel luogo qualche anno prima, un moccioso e una bimba sul passeggino. Il suo profumo disperso nell’aria fredda mi ricordava il primo contatto avuto con lei. Mentre le parlavo mi ripetevo euforico: “Ecco cosa si prova a starle vicino”. Avevo la sensazione che entrambi ci sentissimo a nostro agio e ne fossimo in qualche modo sorpresi. Poi lei ammutolì. Tardai ad accorgermi del fatto che si era distratta e continuai a parlare nel vuoto per qualche istante finché non mi interruppe con un tono incredulo, sognante. «Lassù… non capisco cosa sia… non avevo mai visto… una mongolfiera, ecco cos’è! Marco, guarda!» Si era infervorata mentre parlava, credo mi abbia indicato con il dito il punto del cielo che avrei dovuto fissare. Mentre cercavo inutilmente un modo per attenuare l’imbarazzo di entrambi lei inspirò a fondo. La voce, al principio, le uscì a fatica poi deglutì e le parole che voleva dirmi arrivarono tutte in una volta, come una cantilena senza senso. «Scusascusascusascusaperdonaminonvolevononvolevo» riprese fiato solo per sussurrare «sono una scema, scusa non…» «Non importa» mi affrettai a rispondere cercando di nascondere le mie emozioni. Intanto aveva appoggiato la mano fasciata da un guanto sul dorso della mia. Mi voltai verso da lei e chiusi le sue dita tra le mie assaporando il contatto con il morbido calore della lana.

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«Non è niente, davvero» perdonarla per quel lapsus innocente era fin troppo facile e, purtroppo, inutile. FINE ANTEPRIMAContinua...