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1 MOGGI STORY/1 – SCRITTO DA TRAVAGLIO E TRE CRONISTI SPORTIVI, PUBBLICATO NEL 1998, “LUCKY LUCIANO – INTRIGHI, MANEGGI E SCANDALI DEL PADRONE DEL CALCIO ITALIANO”, NON HA AVUTO IL BENE DI UNA SOLA RECENSIONE – A PUNTATE SU DAGO, UN LIBRO-KAOS… Tratto da “Lucky Luciano – Intrighi, maneggi e scandali del padrone del calcio italiano Luciano Moggi”, Ala Sinistra e Mezzala Destra, Kaos Edizioni (Un libro scritto in joint-venture da tre giornalisti sportivi, che hanno preferito l’anonimato, e da Marco Travaglio) «Dopo i quarant’anni, ciascuno è responsabile della faccia che ha» Fedor Dostoevskij PREMESSA Luciano Moggi e un libro sono come il diavolo e l'acqua santa. Perché allora questa biografia? Perché Moggi è il padrone del calcio italiano. E la sua faccia, i suoi occhiali scuri, il suo sigarone fra i denti, i suoi quattro telefonini trillanti, la sua voce roca e cantilenosa, il suo accento senese- ciociaro-napoletano, il suo italiano approssimativo, i suoi gusti ruspanti, insieme al suo potere smisurato, sono diventati il simbolo di uno sport sempre più ricco, scandaloso e processato. Se sia Moggi a attirare gli scandali o gli scandali a attirare Moggi, è questione controversa e irrisolta: sta di fatto che dove c'è lui ci sono loro. Va alla Lazio, e la Lazio vive due delle sue stagioni più buie, fra calcio-scommesse e serie B. Va al Napoli, e il Napoli passa da uno scandalo all'altro (lo scudetto sgraffignato per una monetina, quello regalato al Milan con contorno di camorra e toto-scommesse, e poi Maradona in mezzo a cocaina e camorristi). Trasloca al Torino, e anche li è tutto un intrico di fondi neri, frodi fiscali, giocatori finti, contratti fasulli, fatture false, sexy-hostess per arbitri. Approda infine alla Juve, e la Signora del calcio italiano finisce sul marciapiede in un vortice di sospetti, polemiche e inchieste giudiziarie come mai prima. Spesso, anche grazie alla sua indubbia scaltrezza, Moggi ha cambiato aria un attimo prima che le cose si mettessero male. Qualche volta è stato solo sfiorato o se l'è cavata per il rotto della cuffia. Altre volte è finito anche lui nei guai insieme ai suoi presidenti e ai suoi giocatori, collezionando un buon numero di inchieste, sportive e soprattutto giudiziarie, e rimediando un discreto pacchetto di rinvii a giudizio e condanne. Presso il Casellario giudiziario di Siena (Moggi è nato da quelle parti, a Monticiano) ci sono già tre sentenze definitive a suo carico, che fanno di lui un pregiudicato a tutti gli effetti. Ma limitarsi a queste quisquilie sarebbe fare un grave torto a colui che di fatto è il despota del calcio italiano. Un boss tanto potente quanto temuto e chiacchierato, partito nullatenente e arrivato multimiliardario. Il contorno di eccessi - il vizio delle carte, la scuderia di cavalli da corsa a Roma- Tordivalle, le decine di dimore sparse per l'Italia - sono in linea con il personaggio. Un personaggio che oggi incarna - indisturbato - il più scandaloso "conflitto di interessi" della storia del calcio mondiale: mentre lui siede sulle poltrone di consigliere di amministrazione e di direttore generale della potente Juventus, suo figlio Alessandro è socio-presidente della Gea World, società che rappresenta oltre duecento calciatori di serie A e B (alcuni della stessa squadra bianconera, molti altri di club avversari). Un obbrobrio sportivo-affaristico inconcepibile, che all'estero farebbe inorridire chiunque. In Italia no: da noi anche il calcio è all'italiana, e la ditta Moggi può spadroneggiare indisturbata, temuta e venerata. Mettere insieme questo libro non è stato facile: nessuno, nell'ambiente, è disposto a dichiarare quello che molti mormorano. "Lucianone" è tanto potente quanto vendicativo. Non è stato facile neanche trovare un titolo adatto a salvare la decenza: alla fine si è deciso per "Lucky Luciano", un

Lucky Luciano

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MOGGI STORY/1 – SCRITTO DA TRAVAGLIO E TRE CRONISTI SPORTIVI, PUBBLICATO NEL 1998, “LUCKY LUCIANO – INTRIGHI, MANEGGI E SCANDALI DEL PADRONE DEL CALCIO ITALIANO”, NON HA AVUTO IL BENE DI UNA SOLA RECENSIONE – A PUNTATE SU DAGO, UN LIBRO-KAOS… Tratto da “Lucky Luciano – Intrighi, maneggi e scandali del padrone del calcio italiano Luciano Moggi”, Ala Sinistra e Mezzala Destra, Kaos Edizioni (Un libro scritto in joint-venture da tre giornalisti sportivi, che hanno preferito l’anonimato, e da Marco Travaglio) «Dopo i quarant’anni, ciascuno è responsabile della faccia che ha» Fedor Dostoevskij PREMESSA Luciano Moggi e un libro sono come il diavolo e l'acqua santa. Perché allora questa biografia? Perché Moggi è il padrone del calcio italiano. E la sua faccia, i suoi occhiali scuri, il suo sigarone fra i denti, i suoi quattro telefonini trillanti, la sua voce roca e cantilenosa, il suo accento senese-ciociaro-napoletano, il suo italiano approssimativo, i suoi gusti ruspanti, insieme al suo potere smisurato, sono diventati il simbolo di uno sport sempre più ricco, scandaloso e processato. Se sia Moggi a attirare gli scandali o gli scandali a attirare Moggi, è questione controversa e irrisolta: sta di fatto che dove c'è lui ci sono loro. Va alla Lazio, e la Lazio vive due delle sue stagioni più buie, fra calcio-scommesse e serie B. Va al Napoli, e il Napoli passa da uno scandalo all'altro (lo scudetto sgraffignato per una monetina, quello regalato al Milan con contorno di camorra e toto-scommesse, e poi Maradona in mezzo a cocaina e camorristi). Trasloca al Torino, e anche li è tutto un intrico di fondi neri, frodi fiscali, giocatori finti, contratti fasulli, fatture false, sexy-hostess per arbitri. Approda infine alla Juve, e la Signora del calcio italiano finisce sul marciapiede in un vortice di sospetti, polemiche e inchieste giudiziarie come mai prima. Spesso, anche grazie alla sua indubbia scaltrezza, Moggi ha cambiato aria un attimo prima che le cose si mettessero male. Qualche volta è stato solo sfiorato o se l'è cavata per il rotto della cuffia. Altre volte è finito anche lui nei guai insieme ai suoi presidenti e ai suoi giocatori, collezionando un buon numero di inchieste, sportive e soprattutto giudiziarie, e rimediando un discreto pacchetto di rinvii a giudizio e condanne. Presso il Casellario giudiziario di Siena (Moggi è nato da quelle parti, a Monticiano) ci sono già tre sentenze definitive a suo carico, che fanno di lui un pregiudicato a tutti gli effetti. Ma limitarsi a queste quisquilie sarebbe fare un grave torto a colui che di fatto è il despota del calcio italiano. Un boss tanto potente quanto temuto e chiacchierato, partito nullatenente e arrivato multimiliardario. Il contorno di eccessi - il vizio delle carte, la scuderia di cavalli da corsa a Roma-Tordivalle, le decine di dimore sparse per l'Italia - sono in linea con il personaggio. Un personaggio che oggi incarna - indisturbato - il più scandaloso "conflitto di interessi" della storia del calcio mondiale: mentre lui siede sulle poltrone di consigliere di amministrazione e di direttore generale della potente Juventus, suo figlio Alessandro è socio-presidente della Gea World, società che rappresenta oltre duecento calciatori di serie A e B (alcuni della stessa squadra bianconera, molti altri di club avversari). Un obbrobrio sportivo-affaristico inconcepibile, che all'estero farebbe inorridire chiunque. In Italia no: da noi anche il calcio è all'italiana, e la ditta Moggi può spadroneggiare indisturbata, temuta e venerata. Mettere insieme questo libro non è stato facile: nessuno, nell'ambiente, è disposto a dichiarare quello che molti mormorano. "Lucianone" è tanto potente quanto vendicativo. Non è stato facile neanche trovare un titolo adatto a salvare la decenza: alla fine si è deciso per "Lucky Luciano", un

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altro dei suoi soprannomi, che ha il pregio di richiamare una delle più note massime moggiane: «Se ho vinto tanto nella mia carriera si vede che è perché sono molto fortunato». E lucky, appunto, vuol dire "fortunato". POST-PREMESSA La prima edizione di questo libro, pubblicata nel novembre 1998, non ha avuto il bene di una sola recensione, di uno straccio di articolo, sui tre quotidiani sportivi che ogni giorno vengono editi in Italia in poco meno di un milione di copie. Moggi ha tanti amici fedeli (e qualche devoto maggiordomo) nelle redazioni sportive, compresa quella della Rai. Ma nonostante la censura, “Lucky Luciano” si è guadagnato nel tempo, col passaparola, molte migliaia di lettori e una seconda edizione. Nel giugno del 2003, durante una intervista, Lucianone ha fatto cenno a questo libro per lamentare che gli autori «non hanno avuto il coraggio di firmarsi». Non è una questione di "coraggio", è che di questo lavoro sono autori vari cronisti, sportivi e non. E qualcuno conosce il carattere vendicativo di Lucianone; mentre qualcun altro vuole evitare che il proprio nome sia associato a quello del biografato e a molti degli argomenti trattati nel libro. Il lettore, inoltrandosi in queste pagine, capirà. CAPITOLO PRIMO – LUCIANONE DA MONTICIANO LO CHIAMAVANO PALETTA Nato a Monticiano, in provincia di Siena, il 10 luglio 1937 da una famiglia di ceto modesto, fin da bambino Luciano Moggi è un vero patito di calcio. Il pallino del pallone glielo trasmette Graziano Galletti, un panettiere di Grosseto, il quale la domenica si porta appresso Lucianino in giro per gli stadi della Toscana a vedere le partite. Il ragazzino, è fatale, tenta anche la carriera di calciatore, ma il talento non c'è, i risultati sono scarsi. Deboluccio col pallone tra i piedi, Lucianino non è migliore sui banchi di scuola: anche per ragioni di bilancio familiare, dopo il diploma di terza media abbandona gli studi e comincia a lavorare. Trova un posto alle Ferrovie dello Stato, e poco tempo dopo viene trasferito a Civitavecchia. Alla stazione di Civitavecchia, Moggi fa l'impiegato. Ma spesso lo mandano fra i binari a controllare le traversine. Una carriera non proprio travolgente: arriverà fino al grado di capogestione, una specie di vicecapostazione addetto alla biglietteria. Una volta - raccontano - gli capita di rimpiazzare il titolare e fa partire il treno, così si guadagna il soprannome di "Paletta". Ma più che di treni, lui è appassionato di calcio. Nel tempo libero continua a giocare da stopper in varie squadrette di quarta serie. E intanto medita come coniugare le due vocazioni della sua vita: quella di manovratore e quella di pallonaro. È la metà degli anni Sessanta quando il capo-gestione della stazione ferroviaria di Civitavecchia, tra pacchi da smistare e biglietti da vendere, intuisce che il calcio sta per diventare un grande business. La svolta arriva alle soglie dei trent'anni. Moggi li compie nel luglio 1967, ma li festeggia con qualche settimana di anticipo insieme agli amici di Monticiano, quando la Juve conquista, a sorpresa, il tredicesimo scudetto ai danni dell'Inter di Helenio Herrera. È stanco di cercare ingaggi in serie D (l'attuale C-2, allora strutturata in modo molto diverso da oggi), e di girovagare fra la Toscana e il Lazio (con una parentesi perfino in Sicilia, ad Agrigento, nella gloriosa società dell'Akragas). Sobbarcarsi lunghi viaggi in treno per giocare in quarta serie, in cambio di poche migliaia di lire, non gli va più. Anche l'impiego alle Ferrovie dello Stato comincia ad andargli stretto: è un lavoro noioso e malpagato. Molto meglio il mondo del calcio, dove lo chiamano Lucianone per la giovialità guascona e spregiudicata. E dove, soprattutto, cominciano a ronzare i talent scout, gli scopritori di giovani campioni, intenditori del gioco più bello del mondo capaci di scovare quelli che diventeranno i futuri big in cambio di discrete provvigioni.

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Un lavoro oscuro, fatto di chiacchiere, di diplomazia e scaltrezza. Tutti requisiti che il trentenne Moggi possiede in abbondanza. Lui è un estroverso, un gran chiacchierone, parla di tutto, soprattutto di donne, di motori e ovviamente di calcio. Ma è un furbacchione, e conosce a meraviglia l'arte di ascoltare: «In mezzo a tante stronzate che si sentono, ci può sempre essere un'idea» è una delle sue frasi celebri. Moggi è ignorante, ma non è sprovveduto. Parla un italiano scombiccherato e dialettale, ma ha la furbizia del contadino "scarpe grosse e cervello fino". E capisce subito che la pubblicità è l'anima del commercio, che esiste soltanto chi sa farsi vedere. E lui sa farsi notare come pochi. Soprattutto negli stadi minori, al fianco di quelli che vengono chiamati "mediatori": personaggi utili ma imbarazzanti, i quali si muovono in un mondo dorato e ipocrita che fa finta di non conoscerli, che se ne avvale fingendo che non ci siano. Sono perlopiù personaggi toscani, come Franco Marranini, come Romeo Anconetani (futuro presidente del Pisa); ma anche romani (il numero uno è Walter Crociani), napoletani, friulani, milanesi. A Monticiano, Moggi è noto come un tifoso della Juventus. Alla stazione di Civitavecchia, altrettanto. La passione è forte, il desiderio di fare parte di quel mondo anche. L’occasione gliela offre il torneo di Viareggio, la rassegna giovanile più celebre del calcio italiano. Moggi viaggia molto, lavora anche di notte, visiona ragazzi e raccoglie dati, compilando dei veri e propri dossier. I giovani calciatori che gli interessano li scheda uno a uno, raccogliendo notizie dettagliatissime, anche sulla situazione familiare. Stabilisce con loro rapporti diretti e personali, si candida a fargli da manager ma anche da vicepadre, da fratello maggiore, e spesso ci riesce. Così, chiacchierando e schedando, sgomitando e agganciando, segnalando e raccomandando, Moggi nel 1968 entra a far parte della corte del supermanager Italo Allodi, colui che in quegli anni ha costruito dal niente il leggendario Mantova (approdato dalla serie D alla A con una scalata senza precedenti) e che ha fatto grande l'Inter di Angelo Moratti e Helenio Herrera. Esaurito il ciclo nerazzurro, nel 1970 Allodi è stato chiamato alla Juventus da Giampiero Boniperti, il campione dei cinque scudetti appena nominato dagli Agnelli amministratore delegato della squadra di Famiglia, in attesa di diventarne il presidente. E alla Juve, Allodi si avvale di un gruppo di collaboratori-informatori fra i quali c'è anche Lucianone. Sono decine i giocatori che "Paletta" pedina, scruta, scheda e infine porta all'attenzione di Allodi. Fra questi c'è Paolo Rossi, il futuro supercannoniere del Vicenza, del Perugia e della Juventus, il centravanti azzurro del mondiale di Spagna '82: Moggi lo ha notato nella Cattolica Virtus, una piccola squadra fiorentina. Rossi viene "provato" dalla Juve e trattenuto: Lucianone ha fatto il colpaccio - il primo di una lunga serie. Si ripeterà poi con Claudio Gentile, un altro Signor Nessuno che diventerà terzino destro nella mitica Juve di Giovanni Trapattoni e promosso subito in maglia azzurra fino al mondiale di Spagna 1982 (quando non farà toccare palla a Zico e a Maradona). E a Gentile molti altri seguiranno. (1.continua)

Dagospia 09 Maggio 2006 Con la potentissima Juve alle spalle, Moggi diventa ben presto un osservatore di peso. Tant'è vero che Allodi gli affida un incarico molto delicato: sistemare in tutta Italia i giovani calciatori sfornati dal vivaio juventino che non possono avere un futuro in prima squadra. E qui Lucianone mette in mostra un'altra delle sue doti: la sfrontatezza da tappetaro, la capacità di vendere come diamanti anche i pezzi di vetro. Tra i giovani bianconeri da sbolognare altrove c'è un terzino, tale Cheula; Moggi lo spaccia nell'ambiente come il "nuovo Spinosi" (il difensore che la Juve ha strappato alla

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Roma, insieme con Fabio Capello e Spartaco Landini, nell'estate 1969, e trascinato in Nazionale), e alla fine riesce a sistemarlo, dietro congruo compenso. Ovviamente di Cheula non si avranno mai più notizie, ma la missione è compiuta. La scalata di Lucianone è travolgente e ruspante. Compra a rate un'utilitaria, sposa una donna minuta e tollerante, e medita il primo grande passo: lasciare le Ferrovie. «Salto il fosso», annuncia agli amici. E gli amici si moltiplicano, perché l'uomo ha un fascino giusto per il mondo del calcio, del quale non conosce bene né i regolamenti né la storia ma ne sa fiutare abilmente umori e retroscena. Appena è in età per la pensione baby, Moggi si libera di berretto e paletta, e si butta ani-ma e corpo nella nuova attività pallonara. Anzitutto organizza una ragnatela di fedeli galoppini guidati da un suo amico - un certo Nello Barbanera (direttore sportivo di piccoli club, tra cui il Civitavecchia) che battono i campetti di periferia e gli oratori della grande provincia italiana per scovare talenti e promesse in ogni angolo. «Un gruppo di amici, gente con cui scambio pareri e informazioni», minimizza Lucianone. Dei calciatori sotto osservazione l'ex ferroviere vuole sapere tutto: non solo le doti tecniche e le caratte-ristiche agonistiche, ma anche il grado di istruzione e perfino la vita privata. Attraverso la sua rete, ne tiene sotto controllo centinaia, seguendoli passo passo; poi, al momento giusto, li segnala a questo o quel club titolato. La capitale operativa di Moggiopoli è la Maremma, dove l'ex panettiere Graziano Galletti - uomo simpatico e generoso, ma soprattutto grande intenditore di calcio - la fa da padrone. Moggi lo spedisce anche "in missione" (secondo il lessico ferroviario) in giro per l'Italia, e ne ricava indicazioni preziose. È proprio Galletti, per esempio, che insiste su Gaetano Scirea, uno dei giovani emergenti dell'inizio degli anni Settanta. Scirea gioca nelle giovanili dell'Atalanta allenata da Ilario Castagner: fa il centrocampista, ma c'è chi scommette sul suo futuro da difensore. Moggi invece è perplesso, lo giudica - così come molti tecnici autorevoli - troppo poco dotato nel gioco aereo per un ruolo così delicato. Ma Galletti non ha dubbi, per lui il giovane Scirea è un potenziale asso della difesa. Moggi si lascia convincere, e a quel punto si sobbarca il compito più delicato: convincere anche Boniperti, che è alla ricerca di un erede adeguato del pluridecorato libero bianconero Sandro Salvadore. Per Lucianone è un gioco da ragazzi, e alla fine sono tutti d'accordo: Scirea passa alla Juve come libero, e sarà uno dei migliori campioni del nostro calcio, di sicuro il difensore più corretto e propositivo, un vero fenomeno, un altro campione del mondo. Anche Moggi comincia a passare per un fenomeno, specialmente quando - dopo Scirea - porta alla Juve Franco Causio, l'ala destra tutta dribbling e fantasia scovata in una squadretta pugliese e poi spedita a "farsi le ossa" - come si diceva allora - sui campi caldi del Sud 3. Nel giro di poche stagioni in casa Juventus esplode il conflitto tra Boniperti e Allodi: due leader, due primedonne, e una convivenza che da difficile diventa impossibile. Alla fine prevale Boniperti, l'uomo degli Agnelli. Allodi, dopo il fallito assalto juventino alla coppa dei Campioni (finale perduta a Belgrado contro l'Ajax, nel 1973), se ne va. Il suo protetto Moggi, invece, resta, e viene promosso sul campo "primo osservatore" della società bianconera'. Lucianone è già un piccolo boss alla guida di un'ormai consolidata rete di osservatori-collaboratori, i quali operano dietro le quinte in cambio di piccoli favori e di qualche sporadico guadagno. La Juve è un magnifico ombrello sotto il quale Moggi può operare in proprio, allargando il suo raggio d'azione ben oltre la squadra bianconera: allaccia contatti con altre squadre, facilita trattative, decide carriere, dispensa suggerimenti, fa il bello e il cattivo tempo. A un certo punto anche l'ombrello-Juve comincia ad andargli stretto. Della società bianconera

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Lucianone è un collaboratore esterno, un semplice consulente, e adesso vuole di più, pretende una carica ufficiale di dirigente. Ma alla Juve gli spazi sono chiusi, come a casa Savoia "si comanda uno alla volta", e Boniperti è un inguaribile accentratore. A Roma, invece, c'è qualcuno che ha bisogno di un manager che capisca di calcio: quel qualcuno è il nuovo padrone della Roma, Gaetano Anzalone. Amico del democristiano Giulio Andreotti e del fido Franco Evangelisti, Anzalone è un palazzinaro assolutamente digiuno di pallone. La manovra di avvicinamento di Moggi alla Roma è tipica del personaggio: si trasferisce in pianta stabile nella Capitale, e tampina per settimane il caporedattore del "Messaggero" Gianni Melidoni per farsi presentare ad Anzalone. Il giornalista, preso per sfinimento, finalmente combina l'incontro. Il palazzinaro romano e l'ex ferroviere senese si piacciono al primo sguardo, così Lucianone diventa il consulente ufficiale per il mercato del presidente giallorosso. Un anno dopo lo sbarco a Roma, nel 1976, Moggi dà subito una lezione alla Juve. Aiutato dal suo amico Riccardo Sogliano (ex centrocampista del Milan), mette a segno il suo primo grande colpo di mercato: riesce a portare alla Roma l'attaccante più ambìto del momento, il centravanti del Genoa Roberto Pruzzo. La Juve e le altre pretendenti sono beffate, Boniperti si sente tradito, Anzalone gongola, e Moggi comincia a sentirsi un piccolo padreterno. Pruzzo non basterà a trasformare la Roma in una grande squadra, ma quello è il segnale che qualcosa sta cambiando nel calcio italiano: la Juve non è più la padrona assoluta del mercato, come è accaduto dall'avvento di Boniperti (e Allodi) al vertice della società. Nuovi equilibri stanno per delinearsi, la bilancia calcistica tra il Nord e il Centro-Sud si riequilibra. La Roma passerà dalla gestione di Anzalone a quella di Dino Viola (altro imprenditore di stretta osservanza andreottiana) e arriverà allo scudetto. La Fiorentina, appena acquistata dai fratelli Pontello, ingaggerà Italo Allodi ed entrerà nell'Olimpo delle grandi. Un mutamento epocale del quale l'ex impiegato delle Ferrovie «con tendenze a trafficare» sarà fra i protagonisti assoluti. 2 - Continua

Dagospia 10 Maggio 2006 METTI UNA SERA A CENA Roma per Moggi è una tappa fondamentale. A parte il fatto che diventa "commendatore", Lucianone nella Capitale costruisce una fitta rete di amicizie molto influenti. Allaccia rapporti con parlamentari (soprattutto democristiani di fede andreottiana), magistrati, diplomatici, ufficiali dell'esercito, medici, dirigenti Rai, gente dello spettacolo e ovviamente dello sport. Conosce i tecnici che curano il rigoglioso vivaio giallorosso (e sono quelli che gli segnalano i giovani migliori, come Carlo Ancelotti, futuro "nazionale"). Ma soprattutto, conosce giornalisti, tanti giornalisti, ai quali a Natale non fa mai mancare un gentile pensiero: una volta un pacco con un prosciutto e mezza forma di Parmigiano, un'altra volta bottiglie di champagne, un'altra ancora casse di vino doc; e poi, fuori stagione, orologi, capi di cachemire, biglietti per viaggi aerei... Perché Lucianone ha capito bene l'importanza dei giornalisti nel mondo del calcio, e dunque la necessità di arruffianarsene il maggior numero possibile. Nella Capitale, l'ex ferroviere di Civitavecchia affina anche le sue già spiccate doti di uomo di mondo, e finisce per assumere movenze tipicamente andreottiane. Come i portaborse dello storico leader democristiano (da Sbardella a Evangelisti), diventa un vero fuoriclasse delle pubbliche relazioni intese come clientelismo: rozzo, colorito, disponibile, spiritoso, alla mano. E come Andreotti sa lavorare nell'ombra, trafficare dietro le quinte, muoversi sotto le foglie alla maniera dei

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serpenti. Una doppiezza che diventerà la caratteristica di fondo e la struttura portante del suo crescente potere nel mondo del calcio. Lucianone impara a non perdere mai la calma, a farsi concavo davanti alle situazioni convesse, convesso davanti a quelle concave. Sa che è bene essere amici di tutti e di nessuno, che è il denaro a muovere il mondo, che le regole in Italia sono fatte di eccezioni, che il fine giustifica i mezzi, che la spregiudicatezza è un prerequisito del successo, che l’immagine pubblica può coprire qualunque vizio privato. E impara - ma questo forse già lo sapeva - che il calcio che avvince milioni di italiani e muove crescenti masse di denaro è quanto di più effimero esista in natura: basta un refolo di vento, l'errore millimetrico di un calciatore, una svista arbitrale, una qualunque minima "casualità", e molte prospettive mutano, molte fortune nascono e muoiono per un niente... Quando Anzalone, nel 1979, cede la Roma al cavalier Dino Viola, la situazione per Lucianone si fa precaria. Il nuovo presidente romanista è l’anti-Boniperti, ma è molto simile al suo rivale juventino: non tollera altri galli nel pollaio. Oltretutto, Moggi non gli va per niente a genio, troppo ruspante per il suo stile da gran signore: si racconta che Viola, anziché la mano, gli porgesse addirittura il gomito (oppure solo tre dita), per marcare meglio le distanze... Però l'ex ferroviere è vendicativo ma non permaloso, e al gomito del presidente giallorosso contrappone metaforicamente l'italico "gesto dell'ombrello": perché Lucianone ha capito «che nel calcio, tra il proprietario della squadra, ricco ma spesso fesso, e il giocatore, vigoroso ma rozzo, c'è spazio per una nuova figura. Quella del direttore sportivo: uno che di pallone capisce più del presidente, e di conti più del calciatore». In realtà, l'allergia epidermica di Viola per quel personaggio unticcio e invadente è solo metà del problema; l'altra metà è il fatto che il "consigliere" Moggi costa troppo. Il presidente giallorosso si sfoga con parenti e amici raccontando le pretese di grandeur di Lucianone e le sue mirabolanti note spese a base di costosissime bottiglie di champagne e soggiorni in principesche suite d'albergo. Per non parlare dei "sovrapprezzi", cioè delle lievitazioni improvvise dei costi dei giocatori trattati dall'ex ferroviere: Viola - che non è tirchio, ma oculato sì - li chiama «la tassa Moggi». Per cui nel dicembre 1979 decide di liquidare Lucianone perché, dice, «non me lo posso più permettere». Un benservito che ha un antefatto decisamente sgradevole, la goccia che potrebbe aver fatto traboccare il vaso. Nel tardo pomeriggio di domenica 25 novembre '79, subito dopo la partita Roma-Ascoli (vinta dai giallorossi), il presidente Viola si reca negli spogliatoi per salutare il presidente ascolano Costantino Rozzi. Quest'ultimo è infuriato con l'arbitro della partita, Claudio Pieri, e prende Viola a male parole: «La partita l'abbiamo vista tutti! Non mi faccia dire cose che non posso dire! Credo che ci sia qualcosa da chiarire!». Il presidente giallorosso cade dalle nuvole, allora Rozzi gli dice: «Si faccia spiegare la faccenda dal suo consigliere Moggi!... Sappia che l'Ascoli avanzerà una protesta ufficiale nelle sedi opportune!». Viola cerca subito Moggi, «e i due hanno parlottato un po' fra di loro lontano da orecchi indiscreti». Così salta fuori che sabato sera, alla vigilia della partita, Lucianone è stato sorpreso in un ristorante romano in compagnia dell'arbitro Pieri e dei due guardalinee. Lo scandalo è inevitabile. La reazione di Lucianone è un capolavoro di reticenza e ambiguità: «Non so chi abbia riferito al signor Rozzi del fatto che, sabato scorso, mi sono trovato a incontrare l'arbitro Pieri in un ristorante. Viste le gravi insinuazioni e le minacce che si è permesso di rivolgere sia a me che alla Roma, devo pensare che il suo informatore abbia voluto malignamente fargli perdere la testa». Anche la versione dei fatti raccontata da Lucianone è in piena sintonia col personaggio: «Alla vigilia della partita mi sono recato nel ristorante di cui sono abituale cliente... Ho incontrato per caso l'arbitro che stava già cenando con i guardalinee e alcuni suoi amici romani. È stato lo stesso Pieri, con un atto di cortesia, a salutarmi, a rivolgermi la parola, a invitarmi a bere insieme... Terminato il pasto,

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l'arbitro, i guardalinee e i loro conoscenti hanno lasciato il ristorante intorno alle ore 23; io sono rimasto ancora per una mezz'oretta. Tutto qui, solo una questione di buona educazione». E poi un bel finale, moggiano anche quello: «Le conclusioni del signor Rozzi sono offensive soprattutto nei riguardi dell'arbitro Pieri. Voglio sperare che il presidente dell'Ascoli si renda conto d'aver preso una cantonata e sappia scusarsi. Altrimenti, nell'interesse mio e della Roma, dovrò portarlo in Tribunale». Il testimone-informatore della cena Moggi-Pieri è l'avvocato Luigi Girardi, legale dell'Ascoli calcio. Il quale racconta i fatti in modo ben diverso dalla versione fornita da Lucianone. «Sabato sera, verso le ore 23,45, insieme al consigliere dell'Ascoli Sabatini, al geometra Lattanzi e a un amico romano, sono entrato nel ristorante in questione», riferisce il legale ascolano. «Abbiamo dovuto aspettare un po' per trovare posto, poi ci hanno fatto accomodare in una saletta in fondo [cioè in una saletta appartata, ndr]. Essendo io il legale dell'Ascoli, mentre ci stavamo sedendo mi hanno detto: dietro al vostro tavolo c'è un dirigente della Roma, Luciano Moggi, vostro avversario di domani - è seduto con l'arbitro Pieri. A quel punto mi sono girato e ho visto Moggi e Pieri con altri due o tre individui». Verso l’1,15 nel ristorante è arrivato il segretario dell'Ascoli, Leo Armillei, che ha raggiunto il tavolo di Girardi. «Quando Armillei ha guardato verso il tavolo di Moggi e Pieri, tutti loro si sono alzati precipitosamente e sono usciti in gran fretta dal ristorante. Dopo qualche minuto, Moggi è rientrato da solo, ci ha raggiunto e ha salutato Armillei chiedendogli chi fossero quelle persone sedute al tavolo con lui, cioè noi, e Armillei ha risposto che eravamo suoi amici. Poi Moggi se n'è andato. Di fronte a questa situazione che mi è apparsa anomala, ho invitato il segretario della società a riferire al presidente Rozzi». L'avvocato Girardi precisa ancora: «Durante la cena, durata almeno un'ora e mezza, cioè fino a quando non è entrato nel ristorante Armillei che essi conoscevano, al tavolo di Pieri e Moggi c'è stata sempre viva cordialità. Quando l'arbitro e gli altri, che Armillei ha riconosciuto nei guarda-linee, se ne sono andati in tutta fretta e Moggi è rientrato per salutare, anche noi ci siamo alzati per andarcene. Era, ripeto, l'1,15 circa. E poiché nel frattempo anche fra di noi si era aperta una discussione in merito al da farsi di fronte a un fatto così, il proprietario del locale ci si è avvicinato dicendosi dispiaciuto di averci fatto accomodare proprio in quella saletta. Questi sono i fatti come sono realmente accaduti». Del resto è difficile credere a un Moggi che cena solitario, di sabato sera, nella saletta riservata di un ristorante. Tanto quanto è difficile credere a una terna arbitrale che, nella stessa sera e alla stessa ora, capita per caso nello stesso ristorante e nella stessa saletta appartata… Infatti la testimonianza dell'avvocato Luigi Girardi - che sbugiarda Lucianone perfino in fatto di orari - viene pubblicata dal "Messaggero" il 28 novembre, e Moggi si guarda bene dal contestarla. Memore dei trascorsi ferroviari, Paletta ha un debole per i fischietti, e aspira al ruolo di manovratore. 3 - Continua Dagospia 11 Maggio 2006

LUCIANONE CIECO E SORDO

All'inizio del 1980 Moggi lascia la Roma, ma non se ne va lontano: come ogni mercenario che si rispetti, passa direttamente alla concorrenza, all'odiata Lazio di Umberto Lenzini. I contorni del

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trasloco di Moggi da una sponda all'altra del Tevere non possono che essere sfumati, nebulosi, ambigui. Il personaggio, infatti, è già doppio e triplo, già aduso a muoversi nell'ombra e pro domo sua. Comincia a lavorare per la Lazio in maniera ufficiosa, mentre si vocifera che stia per essere ingaggiato dal Napoli; poi, nel successivo maggio, viene ufficializzato come nuovo "direttore sportivo" della società laziale. Un mestiere inedito, questo: una specie di "mediatore", di trait d'u-nion fra il presidente e i giocatori, un mestiere inventato proprio da Moggi. Un ruolo perfettamente consono al suo inventore: quello del supermanager-maneggione che affronta e risolve i più delicati problemi interni della squadra, che anticipa i rivali nel calciomercato, che coccola i giocatori, blandisce gli arbitri, si arruffiana i giornalisti a colpi di omaggi e gentili pensieri... Un vero factotum del presidente, schierato in primissima linea. Il momento in cui Lucianone fa il saltafosso capitolino coincide con l'infittirsi delle voci che parlano di un calcio italiano ammorbato dalle scommesse clandestine, dal "Totonero". Fin da gennaio, il quotidiano romano "Il Messaggero" va scrivendo di «scandalo delle scommesse», e denunciando che «la credibilità del Campionato è scossa da voci che danno per possibile la manipolazione dei risultati con la collaborazione attiva degli stessi calciatori»; secondo il quotidiano romano, «fra le partite più chiacchierate» ci sono «Milan-Roma di Coppa Italia e Milan-Lazio del 6 gennaio», il cui risultato sarebbe stato manipolato. Le voci corrono da mesi, e i sospetti si appuntano in particolare sulla Lazio, cioè la nuova squadra di Lucianone. Domenica 23 marzo 1980, con un blitz della Guardia di finanza in sei stadi di serie A subito dopo la fine delle partite, scoppia il primo grande scandalo del calcio italiano moderno. Sei sono le squadre coinvolte nella mega-truffa delle scommesse clandestine e delle partite truccate su cui indagano i sostituti procuratori romani Ciro Monsurrò e Vincenzo Roselli, che hanno disposto l'operazione giudiziaria: Milan, Perugia, Avellino, Genoa, Palermo, e soprattutto Lazio. Durante il clamoroso blitz i finanzieri arrestano ben quattro giocatori laziali: Giuseppe Wilson, Bruno Giordano, Massimo Cacciatori e Lionello Manfredonia. Tutta "colpa" di un fruttivendolo romano con l'hobby delle scommesse clandestine, il trentaduenne Massimo Cruciani, che il 1° marzo ha presentato un esposto alla Procura di Roma contro alcuni calciatori che gli hanno fatto perdere un sacco di milioni, tradendo la promessa di "addomesticare" i risultati di certe partite. Anche il suo amico Alvaro Trinca, 45 anni, titolare del ristorante "La Lampara" della centralissima via dell'Oca - dove ogni giovedì sera lo scaramantico presidente la-ziale Umberto Lenzini va a cenare con mezza squadra e qualche dirigente, e dove sono soliti ritrovarsi i giocatori della Lazio - ci ha rimesso un bel po' di quattrini. La notizia dell'esposto di Cruciani viene spifferata da una provvidenziale gola profonda al "Corriere dello Sport", che la pubblica l'indomani (2 marzo), compromettendo così gran parte dell'inchiesta. Ma quello che fa in tempo a emergere ha comunque dell'incredibile: giocatori di grido, e miliardari, che si vendono le partite per qualche decina di milioni, spesso d'accordo con i loro dirigenti, talvolta scommettendo sulla sconfitta della propria squadra. Alla fine la Lazio e il Milan verranno retrocessi in serie B dalla giustizia sportiva, che squalificherà quasi tutti i giocatori tirati in ballo da Cruciani e Trinca, per un totale di 56 anni di astinenza forzata dai campi di gioco". Tra i deferiti dall'ufficio indagini della Federcalcio c'è anche il direttore sportivo del Bologna Riccardo Sogliano, ex calciatore del Milan e ottimo amico di Moggi. In questo scandalo epocale che scuote il mondo del calcio italiano fin dalle fondamenta, e che ha in alcuni giocatori laziali il suo epicentro, Lucianone non c'entra niente: il nome di Moggi, infatti, non comparirà una sola volta nelle migliaia di carte processuali, e neppure nei monumentali faldoni raccolti dal capo dell'ufficio indagini della Federcalcio Corrado De Biase, neanche in veste di testimone. Ed è naturale, visto che Lucianone è arrivato alla Lazio quando già la toto-truffa era in

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corso, e da tempo. Certo è strano che l'ex ferroviere, già così ambientato nelle retrovie del calcio, già così ricco di agganci e rapporti e contatti, già così occhiuto é orecchiuto nell'ambiente, non abbia mai sentito niente, non abbia mai saputo niente. Anche perché, in quei primi mesi del 1980, sono in molti a sapere, o almeno a sospettare. A cominciare dallo stesso allenatore della Lazio, Bob Lovati, passando per il medico sociale Renato Ziaco e il segretario generale Ferdinando Vona. Del resto, come si potrà leggere nella sentenza del Tribunale di Roma sullo scandalo-scommesse, «già nel gennaio 1980 alcuni quotidiani... iniziavano a pubblicare vistosi servizi giornalistici su una vasta e ramificata attività di scommesse clandestine sulle partite di calcio, con possibili alterazioni dei risultati concordate tra calciatori e gestori delle scommesse». Strano che Lucianone non sappia niente, non abbia sentito niente, non abbia niente da dire, perché lui nel calcio ci vive e del calcio romano sa tutto: ha molti amici nelle redazioni dei giornali e degli uffici della Federazione, conosce bene e anche benissimo giocatori, allenatori e presidenti... Trinca e Cruciani - aggiunge il Tribunale - hanno frequentato assiduamente gli -allenamenti della Lazio a Tor di Quinto, i ritiri prepartita tanto a Roma (la squadra biancazzurra si ritirava a Villa Pamphili alla vigilia di ogni partita casalinga) quanto in trasferta. Una sera - è lo stesso difensore laziale Wilson a confessarlo - Cruciani aveva raggiunto la Lazio in albergo alla vigilia di Milan-Lazio del 6 gennaio 1980 per consegnare un assegno di 15 milioni a Cacciatori. E Maurizio Montesi - uno dei calciatori laziali estranei allo scandalo - racconta ai giudici le avances di Cacciatori per indurlo a partecipare alla combine: profferte che lo avevano disgustato al punto da indurlo a simulare un infortunio d'accordo col medico sociale Ziaco (che in tribunale conferma tutto) per non giocare l'indomani la partita truccata contro il Milan. 4 - Continua Dagospia 15 Maggio 2006 In pratica Moggi, già con le mani in pasta in diverse società, già con le antenne "dritte e sensibili" che si è sempre vantato di avere, risulta essere ignaro di tutto. Per mesi e mesi calciatori di varie squadre si sono venduti le partite, hanno finto di sbagliare gol e di non riuscire a impedire le reti degli avversari, hanno giocato "a perdere" o "a pareggiare", hanno incassato assegni e frequentato bookmaker all'amatriciana. Da mesi e mesi il mondo del calcio era scosso da stranezze, ambiguità, maneggi, le voci si rincorrevano ricche di dettagli, ma lui, l'onnipresente e onnisciente Lucianone, non ha mai sentito niente, non s'è mai accorto di niente, non ha mai sospettato niente. Anche perché nessuno lo ha interrogato Le conseguenze dello scandalo, per la Lazio, sono devastanti: la giustizia sportiva la retrocede in serie B e ne squalifica alcuni dei giocatori più rappresentativi. Il verdetto coglie Lucianone, ormai ufficialmente direttore sportivo, in mezzo al guado. Ma lui non è tipo da scoraggiarsi, anzi è proprio nelle avversità e negli scandali che dà il meglio di sé. Il nuovo allenatore Ilario Castagner, prenotato da Moggi per la nuova stagione laziale, gli chiede di ingaggiare il centrocampista della Nazionale olandese Willy Van de Kerkhof. Lucianone l'accontenta subito, solo che - forse per sbaglio, forse per risparmiare - compra un altro Van de Kerkhof, il fratello René, anche lui della Nazionale olandese, ma attaccante. L'arrivo di René Van de Kerkhof a Roma, per la presentazione ufficiale alla stampa, coincide con la notifica della retrocessione in B della Lazio. In serie B i calciatori stranieri non possono giocare, e comunque non è in serie B che il campione olandese vuole finire la sua carriera; così gira i tacchi e se ne torna in Olanda senza neppure incontrare i giornalisti. L'esordio ufficiale del general manager Lucianone Moggi in casa della Lazio non potrebbe essere più sciagurato.

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Intanto, in coda allo scandalo-scommesse, fa scalpore la denuncia dell'avvocato vicentino Ugo Dal Lago (che da anni assiste squadre e calciatori in vari processi, sportivi e non), il quale dichiara fra l'altro ai magistrati: «Seppi dal presidente dell'Ascoli Costantino Rozzi che circolavano voci circa l'interessamento del presidente della Federcalcio Artemio Franchi [che un anno più tardi risulterà tra -gli affiliati alla Loggia P2, ndr] e dell'allora presidente della Repubblica Giovanni Leone per la salvezza della Lazio». Nell'occasione, Dal Lago cita anche le confidenze del direttore sportivo del Brescia, Nardino Previdi, su presunti condizionamenti di alcune partite «a opera dell'arbitro fiorentino Gino Menicucci». Raggiunto da comunicazione giudiziaria (e in seguito prosciolto da tutte le accuse), Menicucci replica con una querela. Previdi viene addirittura arrestato per reticenza, dopo aver negato di aver detto le cose riferite da Dal Lago. Secondo l'avvocato veneto, Previdi gli aveva parlato di presunti debiti di gioco di Menicucci, la qual cosa rendeva l'arbitro particolarmente vulnerabile sul piano patrimoniale: fatto peraltro noto - sempre secondo i de relato di Dal Lago - ad «almeno dieci direttori sportivi, tra cui quello del Parma, Borea, e quello del Napoli, Vitali. Previdi aggiunse che sul piano tecnico Menicucci arbitrava molto bene e che, quando non c'era niente da guadagnare, arbitrava in modo eccellente». D'altra parte, per via di un suo dirigente che aveva regalato un orologio proprio a Menicucci (alla vigilia della partita casalinga col Milan nel campionato 1974-75), il Foggia era stato penalizzato di 6 punti e di conseguenza era retrocesso in serie B. La stagione 1980-81 della Lazio retrocessa in serie B per lo scandalo del "Tototruffa" è un calvario. Il presidente Lentini si ammala, e la società è allo sbando. Non vengono pagati i "premi partita" ai calciatori, e gli stessi stipendi, nel dicembre 1980, cominciano a essere versati in ritardo, perfino con assegni a vuoto. La squadra, per protesta, proclama un clamoroso sciopero: senza stipendio, i calciatori laziali minacciano di non entrare in campo. Di questa caotica situazione Lucianone tenta di approfittare per ottenere pieni poteri dalla dirigenza. E per agevolare la propria investitura, non esita a schierarsi dalla parte della società inadempiente e contro i giocatori protestatari: «Di scioperi non ne voglio neanche sentir parlare!», tuona, e aggiunge minaccioso: «Ho già convocato la squadra Primavera!» - se non giocheranno i titolari in sciopero, lui manderà in campo i ragazzini... Ma tanto zelo non viene adeguatamente ripagato. Nel febbraio 1981, infatti, la dirigenza laziale affida pieni poteri all'ex arbitro Antonio Sbardella. Per Moggi è uno schiaffo, un'onta, una mortificazione. La sua reazione è tipica del personaggio: «Mi sento come un cane bastonato», dichiara. «Se la società è in una situazione catastrofica non è certo colpa mia. Comunque, fino alla fine dell'anno la direzione della squadra spetta a me. Dopo vedremo: se qualcuno sarà stato più bravo di me, o se non mi sarà più possibile lavorare, me ne andrò in punta di piedi come sono arrivato, anche se ho un contratto triennale. Naturalmente anche in questa circostanza la società si è comportata male con me... Avrei potuto essere avvisato prima, dell'arrivo di Sbardella, invece di saperlo dai giornali! I rapporti nella Lazio non sono leali, sembra che ci siano dei partiti [fazioni, ndr], qualcuno mi ha visto amico di qualcuno, mentre io sono amico di tutti». Al termine del campionato 1980-81, la Lazio rimane in serie B. Nell'estate 1981, in pieno calciomercato, Lucianone perde le staffe: «Io alla Lazio sono solo il fedele esecutore di quello che mi viene ordinato», poi avverte: «Sia chiaro che nessuno mi dovrà ritenere responsabile della campagna acquisti della Lazio!». È evidente che è stato completamente scavalcato ed emarginato. La sua carica di direttore sportivo laziale si è ridotta a pura etichetta.

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Roma per Moggi, è ormai una seconda pelle. Il toscano di Monticiano ha assorbito perfino la parlata romanesca. Tutti i rapporti che potevano servirgli li ha già allacciati. Ma le squadre, nella capitale, sono soltanto due: la Roma e la Lazio. E lui le ha già cavalcate entrambe. Gli occorre una nuova sponda, un nuovo palcoscenico. Fra i tanti amici romani di Lucianone c'è Ezio De Cesari, vicedirettore del "Corriere dello Sport", toscano come lui. È proprio De Cesari che gli dà l'imbeccata giusta: il Torino calcio, ceduto dal vecchio commendatore dello scudetto, Lucio Orfeo Pianelli, a Sergio Rossi, un manager che guida la Comau (una società dell'indotto auto, area Fiat). Torino è una piazza meno tumultuosa, più discreta, l'uscita di sicurezza ideale dal vicolo cieco di Roma. Un'occasione imperdibile per salvare la faccia. Il Torino di Rossi è una società dalle rinnovate ambizioni ma di scarso rischio: se vince è un miracolo, se perde nessuno si scandalizza. Così, nell'aprile 1982, mentre la Lazio lotta per la promozione, Moggi in serie A ci ritorna per i fatti suoi: come direttore sportivo del Torino. 5 - continua Dagospia 16 Maggio 2006

A CAVALLO DEL TORO Lucianone alla corte granata non ci arriva da solo. Nella primavera del 1982 il nuovo presidente del Torino, Sergio Rossi, nomina amministratore delegato della società tale Luciano Nizzola, un avvocato che gli dà una mano nelle cause civili della Comau. Cuneese di Saluzzo, ex alpino, anche Nizzola come del resto Rossi di calcio capisce poco e niente. Così Lucianone, unico intenditore della compagnia, potrà fare il bello e il cattivo tempo. I due Luciani legano subito, se l’intendono a meraviglia e diventano amiconi inseparabili: nell’ambiente li chiamano “il Gatto e la Volpe” (chi dei due sia la volpe, è facile da capire). Di giorno lavorano a stretto contatto. La sera fanno le ore piccole nei ristoranti sulla collina di Chieri (dove abita Nizzola) o nel centro di Torino, per lunghe partite a poker o a scopone. A Torino, Moggi cambia un’altra volta pelle. Smette i panni romaneschi e provinciali e si inventa un look più sobrio e manageriale. Capisce la crescente importanza della tivù, e fa il possibile cioè poco per riverniciare la propria immagine. Si sottopone perfino a una dieta ferrea, e comincia a indossare abiti che almeno nelle intenzioni dovrebbero attagliarsi meglio a un rispettabile e telegenico manager pallonaro. Anche l’occhio, si sa, vuole la sua parte. Ma oltreché alla forma, il nuovo direttore del Toro bada soprattutto alla sostanza. Così si reca a Sarajevo, e il 29 aprile annuncia di avere ingaggiato la stella jugoslava Safet Susic. Peccato che anche l’Inter sostenga di aver acquistato quello stesso giocatore. In effetti, si scopre che Susic ha firmato due contratti, sia con l’Inter, sia col Torino. La seconda prodezza di Lucianone in casa Toro è del maggio 1982. Moggi tratta l’acquisto del centravanti del Catanzaro Carlo Borghi. Raggiunto l’accordo con il giocatore e con la società calabrese, si passa alla stesura del contratto. Lucianone non è mai stato un gran conoscitore dei regolamenti, da buon italiano li considera inutili perdite di tempo. E benché si fregi del titolo di direttore sportivo, in quella circostanza dimentica che i contratti di ingaggio per la stagione successiva non possono essere sottoscritti prima del lunedì che segue la conclusione del campionato. Il torneo termina domenica 16 maggio (vincerà la Juventus fra roventi polemiche, staccando la Fiorentina di un solo punto all’ultima giornata): il contratto fra il Torino e il Catanzaro

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per Borghi porta invece la data del 14 maggio. Salva la frittata un provvidenziale intervento del segretario generale della società granata, Federico Bonetto, che ritocca la data sul documento: «Se presentiamo il contratto così, ci mettono tutti sotto inchiesta...». Il Torino cede poi al Catanzaro il mediano Giacomo Ferri, ma l’affare si complica perché il giocatore non accetta il trasferimento. E, secondo il presidente calabrese Adriano Merlo, quel gran rifiuto avviene «su istigazione della dirigenza del Torino, in particolare di Luciano Moggi». Alla fine la trattativa sfuma. A giugno, Moggi e Nizzola volano in missione in Spagna nello stesso periodo del Mundial di Enzo Bearzot, a caccia di un grande campione da portare subito al Torino del danaroso e impaziente neopresidente Rossi. E non tornano certo a mani vuote. Il fuoriclasse scovato da Gatto e Volpe a Torremolinos, nel ritiro bunker dei campioni del mondo, è un argentino di nome Patricio Hernández, detto Pato. Un mezzo brocco, ma Lucianone lo spaccia ai quattro venti come un fuoriclasse della Nazionale argentina, il vice-Maradona”. Anche perché l’operazione costa al Torino la rispettabile cifra di lire 5 miliardi. L’inganno dura poco: ogni volta che la Nazionale argentina deve sostituire il Pibe de oro, manda in campo Valencia, o Calderón, o Barbas. Hernández mai: resta sempre in panchina. E il povero presidente granata ha dovuto sborsare per quel Carneade di Pato quanto ha speso il Napoli per l’olandese Krol, e l’Inter per l’austriaco Prohaska; per non parlare di Michel Platini, il genio francese comprato dalla Juventus per appena 150 milioni in più... Da dirigente del Toro la notorietà di Lucianone cresce ancora. E intorno a lui chissà perché crescono anche i sospetti. Piccolo esempio: il dopopartita di Pisa-Torino (vinta dai granata per 1-0), il 2 gennaio 1983. Infuriato per un plateale calcio di rigore negato dall’arbitro romano Vittorio Benedetti alla sua squadra, il presidente del Pisa Romeo Anconetani sparacchia dichiarazioni di fuoco contro Moggi, che accusa di avere condizionato l’arbitro. Scrive il quotidiano La Nazione: «Luciano Moggi, ex capostazione, approdato chissà come nel mondo del calcio, è dipinto da Anconetani (ma non soltanto da lui...) come personaggio potentissimo in quel di Roma, dove guarda caso risiedono i massimi vertici del mondo arbitrale. E l’arbitro di Pisa-Torino proveniva proprio dalla Capitale». Sono tempi difficili, quelli, per il nuovo Torino di Rossi, Nizzola e Moggi. Il pubblico si è allontanato dalla squadra, non sopporta la mezza classifica dopo avere lottato per cinque stagioni alla pari con la Juventus per lo scudetto. Il Toro, nel campionato 1981-82, ha rischiato la retrocessione in serie B, e si è salvato in extremis solo grazie all’abilità di un allenatore emergente, reduce da una tormentata esperienza al Milan: Massimo Giacomini. Ma Giacomini, per la stagione 1982-83, passa al Napoli. Così Moggi decide di assumere Eugenio Bersellini, che ha esaurito il suo ciclo nellìInter: Lucianone gli promette mari e monti, ma poi gli affida una squadra appena decente. E il campionato dei granata lascia molto a desiderare. All’epoca i posti-Uefa riservati ai club italiani sono solo due, e quando a fine stagione il Torino ne viene escluso, Bersellini diventa il capro espiatorio. Il quotidiano Tuttosport pubblica una tabella per dimostrare come le squadre allenate da lui crollino puntualmente nel girone di ritorno. Il tecnico s’infuria, ma i cronisti che seguono la squadra negli allenamenti al vecchio e glorioso stadio Filadelfia gli spiegano che il quotidiano sportivo torinese è diretto Piero Dardanello, uno dei migliori amici di Moggi. Infatti, dopo l’avvertimento a mezzo stampa, Bersellini viene puntualmente licenziato. Liberatosi dell’incolpevole Bersellini, Moggi ingaggia Gigi Radice. Un ritorno pieno di significati: è l’allenatore dello scudetto granata del 1976, strappato alla Juventus dopo una rincorsa travolgente. L’unico scudetto degli ultimi 35 anni in casa Toro, che fa di Radice uno dei miti della tifoseria granata. E in effetti i risultati non si fanno attendere: il Toro chiude il campionato 1982-83

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all’ottavo posto in classifica, quello 1983-84 al quinto, e quello 1984-85 (vinto a sorpresa dal Verona di Osvaldo Bagnoli) al secondo. Un secondo posto pieno di rimpianti: sarebbe bastato qualche piccolo ritocco, per esempio un portiere appena migliore di Silvano Martina, per battere il Verona dell’Osvaldo, amico sincero di Radice e, come lui, nato in quella grandiosa fucina di allenatori che è stato il Milan degli anni Cinquanta e Sessanta. Mentre fa il direttore sportivo del Toro, Moggi si fa anche gli affari suoi. E allarga il proprio raggio d’azione, spingendo alcuni amici danarosi a entrare nel mondo del calcio: è il caso di Alvaro Amarugi, un imprenditore maremmano già presidente del Grosseto, che sollecitato da Lucianone acquista il Cagliari. Moggi, con Amarugi presidente cagliaritano, realizza numerose operazioni: emblematico il caso di un giocatore che va e torna dalla Sardegna a Torino, il centrocampista Danilo Pileggi, ceduto e poi riacquistato due volte dalle due società in un ping-pong incomprensibile. Il Cagliari nel 1983 finirà in serie B, Amarugi ci rimetterà svariati miliardi e sarà poi costretto a farsi da parte sull’onda dell’impopolarità dilagante presso i tifosi cagliaritani. Morirà qualche anno più tardi dimenticato da tutti. I primi anni Ottanta sono gli anni d’oro del calciomercato, e Moggi si muove in quell’ambito come un padrino riverito e sempre più potente. Per gli amici, e per gli amici degli amici, diventa un gigantesco ufficio di collocamento ambulante: allenatori, dirigenti, procuratori, calciatori disoccupati o male in arnese, vanno da lui a postulare, e lui trova una sistemazione per tutti, una soluzione a ogni problema. All’inizio del 1985, mentre i granata si avviano a chiudere il campionato al secondo posto, Moggi stipula col Torino un nuovo contratto triennale: Lucianone sarà il direttore sportivo granata fino al 1988. A fine stagione, un referendum fra i lettori del settimanale Guerin Sportivo gli assegna il premio di “direttore sportivo più abile. 6 - continua

Dagospia 17 Maggio 2006 I due Luciani il Gatto e la Volpe fanno bene al Toro. E i tifosi granata, dopo il secondo posto, cominciano a crederci: ora vogliono lo scudetto, e pretendono una campagna acquisti adeguata all’obiettivo. Lucianone punta ad assicurarsi il forte attaccante dell’Inter Aldo Serena, ma stavolta la Juve è più scaltra e arriva prima. Per colui che passa come il re del calciomercato è uno smacco bruciante. E tenta di rimediare con un comunicato: «Il Torino calcio rende noto, per doverosa informazione verso i tifosi, che tutti gli sforzi effettuati per ingaggiare il giocatore Aldo Serena sono stati vanificati dai rapporti instauratisi fra Inter e Juventus, che hanno reso assolutamente impossibile alla società il raggiungimento del proprio obiettivo, nonostante la dichiarata disponibilità del Torino a corrispondere il prezzo richiesto dal calciatore». Ma l’ira dei tifosi granata per il mancato ingaggio di Serena si abbatte ugualmente sulla dirigenza del Torino. Si radunano a centinaia davanti alla sede della società, sbandierano uno striscione con scritto: «Rossi-Nizzola-Moggi è ora di finirla, i tifosi del Toro non sono dei pirla!», e scandiscono slogan il più urbano dei quali definisce la triade «Servi degli Agnelli». Per i tifosi del Toro, infatti, al danno del mancato arrivo di Serena si unisce la beffa dell’ingaggio dell’attaccante da parte dell’odiata Juve. Nel campionato 1985-86 il Torino rimedia un modesto quinto posto, ma quel che è peggio è che la Juventus vince lo scudetto. Per cui la tifoseria granata accentua l’ostilità verso il presidente Rossi e verso il direttore sportivo Moggi. Nell’autunno 1986, alla ripresa del campionato, molti dei sostenitori del Toro disertano le partite della squadra in segno di protesta. Nella società granata la situazione si fa critica. Mentre la squadra

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in campo traccheggia, il presidente Rossi comincia a meditare di passare la mano. I veri reggenti sono i due Luciani Moggi e Nizzola che, interpellati dalla stampa circa le voci di un cambio di proprietà, dichiarano: «Noi non ne sappiamo niente». Crescono anche le tensioni fra Lucianone e l’allenatore. Gigi Radice è una persona seria, e non sopporta lo stile-Moggi. Di Lucianone, in particolare, non gradisce le promesse non mantenute, le operazioni di mercato avviate e non concluse, e soprattutto il rapporto privilegiato che il direttore sportivo intrattiene con alcuni giocatori. Un rapporto scorretto e ambiguo, che crea problemi all’allenatore e che non giova alla compattezza della squadra. È il caso del fuoriclasse brasiliano Junior, che Moggi ha comprato nel 1984 su richiesta di Radice, e che l’allenatore ha trasformato nel cardine della squadra: Lucianone, però, lo gestisce come cosa sua. Un giorno l’allenatore vieta a Junior di partecipare al famigerato Processo del Lunedì condotto dal giornalista Aldo Biscardi – uno dei più fraterni amici-confidenti di Moggi. Informato in tempo reale dell’accaduto, Lucianone dimostra subito all’allenatore chi comanda: sequestra Junior e lo costringe a viva forza a intervenire nel programma dell’amico Aldo. Logico che i rapporti fra giocatore e allenatore si deteriorino. Pochi giorni dopo, sostituito durante una partita, Junior inveisce contro Radice, il quale dichiara: «Io sono un allenatore, non un assistente sociale». Il brasiliano ribatte a muso duro: «Se io ho bisogno di un assistente sociale, lui ha bisogno di uno psichiatra». Nella classifica finale del campionato 1986-87, il Torino moggiano si piazza all’undicesimo posto. La tifoseria ritorna sulle barricate. «Vendete il meglio senza comprare noi la domenica andremo a sciare!», scandiscono gli ultras sotto la sede granata. E giù insulti e sberleffi per Rossi e Moggi. Nizzola tenta una patetica difesa d’ufficio: «Grazie alla gestione portata avanti dal cavalier Rossi, il Torino è una delle società più solide del calcio italiano. E il direttore sportivo Luciano Moggi ha la piena fiducia del presidente e del consiglio di amministrazione». Ma la contestazione dei tifosi non si placa: il sabato pomeriggio, lo stadio Filadelfia è un solo grido: «Moggi! Moggi! Quanti soldi rubi oggi?!». L’ex ferroviere capisce che è meglio cambiare aria. E a fine maggio 1987, benché il suo contratto scada nel 1988, lascia il Toro. «Difficoltà ambientali e di lavoro sorte negli ultimi tempi nell’assolvere le mie funzioni non mi permettono di continuare la collaborazione con il Torino», comunica alla stampa. Poi aggiunge sibillino: «Sono comunque disponibile per dare ancora una mano, se mi sarà richiesto». Un’ora dopo, Sergio Rossi lascia la presidenza della società granata. Beppe Dossena, regista e bandiera della squadra, commenta: «È stato Moggi a informarmi che il Torino ha cambiato padrone, ma non ho capito perché anche lui se n’è andato». Lo si capirà nel giro di pochi giorni, quando il Napoli di Ferlaino e Allodi fresco vincitore dello scudetto 1986-87 grazie a Maradona annuncia ufficialmente il nome del suo nuovo direttore sportivo: Luciano Moggi. Il presidente partenopeo Corrado Ferlaino è deciso a fare le cose in grande. Il Napoli, che ormai è la quarta potenza italiana in materia di tifo (alle spalle della Juventus e delle due milanesi), nella nuova stagione dovrà difendere lo scudetto e disputare la Coppa dei campioni. Insomma, urgono rinforzi, sia in campo sia fuori. Così, dal Brasile arriva sotto il Vesuvio, a suon di miliardi, il centravanti della Nazionale carioca Antônio Careca; e da Torino approda, a colpi di centinaia di milioni, il direttore sportivo Luciano Moggi. Del resto, Italo Allodi è molto malato, e il suo facente funzioni Pierpaolo Marino è troppo giovane; Moggi, allievo di Allodi, è ormai molto più potente di lui: si mormora che eserciti addirittura qualche influenza su alcuni arbitri. Il discepolo ha superato il maestro.

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A Napoli, Moggi c’era già stato una volta, più di vent’anni prima: in viaggio di nozze, con la fresca sposa Giovanna, 60 mila lire in tasca e una scassatissima Fiat 600 comprata a rate. Nel giugno 1987 ci ritorna da miliardario, a bordo di una fiammante Mercedes. Stavolta intenzionato a mettere radici: di lì a poco comprerà una splendida villa sulla collina di Posillipo con vista sul Golfo, dove manterrà sempre la sua residenza, anche quando lascerà la squadra partenopea. Sotto il Vesuvio Lucianone non ci arriva a mani vuote. Porta in dote al presidente Ferlaino un grazioso cadeau, il terzino granata Giovanni Francini. Un giocatore al quale sono interessate varie squadre, compresa la Juve, e che la Roma vuole fortissimamente: il presidente giallorosso Dino Viola (nemico giurato di Moggi) è pronto a sborsare ben più dei 5 miliardi offerti dal Napoli. Ma grazie a San Gennaro-Lucianone, Francini si accasa a Napoli. Il Torino ci rimette un bel po’ di denaro, la Roma perde un giocatore importante: l’unico che ci guadagna è Moggi, che si dimostra più potente di tutto e di tutti. Anche del denaro. Al Napoli c’è un giovanotto di belle speranze, Luigi Pavarese, un tipo che ha fatto la gavetta come galoppino della segreteria dell’Avellino calcio e che nel 1985 è finito alla corte di Ferlaino con i gradi di segretario. Pavarese diventa subito il braccio destro di Moggi, e fra i due nasce un sodalizio che lascerà il segno. Chi invece non gradisce l’arrivo di Moggi è il general manager della società partenopea Pierpaolo Marino, il quale benché invitato da Ferlaino a restare si dimette perché, dice, «i miei metodi sono diversi da quelli di Moggi». Lucianone non si scompone: «Ho scelto di venire al Napoli perché l’ambiente mi affascina e perché conosco Ferlaino da tantissimi anni», dichiara serafico, «e sono qui per lavorare e non per litigare. So che il Napoli è sotto gli occhi di tutti perché ha vinto scudetto e Coppa Italia, ma io sono un tipo coraggioso per natura». L’allenatore partenopeo è Ottavio Bianchi, un uomo dal caratteraccio leggendario: difficile che possa andare d’accordo con un tipo come Moggi. Tanto più che Lucianone come ha già imparato a fare a Torino non sa stare al suo posto, si comporta da vero e unico padrone della squadra. Infatti anche a Napoli comincia subito a scavalcare l’allenatore allacciando rapporti diretti e preferenziali con alcuni giocatori. Primo fra tutti il numero uno: Diego Armando Maradona, personaggio intrattabile, divo capriccioso e impossibile. Ma anche con lui Lucianone riesce a entrare in perfetta sintonìa. Scaramantico come ogni buon napoletano, il presidente Ferlaino ha ingaggiato Moggi a peso d’oro non solo per la sua onnipotenza, ma anche per l’alone di fortuna che si porta appresso. Una fortuna che tuttavia non si manifesta nella calda giornata del 9 luglio 1987, quando l’urna di Ginevra decide il calendario del primo turno di Coppa dei campioni: il sorteggio accoppia subito il Napoli al temutissimo Real Madrid, una delle favorite al successo finale. A settembre il Napoli affronta lo squadrone spagnolo, e ha l’agio di giocare la partita d’andata in un Santiago Bernabeu deserto: l’incontro, infatti, si disputa a porte chiuse per punire le gravi intemperanze dei tifosi madridisti nella stagione precedente. Ma la squadra partenopea non sfrutta l’occasione favorevole: è fuori forma, rinuncia a giocare, e incassa due gol senza segnarne nessuno. Dopo la partita, Moggi spalleggiato da qualche giocatore, come Salvatore Bagni lamenta provocazioni da parte degli spagnoli e apre il fuoco sul Real a mezzo stampa.

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Polemiche gratuite e strumentali, che Lucianone alimenta col preciso obiettivo di far lievitare l’attesa già grande per la partita di ritorno. Al San Paolo, il Napoli per mezz’ora è padrone dell’incontro: va in gol con Francini, sfiora il raddoppio; ma sul più bello, quando la rimonta sembra a portata di mano, subisce il pareggio di Butragueño. È la fine del sogno europeo. Un duro colpo alla fama di portafortuna che accompagna Lucianone. Rimane il campionato, e il Napoli è la squadra favorita per il nuovo scudetto. Anche perché Maradona & C. hanno un solo possibile rivale: il Milan berlusconiano di Arrigo Sacchi, che però parte male. Così la squadra partenopea prende subito il comando della classifica, anche se il suo gioco non incanta. A Milanello, di tanto in tanto, l’allenatore del Milan esterna le sue perplessità sul regolare andamento del torneo: confida addirittura di temere, più del Napoli di Maradona, il direttore sportivo Moggi per la sua vicinanza al mondo arbitrale. Il fatto è che la squadra diretta da Lucianone dispone del più grande fenomeno calcistico in circolazione, Maradona, grazie al quale ha già vinto il primo scudetto; ma il fuoriclasse argentino è tanto genio in campo quanto sregolatezza fuori dal campo, è praticamente ingovernabile. «Il problema-Maradona non esiste», proclama Moggi dopo l’ennesima intemperanza del Pibe, «la verità è che tutte le squadre vorrebbero avere il problema di gestire Diego». Lucianone sa bene che anche le sue fortune di direttore sportivo partenopeo dipendono in gran parte dal piede dorato del fuoriclasse argentino. Ai primi di ottobre il Napoli perde 1-0 sul campo del Pisa. Ma subito inoltra reclamo perché, durante la partita, un piccolo oggetto metallico lanciato dagli spalti dello stadio pisano ha colpito un suo giocatore, Renica. Moggi già pregusta la vittoria a tavolino per 2-0, e la notizia che il giudice sportivo, prima di pronunciarsi, ha disposto un supplemento di indagine lo innervosisce. «Sono meravigliato... La giurisprudenza non lascia dubbi sull’esito del verdetto», sibila Lucianone in veste di raffinato giurista. Il Pisa è di parere opposto, e la polemica si fa rovente. Quando infine il risultato del campo viene ribaltato con l’assegnazione della vittoria al Napoli, il presidente pisano Anconetani protesta: dice che è «una vergogna», e sostiene che il verdetto del giudice sportivo è stato sollecitato «da una campagna di stampa orchestrata a senso unico», alludendo ai tanti amici giornalisti di Lucianone. A novembre, piccolo giallo con polemiche. Alla vigilia della partita della Nazionale contro la Svezia, che si giocherà a Napoli, molte migliaia di biglietti, anziché essere messi in vendita nei canali ufficiali, finiscono nel giro del bagarinaggio e del mercato nero. Risulta che circa 10 mila tagliandi siano stati regalati dalla Federazione ai Napoli club «per garantire alla Nazionale azzurra il calore del pubblico, a cominciare dai settori più popolari». La polemica coinvolge il Napoli, che ha smistato i biglietti, ma Lucianone è perentorio: «Noi del Napoli non centriamo niente: ci siamo limitati alla distribuzione tecnica del carico dei biglietti». All’inizio del 1988, il Napoli è saldamente al comando della classifica, e di partita in partita il suo vantaggio sul Milan che insegue al secondo posto tende ad aumentare: a fine marzo arriva a 4 punti. Ma, a partire da aprile, accade l’incredibile. In tre domeniche consecutive, la squadra diretta da Moggi comincia improvvisamente a perdere punti su punti. Il vantaggio del Napoli sul Milan si riduce da +4 a +1. Poi c’è lo scontro diretto, nella data storica del 1° maggio 1988. Il Napoli è in fibrillazione, metà della squadra è contro l’allenatore Bianchi. E benché giochi la partita-scudetto in casa, nella bolgia amica del San Paolo, perde l’incontro (per 2-3) e lo scudetto. 8 - continua

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L’inopinata débâcle del Napoli culmine di un rapido e inspiegabile crollo della squadra suscita polemiche a non finire. Voci, sospetti, illazioni: si parla di partite combinate e di scudetto venduto. Poi, qualche anno dopo, un’inchiesta giudiziaria per traffico di droga fornirà alcuni elementi che potrebbero spiegare l’inspiegabile. A tutta prima, i giocatori tentano di fare dell’allenatore il capro espiatorio del clamoroso crollo partenopeo. La società, invece, addossa tutte le colpe a quattro giocatori (Bagni, Ferrario, Giordano e Garella), nessuno dei quali quando si dice il caso! è fra quelli che sono nelle grazie di Lucianone. La squadra, che da tempo mal sopporta quel galantuomo dal forte carattere che è Ottavio Bianchi, diffonde un incredibile comunicato contro l’allenatore: una rivolta collettiva mai vista prima nel mondo del calcio. Il direttore sportivo Moggi che dovrebbe fare da trait d’union fra la squadra e la società tace. In realtà Lucianone, sotto sotto, sta dalla parte dei giocatori, mentre il presidente Ferlaino sta con Bianchi. Così la società partenopea si limita a definire quella gravissima iniziativa «inopportuna», a dirsene «rammaricata» e a sollecitare «una serena riflessione». Una presa di posizione ponziopilatesca voluta da Moggi, dal momento che il presidente «ribadisce la fiducia nell’allenatore Bianchi». In perfetto stile andreottiano, Lucianone tenta di far quadrare il cerchio mediando tra Ferlaino che vuole tenere Bianchi, e la squadra che lo vuole cacciare: lo fa attraverso una messinscena a base di colloqui a quattr’occhi con tutti i giocatori, ricevuti uno a uno nel suo studio presso la sede del Napoli calcio, come se fosse un presidente della Repubblica alle prese con le consultazioni. E mentre Moggi consulta i giocatori, la sede sociale è presidiata dalla polizia: i tifosi, schierati con Bianchi e inferociti per la perdita dello scudetto e per l’incredibile comunicato, inveiscono contro i giocatori in particolare contro i quattro capri espiatori al grido di «venduti», «traditori», «pagliacci», «ladri». Alla fine prevale la linea di Ferlaino, e l’allenatore resta al suo posto. Pur «con qualche perplessità» per una situazione che rimane «difficile e pericolosa», Bianchi accetta di rimanere, ma precisa: «È necessario che ci sia chiarezza da parte di tutte le componenti della società Napoli... Ognuno deve fare il suo mestiere, senza tentare di fare il mestiere degli altri» forse le orecchie di Lucianone fischiano... Quanto all’improvviso crollo della squadra, Bianchi dice di non essere «in grado di trovare una spiegazione, mi domando solo come sia possibile che una squadra come questa possa perdere 4 partite di seguito». Infine precisa che accetta di restare al Napoli solo per «il rapporto molto buono che ho col presidente Ferlaino». Il direttore sportivo non viene mai nominato, come non esistesse. Invece Lucianone esiste, eccome, e si dedica ai quattro agnelli sacrificali, additati come responsabili del grande pasticcio e gettati in pasto alla tifoseria. La prima stagione di Moggi al Napoli è dunque fallimentare. La squadra partenopea è stata eliminata al primo turno dalla Coppa dei campioni, e ha perso Coppa Italia e scudetto in maniera indecorosa. Lucianone viene accusato di non aver saputo governare la situazione interna alla squadra, proprio lui che si vanta di fare spogliatoio. In quello spogliatoio napoletano anarcoide e rissoso, con calciatori che sembrano giocare soprattutto contro l’allenatore, Moggi non ha saputo combinare niente. Colui che avrebbe dovuto rappresentare il valore aggiunto fuoricampo del Napoli si è rivelato un incapace. Per Lucianone è un brutto passo falso, un vero smacco per la sua immagine, anche se lui fa finta di niente, spaparanzato nella sua splendida villa-vista-mare a Posillipo, con codazzo di amici potenti sulla spiaggia di Capri. Il problema cruciale del Napoli è ancora e sempre Maradona, perché l’asso argentino è sinonimo di

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gioie e dolori, vittorie e grattacapi, incassi e grane. Diego si allena quando gli pare, talvolta rifiuta perfino di seguire la squadra in trasferta. Fra capricci e polemiche, fa il bello e il cattivo tempo, in campo e soprattutto fuori. Senza orari e senza regole, si dà alla pazza gioia, tra donne e cocaina. Ma il suo enorme talento calcistico resta indispensabile per il Napoli e per Napoli. Nessuno è in grado di governare le sue bizze, men che meno chi dovrebbe farlo, cioè Moggi. Quando la stella del fenomeno argentino si sarà spenta, Lucianone dirà: «Non ho mai saputo niente di quello che faceva Maradona fuori dal campo» salvo poi dichiarare l’esatto contrario: «Se non lo avessi saputo, non sarei stato un buon dirigente... sapevo, ma avevo possibilità di intervento limitatissime. Fuori dal campo, Maradona non era gestibile». Dunque, com’è ovvio, Moggi sa tutto di quello che Maradona combina negli spogliatoi e soprattutto nella vita privata: anche perché Lucianone è culo e camicia con molti giocatori napoletani, con i quali manterrà rapporti di grande confidenza anche in futuro (esempi: Massimo Crippa, Massimo Mauro, Ciro Ferrara). Ma fa finta di niente, perché Maradona serve anche a lui. Pecunia non olet. Il fatto è che lo spogliatoio partenopeo è simile a un malfamato nightclub, dove circolano cocaina e sesso a volontà. Vizi che porteranno Maradona sotto inchiesta sia penale che sportiva e lo costringeranno a espatriare prima che le cose si mettano davvero male. Ma Lucianone asseconda il campione argentino in tutti i suoi voleri e capricci. Trova perfino il modo di sistemare suo fratello minore, Hugo, all’Ascoli dell’amico Rozzi, solo perché Maradona si è messo in testa di avere un altro campione in famiglia; in realtà Huguito, come lo chiama qualche buontempone, è un fior di brocco, già scartato da squadre di mezzo mondo prima di approdare in Italia. Nel bel mezzo della bolgia napoletana, Moggi non perde il vizietto di servire più padroni, cioè di farsi soprattutto gli affari suoi. Anche da Napoli, dunque, continua a fare da consulente dietro le quinte per le società amiche: come il Taranto e la Salernitana, che dalla serie C salgono in B. Del resto, per Lucianone il Napoli è una cosa, e la sua personale carriera affaristica un’altra. Legarsi a tutti senza sposare nessuno è uno dei suoi motti preferiti. Nell’estate del 1988 Moggi tenta un primo riscatto d’immagine attraverso la sua specialità, il calciomercato, dove ormai è considerato The Boss. Alla fine, «ancora una volta la Borsa del calcio si inchina davanti a Luciano Moggi: con due mosse dell’ultima ora, il general manager del Napoli è riuscito ad aggiudicarsi il granata Crippa e il brasiliano Alemão... Due botti arrivati per ultimi, quelli che hanno fatto più rumore, e come sempre a provocarli è stato lui, il despota del calciomercato. Nell’ultima notte di mercato, Moggi è volato con un aerotaxi fino a Madrid, si è incontrato con il presidente dell’Atlético Madrid Jesús Gil y Gil, e ha comprato Alemão per circa 4 miliardi e mezzo». Come sempre, i botti di Lucianone Alemão e Crippa sono seguiti da lunghi strascichi polemici. Firmato il contratto per Alemão, il presidente dell’Atlético Madrid definisce Moggi «un despota con atteggiamenti da Humphrey Bogart nel ruolo di un gangster... Lui è venuto a Madrid con l’idea che qui siamo tutti coglioni». Il direttore sportivo della Roma interessato a comprare il granata Crippa, che però il Torino aveva definito incedibile, salvo cederlo subito dopo al Napoli di Lucianone commenta: «È stata confermata la coerenza e la moralità di certi personaggi». Concluso da par suo il calciomercato, Moggi nell’agosto 1988 è a Madonna di Campiglio, nel ritiro precampionato del suo Napoli. E lì sfodera il pugno di ferro: non con Maradona o con i giocatori amici suoi, ma con il difensore Moreno Ferrario. Già incluso nel quartetto dei capri espiatori della rivolta anti-Bianchi e dello scudetto regalato al Milan, e quindi escluso dalla preparazione estiva, Ferrario viene deferito dalla società partenopea alla Commissione disciplinare della Lega calcio per avere rilasciato un’intervista polemica. A quel punto il giocatore chiede la rescissione del contratto

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che lo lega al Napoli. Il 23 settembre la Commissione disciplinare respinge le richieste di sospensione del giocatore avanzate dal Napoli, e condanna la società partenopea a risarcirgli i danni. Lucianone monta su tutte le furie: «È un verdetto assurdo, una decisione senza precedenti che ci lascia molto sorpresi... Vorrà dire che in futuro, in situazioni del genere, daremo medaglie al giocatore anziché prendere altre decisioni». Poi annuncia un ricorso al Coni, un ricorso al Tar, e per non sbagliare anche una causa giudiziaria in sede civile. Un’altra delle quattro vittime sacrificali di Moggi è Salvatore Bagni, escluso dalla rosa e parcheggiato in attesa di essere ceduto. Dopo mesi di tira-e-molla, a novembre Moggi vende Bagni all’Avellino, benché fino all’ultimo sembrasse intenzionato a dirottarlo al Torino. La dirigenza granata messa di fronte al fatto compiuto attacca Lucianone. Il giocatore rivela: «Mentre Moggi parlava in Tv di un mio passaggio al Torino, sapeva che io lo stavo aspettando in un albergo di Caserta per firmare il contratto con l’Avellino». Alla fine di gennaio 1989 l’ex attaccante del Napoli Bruno Giordano terzo capro espiatorio ceduto da Moggi all’Ascoli nell’estate 1988 rievoca la stagione precedente, quella dello scudetto regalato al Milan: «Hanno dato alla gente quattro nomi da accusare. La verità è che qualcuno [Moggi, ndr] aveva già deciso di liberarsi di noi a fine campionato... Ci hanno fatto firmare una dichiarazione [con su scritto] che non volevamo scendere in campo, ma non era vero: in cambio ci hanno promesso un aiuto, ci avrebbero trovato una sistemazione». E a proposito delle consultazioni moggiane: «Moggi ha convocato i suoi giocatori al mattino, e ha dato un appuntamento a noi quattro nel pomeriggio. Abbiamo trovato la piazza piena di tifosi inferociti, e io ho detto a Moggi che quei trucchetti non li doveva fare. I tifosi hanno individuato in noi dei colpevoli, ma credo che poi abbiano capito la verità». E ancora: «Poco tempo fa, dopo la sconfitta del Napoli all’Olimpico, ho incontrato Moggi e gli ho chiesto: Chi l’ha venduta, stavolta, la partita?»; secondo l’ex attaccante del Napoli, di quel periodo «molte cose non si possono dire». Le dichiarazioni di Giordano inducono la Federazione ad aprire un’inchiesta. I giocatori del Napoli, per protesta, proclamano il silenzio stampa. Lucianone fa finta di niente. 9 - continua

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All’inizio del 1989 il Napoli moggiano lotta testa a testa con l’Inter per lo scudetto, ed è in corsa per la Coppa Uefa. Ma altre polemiche, con voci e sospetti, lo accompagnano come un’ombra. A febbraio, per esempio, al termine di Napoli-Como, i lariani sconfitti accusano l’arbitro, il quale ha ritenuto valido un gol fantasma di Careca e in più ha espulso il giocatore Lorenzini costringendo il Como in inferiorità numerica. «Abbiamo avuto contro anche l’arbitro... Certe squadre forti devono vincere per forza», dichiara il direttore sportivo della squadra lombarda. A marzo, per i quarti di finale di Coppa Uefa, si gioca Napoli-Juve: vince il Napoli grazie a un gol juventino annullato dall’arbitro tedesco Kirschen, per un inesistente fuorigioco, durante i tempi supplementari. Nel dopopartita, l’allenatore bianconero Dino Zoff accusa l’arbitro di avere influenzato il risultato. E il difensore juventino Pasquale Bruno dichiara: «L’arbitro ha preso decisioni che non riesco proprio a spiegarmi». La Juve inoltra una protesta ufficiale, l’Uefa apre una inchiesta interna, e Kirschen non arbitrerà più partite internazionali: è evidente il sospetto di un arbitraggio irregolare. A maggio si gioca la finale di andata della Coppa Uefa tra Napoli e Stoccarda. Vince il Napoli, grazie a un inesistente calcio di rigore inventato dall’arbitro greco Germanakos. Il presidente della squadra tedesca Gerard Mayer Vorfelder attribuisce la sconfitta all’arbitraggio. «L’arbitro ha visto

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episodi che nessuno ha visto, né in campo né sugli spalti», gli fa eco l’allenatore, l’olandese Arie Haan. Poche ore dopo la partita, alle 4 della notte, i giornalisti Roberto Beccantini e Stefano Bizzotto (della Gazzetta dello Sport) vedono l’arbitro Germanakos e i suoi due guardalinee rientrare in uno dei migliori alberghi di Napoli, l’Excelsior, con tre avvenenti accompagnatrici: è il metodo-Moggi (ragazze squillo per gli arbitri) che verrà poi replicato a Torino. Anche grazie agli aiuti arbitrali, il 17 maggio il Napoli conquista la Coppa Uefa, primo trofeo internazionale della storia partenopea e primo alloro vinto da Lucianone. «Questa è la migliore risposta a chi ci critica!», esulta Moggi, commosso fino alle lacrime. E durante la premiazione riceve i complimenti del presidente della Lega calcio: il suo ex sodale torinista Luciano Nizzola. Sul versante del campionato, l’Inter ha ormai vinto lo scudetto con alcune giornate di anticipo, visti i punti di vantaggio che ha sul Napoli. È un finale senza storia. Ma la squadra diretta da Moggi riesce ugualmente a tenere accesa la fiamma del sospetto. A metà giugno si gioca Ascoli-Napoli (la squadra marchigiana è in lotta per non retrocedere in serie B). Il Napoli si presenta sul campo di Ascoli privo di ben sette titolari (compreso Maradona), e durante la gara fa entrare in campo il secondo portiere, Di Fusco, schierandolo addirittura nel ruolo di centravanti. Risultato: vince l’Ascoli per 2 a 0, e il Torino, anch’esso in lotta per non retrocedere, scatena polemiche e solleva sospetti sul gentile omaggio del Napoli alla società presieduta da Rozzi, buon amico di Moggi. La Federcalcio apre un’inchiesta. «Il Napoli ha sempre onorato i suoi impegni al meglio delle sue possibilità», protesta Lucianone. «Chi cerca di gettare fango su questa verità lo fa solo per coprire gli errori gravissimi compiuti in passato durante la campagna acquisti [riferimento al Torino, ndr], e dovrà risponderne in altra sede... Il Napoli si riserva ogni azione a tutela della onorabilità della società e della professionalità dei propri calciatori». Benché la stagione 1988-89 si stia chiudendo con il Napoli secondo in campionato e vincitore della Coppa Uefa, sotto il Vesuvio non c’è pace. Bianchi e Moggi, ormai, litigano pubblicamente. L’attaccante brasiliano Antonio Careca dichiara: «Non mi diverto più: qui al Napoli ogni giorno c’è una polemica, e se la società non interviene io me ne torno in Brasile». Allora Lucianone sfodera il suo miglior andreottismo: «Io conosco Careca: attraversa un momento di sconforto che supererà presto». Anche Maradona, fischiato dagli spettatori durante una delle ultime partite, si scatena: «Quelli che mi hanno fischiato sono ignoranti e cretini». Finito il campionato, Ottavio Bianchi esausto se ne và. Al suo posto viene ingaggiato Alberto Bigon, fedelissimo di Moggi. L’estate 1989 è tutta uno show Maradona-Moggi. Il fuoriclasse argentino tornato in Sudamerica per le vacanze non si presenta al ritiro precampionato del Napoli, e non dà più notizie di sé. Lucianone butta acqua sul fuoco: «Sono tranquillo: Diego e Coppola [il procuratore di Maradona, ndr] non mi hanno mai tradito, e non lo faranno neanche stavolta». Di settimana in settimana, Maradona da Buenos Aires annuncia e rimanda il suo ritorno in Italia. E Lucianone, di settimana in settimana, si arrampica sugli specchi: «Non sappiamo cosa sia successo a Diego, ma deve avere dei problemi seri, forse di natura psicologica... Io e Diego abbiamo un ottimo rapporto personale, per cui io, nonostante tutto, sono convinto che ritornerà fra noi al più presto». Maradona però sostiene di non poter tornare in Italia perché a Napoli ha ricevuto minacce telefoniche e altri pesanti avvertimenti. Lucianone fa lo stupito: «Noi, di queste minacce, non ne sapevamo niente». Qualche giornale scrive di camorra e di droga, ma Lucianone è come Alice nel Paese delle meraviglie: «Il Napoli non era a conoscenza di ciò, e abbiamo ritenuto nostro dovere

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informarne immediatamente gli organi di polizia». Il tira-e-molla prosegue per tutto il mese di agosto. Maradona: «Io continuo ad andare d’accordo con Moggi, ma non vado più d’accordo con il presidente Ferlaino, per cui non torno... Moggi è una persona eccezionale, straordinaria, ma in questa faccenda non può fare niente per risolverla... È solo Ferlaino che può risolverla». Lucianone è compiaciuto ma fa finta di arrabbiarsi: «A Diego siamo andati incontro in ogni maniera, ma adesso non lo cerchiamo più. Diego sa che, come tutti i calciatori, ha dei diritti, ma anche dei doveri». Finalmente, il 10 settembre, il divo argentino torna in Italia. E ricomincia con le bizze, i capricci, le polemiche. Siccome non si allena, viene escluso da alcune partite. Ma Lucianone con lui è sempre pieno di comprensione: «Non c’è nessun risentimento nei riguardi di Maradona. Io sono il primo a soffrire quando Diego non c’è». Mezza Italia vocifera che l’asso argentino sniffi cocaina, che sia ormai tossicodipendente, che frequenti ambienti camorristici ma il direttore sportivo del Napoli non ne sa niente. Del resto Lucianone, per Diego, è un vero amicone. A novembre, quando Maradona ritorna a Buenos Aires per sposarsi (con Claudia Villafañe, l’eterna fidanzata), Moggi presenzia alla fastosa cerimonia in rappresentanza del Napoli calcio. La megafesta nuziale è un’apoteosi di pacchianeria e pessimo gusto. Qualche giornale osa scriverlo. Lucianone insorge subito in difesa del suo pupillo multimiliardario: «Esprimiamo solidarietà a Maradona per gli attacchi di cui è stato fatto oggetto in occasione del suo matrimonio. Noi saremo al fianco di Diego in tutte le azioni che riterrà di fare a tutela della sua immagine e della sua personalità». All’inizio del 1990 il Napoli è al primo posto in classifica, tallonato solo dal Milan: anche lo scudetto 1989-90 sarà una contesa a due. Domenica 11 febbraio lo scontro diretto Milan-Napoli finisce con un perentorio 3-0 per i rossoneri, che così scavalcano la squadra di Maradona al comando della classifica. Nonostante sia stato chiaramente battuto sul campo, il Napoli polemizza con l’arbitro Tullio Lanese che ha diretto l’incontro. Maradona, imbufalito, sbotta: «Non fatemi parlare dell’arbitro!»; Lucianone è più sottile: «Come i giocatori, anche gli arbitri possono sbagliare. L’arbitro Lanese è stato il peggiore in campo, ma sia chiaro che lo ritengo in buona fede». L’indomani Il Giornale di Napoli, sotto il titolo «Sospetti sul Milan-sprint che ha travolto il Napoli», scrive: «Un paio di frasi pronunciate da Bigon e Moggi sollevano molti dubbi sulla straripante forza agonistica dimostrata domenica dai rossoneri. La dichiarazione di Bigon è: Siamo stati battuti da una squadra disumana. E quella di Moggi: La cosa che più ci ha lasciati perplessi è la differenza di rendimento che il Milan ha avuto [fra la precedente partita] e quella di domenica con noi». «Nei tifosi più accesi», conclude il giornale napoletano, «è nato subito il sospetto che dietro la super-prestazione dei rossoneri contro il Napoli non ci sia soltanto l’allenamento. Sospetto alimentato dal fatto che domenica a San Siro non è stato effettuato (per sorteggio) il controllo antidoping». Tanto per completare il panorama, Lucianone invia un telegramma di protesta al presidente della Federcalcio Antonio Matarrese, al suo amico Nizzola presidente della Lega calcio, e al designatore arbitrale Giovanni Gussoni, lamentando che l’arbitro Lanese avrebbe danneggiato il Napoli. Il successivo 4 marzo, dopo l’incontro Napoli-Genoa (vinto a fatica dai partenopei per 2-1), il presidente genoano Aldo Spinelli è arrabbiatissimo: «È stata una partita incredibile. I miei giocatori hanno fatto di tutto per far vincere il Napoli, in pratica la vittoria gliel’abbiamo regalata noi!». L’allenatore del Genoa lamenta invece l’ingiusta espulsione di un suo giocatore, e sostiene che il primo gol del Napoli «è stato fatto con una mano». L’8 aprile, a Bergamo, il Napoli affronta l’Atalanta. A 10 minuti dal termine, sullo 0-0, il centrocampista partenopeo Alemão viene colpito al capo da un oggetto lanciato dagli spalti, forse una monetina. Segue una sceneggiata napoletana, con protagonisti il giocatore, il pittoresco massaggiatore Salvatore Carmando e Lucianone dalla panchina, per drammatizzare le condizioni di

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Alemão. Il quale viene fatto rientrare precipitosamente negli spogliatoi come se l’avesse investito un Tir. È il pretesto che occorre a Lucianone per inoltrare ricorso e chiedere la vittoria a tavolino. Pochi giorni dopo il giudice sportivo assegna ai partenopei la vittoria per 2-0, e il Napoli può così raggiungere il Milan in testa alla classifica. Uno dei pochi giornalisti sportivi non soggetti al fascino di Lucianone, Gianni Melidoni, dirà: «Moggi è uno spregiudicato manovratore. Chi non ricorda la sceneggiata della monetina che colpì il centrocampista del Napoli Alemão, con Moggi che dalla panchina gridava al giocatore di restarsene a terra? Con quella moneta la società partenopea conquistò uno scudetto». In effetti, questo è l’episodio-chiave che permetterà al Napoli di aggiudicarsi il suo secondo scudetto, il primo dell’èra Moggi. L’Atalanta parla di «slealtà, scorrettezza e illecito sportivo». Il Milan protesta. Ma Lucianone si frega le mani. Il 14 aprile, allo stadio San Paolo, il Napoli batte il Bari per 3-0; primo gol su calcio di rigore, un rigore molto generoso e vivacemente contestato dai pugliesi. Nel dopopartita, il centrocampista del Bari Maiellaro dichiara: «Qui le partite si perdono prima di andare in campo. Gli arbitri sono succubi dei fuoriclasse del Napoli». Mancano due partite alla fine del campionato, e lo scudetto è ormai del Napoli. Tutto merito della prontezza di un grande fuoriclasse: Lucianone, che dopo aver vinto una Coppa Uefa grazie alla compiacenza arbitrale, ora porta a casa il trofeo più ambito grazie a una provvidenziale monetina caduta dal cielo. Meglio di San Gennaro. 10 - Continua

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L’inizio del nuovo campionato 1990-91, a settembre, non promette niente di buono. Una delle prime partite, Napoli-Cagliari, finisce 1-2, e Moggi dà subito la colpa all’arbitro: «Io non critico mai gli arbitri [sic!], perché come possono sbagliare i giocatori possono sbagliare anche gli arbitri. Ma oggi c’è stato qualche errore arbitrale di troppo, e si è visto come questo possa far perdere una partita». Il Napoli comunque è in evidente crisi, e i risultati deludenti si susseguono; Lucianone se la cava come può: «Le vecchie cornacchie sono ritornate e hanno ricominciato a parlare male del Napoli». Un settembre nero, per l’ex ferroviere, anche lontano dagli stadi. Infatti trapela la notizia che «all’ultima riunione dell’Associazione italiana procuratori, svoltasi lo scorso 28 agosto a Milano, Antonio Caliendo (il manager di Baggio e Schillaci) ha accusato Luciano Moggi, direttore generale del Napoli». Di cosa si tratta? «Caliendo dichiara di essere in possesso di inequivocabili prove di situazioni di connivenza fra il procuratore Bruno Carpeggiani e il direttore generale del Napoli Luciano Moggi. Il consigliere Caliendo, dopo aver dichiarato di essere a conoscenza di costosi regali fatti da Carpeggiani a Moggi (quali una autovettura Espace, due motori marini e un orologio del valore di venti milioni di lire) chiede che venga verbalizzata la seguente dichiarazione: Il consigliere Antonio Caliendo, facendo seguito alle generiche segnalazioni fatte nel precedente Consiglio del 7 giugno 1990, denuncia al Consiglio per le eventuali decisioni disciplinari in merito, il collega Bruno Carpeggiani per scorrettezze professionali che costituiscono atteggiamento non consono al ruolo di Procuratore sportivo, in particolare cito i casi Dell’Oglio, Eranio e Polonia tutti legati a interventi e pressioni del signor Luciano Moggi, direttore generale del Napoli». Come se ciò non bastasse, Maradona ha ricominciato coi suoi capricci: diserta gli allenamenti, polemizza, scompare, si dà malato. Il 7 novembre, quando il Napoli si reca a Mosca per disputate la

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partita di Coppa dei campioni contro lo Spartak, il fuoriclasse rifiuta di partire: «Non ne ho voglia», spiega. Lucianone, sempre molto paziente con il divo argentino, «si precipita a casa di Maradona, ma non viene ricevuto. Per tentare di convincerlo a recedere dalla sua posizione, Moggi fa convocare dall’aeroporto, dove erano già in attesa dell’imbarco, i tre compagni di squadra più vicini a Maradona, e cioè Ferrara, De Napoli e Crippa, ma il loro viaggio a bordo di un taxi è inutile. Maradona non riceve neppure loro, e anche ai compagni di squadra fa dire dal manager e dal preparatore atletico che non intende muoversi da casa. I motivi che inducono l’argentino a prendere questa decisione sono sconosciuti». Lucianone si sente un po’ tradito dall’amico Maradona, così scarica la sua irritazione sugli altri, incolpevoli giocatori: «Non immischiatevi in questa faccenda! Tacete anche se Diego dovesse arrivare a Mosca in extremis! Lasciate che questa storia la gestisca solo la società». In effetti, due giorni dopo il fuoriclasse argentino vola a Mosca, ma precisa: «Sono venuto qui per turismo, e non per giocare». Moggi capisce che Maradona non è più lui, che è ormai arrivato al capolinea e che, insieme all’asso argentino, al capolinea è arrivato anche il Napoli. Così ricomincia a guardarsi intorno. Ha contatti con la Fiorentina, interessata ad affidargli la direzione sportiva, ma l’accordo sfuma. E siccome l’abboccamento è finito sui giornali, Moggi sfodera la migliore faccia tosta per smentire categoricamente: dice di trovarsi benissimo al Napoli e di non avere nessuna intenzione di cambiare aria. Molti si domandando per quale ragione Maradona possa continuare a fare i propri comodi senza che Moggi riesca a mettergli un freno, e allora Lucianone spiega: «Un club non ha armi per difendersi in casi come questo». Poi rivolge un ridicolo appello «al capo della Federazione e all’Associazione calciatori perché anche loro si interessino del comportamento di Maradona. Per situazioni fuori dall’ordinario si può trovare un intervento straordinario». Il fatto è che Maradona è un calciatore ormai finito, per cui Moggi ha deciso di scaricarlo: il vecchio amico Diego non serve più, né a lui né al Napoli. «Se Maradona resta al Napoli me ne vado io!», tuona Lucianone facendo la voce grossa. Diego replica: «Forse Moggi dimentica che io ho un contratto con il Napoli fino al 1993... Quando gli conviene, Maradona è meglio che resti al Napoli, quando non gli conviene più allora è meglio che vada via... Pensavo che una delle persone del Napoli che potevo rispettare era Moggi, ma adesso mi ha deluso, perché a me lui non ha mai detto in faccia niente del genere». Il povero Lucianone viene raggiunto anche dagli strali del critico televisivo Aldo Grasso, che ha assistito a due sue comparsate televisive: «Per ben due sere di fila, a Pressing e al Processo, Luciano Moggi ha tenuto banco. Ha detto e non detto. Forse ha parlato in codice, forse i suoi silenzi erano più significativi delle parole... Moggi è inquietante: per questo tutti lo temono, per questo gode di grande rispetto. Lui non parla: allude; non discute: attacca; non interviene, intimorisce... Sembra il fratello di Tano Cariddi, il faccendiere mafioso della Piovra». Lucianone avrà tanti difetti, ma è un professionista serio. E benché abbia ormai deciso di lasciare il declinante Napoli, fino all’ultimo non fa mancare alla squadra partenopea il suo fondamentale apporto. Il 6 gennaio 1991, per esempio, dopo la sconfitta rimediata dalla sua squadra a Torino contro la Juventus, spara a zero contro l’arbitro Fabio Baldas (rimediando un deferimento alla Commissione disciplinare). Poi, per arginare la contestazione dei tifosi napoletani innescata dallo stesso Lucianone contro gli arbitri (contestazione programmata allo stadio San Paolo a colpi di striscioni), incontra e ammansisce i rappresentanti degli ultrà. Il Napoli si ritrova al fondo della classifica, di fatto è in lotta per non retrocedere in serie B. «Si divertono tutti sulla pelle del Napoli», piagnucola Lucianone, «vogliono vederlo distrutto. Ma il Napoli è un bene del calcio e in serie B non ci andrà». La città è in subbuglio, e a febbraio la tifoseria inscena il primo sciopero del tifo non recandosi a

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Cagliari per seguire la trasferta del Napoli. Poi comincia a contestare apertamente Maradona, Moggi e Ferlaino. Il 10 marzo il presidente del Torino Gian Mauro Borsano, rispondendo alla domanda di un giornalista su un possibile ritorno di Moggi al vertice della società granata, conferma che è tutto vero: «Restano da definire solo alcuni dettagli». L’8 aprile è ufficiale: Lucianone lascia il Napoli per ritornare al Torino. Pochi giorni prima il 17 marzo Maradona è risultato positivo all’esame antidoping... 11 - continua

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Calcio, camorra e cocaina

Alcuni degli incredibili retroscena che hanno caratterizzato il quadriennio 1987-90 della squadra partenopea diretta da Moggi emergono alcuni anni dopo, grazie a un’inchiesta giudiziaria avviata dalla Procura della Repubblica di Napoli. Il 12 gennaio 1995 vengono arrestati due camorristi, Rosario Viglione e Vincenzo Buondonno; il manager di Maradona, Guillermo Coppola, evita l’arresto dandosi alla latitanza in Sudamerica. Tutto nasce dalle ammissioni di due pentiti della camorra: Pietro Pugliese, ex autista del fuoriclasse argentino, e Mario Fienga, ex narcotrafficante. I due raccontano di grandi sniffate collettive con alcuni calciatori del Napoli: droga-party in locali notturni molto simili a postriboli, ma anche nelle abitazioni di boss come i Giuliano e i Lo Russo, e a bordo di navi (come la Achille Lauro) e yacht privati. Lunghe piste di neve con le quali alcuni giocatori del Napoli festeggiavano le vittorie e dimenticavano le sconfitte. «Secondo l’accusa, Coppola seppe vendere il piede più famoso del mondo [Maradona, ndr] alla camorra, che ne fece un tossico da ricovero e un gingillo di lusso da esibire in pubblico. Ma dal nauseabondo pentolone esce ben altro». Saltano fuori una dozzina di nomi dei calciatori partenopei accostati al giro della cocaina: oltre a Maradona, Crippa, De Napoli, Carnevale, Ferrara, Francini, Mauro, Ferrario, Careca, Giordano, Bigliardi, Puzone... «Sono comparsi tutti davanti ai giudici della direzione investigativa antimafia, interrogati con le loro mogli e, in alcuni casi, con i papà. In qualità di testimoni, sia chiaro, anche se alcuni di loro figurano come consumatori più o meno abituali di droga». Francini è l’ex granata che Moggi si è portato appresso dal Toro al Napoli. Ferrara è il terzino del Napoli e della Nazionale che Moggi porterà con sé alla Juventus. Giordano è l’attaccante ex laziale che era stato fra i protagonisti dello scandalo scommesse scoppiato nella Lazio. Pure e semplici coincidenze, si capisce: perché di tutto quel giro di cocaina intorno ai suoi giocatori, alcuni dei quali suoi amici personali, Lucianone non ha mai saputo niente. E infatti l’inchiesta giudiziaria nemmeno lo sfiora. Fra i calciatori partenopei coinvolti nello scandalo, «avrebbero ammesso [l’uso di cocaina] Crippa e Francini, riscontri forti graverebbero su De Napoli, Renica, Bigliardi e Carnevale, sugli altri la polizia sta svolgendo altri accertamenti». Maradona e Pugliese, imputati del reato di traffico di droga insieme a Coppola e processati a Roma, verranno assolti nel dicembre 1995. Ma sul fatto che quei fiumi di coca scorressero in casa del Napoli non c’è il minimo dubbio. Possibile che il direttore generale, il trait d’union fra la società e la squadra, l’uomo dello spogliatoio, il confidente-amicone-consigliere dei giocatori, insomma l’attentissimo e occhiutissimo Luciano Moggi, non si sia mai accorto di niente?, non gli sia mai arrivata nemmeno una voce, non abbia mai avuto nemmeno un sospetto? Strano, molto strano, dal momento che sapeva tutto perfino il sindaco della città, Nello

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Polese: «Che Maradona prendesse la droga lo si sapeva da tempo». Eppure Lucianone ingenuo com’è non sapeva niente. Mai un sospetto, mai una voce, niente di niente. I due camorristi pentiti non parlano solo di droga. Parlano anche e soprattutto di partite combinate, e di uno scudetto regalato in extremis dal Napoli al Milan, nel 1988, perché le cosche che controllano il Toto clandestino volevano così. È questo il capitolo più interessante dell’inchiesta dei magistrati napoletani Luigi Bobbio e Luigi Gay. Anche perché, se le ipotesi accusatorie fossero confermate, si configurerebbe un illecito sportivo grande come il Vesuvio. L’antefatto è nello scudetto del 1987, vinto dal Napoli di Maradona (ma non ancora di Moggi), senza avversari essendo la Juve in declino. A fine anno, il Giornale di Napoli e Il Sole-24 Ore avevano titolato in prima pagina: «Lo scudetto del Napoli sbanca la camorra». La spiegazione è semplice: sulle ali dell’entusiasmo, migliaia di napoletani si erano precipitati a puntare forti somme sulla vittoria della squadra azzurra presso i bookmaker del Totonero, che da quelle parti è gestito direttamente da alcune cosche camorristiche. Le quali, a fine stagione, avevano dovuto pagare molti miliardi di vincite. La stagione seguente, nel solo girone di andata, la camorra aveva accettato scommesse per 20 miliardi sulla nuova vittoria del Napoli, con quote fino a uno a tredici (chi punta un milione ne vince 13): in pratica, se lo scudetto l’avesse rivinto il Napoli, i bookmaker della malavita avrebbero dovuto sborsare qualcosa come 260 miliardi. Una prospettiva che atterriva i capiclan, i quali proprio dal Totonero (oltre che dalla droga) ricavano gran parte dei loro guadagni. Per questo era necessario che il Napoli perdesse lo scudetto 1987-88: per recuperare i quattrini perduti l’anno precedente, e per evitare un nuovo salasso. A dicembre l’auto di Maradona, sebbene supersorvegliata, era stata danneggiata; negli stessi giorni Salvatore Bagni l’altro calciatore simbolo della squadra scudettata aveva subìto due furti in casa e uno in auto. Messaggi camorristici? Chi può dirlo. Sta di fatto che, dopo 25 giornate da primato, la trionfale galoppata del Napoli verso la riconquista dello scudetto si era interrotta nella primavera 1988 in modo brusco e inspiegabile. Intervistato dal Corriere della Sera nel marzo del 1994, un anonimo scommettitore rivelerà: «Già prima della sconfitta con il Milan, quella del 1° maggio, fu chiaro tutto. Quando il Napoli cominciò a perdere punti di vantaggio in poche partite, dopo averne accumulati così tanti durante il campionato, noi del giro intuimmo che si era venduto lo scudetto. La vittoria del Napoli veniva data a mezzo quando la squadra di Maradona aveva ancora 5 punti di vantaggio. Una quota bestiale, folle: giocando un milione te ne davano cinque. Era chiaramente un regalo. Tutti lo giocavano, ci mettevano milioni su milioni, il rischio sembrava minimo». Un sistema che pareva fatto apposta per attirare schiere di polli da spennare; poi l’improvviso crollo del Napoli: «Moltissime persone ci rimisero decine di milioni». I bookmaker, invece, guadagnarono decine di miliardi. Il narcotrafficante Rosario Viglione, dopo il suo arresto, racconta ai magistrati di non conoscere niente della faccenda del Totonero. Ma aggiunge che, dopo avere perso lo scudetto in quel modo incredibile, alcuni giocatori del Napoli andarono a sfogarsi con lui, e gli raccontarono che la combine partita-scudetto era il frutto di un accordo di vertice: il presidente napoletano Ferlaino cedeva lo scudetto a Berlusconi in cambio di alcuni immobili di Milano 3. Ma i calciatori erano d’accordo? Secondo Viglione, no; ma aggiunge: «Gli amici mi dissero che i giocatori erano stati allenati male, e spompati per bene prima delle partite decisive». Tutt’affatto diversa la versione del pentito Pietro Pugliese. La camorra dei bookmaker, secondo lui, c’entra eccome. «Sì, la cocaina ha a che fare con questa storia [dello scudetto perso dal Napoli,

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ndr], e c’entra pure la camorra. Ma all’epoca ci furono anche interessi diversi. Ci fu un accordo politico per fare perdere lo scudetto al Napoli. Ferlaino fu vittima di una amicizia politica... Ho riferito tutto ai magistrati, a novembre. Ora continuare a parlare solo di cocaina e camorra fa comodo a qualcuno». E aggiunge: «Maradona ha usato continuativamente la cocaina per sette anni, eppure è risultato positivo al doping soltanto dopo l’ultimo anno [il 17 marzo 1991, ndr]. È un fatto molto singolare, di cui bisognerebbe chiedere conto a Matarrese». Pugliese riferisce anche ciò che gli raccontò Salvatore Lo Russo, un suo compare e amico di Secondigliano. Lo Russo gli avrebbe detto che Berlusconi teneva a quello scudetto del 1988 «per motivi di immagine», e che per vincerlo non esitò a rivolgersi al suo amico Bettino Craxi, che ne avrebbe parlato con la Trimurti del Caf napoletano: Antonio Gava, Paolo Cirino Pomicino e Giulio Di Donato. I tre, «forti dei loro saldi legami » con ambienti dell’illegalità campana, si sarebbero mossi e alla fine, complice la camorra, il Napoli «riuscì a esaudire le aspettative di Berlusconi». Ferlaino smentisce sdegnato: «Non è vero niente, io per rivincere lo scudetto avrei pagato anche 100 miliardi!». Anche Berlusconi nega: «Sono assurdità tali che non vale nemmeno la pena di smentirle». Ma intervistato da Panorama nel febbraio 1995, Pugliese dice ancora di più: «Allo stadio San Paolo comandavamo noi: la camorra Spa», la quale gestiva direttamente il bagarinaggio, i biglietti di tribuna e gli abbonamenti. Pugliese si sarebbe affacciato nel mondo del calcio grazie alla presentazione di un uomo politico e di un magistrato: «Il senatore missino Antonio Rastrelli [futuro presidente della Regione Campania per il Polo, ndr] e il giudice Carlo Foglia, che è mio cugino... Mi portarono dal presidente Ferlaino... che pochi giorni dopo mi mandò a chiamare e mi affidò all’amministratrice di una sua società di costruzioni». I nomi fatti da Pugliese a proposito del disegno politico che avrebbe determinato la truffaldina sconfitta del Napoli e la conseguente vittoria del Milan sono tutti in un verbale datato 19 novembre 1994 e redatto da un ufficiale della Guardia di finanza. Un verbale che però dopo accurate indagini non troverà alcuna conferma, e verrà dunque archiviato come inattendibile. Restano comunque assodati alcuni dati di fatto certi, connessi allo scudetto 1987-88 inopinatamente perso dal Napoli e sorprendentemente vinto dal Milan, tali da rendere verosimili i peggiori sospetti. Il primo elemento inoppugnabile sono le minacce che, dopo quell’incredibile sconfitta, cominciarono a subire i giocatori più rappresentativi del Napoli. Minacce, secondo molti, finalizzate a impedire eventuali pentimenti e ammissioni. Alcune le ricorda Pugliese: «A Maradona rapinarono i trofei e i gioielli che aveva in banca. Fu un avvertimento, poi glieli restituirono. Io stesso l’ho accompagnato otto volte a casa di Salvatore Lo Russo, che allora era agli arresti domiciliari, durante la trattativa per fargli riavere la roba rubata. Poi c’è la storia del figlio di Salvatore Bagni: il bambino morì in un incidente stradale e dopo qualche tempo la salma fu portata via [trafugata dal cimitero, ndr]. Anche quello fu un avvertimento e io l’ho spiegato ai magistrati. Non era mai successo che qualcuno pigliasse una creatura da sottoterra. E il corpo non è mai stato trovato, né sono stati pagati soldi. Un movente vero non c’era, se non quello che io conosco bene. Volevano farli tacere...». Il 26 ottobre 1989 alcuni rapinatori avevano svaligiato le cassette di sicurezza della Banca di Provincia, compresa quella dove Maradona teneva i suoi trofei 26. Tre clan si erano poi attivati per fargli riavere il tesoro, che alla fine era stato riconsegnato al legittimo proprietario. I magistrati hanno tentato di interrogare Maradona su quegli sconcertanti episodi, ma lui non si è presentato. Il secondo dato certo sono i contatti di alcuni giocatori del Napoli dunque non del solo Maradona con alcuni boss della camorra napoletana: rapporti e contatti dimostrati sia dalle fotografie scattate dagli agenti della Questura partenopea, sia dalle ammissioni degli interessati. Decine di foto

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immortalano il fuoriclasse argentino in compagnia di capiclan, a cominciare dal suo amico Carmine Giuliano. Ci sono le deposizioni di alcuni calciatori (e delle rispettive consorti), che ammettono di aver frequentato case e barche di vari boss, con o senza contorno di cocaina: come il party organizzato secondo la moglie di Renica dal capo-tifoseria Gennaro Montuori detto Palummella a casa dei boss di Forcella, i Giuliano, per festeggiare con piste di neve il secondo scudetto del 1990. O come l’altro party di cui parla la moglie di Francini, allestito per l’occasione dai fratelli Lo Russo, boss della cosca dei Capitoni. Rapporti fra boss camorristici e calciatori del Napoli così plateali da lasciare interdetti. Eppure il direttore della squadra partenopea, l’attentissimo Moggi, non se ne è mai accorto. Grandi sniffate di droga, grandi feste a casa dei mafiosi, delle quali il responsabile della squadra, l’informatissimo Moggi, non ha mai saputo niente. Intimidazioni, voci, sospetti intorno a uno scudetto perso dal Napoli per cause di forza maggiore: ma lo scaltrissimo Lucianone non ha mai visto né sentito niente. Complimenti. 12 - continua

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Dio li fa e poi li accoppia Dal marzo del 1989 il Torino calcio, un tempo glorioso, ha un nuovo proprietario-presidente: l’ingegner Gian Mauro Borsano, uno spregiudicato finanziere amico del segretario del Psi Bettino Craxi (che fra l’altro tifa per il Toro). Pur di riportare la squadra granata ai vertici del calcio nazionale, magari per usarla a scopi finanziari e politico-elettorali (proprio come ha cominciato a fare con il Milan l’altro spregiudicato craxiano doc Silvio Berlusconi), Borsano è disposto a tutto. Infatti ingaggia Moggi come direttore generale. Lucianone ritorna a Torino ai primi di aprile 1991, portandosi appresso da Napoli un miniclan formato da Luigi Pavarese e Andrea Orlandini. Prendi uno, paghi tre. E Moggi e i suoi due àscari costano piuttosto cari. Ma il presidente Borsano non bada a spese: anche lui, che di calcio non sa quasi niente, conosce assai bene la fama di Lucianone e le dicerie sulla sua influenza sugli arbitri (nazionali e internazionali), le sue mani sempre più lunghe sul mercato dei giocatori, la sua già notoria spregiudicatezza, quel suo potere inspiegabile. «Con Moggi abbiamo stipulato un contratto triennale, ma speriamo che il nostro rapporto con lui duri più a lungo», dichiara Borsano; e aggiunge che «per il Torino l’ingaggio di Moggi è una precisa scelta strategica, nell’ottica di un deciso rafforzamento della squadra». Lucianone ringrazia: «Vengo da un ambiente estremamente difficile come quello di Napoli, che mi ha dato però anche molti momenti felici». Il comico Piero Chiambretti, acceso tifoso granata, accoglie l’arrivo del nuovo direttore generale con una battuta delle sue: «L’arbitro Baldas è un ottimo arbitro, Moggi lo sta seguendo da tempo e penso che lo compreremo». In effetti, la questione arbitri-Moggi diventa subito di attualità anche a Torino. La Federcalcio, infatti, sospende l’arbitro salernitano Pietro D’Elia, di professione assicuratore: un fischietto internazionale, in serie A dal 1981, ritenuto al momento il miglior arbitro italiano. Perché? Perché la sera di domenica 5 maggio, subito dopo avere diretto a Milano la partita Inter-Sampdoria, D’Elia si è recato a Torino, dove ha cenato in un ristorante insieme a Lucianone. Il Toro chiude il campionato 1990-91 con un buon quinto posto. E quando, il 3 agosto, i computer del Coni compilano il calendario della stagione successiva, Lucianone non gradisce, e commenta alla sua maniera: «Il nostro è un calendario complicato... Eravamo teste di serie, ma siamo stati trattati come teste di cazzo».

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In autunno, all’inizio del nuovo campionato, Moggi entra nel mirino del vicepresidente della Fiorentina, il produttore cinematografico Vittorio Cecchi Gori: «Ho letto da qualche parte che sarebbe Moggi a consigliarci gli ingaggi, ma è falso: con lui né mio padre Mario né io abbiamo alcun tipo di rapporto. Moggi io l’ho sentito una sola volta: quando mi ha telefonato per raccomandarmi un’attrice amica sua». L’amico dell’attrice, intanto, lancia subito un avvertimento agli arbitri: «In appena due giornate di campionato, noi del Torino siamo già in credito di due punti per errate decisioni arbitrali!» tanto per mettere le mani avanti. Più che allo scudetto, che ha nel Milan di Capello il super favorito, il Torino moggiano punta alla Coppa Uefa. Ma anche in campionato i granata, allenati da Emiliano Mondonico, si fanno valere con grinta talvolta eccessiva. A novembre, durante il primo derby con l’odiata Juventus, due giocatori granata (Pasquale Bruno e Roberto Policano) si fanno espellere, e la Juve vince 1-0. Il giudice sportivo, ovviamente, li squalifica. Ma Moggi non ci sta: «È una sentenza ridicola! Al danno si unisce la beffa!». Lucianone viene subito deferito e poi punito con una multa e una squalifica «per giudizi lesivi della reputazione del giudice sportivo». Affiancato dal suo braccio destro Pavarese, promosso grazie a lui segretario generale granata, Lucianone si allarga, e diventa ben di più di un semplice general manager. Specialmente quando, a febbraio del 1992, comincia a circolare la voce che potrebbe lasciare il Toro per passare alla Lazio o alla Fiorentina. «Moggi avrà poteri più ampi nella società», si affretta ad annunciare il presidente granata Borsano, «e mi auguro che rimanga per molti anni al Toro perché lui è abile, e dà molta serenità all’ambiente. In più è anche un tipo fortunato». I giornali scrivono che se Borsano verrà eletto deputato del Psi nelle imminenti elezioni politiche, Lucianone verrebbe nominato presidente o amministratore delegato del Torino. Così l’interessato, in attesa della nomina ufficiale, si allena alla bisogna: smentisce, per esempio, le voci secondo cui le casse del Torino sarebbero gestite piuttosto allegramente, assicurando che «i bilanci della società granata sono più che a posto». Balle, come si vedrà. Anche grazie ad alcune compiacenze e sviste arbitrali, il Torino diretto da Lucianone si piazza al terzo posto in campionato, e addirittura riesce a qualificarsi per la finale di Coppa Uefa: se l’aggiudica l’Ajax, ma nessuno fa tragedie. Solo il presidente Borsano, nel dopopartita, si abbandona a un momento di sconforto, e in presenza di testimoni mormora: «Abbiamo perso anche perché quel coglione di Moggi, invece di andare a trovare l’arbitro, ha perso tempo a giocare a poker con i suoi amici». Il direttore generale granata, da parte sua, ringrazia la squadra per la grande prova «che non è stata minimamente intaccata dall’esito finale». Nell’estate del 1992, in pieno calciomercato, Lucianone si dà come sempre un gran daffare: compra, vende, tratta un po’ tutti, anche se stesso. Il patron della Lazio, il finanziere Sergio Cragnotti, sarebbe intenzionato ad acquistare il Torino per 50 miliardi: «Cragnotti», scrive un quotidiano, «ne avrebbe accennato ieri a Moggi, il quale avrebbe un ruolo importantissimo nel nuovo polo Toro-Lazio che emergerebbe dall’affare. La vicenda è coperta dal mistero». Ma Borsano non ha nessuna intenzione di vendere. «Cragnotti ci deve lasciare in pace... Mi sono stancato di dire che no, non vendo. Potrei disfarmi di altre cose, ma non del Toro, che è sinergico con le mie attività », dichiara l’onorevole craxiano, e aggiunge: «Si dice che Moggi si prepari ad andare alla Lazio, ma sia lui sia Cragnotti mi dicono che non c’è niente di vero a cosa devo credere? Moggi non mi ha mai detto bugie, e mi interessa che faccia bene gli affari per il Toro come ha sempre fatto. Se poi dedica le sue attenzioni anche agli altri, pazienza!». Al calciomercato Lucianone è un mercante scatenato. Arriva a importare dal Ghana tre giocatori sedicenni, al costo complessivo di un miliardo. L’operazione è irregolare, tant’è che li fa assumere

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da Borsano come fattorini della holding Gima. Il presidente della Figc Antonio Matarrese inorridisce: «Questo non è calciomercato, è tratta degli schiavi!», e impedisce al duo Moggi-Borsano di tesserare come calciatori i finti fattorini minorenni. La campagna acquisti del Toro è comunque nel segno di Gianluigi Lentini. Il Milan e la Juve vogliono fortissimamente il fuoriclasse granata, ma il presidente Borsano lo dichiara incedibile perché «il Toro punta allo scudetto». E lucianone è subito pronto a dargli manforte nella menzogna pubblica: «Non abbiamo ricevuto nessuna offerta per Lentini». Infatti, nel giugno 1992, dopo una lunga e oscura trattativa, seguita da una transazione con mazzette e pagamenti in nero, Lentini passa alla corte di Berlusconi. Moggi conferma pure che il Toro non si priverà dei suoi gioielli: altra frottola, visto che di lì a poco cederà Cravero, Benedetti e Policano. I tifosi granata inscenano manifestazioni di protesta con incidenti di piazza. Lucianone si chiama fuori: «Non parlo del caso Lentini. E se le proteste violente dei tifosi non cessano subito, faccio le valigie: contestino pure, ma in modo civile». È subito evidente che intorno all’affare Lentini una oscura transazione segretissima di oltre 40 miliardi c’è del marcio. Infatti la Federcalcio apre un’inchiesta in tempo reale. Ma sarà la magistratura ordinaria a svelare i contorni di quel sordido affare permeato di criminalità finanziaria. Per sedare la ribellione della tifoseria, la coppia Borsano-Moggi allestisce la consueta messinscena. Lucianone ingaggia un giovane calciatore uruguaiano, Marcelo Saralegui, e tramite apposita conferenza stampa, con proiezione di videocassetta, l’onorevole craxiano e l’ex ferroviere presentano il nuovo arrivato come un fuoriclasse che farà dimenticare Lentini. «È un acquisto importantissimo, è la conferma che il Torino non intende smobilitare e che punta allo scudetto», esulta Borsano, perché «Marcelo è il nuovo fenomeno del calcio uruguaiano, già da tempo nel taccuino di Moggi... Si tratta di un vero investimento». Lucianone annuisce. Inutile dire che Saralegui è una bufala, e che finirà tra le riserve. Conclusa la campagna acquisti truffaldina, in casa del Toro ritorna un’apparente calma. A fine agosto Lucianone dichiara: «Rimango qui al Torino, dove mi trovo benissimo. Conosco la città, ho fiducia nella squadra, che ritengo possa fare ancora molto bene, non ho nessun motivo per andarmene. Spero così di mettere fine alle voci che mi riguardano e che mi vorrebbero in partenza per la Lazio». Balle anche queste. Di lì a poco, nuovi echi dell’affare Lentini turbano la società granata. Accade quando Borsano dichiara in televisione che «Moggi ha collaborato in pieno per portare a conclusione la trattativa col Milan» per la cessione del fuoriclasse. Traduzione: i tifosi granata se la prendano un po’ anche con il direttore generale, e non solo con il presidente... L’affare Lentini scotta ancora. Ma Lucianone si guarda bene dallo smentire Borsano. Si limita a dire: «Non vorrei che si dimenticasse che ho migliorato notevolmente la squadra, facendo pure incassare quattrini alla società». 13 - continua

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In autunno, dopo le prime partite di campionato, il Toro è al secondo posto in classifica, e tiene testa alla capolista Milan. Ma i tifosi granata disertano ugualmente le partite casalinghe della squadra. Lucianone perde le staffe: «Lo stadio è vuoto? Vabbè, poi i nostri tifosi non si lamentino se per coprire i buchi di bilancio si dovrà ricorrere a qualche cessione». Ai primi di novembre, la Dinamo di Mosca elimina il Toro dalla Coppa Uefa. In mancanza di meglio, Moggi (spalleggiato da Borsano) attacca l’arbitro cecoslovacco Marko e i due guardalinee, accusandoli di avere

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danneggiato la squadra granata. L’eliminazione europea si ripercuote sul campionato, e il Toro va in affanno. Torna a circolare la voce che Borsano stia trattando la vendita della società. Lucianone smentisce, sibillino e minaccioso: «Circa le voci che circolano in questi giorni, voglio precisare che se qualcuno dichiarerà guerra a Borsano per impossessarsi del Torino può anche farlo. Ma non attacchi me, la squadra e l’allenatore Mondonico, perché troverà pane per i suoi denti... Mi pare di notare nell’ombra gli stessi personaggi che riuscirono a mandare il Toro in serie B. A quei tempi io non c’ero, ma adesso sono qui e non voglio proprio che la storia possa ripetersi». Poi, in pieno impeto patriottardo, si lancia in una dichiarazione d’amore: «Il Toro è per chi l’apprezza e lo capisce. A quelli che non l’hanno capito, ricordiamo che la famiglia granata è una sola, nelle sconfitte e nelle vittorie». Prende la parola anche l’allenatore Mondonico: «Attorno al Toro si sta giocando una partita a poker. Non so chi bluffa e chi ha in mano il gioco migliore... È chiaro che vedere Moggi al tavolo è promettente, la società ha messo il giocatore giusto al posto giusto, perché lui sa e può giocare le sue carte». Cosa vuol dire? Vuol dire che Borsano, per avere le mani più libere nelle trattative per la cessione del Torino, si appresterebbe a nominare Moggi presidente della società. «Accetterei volentieri questa nuova responsabilità», ammette Lucianone, «anche se si continuano a sentire voci su altre mie destinazioni. C’è un mercato per tutti, per i calciatori e anche per me. Proposte ne ricevo spesso, però una nuova avventura in granata con altri compiti mi stimola... Ma sia chiaro che uno come Moggi non può essere un paravento, proprio perché i problemi del calcio italiano io li conosco a fondo». Traduzione: sbrigatevi a nominarmi presidente, altrimenti cambio aria. Nei primi mesi del 1993 il Torino è alla ribalta delle cronache più per i pasticci societari firmati dalla coppia Borsano-Moggi, che per i risultati della squadra. A gennaio si infittiscono le voci di un ritorno di Moggi al Napoli. Lui smentisce: «Io cambio società solo quando cambia il presidente che mi ha ingaggiato, perché penso che una nuova dirigenza ha il diritto di fare le sue scelte... Io sto qui al Torino, e me ne andrò solo se Borsano venderà la società... Al momento lui mi ha proposto di assumere la presidenza, e per me sarà un onore quando la proposta diventerà ufficiale». Ai primi di febbraio Borsano vende il Torino al giovane notaio piemontese Roberto Goveani, ma Lucianone non se ne va. Anche perché il nuovo padrone del Toro è un semplice prestanome dello stesso Borsano, e lui lo sa bene. Un personaggio pieno di grinta, questo notaio-paravento, che appena insediato alla presidenza promette «trasparenza e chiarezza» perché consapevole «di avere assunto un impegno enorme in un mondo calcistico permeato di misteri, reticenze e falsità». Ma il nuovo assetto societario del Torino non prevede Moggi né come presidente né come amministratore delegato. «Tra me e il notaio Goveani c’è una piena unità d’intenti», assicura Lucianone. E il notaio: «Moggi gode di tutta la nostra fiducia, ci serve per costruire una squadra sempre più competitiva». Invece, nelle segrete stanze, è in corso una sorda lotta di potere che presto sfocerà nel divorzio. Il 6 marzo, nei pressi dello stadio genovese di Marassi, la Mercedes guidata da Lucianone, con a bordo i fidi àscari Pavarese e Orlandini, viene assalita e danneggiata da un gruppo di teppisti. Pochi giorni dopo Goveani, deciso a ridurre le forti spese societarie, comunica a Lucianone che Pavarese e Orlandini sono in pratica licenziati. Così, le voci che vogliono Moggi in partenza per altri lidi (Napoli, Inter, Fiorentina) riprendono a circolare. E fra l’ex ferroviere e il notaio è scontro duro. «Rimango qui, ho un contratto col Torino fino al 1995», dichiara Lucianone beffardo e bellicoso. Goveani si appresta ad allontanare anche il medico sociale, il dottor Roberto Bianciardi (altro esponente della corte di Moggi, che l’ha portato al Toro). La guerra dei nervi ingaggiata dal nuovo presidente ha un solo scopo: indurre Moggi a dimettersi.

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Se lo licenziasse, dovrebbe corrispondergli tutte le mensilità contrattuali un patrimonio. «Si dice che il notaio abbia gli strumenti persuasivi per indurlo a dimettersi», ma si dice anche che Lucianone «abbia minacciato Goveani di fargli la guerra» se non potrà andarsene come e quando vorrà lui. Il fatto è che Lucianone, da direttore generale granata, ha già raggiunto in gran segreto un accordo di massima con la nemica Juventus per il 1994, e sta cercando un ingaggio annuale per occupare i mesi che lo separano dall’approdo alla corte degli Agnelli. Ma gli strumenti persuasivi del presidente-prestanome del Torino devono proprio essere robusti, perché a fine marzo Moggi lascia la carica di direttore generale con una separazione consensuale indorata da una buonuscita di oltre un miliardo. Gli strascichi polemici non mancano. L’epitaffio di Goveani è velenoso: «Che cosa ci mancherà di più di Moggi? Non ho mai sentito nessuno raccontare barzellette come lui». Il comunicato di Lucianone è degno del suo miglior stile, cioè denso di oscuri messaggi: «Io non c’entro niente con la cessione di Lentini, e non c’entro neanche con l’acquisto di Saralegui!», urla di fronte ai giornalisti picchiando i pugni sul tavolo. «La pulizia si fa quando c’è sporco, e nella mia gestione del Torino non c’è sporco: chi insinua che ci sia venga a ripeterlo qua se ha il coraggio!». La dipartita di Moggi turba i giocatori granata più del lecito: il Toro infila quattro pareggi e due sconfitte, scivolando dal terzo al nono posto in classifica. Mondonico allibisce: «Possibile che dei ragazzi maggiorenni e vaccinati si sentano persi per il fatto che se ne è andato un dirigente?». La risposta è semplice: molti dei giocatori granata sembrano più interessati al calcio-mercato che alla classifica. Lucianone, disoccupato, attacca Mondonico in Tv. L’allenatore replica: «Che io dovessi stare attento alla mia panchina, Moggi me lo aveva già detto prima di andarsene...». Scrive un giornale: «Il calcio è proprio in crisi, se Moggi ancora non ha trovato una squadra». E la stampa dà addosso all’allenatore del Toro, additandolo come un traditore di Lucianone. «Continuano a scrivere che io sarei l’anima nera dell’affare Moggi», si lamenta Mondonico, e aggiunge: «Mani pulite non arriverà nel mondo del calcio finché i giornalisti sportivi non troveranno il coraggio che stanno dimostrando i loro colleghi che si occupano di politica». L’ex ferroviere, al momento disoccupato, si affanna intanto a cercare una collocazione transitoria, in attesa di passare alla Juventus (per nulla turbato dalla reazione dell’amministratore delegato juventino, Boniperti, il quale dichiara: «Se qui entra Moggi, troverà le mie valige già pronte»). L’8 luglio 1993, finalmente, Lucianone trova la sistemazione che cercava: alla Roma, come consulente. La rottura di Moggi con il Torino, proprio nel momento in cui sembrava destinato ad assumere un ruolo di vertice nella società granata, è inspiegabile e misteriosa. Tanto quanto enigmatico è stato l’avvento del presidente-prestanome Goveani. Interrogato dalla magistratura torinese alcuni mesi dopo, Lucianone ricostruirà la vicenda con una serie di bugie, ambiguità e reticenze. Una versione dei fatti, la sua, semplicemente ridicola: «Borsano mi aveva chiesto di fare il presidente del Torino, ma io avevo rifiutato in quanto non era quello il mio lavoro. Borsano mi aveva chiesto allora di aiutarlo a trovare un acquirente [del Torino calcio, ndr]. Io gli avevo risposto che avrei fatto il possibile. Dopo una partita del Torino si presentò da me una persona, qualificandosi solo come Roberto e dicendomi che era interessato all’acquisto del Torino. Mi chiese quanto poteva costare il Torino e io gli risposi circa una ventina di miliardi. Gli consigliai di rivolgersi direttamente a Borsano. Borsano mi telefonò il giorno dopo in quanto aveva parlato con il Roberto al quale lui aveva chiesto molti soldi in più. Il Roberto seppi in seguito chiamarsi Goveani e che faceva il notaio [...]. Fui io che decisi di andarmene dal Torino in quanto la situazione non mi piaceva più, poiché sia Borsano che Goveani si comportavano in modo non trasparente, tenendomi all’oscuro di tutto. In particolare ricordo che Goveani mi aveva detto che Borsano voleva fare assumere nel Torino 4 o 5 ex dipendenti della Gima [la holding delle società di

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Borsano, ndr] e di bloccare le assunzioni. Come io bloccai le assunzioni, Borsano mi chiamò dicendomi che lui continuava a contare nel Torino e facendomi pensare che anche il Governi fosse d’accordo su tali assunzioni. Ricordo che a un certo punto Goveani mi disse che si doveva fare un poco di nero [denaro occulto extrabilancio, ndr]. L’unico modo di fare del nero era quello di cedere Marchegiani e Scifo [due tra i più quotati giocatori del Torino, ndr]. Io capii che Goveani alludeva a tali vendite. Non posso però dire se il nero sia stato fatto o meno. Marchegiani valeva 15 miliardi e Scifo dagli 8 ai 10 miliardi. Il discorso con Goveani relativo al nero avvenne nel gennaio 1993, e prima che lui acquistasse il Torino. Da come ho inteso e visto nel prosieguo dei fatti, il Goveani intendeva procurarsi una riserva occulta non già a favore della società, ma propria personale: scoprendo successivamente che Goveani non aveva un soldo, ho pensato che questa somma gli giovasse a pagare il prezzo del Torino...». Un racconto da far rizzare i capelli in testa a qualunque persona perbene. Anche a volerlo prendere per buono, infatti, emerge un dato inquietante: Moggi si è sentito rivolgere proposte di pura criminalità finanziaria (che nessuno avrebbe osato rivolgere a un dirigente integerrimo), ma non si è minimamente preoccupato né di contrastarle, né di denunciarle all’autorità giudiziaria. E si capisce bene perché: come appurerà la magistratura, nel loschissimo scandalo Borsano-Torino Lucianone è coinvolto fino al collo. *** L’immunità parlamentare non basta a mettere Borsano al riparo dai guai giudiziari. La sua holding, la Gima che controlla decine di società, perlopiù scatole vuote o indebitate fino al collo è alla bancarotta, i creditori lo assediano. I magistrati torinesi Giangiacomo Sandrelli e Alessandro Prunas Tola, che scavano da mesi nei bilanci delle sue aziende-colabrodo, chiedono e ottengono dal Parlamento l’autorizzazione a procedere contro il disinvolto finanziere craxiano. E ben presto si imbattono anche nei disastrati libri contabili del Torino calcio. Sciolto all’inizio del 1994 il Parlamento degli inquisiti, Borsano rischia l’arresto, e per evitarlo decide di vuotare il sacco. Così finisce per mettere nei guai una bella fetta del calcio italiano: dal suo potentissimo ex direttore generale Luciano Moggi, ai club più titolati della serie A (Juventus, Milan, Inter, Lazio, Genoa, Napoli, per tacere dei minori). Le prime avvisaglie della imminente tempesta arrivano la mattina del 29 agosto 1993, quando un abbronzatissimo Moggi entra alla chetichella nel portone principale della Procura della Repubblica di Torino, in via Tasso n° 1, a due passi dal Municipio. Lucianone è appena passato al servizio della Roma: cosa ci fa, a Torino, e per giunta al Palazzo di giustizia? «Sono venuto a trovare dei vecchi amici», dice ai giornalisti troppo curiosi. E l’uomo che lo accompagna all’ingresso, il procuratore capo di Pinerolo Giuseppe Marabotto, suo vecchio amico, sembrerebbe accreditare la storiella della visita di cortesia. In realtà, Moggi è stato convocato dal maggiore Stefano Rizzo del nucleo di polizia giudiziaria della Guardia di finanza, che affianca i magistrati Sandrelli e Prunas nell’indagine sul Toro nero, per essere interrogato come testimone. Si indaga su una quantità di compravendite di calciatori sospette: Dino Baggio dal Toro all’Inter via Juve; Gianluigi Lentini al Milan; Vincenzo Scifo dall’Auxerre al Toro e poi dal Toro al Monaco (Montecarlo); Roberto Policano al Napoli; Luca Marchegiani alla Lazio; Luis Muller dal Toro al San Paolo (Brasile); Pato Aguilera dal Genoa al Toro. Nel mirino dei magistrati, anche una lunga lista di calciatori più o meno inesistenti, valutati centinaia di milioni senza che abbiano mai visto un pallone. In agosto, i magistrati torinesi hanno spedito avvisi di garanzia a Borsano e al suo successore alla presidenza della società granata, il notaio Roberto Goveani: il primo è inquisito per falso in bilancio e fatture false, il secondo soltanto per il secondo reato. In settembre comincia la sfilata in Procura: giocatori delle Nazionali come Lentini e Dino Baggio, procuratori di primo piano

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come Dario Canovi e Antonio Caliendo. Poi, l’11 ottobre, scatta il blitz delle Fiamme gialle nei santuari del dio Pallone, con perquisizioni in tutta Italia. Scene che non si vedevano dal famigerato marzo 1980, quando i finanzieri irruppero negli stadi per lo scandalo del calcio-scommesse. Questa volta la Guardia di finanza visita la sede della Lega nazionale calcio, poi perquisisce gli uffici delle varie società coinvolte, infine mette sottosopra le abitazioni e gli uffici di un gran numero di calciatori, procuratori, presidenti e dirigenti di serie A e B. Il più perquisito è proprio Luciano Moggi, anche perché possiede case e uffici un po’ dappertutto: i finanzieri bussano alla porta della sua villa nella natìa Monticiano (Siena), mentre altri entrano nella residenza napoletana di via Petrarca (dove Moggi ancora risiede) e nel suo nuovo ufficio di Trigoria (alla periferia di Roma). Il 18 ottobre 1993 Lucianone riceve un avviso di garanzia per reati fiscali: «fatturazioni per operazioni inesistenti, in concorso» con Borsano e Goveani. Deve trovarsi un avvocato, e nomina Vincenzo Siniscalchi, principe del Foro di Napoli, lo stesso che difende Diego Armando Maradona (e che verrà poi eletto deputato nelle liste del Pds). «Io sono tranquillo», dice spavaldo l’inquisito, «non ho niente da nascondere né da temere, non ho commesso irregolarità, dimostrerò ai giudici che è tutto chiaro». Dalle carte dell’inchiesta risulta l’esatto contrario: spulciando fra le montagne di documenti sequestrati dalla Guardia di finanza, i magistrati ne stanno scoprendo sul conto di Moggi di tutti i colori. 14 - continua

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Lucianone coscialunga

Le carte più interessanti sono quelle che le Fiamme gialle trovano nell’abitazione torinese di Giovanni Matta, il settantenne ragioniere che fino al gennaio 1992 è stato il contabile del Torino calcio, prima di essere licenziato in tronco in seguito a contrasti con il presidente Borsano. Al momento del divorzio, Matta è riuscito a portarsi a casa le copie dei libri mastri, le agende della contabilità occulta della società, e soprattutto il diario dove annotava e commentava giorno per giorno gli aspetti più grotteschi e sconcertanti delle entrate e delle uscite «non documentate». Quella che i giudici, nel loro pudìco burocratese, chiameranno «gestione fiscalmente riservata». Tra quelle carte, ci sono fra l’altro gli estremi di un conto bancario top secret, nome in codice Mundial, aperto da Borsano presso una filiale della Banca Brignone per giostrare i fondi neri e pagare i fuoribusta a dirigenti, giocatori, procuratori e allenatori. Fra le tante voci coperte ci sono anche le cosiddette «pubbliche relazioni-accompagnatrici». Decine di milioni spesi lo si scoprirà poi per accogliere e omaggiare degnamente le terne arbitrali internazionali delle partite di Coppa Uefa disputate dal Torino: gioielli, orologi, abiti firmati, e soprattutto prostitute, regalate dal Toro moggiano alle giacchette nere. Sfogliando il diario di Matta, alle pagine del dicembre 1991 si legge: «Ieri si è presentata una certa Riva, faccia, fisico e abbigliamento di puttana di alta classe: voleva 6.300.000 per le prestazioni amorose sue (?) e di colleghe per gli arbitri Aek Atene. Nessuno mi aveva avvisato e perciò l’ho rimandata...». Matta viene subito convocato in Procura per spiegare quello e altri appunti scottanti. E davanti ai magistrati, sciorina due anni di incredibili maneggi: «Ammetto il fatto di pagamenti a

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favore di terne arbitrali. Trattasi di pagamenti che compiacenti signore vennero a chiedermi, sia nel caso della terna arbitrale di Aek Atene sia in altri due casi, per un arbitro turco e per uno svedese. L’importo fu sempre lo stesso e le signore compiacenti erano sempre le stesse... Era stato Moggi a combinare questi incontri... Una volta avevo mandato via la signora, ma Moggi mi disse che aveva ragione [a chiedere di essere pagata, ndr] e liquidai il compenso». Le partite del Toro caratterizzate dalla intima accoglienza arbitrale sarebbero state almeno tre, tutte nella prima fase della Coppa Uefa 1991-92. E precisamente: Torino-Reykjavik del 2 ottobre 1991, finita 6-1 e diretta dall’arbitro jugoslavo Colic con i guardalinee Ciee e Klepic; Torino-Boavista del 24 ottobre 1991, finita 2-0 e affidata all’inglese Hackett, coadiuvato dai signori Watson e Rennie; Torino-Aek di Atene dell’11 dicembre 1991, finita 1-0 e arbitrata dal belga Goethals assistito dai signori Veermesch e Bosschaert. «Torino-Aek», racconta Matta, «ci costò quasi 10 milioni per intrattenere piacevolmente gli arbitri. Era chiaro che Moggi si occupava delle prestazioni amorose per gli arbitri. Pavarese [il braccio destro di Moggi, ndr] per Torino-Aek Atene mi disse che l’arbitro e i due guardalinee erano costati 2 milioni e 100 mila lire ciascuno (6,3 milioni in totale). So e ribadisco che venivano impiegati quasi 10 milioni per intrattenere piacevolmente arbitri e guardalinee. Ripeto che tali incontri erano organizzati da Moggi. L’accompagnatore [del Toro] per arbitri e funzionari Uefa era Bruno Broglia, che conosceva le lingue. Gli arbitri venivano anche accompagnati nei negozi per acquistare oggetti di valore di circa 700-800 mila lire a testa per ogni arbitro. Ma qualche volta si superò detta soglia... La persona che provvedeva a pagare gli acquisti e accompagnava la terna arbitrale (non era Broglia, delegato al funzionario Uefa) si faceva rimborsare dal Torino. Da ultimo, però, questi acquisti erano direttamente fatturati dal negozio alla società... La scelta di chi accompagnasse la terna arbitrale era demandata a Moggi e Pavarese. Il più delle volte io diedi il denaro a Moggi o a Pavarese a saldo di tutte le spese, in via forfettaria e senza una distinta analitica». In un successivo interrogatorio, l’anziano ex contabile della società granata precisa: «Ribadisco che il Torino non disponeva di interpreti... Io seppi del pagamento delle donne per la terna arbitrale in via esplicita soltanto l’ultima volta, quella da me annotata e riferita alla partita Torino-Aek Atene. In precedenza ricordo di aver dato a Pavarese del denaro, a sua richiesta, per l’organizzazione della partita e per qualcosa che atteneva agli arbitri. Non ci feci eccessivo caso, al momento. Soltanto dopo, quando venni a sapere espressamente della destinazione della somma, io ricollegai il fatto alla finalità che mi venne detta da ultimo». Matta cita «tre partite [del Torino] per le quali Pavarese e Moggi chiesero il rimborso: il Reykjavik, il Boavista, l’Aek». La terza volta «il Pavarese mi disse che gli arbitri erano costati a testa lire 2.100.000». Dopodiché «io non seguii più altre partite Uefa [del Torino], essendomene andato nel gennaio 1992 e avendo disputato la squadra altre partite [Uefa] solo a far data dal marzo 1992». Matta racconterà così il suo primo incontro con una delle signore compiacenti’, tale Riva: «La Riva mi disse: Ma come, non le hanno parlato dei nostri servizi con gli arbitri?. Io risposi di no. Lei mi disse che le donne [da pagare] erano in tutto tre. Io risposi di no. Poi chiamai Pavarese e gli chiesi che cosa fosse quella storia. Il Pavarese mi disse che si era dimenticato di dirmelo. Non parlò di prestazioni sessuali. Ma la natura delle prestazioni la desunsi dall’abbigliamento un po’ troppo giovanile [della signora Riva], e dalla sua persona nel complesso... Ammetto di aver fatto qualche battuta con Pavarese sulla donna che mi chiedeva il rimborso, mentre facevo delle rimostranze per la spesa in sé. Alle mie battute, Pavarese disse: Bisogna fare così, lascia perdere, e allargò le braccia». Borsano, davanti ai magistrati, non ha difficoltà ad ammettere anche quel particolare settore di attività fuori legge, precisando chi ne era l’artefice: «Era Moggi a occuparsi dell’ospitalità per gli arbitri internazionali. Li faceva portare in giro per negozi e per la città, e faceva pagare gli acquisti [dagli accompagnatori della società, ndr]. Anche delle prostitute si occupava Moggi,

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Pavarese è un mero esecutore di Moggi: non ha alcuna autonomia decisionale». Rintracciare la misteriosa signora Riva non è facile, di donne con quel cognome, sull’elenco telefonico di Torino, ce n’è una legione. Il maggiore Stefano Rizzo riesce a risalire a una certa «Adriana Riva, nata [...] e residente a Torino». Sull’elenco telefonico figura sotto un altro nome di battesimo. La donna è stata per anni titolare di una ambigua «agenzia di Pr e di hostess accompagnatrici», e fisicamente corrisponde alla pittoresca descrizione fornita dal ragionier Matta, il quale infatti la riconosce subito. Il 21 gennaio 1994 questa signora Adriana Riva di quasi cinquant’anni, bionda ossigenata, vistosa, formosa, elegante, molto giovanile rispetto alla sua età entra in Procura per essere ascoltata come testimone dai magistrati Sandrelli e Prunas. Ma è piuttosto reticente. Ammette solo quello che non può negare: cioè che Pavarese la ingaggiò per allietare la permanenza a Torino di qualche arbitro internazionale: «Il fatto si ripeté due o tre volte», precisa. Ma quando i magistrati le chiedono di Moggi, le si secca la lingua, e tace anche l’identità delle colleghe che la accompagnavano nelle varie missioni arbitrali. Forse qualcuno le ha fatto sapere che il silenzio è d’oro, ma davanti ai magistrati il silenzio diventa sinonimo di guai, tant’è che la Riva viene incriminata per false dichiarazioni al Pm (un reato che nel 1993 poteva ancora portare all’arresto in flagranza). Invitata a trovarsi un buon avvocato, l’8 marzo la signora viene riconvocata in Procura. Si presenta in compagnia dell’avvocato Giampaolo Zancan, e stavolta è molto più loquace («Mostrava lealtà e sincerità», scriveranno i magistrati). La musica per Moggi e Pavarese cambia decisamente. Adriana Riva racconta di due diverse partite. Per la prima, lei venne ingaggiata per una sera soltanto, quella della vigilia (il martedì sera): «Partecipò anche la mia amica brasiliana, che non sta a Torino e di cui preferisco non fare il nome. Non vive in Italia». Per la seconda partita, invece, le serate furono due: il martedì e il mercoledì. Il martedì erano in quattro: Adriana per l’arbitro, due amiche e colleghe la torinese Marisa Viscio, e la milanese Vittoria Marini per i guardalinee, la brasiliana per il delegato Uefa. Il mercoledì sera, invece, erano soltanto in tre brasiliana esclusa. Come erano state reclutate? «Non conoscevo il Pavarese», risponde la Riva. «Fu lui a telefonarmi, presentandosi come il segretario di Moggi e del Torino. Moggi lo conoscevo casualmente per averlo visto nei ristoranti, e lo salutavo perché era accompagnato da qualche comune amico. Pavarese mi chiese se avevo delle amiche che potessero fare da interpreti. Io parlo francese, anche se non sono padronissima della lingua. Quando si conclusero le intese la prima volta, Pavarese mi disse che avrei dovuto essere disponibile per il dopo-cena. Ma sono abbastanza adulta per capire il tipo di richiesta, anche se non mi venne proprio specificata. La frase era univoca, nel senso di accettare anche le richieste di prestazioni amorose. Il prezzo era sempre concordato preventivamente con Pavarese: la prima volta, ci accordammo per il prezzo di lire un milione». Un milione a testa, s’intende, più le spese («Le cene non furono a carico nostro, e nemanco l’albergo»). Adriana Riva ricorda bene la seconda partita, Toro-Boavista: «La prima delle due serate rimanemmo soltanto a tavola. Vi era qualcuno che parlava inglese e molte persone italiane. Costoro erano amici di Moggi... ma non vi era nessun arbitro. Moggi e Pavarese non vennero alla cena... Poi non andammo all’albergo: a mezzanotte eravamo tutte a casa». La sera successiva, il mercoledì, mentre gli arbitri ancora sgambettavano allo stadio, solita cena delle ragazze con gli amici di Moggi. Dopodiché «una persona ci disse di trovarci al Turin», cioè al Turin Palace, uno dei più lussuosi alberghi della città, a due passi dalla stazione Porta Nuova. E lì, servizio completo fin sotto le lenzuola: «Qualcuno nella hall ci diede le chiavi delle stanze degli arbitri. Quando salimmo nelle camere non c’erano ancora gli arbitri, ma soltanto i loro bagagli. Arrivarono dopo un quarto d’ora, o

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qualcosa in più. Non so dire se ci aspettassero...». Sta di fatto che la giacchetta nera destinata alla Riva «non mi prese per una ladra, non mi mandò via, non fece alcun gesto per chiedermi chi fossi... Quando lui entrò nella camera, ero completamente vestita... So che parlava in francese [era uno dei due guardalinee dell’arbitro belga Goethals, ndr]. Ma non parlammo molto. Bevemmo qualcosa al frigobar. Poi facemmo quanto avevo pensato...». Contemporaneamente, in una stanza attigua, l’arbitro Goethals mandava in bianco la Marini: «Quella sera lui non c’è stato... la Marini non combinò niente con l’arbitro». L’inappuntabile giacchetta nera, infatti, non gradì la compagnia che la dirigenza granata gli aveva apparecchiato nel letto: rifiutò e congedò cavallerescamente la signora con un mazzo di rose. Che cosa accadde dopo la calda notte di Toro-Boavista? Lo racconta ancora Adriana Riva: uno o due giorni dopo «andai agli uffici del Torino calcio. La persona con cui parlai [il ragionier Matta, ndr] mi disse che non vi era niente per me... Costui non sapeva chi io fossi e io gli lasciai il mio nome. Dissi: Sono Riva, e me ne andai». Qualche ora dopo, al massimo l’indomani, «ripassai in sede, trovai Pavarese, e mi presi i soldi convenuti». 15 - continua Dagospia 01 Giugno 2006

A questo punto, i due magistrati vogliono qualche spiegazione in più sulle cifre. E la Riva li accontenta con precisione ragionieristica. Ma la questione pecuniaria non era stata così semplice e automatica: «Io concordai la tariffa con Pavarese: le prime volte fu una somma aggirantesi sul milione e 200 mila lire a testa più le spese (queste ultime rappresentate dal costo del viaggio della mia amica Marini da Milano a Torino)... L’ultima volta visto che il Pavarese continuava a chiamarmi io ritenni possibile alzare un po’ il prezzo, fino alla somma di lire 2 milioni a testa, più le spese della Marini quantificate in 300 mila lire». Anche se l’ultima tariffa, quella maggiorata fino al doppio, era «comprensiva di due sere consecutive». È controverso se l’accoglienza arbitrale a luci rosse avesse riguardato solo due, oppure tutte e tre le partite incriminate. Ma potrebbe essere tranquillamente proseguita per tutto il resto della stagione Uefa, dal marzo al giugno 1992: Matta non ne avrebbe saputo più nulla, essendo stato licenziato nel gennaio 1992. Ovviamente, Moggi sosterrà in mancanza di prove contrarie di avere interrotto le accoglienze particolari dopo Torino-Aek... Il programma della serata era comunque collaudato: cena al ristorante I due mondi (uno dei prediletti da Lucianone e dai giocatori del Toro). Dopocena al night club Bogart, caratteristico pianobar sotto i portici di via Sacchi, a due passi da Porta Nuova, e dall’hotel Turin Palace, dove alloggiavano le terne arbitrali con tutti i comfort proprio tutti. La Viscio e la Marini confermano punto per punto il racconto della Riva. Compresa la richiesta di «disponibilità per il dopocena» e gli «incontri di natura sessuale» in albergo. Nonché le tariffe. Marisa Viscio parla di 2 milioni per ciascuna delle due serate: «Mi interpellò la Riva per intrattenere persone a cui il Torino era interessato... Almeno in un’occasione vi fu un incontro sessuale... La Riva mi aveva detto che erano arbitri o guardalinee. Io avevo capito subito che era compreso tra le possibilità un incontro amoroso». Stesso ritornello per Vittoria Marini, la milanese: gli incontri a cui partecipò furono tre, nel senso di un doppio martedì-mercoledì al Turin, più un’altra serata limitata al ristorante. In almeno un’occasione ebbe un rapporto sessuale con uno straniero che poi scoprì essere un arbitro. Veniva pagata un milione. I magistrati rintracciano e interrogano perfino il portiere dell’albergo, tale Vitiello, che il 28 maggio

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1994 racconta una circostanza ancora più pittoresca. Una sera era di mercoledì, verso le ore 23, poco dopo la fine della partita fu lui stesso, d’accordo con Pavarese, a consegnare alle tre donne le chiavi delle stanze delle giacchette nere. Le tre signore salirono. Ad attenderle, di sopra, non c’era ancora la terna arbitrale, che in quel momento stava tornando dallo stadio; c’era invece il braccio destro di Lucianone, Pavarese, il quale si era presentato con il solito lasciapassare («Sono il segretario di Moggi e del Torino») ed era salito in camera. «Se fecero qualcosa, fu proprio una sveltina», commenta impietoso il portiere Vitiello. Pavarese ridiscese nella hall poco dopo, anche perché arbitro e guardalinee stavano arrivando. Vitiello non ricorda, invece, chi avesse comunicato alla terna femminile il numero delle stanze di quella arbitrale; ricorda però che la presenza delle signore non venne registrata come prescrive la legge sul registro presenze dell’hotel... E il duo Moggi-Pavarese come si difende? Raccontando un sacco di balle. O, per dirla con il linguaggio tecnico del pubblico ministero Sandrelli, esponendo «difese in buona misura smentite». «Il Pavarese», scrive il magistrato, «ha cercato di presentare l’iniziativa come innocua necessità organizzativa, scevra di connotazioni ambigue, ascrivendo alla Riva una condotta difforme da quanto egli si era rappresentato». In pratica, sarebbe stata la signora Adriana a esagerare, infilandosi di sua iniziativa nel letto degli arbitri, senza che nessuno del Torino glielo avesse chiesto. Quanto a Moggi, i magistrati scrivono: «Ha opposto ignoranza sul senso delle prestazioni offerte dalle donne, ritenendolo un supporto ufficiale alla ospitalità gravante sul Torino calcio verso personalità sportive: ha ammesso di aver intuito di che si trattava realmente soltanto quando il rapporto fu esaurito». In pratica Lucianone, interrogato per la prima volta sul sexy-scandalo il 6 dicembre 1993 come indagato per favoreggiamento della prostituzione (la legge è la celeberrima Merlin sulle case chiuse), dice inizialmente che le tre signore erano semplici interpreti: «Agli arbitri delle partite internazionali che il Torino doveva svolgere io mettevo a disposizione così come alle altre numerose persone che arrivavano insieme agli arbitri delle interpreti. Inoltre facevo in modo che queste persone (arbitri, delegato Uefa, dirigenti della squadra ospite: una quarantina di persone) avessero degli oggetti del Torino. Per oggetti intendo coppe, distintivi, portachiavi e ricordi vari della squadra. Non so se le spese dell’albergo per gli arbitri fossero pagate o meno dal Torino». Sì, ma le signore compiacenti? «Nulla so con riferimento a delle donne, che l’Ufficio mi dice essere state pagate dal Torino, che incontravano gli arbitri e i guardalinee la notte successiva all’incontro di calcio... Le uniche donne che io ho procurato alle persone che arrivavano con la squadra estera, compresi arbitri e delegato Uefa, sono le interpreti. Non so quanto percepissero queste interpreti». Poi, a scanso di equivoci, scarica tutto sul suo portaborse: «Io mi limitavo a dire al segretario Pavarese di provvedere in merito, e cioè di mettere queste interpreti a disposizione delle menzionate persone. Non so come ciò avvenisse in concreto». Luigi Pavarese, «nato ad Avellino il 23 marzo 1965, geometra e dirigente sportivo, celibe», viene interrogato in Procura il 1° marzo 1994. Indagato anche lui per lenocinio, si presenta accompagnato dagli avvocati Gianaria e Mittone, guarda caso gli stessi legali che assistono anche Moggi, il suo spirito guida. Ecco il racconto di Pavarese, identico a quello di Lucianone: «Ho conosciuto Adriana Riva in quanto una persona che non ricordo chi sia mi diede il suo numero in quanto cercavo un’agenzia di interpreti e accompagnatrici, dopo la scarsa organizzazione mostrata dal Torino nel ricevere la squadra del Reykjavik. Io mi presentai alla Riva come segretario del Torino e non di Moggi». Pavarese tiene a illustrare la sua devozione al Capo: «È grazie a Moggi che sono arrivato al Torino. Io sono un fedelissimo di Moggi». Poi prosegue: «Io invitai la Riva nella sede del Torino e la stessa si disse disponibile a soddisfare le nostre esigenze, pur non avendo più una agenzia». Che tipo di esigenze?, vogliono sapere i magistrati, e qui si sfiora il grottesco: secondo Pavarese, «la Riva doveva accompagnare i dirigenti delle squadre ospiti e anche le loro mogli se del caso [sic]... si doveva occupare anche dei delegati Uefa e degli arbitri». Comunque, la dama bionda si sarebbe

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limitata ad «accompagnare» gli ospiti e ad «andare a cena con gli arbitri», alla vigilia delle partite con il Boavista e con l’Aek Atene. Subito dopo, però, Pavarese perde il controllo e si contraddice: «Relativamente al compenso, il ragionier Matta venne da me dicendomi che una donna gli aveva chiesto oltre sei milioni... Io insieme a Matta mi recai dal Moggi per chiedere cosa fare, in quanto era comunque lui che doveva dare l’autorizzazione al pagamento. Il Matta era molto seccato e fece qualche battuta. Anche io ho pensato che vi potesse essere stato un incontro sessuale. Il Moggi, per evitare problemi, ci disse di pagare. Si risentì moltissimo con me nell’occasione, e mi disse di non usufruire più di un tale servizio, né dalla Riva, né da altre persone. Non mi risulta che il Moggi conoscesse la Riva». Moggi torna in Procura il 1° marzo 1994 e, dopo il pasticcio combinato dal povero Pavarese davanti ai magistrati, cambia versione. Anche perché adesso i due pubblici ministeri gli contestano pure il reato di illecito sportivo «per aver offerto utilità e vantaggi agli arbitri di alcune partite internazionali (certamente la partita Torino-Aek Atene) al fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione». Lucianone stavolta è più loquace, gli è tornata la memoria. E la prende un po’ alla lontana: «Dopo la prima partita disputata dal Torino con il Reykjavik, il Pavarese mi disse che era emersa una certa disorganizzazione con riferimento all’accoglimento [sic] e al soggiorno della squadra ospite, dei dirigenti, del delegato Uefa e degli arbitri. Io dissi al Pavarese di provvedere affinché le cose migliorassero, di provvedere nel migliore dei modi e di prendere delle hostess come accompagnatrici. Le hostess avrebbero dovuto accompagnare la comitiva per la città e rendere piacevole il soggiorno». Quanto piacevole?, s’incuriosiscono i magistrati. «Mai io dissi al Pavarese, o mai vi fu tra di noi l’intesa, di reclutare delle hostess che avessero un rapporto sessuale con gli arbitri. Il mio scopo era quello di far fare bella figura al Torino nell’ambito Uefa». In ogni caso sempre a scanso di equivoci «io mi occupavo della squadra e quindi è stato il Pavarese a trattare l’ingaggio delle hostess e l’orario che le stesse dovevano osservare. Pavarese mi disse che aveva concertato che le hostess si tenessero a disposizione della squadra ospite, dei delegati Uefa, degli arbitri». Tanto sforzo venne ripagato da sicuro successo: «La seconda partita col Boavista fu organizzata dal Pavarese in modo che il Torino potesse fare una migliore figura con l’Uefa. Io ricordo che Pavarese reclutò due o tre hostess e Pavarese mi disse che tali hostess erano costate due milioni, due milioni e mez-zo circa complessivamente. Io chiesi a Matta e feci pagare alle hostess tale cifra». Prosegue Moggi: «La terza partita del Torino fu con l’Aek Atene. Dopo la partita seppi che tale Adriana Riva, che io conosco a malapena e solo di vista, aveva chiesto a Matta circa 6 milioni di lire. Io rimasi sorpreso da tale richiesta e dissi a Matta ugualmente di pagare per non avere problemi. Tuttavia, visto il notevole aumento rispetto alla volta precedente, dissi a Pavarese di non contattare più queste hostess per i successivi incontri del Torino. Così avvenne, e il Torino non si avvalse più della collaborazione di queste hostess. Io non volli più avvalermi di queste hostess in quanto le stesse facevano le furbe, e inoltre la spesa per il Torino era troppo elevata». In pratica, nel primo interrogatorio Moggi ha mentito. Ha mentito quando ha parlato di semplici interpreti, visto che ora parla di hostess. E ha mentito quando ha detto ai magistrati di non saper niente del prezzo d’ingaggio, visto che ora ammette di averne sollecitato il pagamento a Matta. Senza contare che Adriana Riva, nel 1991, non era titolare di nessuna agenzia di hostess: «Tenni un agenzia di hostess e di sfilate nel 1980, per un anno e mezzo o due», ha precisato la signora ai magistrati. E ha sbugiardato Lucianone: «Il Pavarese, in un primo tempo, ci chiese se fossimo state disponibili ad accompagnare quelle persone anche di giorno a comprare dei souvenir. Poi però nessuno ci chiamò, di giorno». Di notte invece sì.

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Il 5 luglio 1994 nuovo interrogatorio di Moggi. Il quale parla ancora di hostess per la dirigenza delle squadre avversarie. Ma riceve un’altra raffica di smentite. Susanna Paroletti, segretaria addetta al personale del Torino calcio, dice di non avere mai visto né interpreti femminili, né tantomeno hostess o accompagnatrici: «Se ce ne fossero state, lo avrei saputo». Non solo: Moggi, scriverà il pubblico ministero Sandrelli, «ha inizialmente negato ogni profilo sospetto della storia, per poi ammettere la conoscenza dell’ingaggio a opera del Pavarese, indicando al Matta la sussistenza di una pretesa in capo alla Riva e l’opportunità del suo pagamento». Tutte balle: «Queste versioni non sono proponibili, alla luce delle risultanze assunte. Esse anzi hanno finito per costituire una traccia processuale che si è torta a discredito della loro affidabilità e sincerità. È dato infatti sicuro che mai il Torino calcio spa ebbe necessità, per le incombenze di ospitalità connesse alle partite Uefa e nelle ore ufficiali [diurne, ndr], di accompagnatori, di interpreti, di personale di supporto, essendo già tutto previsto e predisposto dall’efficiente macchina organizzativa presieduta da Moggi e condotta da Pavarese... La versione difensiva, quindi, circa la pretesa necessità di integrare un vuoto organizzativo, è destituita di fondamento (salvo, certamente, per il dopo cena, su cui nessuno dei testi escussi poteva interloquire, venendosi a creare in un periodo in cui gli accompagnatori ufficiali portavano la terna arbitrale in albergo). La compagnia procacciata alla terna arbitrale non era, quindi, riferibile agli aspetti confessabili della gestione». Inoltre, se non avessero avuto nulla da nascondere, Moggi e Pavarese avrebbero fatto iscrivere nei libri contabili i pagamenti alle hostess; invece, osserva ancora il magistrato, «la spesa non venne sostenuta dalle riserve ufficiali della società e nessuno degli organizzatori fu messo [al corrente] dell’iniziativa... o informato delle donne compiacenti». Ma chi era il vero regista delle dolci accoglienze arbitrali? Pavarese si assume tutte le responsabilità, cercando di tenere fuori il più possibile il Capo. Ma secondo i magistrati, «le carte sono apparentemente univoche [sulla] certezza che questo piano di assistenza femminile alla terna arbitrale fosse da ascriversi al Moggi e non già all’esecutore materiale Pavarese... Pavarese, per sua stessa ammissione, era un fedele esecutore degli ordini del suo diretto superiore, senza grande discrezionalità e pacificamente senza possibilità di avviare un rapporto così imbarazzante come l’assunzione di meretrici al soldo della società». Le carte, dunque, parlano chiaro: Moggi il mandante, Pavarese l’esecutore materiale. Lo conferma anche il ragionier Matta: «Era stato Moggi a combinare questi incontri ». Lo ripete il presidente Borsano: «Per alcuni arbitri internazionali confermo che sono state pagate delle somme per procurare loro delle donne. Se ne occupava sempre Moggi... Non ho dei ricordi precisissimi: forse Moggi me ne aveva parlato, o forse aveva fatto dei sottintesi abbastanza espliciti». E lo ribadisce l’accompagnatore ufficiale Bruno Broglia: «Escludo che il Toro avesse delle donne interpreti. Non so nulla di prostitute, ma Pavarese non godeva di autonomia decisionale: lui si occupava di organizzazione... Se è vero che sono state ingaggiate delle prostitute per gli arbitri, sicuramente la decisione è stata presa dal Moggi, anche se il Pavarese può aver curato l’organizzazione». Ma Lucianone è proprio nato con la camicia. Le certezze a suo carico acquisite dai magistrati, in relazione all’accusa di favoreggiamento della prostituzione, ai fini processuali valgono pochino. «È una presunzione generale», scriveranno i magistrati, «un mero convincimento ovvero un superfluo

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passaggio logico». Manca la prova provata a carico di Moggi. Ci sono, è vero, le sue contraddizioni, la sua «menzogna e reticenza davanti al pubblico ministero», ma non necessariamente per occultare un favoreggiamento della prostituzione: Moggi potrebbe avere taciuto e mentito per coprire «un gesto corruttivo che violava le regole di lealtà di un esponente del mondo sportivo... la turpitudine del movente e lo scandalo di quell’idea che, se conosciuta, avrebbe portato discredito sia al direttore sportivo del Torino calcio sia all’intera compagine calcistica torinese». Scrivono ancora i magistrati: «Questo agreament verso gli arbitri, vietato dalle norme di comportamento e proteso a un favoritismo sleale, era la prima causale per un uomo del calcio che induceva a una manovra sommersa a mezzo di provvista finanziaria chiaramente extracontabile. Il fatto che questo favore fosse quello carnale e non la sola compagnia di entraîneuses vivaci, è fatto secondario: nessuno avrebbe mai potuto negare il basso livello della manovra, la sua spregiudicatezza e la conseguente necessità di mantenerla nell’ombra, nella riservatezza e in un contesto in cui i controlli predisposti dall’organizzazione Uefa si ritenevano affievoliti. Basta e avanza il fine fraudolento agli occhi della giustizia e correttezza sportiva per spiegare i tratti salienti del comportamento di Moggi». Per queste ragioni sarebbe difficile ottenere dal Tribunale la condanna di Moggi per violazione della legge Merlin (la n° 75 del 1958), mentre è lampante sempre secondo la Procura che Lucianone sia colpevole del reato di illecito sportivo. Il favoreggiamento della prostituzione prescrive rigorosi requisiti fissati dalla giurisprudenza della Cassazione. E, anche per Pavarese, è difficile dimostrare che in questo caso esistano: l’accordo tra Moggi e Pavarese e poi tra Pavarese e la Riva e infine tra la Riva e le amiche si giocò tutto con il classico dire e non dire, fra strizzatine d’occhio e sottintesi («la definizione della prestazione richiesta è affidata alla sfumatura della voce e al sottinteso»). Senza contare che il passaggio sotto le lenzuola era per così dire facoltativo, a discrezione degli arbitri. E le signore venivano pagate anche per il resto della serata, a cena e al night. «Si osservi», scrivono ancora i magistrati torinesi nel lungo documento conclusivo inviato al Gip, «che la scelta della Riva non stava a significare un’opzione condizionante: in passato la Riva era stata titolare di una agenzia di sfilate e di hostess». È vero che Moggi la conosceva fin da prima del 1991, ma è anche vero che «non risulta da nessuna parte che Riva, all’epoca della conoscenza del Moggi, fosse proclive all’antico mestiere». Lei stessa ha dettato a verbale: «Preciso che io non svolgo attività professionale di meretricio». Insomma, difficile ottenere da un tribunale la condanna della coppia Moggi-Pavarese per violazione della legge Merlin, visto che si erano limitati «alla segnalazione di occasioni di lavoro» per Adriana Riva e le sue amiche. Cosa che, per esempio, fanno ogni giorno molti quotidiani, anche prestigiosi, ospitando gli annunci a pagamento tipo A.A.A., per sedicenti massaggiatrici molto affettuose, e ciò osservano i magistrati non comporta «l’incriminazione per lenocinio del direttore responsabile, per ogni inserto pubblicitario». A questo si aggiunge il fatto che gli episodi accertati sono relativamente pochi (tre sere per due partite, più forse un altro episodio), per cui viene meno la «abitualità della condotta criminosa», presupposto indispensabile per configurare il reato di favoreggiamento della prostituzione. Certo, se il ragionier Matta non fosse stato cacciato così in fretta, avrebbe magari potuto annotare qualche altro episodio successivo al dicembre 1991... «Pertanto», concludono i magistrati Sandrelli e Prunas al Gip Piera Caprioglio, «si richiede l’archiviazione per quanto attiene alla posizione di Moggi», e «con qualche maggiore perplessità, per Pavarese». Resta in piedi, per i due imputati Moggi e Pavarese, l’ipotesi di illecito sportivo. Non c’è alcun dubbio, per la pubblica accusa, che l’ingaggio delle squillo quali che fossero le consegne impartite dai due fosse finalizzato ad ammorbidire le terne arbitrali per ottenere trattamenti di favore per il Torino e di sfavore per i suoi avversari di Coppa Uefa: «L’atteggiamento del Torino calcio spa fu

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improntato a sleale e pesante interferenza sulla lealtà arbitrale». E questo comportamento non è vietato soltanto dalla giustizia sportiva, è anche un reato penale, punito dalla legge 401 del 1989 (che, dopo i celebri casi del calcio-scommesse, introdusse il reato di «frode nelle competizioni sportive» nel Codice penale). Su questo fronte, i magistrati torinesi sono decisi ad andare fino in fondo. Ma Lucianone è molto, troppo fortunato. I difensori suoi e di Pavarese estraggono dal cilindro una carta a sorpresa: in quella legge c’è un buco grosso così. Punisce chi trucca le competizioni riconosciute dal Coni (il Comitato olimpico nazionale italiano), ma non quelle organizzate dall’Uefa (l’Unione delle federazioni europee di calcio), che è indipendente e autonoma, dunque non riconosciuta dal Coni. Tant’è vero che le squalifiche comminate dalla Federcalcio non valgono per le coppe internazionali, e le varie squadre che partecipano alle competizioni dell’Uefa aderiscono autonomamente al suo regolamento, senza passare per il Coni e per la Figc. Dunque, per la Coppa Uefa la legge italiana sull’illecito sportivo è «inapplicabile». «Conclusione», scrivono i magistrati, «che palesa un’evidente lacuna legislativa, ma che impone la richiesta di archiviazione per le posizioni di Moggi e Pavarese». A questo punto ci sarebbe da aspettarsi un severo, esemplare intervento dell’Uefa, che dispone di tutti gli strumenti disciplinari per punire chi ha palesemente violato le più basilari regole di lealtà e correttezza sportiva. Il 16 aprile 1994 la Commissione controllo e disciplina dell’Uefa si riunisce a Zurigo. Interroga l’arbitro Goethals, che ovviamente nega tutto. Hackett non c’è, e non si trova il tempo di aspettarlo. Ci si accontenta di interrogare i suoi guardalinee, che manco a dirlo negano anche loro. Poi tocca a Moggi e Pavarese, i quali, va da sé, negano tutto. Ma il segretario della Commissione René Eberle, intervistato dai giornalisti presenti, fa il duro: «Non possiamo e non vogliamo archiviare, il caso Torino è molto complesso... Ci basiamo sugli articoli di giornale, dato che la Federcalcio italiana non ci ha inviato nulla. Ma acquisiremo tutte le prove, non abbiamo fretta, non archivieremo». Venti minuti dopo, il duro Eberle è già molle come un budino, e la Commissione archivia il caso su due piedi («Non doversi procedere »), senza neppure aver richiesto gli atti alla Procura di Torino. «Dagli interrogatori», recita la grottesca motivazione rifilata alla stampa dal portavoce Uefa, Salvatore Cuccu, «non è emersa alcuna prova a carico del Torino. Non risultano tentativi di illecito o presenze femminili sospette». «Il caso è chiuso», annuncia disinvolto e frettoloso Eberle, «è inutile continuare, non c’era una sola prova. Non riapriremo il caso neppure se Moggi e Pavarese verranno rinviati a giudizio». E così sarà. Per cui Lucianone potrà subito riprendere la sua arrampicata ai vertici del calcio italiano, seguito a ruota dal fido Pavarese. Come se niente fosse. Eppure il decreto giudiziario di archiviazione del sexy-scandalo risulterà quasi più duro di una condanna. E conterrà un ritratto impietoso, definitivo del personaggio Moggi. Eccolo, a futura memoria: «[...] Le versioni fornite dal Pavarese e dal Moggi, a cui l’iniziativa dell’intrattenimento degli ospiti andava fatta risalire, opponevano, il primo che la Riva avrebbe equivocato l’incarico a lei assegnato, il secondo l’avvenuta presa di coscienza della natura dell’intrattenimento solo a cose esaurite. Dunque non può essere revocato in dubbio che un piano di assistenza femminile degli illustri ospiti fu concepito e messo in atto. È sicuramente aderente alle carte processuali rilevare... che la necessità di interpreti o altre figure delegate alle pubbliche relazioni con gli ospiti stranieri, non fu assolutamente una necessità, potendo contare il Torino calcio su una struttura organizzativa di sicura efficienza che già annoverava validi collaboratori con funzioni di interprete. Così appare assolutamente conforme a quanto emerso nel corso dell’indagine la circostanza... che la scelta di connotare l’ospitalità con presenze femminili sia riferibile al Moggi, essendo stato conclamato

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come il Pavarese ben poche iniziative fosse in grado di assumere autonomamente, e meno che meno avrebbe potuto assumere una iniziativa quale quella in discorso, i cui costi sarebbero stati sopportati facendo ricorso a riserve extracontabili. [...] Quanto argomentato [ai fini della archiviazione, ndr] non toglie nulla però sul severo giudizio che vien fatto di esprimere sulla lealtà dei dirigenti della squadra in discorso. L’iniziativa di rendere più ameno il soggiorno degli arbitri a Torino, in occasione di partite di coppa Uefa, qualunque siano state le reali finalità dell’ingaggio di avvenenti signore addette al dopo cena, rivela una chiara volontà di addolcire la severità degli arbitri, rendendoli obbligati verso la città che li ospitava con tanto riguardo e quindi sicuramente meno liberi nell’esercizio del loro incarico. La lesione degli interessi sportivi, nonché la frustrazione delle regole che animano il gioco del calcio e qualunque altro tipo di competizioni sportive si stagliano in modo anche troppo evidente [...]».

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QUESTI FANTASMI (CON LENZUOLO)

Nel rutilante mondo del calcio italico li chiamano giocatori fantasma, o meglio ancora calciatori-lenzuolo. Sono giovanissimi, hanno visto il pallone solo all’oratorio, ma vengono comprati da grandi società come se fossero dei promettentissimi talenti, dei Baggio in erba. In realtà sono un espediente, una copertura per giustificare illeciti movimenti di denaro. Di solito venivano abbinati a calciatori veri, in modo da aggirare i rigidi parametri (oggi aboliti) sui cartellini degli atleti senza falsificare del tutto le relative fatture e senza incappare nella pur blanda legislazione fiscale italiana. La prassi era piuttosto diffusa, nell’Italia pallonara di qualche anno fa. E chi era uno dei maestri indiscussi della materia? Lucianone Moggi, ovviamente. Anche lo scandalo dei calciatori-lenzuolo salta fuori da uno dei mille rivoli della megainchiesta sul Torino di Borsano. Nell’ambiente se ne parlava da tempo, ma per scoperchiarlo deve intervenire ancora una volta la magistratura. I magistrati torinesi e la Guardia di finanza, scartabellando nei libri contabili della società granata, si imbattono nei nomi di tre giovanotti: Alessandro Palestro, Daniele (o Simone) Pastorini, e Marco Vogna. Chi sono costoro? Lo racconta il solito ragionier Giovanni Matta. A ogni acquisto o cessione di calciatore, spiega l’ex contabile del Toro di Borsano & Moggi, corrispondeva una quota di compenso occulto, non dichiarato, e coperto appunto da un cartellino-lenzuolo. Il caso Palestro, per la verità, era già emerso nell’assemblea degli azionisti granata del 1992, quando un socio di minoranza si era alzato a domandare gelando i presenti chi fosse mai quel tale Palestro, registrato a bilancio accanto alla somma da capogiro di un miliardo e 140 milioni. La cosa aveva interessato anche l’Ufficio inchieste della Federcalcio, che all’epoca aveva interrogato proprio Moggi, salvo poi archiviare tutto con la velocità della luce. Adesso quella storia, arricchita di altri casi gemelli, approda alla Procura torinese. E le conferme al racconto di Matta arrivano dai dirigenti delle società che hanno concluso affari di calciomercato con il Torino del duo Borsano-Moggi. Il primo è Davide Carlo Scapini, segretario generale del Genoa, che ha appena acquistato dal Toro il centravanti Marco Pacione.

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E visto che il club granata pretendeva un prezzo superiore a quello fissato dal parametro, la società genoana ha dovuto accollarsi la spesa per un calciatore inesistente: tale Vogna. Bravo ragazzo, per carità: solo che non ha mai giocato nel Toro, dunque non dovrebbe costare un bel niente. E invece risulta regolarmente tesserato dal club torinese, e profumatamente pagato da quello genovese. Interrogato dalla polizia giudiziaria, il giovanotto ammette candido di non aver mai saputo di quel tesseramento, né tantomeno di essere stato ceduto al Genoa. L’imbroglio lo racconta Scapini: «I contratti di Pacione e Vogna non sono regolati dal punto di vista federale, e fanno parte di uno schema e di un modo di operare comune nel mondo del calcio... quando le regole federali non prevedevano la possibilità di cedere dei giocatori in comproprietà. Nel luglio 1990 il Genoa aveva acquistato dal Torino il calciatore Pacione; federalmente era necessario fare risultare la cessione a titolo definitivo e così fu fatto. Viceversa c’era un accordo integrativo al contratto, secondo cui il Genoa acquistava il 50 per cento dei diritti alle prestazioni di Pacione per un miliardo e 100 milioni con riserva a fine stagione di regolarizzarne la posizione attraverso nuovi accordi. L’anno successivo, poiché il calciatore non era andato male, il Genoa decise di acquistarlo a titolo definitivo per un importo pari a un miliardo e 100 milioni. Il presidente Aldo Spinelli mi comunicò questa volontà della società e mi disse di pensare alla regolarizzazione amministrativa. Di fatto era necessario giustificare il passaggio del denaro dal Genoa al Torino e ciò formalmente non poteva essere addebitato al contratto di Pacione, di per sé già concluso». E chi entra in scena per mettere le cose a posto violando le norme? Lucianone, ovviamente. «Ebbi un incontro», prosegue Scapini, «alla sede del calcio mercato, con Moggi e Pavarese, rappresentanti del Torino calcio. Decidemmo, per dare copertura al passaggio del denaro, di far figurare come ceduto al Torino un giovane calciatore, nel caso specifico Vogna. Io ritirai i moduli di cessione che in precedenza erano stati firmati in bianco da Spinelli. Non so dire se Vogna fosse a conoscenza della questione... Vogna, essendo un giovane di serie, non aveva diritto a nessun tipo di contratto che prevedesse dei compensi. Sulla base di questo contratto avvenne poi il passaggio di denaro relativo alla risoluzione della compartecipazione di Pacione». Il ragazzo, senza aver mai visto un pallone e una maglia del Torino, secondo i maneggi di Moggi valeva già un miliardo e 100 milioni. E non era l’unico. Lo stesso espediente, stavolta per giustificare il passaggio del centrocampista Francesco Romano dal Torino al Venezia, viene architettato da Lucianone con un altro giocatore-fantasma: Alessandro Palestro, nato a Torino il 30 aprile 1975 e valutato nientemeno che 1.140 milioni. Il ragazzo, almeno lui, qualche rapporto col Torino calcio ce l’ha: è infatti figlio di Susanna Paroletti, la segretaria della società granata che secondo Borsano «è alle dirette dipendenze di Moggi e Pavarese». Il giovanotto risulta essere un promettente portiere delle giovanili. Peccato che viva a Bruxelles (con il padre, funzionario Cee), ignaro di tutto e dedito più agli studi che agli stadi. Ecco il racconto della madre del ragazzo, il 14 luglio 1993, davanti alla Guardia di finanza: «Se non ricordo male, il signor Pavarese, segretario generale del Torino, ha predisposto i moduli per il tesseramento di mio figlio, allo scopo di giustificare contabilmente l’ingresso nel Torino calcio di un miliardo e 140 milioni, che in effetti si riferivano all’acquisto da parte del Venezia del giocatore Romano. Mi fu chiesto dai miei superiori di tesserare mio figlio, anche se non avrebbe dovuto mai giocare: mio figlio non è un bravo calciatore. Non mi fu offerto nessun compenso, e neanche lo chiesi... Del contratto Romano, a cui si riferisce la somma indicata sul contratto di mio figlio, sono venuta a conoscenza soltanto in seguito agli articoli di stampa e alle spiegazioni che mi furono date dallo stesso Pavarese... La questione relativa a mio figlio mi è stata presentata come una cosa normale dai miei superiori, e io non avevo ragione per non credergli: io stimo molto il signor Pavarese». La signora esibisce ai finanzieri il modulo della Federazione italiana gioco calcio-Lega nazionale

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professionisti col quale l’ignaro giovanotto è stato tesserato come giovane di serie del Torino calcio: in basso a destra, campeggia il timbro, con tanto di firma autografa, «Torino calcio Spa. Direttore generale, Luciano Moggi». Stesso timbro e stessa firma impreziosiscono altri due documenti ufficiali: quello con cui Palestro subisce il trasferimento definitivo al Venezia, e quello con cui Moggi e Maurizio Zamparini, presidente della società lagunare, il 7 novembre 1991 hanno pattuito il prezzo del finto campioncino: «Importo globale dell’operazione: un miliardo 140 milioni», pagamento biennale in due rate da 570 milioni. Documenti fasulli, contratti da magliari, firmati Luciano Moggi. Borsano conferma tutto: «La cessione del calciatore è stata gestita in totale autonomia dal signor Moggi, per quanto riguarda i rapporti sia con il Venezia calcio, sia con la famiglia del ragazzo. Ne sono venuto a conoscenza durante la stesura del bilancio. Comunque i casi Palestro sono la regola nel mondo del calcio, e tutti i giornali sportivi lo sanno. Perché allora non contestare i bilanci di tutte le società calcistiche, ma limitarsi al Toro?». I magistrati Sandrelli e Prunas gli domandano anche di Pastorini, altro calciatore-lenzuolo legato alla cessione di Massimiliano Catena al Cosenza, e Borsano risponde: «Nulla so di false firme per Pastorini. È un nome che non mi dice nulla, anche se apprendo essere un finto giocatore. Sono cose che organizzarono Moggi e Pavarese. Il Pavarese è mero esecutore di Moggi». L’operazione Catena la spiega meglio Maurizio Casasco, già direttore sportivo del Torino dall’aprile 1989 fino all’aprile del 1991 poi, dice, «fui costretto ad andarmene per l’avvento di Moggi», che peraltro lavorava dietro le quinte per conto di Borsano fin dal «dicembre 1990». Racconta Casasco: «Catena fu dato in comproprietà dal Torino al Cosenza. L’anno successivo il giocatore sarebbe rientrato al Torino o sarebbe rimasto al Cosenza con effettivo passaggio di denaro. Quella fatturazione [per Pastorini, ndr] fu fatta per non fare del nero. Ci servimmo di un giocatore fittizio». Anche il successore di Borsano alla presidenza del Toro, il notaio Roberto Goveani, riferisce che quei giocatori erano dei fantasmi: «Ammetto, per quanto poi venni a sapere, che l’operazionerelativa al giocatore Palestro era inesistente. Io venni a sapere della cosa soltanto nel mese di luglio 1993, quando fu richiesta [dai magistrati torinesi] la documentazione relativa a questo giocatore... Ho parlato del fatto con Moggi. Costui mi ha confermato che l’operazione serviva a coprire la vendita di Romano». Stessa versione fornisce l’amministratore delegato del Toro di Goveani, Giacomo Randazzo (già segretario generale dell’Atalanta e amministratore delegato del Verona): «La vicenda del giocatore Palestro, che io ho rilevato al mio arrivo... è una situazione che non è isolata nel mondo del calcio. Sapevo che era stata fatta [anche] in altri ambienti. Ho esaminato il contratto di vendita del Palestro. Porta la data del 1991 ed è stato siglato dal signor Moggi Luciano e, per il Venezia, dal presidente Zamparini». A Zamparini non resta che confermare tutto: per comprare Romano dal Torino aveva dovuto accollarsi anche Palestro. «Acquistai Romano trattando con Moggi. La cifra di acquisto era lire 2 miliardi. Il pagamento era biennale. Mai sentii nominare il giocatore Palestro. Dopo circa 3-4 mesi, l’amministratore delegato [del Venezia] mi informò che era stato necessario inserire nell’operazione tale Palestro, in quanto a parametro Romano avrebbe consentito una quotazione più bassa di quanto pattuito... Mi venne detto che quella era una prassi regolare per evitare passaggio di denaro in nero. Trattai personalmente soltanto con Moggi... Tutto il discorso avvenne con Moggi, ma non parlai mai del giocatore Palestro. Io credevo, quando mi fu raccontata la storia di Palestro, che costui fosse un giocatore del settore giovanile del Torino calcio, non una invenzione, come ho saputo dopo... Quella prassi, secondo me, è dato notorio presso la Lega. Secondo me era una routine conosciuta: basti pensare che il prezzo per lo sconosciuto Palestro era di 1,2 miliardi circa, e per il noto Romano era soltanto 800 milioni. Questo squilibrio parlava da sé...».

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Lucianone, davanti ai magistrati, si difende dicendo che lui non sa niente: «Non mi sono mai occupato di aspetti amministrativi, per cui la vicenda non mi riguarda. Anzi, nell’occasione di Palestro feci del bene al Torino, perché feci incassare alla società, in maniera legale, dei soldi che altrimenti sarebbero stati illegali. E sapete quale era la situazione economica del Torino...». Purtroppo per lui, questa versione strappalacrime dell’ignaro benefattore non commuove i pubblici ministeri. 18 - continua Dagospia 08 Giugno 2006

La danza dei fantasmi inscenata da Lucianone non finisce qui. Un altro caso emblematico ha un nome esotico: Marcelo Saralegui, classe 1971. Nel 1992 Moggi preleva Saralegui dallo Uruguay, dove milita nel Nacional Montevideo, senza troppa fatica, tramite il suo amico Paco Casal, procuratore di tutti gli uruguagi approdati in Italia (Aguilera, Ruben Sosa, Francescoli, Herrera, Fonseca). Chi sia questo Saralegui, in Italia nessuno lo sa: pare che abbia giocato qualche scampolo di partita in Nazionale nell’ultima Coppa America, ma nessuno se ne è accorto. Nessuno, tranne Lucianone e Casal. Nelle redazioni sportive, il giorno dell’annuncio (6 agosto 1992), corre il panico: del nuovo acquisto granata non esistono fotografie né schede biografiche, niente di niente. L’indomani, nel corso di un’esilarante conferenza stampa, mentre Torino è ancora scossa dalle proteste della piazza granata per la vendita di Lentini al Milan, Lucianone e Paco presentano Saralegui come una specie di nuovo Maradona, anzi «il Tardelli del Sudamerica, il più promettente uruguaiano della nuova generazione». Poi il campione viene finalmente esibito ai giornalisti: un ragazzone con un cespuglio di capelli ricciuti che gli coprono la fronte e le sopracciglia. Non sorride mai, nonostante le panzane che gli mettono in bocca (promette addirittura lo scudetto, pur avvertendo modesto com’è che «non sarà facile»). Paco Casal che ha già tentato invano di rifilare il giovanotto all’Atletico Madrid e al Cagliari, ricevendone due perentori rifiuti è felice come una pasqua: «Marcelo è la bandiera del calcio uruguayano». Ma certo, come no. Finalmente qualcuno ci è cascato: Borsano. «È un arrivo importante», annuncia tutto soddisfatto il presidente buggerato, «è la conferma che il Toro non smobilita, e crede nei giovani. Marcelo è il nuovo fenomeno del calcio uruguaiano, un mediano difensivo con il vizio del gol, lo si può impiegare sia sulla destra che sulla sinistra. Già da tempo era nel taccuino del nostro Luciano Moggi. Me l’ha segnalato Aguilera, e se ha passato il giudizio di Moggi vuol dire che non abbiamo sbagliato. Si tratta di un vero investimento». Infatti il Toro paga Saralegui la bellezza di 5 milioni di dollari (7 miliardi e mezzo di lire del 1992, oltre 10 di oggi), più 600 milioni all’anno di ingaggio al giocatore, con contratto triennale, fino al 1995. I giornalisti, però, non abboccano (non tutti, almeno). Così, per vincere lo scetticismo, Casal e Lucianone portano i cronisti in un ufficetto munito di televisore per mostrare loro una videocassetta che promette mirabilia: «Vedrete di che cosa è capace Marcelo!». Dalle immagini si intravede in lontananza un tipino che somiglia a Saralegui e che sgambetta su campi dall’erba mal tagliata, segnando qualche gol dalla linea di porta, o giù di lì. Ma pochi ci fanno caso. Il bluff viene alla luce ben presto, quando il presunto talento di Montevideo raggiunge il ritiro della squadra granata e si mette a disposizione dell’allenatore Mondonico. Qualche partitella di allenamento senza quasi toccare palla, qualche sprazzo di precampionato. Poi la prova della verità: il campionato. Su 34 partite, Saralegui giocherà la bellezza di 3 minuti e mezzo. Per il resto, posto fisso in tribuna.

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La stagione seguente, peggio ancora: un minuto e una manciata di secondi, naturalmente a fine partita, col risultato già al sicuro, per non fare troppi danni. Il nuovo Tardelli, incompreso, nell’estate 1994 verrà rimpatriato alla chetichella col primo volo per l’Uruguay e con un anno di anticipo sulla scadenza del contratto. Perché Moggi aveva comprato Saralegui con tanta enfasi e tanti quattrini (di Borsano)? «L’operazione Saralegui, condotta insieme al signor Moggi, era indissolubilmente legata all’ingaggio di Aguilera dal Genoa», racconta Borsano ai magistrati. In pratica, l’ingaggio del giovane uruguaiano era una messinscena architettata dal solito duo Moggi-Borsano per coprire la seconda parte del prezzo d’acquisto di Aguilera, passato nel 1991 dal Genoa al Torino. Non che Saralegui fosse proprio un giocatore-lenzuolo come gli altri: qualche partita, almeno nel suo Paese, l’aveva giocata. Un calciatore-trapunta, si potrebbe dire. Gli avvocati di Moggi riescono a dimostrare che il trucco dei giocatori-fantasma non ha danneggiato le casse dello Stato: la cessione di giocatori, infatti, gode di un’aliquota Iva agevolata, mentre con quelle transazioni le società pagavano l’Iva ordinaria. Niente frode fiscale, dunque. Rimane però il reato di violazione di un altro articolo della legge 516/1982 detta anche manette agli evasori: quella che punisce le scritture contabili false e le fatturazioni fasulle. Per questo reato la Procura di Torino chiede il rinvio a giudizio di Borsano, Goveani e Zamparini, nonché del solito Moggi. Costoro, scrivono i magistrati, «con reiterate iscrizioni di fatture per operazioni inesistenti relative alle prestazioni calcistiche dei giocatori Palestro, Vogna, Catena, Saralegui, Aguilera, Pastorini, [tenevano] in guisa inattendibile nel contenuto le scritture e i libri contabili del Torino Calcio (libro giornale, registro fatture, registro corrispettivi, registro degli acquisti) a causa delle gravi e ripetute (per ogni fattura) irregolarità sovradescritte concernenti le operazioni di acquistocessione delle prestazioni delle dette persone». Anche questo capitolo degli scandali Moggi-Torino approda sul tavolo del Gip Piera Caprioglio. E qui, per evitare guai peggiori, Lucianone, Borsano e Goveani si affrettano a sborsare qualche lira a titolo di oblazione: una specie di multa preventiva, utilissima per estinguere il reato e uscire dai guai al più presto. Scrive comunque il Gip: «Non ricorrono i presupposti per una pronuncia assolutoria con ampia formula, visto che dal punto di vista oggettivo si è trattato di irregolarità gravi, numerose e ripetute e che dal punto di vista soggettivo emerge che, attesa la finalità perseguita, nota a tutti i partecipi, tutti gl’imputati non potevano che essere consci della attività illecita intrapresa. Le fatture per ogni giocatore furono più di una. Le irregolarità presentano un notevole grado di gravità, trattandosi di falso ideologico che investiva l’intero negozio commerciale, con simulazione che aveva di mira l’alterazione della realtà convenzionale rispetto a quella reale. Non è pensabile che questa irregolarità sia equiparabile a un semplice difetto di vidimazione. Trattasi comunque di fattispecie configurante reato abituale, per cui è richiesta condotta plurima, nel caso di specie pienamente dimostrata». Ma dal momento che Borsano, Moggi e Goveani hanno sganciato qualche lira (circa 300 mila a testa, per la precisione: i parametri delle oblazioni sul Codice penale sono piuttosto vecchiotti), il giudice Caprioglio, il 20 giugno 1994, «dichiara non luogo a procedere» nei loro confronti «perché il reato è estinto per intervenuta oblazione». Non c’è niente da dire, Lucianone è proprio Lucky... Intanto, come per miracolo, si riscuote dal letargo la giustizia sportiva. Viene riesumato il fascicolo Palestro, precedentemente archiviato, e vengono sanzionati i responsabili con pene da solletico: Moggi rimedia la squalifica per un mese dall’attività sportiva. Quasi un premio: trenta giorni di ferie.

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Lucianone froda il Fisco Nel Torino del bancarottiere craxiano Gian Mauro Borsano, Lucianone si è trovato perfettamente a proprio agio. E ne ha combinate anche lui di cotte e di crude. Così, l’inchiesta dei magistrati torinesi fa emergere a carico dell’ex ferroviere un altro reato, un’accusa che la dice lunga sullo spregiudicatissimo modus operandi moggiano: reati fiscali legati a un giro di disinvolte compravendite di giocatori in erba. Stavolta, se non altro, si tratta di giocatori veri. Tutto nasce, ancora una volta, dagli appunti del ragionier Giovanni Matta, il contabile del Toro col vizio del diario. Nelle sue agende, tra l’altro, si legge: «Agostini classe 1972, Chiarini classe 1974, Belli classe 1974. Preliminari di cessione in data 23 gennaio 1991 con la Lodigiani. I giocatori verranno trasferiti al Torino a titolo definitivo (ma nella società in prestito) con pagamento tramite Lega nel 1991-92 rispettivamente di 190, 190 e 350 milioni. Entro 30 aprile 1992 il Torino potrà riscattare definitivamente i giocatori pagando poi tramite Lega nel 1992-93 ulteriori somme di 90, 90 e 200 milioni. Se il Torino non eserciterà il riscatto, dovrà ritrasferire gratuitamente alla Lodigiani. Non era più semplice un trasferimento temporaneo con opzione per l’acquisto definitivo?». Il meccanismo annotato dal ragioniere del Toro sembra complicato, ma in realtà è piuttosto semplice e ingegnoso: serve, ancora una volta, per aggirare la legge fiscale. I tre giocatori, scrive la Procura, «furono negoziati in maniera quantomeno anomala: per essi esisteva una clausola che prevedeva la restituzione gratuita se non fosse stata esercitata la opzione di acquisto definitivo, pur avendo la società torinese già sborsato somme rilevanti». Situazioni accertate dalla Guardia di finanza e definite dai magistrati «davvero inspiegabili: l’acquisto del Torino a cifra sostenuta e la restituzione a Lodigiani spa gratuitamente... Il che può giustificarsi con la volontà di sottrarre gli ingaggi ai formalismi imposti dagli organismi [cioè dalla Lega nazionale calcio, ndr]». E non solo: «Fra Torino e Lodigiani si dedussero anche altre intese che riportano l’alterazione fatturativa a finalità di evasione fiscale». È lo stesso Borsano a confessare che l’Associazione Lodigiani calcio spa era uno dei tramiti per il «procacciamento di ricchezze da gestire extra-contabilmente». Cioè di fondi neri, rastrellati con la «sopraffatturazione di giocatori acquistati dal Torino con successive restituzioni del surplus in nero». I giovanotti venivano strapagati dal Torino, ben oltre il valore effettivo, e la Lodigiani restituiva sottobanco la differenza alla società granata. Il ragionier Matta conferma tutto, per un ammontare di almeno 200 milioni di lire: «La provvista di denaro era portata al Torino calcio da Moggi... Essa era accreditata ai conti della società presso la Banca Brignone». Anche Goveani sia pure per sentito dire conferma: fu Borsano, passandogli le consegne, a informarlo che la società romana serviva al Torino per creare fondi neri, e del resto «le trattative erano seguite dal Moggi». A quel punto, lo stesso Moggi deve ammettere di aver ritirato quel denaro dalla Lodigiani (dalle mani dell’amministratore, tale Malvicini) portandolo a Matta. Per i magistrati è soltanto un piccolo assaggio della giungla di violazioni che caratterizzavano le campagne acquisti del Torino gestite direttamente da Lucianone.

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Nella richiesta di rinvio a giudizio per frode fiscale, la Procura di Torino parla di un «pesante velo di artefazione contabile e fatturativa su tutta la vicenda», poiché «tutte le vicende che attennero alle cessioni di calciatori di Torino calcio spa furono inquinate da una pesante elusione delle direttive della Lega calcio in materia di comproprietà, di prestito, di limiti temporali alla cessione. Di sicuro falsificazioni a livello di fattura vi furono, come ammesso da tutti i protagonisti della gestione della squadra torinese». Stavolta, dunque, oltre alla «lesione delle regole del settore sportivo», c’è la certezza della frode fiscale: «Violazione dell’art. 4 della legge 516-82... Protagonisti della vicenda furono Borsano e Moggi, quest’ultimo indicato anche da Malvicini come l’organizzatore degli incontri con Borsano e come colui che ritirò le buste che, per tre volte consecutive, Malvicini indirizzò all’amministratore della squadra torinese». Insomma, secondo i magistrati, Moggi «partecipò all’intesa di alterazione ideologica dei valori di fattura». E il fatto che Lucianone fosse perfettamente al corrente dei fondi neri del club granata, risulta anche da un altro particolare emerso dalle pieghe dell’inchiesta. Goveani, nell’interrogatorio del 16 giugno 1994, indica un’altra provvista di nero, ricavata vendendo i biglietti omaggio della tribuna d’onore dello stadio nel maggio 1993. Quei fondi occulti erano serviti, in precedenza, per pagare le rate d’affitto degli alloggi di alcuni giocatori e dello stesso direttore sportivo Moggi. E lui, Lucianone, ha dovuto confermare «la percezione di questo benefit riservato». Pertanto concludono i magistrati Moggi «era al corrente dell’esistenza del fondo». Dunque deve essere processato. Il Gip Piera Caprioglio lo rinvia a giudizio. E Lucianone corre subito ai ripari: per evitare il processo con pubblico dibattimento e prevedibili echi di stampa, decide di patteggiare la pena. Che gli viene inflitta il 27 gennaio 1996: «Tre mesi di reclusione e lire 3 milioni di multa». La reclusione viene poi sostituita con altri 2 milioni e 250 mila lire di multa. Sentenza per frode fiscale definitiva e inappellabile. I fondi neri sono una costante di tutta la gestione granata del duo Borsano-Moggi. Un malaffare che non attira le attenzioni dei soli magistrati italiani. Nel 1995, il giudice istruttore del Tribunale di grande istanza di Marsiglia che sta processando Bernard Tapie per analoghi maneggi e illeciti nella società calcistica di cui è presidente l’Olympique Marsiglia scoperchia un altro scandalo: quello relativo alla cessione del centrocampista spagnolo Rafael Martín Vázquez dal Torino alla squadra francese. Un trasferimento piuttosto misterioso, visto che Vázquez all’Olympique è rimasto meno di due mesi: Tapie lo ha subito girato al Real Madrid. Vázquez era approdato a Torino nel 1990, restandovi per due anni. Poi nel 1992 il presidente Borsano, travolto dagli scandali e dai debiti, aveva deciso di cederlo al gemello Tapie (anche lui deputato socialista, anche lui patron pallonaro, anche lui nei guai con la giustizia). La trattativa, conclusa nell’agosto 1992, era stata condotta da Borsano e Moggi per il Toro, dal direttore generale dell’Olympique Jean-Pierre Bernes, e dal procuratore del calciatore, Ricardo Alberto Fuica (un argentino con residenza a Miami). Prezzo ufficiale: 4,5 miliardi. Ma Vázquez a ottobre era già finito al Real Madrid per almeno 6 miliardi. E dire che soltanto un anno prima, quando l’aveva chiesto una prima volta a Moggi, Tapie era disposto a pagare sull’unghia 10 miliardi. Ora la quotazione del giocatore era scesa improvvisamente alla metà. Ma non è tutto: Tapie era a corto di liquido, e aveva proposto al Torino che aveva subito accettato un pagamento rateizzato in 18 mesi. Le ultime due rate erano di competenza di Roberto Goveani, subentrato nel frattempo a Borsano, ma il notaio torinista sostiene di averne incassata solo una, e pagata per giunta in ritardo: l’ultima, Tapie non l’avrebbe mai saldata. A questo punto scatta l’inchiesta della magistratura francese. Nel maggio 1995 arriva da Marsiglia una richiesta di

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assistenza giudiziaria (rogatoria) rivolta al Gip di Torino Ombretta Salvetti. La quale, affiancata da un ufficiale dei Carabinieri, interroga i protagonisti italiani della vicenda. Il primo della lista è Borsano, sentito il 5 giugno: «Le trattative furono fatte da me e Moggi direttamente con Bernes. Non avendo l’Olympique il contante per pagare il giocatore, il Torino calcio accettò un pagamento rateizzato, mi sembra di 18 mesi, e l’Olympique emise delle tratte [cambiali, ndr] a favore del Torino, avallate dallo stesso Bernard Tapie. Il quale pagò soltanto una parte della prima scadenza; delle altre non so dire nulla in quanto cadono sotto la gestione Goveani, presidente a me succeduto dal gennaio 1993... Nell’inchiesta nei miei confronti, in merito alla gestione del Torino calcio, ho ammesso all’Autorità giudiziaria dei pagamenti fiscalmente riservati. Nel caso di Martín Vázquez non mi risulta, anzi lo escludo, che in sede di cessione del calciatore vi sia stata una corresponsione in nero a me o al Torino». Quanto alla provvigione per Fuica, Borsano per non sbagliare largheggia: «Per un trasferimento è prassi consolidata che un procuratore prenda dal 10 al 15 per cento». Il 20 giugno tocca a Goveani: «Non ho mai sentito nulla circa una somma di 540.000 dollari versata in nero al Fuica Ricardo, a seguito della cessione di Martín Vázquez. Circa la percentuale, ritengo che il 15 per cento quale provvigione sulla vendita di un giocatore sia eccessiva, soprattutto se rapportata al valore: cioè, più è alto il valore, più bassa è la percentuale. In genere in Italia la provvigione va dal 5 al 10 per cento, pagata solitamente dal compratore. Perché la società che compera definisce l’ingaggio del giocatore con il procuratore». Fuica arriva alla Procura di Torino il 1° luglio. Avvertito «dell’obbligo di rispondere secondo verità», dichiara che per la compravendita di Vázquez «trattai con Borsano e Moggi». Poi ne racconta di tutti i colori: «Mi pare che il prezzo del giocatore sia stato pattuito in 1.200.000 dollari americani [circa 2 miliardi di lire, ndr]: deduco ciò dal fatto che il mio compenso fu di 500.000 o 600.000 dollari e che io di solito percepisco il 20% del valore del contratto. Non escludo che in realtà sia stato pagato di più senza che io lo sapessi, quello che hanno fatto le società fra di loro non è a mia conoscenza. Ebbi problemi a percepire la mia percentuale, infatti soltanto una parte del denaro mi fu versata subito, circa 400.000 dollari, mentre per il resto inizialmente Tapie mi rilasciò un documento avallato da lui in forma personale e io per esigere il mio credito dovetti [agire] per le vie legali presso il tribunale di Marsiglia l’azione la feci per 100.000 dollari e fui poi pagato a rate... Io non percepisco una cifra particolarmente elevata rispetto agli usi in questo campo, per i giocatori famosi». Dunque, volendo dar retta a Fuica, il 20 per cento di 1.200 sarebbe 500 o 600. Purtroppo per lui, la matematica è un’altra cosa: se davvero Fuica ha percepito una mediazione di 600 mila dollari pari al 20 per cento dell’operazione, non c’è che una spiegazione: per Vázquez, Borsano e Moggi hanno pattuito con Tapie almeno 3 milioni di dollari, circa 5 miliardi di lire. Se poi la mediazione di Fuica era come dice Borsano soltanto del 15 per cento, il prezzo sale a 4 milioni di dollari, oltre 6 miliardi. In ogni caso, i 4 e mezzo dichiarati sono di molto inferiori alla realtà. E le domande ai protagonisti su eventuali pagamenti in nero indicano che la magistratura marsigliese nutre forti sospetti in tal senso. A questo punto il giudice torinese dovrebbe interrogare anche Moggi. Ma stavolta Lucianone preferisce non farsi vedere di nuovo nei corridoi del tribunale: dopotutto è già il direttore generale della Juventus. Così, al termine di un’estenuante trattativa con i magistrati, se la cava inviando una smilza memoria di sette righe dattiloscritte, elaborata dai suoi avvocati. Memoria si fa per dire, visto che Moggi ha un vuoto di memoria e non ricorda quasi niente (a meno di tre anni di distanza dai fatti): «Ricordo che all’epoca in cui ero alle dipendenze del Torino calcio, venne ceduto il predetto giocatore [Martín Vázquez, ndr] alla squadra di calcio Olympique di Marsiglia. Nell’occasione, per quanto a mia conoscenza, i rapporti sono stati regolari, e non sono assolutamente al corrente di versamento di somme non contabilizzate al giocatore o ai suoi incaricati. Al proposito, non

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rammento particolari degni di nota nella trattativa o negli interventi del procuratore del giocatore, Fuica. Con osservanza, Luciano Moggi». Il giudice di Torino trasmette ai colleghi di Marsiglia la documentazione raccolta. In definitiva, quanto abbia davvero fruttato la vendita di Martín Vázquez al termine della trattativa gestita dal duo Borsano-Moggi, e se per caso qualche banconota sia rimasta attaccata alle dita di qualcuno dei protagonisti sotto forma di fondi neri, resterà per sempre un mistero. 20 - continua Dagospia 12 Giugno 2006

Lucianone e lo scandalo Lentini

Nell’estate del 1992 la città di Torino è scossa dalle pubbliche proteste dei tifosi granata. Il presidente Borsano dopo un lungo tira e molla fra Juve e Milan che si contendono a suon di miliardi il gioiello del Toro Gianluigi Lentini, dichiarato incedibile fino al giorno prima cede alle lusinghe del craxiano di Arcore e conclude l’affare della sua vita. Lentini passa al Milan per 22 miliardi ufficiali, più una decina di miliardi che Berlusconi (tramite l’amministratore delegato milanista Adriano Galliani) gli versa in nero su un conto estero. Ma questo lo si scoprirà soltanto un anno dopo, in piena inchiesta sul Torino calcio. Ma dallo scandalo Lentini sempre nel 1993, e sempre dalle confessioni di Gian Mauro Borsano emerge un’altra storiaccia losca che dovrebbe far rizzare i capelli anche ai giudici sportivi. I quale, invece, come al solito, fingono di essere calvi. È il marzo 1992. L’onorevole Gian Mauro Borsano è a corto di soldi, con le sue aziende sull’orlo del fallimento. Decide di vendere un po’ di argenteria: e gli unici pezzi pregiati sono alcuni calciatori del vivaio granata, che nel frattempo hanno fatto strada in prima squadra. Il più ambìto dal mercato è, appunto, Gianluigi Lentini. Borsano lo promette al Milan, che lo vuole a tutti i costi. Pare che Bettino Craxi in persona tifoso del Torino, ma soprattutto sodale di Silvio Berlusconi intervenga pressantemente perché l’affare vada in porto. Rimane però da convincere il giocatore, che di muoversi da Torino, dove risiedono la famiglia e la fidanzata, non ne vuole sapere; lui preferirebbe, piuttosto, cambiare sponda del Po e accasarsi alla Juventus di Giampiero Boniperti, che gli fa una corte serrata. Ma questi, per Borsano, sono dettagli irrilevanti: abituato a comprare tutto alla maniera del suo modello Berlusconi l’onorevole presidente del Toro è convinto che prima o poi, con le buone o con le cattive, riuscirà a convincere il prezioso giovanotto. Così, fin da marzo, Borsano si impegna sottobanco con il Milan a cedergli il campione, in cambio di un sostanzioso anticipo, ovviamente in nero: 5 miliardi, o giù di lì. Ma di contratti ufficiali siamo nel mese di marzo, in pieno campionato non se ne può nemmeno parlare, il calciomercato comincerà soltanto a giugno: fino ad allora è vietata qualsiasi trattativa. Però il Milan non si fida di Borsano, e prima di sganciare quella somma illecita oltretutto non registrata, e quindi non dimostrabile di fronte a eventuali contestazioni pretende delle garanzie. E quali garanzie può offrire un finanziere sull’orlo della bancarotta? Idea geniale: Borsano offre in pegno a Berlusconi la maggioranza delle azioni del Torino calcio. Da craxiano a craxiano, tutto in famiglia. Ecco come Borsano racconterà l’incredibile vicenda ai magistrati torinesi, nell’interrogatorio del 13 gennaio 1994: «Il pegno venne dato perché in quel periodo di tempo il contratto [per la cessione di Lentini al Milan, ndr] non poteva essere concluso secondo la regola della Federazione. Il pegno era una garanzia a che, se non si fosse concluso il contratto, io avrei dovuto restituire il denaro preso in nero. Il denaro mi era stato dato in nero nel marzo del 1992. Ne avevo bisogno urgente, credo per

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un rientro in banca. Io avevo proposto il pegno sulle azioni della Gima [la piccola holding delle decotte società borsaniane, ndr]. Ma Galliani non le volle, non ritenendole garanzie sufficienti. Io feci forti pressioni perché Berlusconi comprasse il Torino calcio. Lo dissi a Galliani e forse anche a Berlusconi». Ma quelli non ne volevano sapere, così si optò per la formula delle azioni in pegno: «Le azioni del Torino calcio, nella misura della maggioranza (non ricordo l’esatta quota, se 51 o 60 per cento) furono depositate in pegno presso un notaio di Milano, scelto dal Galliani. Io mi recai da questo notaio, di cui ora non ricordo il nome. La mancanza di azioni in mano mia è attestata dal mancato deposito delle azioni presso la sede sociale prima di un’assemblea... Dal notaio venne redatta una scrittura (non so se a scriverla fu il notaio, o Galliani, o l’avvocato Cantamessa che era con noi presente). Questa scrittura dava atto del deposito delle azioni. Ma quella scrittura faceva le veci della garanzia reale. Forse, anzi, era proprio una procura a scrivere il pegno sulle azioni. L’episodio avvenne, se ben ricordo, nel marzo 1992. Presenti alla riunione furono Moriondo [un dirigente granata, ndr], Cantamessa e Galliani». Di questa cessione della maggioranza azionaria del Torino a un’altra società di serie A (il Milan appunto), Borsano dice di aver parlato «con l’avvocato Franzo Grande Stevens » (il celebre civilista molto vicino a casa Agnelli), «con Giampiero Boniperti» (quando gli comunicò che per Lentini si era già accordato con il Milan), e «forse con Moggi». Chissà se Lucianone, forse informato, trovò qualcosa da ridire per quell’incredibile iniziativa scandalosa e delinquenziale del suo presidente, il quale arrivava a consegnare la maggioranza azionaria di una società di serie A a unaltra società di serie A, il Milan, commettendo così un illecito sportivo gravissimo, visto che i due club erano antagonisti nello stesso campionato. E per alcuni mesi, Berlusconi controllò di fatto il Milan e il Torino, che in teoria avrebbero dovuto essere squadre rivali: autorizzando così ogni possibile sospetto sulla piena regolarità degli scontri diretti e dell’intero campionato (anche se Borsano esclude «che in qualche misura il possesso delle azioni abbia interferito con l’esito delle partite con il Milan da parte del Torino calcio: non esiste patteggiamento sulle partite»). Nelle pur blande leggi del calcio italiano, c’è l’ovvia norma che fa espresso divieto di possedere quote azionarie, anche di minoranza, di più di una società impegnata nello stesso campionato, prevedendo in tal caso perfino la revoca dello scudetto o la retrocessione d’ufficio. Ma non risulta che Lucianone, “forse” informato, abbia “forse” ostacolato il gravissimo illecito messo in atto dal suo presidente. Né risulta che Moggi abbia obiettato alcunché quando Borsano lo informò – senza “forse” – che il prezzo pagato dal Milan per Lentini era ben superiore a quello dichiarato: non 22 miliardi, ma 10 in più. E cioè: i 5 dell’anticipo di marzo (in nero), più altri 5 alla conclusione del contratto in luglio (sempre in nero). «Di certo Moggi lo sapeva», dichiara infatti l’ex presidente granata ai magistrati, «pur non conoscendo l’esatta entità del nero». Ma Lucianone è un uomo di mondo: evidentemente, per lui anche quell’“arrotondamento” era ordinaria amministrazione. Il curriculum di prodezze illecite – a livello sportivo o penale – accertate dai magistrati torinesi a carico di Moggi direttore generale del Torino è impressionante. Lucianone reclutava squillo per “ammorbidire” gli arbitraggi, organizzava una tratta di finti giocatori per coprire fondi neri, ricorreva alle false fatture nell’acquisto di giovani calciatori per occultare altre operazioni illecite, si faceva pagare l’affitto con denaro extracontabile ricavato dalla vendita di biglietti omaggio... E non basta ancora. Nelle agende del ragionier Matta vengono trovati gli appunti sui compensi “in nero” pagati ai giocatori del Torino, denaro consegnato a mano in contanti dal contabile del Toro ai vari calciatori granata, che poi provvedevano a versarlo sui rispettivi libretti al portatore accesi presso la Banca Brignone, dove ricevevano anche gli stipendi ufficiali. «Tutti i calciatori più importanti del Torino», dichiara il Matta, «hanno usufruito di premi non ufficialmente registrati a bilancio». Il

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denaro proveniva dal famigerato conto “Mundial”, gestito dallo stesso Matta con un libretto al portatore sulla Banca Brignone. Ma non erano solo i calciatori a ricevere dalla società granata denaro “nero”. Riceveva denaro occulto anche un caro amico di Lucianone: «Una erogazione riservata», racconta Matta ai magistrati il 6 novembre 1993, «era al colonnello Tronco. Era un amico del Moggi e venne poi assunto con compenso in parte riservato, quale osservatore. Prima era nell’Esercito italiano». Chissà come “osservava” bene i calciatori, l’ex colonnello dell’Esercito amico di Lucianone; chissà quanti campioni avrà segnalato, per giustificare quei compensi in nero... Del resto, Moggi di amici ne ha sempre avuti tanti. Per farli contenti, a Torino, aveva a disposizione un congruo pacchetto di biglietti e abbonamenti omaggio, a seconda dell’importanza dei destinatari. Luciano Faussone, responsabile dal 1978 della biglietteria del Torino, rivela ai magistrati il 23 novembre 1993: «L’assegnazione degli abbonamenti omaggio viene effettuata su richiesta di alcuni dirigenti: il presidente Borsano e il direttore generale Moggi». I nominativi, autorità o semplici amici dei suddetti, «mi pervengono oralmente o con un foglietto scritto. Anche se gli abbonamenti omaggio non possono essere messi in vendita, è prassi che da anni la società venda tali abbonamenti...». Quisquilie, queste ultime, rispetto ai tanti guai giudiziari collezionati da Lucianone in una vita di duro lavoro. L’oblazione per i giocatori fantasma, che gli ha risparmiato la macchia nera sulla fedina penale, e la pena patteggiata per reati fiscali, vanno ad aggiungersi a due antichi peccatucci. Il 25 febbraio 1977 Moggi rimediò una condanna a 30 mila lire di ammenda dal pretore di Civitavecchia per violazione dei limiti massimi di velocità. Il 10 novembre 1982, la Corte d’appello di Roma lo condannò con sentenza irrevocabile a 4 mesi – condonati – per il reato di omicidio colposo (probabilmente in seguito a un incidente d’auto mortale). Tutti precedenti penali che fanno di Lucianone un pregiudicato a tutti gli effetti, e che potrebbero costargli caro in caso di nuove condanne. 21 - continua Dagospia 13 Giugno 2006

CAPITOLO IV. IL PADRE, IL FIGLIO E LO SPIRITO SANTO

Il gioco delle tre carte

L’ingaggio-parcheggio di Moggi da parte della Roma, nel luglio 1993, è preceduto da una bufala. Sui giornali, a giugno, si legge che Lucianone è il nuovo direttore generale della Fiorentina. Strano, molto strano: è vero che deve solo parcheggiarsi per un annetto, in attesa di passare alla Juventus; ma la Fiorentina, al termine del campionato 1992-93, è retrocessa in serie B. Eppure sembra proprio vero, dal momento che l’ineffabile ex ferroviere conferma la falsa notizia: «È vero che non c’è ancora la firma, ma una stretta di mano vale più di un contratto... Ho scelto Firenze perché la Fiorentina non vale la B. Con i Cecchi Gori [proprietari della squadra, ndr] abbiamo piena comunità [sic!] di intenti: riporteremo la squadra in serie A». Dopo la Juve, la Lazio, il Napoli, il Torino, ora Lucianone si scopre tifosissimo della Fiorentina, e annuncia che ne sarà il salvatore. Ma nel giro di poche settimane volta gabbana, e passa alla Roma, nonostante la stretta di mano che vale di più di un contratto.

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Queste giravolte sono la traduzione pratica delle sinergie e delle flessibilità così come le intende Moggi. Il grande maneggione pallonaro si muove dietro le quinte calcistiche alla maniera pirandelliana: uno-nessuno-centomila, oppure come un esperto del gioco delle tre carte. Qualche tempo prima, per esempio, mentre ufficialmente dirigeva il Torino, aveva brigato per riportare Maradona al Napoli. E a fine agosto cioè un mese dopo essere passato alla Roma verrà sorpreso a trafficare con il suo amico procuratore Riccardo Sogliano per portare l’attaccante Paolo Monelli nella squadra dell’Entella. È sempre così: mentre ufficialmente lavora per qualcuno, Moggi segretamente lavora anche per qualcun altro. E non c’è niente di contraddittorio: infatti, a suo modo coerente, Lucianone al di là delle cariche lavora sempre e solo per se stesso. E non ne fa mistero. La notizia del ritorno di Moggi alla Roma suscita un vespaio di polemiche. La società giallorossa ha di fatto due padroni, il palazzinaro Pietro Mezzaroma e l’industriale Franco Sensi. Quest’ultimo apprende dell’ingaggio di Moggi deciso da Mezzaroma a cose fatte. Le tensioni fra i due esplodono in guerra aperta: «Mezzaroma non può decidere se io non sono d’accordo», tuona Sensi, «avevamo un patto che non è stato rispettato!». Anche il direttore sportivo romanista, Emiliano Mascetti, è stizzito: «È una scelta che non capisco e che preferisco non commentare: neanch’io ne sapevo niente». Ma cosa fatta capo ha, e Lucianone se la ride: la consulenza romana per meno di un anno gli porta in tasca poco meno di un miliardo. Così lui, generoso e altruista com’è, lancia una campagna per i disoccupati del calcio: «I giocatori disoccupati stanno crescendo, fra poco arriveranno a 500-600... Ma non scandalizziamoci, tutto tornerà nella norma solo quando la crisi economica del Paese finirà: in fondo, il calcio è lo specchio che riflette il problema della disoccupazione sociale». Poche e meditate parole di un ex ferroviere miliardario con aspirazioni da statista... Il campionato della Roma moggizzata incomincia male. A ottobre Mezzaroma vuole già cacciare l’allenatore Carlo Mazzone. «È tutto in mano a Moggi, che dovrà scegliere un nuovo allenatore e dei rinforzi», scrivono i giornali. Ma l’altro presidente, Sensi, difende l’allenatore, e «diventa pallido solo a sentire il nome di Moggi». Mazzone si arrabbia, non ci sta a fare il capro espiatorio della squadra che va male; allora interviene Lucianone, che sfodera il suo cipiglio del padreterno: «Il nostro allenatore non è in discussione, ma deve stare calmo e soprattutto zitto». Il 15 ottobre arriva a Roma anche un altro Moggi: il figlio di Lucianone, il ventiduenne Alessandro. La squadra giallorosa non c’entra, Moggi junior approda nella capitale per sostenere degli esami molto particolari: quelli necessari per l’iscrizione all’Albo dei procuratori sportivi. Già, perché il rampante rampollo di papà Luciano sta per entrare anche lui nel mondo del calcio: nonostante la tenera età, farà il manager, cioè il professionista che cura gli affari miliardari dei calciatori. In fila per quello stesso esame ci sono anche avvocati e commercialisti. Ma Moggi junior non si impressiona, e da vero enfant prodige supera la prova di slancio. Poco importa se gli altri esaminandi, invidiosi, commentano: «E te pareva che bocciavano proprio lui!». Il figlio di Lucianone diplomato procuratore non ha neanche il tempo di fare l’apprendistato: decine di calciatori sono subito pronti ad avvalersi della preziosa assistenza del rampollo del potentissimo padre. Così la ragnatela affaristica della ditta Moggi si allarga ancora di più. Il conflitto di interessi non potrebbe essere più macroscopico: da dirigente di grandi club di serie A (prima la Roma, poi la Juve), Moggi senior tratterà con Moggi junior ingaggi e trasferimenti di giocatori. Mai visto niente del genere nell’intera storia del calcio. A novembre, la guerra intestina tra Mezzaroma e Sensi si risolve con la vittoria del secondo. Il palazzinaro si fa da parte, e Sensi diventa il padrone unico della Roma. «Tempi cupi per il Re del mercato», scrive un giornale, «Moggi, al termine del campionato, dovrà lasciare la Roma. Anche perché gli contestano di aver ceduto Grossi in prestito al Bari per due lire».

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Allora Lucianone mette in campo le sue armi migliori, e sulle prime riesce ad ammansire Sensi e a stabilire con lui una qualche intesa. Durerà poco, comunque, anche perché il presidente romanista ignora che Moggi sta solo contando i giorni che lo separano dall’approdo in casa Juve. Le voci del trasloco di Lucianone alla corte degli Agnelli si fanno più insistenti all’inizio del 1994. Al punto che un gruppo di tifosi juventini espone allo stadio Delle Alpi un eloquente striscione anti-Moggi: «No ai granata e ai mercenari senza onore». Così l’ex ferroviere, che è un gran bugiardo, si affretta a dichiarare: «Non ho mai avuto nessun contatto con la Juve. Ho un contratto con la Roma e intendo rispettarlo. Evidentemente a Torino c’è qualcuno che mi vuole male». Mentre se ne sta in riva al Tevere, Lucianone fa già la spola con Torino. Ma la Juve non c’entra ancora: c’entra la Procura della Repubblica, che gli ha messo gli occhi addosso nell’inchiesta sul malaffare della società granata. Intanto, a Napoli, il pentito di camorra Pietro Pugliese racconta la sua verità del presunto scudetto venduto da Maradona & C. alla camorra. Le rivelazioni del pentito finiscono sui giornali, ma Lucianone cade dalle nuvole: «Nel calcio ci sono cose che si sanno e cose che non si sanno. Io di questa storia non so niente». Il trasloco di Moggi dalla Roma alla Juventus, nella primavera del 1994, è un altro capolavoro dell’ex ferroviere. Fin dal dicembre 1993, nella veste di consulente giallorosso, Moggi sta trattando l’ingaggio del centrocampista portoghese Paulo Sousa, al quale è interessata anche la Juve. A metà aprile, colpo di scena: il giocatore portoghese firma per la squadra bianconera. La reazione del presidente romanista è velenosa: «O Moggi è un incapace, oppure... Era da dieci giorni che gli avevo detto: vai a Lisbona e firma il contratto per Sousa! O si è fatto fregare, oppure c’è sotto qualcosa...». Altri pettegolezzi riguardano il passaggio di Ciro Ferrara dal Napoli alla Juve, a dispetto del lungo corteggiamento da parte della Roma. Allora Lucianone prende la palla al balzo: attribuisce a Sensi una mancanza di fiducia, e previa sceneggiata di lesa maestà rassegna le dimissioni. Come è andato davvero il caso Sousa lo racconta da Lisbona il procuratore del giocatore, José Veiga, confermando che Moggi, nel trattare Paulo per la Roma, ha volutamente tirato le cose in lungo favorendo la Juve: «La Roma fu la prima a interessarsi a Sousa. I contatti, che risalgono a dicembre, li ho tenuti con Moggi. Da tre mesi gli dicevo: Chiudi la trattativa, ché ci sono altre squadre interessate, la Juve, il Parma. Ma lui mi rispondeva: Aspetta: se domenica prossima battiamo il Lecce, arrivo e firmo... Se domenica prossima battiamo il Cagliari... Se domenica prossima.... Rinviava sempre, al punto che Sousa e io non ne potevamo più. Finché ho telefonato alla Juventus, e abbiamo firmato alle stesse condizioni». Lucianone, che ha preso due piccioni con una fava (passa alla Juve come previsto portando in dote ai nuovi padroni il fuoriclasse portoghese che ha sottratto alla Roma facendo il doppio gioco), non si scompone: «Non ci vedo niente di scandaloso se altri si sono infilati in un affare che la Roma poteva fare o non fare». Per tentare di salvare le apparenze, entra in scena un amico di Lucianone, Dario Canovi, il procuratore italiano di Sousa, che dichiara: «Io so che lo Sporting Lisbona [la squadra di Sousa, ndr] ha obbligato il giocatore ad andare a Torino. Infatti gli hanno detto: O firmi per la Juve, o resti con noi...». È sempre bello avere degli amici. Più prosaico l’ex calciatore Aldo Agroppi: «Questo Moggi è furbissimo: ho capito che sarebbe andato alla Juve quando i bianconeri hanno comprato Sousa». Anche gli sviluppi della carriera di Sousa in maglia bianconera la dicono lunga sulla caratura umana e professionale dell’ex ferroviere di Monticiano. Approdato alla Juve insieme a Lucianone, il giocatore portoghese lascia il suo procuratore Canovi e entra nella scuderia del procuratore Moggi junior; poi, un bel giorno, decide di cambiare ancora, e affida la rappresentanza dei propri interessi

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calcistici a un altro procuratore, Giovanni Branchini. Nel 1996 la Juventus (cioè Moggi senior) si libera di Sousa (che non è più nella scuderia di Moggi junior) vendendolo al Borussia Dortmund. «Sono stato spremuto e buttato via: mi sento tradito... Alla Juve non c’è umanità, contano solo gli affari», dichiarerà il giocatore, precisando: «Certo, se restavo nel giro Moggi, anziché passare al procuratore Branchini, forse la Juve non mi avrebbe trattato in questo modo». Pronta la replica di Lucianone faccia tosta: «Queste dichiarazioni di Sousa dimostrano che abbiamo fatto bene a cederlo». 22 - continua Dagospia 14 Giugno 2006

L’arrivo di Lucianone alla corte di Umberto Agnelli, nella primavera 1994, è un’apoteosi di ipocrisia. Siccome è coinvolto nello scandalo granata delle sexy-hostess per gli arbitri, la società bianconera è in grave imbarazzo: come si fa a nominare direttore generale della Vecchia Signora un personaggio accusato di avere organizzato un giro di squillo per corrompere alcuni arbitri? Come può Casa Agnelli assumere un dirigente sotto inchiesta per favoreggiamento della prostituzione? Oltretutto, il repentino trapianto di un personaggio come Moggi potrebbe provocare una crisi di rigetto da parte della tifoseria juventina. E allora, avanti con la strategia dell’ipocrisia. Moggi è congelato, resta in freezer per qualche mese. Ufficialmente, non è un dirigente della Juve. In realtà, ne pilota la nuova campagna acquisti da un ufficio nella sede della società, in piazza Crimea, fin dal mese di marzo, quando viene annunciata la prossima partenza di Giampiero Boniperti e Giovanni Trapattoni. Formalmente, a Torino, l’ex ferroviere plurinquisito non risulta; nei fatti, è ben presente e attivo in tutto il suo splendore trafficone. Un clandestino a bordo. «All’inizio è rimasto defilato, come i parenti che non si vogliono far conoscere agli ospiti: da piazza Crimea non è mai partita una riga ai giornali per presentarlo ufficialmente. Gli hanno inventato una carica quasi incomprensibile, procuratore area sportiva, ma per certi personaggi non è mai una questione di etichette» . Però anche la pazienza di Lucianone ha un limite, così presto comincia a scalpitare per mettere fine a quell’imbarazzante condizione di clandestinità. E lo fa servendosi, ancora una volta, dell’amico Aldo Biscardi: il 18 giugno, in una delle prime puntate del Processo ai Mondiali d’America, direttamente dagli studi di New York. Con il consumato servilismo che lo coglie ogni qual volta nomina Moggi, l’Aldone nazionale si scappella all’entrata in studio di Moggi: «Ecco, arriva qui da noi Luciano Moggi, che è passato alla Juventus!». Sorriso dell’ospite, compiaciuto per lo scherzetto che sta per giocare alla schizzinosa Casa Agnelli: non ne può più di passare dall’ingresso di servizio, vuole entrare dalla porta principale, e lo fa sapere alla sua maniera. «Moggi è il nuovo organizzatore della Juventus!», urlacchia Biscardi; Lucianone accenna addirittura a un inchino. Ancora Biscardi, ormai prossimo all’orgasmo: «Dino Baggio l’abbiamo appena visto giocare nell’Italia, è un giocatore importante! Adesso che Moggi è alla Juve, se lo terrà ben stretto!». Lucianone se la ride soddisfatto, missione compiuta. Dalla Juventus arriva una smentita patetica: «Il signor Moggi non collabora con noi nemmeno a livello ufficioso». Nei giorni successivi i giornali pubblicano una fotografia della tribuna d’onore della partita amichevole Livorno-Juventus, che ospita in bella mostra Marcello Lippi (nuovo allenatore della Juve al posto di Trapattoni), seduto a fianco di Moggi, dell’autista-consulente Galletti, e di Andrea Orlandini (osservatore e amico di

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Lucianone, anche lui ingaggiato dalla società bianconera). Si parla addirittura del prossimo arrivo alla Juve di Luigi Pavarese (ma almeno questa sciagura, al già glorioso club juventino, verrà risparmiata). In quegli stessi giorni, come se non bastassero le accuse della magistratura, Moggi è nell’occhio del ciclone per lo strascico di un altro scandalo che si è portato su fin da Roma. Franco Sensi, convinto di aver acquistato il difensore Ciro Ferrara dal Napoli, ne ha dato l’annuncio: peccato per lui che il difensore napoletano finisca invece alla Juve al seguito del suo amico Moggi. Il presidente romanista, già beffato da Lucianone nella faccenda Sousa, e adesso mazziato dal medesimo con lo scippo di Ferrara, minaccia fuoco e fiamme, denuncia le scorrettezze patite, chiede l’intervento degli organi competenti contro l’infedele consulente. Ma la questione finisce lì. Qualche mese più tardi, alla chetichella, Moggi verrà finalmente iscritto nei ruoli della società bianconera: direttore generale. E, di conseguenza, diventerà frequentatore senza veli della tribuna d’onore juventina, dove lo si vedrà dialogare alla pari con i fratelli Agnelli e con tutti gli altri Vip. Nel 1994, appena entrato nel sancta sanctorum di piazza Crimea, Moggi può contare su un collaboratore in più. Infatti ha appena lanciato il figlio più giovane, Alessandro, che dopo l’esame romano è pronto per il grande salto. Perché? Semplice: Lucianone ha capito che il mercato in cui cominciò a trattare negli anni Sessanta non esiste più, il potere è ormai nelle mani dei club e soprattutto dei procuratori, che gestiscono giocatori quotati decine di miliardi. In sintesi: tanti miliardi con poca fatica. L’importante è gestire un buon portafoglio di giocatori di qualità, se possibile giovani; percentuali garantite, e sullo sfondo lui, il grande manovratore. Alcuni giocatori della Juventus si affidano subito a Moggi junior: il difensore Mark Iuliano, il portiere Morgan De Sanctis, i centrocampisti Antonio Conte e Alessio Tacchinardi... Così i rinnovi contrattuali, le cessioni, i premi e quant’altro resteranno tutti in famiglia: saranno oggetto di serrate trattative fra Moggi junior (nell’interesse dei giocatori bianconeri) e Moggi senior (nell’interesse della società juventina). Interessi contrastanti eppure convergenti nella premiata ditta Moggi & Moggi, che incasserà da entrambe le parti. Il connubio affaristico incestuoso di Moggi padre e figlio è uno spettacolo indecente. L’ex attaccante juventino Fabrizio Ravanelli, ceduto a una squadra inglese, sente nostalgia dell’Italia, e magari della Juve? Ecco che il giocatore liquida il suo procuratore Beppe Bonetto e passa nella scuderia di Moggi junior, cioè del figlio del direttore generale della Juve che è anche il padrone del mercato. Il centrocampista bianconero Alessio Tacchinardi nomina suo procuratore Moggi junior, poi esprime il desiderio di lasciare la Juventus passando a un’altra squadra; a quel punto interviene Moggi senior che ordina: «Tacchinardi dalla Juve non si muove!», e infatti il cliente della scuderia di Moggi junior non si muove. Poi ci sono i giocatori di altre squadre che ambiscono a farsi ingaggiare dalla Juventus diretta da Moggi senior, e per realizzare quel sogno prendono la scorciatoia: nominano loro procuratore Moggi junior è il caso del giocatore del Napoli Fabio Pecchia, e del difensore della Roma Amedeo Carboni. Quella del procuratore, del resto, è una figura ambigua e controversa, che verrà così tratteggiata dal presidente dell’Associazione calciatori Sergio Campana: «Sul conto dei procuratori se ne sentono e se ne leggono di tutti i colori. Come sindacato siamo stati i primi a protestare, e a chiedere e ottenere un Albo, con tanto di nomi e cognomi... Sbaglia la Federcalcio a non regolamentare questo fenomeno: i procuratori avrebbero l’obbligo di presentare alla Federcalcio l’elenco dei loro assistiti, ma chi se ne frega... Sbagliano le società a fare le vittime dopo averli blanditi e usati. Ma sbagliano soprattutto i giocatori: il procuratore dovrebbe essere colui che fornisce assistenza tecnica per redigere un buon contratto, non colui che trova, o addirittura sceglie,

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la squadra». Ma il procuratore Moggi junior e il direttore juventino Moggi senior del sindacalista Campana se ne infischiano: cosa sono questi scrupoli e formalismi, al cospetto di percentuali miliardarie?! Certo, secondo le malelingue Moggi junior sarebbe solo un prestanome di Moggi senior, ma che importa? Ciò che conta è il portafoglio. Nella sola stagione 1997-98, il figlio di Lucianone tutela gli affari miliardari di decine di stelle e stelline pallonare, nelle società più disparate e nei ruoli più diversi. Portieri: Giovanni Cervone (Roma) e Alessandro Cesaretti (Ancona). Difensori: David Balleri (Sampdoria), Juri Cannarsa (Pescara), Amedeo Carboni (Valencia), Francesco Colonnese (Inter), Salvatore Fresi (Inter), Fabio Galante (Inter), David Giubilato (Avezzano), Gianluca Grassadonia (Cagliari), Duccio Innocenti (Lucchese), Stefano Mercuri (Torino), Vittorio Tosto (Salernitana). Centrocampisti: Massimiliano Allegri (Napoli), Raffaele Ametrano (Genoa), Marco Giandebiaggi (Verona), Giuliano Giannichedda (Udinese), Giuseppe Giannini (Lecce), Giovanni Piacentini (Atalanta), Alessio Pirri (Salernitana). Attaccanti: Francesco Totti (Roma), Alfredo Aglietti (Verona), Christian Biancone (Lucchese), Lampros Choutos (Roma), Federico Giampaolo (Genoa), Francesco Marino (Reggina), Roberto Muzzi (Cagliari), Roberto Stellone (Lucchese). Eccetera eccetera. Logico che papà Lucianone sia orgoglioso dell’intraprendente figliolo: «Fin dal primo giorno ho detto a Alessandro che avrei messo in difficoltà la sua immagine. Ma trovo che, se un ragazzo ha una inclinazione, è giusto che la debba seguire; respirando calcio fin dalla nascita, ed essendoci portato, Alessandro ha deciso di provarci... Io continuo a tormentarlo perché studi, ma non posso negare che mio figlio di pallone ne capisce: ha intuito, vede il talento nascosto in un ragazzino. E se suo padre può insegnargli qualcosa, è la noncuranza verso le insinuazioni delle persone piccole». Le insinuazioni delle persone piccole cioè il macroscopico conflitto di interessi rappresentato dai due Moggi, sporadicamente denunciato da qualche voce solitaria sono uno scandalo reso possibile dalla tacita connivenza della Federcalcio, il cui presidente al momento, e per puro caso è Luciano Nizzola, l’amicone di Lucianone. Il legame fra i due lo si è visto risale ai primi anni Ottanta, quando erano insieme alla guida del Torino. «Legame fa pensare a qualcosa di oscuro, e invece tra me è Nizzola è tutto chiaro: c’è una grande amicizia, siamo veri amici, ci stimiamo, abbiamo lavorato assieme», puntualizza Lucianone con garbo andreottiano. E chi ha contribuito in modo decisivo, nell’autunno 1996, a insediare Nizzola al vertice della Federcalcio? Naturalmente Moggi, direttore generale della Juventus. Un’elezione che secondo alcune malelingue Lucianone avrebbe favorito esercitando pressioni sulle varie società «promettendo un giocatore a una, e un favore arbitrale a un’altra», e salutata dall’ex ferroviere con comprensibile entusiasmo: «Nizzola è un uomo di grande esperienza. La sua indipendenza si chiama equità. È la persona giusta alla guida della Federcalcio. Io e lui siamo amici, ma tengo a precisare che non gli ho mai chiesto un favore». Da quel giorno, sul calcio italiano regna e governa una nuova Santissima Trinità: il Padre Lucianone, il Figlio Alessandro, e lo Spirito santo Nizzola. «Moggi ha approfittato con la scaltrezza che gli è propria di una situazione poco chiara, ha creato una situazione di fatto che viene più o meno accettata da tutti», dice un direttore sportivo che in passato ebbe rapporti conflittuali con lui. Ma lo dice a mezza bocca, dietro la garanzia dell’anonimato: è meglio non esporsi troppo, quando c’è di mezzo Lucianone. Il tandem formato dai due Luciani idealmente ricostituitosi ai massimi livelli del calcio nazionale farà parlare di sé perfino in relazione al commissario tecnico della Nazionale azzurra. Nel dicembre 1996 Nizzola licenzia Arrigo Sacchi e lo rimpiazza con il più malleabile Cesare

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Maldini: secondo le solite malelingue, il suggeritore dell’avvicendamento sarebbe stato Lucianone. In vista dei Mondiali di Francia ‘98 «si parla di un tutore» da affiancare all’allenatore. E chi sarebbe questo tutore di Maldini? «Si fa il nome di Luciano Moggi, che è in ottimi rapporti con Nizzola... Moggi sarebbe pronto, la Juve lo concederebbe per due mesi alla Federcalcio. Tuttavia Maldini non può accettare una intrusione così pesante... Moggi inoltre è un dirigente della Juve e si ipotizza che la mossa non sia gradita a tutti gli altri club». Il dirigente federale Walter Mandelli commenta: «Moggi di mestiere compra e vende i giocatori: chi convincerà i giocatori e l’opinione pubblica che dietro alle scelte di Maldini non ci sono gli interessi di Moggi sul mercato? Il sospetto sarebbe di casa». Infatti... 23 - continua Dagospia 15 Giugno 2006

Lucianone e la maga

Il 6 settembre 1993 Lucianone è, da alcune settimane, consulente della Roma, avendo lasciato il Torino calcio da sei mesi. Grande è dunque la sorpresa nelle redazioni quando arriva una notizia che riguarda ancora il Moggi granata: un mese prima, sei fra dirigenti e calciatori del Toro (compreso, pare, il neopresidente Goveani) sono stati interrogati come testimoni dalla Guardia di finanza di Torino su mandato della Procura presso la Pretura di Pescara. L’ordine è partito dal sostituto procuratore abruzzese Salvatore Di Paolo, che indaga su un presunto giro di partite truccate da alcuni giocatori e dirigenti del Pescara calcio. I sei interrogatori sono stati piuttosto sbrigativi, con poche domande a fotocopia. Due, in particolare: «In quali rapporti eravate con Luciano Moggi?», e «Moggi vi ha mai parlato di accordi sottobanco a proposito della partita Torino-Pescara?». Tutti e sei gli interrogati alla seconda domanda rispondono di no, e la cosa finisce lì. Si dice ma mancano le conferme che qualche domanda sull’argomento sia stata rivolta dai finanzieri allo stesso Moggi. Ma appena l’indiscrezione viene raccolta da alcuni giornali, Lucianone provvede a querelare (querele che in seguito verranno ritirate). Ma cosa c’entra lui con quelle storie di calcio marcio nella remota Pescara? Lo scandalo del Pescara calcio scoppia nel marzo del 1993, in seguito alle rivelazioni di Walter Nerone, un coraggioso giornalista del quotidiano locale Il Centro. Nerone riceve da una misteriosa fonte la registrazione di una telefonata fra l’ex allenatore del Pescara Giovanni Galeone e una parapsicologa genovese sua amica, Maria Lo Bue, alias Miriam Lebel. La Lebel, molto addentro al mondo del calcio genovese, fa da qualche anno la consulente del Pescara. Percepisce regolari (o quasi) compensi in cambio delle sue prestazioni magiche, specializzata com’è nell’attirare energie positive sulle squadre per cui lavora, assicurando loro ottimi risultati sportivi. Così è diventata la confidente di Galeone e di alcuni giocatori pescaresi. E fra un consulto e l’altro, viene a scoprire che tra i biancazzurri qualcuno gioca a perdere, in combutta con un alto dirigente della società: lei, per discrezione, lo ribattezza il Serpente, ma risulterà poi essere secondo i giudici sportivi il direttore generale della squadra pescarese Pierpaolo Marino. Ex general manager dell’Avellino e ottimo amico di Moggi, Marino è un dirigente molto promettente e quotato. La telefonata Galeone-Lebel, intercettata non si sa da chi (forse dalla stessa maga, intenzionata a vendicarsi con il Pescara che non le ha ancora pagato le sue preziose prestazioni) e finita nelle mani del giornalista Nerone, viene pubblicata integralmente dal

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quotidiano Il Centro. È databile ai primi giorni del marzo 1993, forse il 5: sicuramente dopo la partita Torino-Pescara, giocata il 28 febbraio e vinta dai granata per 3-1; e sicuramente prima del turno successivo, Pescara-Udinese 2-2 (7 marzo). Nel corso della conversazione, la maga dice a Galeone che alcuni suoi giocatori lo tradiscono da almeno un anno: nel penultimo incontro della stagione precedente del campionato di serie B (quando il Pescara di Galeone era già matematicamente promosso in A), questi avrebbero venduto la partita al Taranto, che rischiava di retrocedere in C e aveva un gran bisogno di punti. Costoro avrebbero poi continuato a vendere punti a destra e a manca anche nel successivo campionato, quello di serie A, sentendosi comunque già condannati in partenza a un’immediata retrocessione. Nelle carte dell’indagine si parla di premi-partita di 30-40 milioni versati ad alcuni giocatori pescaresi anche dopo le sconfitte: e non in assegni, ma in contanti, per non lasciare tracce. Lo scoop del Centro provoca un pandemonio. Si muove la giustizia sportiva, con l’Ufficio indagini della Federcalcio che apre subito un’inchiesta. Si muove anche il pubblico ministero Di Paolo, obbligato a indagare in seguito alle querele per diffamazione sporte dal Pescara calcio (tramite il suo presidente Pietro Scibilia), da Galeone, da Marino e dalla maga contro il malcapitato giornalista Walter Nerone. Esaminando l’intercettazione e interrogando tutti i protagonisti dello scandalo, il magistrato si convince che le partite del Pescara che puzzano di bruciato sono almeno quattro: non solo Taranto-Pescara della stagione precedente di B, ma anche Udinese-Pescara (5-2), Pescara-Fiorentina (0-2) e Torino-Pescara (3-1) della stagione in corso di serie A. Il magistrato lo dice apertamente, in una conferenza stampa, il 24 maggio 1993. In quell’occasione, rivela anche che sull’inchiesta incombe una cappa di paura e di omertà: «Alcuni indagati si sono resi protagonisti di reticenze e affermazioni inverosimili, in base alle quali qualcuno è andato molto vicino all’arresto». Il riferimento è alla maga, interrogata per dieci ore e a rischio di arresto per reticenza, la quale ha improvvisamente perso la memoria di fronte alle domande su alcuni personaggi eccellenti. Nella stessa conferenza stampa, Di Paolo aggiunge che «la magistratura deve essere molto più attenta che in passato a quel che accade nel mondo dello sport», e che questo «è il momento di agire, per evitare che si arrivi troppo tardi, come avvenuto per Tangentopoli». Infine lascia intendere che i personaggi coinvolti sono tutt’altro che pesci piccoli: «La Lebel conosce molto bene i dirigenti di mezza serie A». Il ragionamento del magistrato è elementare: per vendere una partita bisogna essere almeno in due, un venditore e un compratore. Se l’incontro Torino-Pescara del 28 febbraio era truccato, chi ha organizzato la combine per conto della società granata? I sospetti del magistrato si appuntano anche su Moggi, e non solo perché al momento dei fatti era il direttore generale del Torino nonché il mèntore di Marino. Infatti, nella telefonata registrata, la maga pare molto informata sulla carriera di Lucianone. Siamo come si è visto ai primi di marzo, proprio mentre in casa del Torino si mormora che l’arrivo di Governi al posto di Borsano potrebbe portare al siluramento del direttore sportivo Moggi. La Lebel, parlando con Galeone, avanza pesanti sospetti anche su Torino-Pescara: «Guardi che è in forse anche quella [partita, ndr] di domenica prossima [con l’Udinese, ndr], fra due giorni. Lui [il Serpente, ndr] ha già preso i suoi contatti... Comunque anche domenica scorsa [con il Toro, ndr] poteva benissimo venir fuori un pareggio. Domenica scorsa certamente al cento per cento». Subito dopo la Lebel si mette a parlare di un dirigente che somiglia tanto a Lucianone: «Guarda, ieri sera avevo una rabbia, una rabbia... Ero proprio arrabbiatissima... prima ho parlato con una certa persona all’una e mezzo, che mi ha detto che un certo direttore si è dimesso. L’ho saputo in anticipo, prima che lo sapessero i giornali. Ma l’hanno fatto dimettere: l’hanno obbligato, han detto Qui facciamo uno scandalo, o ti dimetti... Adesso loro si stanno facendo i cavoli loro e...».

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Interviene Galeone: «Addirittura sembra che lui diventi presidente il prossimo anno... L’ho sentito oggi». E la maga: «Ah, va bene, così farà quel che gli è già successo. Ah... sì, per forza, con tutti i soldi che si prende». Poco dopo, la maga torna su Torino-Pescara: «Eh... quello di domenica scorsa, per esempio: Sì, però un gol noi lo facciamo, lasciatecelo fare. Perché altrimenti è troppo sporca. Ecco, frasi di questo genere... Lui [forse il Serpente, ndr] mira a guadagnare dei soldi senz’altro. Anzi, a rubare dei soldi, non a guadagnare... perché lui ha detto: Tanto [in serie B, ndr] ci saremmo andati comunque...». Nell’interrogatorio davanti al magistrato, la parapsicologa secondo indiscrezioni avrebbe parlato fugacemente anche di Moggi. E a Lucianone si sarebbe riferita anche Tiziana Bivi, moglie del calciatore del Pescara Edy, fedelissimo di Galeone nonché suo vicino di casa: la signora Tiziana, secondo alcuni quotidiani, avrebbe inoltre scritto una lunga lettera al pubblico ministero Di Paolo, invitandolo a non occuparsi solo dei dirigenti pescaresi, ma «a interessarsi piuttosto di Luciano Moggi». E il magistrato tenta di approfondire: interroga per ben sette volte il giornalista de Il Centroautore dello scoop, e lo bersaglia di domande su Moggi. «Voleva sapere da me», conferma Nerone, «se Marino e Galeone mi avessero mai parlato di Moggi e di altri manager e dirigenti sportivi di altri club molto in vista nella serie A». Ma il giornalista, almeno su Lucianone, non ha contributi utili da offrire: riferire le voci di corridoio senza prove gli procurerebbe soltanto denunce per calunnia. Così, in settembre, il magistrato trasmette gli atti relativi alla trasferta torinese del Pescara all’autorità giudiziaria subalpina, per altri accertamenti. Ma nemmeno dagli interrogatori di dirigenti e calciatori granata emerge qualcosa di utile all’inchiesta, che alla fine verrà archiviata. La giustizia sportiva, alle prese con questo scandalo, evita di agitarsi troppo sul fronte della serie A. Si limita a scandagliare l’unica partita di B incriminata, Taranto-Pescara 2-1, e a squalificare alcuni dei protagonisti più coinvolti. Il 9 luglio 1993, a tempo di record, la Commissione disciplinare della Federcalcio accoglie per intero le richieste della Procura federale e sentenzia: 3 anni di inibizione a Pierpaolo Marino per illecito sportivo; 3 punti di penalizzazione al Pescara per responsabilità oggettiva; 2 punti di penalizzazione al Taranto per illecito sportivo presunto; 8 mesi di squalifica a Giovanni Galeone per omessa denuncia; 6 mesi di squalifica ai calciatori pescaresi Andrea Camplone, Rocco Pagano e Ubaldo Righetti per omessa denuncia. Il 3 agosto, in secondo grado, la Caf (Commissione di appello federale) conferma tutte le condanne. Almeno per quella piccola porzione di scandalo: non ci vuole un gran coraggio nel colpire una società come il Pescara, che conta come il due di picche, e il Taranto, che oltre a militare in serie B ha appena fatto fallimento. Su tutto il resto, invece, viene steso un velo di pietoso silenzio. Poscritto dello scandalo. Pochi giorni dopo le sue dimissioni dal Torino, ufficializzate il 25 marzo 1993, Lucianone Moggi è ospite d’onore in Tv, al Processo dell’amico Biscardi. Per quella puntata del programma, Biscardi è stata invitata in studio una delegazione della tifoseria pescarese e un paio di dirigenti della società per parlare dello scandalo appena scoppiato. Ma all’ultimo momento Biscardi cambia idea: quella sera, del caso-Pescara si parlerà soltanto per un paio di minuti, di sfuggita, verso la fine della trasmissione. L’indomani, i giornali ironizzano sul voltafaccia, e qualcuno scrive che Lucianone, con l’amico Aldo, è stato categorico: «Se stasera si parla dello scandalo, io mi alzo e me ne vado in diretta». Commento ironico del Centro: «Ieri sera, al Processo, hanno volato molto Aldo...». Pierpaolo Marino, benché squalificato, secondo gli almanacchi sportivi ha continuato tranquillamente a fare il direttore generale del Pescara (e poi dell’Udinese). Il giornalista Walter

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Nerone, invece, ha vinto il premio Cronista dell’anno 1994: querelato cinque volte per il suo scoop, è stato assolto cinque volte. 24 - continua Dagospia 16 Giugno 2006

CAPITOLO V LUCKY LUCIANO E LA VECCHIA SIGNORA

Lo stile Juve in salsa Moggi Perché la Juventus decide di ingaggiare un personaggio spregiudicato come Moggi? Perché gli Agnelli decidono di gettare alle ortiche il noto stile Juve per avvalersi di un personaggio chiacchieratissimo come l’ex ferroviere di Civitavecchia? La risposta sta nel fatto che la più blasonata squadra italiana da qualche tempo è in ombra, come emarginata dallo strapotere calcistico del Milan berlusconiano, e tagliata fuori dai giochi di mercato monopolizzati dalla coppia Galliani-Moggi. Lucianone è ormai l’incontrastato padrone del mercato calcistico, il supremo Mercante di giocatori, non si muove foglia che lui non voglia. E il solo modo che la società bianconera ha per ritornare in gioco è quello di comprare i servigi di Moggi, come sempre a peso d’oro. Sarcastico è il commento attribuito a Boniperti, costretto a cedere il passo a Lucianone: «Evidentemente io sono un uomo datato: la mia Juve mandava in giro il conte Cavalli d’Olivola...». Decisamente perfido quello attribuito all’Avvocato: «Anche nelle migliori famiglie dell’alta società c’è bisogno dello stalliere». Se prima le allegre gestioni moggiane avevano coinciso regolarmente con scandali (quasi tutti finiti nelle Procure della Repubblica o nelle aule di tribunale), una volta ammesso alla corte degli Agnelli Lucianone si specializza in gaffe. Ma c’è da capirlo: certi trucchetti troppo scoperti ora non sono più consentiti. Oltretutto, la famiglia Fiat è appena uscita da un brutto quinquennio di inchieste giudiziarie, che per sua fortuna non sono riuscite a varcare il portone d’oro che separa Cesare Romiti (verrà condannato per falso in bilancio) dai fratelli Gianni e Umberto Agnelli (indagati, ma quasi subito prosciolti, per mancanza di elementi diretti di accusa). Ciò che era tollerato al Napoli, o al Toro di Borsano, sarebbe del tutto inammissibile nella Juve di Umberto Agnelli e dei suoi fedelissimi. I quali, per la verità, ci terrebbero a non sfigurare all’inevitabile confronto con lo stile Juventus inaugurato proprio da Umberto Agnelli (giovanissimo presidente nei primi anni Sessanta), e poi perpetuato dal suo successore Vittore Catella (antico gentiluomo piemontese), e dalla venticinquennale gestione di Giampiero Boniperti. Ma lo stile non è acqua, e se uno non ce l’ha come il coraggio per don Abbondio non se lo può dare. Ora, tutto si può dire del ruspante Lucianone Moggi, dell’arrogante Roberto Bettega e dello scostante Antonio Giraudo (della nuova Juve rispettivamente: direttore generale, direttore sportivo, e amministratore delegato), salvo che siano dotati di stile. Infatti impiegheranno solo poche settimane, per smantellare la signorilità che pervadeva casa Juve da quasi quarant’anni. Il biglietto da visita del terzetto Moggi-Giraudo-Bettega è la immediata epurazione di tutti i bonipertiani presenti nella sede sociale di piazza Crimea. Pregato dall’Avvocato di rimanere formalmente alla guida del club almeno fino al giugno del 1994, Boniperti ha accettato con stile l’avvicendamento; o meglio, non ha capito ma si è adeguato. E all’indomani dell’ultima giornata di campionato, ha svuotato l’ufficio e ha tolto il disturbo. Negli anni, Boniperti ha portato alla Juve tali e tante professionalità che qualunque amministratore assennato se le terrebbe ben strette.

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La troika dei nuovi padroncini del vapore juventino, invece, la pensa diversamente, non vuole bonipertiani fra i piedi. Via tutti, con brutalità dal capoufficio stampa e relazioni esterne Piero Bianco, al medico sociale Pasquale Bergamo, all’ultimo dei magazzinieri. Cacciato in malo modo addirittura il massaggiatore Remino (quello che la Gialappa’s di Mai dire gol ha eletto a personaggio col nomignolo di Tranfolanti). Viene liquidato anche il ragionier Sergio Secco, grande esperto in faccende contabili e regolamentari ma viene poi richiamato d’urgenza con tante scuse quando ci si rende conto che, in piazza Crimea, non è rimasto nessuno in grado di compilare un contratto come si deve... Si salva il vice-medico sociale, Riccardo Agricola, che viene anzi promosso capo dello staff medico al posto di Bergamo. Il nuovo responsabile delle relazioni esterne è Romy Gai, assunto qualche mese prima da Boniperti con mansioni di semplice addetto-stampa e balzato come un fulmine sul carro dei vincitori. Rimane ovviamente l’avvocato Chiusano, sulla poltrona sempre più onorifica e sempre meno operativa di presidente: un po’ per il suo filo diretto con l’Avvocato e la Fiat, e un po’ perché come si vedrà questa Juve ha un gran bisogno di un buon legale. Per il resto, pulizia etnica. Via anche Dante Grassi, architetto, una vita passata alla Juve, responsabile del Centro coordinamento club dei tifosi: dopo la sua partenza, anche la politica juventina nei confronti degli ultrà cambierà radicalmente, con casini che saranno oggetto di denunce e inchieste. Il benservito ai vecchi dirigenti è condito da dichiarazioni velenose e strafottenti, nelle quali la nuova dirigenza juventina mira ad accreditarsi come depositaria della Modernità e della Buona Amministrazione, laddove i bonipertiani vengono dipinti come vecchi, ammuffiti e incapaci incapaci soprattutto nel far quadrare i bilanci. La nuova Juventus sì che ci sa fare! Per cominciare, Moggi vende subito Dino Baggio uno dei gioielli della squadra bianconera e della Nazionale per una quindicina di miliardi, al Parma. «Bella forza», commenterà con gli amici Boniperti, «anch’io sarei stato capace di far quadrare i conti così. Se avessero venduto l’altro Baggio, Roberto, avrebbero incassato anche il doppio». Moggi benché sia ancora un clandestino a bordo cambia stile come la Juve. Anche lui in peggio (ma i punti di partenza erano piuttosto distanti). Perde quei tratti umani che lo rendevano simpatico, quel suo essere caciarone, ruspante e provincialotto: il contagio di Bettega e Giraudo gli è fatale, e assume ben presto anche lui un piglio arrogante e supponente, sempre più compreso nella parte di padre-padrone-padrino di una società intoccabile che rende intoccabile anche lui (così, almeno, spera). E sempre meno attento alla dote fondamentale di ogni uomo di potere: la discrezione, la dissimulazione, il saper stare dietro le quinte. Il Lucianone juventino, appena liberato dalla clandestinità iniziale, diventerà un inguaribile iperpresenzialista, un esternatore infaticabile, un ospite fisso dei salotti televisivi che contano (e anche di quelli che non contano). A tutta prima, Moggi e Giraudo vengono accolti dalla tifoseria con cori di insulti e striscioni di dissenso: il pubblico bianconero non perdona loro la notoria fede torinista , visto che in tribuna li si ricorda ancora ai tempi del Torino di Borsano tifare sfegatati insieme, con al collo tanto di sciarpa granata, in ogni derby contro l’odiata Juve. Ma quelle contestazioni, che punteggiano le ultime sei-sette partite del campionato 1993- 94, vengono subito messe a tacere. Con quale politica, lo si vedrà in dettaglio più avanti: quel che è certo è che l’ostracismo imposto da Boniperti contro gli ultrà più facinorosi e scalmanati viene improvvisamente a cadere. La nuova Juve torna a vendergli i biglietti delle trasferte, e secondo alcuni bene informati addirittura a regalarglieli. Biglietti che gli ultrà rivendono tramite bagarinaggio a prezzo intero o anche maggiorato. Un episodio, ripreso da alcuni giornali, rende bene il senso della svolta. Nel finale del

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campionato 1993-94, un gruppo di ultrà del clan Drughi (quelli che dirigono il tifo nella Curva Scirea) aggredisce il difensore juventino Andrea Fortunato, lo insulta, lo accusa di scarso rendimento, gli tira addosso uova e pomodori. Dal gruppo si stacca un facinoroso che allunga chi dice un pugno, chi qualche ceffone, al giocatore. Fortunato è già malato di leucemia, il terribile male che lo porterà alla morte (nell’aprile 1995), ma nessuno lo sa: non lui, non i tifosi, non i dirigenti. Pochi mesi dopo, all’inizio del nuovo campionato, lo schiaffeggiatore-picchiatore verrà notato, insieme ad alcuni compari, sull’aereo ufficiale della squadra bianconera, dove ha ottenuto di viaggiare gratis per le trasferte insieme ai giocatori e ai dirigenti nella sua nuova veste di guardaspalle autorizzato dalla società. Il 13 agosto 1995 la Juventus decide di rendere omaggio alla memoria di Fortunato (deceduto quattro mesi prima) giocando con Napoli e Salernitana un torneo triangolare di beneficenza, dedicato al defunto giocatore allo stadio Arechi di Salerno. L’incasso decidono gli organizzatori sarà devoluto al Centro trapianti contro la leucemia che sta sorgendo a Perugia. I tifosi juventini e non, richiamati da quella nobile iniziativa a scopo benefico, accorrono in massa. Trentacinquemila spettatori. L’incasso è ricco: 770 milioni di lire per i biglietti venduti, altri 300 milioni per i diritti televisivi (ceduti alla Fininvest). Ma alla spartizione della somma, quel denaro si perde in mille rivoli. La Juve rivendica i diritti televisivi, che fanno parte del contratto di vendita di Roberto Baggio al Milan. E in più si scopre che Bettega, in cambio dell’adesione della squadra juventina alla benefica iniziativa, ha preteso 200 milioni a titolo d’ingaggio. A ciò si aggiungono altri 200 milioni di spese varie organizzative. Risultato: al Centro trapianti contro la leucemia di Perugia, alla fine, arrivano meno di 400 milioni. Non si è mai vista al mondo la beneficenza a pagamento, e qualche giornale lo fa notare e polemizza. «Ha fatto tutto Bottega», se ne lava le mani Umberto Agnelli, che però puntualizza: «Comunque qualcosa a Salerno abbiamo lasciato». E Bettega arriva a dirsi «amareggiato per le polemiche». Lucianone, invece, fa finta di niente. 25 - continua Dagospia 19 Giugno 2006

Il rinomato marchio Moggi impronta di sé il defunto stile della Juventus come una vernice coprente. A metà dicembre 1994 la Juve è in crisi. Gioca male, non riesce a vincere. E con chi se la prende Lucianone? Con gli arbitri, ovviamente, a futura memoria. Il pretestuoso bersaglio è il fischietto abruzzese Rodomonti, reo di una svista a danno dei bianconeri nell’incontro con il Genoa (peraltro giocato malissimo dagli juventini). Il Moggi bianconero fa subito intendere chi comanda nel calcio italiano: «Rodomonti era in area, che cos’abbia visto non si sa! Ditemi voi se non è un’ingiustizia! Ma ci faremo sentire, non possiamo tollerare che si ripetano situazioni simili a nostro danno! Domenica sera ho telefonato a Casarin [il designatore degli arbitri, ndr]: mi ha risposto che non aveva ancora visto le immagini e quindi non poteva prendere posizione». La prenderà, la posizione, Casarin: vietando a Rodomonti di arbitrare la Juve per ben tre anni. L’8 luglio 1995 l’Ufficio istruttorio dell’Autorità antitrust apre un’inchiesta sull’accordo stipulato tra la Juve moggiana e il Milan berlusconiano per «iniziative comuni nel campo commerciale e del marketing», comprese anche operazioni di promozione sui mercati orientali e di commercializzazione dei diritti televisivi per le partite amichevoli. L’Antitrust investita della vicenda da Inter, Roma e Torino, nonostante lo scontato parere pro-Juve di Nizzola sospetta che i due club detengano sul mercato calcistico una posizione dominante, violando il principio di libera concorrenza. «Non c’è niente da temere, siamo tranquillissimi», proclama Lucianone. Infatti ha

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ragione: di quell’inchiesta non si sentirà mai più parlare. Nella stessa estate del 1995 la società bianconera si distingue per un’altra bella prodezza nei confronti del suo giocatore-simbolo, scaricato anche lui come un ferrovecchio: Roberto Baggio. Per i soliti motivi di bilancio (la Juventus è ricca sfondata, ma piuttosto taccagna), Lucianone decide di vendere il fuoriclasse per un pacco di miliardi. Se ne parla da marzo, ma la Juve ha sempre smentito piccata. Ovviamente è tutto vero: Moggi ha promesso Baggio all’Inter di Moratti, ma col suo piglio da padrone delle ferriere si è ben guardato dal chiedere al giocatore se fosse d’accordo, se avesse niente in contrario, se per caso preferisse qualche altra destinazione. Quando la notizia della sua cessione all’Inter trapela sui giornali, Baggio si adombra e chiede spiegazioni. Lucianone smentisce e organizza addirittura una conferenza stampa allo stadio, dove il fuoriclasse viene accolto da un gruppo di ultrà scalmanati che lo contestano come se fosse lui a voler tradire i colori bianconeri. Finché, concluso il campionato, Moggi notifica a Baggio che verrà ceduto all’Inter. Il campione rifiuta per orgoglio e, dopo un lungo e umiliante braccio di ferro, passerà al Milan. A fine ottobre 1995, altra gaffe moggiana a strisce bianconere: per la trasferta di coppa a Glasgow, Lucianone non si perita di invitare come graditi ospiti sull’aereo della Juventus addirittura quindici procuratori di calciatori amici suoi, per un bel viaggetto tutto spesato. «Pubbliche relazioni», spiega lui ai giornalisti esterrefatti. Qualcuno ricorda le processioni di socialisti, portaborse, sicofanti e fidanzate sull’aereo del presidente del Consiglio Craxi in Cina, negli anni d’oro della Prima repubblica. Il 1996 juventino comincia alla grande. Il 7 gennaio, a Bergamo, l’arbitro Bolognino nega un rigore all’Atalanta, poi ne concede uno alla Juventus, che così vince la partita per 1 a 0. I tifosi atalantini si scatenano: Moggi e Bettega, presi a ombrellate, riescono a lasciare lo stadio scortati dalla polizia. In primavera, altre figuracce bianconere. Al teatro Regio di Torino è in programma un concerto di Luciano Pavarotti, grande tifoso bianconero; un atteso evento mondano-musicale, tutti i posti esauriti da mesi. La Juventus chiede ai responsabili del teatro di riservare alcuni palchi per dirigenti e giocatori; la richiesta è tardiva, ma trattandosi della Juve gli organizzatori fanno i salti mortali e alla fine i palchi richiesti saltano fuori. Peccato che la sera dello spettacolo quei palchi rimangano deserti: dirigenti e calciatori juventini se ne sono dimenticati, oppure avevano trovato di meglio da fare. A fine aprile, per zittire le voci di una possibile cessione del goleador juventino Fabrizio Ravanelli, Moggi è categorico: «Ravanelli è incedibile. So che è molto richiesto, ma noi non siamo così ingenui da privarci di un attaccante che sta nella Nazionale». Alla milionesima balla di Lucianone finisce per crederci perfino l’Avvocato, che dichiara: «Non mi risulta che Ravanelli sia in vendita. A meno che Moggi non faccia tutto per conto suo senza dirci niente...». È proprio così: due mesi dopo, infatti, Lucianone vende Ravanelli alla società inglese del Middlesborough. E fa tutto per conto suo senza dirci niente forse perché il procuratore di Ravanelli si chiama Alessandro Moggi... Anno nuovo, perla nuova. Nella primavera del 1997 è in programma, nella tenuta dei Roveri al parco della Mandria (dove risiede Umberto Agnelli), la sontuosa cerimonia inaugurale dei festeggiamenti targati Juvecentus, che costelleranno tutto il 1998 per celebrare il centenario della fondazione della Juventus. Davanti alla stampa di tutta Europa, sono schierati dirigenti, calciatori di ieri e di oggi, vip e uomini di cultura e di spettacolo accomunati dalla fede juventina. All’appello ne manca soltanto uno: Giampiero Boniperti, cioè colui che da giocatore e da presidente ha vinto il maggior numero di trofei, colui che da mezzo secolo è sinonimo di Juve, e che dopo l’uscita di scena è stato nominato presidente onorario insieme ai due fratelli Agnelli (il 10 maggio 1994 Boniperti è stato anche eletto europarlamentare come indipendente nelle liste di Forza Italia).

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L’assenza è così clamorosa che viene subito notata da tutti i presenti. Qualche giornalista chiede spiegazioni. Giraudo farfuglia una scusa: «Boniperti non è a Torino, è a Strasburgo, è impegnato al Parlamento europeo... Fosse stato qui, l’avremmo invitato». In realtà, il presidente onorario della Juve è a Torino: non è presente alla festa per la semplice ragione che nessuno ha ritenuto di invitarlo o meglio, qualcuno ha deciso di non invitarlo. Ma c’è dell’altro. Nella videocassetta proiettata durante la manifestazione, con i filmati dei grandi successi e dei campioni bianconeri, il periodo bonipertiano (che è anche il più florido) viene ridotto a poche e fugaci sequenze, oscurate dallo spazio smodato riservato alla Juve di Moggi-Giraudo-Bettega. L’Avvocato, questa volta, si infuria per davvero. E si indispettisce di nuovo quando apprende che la nuova dirigenza ha deciso di espellere Boniperti dalla tribuna vip, inviandogli provocatoriamente una misera tessera per il secondo anello dello stadio. Il nuovo stile Juve improntato da Lucianone sa arrivare alla pura volgarità: l’anno dopo niente più tessera omaggio per il presidente onorario Boniperti. Il quale peraltro, essendo un signore, allo stadio della Juve moggiana ha deciso di non mettere più piede. Pochi giorni dopo, nello stesso impianto Delle Alpi, si inaugura Juvecentus con una serata di sfilate di moda e partitelle fra vecchie glorie: la fiera del kitsch e del pacchiano. Accesso a pagamento, si capisce. La vedova Scirea viene chiamata in campo per ricordare la figura di quel grande campione che fu suo marito (scomparso anni prima in un tragico incidente stradale); mentre la signora parla al microfono, sul maxischermo dello stadio appare il viso di Gaetano Scirea accostato all’ultimo modello di una nota marca di orologi... Stile Moggi, stile Juventus. 26 - continua Dagospia 20 Giugno 2006

Benché abbia intascato due scudetti in tre anni, la Juve della triade Giraudo-Moggi-Bettega non suscita alcun entusiasmo da parte dell’Avvocato, che infatti, a metà maggio, proclama Boniperti “juventino del secolo”. Allora la troika di piazza Crimea si incazza: Bettega fa il broncio, e Giraudo minaccia sottovoce le dimissioni. Per Lucianone bastano le voci – subito nate come per incanto – che lo vogliono in procinto di trasferirsi alla Lazio. Poveretti, c’è da capirli: non solo devono combattere per esorcizzare il fantasma di Boniperti, ma devono lottare contro l’ombra incalzante di Michel Platini, il principesco ex fuoriclasse juventino al quale la Real Casa vorrebbe affidare in futuro la povera Juventus, per farla tornare a essere la Vecchia Signora che la trimurti Giraudo-Moggi-Bettega ha ridotto a zitella di facili costumi. Il 28 maggio 1997 la Juve, che ha appena vinto lo scudetto, perde malamente la finale di Coppa dei campioni (la seconda su tre disputate) contro il modesto Borussia Dortmund, squadra infarcita di ex giocatori juventini che la società bianconera aveva scaricato come saldi di fine stagione (Sousa, Kohler, Moeller, Júlio César e Reuter). La sconfitta è più che meritata (nonostante un paio di decisioni discutibili dell’arbitro ungherese Sandor Puhl). Così, nel dopopartita, la dirigenza juventina può mostrare anche all’estero di quale pasta è fatta quanto a stile e sportività. Ecco Bettega, in mondovisione: «Siamo stati superiori al Borussia, ma l’arbitro Puhl non ha avuto il coraggio di darci il rigore, certe sue decisioni hanno pesato in modo evidente sul risultato. Abbiamo perso contro una Federazione [quella tedesca, ndr] forte, troppo forte, più potente della nostra». Geniale: è come ammettere implicitamente che tutti i precedenti successi internazionali della Juventus erano dovuti al fatto che la Federazione italiana era più potente delle altre. Anche Moggi dice la sua: «L’arbitro? Peggio di così si muore»; poi si scaglia contro un giocatore del Borussia, l’ex juventino Paulo Sousa, che aveva criticato il trattamento “umano” ricevuto dalla Juventus moggiana: «Le sue dichiarazioni dimostrano che abbiamo fatto bene a cederlo...». L’Avvocato, stavolta, esce allo scoperto e appioppa ai suoi comici dirigenti un sonoro ceffone: definisce le loro

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parole «sciocchezze » precisando: «Sappiamo bene come si vince. Ora dobbiamo imparare anche a perdere». Non passa un mese, e la Juve diretta da Lucianone trascina Agnelli e la società bianconera in un’altra epica figuraccia. Da settimane si vocifera della imminente cessione di un altro gioiello bianconero: Christian Vieri, il centravanti che in una sola stagione è salito alla ribalta del campionato, della Coppa campioni e della Nazionale. Ma Bettega ha giurato ai tifosi: «Vieri è forte e importante, per questo ce lo teniamo, anche se piace a tante società: ci serve per rivincere lo scudetto». Il 30 giugno l’Avvocato telefona a Boniperti per chiedergli un parere sul centravanti. «Vieri ha un grande futuro, io me lo sarei tenuto ben stretto», gli dice il presidente onorario. E il presidente monetario: «Che intende dire, Giampiero?». Boniperti: «Che Moggi lo ha già venduto all’Atletico Madrid». Agnelli: «Non mi risulta». Boniperti: «Come no – è tutto deciso dal mese di aprile». Agnelli: «Giampiero, lei non è informato, a me non risulta... comunque faccio una verifica». L’Avvocato chiama uno dei telefoni cellulari di Moggi e chiede conferma: Lucianone cade dalle nuvole e nega tutto. Così, alla domanda dei giornalisti se la Juventus voglia cedere Vieri all’Atletico Madrid per 35 miliardi, Gianni Agnelli risponde perentorio: «Ho chiamato Moggi... Mi ha detto che Vieri non è sul mercato, che non è una questione di cifre». Interpellato dai cronisti sportivi, Lucianone conferma: «Mi pare che Agnelli abbia già detto tutto, io potrei soltanto ripetermi. Ogni cosa è chiara». Due giorni dopo, il 2 luglio 1997, con un comunicato di quattro righe, la Juventus annuncia la cessione di Vieri all’Atletico Madrid per 35 miliardi. Il 13 dicembre 1997 muore, dopo mesi di lotta contro una grave malattia, Giovanni Alberto Agnelli, figlio di Umberto, erede designato al trono della Fiat e grande tifoso juventino. Era presidente della Piaggio di Pontedera, e lì le maestranze vorrebbero organizzare una partita amichevole della Juve contro la squadra locale, che milita nelle serie inferiori, per ricordare il giovane e benvoluto padroncino. La risposta della Juve è perentoria: «Abbiamo troppi impegni. Spiacenti, ma non è possibile». L’operazione antipatia prosegue. Ai primi di ottobre 1997 la Juve è a un passo dall’eliminazione in Champions League (se la caverà con un fortunoso ripescaggio). La reazione della dirigenza bianconera è un bel silenzio stampa: perché la colpa degli insuccessi juventini – secondo Moggi & C. – è dei giornalisti che li raccontano. Ce n’è anzi qualcuno, di questi giornalisti, che si allarga un po’ troppo: per esempio Maurizio Crosetti di “Repubblica”, che si è permesso una battuta di spirito irriverente sulla prematura “dipartita” della grande Juve, accostandola per l’occasione a Lady D («Non è il caso di chiedere a Elton John di comporre il nuovo inno bianconero», ha ironizzato il giornalista). L’indomani la Juve, impegnata in trasferta di coppa, è costretta dalle norme Uefa a rompere il silenzio stampa che dura da qualche settimana, e a incontrare i giornalisti che la seguono in tutta Europa. Parla Lippi. Ma quando Crosetti si avvicina alla sala stampa, un addetto della Juventus gli fa presente che può anche tornarsene in albergo: i giocatori e l’allenatore hanno l’ordine di non rispondere alle sue domande, né oggi né domani; se proprio insiste, può starsene seduto in sala stampa ad ascoltare le domande dei colleghi, ma in religioso silenzio. Chi ha dato un ordine del genere? Non si sa, ma dato il livello è facile immaginarlo. A metà marzo 1998 la Lazio elimina la Juventus dalla Coppa Italia. Lippi (che due mesi dopo s’indignerà per le lamentele dell’Inter contro i continui favori arbitrali alla Juve) protesta fragorosamente contro l’arbitro Pellegrino perché – dice – avrebbe scippato la vittoria alla sua squadra. Due giorni dopo interviene Lucianone, e lo show è assicurato. Il direttore generale è in gran forma: dice che la Juventus è «sola e attaccata da tutti», che è vittima di un isolamento doloso finalizzato a distruggerla, mentre «le squadre romane hanno il privilegio di sentirsi protette». Ovviamente non si riferisce alla Roma e alla Lazio da lui dirette anni addietro, ma a quelle attuali. E

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da chi sarebbero protette? Lucianone risponde alla sua maniera un po’ mafiosa: «I messaggi che ho mandato sono arrivati agli indirizzi giusti». Quali messaggi? A quali indirizzi? E perché “giusti”? Lo si capirà nel prosieguo del campionato, quando la Juventus vincerà lo scudetto su una carrozza d’oro trainata da un nugolo di premurose e servizievoli giacchette nere. Ma, al momento, si ride di gusto: il teorema moggiano secondo il quale il club più potente del calcio italiano sarebbe «una piccola, misera scialuppa in balìa di poteri ostili, sola contro tutti, senza appoggi, senza quelle protezioni accordate invece alle squadre romane» è – come scrive Giorgio Tosatti sul “Corriere della Sera” – «delirante... esilarante... roba da bambini dell’asilo». Ma Lucianone, nel corso della sua lunga esperienza napoletana, ha digerito alla perfezione uno dei motti partenopei: “chiagni e fotti”, piangi e fotti. All’ennesimo favoritismo arbitrale accordato alla Juve, l’8 febbraio 1998, nella partita contro la Roma (3-1 per i bianconeri, rigore negato ai giallorossi per un evidente fallo di Deschamps), “Il Messaggero” pubblica alcuni articoli di Roberto Renga molto critici sui continui “errori” che stanno falsando la regolarità del campionato. Renga decide poi di sollevare – finalmente – il macroscopico, osceno e scandaloso conflitto di interessi di Moggi junior, «procuratore di ottanta giocatori, sparsi in vari club, anche in quelli che la domenica vanno ad affrontare la Juventus di Moggi [senior]». La reazione della società bianconera è una mirabile sintesi di irosa tracotanza moggian-giraudiano-betteghiana: una citazione in Tribunale, con richiesta di risarcimento danni per 10 miliardi. La notizia, in esclusiva, la anticipa lunedì 16 marzo il “Processo di Biscardi”: all’amicone Aldo “qualcuno” ha passato il testo della citazione giudiziaria firmata dall’augusto avvocato Vittorio Chiusano in persona. Il quale, nel ricorso, spiega che la Juventus «ha in progetto di emettere azioni quotate in Borsa», e dunque gli articoli del “Messaggero” hanno «arrecato ingiustamente danni rilevanti, patrimoniali e non. È naturale che il mercato borsistico londinese che potrebbe accogliere l’emissione e la quotazione delle azioni Juventus ne penalizzi il valore se si mette in dubbio che i risultati – e quindi gli incassi – dipendano da illeciti più che dai meriti sportivi e che è possibile o probabile un accertamento di tali illeciti, addirittura in sede penale, di questi ultimi, con ovvie conseguenze a carico della Juventus. È questo appunto anche il parere di importanti banche d’affari esperte nell’assistenza per le quotazioni e i collocamenti in Borsa». Cesare Romiti – ancora per poco presidente della Fiat – telefona subito al direttore del “Messaggero”, Pietro Calabrese, promettendo che qualche milione lo metterà lui, di tasca sua, per riparare almeno parzialmente alla ennesima cialtronata della Juve moggiana. Poi, a fine aprile, con una lettera a “Panorama”, Romiti ricorda di avere molto amato la Juventus degli anni Settanta e Ottanta, quando lui guidava la Fiat tra i marosi di tante crisi; la Juve di Boniperti e Trapattoni, insomma, che faceva capo alla Fiat di Gianni Agnelli e Romiti e che non era ancora caduta nelle grinfie dell’Ifi di Umberto Agnelli; quella Juve che «oggi non c’è più» e della quale mantiene un ottimo ricordo, mentre «altri invece mi sembra che non lo facciano»; Romiti conclude velenoso: «Della Juve di oggi provo molta ammirazione per quei grandi professionisti che sono Lippi e i suoi giocatori: ma qui finisce la mia ammirazione» – Lucianone & C. sono serviti. Onore al merito, l’ex ferroviere fa proprio di tutto per trasformare la Vecchia Signora in una sguaiata cafona, e alla fine ci riesce. Ne è consapevole perfino il quotidiano di casa Agnelli, “La Stampa”, che del direttore generale juventino scrive: «Si racconta, alla Juve, una storiella illuminante. C’erano da scegliere le scarpe della nuova divisa e Moggi propendeva per un modello, gli altri dirigenti per l’altro. Ma al momento di definire si accorsero che il fornitore aveva già mandato in produzione la scarpa preferita da Moggi. “Perché so’ democratico ma me piace che se faccia come dico io”, ride Lucianone, che se lo cogli col sorcio in bocca non s’irrigidisce, lascia fare. Ha imparato che non c’è tempesta che non finisca in bonaccia, e lui è maestro nell’aspettare che si calmino le acque per fare a modo suo. Così è diventato un padrone del calcio. Lui dirige il

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mercato della Juve e mette le mani su quello dei concorrenti perfino in Europa con un consiglio, un aiuto, un veto: un giornale inglese ha scritto che se McManaman non firma con il Liverpool è una manovra di Moggi. Forse non è vero, ma ci si potrebbe credere». Convinto che i giocatori bianconeri debbano parlare «del sole e della pioggia» purché «non mi creino casini», Moggi prepara una specie di galateo-codice d’onore al quale si devono attenere i giocatori juventini in campo e fuori dal campo; poi lo consegna al capitano della squadra, Antonio Conte, dicendogli: «Fate i bravi cristiani». E in una intervista precisa: «Non sono una verginella e neanche un angioletto... ma nell’ambiente del calcio bisogna essere svegli, dormire poco la notte». Il suo ufficio di direttore generale juventino è «come una sala d’aspetto di una stazione... Lucianone ascolta tutti. Da vent’anni. Un clientelismo da Prima repubblica che pensavamo si potesse interrompere [dopo] le inchieste della Procura torinese, invece Moggi ha retto all’urto». Lucianone dice che «in giro c’è una cattiveria bestiale e io ne ho subita tanta»; oppure che «gli amici sono importanti: io faccio un favore a loro e loro lo ricambiano dandomi un giocatore che finirebbe ad altri». Come prima e meglio di prima, racconta barzellette pecorecce, frequenta gli ippodromi, fuma ammorbanti sigari, ostenta braccialetti d’oro a catena con medagliette... Ma il meglio di sé Lucianone continua a darlo quando fa il mercante di calciatori. Ne è un esempio il suo tentativo di portare alla Juve il giocatore Luís Fígo dello Sporting Lisbona, al quale si interessa anche il Parma. La trattativa è complessa e problematica, e alla fine il campioncino firma due contratti: uno per ciascuna società. Allora l’ex ferroviere sbotta: «Una cosa è sicura: se Fígo non giocherà nella Juve, non si muoverà dal Portogallo. Altre possibilità non ce ne sono». Parola di Lucky Luciano. 27 - continua

Dagospia 21 Giugno 2006

Lucianone ultrà Dovunque passi, Moggi lascia il segno, inconfondibile e indelebile. Ne sa qualcosa l’imprenditore informatico Paolo Depetrini (figlio di quel Baldo Depetrini che fu un campione della Juventus negli anni 1933-1949). Nel maggio 1994 la società bianconera, appena affidata alla triade Giraudo-Moggi-Bettega, appalta a Depetrini la gestione delle biglietterie dello stadio Delle Alpi. Firmato il contratto, l’imprenditore fonda una società – la Stadio Service – per la bisogna. Da allora, e per due anni, incappa in una serie di peripezie e “stranezze” da parte della Juventus, che diventeranno oggetto di due inchieste della magistratura torinese in seguito alle denunce dell’imprenditore. Quasi subito, Depetrini si accorge che la Juventus gestisce i biglietti delle partite con molta disinvoltura. Quelli timbrati “Ancol”, a prezzo ridottissimo, vengono distribuiti ai club degli ultrà scavalcando la Stadio Service (che dovrebbe invece esserne l’unico distributore) e venduti agli ultrà a sole 10 mila lire – gli ultrà, poi, li rivendono col bagarinaggio agli ignari tifosi a prezzo intero, cioè a 26-30 mila lire (a seconda dell’importanza della gara), con un guadagno di decine di milioni a partita (ovviamente esentasse). Un sistema semplice e ingegnoso per finanziare i club ultrà più facinorosi senza dare nell’occhio e senza sporcarsi direttamente le mani. Vale la pena di ricordare che, durante la presidenza Boniperti, la Juve aveva messo alla porta tutti i club non costituiti con atto notarile, negando loro i biglietti, per troncare ogni rapporto con le frange più scalmanate e incontrollabili della tifoseria. Le quali, per tutta risposta, avevano inscenato continue contestazioni e scioperi del tifo. Le contestazioni erano poi proseguite per qualche

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settimana anche dopo l’avvento della triade Giraudo-Moggi-Bettega, ma per ben altri motivi. I tifosi bianconeri protestavano per l’arrivo ai vertici della Juve di due personaggi dai trascorsi “granata”: Moggi, già direttore sportivo del Torino, e Giraudo, notoriamente tifoso del Toro e già consulente di Borsano. Ma queste proteste erano durate poco, e si erano trasformate come per incanto in cori di giubilo. Stando al racconto di Depetrini, ben si comprende perché. L’imprenditore chiede spiegazioni al dirigente Paolo Prandi, responsabile del Centro coordinamento club juventini (che ha sede presso la Stadio Service): perché i biglietti Ancol vengono venduti al di fuori della distribuzione ufficiale? La risposta è che «la società deve prediligere questi gruppi organizzati e finanziarli». Prandi gli parla di «un personaggio in carcere, addirittura condannato all’ergastolo, che dava ordini a un certo Antonio “Tony” Acanfora sulla gestione della Curva Sud dello stadio in occasione delle partite della Juventus»; di «gente di Milano, che minacciava i tifosi della curva Nord per vendere loro i biglietti “omaggio” ricevuti dalla società»; e infine di imprecisate «minacce e intimidazioni ricevute dai vertici juventini». Scrive Depetrini nella sua denuncia all’autorità giudiziaria: «Che ci fosse una connivenza tra la società e alcuni personaggi dei gruppi organizzati mi fu ben chiaro, sempre alla fine di novembre 1994, allorché in due occasioni lo staff dirigenziale della Juventus composto da Giraudo, Bettega, Moggi e Prandi incontrò presso la mia sede [Stadio Service, ndr] alcuni rappresentanti di questi gruppi, tra i quali Acanfora... e altri di cui non ricordo i nomi. Ovviamente, nonostante fossi il titolare della biglietteria ufficiale Juventus e quindi il distributore dei biglietti, non fui invitato a tali riunioni, ma venni a conoscenza del tenore delle richieste fatte alla Juventus e di quali fossero le politiche societarie dallo stesso Prandi e dalle enfatizzazioni dell’Acanfora: la nuova dirigenza Juventus aveva bisogno di questi sostenitori per impedire contestazioni dei tifosi che richiedevano una restaurazione della vecchia dirigenza e non gradivano i signori Giraudo e Moggi per i loro trascorsi granata... Fu ben chiaro ai capi tifosi e ai gruppi chi effettivamente comandasse e disponesse del “potere dei biglietti”, come catechizzava il Prandi stesso. La società quindi non aveva scelta: doveva finanziare questi gruppi». Depetrini – citando come testimone un’altra vecchia gloria juventina, Bruno Garzena – racconta di aver confidato le sue perplessità anche a Giraudo, ricevendone la seguente risposta: «Alla base della loro [dei capi ultrà, ndr] cultura c’è la violenza, e quindi la società non può intervenire... E comunque questi fatti sono normale prassi di ogni società di calcio». Inoltre, scrive Depetrini, «Giraudo mi disse che a livello personale correva il rischio, tra l’altro, che questi personaggi gli potessero creare dei danni alle cose proprie, come l’automobile e la casa». I tifosi, in pratica, avrebbero ricattato la dirigenza juventina, costringendola a scendere a patti. «Dopo gli incidenti avvenuti in occasione di Juventus-Fiorentina e alla condanna di diversi tifosi», prosegue Depetrini, «la Juventus si adoperò oltre misura affinché gli stessi fossero “graziati”, a seguito di varie pressioni dello stesso Acanfora, quale latore dello scontento dei vari capi per questa situazione. In questa occasione, per alcune domeniche di gare casalinghe, la cosiddetta tifoseria organizzò uno sciopero del tifo e produsse diversi striscioni contro le sanzioni applicate ai sostenitori condannati. In un’occasione assistetti alle rimostranze di Acanfora e Dardo [un altro capo ultrà, ndr] nei confronti della società... A questo punto era sempre più chiaro che comunque la Juventus provvedeva – con i biglietti Ancol e i biglietti “omaggio” – a finanziare tali gruppi, per potersene assicurare il controllo e le prestazioni». Per le società calcistiche, i rapporti con le frange più facinorose del tifo organizzato sono imbarazzanti e inconfessabili. Tanto più all’inizio del 1995, quando allo stadio genovese di Marassi rimane ucciso un tifoso del Genoa aggredito da una banda di ultrà milanisti e il Parlamento approva la legge Maroni: un giro di vite contro gli hooligan all’italiana e le società che li foraggiano. Da allora, sostiene Depetrini, anche la Juve ha preso precauzioni per non lasciare impronte digitali:

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«Prandi non consegnò più direttamente i biglietti Ancol o altri biglietti di curva, ma li acquistava direttamente lui, passandoli poi ai gruppi». Una prassi di dubbia liceità, viste le severe prescrizioni della nuova legge: pacchi di biglietti sarebbero finiti addirittura a tifosi diffidati dalla Polizia dal frequentare lo stadio. «Un mio dipendente», scrive Depetrini, «doveva, per precise disposizioni del Prandi, rendere disponibili i biglietti ordinati, compilando comunque delle distinte intestate alla Juventus, sulle quali venivano indicati la serie e i numeri consegnati, e i nomi dei club o gruppi destinatari. Alcune di tali distinte, nelle quali compare come acquirente dei biglietti un fantomatico “Juventus Club Prandi” [club inesistente, ndr], sono state sottratte nel furto avvenuto nei miei uffici nel 1996 e da me denunciato. Per fortuna, ne avevo conservato le fotocopie». Depetrini comincia a rendersi conto che «la mia struttura, grazie alle prepotenze e alle prevaricazioni nei miei confronti di tutta la dirigenza Juventus, era solamente uno strumento di copertura per meglio “giostrare” con i biglietti a favore di chi più conveniva a Prandi e alla Juventus stessa». L’imprenditore bussa continuamente alla porta della direzione juventina reclamando il rispetto del contratto. Per tutta risposta, il 2 dicembre del 1994 si è visto imporre «l’esborso di lire 107.100.000 per “integrazione avviamento”», oltre all’assunzione forzata di tre ex dipendenti della Juventus con stipendi da favola (condizione prevista dal contratto capestro). Imposizioni che vanno ad aggiungersi ai continui oneri contrattuali per centinaia di milioni a carico di Depetrini, e che hanno indotto l’imprenditore a denunciare la società juventina per estorsione. Nel febbraio del 1995 la Juventus diretta da Moggi comincia una lunga manfrina con il Comune di Torino, lamentando che la permanenza allo stadio Delle Alpi (costruito dalla società romana Acqua Marcia per conto del Comune in occasione dei mondiali di Italia ’90) è troppo onerosa. Per forzare la mano all’amministrazione municipale e spuntare condizioni di maggior favore – a spese del contribuente – la Juventus decide di giocare le ultime partite della Coppa Uefa a Milano, allo stadio Meazza di San Siro. E se i tifosi torinesi, costretti a traslocare e ad accollarsi le spese del viaggio, non gradiscono, protestino pure con il Comune, additato come il solo colpevole di tutto. La prima partita, il 4 aprile, è Juve-Borussia, 2 a 2. Della stampa e della distribuzione dei biglietti dovrebbe occuparsi come da contratto Depetrini, che infatti se ne accolla le spese organizzative; ma poi scopre che la Juventus, «senza neppure avvisarmi o consultarmi, ha affidato 35.500 biglietti al Milan». La scena si ripete il 17 maggio, per la finale Juventus-Parma, disputata anche quella a Milano: «Una quota di lire 600 milioni di biglietti fu affidata al Milan», che poi gentilmente gli girò la fattura delle spese di stampa, a costo doppio rispetto a quello pagato normalmente da Depetrini. La duplice operazione è un ulteriore danno economico per la sua attività, ma quando va a protestare in casa Juve l’imprenditore si sente rispondere che «il mio guadagno era più che sufficiente». La società bianconera provvede anche a modificare il contratto, formalmente in favore di Depetrini: stabilendo che le spese dei biglietti e dei cassieri saranno a carico della Juventus. In realtà «tutto continuò a essere addebitato a Stadio Service». E intanto – sempre in barba al contratto, e sempre a detta dell’imprenditore – la Juventus continua a gestire in proprio i biglietti dati alle squadre ospiti a Torino, e quelli che riceve dai club ospitanti nelle trasferte. Siamo ormai nella primavera inoltrata del 1995, e i rapporti fra Depetrini e la Juventus si fanno ancora più incandescenti: «Prandi si lamentava con i miei dipendenti del fatto che, per preciso incarico della Juventus, doveva continuare a finanziare i gruppi organizzati, ma la società non gli assegnava alcun apporto finanziario e quindi lui si vedeva costretto a ricorrere a “finanziamenti in proprio”. Il che significava molto spesso vendere anche i biglietti omaggio e molto spesso anche quelli di riserva». Biglietti omaggio venduti sottobanco: un déjà vu che accomuna il Toro di Lucianone ieri e la Juve di Lucianone oggi... Depetrini avrebbe le prove documentali: in particolare, «le lettere di protesta di alcune persone che avevano acquistato dal vicepresidente del Centro coordinamento dei club biglietti omaggio a 35 mila lire ciascuno».

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Dagospia 23 Giugno 2006 Dalla denuncia di Depetrini emerge la nuova concezione che la nuova dirigenza juventina avrebbe del mondo del calcio come pura fonte di denaro: «Il signor Romy Gai, responsabile del Marketing [della Juve], mi informò che erano cambiate le strategie nel mondo del calcio, e che alla Juventus non interessava nulla del tifoso tradizionale, del nucleo familiare che va allo stadio. Le nuove strategie prevedono: uno stadio con dei tifosi finti (come negli spettacoli televisivi, dove gli spettatori applaudono o ridono quando si accende la lucina), e i biglietti a questi tifosi vengono distribuiti attraverso gli sponsor ufficiali ai quali vengono imposti per contratto pacchi di biglietti. I tifosi tradizionali devono essere avviati alla pay per view [la Tv a pagamento, ndr], in quanto alla Juventus i diritti che ne derivano rendono molto di più». Una strategia che, in pratica, «annullava l’esistenza di una biglietteria efficace e capillare», anche in seguito a «vari contratti di sponsorizzazione che la Juventus andava stipulando con diverse società, poi direttamente interessate alla biglietteria, come la Gemini Viaggi e la Polti, che portavano alla società degli enormi ritorni finanziari». Nel maggio 1996, la goccia che fa traboccare il vaso. La Juventus è in finale di Coppa dei campioni con l’Ajax: si giocherà all’Olimpico di Roma. Il 26 aprile, un comunicato ufficiale della società annuncia: «I biglietti disponibili verranno distribuiti esclusivamente con la collaborazione del Centro coordinamento club e pertanto non verranno messi in vendita per motivi di ordine pubblico... Il viaggio a Roma dei tifosi verrà organizzato dalla Juventus per tramite dei suoi partner». La tifoseria bianconera si ribella, con lettere e telefonate inferocite alla sede juventina e ai giornali. Chi vuole vedere la partita allo stadio di Roma dovrà passare attraverso i club e versare il suo obolo all’agenzia di viaggi della Juventus (la Gemini Viaggi, gruppo Fiat): non si può raggiungere la capitale con mezzi propri, occorre versare l’obolo completo (per viaggio e biglietto) alla Real Casa. Ancora una volta, in barba al contratto, la società Stadio Service è estromessa dalla distribuzione dei biglietti. Quanti biglietti la Juventus abbia ricevuto dall’Uefa, Depetrini non l’ha mai saputo. Ufficialmente la società per scusarsi di non poterne vendere al dettaglio e per giustificare la scelta di averli esauriti tutti con le richieste dei club sostiene di averne avuti soltanto 19 mila. Secondo Depetrini, invece, ne aveva tra i 23 e i 35 mila. Alle vane proteste dell’imprenditore, la Juventus risponde che la nuova soluzione è stata dettata dalla necessità di «non alimentare il bagarinaggio», mentre «proprio questo stava facendo la Juventus». Come? «La Juventus consegnò al capo degli ultrà Acanfora, già diffidato dalla Polizia di Stato, senza alcun titolo di preferenza e di ufficialità, biglietti per 180 milioni di lire per la finale di Roma. L’importo è equivalente alla consegna di circa 1.200-1.400 biglietti, che furono poi rivenduti per il triplo: pressappoco 540 milioni [con un guadagno netto di circa 360, ndr]. Ho inoltre assistito alla consegna da Prandi ad Acanfora di un cospicuo numero di biglietti omaggio circa 500 inviati dalla sede della Juventus». Intanto scoppia l’ira dei tifosi juventini rimasti senza biglietto: «La mia sede», ricorda ancora l’imprenditore, «era subissata di insulti e di minacce, tutti quelli che telefonavano si sentivano truffati dalla Juventus per la mancata distribuzione dei biglietti». Anche quell’operazione è di dubbia regolarità, se è vero che, come rivela Depetrini, «la Juventus si accorse che il Centro coordinamento club non aveva titolo per raccogliere il ricavato della distribuzione dei biglietti e la signora Gastaldo [responsabile amministrativa della Juve, ndr] mi telefonò chiedendomi di poter far transitare sul conto della Stadio Service le somme raccolte».

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Depetrini esprime un altro dubbio: se la Juventus gestiva in proprio i diritti sui biglietti delle partite in trasferta, sebbene il contratto li assegnasse a Stadio Service, quegli introiti erano registrati sui bilanci della società? E, se lo erano, sotto quale voce? Nell’estate 1996 Depetrini mette in fila i crediti che vanta nei confronti della Juventus e chiede che gli vengano saldati, tanto più che la nuova campagna abbonamenti nonostante la vittoria juventina in Coppa campioni ha fruttato la vendita di solo 28 mila tessere, contro le 36 mila dell’anno precedente. Non ricevendo alcuna risposta, in settembre l’imprenditore trattiene per sé come acconto sui suoi crediti l’incasso di una delle prime partite casalinghe del nuovo campionato, Juve-Fiorentina. A fine settembre Giraudo si decide a incontrare Depetrini per discutere l’intera faccenda, ma l’impasse non si sblocca. E in un successivo incontro con Chiusano, Giraudo, Bettega e avvocati vari, Depetrini viene minacciato di denuncia per appropriazione indebita. Parlando con Giraudo e Chiusano, l’imprenditore rivela gli episodi più sconcertanti cui ha assistito nell’ultimo biennio: non solo i continui favori indebiti agli ultrà, con la vendita di biglietti omaggio e Ancol, ma anche un particolare che riguarda la gestione allegra di Luciano Moggi, e precisamente: «Le richieste di biglietti da parte di noti bagarini napoletani che, recandosi da Prandi, potevano acquistare, grazie alle raccomandazioni del Moggi, lire 15 milioni di biglietti di curva per le partite di cartello, che ai tifosi normali venivano negati perché ufficialmente esauriti da tempo». Sempre nell’autunno 1996, Depetrini si vede consegnare da Prandi una busta con 4 milioni una specie di buonuscita mascherata da percentuale (in nero) degli incassi per le magre prevendite di Juve-Rapid Vienna di Coppa campioni (28 milioni). Depetrini chiede spiegazioni alla segretaria amministrativa della Juve, e registra la telefonata: la donna dice, ammiccando, che quella è una specie di «maggiorazione prezzo... arrotondamento per valuta... io in contabilità non ce li ho». Frasi che autorizzano qualsiasi dubbio: «Se su 28 milioni», si domanda Depetrini nell’esposto-denuncia, «me ne spettano 4 e chiaramente senza pagare una lira di tasse, quanti soldi mi dovevano essere riconosciuti in rapporto a tutte le altre partite della Juventus? Se per una vendita di 28 milioni Prandi ne riusciva a recuperare quattro, in che modo venivano venduti i biglietti e chi materialmente effettuava le maggiorazioni? Da chi e come hanno recuperato questi soldi? Se a ogni partita si effettuavano tali maggiorazioni, qual è il danno che è stato arrecato alla mia struttura? Tali maggiorazioni a che cosa servivano: a un indebito tornaconto personale? Oppure a una creazione di fondi per gruppi organizzati?». Domande alle quali dovrà dare una risposta la magistratura. Si arriva così all’ultima puntata dell’intrigo. L’8 novembre 1996 la Juventus comunica a Depetrini la revoca del contratto. Nel corso di una riunione al vertice con Chiusano, Bettega, Giraudo e Moggi, Depetrini quantifica i danni fin lì subiti in un miliardo e 600 milioni; la Juventus, a sua volta, reclama i 600 milioni per le ultime percentuali sui biglietti non più pagate; la discussione si arroventa e poi si arena. Nelle stesse ore, la sede della Stadio Service viene visitata da strani ladri che sottraggono del materiale piuttosto prezioso e compromettente: «Documenti relativi ai biglietti di diverse gare e intestati al fantomatico J.C. Prandi», nonché «i dati dal mio sistema centrale meccanizzato e affidato in assistenza alla General Soft Srl». La General Soft, con sede in piazza Crimea, a due passi dalla sede della Juventus, con la quale intrattiene da tempo rapporti d’affari, è un’azienda che si occupa di software gestionali e che ha elaborato il programma (acquistato da Depetrini) per biglietti e abbonamenti allo stadio Delle Alpi: tiene il controllo dei settori, delle file, dei posti numerati, dei biglietti omaggio e scontati, dei dati anagrafici dei tesserati, eccetera. Un programma indispensabile a chiunque gestisca la biglietteria dello stadio; senza quei dati, una volta liquidato Depetrini, la Juventus non potrà stampare le etichette da applicare sui biglietti da mettere in vendita per le future partite, a cominciare da quelle contro l’Inter e il Milan...

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La necessità e urgenza della Juventus di entrare in possesso di quel programma traspare da una telefonata a Depetrini anch’essa registrata del legale rappresentante di General Soft, tale Martini, il giorno prima della revoca del contratto (7 novembre 1996): «Abbiamo bisogno di etichette, io cosa gli dico a sti qua, che faccio? Stamattina mi ha chiamato sul cellulare la Gastaldo... Non possiamo rovinarci il rapporto con la Juve»; ma Depetrini, visto che il software-abbonamenti è di sua proprietà, non s’intenerisce e fa sapere che non intende cederlo a nessuno. È in questo quadro, nella parte più delicata della sua denuncia, che si inserisce il furto dei dati dai suoi computer: «I miei dipendenti mi hanno confermato che nell’ambiente della Juventus, molte persone sono a conoscenza che la General Soft, su precise disposizioni della Juventus, ha volontariamente copiato tutti i dati inseriti nel mio sistema e glieli ha messi a disposizione». Nel marzo 1997 il pubblico ministero presso la Pretura Carlo Monferrini e il Gip Giorgio Martincich sequestrano i computer visitati e dispongono un incidente probatorio che sembra confermare i sospetti di Depetrini. Sulla perizia si legge infatti: «Risulta che gli archivi informatici e i dati esistenti sui supporti magnetici sequestrati presso la General Soft e presso la biglietteria [della Juventus presso lo stadio Delle Alpi, ndr] sono provenienti da quelli esistenti sul calcolatore della Stadio Service con le varianti conseguenti a un loro successivo utilizzo». Intanto, il 3 dicembre 1996 la Juventus presenta istanza di fallimento a carico di Depetrini; ma l’istanza viene respinta dal Tribunale fallimentare di Torino, in attesa che un arbitrato stabilisca quanto l’imprenditore sia debitore verso la società bianconera, e viceversa. Il 28 maggio 1998 le denunce di Depetrini finiscono sul quotidiano la Repubblica. Suscita scalpore soprattutto un episodio narrato dall’imprenditore e destinato a rinfocolare l’annosa contesa, tutta di casa Fiat, fra umbertiani e romitiani: «La connivenza della società con tali gruppi [di tifosi ultrà, ndr] era talmente radicata che, per la partita casalinga del 15 gennaio 1995, Juventus-Roma, il dottor Giraudo personalmente venne presso la nostra sede la mattina della partita, parlò con Prandi e Acanfora per far comporre uno striscione di circa 10 metri con il seguente slogan: Romiti, i bei tempi son finiti. Assistetti alla confezione dello striscione (perché mi fu chiesto se avessi delle bombolette di vernice spray), che avvenne nel retro del distributore Ip di fianco alla mia sede, e reputo che non sia assolutamente stata una burla, tant’è vero che ne riferirono le cronache dei giornali, informati di questo dai dirigenti della Juventus. Lo striscione –che fu confezionato da Acanfora con l’aiuto di alcuni fedelissimi che conoscevo personalmente fu introdotto allo stadio [Delle Alpi] utilizzando l’auto di servizio della società e poi a un certo punto della partita srotolato nella curva». Romiti, quel 28 maggio, incontra i giornalisti come presidente della Fiat. E commenta: «Me lo ricordo benissimo, quello striscione contro di me. Era Juve-Roma [15 gennaio 1995, ndr], io non andai allo stadio, ma lo vidi sui giornali. Mi meravigliò molto. La fotografia sui giornali ce l’ho ancora presente. I commenti li lascio a voi». Sulle pagine di Repubblica Maurizio Crosetti ricostruisce così tutta la manovra: «Impossibile dimenticare il gennaio 1995, quando Romiti disse: In questi anni la Juventus è stata come una amante, un rapporto più passionale, ma ora torno alla Roma [di cui l’ex presidente della Fiat è tifoso fin da ragazzo, ndr], che è come la moglie. E, a proposito dei nuovi (allora) dirigenti bianconeri, fra i quali il tifoso granata Giraudo: Bisogna amare il prodotto che si realizza. Non si possono fare automobili come se fossero dentifrici. La risposta arrivò in curva. E siccome la scritta poteva sfuggire a qualche giornalista distratto, ci pensò il dirigente bianconero Romy Gai a segnalarla ai cronisti della tribuna stampa, passando di banco in banco». Dunque il racconto dell’imprenditore qui trova conferma. La reazione di casa Juve alle rivelazioni di Depetrini è piccata. Mentre Giraudo tace, l’avvocato-presidente Chiusano liquida tutto come «parole che valgono quel che valgono, visto che questo personaggio ha rubato 600 milioni alla Juventus: cioè l’incasso della partita contro la Fiorentina. Mi

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spiace perché ricordo suo padre, e mi fa rabbrividire l’idea di quel che ha fatto suo figlio. Lo abbiamo denunciato per appropriazione indebita, e ci riserviamo di querelarlo». Chiusano replica anche alle altre accuse di Depetrini: «Vecchie insinuazioni per screditarci. Per l’indagine sui rapporti tra la nostra società e i club del tifo, il pubblico ministero ha già chiesto l’archiviazione. Le perizie tecniche hanno dimostrato che non c’è nulla di illegale nella copia dei dischetti per etichettare i tagliandi: fu la stessa società di Depetrini a produrne copia per la Juve... Mi arrabbierei se sapessi che Giraudo perde il suo tempo a scrivere striscioni, lo riprenderei perché lui deve fare altro. La storia dei rapporti con i bagarini napoletani amici di Moggi è un pettegolezzo come le cene con i capi della tifoseria». Depetrini replica: «Sono io che querelerò l’avvocato Chiusano una seconda volta, visto che continua a darmi del ladro. La Juve mi deve un miliardo e 600 milioni di diritti non riconosciuti, ha tentato di rovinarmi ma non c’è riuscita. Hanno paura di andare in tribunale, perché lì racconterei tutto. Ho le prove dei rapporti illeciti tra la Juventus e gli ultrà e le ho fornite ai magistrati». Il silenzio più assordante, in tutta questa storiaccia, è quello del direttore generale della Juve. Strano, perché Lucianone è un vero esperto, collaudato da anni di attivismo sul campo, in fatto di biglietti omaggio, soldi in nero, intrighi nell’ombra, ambigui rapporti con i più impresentabili capi delle fazioni ultrà. Fazioni che entrano sapientemente in gioco ogni qualvolta, per certi dirigenti, se ne presenti la necessità. Infatti si rivedranno all’opera nei giorni caldi dello scandalo doping, con un truce assalto alla tribuna stampa dello stadio Delle Alpi; anche in quella occasione, Moggi fingerà di non avere visto né sentito nulla: «Stavo guardando la partita...». 29 - continua Dagospia 26 Giugno 2006

Totò, Peppino e Lucianone

Una delle specialità più rinomate di Lucianone è sempre stato il rapporto con i giornalisti. Logico che qualunque giornalista rifiuti di baciare le sacre pantofole della Juve moggiana viene bistrattato e intimidito, talvolta impossibilitato a lavorare. I casi di cronisti sportivi allontanati dallo stadio o dal campo di allenamento juventino, oppure squalificati e messi al bando dalla società bianconera guidata dal trio Giraudo-Moggi-Bettega, non si contano. Il primo di questi casi è particolarmente istruttivo, anche perché è finito in tribunale. Il primo cronista che entra nel mirino è Marco Travaglio, il quale ha osato pubblicare alcuni commenti critici sulla dirigenza juventina. Nel settembre del 1996, come ogni anno, chiede di essere accreditato alla tribuna stampa dello stadio Delle Alpi: tribuna che rientra sotto la giurisdizione dell’Ussi (l’Unione stampa sportiva italiana), alla quale spetta il compito di indicare alla società i nominativi dei giornalisti da accreditare. La Juventus non ha alcun potere discrezionale: sennò potrebbe illecitamente selezionare i giornalisti graditi e escludere quelli scomodi, danneggiando professionalmente questi ultimi e limitando la libertà di stampa. Questo, almeno, in teoria. Perché il 13 settembre 1996 la Juventus decide che Travaglio sebbene già autorizzato dall’Ussi non debba più metter piede allo stadio. «Mi dispiace», gli comunica l’addetto stampa bianconero Daniele Boaglio con una telefonata, «ma non ti posso accreditare perché sei un giornalista non gradito alla società... Io non c’entro. La decisione l’ha presa Moggi in persona». Inutili le insistenze dell’Ussi presso i vertici bianconeri: Travaglio viene messo al bando

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per l’intera stagione. La sera prima dell’incredibile notifica di squalifica del giornalista, giovedì 12 settembre, Antonio Giraudo e Lucianone organizzano una cena invitando una dozzina di giornalisti sportivi torinesi, quelli che di solito seguono la Juventus. La cena si svolge al ristorante Da Ilio, detto anche I due mondi (a due passi dalla stazione di Porta Nuova). Travaglio, ovviamente, non è tra gli invitati. Ma è presente in spirito, dal momento che Giraudo trova il modo di evocarlo, insultandolo di fronte ai suoi esterrefatti colleghi. «Travaglio fa un giornalismo vergognoso, schifoso, disinformato», comincia il braccio sinistro di Umberto Agnelli; poi lo paragona a Mino Pecorelli, il giornalista piduista direttore di Op già chiacchierato come ricattatore, assassinato nel 1979 da un killer della banda della Magliana. La cena si fa burrascosa: anche un cronista di Tuttosport, presente al convivio, viene insultato e definito disonesto. Molti dei giornalisti protestano, Giraudo alla fine si calma. Lucianone, invece, gongola, e come suo solito tenta di fare il simpaticone per arruffianarsi gli astanti. L’indomani, alcuni dei presenti alla cena informano Travaglio dell’accaduto, e il giornalista sporge querela contro Giraudo per diffamazione. L’inchiesta della Procura presso la Pretura, competente per quel tipo di reato, è affidata al pubblico ministero Paolo Toso. Il magistrato interroga i giornalisti presenti alla cena, ma non convoca né Giraudo né Moggi. Alcuni dei giornalisti testimoni confermano tutto, altri tendono a sfumare il tono delle affermazioni di Giraudo (si occupano di Juve, e rischiano anche loro l’espulsione dallo stadio...). Dopodiché il magistrato chiede l’archiviazione del caso. Ma gli avvocati Andrea e Michele Galasso, che difendono Travaglio, presentano ricorso; il giudice dà loro ragione, e ordina al magistrato di approfondire le indagini. Questa volta gli interrogatori sono completi, e anche Giraudo deve recarsi in Procura, scortato dal suo avvocato, Luigi Chiappero dello studio Chiusano. Il pubblico ministero Toso procede anche per il reato di minacce, visto che l’accenno al giornalista assassinato potrebbe configurare un intento intimidatorio. Ecco il racconto di uno dei testimoni più precisi di quell’assurda cena: «Io sedevo, nella tavola dei convitati, a fianco del dottor Antonio Giraudo. Da tale posizione io potevo ascoltare bene i discorsi del Giraudo... Prima diceva che il giornalismo prodotto dal Travaglio era disinformato, non veritiero, schifoso. Poi aggiunse che chi fa un certo tipo di giornalismo rischiava di fare la fine di Pecorelli. Io ebbi l’impressione che la frase fosse rivolta chiaramente al Travaglio... La interpretai come una minaccia...». Un altro giornalista conferma che Giraudo parlò di «giornalismo alla Pecorelli... nel contesto della discussione riguardante il collega Travaglio». Altri cronisti presenti alla cena, pur non volendo collegare direttamente a Travaglio l’accenno a Pecorelli, confermano che Giraudo usò nei suoi confronti espressioni molto pesanti. Interrogato come indagato per diffamazione e minacce, Giraudo non può negare, e anzi rivendica quel paragone. A questo punto è il turno di Moggi, convocato in Procura per testimoniare in merito alla cena degli insulti. Ma Lucianone si è scordato di informarsi sulla versione fornita da Giraudo, e come Totò e Peppino falsi testimoni nel film La cambiale corre al salvamento del padrone in difficoltà con il più classico degli eccessi di zelo e di servilismo: «Assolutamente non udii che venisse fatto cenno dal Giraudo a un giornalismo alla Pecorelli», giura davanti al maresciallo De Bellis della polizia giudiziaria. «Escludo di aver sentito anche solo il nome di Pecorelli. La discussione era sì accesa, ma l’importanza del contendere non era tale da far trascendere in accuse o minacce di tale livello». Lucianone, insomma, non sentì dire niente del genere. Ovviamente il magistrato non crede a una sola parola della testimonianza di Moggi, e lo riconvoca per l’11 luglio 1997, stavolta accompagnato dai suoi difensori (i soliti, Fulvio Granaria e Alberto Mittone): perché Lucianone a questo punto è indagato per favoreggiamento nei confronti di Giraudo. Finalmente consapevole che un tribunale non è uno stadio, il direttore sportivo della Juve davanti al pubblico ministero Toso tenta di aggiustare il tiro e di salvarsi in corner: «Si trattava di

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una cena dove non predominavano i toni accesi. Io sedevo a capotavola e Giraudo al centro del tavolo. Io escludo di aver sentito la parola Pecorelli, ma non escludo che sia stata pronunziata. Venni anzi a sapere che fu pronunziata solo dopo che venni sentito dal maresciallo De Bellis. Me lo disse Giraudo». Un anno dopo la cena, un anno dopo la querela di Travaglio per il paragone con Pecorelli, un anno dopo le testimonianze di vari giornalisti che confermano le frasi su Pecorelli, diverse settimane dopo le ammissioni di Giraudo, Moggi si è finalmente ricordato che questi effettivamente parlò di Pecorelli, ma solo perché gliel’ha confidato lo stesso Giraudo... Un contorcimento patetico. Ma la pochade di Lucianone in Pretura prosegue: «Ribadisco che non ho sentito pronunziare la parola Pecorelli, e può essere che in quel momento stessi parlando d’altro... Del resto, se avessi sentito la parola Pecorelli, non vedo perché non dovrei ammetterlo, visto che lo ha ammesso lo stesso Giraudo... Gli argomenti trattati nel corso della cena furono molteplici; ci furono dialoghi frammentati, e a me m’è sfuggita [sic] questa battuta. Può anche darsi che in quel momento mi sia squillato il cellulare, sul quale vengo chiamato in continuazione. Se le dicessi cose diverse, non sarebbero vere». Purtroppo per lui, il magistrato non crede alla goffa ricostruzione di Lucianone. E, nonostante un memoriale difensivo presentato dai suoi legali, Moggi viene rinviato a giudizio per favoreggiamento. Scrive il pubblico ministero Patrizia Gambardella nel decreto di citazione a giudizio: «Moggi Luciano aiutava Giraudo Antonio a eludere le investigazioni dell’Autorità, rendendo false dichiarazioni all’ufficiale di Polizia giudiziaria che, su delega del Pm, assumeva da lui sommarie informazioni». Anche Giraudo viene rinviato a giudizio, per diffamazione (non invece per minacce), «perché offendeva la reputazione del Travaglio Marco affermando che questi faceva un giornalismo non veritiero, disinformato, alla Pecorelli». Da casa Juve, stavolta, nessun commento. Da casa Agnelli, invece, trapela una frase attribuita all’Avvocato da un suo caro amico. Una frase che la dice lunga sull’irritazione di Gianni Agnelli per l’ennesima figuraccia del vertice bianconero: «Bel tipo, quel Giraudo... Organizza una cena per fare la pace con i giornalisti, e il giorno dopo un giornalista lo denuncia». La premiata ditta Moggi-Giraudo è convocata in Pretura, per il processo, il 2 ottobre 1998. E, onde evitare che qualche giornalista o curioso ficchi il naso, sceglie il rito abbreviato davanti al Gip: a porte chiuse, lontano da occhi e orecchi indiscreti. Il pubblico ministero Toso accusa Moggi di avere reso «dichiarazioni assolutamente non improntate al vero», e chiede che venga condannato a otto mesi di reclusione per favoreggiamento (per Giraudo, imputato soltanto di diffamazione, la richiesta è di un milione e 200 mila lire di multa). Poi, per la difesa, parla l’avvocato Luigi Chiappero, braccio destro di Vittorio Chiusano: arriva a sostenere che «oggi la figura di Mino Pecorelli è tutt’altro che negativa, anzi è sinonimo di giornalismo scomodo, che riporta le notizie non gradite ai potenti»; ergo argomenta il vice-Chiusano Giraudo voleva fare un complimento a Travaglio, altro che diffamarlo... Anche i legali di Moggi si arrampicano sugli specchi per dimostrare che Lucianone quella sera era distratto: «Non c’è la prova che abbia sentito la parola Pecorelli, il favoreggiamento non esiste, il fatto non sussiste». Il pretore Antonio Rapelli si ritira subito in camera di consiglio, e ne esce un quarto d’ora dopo con la sentenza: Giraudo e Moggi assolti perché «il fatto non sussiste». Dunque, par di capire, non sussiste nemmeno l’accostamento a Pecorelli che lo stesso Giraudo si è vantato davanti al giudice di aver pronunciato. Perlomeno singolare la motivazione della sentenza. È vero si legge che «il tratto che caratterizzava la figura di Pecorelli... era quello di un giornalista incline al ricatto, il quale si avvaleva a tali fini di rapporti privilegiati», ma «di sicuro e in ogni caso, dal Giraudo il vocabolo Pecorelli non venne impiegato nella accezione dianzi delineata, e nemmeno venne percepito con tale significato metaforico dei presenti... Il personaggio Pecorelli non è per

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nulla sinonimo di giornalista propagatore di notizie false, bensì al contrario in possesso di una invidiabile (e anzi formidabile) quantità di notizie riservate... Così circoscritta la portata delle dichiarazioni di Giraudo, la condotta di quest’ultimo va quindi considerata [come] legittimo esercizio del diritto di critica». Quanto all’imputato Moggi, la sua «posizione processuale è strettamente connessa a quella del coimputato Giraudo, in quanto la sussistenza o meno del delitto di favoreggiamento personale ascritto al primo può essere verificata solamente per l’ipotesi che debba essere ritenuto come integrato il reato di diffamazione addebitato al secondo». Protesta la Federazione nazionale della stampa per bocca del suo presidente Lorenzo Del Boca: «È straordinario che, quando l’imputato è un giornalista, da una parola in su viene subito condannato. Quando invece è un giornalista che si rivolge alla giustizia come parte civile, c’è sempre un motivo per dire che ha torto. Senza contare la lesione della professionalità e della libertà di stampa contenuta in paragoni come quello a Mino Pecorelli. La nostra professione è accerchiata, di questo passo finiranno per strangolarci». Il commento di Travaglio è lapidario: «Fino a oggi, quando volevo fare i complimenti a un collega, gli dicevo: Bravo, hai scritto un pezzo alla Montanelli. In futuro, mi correggerò e dirò: Bravo, hai scritto un pezzo alla Pecorelli...». 30 - continua Dagospia 27 Giugno 2006 Lucianone, fischietti e soffietti Nel mondo del calcio Lucianone ha sempre avuto un debole, anzi due. Non tanto per i calciatori, muscolosi e miliardari burattini; non tanto per i presidenti, salvadanai più o meno forniti; non tanto per i tifosi, banderuole decorative. Sono ben altre le categorie che da sempre stanno in cima ai suoi pensieri, nonostante il loro ruolo all’apparenza marginale: quella degli arbitri, e quella dei giornalisti. Gli arbitri, perché possono decidere il risultato di una gara, e perfino di un intero campionato; e i giornalisti, perché hanno il potere di censurare o inventare o alterare la realtà a propria discrezione, e talvolta possono essere eccellenti strumenti di pressione. Questo doppio debole moggiano per l’arbitro e per il giornalista ha trovato una degna sintesi e consacrazione pubblica sul finire del campionato 1997-98. Il 26 aprile 1998 è una domenica importante per il campionato italiano. È la trentunesima e quartultima giornata, e allo stadio Delle Alpi di Torino si gioca lo scontro al vertice tra la Juventus (prima in classifica con 66 punti) e l’Inter (che la insegue a 65). Una sfida decisiva per l’assegnazione dello scudetto: l’ultima vera occasione dei nerazzurri per superare la capolista chi vince l’incontro probabilmente si aggiudicherà il campionato. L’arbitro designato è Piero Ceccarini, consulente finanziario di Livorno, ed è proprio lui più che le due squadre il vero protagonista della partita: con una serie di decisioni a senso unico, tutte a favore della Juventus, falsa il risultato finale, e assegna lo scudetto alla Juve. Lo scandaloso arbitraggio di Juve-Inter suscita grande scalpore, tanto più che è solo l’ultimo di una lunga serie di favoritismi arbitrali pro Juventus. Favoritismi che emergono anche da un semplice dato statistico: la squadra diretta da Moggi è stata la più fallosa (814 le scorrettezze fischiate dagli arbitri), ma è anche quella che ha subìto meno ammonizioni (terzultima, con 65 cartellini gialli) e espulsioni (penultima, con appena 3 cartellini rossi). Per la cronaca, alcuni degli arbitri pro-Juve Cesari, Collina e Ceccarini verranno poi messi sotto inchiesta dalla Federcalcio. All’indomani di Juve-Inter lo scandalo dilaga su tutti i giornali e le televisioni, in Italia e all’estero. Le reazioni in casa interista sono furibonde: Ronaldo dice che è «una vergogna»; il presidente Massimo Moratti minaccia di dimettersi, e invita Nizzola il grande amico di Moggi a lasciare la presidenza della Federcalcio. Lucianone replica con la consueta eleganza: «Ronaldo ha imparato

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troppo in fretta l’italiano, ma in campo avrà toccato sì e no quattro palloni. Impari a star zitto e a segnare, invece!». Sistemato il brasiliano, Lucianone diventa patetico: «Noi della Juve le cose le prepariamo per bene [sic] e i risultati si vedono [sic]... Per vincere la Juventus ha messo in campo tutto il suo repertorio [sic]». Poi Moggi spiega che si rifiuta di discutere del rigore su Ronaldo non fischiato dall’arbitro, perché la Juve non parla di moviole, «è una regola che ho stabilito io, figurarsi se la infrango», ma appena un minuto dopo dice che «il rigore su Ronaldo non c’era». Roberto Bettega, altro gentleman stile-Juve, sfodera la sua migliore arroganza: «Ho sentito quello che ha detto di noi Moratti, e gli auguro di non dover aspettare altri nove anni prima di vincere uno scudetto». Completa il simpatico quadretto l’augusto avvocato-presidente Vittorio Chiusano: «Non esiste vittoria più limpida di questa, il rigore su Del Piero è di un’evidenza scolastica, mentre quello su Ronaldo non si è visto». Basterebbe ammettere quello che tutti sanno, cioè che i bianconeri hanno beneficiato di un errore arbitrale, e invece no: la reazione della Juve moggiana è di quelle che autorizzano i peggiori sospetti. La triade Moggi-Bettega-Chiusano è spudorata. Lo dimostra il fatto che lo stesso quotidiano di casa Agnelli, La Stampa, a firma di Roberto Beccantini, prende una posizione molto netta: «La Juve o almeno quella costola di Juve meno faziosa faticherà a celebrare l’imminente titolo, se questo è il prezzo non da pagare, ma da far pagare... Il concetto di vergogna è stato ripreso, a tutta ugola, persino dal mite Ronaldo. È difficile, in casi del genere, non scottarsi al fuoco del sopruso patito... Non si può dire che nel corso della stagione la classe arbitrale abbia preso di petto la Juventus. Tutt’altro... Non si può rimanere indifferenti di fronte a certe coincidenze così singolari e, permettetecelo, così nutrite... C’è il sospetto che le regole non siano uguali per tutti, o che, comunque, per alcuni siano più uguali che per gli altri». Candido Cannavò direttore della Gazzetta dello Sport (gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, cioè Fiat-Mediobanca) non usa perifrasi: scrive di «vergogna allo scoperto», di «errori arbitrali a senso unico», della «comune paura che il gioco più amato dagli italiani non sia più credibile, che gioie e sofferenze siano pilotate dalla regia di un inganno». Cannavò conclude: «Solo Chiusano, Bettega e Moggi, con il loro spocchioso modo di reagire, negando l’evidenza, incassando e infischiandosi del resto, non hanno capito il danno che stanno procurando alla loro creatura». Dopo Juve-Inter alcuni quotidiani pubblicano una fotografia molto interessante: ritrae tre personaggi seduti vicini nella tribuna d’onore juventina dello stadio Delle Alpi, durante l’incontro incriminato. Il primo è l’ex arbitro Fabio Baldas, triestino, funzionario della Regione Friuli e soprattutto designatore degli arbitri (subentrato all’altro ex arbitro Paolo Casarin l’11 luglio 1997). Il secondo è Danilo Di Tommaso, giornalista del quotidiano torinese Tuttosport, che da anni segue da molto vicino le vicende degli arbitri e del palazzo calcistico. Il terzo soggetto della foto, un tipo pittoresco e corpulento, è tale Fabrizio Carroccia, romano, più noto col nome d’arte Er Mortadella: è il capo degli ultrà della Roma, volato chissà perché a Torino e finito chissà come nella tribuna vip per assistere alla partita della Juve, anziché essere al seguito dei giallorossi; in realtà, più che della Roma, il Mortadella è tifosissimo di Lucianone. Che il designatore arbitrale Baldas sieda in quel palco è cosa normale: rientra nei suoi doveri istituzionali visionare le partite per valutare le prestazioni degli arbitri. Stupisce invece, e molto, la compagnia del giornalista e dell’ultrà. Chi li ha fatti accomodare, visto che in quelle poltrone vip si accede soltanto a inviti, e questi inviti possono venire solo dalla Juventus e dalla Publigest (la società che gestisce lo stadio delle Alpi)? Er Mortadella dichiara: «Avevo avuto un biglietto da Luciano Moggi, di cui sono amico da anni». Ma la sera stessa, intervistato in Tv, il pittoresco ultrà romanista tenta una goffa marcia indietro: «Mi sono infilato lì nel palco vip da solo». Quanto a Di Tommaso, il mistero è fitto. L’unico dato certo è che nessun giornalista può avere né ha mai avuto accesso alle poltrone vip dello stadio torinese, e nessuno sa chi l’abbia invitato. «Non ce lo

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spieghiamo», fa sapere un portavoce di casa Juve, «noi certo non l’abbiamo invitato. Ma se il designatore si presenta con due ospiti, la sua compagna e Di Tommaso, noi li facciamo accomodare». Baldas, in televisione, finge che si sia trattato di una semplice coincidenza: «Ho trovato lì Di Tommaso come a San Siro trovo Moratti o Facchetti», e spiega che, avendo posteggiato la propria auto lontano dallo stadio, ha incontrato Di Tommaso che passava di lì e ha accettato un passaggio sulla sua fiammante Lancia K fino al parcheggio della tribuna vip una specie di autostop di lusso... Il venerdì successivo la Publigest si addossa tutta la responsabilità: «Abbiamo invitato noi sia Di Tommaso sia Mortadella», ma lascia intendere che questa è una versione sollecitata dalla Juventus. Anche perché è stranoto che Di Tommaso è un altro amicone di Lucianone. La Juventus è imbarazzata per le voci e i sospetti sorti intorno alla triangolazione Di Tommaso-Moggi-Baldas. Per cui tenta di prendere le distanze da Di Tommaso, anche perché il giornalista di quelle amicizie Baldas e Moggi non fa mistero. Così Lucianone si produce in uno dei suoi migliori pezzi: «La Juventus non è responsabile di ciò che una persona dice in giro, delle amicizie più o meno intime di cui chiunque si potrebbe vantare... La Juventus risponde soltanto dei comportamenti dei suoi tesserati». Ma fa notare la Gazzetta dello Sport «diversi giornalisti si sono lamentati con la Juventus perché Di Tommaso in alcune trasferte di Champions League ha viaggiato sul charter e alloggiato nell’albergo della squadra juventina, in vacanza da impegni professionali, pare da ospite». Alla Juventus non resta che confermare: «Se qualcosa del genere è accaduto in passato, da quest’anno non accadrà più». Altre voci, intanto, spiegano i rapporti all’amatriciana fra Er Mortadella e Lucianone. Una di queste ricorda il burrascoso passaggio di Moggi dalla Roma alla Juventus nell’estate 1994: una furiosa litigata, finita sui giornali, con il presidente Franco Sensi che accusava Lucianone di aver rubato alla Roma il difensore Ciro Ferrara e il centrocampista Paulo Sousa, i quali benché in trattative con la società giallorossa erano passati alla Juve al seguito di Moggi. Da allora Sensi era stato protagonista di epiche risse anche con Er Mortadella: polemiche finite addirittura in tribunale. Dopodiché il presidente capitolino era stato bersagliato da continue e spesso ingiustificate contestazioni dalla tifoseria romanista, tifoseria che guarda un pò aveva tra i suoi capi indiscussi proprio il signor Mortadella amico di Lucianone. 31 - continua Dagospia 28 Giugno 2006

L’allenatore dell’Inter, Gigi Simoni, denuncia pubblicamente le gravi anomalìe di tutta la faccenda, e sollecita un’inchiesta sportiva. Alla fine, dopo molte titubanze, il presidente della Figc Luciano Nizzola ‘ il vecchio amicone di Lucianone ‘ è costretto ad aprire l’inchiesta. I fatti sono piuttosto chiari. Primo: l’arbitro Baldas è giunto allo stadio a bordo della “Lancia K” guidata da Di Tommaso (il quale ha il raro privilegio di posteggiare la fiammante ammiraglia nel parcheggio che allo stadio è riservato ai vip, mentre tutti i suoi colleghi devono accontentarsi di quello riservato ai giornalisti). Secondo: i due hanno assistito alla partita insieme, gomito a gomito, seduti nel box della tribuna d’onore. Terzo: Di Tommaso ha pubblicato su “Tuttosport”, con largo anticipo, il nome dell’arbitro designato per Juve-Inter ‘ Ceccarini, appunto ‘ ben prima che il designatore Baldas ufficializzasse quella decisione. Quarto: Di Tommaso ha addirittura pubblicato, il martedì mattina successivo a Juve-Inter, su “Tuttosport”, il referto testuale dell’arbitro Ceccarini, e ha anticipato il verdetto del giudice sportivo che l’indomani squalificherà Simoni (per 3 giornate), Ronaldo (2), Zé Elias (3),

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Zamorano (2) e Pini (1). Chi ha confidato al giornalista, fin dal lunedì pomeriggio, il referto dell’arbitro, decisivo ai fini di una sentenza che sarebbe stata emessa soltanto il mercoledì pomeriggio? Chi gli ha passato la notizia? «Me l’ha passata un barelliere», ridacchia Di Tommaso, che ‘ come il suo amico Lucianone ‘ è un tipo molto spiritoso. Si sospetta che l’autore della “soffiata” sia l’arbitro stesso, o un guardalinee, o il quarto uomo, o qualche “gola profonda”... C’è qualche collegamento fra queste quattro “stranezze” denunciate da Simoni? Molti pensano di sì. Su Di Tommaso si addensa il sospetto di essere al centro di un canale privilegiato per l’accesso a informazioni riservate. Una posizione, la sua, che oggettivamente condiziona arbitri e società di calcio. Molto amico di Baldas (che lo chiama “fratello”), di Luciano Nizzola, e soprattutto di Lucianone, il giornalista è diventato un interlocutore privilegiato del mondo arbitrale durante la gestione Casarin (ex arbitro molto gradito alla Juve, che nel 1990, attraverso Luca Cordero di Montezemolo, gli aveva offerto addirittura un posto da dirigente, ma lui lo aveva rifiutato in extremis per assumere incarichi federali). Da allora Di Tommaso segue come un’ombra gli arbitri, ai quali ‘ scrivono vari quotidiani ‘ telefona col cellulare nell’intervallo dalla tribuna stampa per informarli sulle azioni più contestate riviste in tempo quasi reale ai monitor della tribuna. Il che, se fosse vero, condizionerebbe gli arbitraggi, inducendo i direttori di gara a “bilanciare” nel secondo tempo gli errori eventualmente commessi nel primo. Inoltre ‘ scrivono ancora i giornali ‘ molti arbitri sono soliti telefonare a Di Tommaso a fine partita, per avere da lui un giudizio “autorevole” sulla qualità del loro arbitraggio e qualche particolare in più sulle immagini televisive delle azioni più contestate, in modo da “ritoccare” i referti prima di consegnarli alla giustizia sportiva (referti che dovrebbero basarsi soltanto sulle cose viste sul campo, e non riviste alla moviola da qualche solerte consigliere). In effetti Di Tommaso, oltre che un giornalista è anche una specie di compiacente public relations man dei fischietti: non solo perché si occupa di loro tutto l’anno sul suo quotidiano sportivo e in televisione, ma anche perché a fine partita è solito avvicinare uno per uno i colleghi in tribuna stampa, raccomandandogli di «trattare bene l’arbitro» nelle pagelle e nei commenti. Insomma gli arbitri hanno fondati motivi di riconoscenza e timore reverenziale nei suoi confronti, il che accresce il potere del giornalista verso l’intera categoria. Si racconta che, un giorno, un arbitro torinese allontanò Di Tommaso in malo modo perché infastidito dalla sua petulanza: poche ore dopo, l’arbitro venne severamente redarguito dall’allora designatore Casarin. Mai maltrattare l’”amico Danilo”, infatti gran parte delle giacchette nere ha capito l’antifona e intrattiene con lui affettuosissimi rapporti. “La Gazzetta dello Sport” riferisce che «Di Tommaso è stato visto spesso al ristorante “La Terrazza” di Posillipo in compagnia di alcuni fischietti quotati, in particolare Treossi e Collina. Sono frequenti anche le sue uscite con Braschi e con Messina. Con Rodomonti ultimamente si sarebbe “rotto qualcosa”. Non ci sarebbe tanta intesa con i torinesi Pairetto e Trentalange». Di Tommaso verrebbe sistematicamente a conoscenza delle designazioni arbitrali con largo anticipo, come raccontano alcuni suoi colleghi di “Tuttosport”. Così, giocando un po’ sull’equivoco, sarebbe in grado di fornire la lieta notizia in anteprima agli arbitri: «Domenica ti facciamo arbitrare la Juve...»; oppure alle società, per esempio la Juve dell’amico Lucianone: «Domenica vi mandiamo Tizio...». Lo conferma un ex arbitro ormai in pensione, il romano Giuseppe Rosica: «Beh, prima che uscisse il comunicato ufficiale delle designazioni, lui [Di Tommaso] già le conosceva. A volte le anticipava persino a noi. Spesso giocava tra il serio e l’ironico a millantare credito con frasi come “Ad arbitrare Roma-Milan ci mandiamo...”».

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D’altronde, prosegue Rosica, «Di Tommaso era sempre presente ai nostri raduni. L’80 per cento degli arbitri e dei guardalinee aveva rapporti con lui (compreso me). Era l’amico di noi arbitri, quello che ci difendeva. So che è stato spesso ospite a pranzo dei miei colleghi. Noi arbitri accettavamo questa situazione, perché ci sentivamo in qualche modo legittimati dallo stretto rapporto che aveva con Paolo Casarin, designatore fino al 1997». E sul caso Baldas? «So di qualche mio collega arrivato allo stadio con lo stesso taxi [di Di Tommaso, ndr]. Solo una volta ha viaggiato con me durante un’edizione del torneo anglo-italiano. L’ho incontrato all’aeroporto di Milano e Di Tommaso mi disse che doveva fare un’intervista a un giocatore inglese. In realtà per tutto il tempo si è intrattenuto con la mia terna e quella dell’arbitro Treossi, cosa del tutto anomala. Quando le società ci mandavano a prendere dall’interprete per portarci al ristorante, lo trovavamo già là». Che ne pensa, Rosica, della coppia Baldas-Di Tommaso allo stadio Delle Alpi? «Non è normale che un commissario che va allo stadio per giudicare un arbitro si sieda accanto a un giornalista». È vera la voce delle telefonate nell’intervallo e alla fine delle partite? «A fine partita telefonavamo all’amico giornalista per sapere come avevamo arbitrato. E molti colleghi, me compreso, chiamavano proprio Di Tommaso». Che lo strano giornalista “amico degli arbitri” Di Tommaso e il direttore generale della Juve Moggi siano amiconi lo sanno tutti. I due si conoscono da anni, fin da quando il giornalista era un giovane corrispondente dal Golfo per “Tuttosport” e Lucianone era il direttore sportivo del Napoli calcio. I due amiconi cenano spesso insieme, una bella e antica abitudine cominciata a Napoli e proseguita a Torino, dove Di Tommaso e Lucianone approdarono in tempi diversi (Moggi come dirigente del Toro di Sergio Rossi, poi del Toro di Borsano, e infine della Juve di Giraudo; Di Tommaso come redattore e inviato di “Tuttosport”). Locali preferiti dai due sotto la Mole: “Ilio-I due Mondi” e “Urbani”, nel quartiere San Salvario. Secondo vari cronisti sportivi, Di Tommaso è solito rendere visita agli arbitri destinati alla Juventus la sera prima delle partite (sia per quelle casalinghe, sia per quelle in trasferta, che il giornalista seguirebbe privatamente, come “ospite”, a bordo dell’aereo della Juventus). Tutti particolari, questi, che spiegano la strana reticenza con cui Baldas risponde alle domande circa il “passaggio” offertogli dal Di Tommaso sulla “Lancia K” per Juve-Inter. Interrogato per ben cinque volte sul punto dai direttori di due quotidiani sportivi (Candido Cannavò della “Gazzetta dello Sport” e Mario Sconcerti del “Corriere del- lo Sport”), Baldas rifiuta ripetutamente di ammettere la circostanza, peraltro confermata da quattro giornalisti testimoni: si limita ad ammettere «un normale rapporto di conoscenza con Di Tommaso, come con altri suoi colleghi che si occupano di arbitri». Una reticenza tanto imbarazzata quanto imbarazzante. E sospetta. Anche Di Tommaso, per giorni e giorni, non fornisce alcuna spiegazione sui fatti contestati: ha preferito volare alle Hawaii per una settimana di vacanza. Poi, finalmente, si fa vivo con un esilarante editoriale da Honolulu, pubblicato da “Tuttosport” il 4 maggio: «Ce l’hanno con me perché ho le notizie in anteprima e faccio gli scoop, tutta invidia», scrive il cronista amicone di Lucianone. Per il resto, autoincensamenti, messaggi trasversali ai colleghi-nemici e nessuna spiegazione plausibile, quindi il saluto finale: «Aloha» ‘ una vera anguilla, di quelle che piacciono un sacco a Moggi. Intanto i quotidiani concorrenti continuano a pubblicare note biografiche non proprio benevole sul conto di Di Tommaso. “Il Giornale” lo chiama «faccendiere». Il direttore della “Gazzetta dello Sport”, Cannavò, lo dipinge come «confidente degli arbitri, loro punto di riferimento per consulenze, referti, designazioni e stati depressivi», uno che contemporaneamente «lavora o ha appena lavorato per un giornale, per una moviola, per Casarin (il suo padre putativo), per alcune federazioni... e si vanta di essere la scorta di Giraudo in Lega e di andare spesso a cena con Nizzola,

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Moggi, Baldas e compagnia bella»; poi Cannavò si scaglia contro «i faccendieri che si agitano, senza un ruolo, ma con grande confidenza equamente spartita tra gli arbitri, i loro capi e taluni dirigenti di società». Qualcuno va a scavare nei trascorsi sportivi dell’intrigante giornalista, e scopre che sono piuttosto burrascosi. Ex arbitro di calcio. Ex giudice internazionale di scherma allontanato in circostanze rimaste misteriose (secondo “La Gazzetta dello Sport”, Di Tommaso venne addirittura «radiato o allontanato alla chetichella» ‘ ma l’interessato nega: «Se trovate un solo elemento che provi questa falsità, vi pago una cena»). Ex dirigente del Posillipo pallanuoto di Napoli (1986-88). Ex responsabile delle relazioni esterne della Federazione italiana pallanuoto (dal 1991 al gennaio 1998). Ma, nel 1997, uno spiacevole contrattempo: i dirigenti del Posillipo pallanuoto, che l’avevano cacciato anni addietro, lo accusano di essersi vendicato convincendo l’arbitro Caputi ‘ suo fraterno amico, con il quale aveva cenato giusto la sera prima ‘ a danneggiare la squadra partenopea nella decisiva finale-scudetto contro il Pescara. Lo dice Paolo De Crescenzo, tecnico del Posillipo, che oltre a rivelare l’episodio della cena, aggiunge: «Di Tommaso è molto, molto amico del presidente del Pescara Gabriele Pomilio». Ancora arbitri, ancora dirigenti, ancora amicizie molto strette, ancora sospetti e errori a senso unico. Anche in piscina... 32 - continua Dagospia 03 Luglio 2006

Lo scandalo Juve-arbitri ha due seguiti per così dire ‘giudiziari’. Due inchieste penali delle procure della Repubblica di Torino e di Firenze, investite del caso da alcune denunce private. E un’inchiesta federale su cinque arbitri internazionali ‘ Bazzoli, Collina, Treossi, Cesari e Ceccarini ‘ per presunte frequentazioni ‘scorrette’ con il giornalista Di Tommaso. Senza contare che Fabio Baldas viene silurato (il nuovo designatore arbitrale è Luigi Gonella), e la Federcalcio tenta di ripristinare un minimo di trasparenza affidando le designazioni al sorteggio informatico. Il 4 maggio 1998 il procuratore dell’Associazione italiana arbitri (Aia) Paolo Grassi interroga una quarantina di testimoni, fra tecnici e assistenti. Il 1° giugno, dopo le proteste della Juventus moggiana, Grassi smentisce indagini su arbitraggi riguardanti la società bianconera e afferma di indagare soltanto sulle fughe di notizie, le confidenze e le cene di alcuni arbitri con il giornalista tuttofare. Il 7 luglio la Procura dell’Aia dichiara chiuso il lavoro istruttorio, senza deferire nessuno perché ‘ testuale ‘ le giacchette nere coinvolte avevano, sì, frequentazioni ‘a rischio’, ma «psicologicamente non sapevano di sbagliare». Un verdetto talmente scandaloso che perfino Nizzola non può far finta di niente: il presidente della Federcalcio, incalzato dalle proteste di alcuni giornali e con la poltrona traballante, decide di avocare a sé l’inchiesta. E il 21 luglio, completata la lettura delle 41 pagine dell’istruttoria, invita Grassi a ritornare sui suoi passi. Così, come per miracolo, il 28 luglio i cinque arbitri (dalla lista degli ‘indagati’ manca inspiegabilmente il designatore Baldas) vengono deferiti alla Commissione disciplinare dell’Aia. L’accusa è grave: avere violato i doveri di «moralità e rettitudine» imposti dal regolamento, tra cene, incontri, vacanze, telefonate, scambi di regali e ammiccamenti col giornalista Di Tommaso. L’arbitro Cesari ha mentito alla Procura arbitrale, ‘dimenticandosi’ una delle tante cene romane con

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alcuni colleghi e con il giornalista, e la memoria gli è tornata fuori tempo massimo, soltanto quando l’ex collega Rosica e un guardalinee lo hanno platealmente smentito («Fu proprio Cesari a pagare il conto, era una sorta di padrone di casa, quella sera»). L’arbitro Treossi è un habitué alla tavola di Di Tommaso, come pure l’arbitro Ceccarini, presente con i due ad almeno una cena alle ‘Terrazze’ di Napoli. L’arbitro Collina deve spiegare una cena con Di Tommaso e Baldas. L’arbitro Bazzoli confessa addirittura di essersi consultato con l’intrigante giornalista di ‘Tuttosport’ su un episodio di Atalanta-Parma, per il quale non sapeva che pesci pigliare in sede di referto. Il codice delle sanzioni Aia prevede il ritiro della tessera, la sospensione temporanea, l’ammonizione e la censura. Alla fine, la Disciplinare opterà per la sanzione più blanda, la censura, e a carico di soli tre arbitri: Ceccarini, Cesari e Treossi (prosciolti Bazzoli e Collina). Anche Baldas tira un sospiro di sollievo: se Collina fosse stato punito per una cena a cui era presente anche lui... Il verdetto, l’indomani, viene commentato da ‘Tuttosport’ con acrimonia in un articolo siglato «D.D.T.»: «Il bilancio della Disciplinare è esilarante... Le sentenze emesse ieri non tolgono e non aggiungono nulla alla già tartassata (le colpe di Nizzola sono massime) categoria arbitrale... Ceccarini, Treossi e Cesari ricevono un cartellino giallo. Le loro colpe sono quelle di essere andati al ristorante o al bar con chi scrive... Da ieri gli arbitri sanno che andare al ristorante con chi scrive può portare all’ammonizione. Non di più» ‘ e alla fine del pezzo, la sigla «D.D.T.»: ma sì, proprio lui, Danilo Di Tommaso! Che lezione di stile! Anche ‘La Stampa’, evidentemente richiamata all’ordine sulla linea Moggi, tuona e fulmina, e non certo perché le sanzioni siano ‘ come sono ‘ troppo blande, anzi. «È finito», scrive l’anonimo cronista, «anche il secondo atto (l’ultimo, speriamo, perché la trama è davvero povera) del grande sceneggiato andato in scena [sic] negli ultimi mesi. Un fumettone estivo che aveva pretese di ‘moralizzare’ un sistema... e che è finito con una umoristica bolla di sapone. Come era ampiamente prevedibile, viste le incredibili premesse». Di tutt’altro livello l’editoriale di Candido Cannavò sulla ‘Gazzetta dello Sport’: «Cari Giraudo, Bettega e Moggi, nessuno si sarebbe permesso il minimo sussurro se questo amicone degli arbitri [Di Tommaso, ndr] non fosse stato di casa anche nel vostro club, scortandovi talvolta addirittura in Lega. Suvvia, un po’ di cautela...». Il caso vuole che proprio il giorno del verdetto si diffonda la notizia che la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze ha aperto un fascicolo sullo scandaloso arbitraggio di Empoli-Juventus del 19 aprile 1998, per il gol del terzino toscano Bianconi ignorato dall’arbitro Pasquale Rodomonti. A innescare l’indagine ‘ che il magistrato fiorentino Luigi Bocciolini definisce subito «un atto dovuto» ‘ sono due esposti: uno presentato da un avvocato napoletano, l’altro dal coordinatore nazionale del ‘Movimento per i diritti civili’, Franco Corbelli (molto amico del deputato-showman Vittorio Sgarbi). Si ipotizza che dietro la clamorosa svista arbitrale si nasconda il dolo: il che, secondo Corbelli, potrebbe configurare il reato di truffa e abuso d’ufficio (secondo una certa giurisprudenza anche gli arbitri sono pubblici ufficiali, o almeno incaricati di pubblico servizio); oppure, se per ipotesi si appurasse che sono girate delle mazzette, quello di corruzione. E sarebbe possibile anche l’illecito sportivo (che in Italia, come si è visto nello scandalo delle ‘squillo’ reclutate da Lucianone, è reato penale). La Procura di Firenze, anzitutto, acquisisce agli atti le indagini federali, il referto arbitrale, il responso del commissario di campo, mentre la polizia giudiziaria preleva nella sede della Rai le immagini televisive e le moviole della partita incriminata. Desta scalpore, fra l’altro, la circostanza che ha preceduto la designazione di Rodomonti per quella delicata partita Empoli- Juve. Ufficialmente, nel calcio italiano nessuna società può ‘ricusare’ un arbitro. Il mancato gradimento da parte di questo o quel club non rientra fra i requisiti che il designatore inserisce nel computer per la scelta delle destinazioni domenicali. Eppure Rodomonti ‘ non gradito alla Juve moggiana per un vecchio ‘sgarbo’ risalente addirittura all’autunno del 1994 ‘ è rimasto escluso dalle partite della Juventus per tre stagioni: decisione ‘ufficiosa’ e illecita, mai

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comunicata pubblicamente, assunta durante la gestione Casarin e proseguita con quella di Baldas. La quarantena è finita il 15 febbraio 1998 con Juventus- Sampdoria (direzione di gara contestatissima dai blucerchiati). Dopodiché il redento Rodomonti è tornato ad arbitrare la Juve a Empoli, dove ‘ fino a prova contraria, in buona fede ‘ ha regalato 2 punti importantissimi alla Juventus diretta da Lucianone, consentendole di mantenerne uno di vantaggio sull’Inter proprio alla vigilia dello scontro diretto. Ma i due denuncianti, per connessione, chiedono alla Procura fiorentina di indagare anche su altri tre arbitraggi sospetti: quelli di Juve- Roma, Lazio-Juve e Juve-Inter. «Non vogliamo ridisegnare il campionato, mettendo il naso anche nel calcio», si limita a dichiarare il pubblico ministero interpellato da ‘Il Giornale’, «ma ci è stato sollecitato un approfondimento su alcuni arbitraggi tecnicamente discutibili e noi andremo fino in fondo per vedere come sono andate realmente le cose. Come cittadino io credo poco all’ipotesi degli arbitri corrotti ma, se sarà fondato dubitare, andremo avanti con tutti gli accertamenti possibili». Intervistato dall’Ansa, il procuratore aggiunto Francesco Fleury spiega: «Non c’è alcuna ipotesi di corruzione né di altri reati. Non ci sono indagati, ma si tratta di accertamenti dovuti, disposti dopo la presentazione di un esposto». Anche il procuratore generale Cuttadauro interviene per chiarire i termini della questione: «Sono arrivate diverse denunce, tutte generiche, e non solo alla Procura di Firenze: era doveroso seguire la vicenda». Pochi giorni più tardi, dalla Procura di Torino trapela l’indiscrezione che anche lì si sta indagando in seguito a due denunce che riguardano Juventus-Inter, Juventus-Roma, Juventus-Udinese e Lazio-Juventus; due denunce e che ipotizzano apertamente arbitri ‘comprati’ dalla squadra bianconera, con varie accuse a Moggi. Non si sa quali elementi concreti abbiano presentato i denunzianti. La Juventus di Lucianone, ufficialmente, non replica a queste iniziative della magistratura, ma l’irritazione e l’imbarazzo sono palpabili. Un anonimo portavoce della società «non ritiene di dover replicare a tutto quanto viene detto e scritto sulla Juventus», ma in piazza Crimea si parla di «crociata antijuventina ». Basterebbe una battuta, per sdrammatizzare. Uno slancio di stile, tanto per cambiare un po’, in memoria dei vecchi tempi. Invece niente. Sindrome da stato d’assedio e digrignar di denti. Come sempre, nell’èra Moggi. 33 - continua Dagospia 04 Luglio 2006

Lucianone all’antidoping Il calcio è un grande spettacolo, ma quello italiano è all’italiana: basta grattare un po’, e salta fuori di tutto. Per esempio il doping, un nemico mortale dello sport, infatti vietatissimo da normative internazionali (del Cio) e nazionali (del Coni), fatte di minuziosi controlli e pesanti sanzioni. Normative vigenti dappertutto e per tutte le discipline agonistiche. Dappertutto fuorché in Italia, dove almeno uno sport rimane fuori della legge, anzi senza legge: il calcio. Il tabù del doping lo infrange l’allenatore della Roma Zdenek Zeman con un’intervista all’ “Espresso” il 6 agosto 1998. Per il calcio italiano, dopo l’overdose dei mondiali di Francia, è la fine anticipata delle vacanze. L’8 agosto la procura antidoping del Coni apre un’inchiesta. Il 9 agosto si muove anche la magistratura ordinaria, attraverso il procuratore aggiunto presso la Pretura di Torino Raffaele Guariniello, una vita trascorsa a proteggere la salute e i diritti dei cittadini e dei lavoratori. Guariniello convoca subito Zeman, in attesa di interrogare tutti i maggiori protagonisti dell’Italia pallonara.

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Ma cosa ha detto Zeman? La parola doping non l’ha mai pronunciata, si è limitato a denunciare che «il campionato rischia di finire come il Tour de France»: cioè sotto inchiesta per l’uso di anabolizzanti e altre sostanze dopanti. Nel calcio, sostiene Zeman, circolano troppi farmacologi, troppi farmaci, troppi «medici passati dalla bicicletta al pallone», mentre le società sono inondate di «depliant che reclamizzano prodotti capaci di migliorare del 50 per cento le prestazioni degli atleti ». Poi fa qualche esempio: «Sono rimasto sorpreso dalle esplosioni muscolari di alcuni juventini. Lo sbalordimento cominciò guardando la trasformazione di Gianluca Vialli [ex attaccante della Juve, ndr] e, per il momento, arriva ad Alessandro Del Piero [fuoriclasse della Juve, ndr]. Avendo praticato diversi sport, io pensavo che determinati risultati si potessero ottenere solo con il culturismo, dopo anni e anni di addestramento specifico». Poi Zeman tira in ballo anche un altro juventino, Ciro Ferrara, l’ex difensore del Napoli amicone di Moggi ai tempi di Maradona e dei coca-party: «Non credo che Ferrara ignorasse i problemi [con la droga, ndr] del fuoriclasse argentino: se qualcuno avesse preso a cuore la tossicodipendenza di Maradona, lo si sarebbe salvato da una mesta parabola». Sagge parole, che scatenano un putiferio. La reazione della Juventus è immediata e scomposta, affidata com’è al direttore generale Moggi, l’unico dirigente bianconero presente in Italia (gli altri sono tutti in ferie).

«È la solita cultura del sospetto!», tuona Lucianone, che minaccia di querelare Zeman. Ma c’è chi è pronto a giurare che quello stesso giorno parta da Torino una telefonata al presidente federale Luciano Nizzola, ancora in vacanza, con la perentoria richiesta di un’immediata squalifica di Zeman per almeno un anno. Anche il procuratore di Del Piero, Claudio Pasqualin, annuncia una querela a carico dell’allenatore boemo. Idem Vialli, che alza il tiro: «Zeman è un terrorista che dice coglionate! Se la Federcalcio non lo squalifica sono dei buffoni». Anche l’allenatore juventino Marcello Lippi attacca il collega romanista usando dei toni vagamente intimidatori: «Sappiamo bene chi è Zeman, il tipo di messaggi che manda e con quali scopi... Chi tira in ballo nomi come Vialli e Del Piero deve stare molto attento... La Juventus è un esempio per tutti, io non ho nulla da temere, tutti sanno come lavoro: vengono da tutto il mondo per vedere che cosa facciamo». Già, vengono proprio da tutto il mondo. Specialmente dalla Spagna e dall’Olanda. Grazie a Giuseppe Smorto, caporedattore di “Repubblica”, si scopre infatti che nel ritiro di Châtillon (Aosta) dove da qualche giorno si allena la Juve in vista della nuova stagione, si sono aggregati due consulenti stranieri con un passato quantomeno dubbio, in tema di doping: il preparatore atletico olandese Henk Kraaijenhof e il fisiologo (o dietologo, non è chiaro) argentino-spagnolo Guillermo Laich. Chi sono, questi due? Lo ricorda Smorto, citando il libro Campioni senza valore scritto da Sandro Donati (allenatore di atletica, antico e inascoltato nemico del doping, nonché responsabile della divisione Ricerca e sperimentazione del Coni). «Durante i campionati europei di Stoccarda del 1986», scrive Donati, «Kraaijenhof aveva cominciato a sostenere l’opportunità che un atleta impegnato nella preparazione si aiutasse con steroidi anabolizzanti, seppur con dosaggi modesti». Anche il velocista Claudio Pavoni capitò dalle parti dell’olandese dopo aver lasciato i suoi precedenti preparatori, l’allenatore Francis e il medico sportivo Astaphan: gli stessi che per anni avevano lavorato per Ben Johnson, prima che questi concludesse la sua carriera a causa del doping. Quanto a Laich, ricorda Donati, è stato a lungo collaboratore del dottor Kerr di Los Angeles, colui che somministrò negli anni Ottanta l’ormone somatotropo a molti atleti, rendendo poi pubblica la sua sperimentazione. «Kerr», scrive Smorto, «propose il doping anche a Pietro Mennea, che rese pubblico il fatto con una clamorosa intervista a Gianni Minà». Rimane da capire perché mai la Juventus diretta da Moggi abbia sentito il bisogno di reclutare due

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“sciamani” del doping come Kraaijenhof e Laich. Anche perché lo staff medico juventino è tutt’altro che sguarnito: oltre al responsabile del settore medico Riccardo Agricola (pugliese, laureato in psichiatria e specializzato in medicina sportiva), al medico sociale Fabrizio Tencone e al preparatore atletico Giampiero Ventrone (già al Napoli con Lippi e Moggi), nell’ultimo anno la società bianconera si è avvalsa della collaborazione del fisioterapista molisano Aldo Esposito, di tre massaggiatori, nonché della consulenza del guru della medicina sportiva Elio Locatelli (ex allenatore della Nazionale italiana di atletica). E non è finita. Infatti salta fuori un altro libro, intitolato In campo con la Juve (Sperling & Kupfer), autore Giampiero Ventrone. Il quale ammette candidamente di imbottire i calciatori di creatina, come “integratore” per far recuperare le fatiche delle partite e degli allenamenti. La creatina non è una sostanza vietata, né è considerata dopante: ma sulle sue conseguenze per la salute degli atleti circola più di un dubbio, specialmente sul lungo periodo. È ormai certo, poi, che in dosi massicce aiuta a migliorare artificialmente le prestazioni, e serve anche a “coprire” le sostanze dopanti rendendole irriconoscibili ai controlli. Molto dipende, dunque, dai quantitativi somministrati. E Agricola, nella prefazione al libro, scrive: «Durante il ritiro precampionato i giocatori ne assumono una decina di grammi al giorno.... Dosi comunque decisamente inferiori a quelle di quattro anni fa, quando ne facemmo uso per la prima volta». Tre anni prima “ agli albori dell’èra Lippi più Moggi” aveva fatto scalpore un’altra sostanza: la carnitina, che favorisce la trasformazione del grasso in energia e diminuisce il dolore fisico dopo lo sforzo. Una vera specialità di Ventrone, che aiuta i giocatori a correre come dei forsennati. Nemmeno quello era doping, ma anche quella volta si erano accese vivaci polemiche per uno sport sempre più simile a una farmacia. Adesso, invece, si parla di creatina, e non solo. Pochi giorni prima dello scandalo doping fatto scoppiare da Zeman, Agricola aveva dichiarato da Châtillon: «Tutto quello che usiamo noi lo può prendere tranquillamente un bambino di sei anni». 34 - continua Dagospia 05 Luglio 2006

Dopo appena due giorni dall’apertura dell’indagine sulla Juve e le altre società di serie A al centro dei sospetti, il procuratore Guariniello riceve un’inquietante minaccia. Una voce anonima lo chiama sul cellulare (il cui numero è noto a una ristretta cerchia di colleghi, avvocati e giornalisti) per intimargli: «Giudice, stai bene attento a quello che fai, riguardati la salute». Non è uno dei tanti messaggi anonimi con minacce di ogni genere che arrivano quotidianamente ai magistrati più esposti, e indirizzati genericamente alla Procura; è qualcosa di ben più mirato, un’intimidazione che infatti “ stando all’entourage del magistrato” non resterà isolata. Nell’occhio del ciclone, la Juventus sceglie di replicare alle accuse e ai sospetti con una conferenza stampa a due voci. Oltre al dottor Agricola, si materializza Luciano Moggi in tutto il suo splendore: occhiali scuri e alone ascellare di sudore d’ordinanza, oltre al consueto piglio minaccioso. «Risponderemo a tutte le domande», garantisce Lucianone ai giornalisti. Poi, alla prima domanda un po’ insidiosa, si mette a urlare: «Basta con le insinuazioni!». Agricola, più urbano, minimizza: «Il doping nel calcio non paga... Noi comunque usiamo solo sostanze lecite, cioè gli integratori: creatina, aminoacidi, vitamine, sali minerali». Quanto ai due “santoni” stranieri ingaggiati dalla Juve, «Laich è un dietologo specialista nella valutazione funzionale dell’atleta», e Kraajienhof «un famoso preparatore atletico». Lucianone è molto nervoso, e quando le domande dei giornalisti insistono su Laich e Kraajienhof taglia corto:

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«Passiamo ad altro! Queste sono due persone rispettabili, presentateci da una persona rispettabilissima: Elio Locatelli». Poi precisa che i due sono comunque «semplici consulenti», anzi «collaboratori occasionali». Ma è una mezza bugia: almeno per Kraajienhof salterà fuori un regolare contratto di collaborazione, subito acquisito dal procuratore Guariniello. «Noi», assicura Lucianone spazientito, «ascoltiamo tanta gente, poi alla fine decide sempre il nostro medico». E le passate scorribande dei due “sciamani” nel mondo degli anabolizzanti? Lucianone dà il meglio di sé: «Noi non ne sappiamo niente, abbiamo letto qualcosa sui giornali, ma con loro non abbiamo mai parlato di queste cose, perché la Juventus è contraria al doping... La Juve non è pulita, è pulitissima!». Dopodiché, sempre indossando gli occhiali scuri da guappo di periferia, Lucianone chiude la conferenza stampa con una raffica di minacce: «Noi andremo contro Zeman, andremo fino in fondo con la querela, Zeman dovrà rispondere di tutto, prendersi ogni responsabilità in sede penale! Le sue non sono nemmeno accuse, ma chiacchiere, cose che hanno a che fare con l’ignoranza! E Simoni [allenatore dell’Inter, ndr] s’è schierato con lui perché non sono stati tirati in ballo i giocatori dell’Inter!». La memorabile conferenza stampa si conclude degnamente: un cronista della “Gazzetta dello Sport”, Carlo Laudisa, denuncia la sparizione del suo personal computer, delle sue chiavi di casa e di alcuni altri effetti personali dalla sala stampa della Juventus. L’indomani, 12 agosto, la coppia Moggi-Agricola è di nuovo in scena: stavolta in trasferta, a Roma, dove il medico della Juve è atteso dal procuratore antidoping del Coni, avvocato Ugo Longo, per un interrogatorio. Longo s’è permesso di dire che Zeman ha posto un problema importante e che è giusto che s’indaghi a fondo sul calcio in farmacia. Apriti cielo! Lucianone, nella sua inedita veste di ambasciatore juventino presso il Coni, si scalmana: «Longo rispetti il segreto istruttorio, senza rilasciare dichiarazioni sulle sue valutazioni personali sulle persone chiamate a testimoniare!». Il povero Lucianone, non molto istruito neanche in fatto di codici penali, ignora che il procuratore antidoping non è un magistrato, e che dunque non è tenuto ad alcun “segreto istruttorio”, tanto meno sulle sue valutazioni personali e generali sul problema-doping. Ma l’ex ferroviere di Civitavecchia, tutto preso dalla inedita veste di giureconsulto, infila una gaffe dietro l’altra: trascinato dalla boria, arriva perfino a eccepire sull’opportunità che la Procura antidoping abbia deciso di sentire «quello scemo di Zeman» lo stile della Juve moggiana, come sempre, non è acqua. Ma il rebus dei due “sciamani” non finisce qui. L’augusto avvocato-presidente Chiusano, intervistato dalla Tv, ammette candidamente di non conoscerli, mai visti il che, per un presidente di società, è piuttosto grottesco. Gli altri dirigenti juventini tacciono: l’unico che ufficialmente conosce e difende l’olandese e lo spagnolo è Lucianone. Almeno per un po’. Perché una settimana dopo, Kraajienhof rilascia un’intervista a un quotidiano olandese nella quale invoca addirittura «la liberalizzazione degli anabolizzanti» e delle altre sostanze dopanti. È quello che lui ha sempre pensato, ma ha scelto il momento sbagliato per ribadirlo: l’imbarazzo in casa Juve si taglia col coltello. I due santoni sono ormai troppo ingombranti. Che fare? Cacciarli su due piedi significherebbe ammettere che c’era qualcosa da nascondere; tenerli come se niente fosse vorrebbe dire condividere le imbarazzanti tesi dell’olandese. Tocca di nuovo a Lucianone vergare un comunicato nel suo incerto italiano: «Ammesso che il signor Kraajienhof abbia rilasciato tale dichiarazione, si tratta di un parere del tutto personale, che non corrisponde al pensiero della Juventus, che anzi è esattamente il contrario» – testuale. In soccorso di Lucianone accorre l’amicone Nizzola, ancora in ferie in Kenya. Da Nairobi il presidente della Federcalcio detta alle agenzie una memorabile dichiarazione in cui afferma che i

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controlli antidoping nel calcio italiano sono «all’avanguardia nel mondo» (la qual cosa “ come emergerà di lì a poco” è un’assoluta falsità), e bolla chi obietta sull’uso di creatina e pozioni ancora peggiori come un nemico del «progresso scientifico». Posizioni, quelle dei due Luciani tornati a essere pubblicamente Gatto e Volpe, tanto difensive quanto indifendibili. Anche perché si scopre ben presto che i calciatori assumono tutto quello che i medici delle società gli propinano, senza neanche sapere bene di cosa si tratta e quali conseguenze possano avere sulla loro salute. Il che, fra l’altro, vìola la legge 626/94 sulla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti, e tali vanno considerati anche i giocatori di calcio: una legge che stabilisce precise responsabilità non solo dei medici, ma anche dei dirigenti dei club. I quali, in quanto datori di lavoro, sono tenuti a informare i sottoposti dei rischi derivanti dall’attività lavorativa nonché a prevenire e a ridurre al minimo quei rischi. Ma risulta che nessun dirigente di nessuna società di calcio lo abbia mai fatto. Men che meno la Juventus di Lucianone & C. Se ne rende conto il procuratore Guariniello quando fa sequestrare dagli ispettori della Usl le cartelle cliniche dei calciatori bianconeri, sulle quali il medico non registra mai gli “integratori” somministrati; e soprattutto quando il magistrato interroga decine di calciatori, tutti famosi e miliardari: costoro sanno tutto dei quattrini che guadagnano, fino all’ultima lira, ma delle sostanze che assumono ogni giorno sanno pochissimo, quasi niente. Dalle candide deposizioni dei giocatori davanti al magistrato vien fuori un po’ di tutto. Del Piero confessa che proprio nell’ultimo ritiro precampionato, quello caratterizzato dall’arrivo alla Juve dei due “sciamani” stranieri, i dosaggi di creatina e altre delizie sono improvvisamente aumentati. Non solo: alla vigilia dell’ultima finale di Coppa campioni (poi finita male, con la Juventus entrata in campo già cotta), per un mese intero il dottor Agricola ha somministrato a ciascun giocatore juventino 10 pillole colorate a giorni alterni. Che cosa fossero, Del Piero non sa dirlo; dalla Juve si fa trapelare che si trattava di vitamine e sali minerali. Perfino Kraajienhof, sentito da Guariniello, prende le distanze dalla Premiata Farmacia Juventus: dice che i sistemi di allenamento di Ventrone provocano lesioni e infortuni continui alle ginocchia dei giocatori, e che la creatina che gira in casa bianconera è decisamente troppa: dai 10 ai 20 grammi quotidiani a testa. Molti più di quanti ne abbiano ammessi lo stesso Del Piero e gli altri giocatori bianconeri (compreso qualche “ex”) interrogati dal magistrato: Vialli, Deschamps, Tacchinardi, Jugovic, Sousa, ecc. Ma c’è un’altra faccia dello scandalo doping che alimenta sospetti anche sulla Juventus: quello dei controlli antidoping farsa presso il laboratorio Coni dell’Acquacetosa, a Roma. Lì succede di tutto: in base alle norme Coni e Cio, tutte le provette con i campioni delle urine sorteggiati e prelevati ogni domenica su tutti i campi dei vari campionati professionistici dovrebbero essere analizzati, alla ricerca di tutte le sostanze vietate dalla lista nera del Coni (e del Cio). Invece si scopre che almeno per il calcio certe sostanze, come l’ormone della crescita, non vengono neanche cercate; altre, come gli anabolizzanti, soltanto sul 10-20 per cento delle provette; e i diuretici, che “coprono” gli steroidi, solo sul 5 per cento... Il presidente della Federcalcio Nizzola, che solo qualche giorno prima giurava sulla “perfezione” del sistema antidoping italiano, scarica tutto sul Coni. E così fanno i vari club e il loro trust, la Lega calcio presieduta da Franco Carraro (uomo Fiat al cento per cento). Mario Pescante, presidente del Coni, cade dalle nuvole e scarica tutto sulla Federazione medico sportiva, direttamente responsabile del laboratorio tramite il suo segretario generale, Emilio Gasbarrone. Guariniello raccoglie una serie di denunce su casi di doping acclarati, ma fatti sparire a vantaggio delle società più potenti. I nomi, nel fascicolo del magistrato, sono molti. Si parla anche del caso Maradona, scoperto con tracce di cocaina nelle urine alla fine della sua avventura italiana nel Napoli di Ferlaino e Moggi: qualcuno mette addirittura in dubbio la regolarità di quel controllo che molto (forse troppo) tardivamente “liquidò” l’ormai scomodo campione argentino. Dalle ripetute richieste di informazioni che il

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magistrato rivolge all’Acquacetosa, emerge pure che le attenzioni della Procura torinese si concentrano fra l’altro su due casi sospetti di doping insabbiato: i giornali scrivono dell’ex juventino (ora in forza al Crystal Palace, in Inghilterra) Michele Padovano per il campionato 1995- 96 (cioè il secondo campionato della nuova dirigenza bianconera), e del difensore del Milan e della Nazionale Alessandro Costacurta (il quale, come anche Padovano, smentisce subito di essere mai stato trovato positivo al doping, e annuncia querele contro chi ha fatto il suo nome). 35 - continua Dagospia 06 Luglio 2006

In casa Juventus il nervosismo sale alle stelle. Il 18 agosto, a Villar Perosa per la tradizionale amichevole della Juve contro la selezione giovanile bianconera, l’Avvocato Gianni Agnelli chiama a rapporto il vertice juventino “ Moggi, Bettega, Lippi, Ventrone e gli altri” per saperne di più sullo scandalo doping e sulla posizione della Juve. Lucianone giura che non c’è niente di cui preoccuparsi, che è tutto in regola, che la società non c’entra. Così l’Avvocato dichiara ai giornalisti: «La Juve non c’entra col doping, per fortuna la magistratura indaga seriamente e lo accerterà molto presto. Quelle su di noi sono soltanto chiacchiere». L’isterìa della dirigenza juventina aumenta quando il magistrato torinese fa ispezionare dai tecnici della Asl il gabinetto medico di Agricola allo stadio Comunale (dove si allena la Juve), asportando le fotocopie di tutte le cartelle cliniche di giocatori e ex giocatori bianconeri, e stampando dal computer tutti i file con le analisi del sangue per confrontare e verificare i valori ematici (dai quali si può eventualmente risalire all’uso di sostanze proibite). Guariniello dispone inoltre perquisizioni anche nelle farmacie dove lo staff sanitario della Juve si rifornisce di tutti i medicinali e i prodotti necessari alla preparazione e alla “cura” dei giocatori. Sarà un caso, ma quando cominciano a trapelare questi particolari sulla Premiata Farmacia Juventus, perfino un uomo prudente come il presidente del Coni Mario Pescante prende le distanze dalla Juve, e davanti al magistrato definisce i due consulenti bianconeri Kraaijenhof e Laich degli «stregoni». Quanto all’avvocato Longo, procuratore antidoping, chiude la sua inchiesta in fretta e furia. L’ordine di Nizzola è stato perentorio: «Bisogna fare in fretta, perché comincia il campionato». E il calcio giocato “sperano in molti” riuscirà a soffocare lo scandalo del calcio drogato. Pia illusione. Longo chiude la pratica dicendo che «a quel che ci risulta, non sono emersi casi di doping nel calcio»: esito ampiamente prevedibile, visto che davanti a lui chiunque può dire quello che gli pare, anche le bugie, nella giustizia sportiva non si rischiano incriminazioni per falsa testimonianza. Ma Longo, persona perbene, dice anche altre due cose. Dice che gli “integratori”, creatina in testa, sono tutt’altro che acqua fresca: sopra una certa dose, diventano essi stessi doping perché alterano le prestazioni muscolari degli atleti, e dunque andrebbero vietati come le altre sostanze dopanti; e soprattutto dice che Guariniello, «con i suoi poteri di magistrato, potrà scoprire ciò che noi non siamo riusciti a scoprire». Parole profetiche, quelle dell’avvocato Longo. Guariniello, infatti, scopre pochi giorni dopo che dall’archivio Coni dell’Acquacetosa è sparita tutta la documentazione degli esami antidoping sui calciatori: dai referti delle analisi (soprattutto i casi di positività occultati), alle provette con i prelievi. Sarà un caso, ma al primo test effettuato a sorpresa nel settembre 1998 dopo le accuse di Zeman, e in piena inchiesta giudiziaria un calciatore del Lecce e uno del Livorno risulteranno subito “positivi”al doping. Il magistrato torinese non molla la presa e continua a scavare nella Premiata Farmacia Juventus. I giornali almeno alcuni riportano quotidianamente gli sviluppi sempre più scabrosi dell’inchiesta.

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Si vocifera di giocatori, anche della Juve, dediti al vizietto della cocaina, e di possibili nuovi test positivi insabbiati nello scandaloso laboratorio dell’Acquacetosa. Una radio romana fa circolare alcuni nomi, compresi quattro di giocatori bianconeri. Così il 2 ottobre Moggi e Giraudo decidono di attaccare il magistrato e i cronisti che seguono l’indagine. I rappresentanti della stampa vengono convocati nello studio dell’avvocato Chiusano alle sette della sera. Arrivano anche Giraudo e Moggi, che però tacciono. Parla invece Chiusano, che si scaglia con veemenza contro «certi metodi di inchiesta, che favoriscono certo giornalismo deteriore». Ce l’ha soprattutto con Guariniello, colpevole di «indagare senza limiti di competenza e di tempo», dunque «in modo discutibile e scorretto» e per giunta «su reati che non si sa bene quali siano». Dai messaggi per il magistrato, l’augusto avvocato-presidente passa ai messaggi per la stampa: se la prende con «le indiscrezioni infamanti, molto simili agli editti medioevali»; annuncia querele contro chi ha fatto i nomi dei giocatori juventini, e ne minaccia molte altre ancora contro chi oserà tirare ancora in ballo la Juventus. Lucianone, seduto tra Chiusano e Giraudo, si limita a roteare gli occhi, visibilmente compiaciuto per la dichiarazione di guerra. Due giorni dopo, allo stadio torinese Delle Alpi, si gioca Juventus-Piacenza. Umberto Agnelli pensa bene di surriscaldare un altro po’ gli animi dei tifosi bianconeri, e prima dell’incontro rilascia una dichiarazione subito trasmessa da migliaia di radioline dentro e fuori lo stadio: «I metodi di Guariniello li ha definiti bene Chiusano, ma questa inchiesta deve chiudersi in fretta. Sono cose che disturbano. La squadra non gioca come vorrebbe o potrebbe... Di questo passo, si falsa il campionato». Per sua fortuna, il magistrato torinese non frequenta gli stadi, ma i giornalisti sì. E infatti vengono accolti da striscioni, abilmente organizzati, con scritte del tipo: «Tacete». Dieci minuti prima della fine della partita, alcune centinaia di esagitati della Curva Scirea (povero Gaetano...) si dirigono con una mobilitazione precisa e ordinata verso le cancellate che separano il settore ‘ popolare’ dalla tribuna. Alcuni riescono a sfondare le barriere, e arrivati nei pressi della tribuna stampa picchiano un addetto al servizio d’ordine, poi tentano di scagliarsi contro i giornalisti: la polizia in assetto di guerra li blocca a fatica. Altri salgono all’anello superiore’ e di lì lanciano all’indirizzo della stampa seggioline divelte, monete, sassi, bottiglie, bastoni, sputi. Lo stadio accompagna la spedizione punitiva con un coro martellante: «Uccideteli, uccideteli!». La partita si conclude con la tribuna stampa sgomberata, deserta. Alla fine l’avvocato Chiusano stigmatizza l’accaduto con poche frasi di circostanza, concludendo comunque che «la società non può farci niente». Lucianone, come e meglio del solito, è spudorato: «Io non mi sono accorto di niente, stavo guardando la partita». Anche gli attacchi a Guariniello producono risultati immediati: dopo le parole di Chiusano e Umberto Agnelli, il magistrato comincia a ricevere lettere e altre telefonate minatorie.

Alcuni giorni dopo, il dottor Agricola si reca in Procura per invocare la legge sulla privacy, e chiedere alla magistratura la restituzione delle cartelle cliniche dei giocatori acquisite dalla Asl e trasmesse al magistrato. Guariniello risponderà picche con una lunga e argomentata ordinanza, spiegando quello che qualunque laureato in legge sa benissimo: cioè che la privacy viene meno «per fatti di giustizia», altrimenti nessun magistrato potrebbe più aprire un’inchiesta a carico di chicchessia. La Juventus, a quel punto, annuncia altri ricorsi. Il 15 ottobre il giornalista Marco Travaglio che si occupa dell’inchiesta doping per “la Repubblica” scrive che Guariniello ha commissionato una consulenza farmacologica ad alcuni luminari della medicina sui valori ematici “sballati” (alcuni addirittura “impazziti”) di numerosi giocatori bianconeri. Letta la notizia, Chiusano monta su tutte le furie e, partecipando a un programma televisivo sul problema doping, annuncia al giornalista che lo querelerà.

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A questo punto entra in campo anche Lippi. Prima dice di «non poter escludere che alcuni calciatori facciano uso privato di cocaina», senza rendersi conto della gravità di quello che sta affermando. Poi si esercita anche lui nel tiro al giornalista scomodo: «Trovo scandaloso che del caso doping si occupino giornalisti di cronaca giudiziaria, che col calcio non hanno nulla a che vedere». Certo, sarebbe meglio che se ne occupassero i giornalisti sportivi, possibilmente i più compiacenti sulla piazza: magari gli amici di Moggi... Ma i sistemi moggian-chiusaniani non riescono ad arginare lo scandalo né a sopire le inchieste con il loro effetto terremoto. Indagato dalla Procura di Roma, che ha ereditato uno spezzone dell’inchiesta torinese, si dimette il presidente del Coni Mario Pescante. Nizzola, abbarbicato sulla poltrona più alta della Federcalcio, continua a giocare allo scaricabarile, spalleggiato dai suoi grandi sponsor: Giraudo, Moggi e Galliani. Ma anche il suo cadreghino traballa: sebbene si ostini a proclamarsi «ignaro di tutto» e addirittura «parte lesa» del pasticciaccio dell’Acquacetosa, Nizzola non può evitare che emergano parecchi altarini poco edificanti sulle responsabilità della Figc. Guariniello scopre, per esempio, che la Federcalcio si era data un regolamento antidoping tutto suo, in barba all’obbligo di recepire e seguire quello del Coni. In pratica, il calcio italiano godeva di una impunità “legalizzata” tutta particolare, sconosciuta agli altri sport. Non solo non venivano cercati gli anabolizzanti e i diuretici nelle urine dei calciatori, ma addirittura non si controllava neppure che i prelievi nei dopopartita avvenissero in maniera regolare. Le norme del Cio e del Coni prevedono l’obbligo per i medici “prelevatori” di effettuare il controllo del ph (acidità) e della densità urinaria sui campioni prelevati a fine partita, per evitare che i calciatori annacquino l’urina con acqua, Coca-cola o altre sostanze “coprenti” (diluenti o acidificanti); ma la Federcalcio aveva deciso di rendere facoltativa quella prescrizione che, per tutte le altre federazioni, era obbligatoria. In pratica, il ph e la densità urinaria dei calciatori non venivano mai controllati. E secondo alcuni testimoni, accadeva perfino che alcuni dei medici-prelevatori facessero la pipì al posto dei giocatori “a rischio”, su richiesta dei dirigenti e dei medici di alcune società molto potenti. Più volte il Coni aveva sollecitato la Federcalcio a mettersi in regola, ma la Federazione di Nizzola aveva sempre fatto orecchie da mercante. Difficile pensare che la Figc ignorasse i privilegi che essa stessa si era data, privilegi che rendevano i controlli antidoping una farsa bella e buona. E se nel calcio il doping “non risultava” è perché nessuno lo cercava. «È stato un errore, ma l’abbiamo commesso in buona fede», balbetta Nizzola sempre più patetico, aggrappato a una poltrona sempre più traballante, ostinato a non dimettersi. «È la solita cultura del sospetto!», aveva urlato Lucianone all’inizio dell’inchiesta-doping. E il suo amico Nizzola gli aveva dato manforte, giurando che «nel calcio il doping non esiste» perché in Italia i controlli antidoping «sono all’avanguardia nel mondo». Il Gatto e la Volpe nel paese di Pinocchio. 36 - continua Dagospia 11 Luglio 2006 Nella farmacia juventina

All’inizio del 1999 l’indagine antidoping della Procura torinese assedia la Juve moggiana. Per contrastare l’acquisizione delle cartelle cliniche dei giocatori bianconeri da parte del procuratore Guariniello, la dirigenza juventina inoltra un ricorso al garante della privacy Stefano Rodotà; ma a metà gennaio il ricorso viene respinto con l’ovvia motivazione che la privacy non vale per i dati acquisiti «a scopi di giustizia», cioè per «accertare ipotesi di reato». Qualche giorno dopo, Guariniello convoca a Palazzo di giustizia il difensore juventino Mark Iuliano, il quale nel corso dell’interrogatorio ammette di aver fatto ricorso alla creatina da quando è in maglia bianconera, ma limita al passato l’uso della sostanza. L’inchiesta prosegue.

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A metà giugno il procuratore Guariniello convoca il presidente del Coni Gianni Petrucci; il magistrato intende verificare l’atteggiamento del vertice sportivo rispetto a un fenomeno come quello del doping, che appare diffusissimo, ma Petrucci afferma che gli ispettori medici non gli hanno mai segnalato niente per quanto riguarda il calcio; al termine dell’incontro il magistrato consegna al presidente del Coni un elenco di duecento calciatori fortemente sospettati di avere fatto uso di sostanze dopanti. Ad agosto i sospetti si appuntano sul fuoriclasse juventino Edgar Davids, che a causa di un glaucoma utilizzerebbe un collirio contenente prodotti vietati dall’antidoping; ma qualche giorno dopo, il “via libera” del Coni smentisce la proprietà dopante del prodotto e permette al giocatore di entrare in campo. Risolto il momentaneo problema-Davids, l’estate bianconera del 1999 ne porta molti altri. In particolare, emerge il caso dell’ex juventino Didier Deschamps (poi passato al Chelsea). Il medico della Nazionale francese Jean-Michel Ferret riferisce al procuratore Guariniello che di norma l’ematocrito di Deschamps era stabile sul valore medio di 40-42; dalle analisi del sangue sequestrate dagli agenti di polizia giudiziaria al dottor Agricola, invece risulterebbero sbalzi fino a 50, e in almeno un caso addirittura oltre quel limite, considerato una soglia da non superare per non comportare rischi alla salute. Il “decollo” dei valori dell’ematocrito di Deschamps, secondo il medico transalpino, potrebbe essere spiegato dall’uso di eritropoietina, la famigerata Epo. L’attenzione della Procura torinese si sofferma, oltreché su Deschamps, soprattutto su Lombardo, Montero, Rampulla, Torricelli, Vialli e Dimas (quasi tutti “ex”). Il 29 maggio 2000 l’amministratore delegato juventino Antonio Giraudo e il capo dello staff medico bianconero Riccardo Agricola ricevono l’«avviso di chiusura indagini», premessa rituale alla richiesta di rinvio a giudizio per cinque accuse, fra le quali spicca per gravità la “frode in competizione sportiva”. A differenza di quanto avvenuto in altri ambiti sportivi (esempio: il ciclismo), le contestazioni del magistrato non vengono mosse ai giocatori (inconsapevoli vittime, secondo l’accusa) ma ai dirigenti. Gli altri reati vanno dalla violazione della legge 626/94 sulla salute dei lavoratori alla «somministrazione di farmaci pericolosi», dalle infrazioni alla legge anti-aids (per i test Hiv sui giocatori) alla ricettazione di farmaci fuorilegge (come la creatina e altri “integratori”, assunti in dosi massicce e non consentite). Pur avendolo indagato in quanto sommo dirigente juventino, per Luciano Moggi il magistrato non chiede il rinvio a giudizio perché non sono emersi specifici elementi a suo carico. Del resto c’è da giurare che, come un decennio prima a Napoli, anche a Torino Lucianone non deve essersi accorto di niente. La posizione della Juventus sotto processo è particolarmente grave, perché nell’ipotesi accusatoria quattro campionati e le relative Coppe Italia sarebbero stati «fraudolentemente alterati» dal sistematico ricorso al doping. Non si tratta di un periodo qualsiasi, bensì delle quattro stagioni bianconere tra il 1994 e il 1998, cioè le più brillanti della gestione Moggi: stagioni che, secondo l’accusa, sarebbero state viziate dall’uso di almeno una dozzina di sostanze dopanti «vietate dal Cio, dal Coni e dalla Federcalcio». La reazione della dirigenza juventina è furente. Essendoci di mezzo un processo, Lucianone tace. Parla solo l’avvocato-presidente Chiusano: «Finalmente l’inchiesta è finita», dichiara polemico. «Dopo due anni di mistero il velo è caduto, la statua è scoperta. Anzi, nuda. Perché non c’è niente, è un fallimento». Secondo il massimo dirigente bianconero, il procuratore Guariniello avrebbe «mancato l’obiettivo di trovare il doping alla Juve», inventato un «teorema inconsistente», imbastito un «processo non

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alla Juventus, ma al calcio» su fatti che «meritano al massimo un convegno, non un processo». E ancora: il magistrato avrebbe «ignorato dati normativi», «accumulato 20 mila carte in 36 faldoni, roba da processo di mafia», «criminalizzato e danneggiato una società con cento anni di storia», e «turbato i suoi giocatori». Malgrado il turbamento, Chiusano afferma: «Il processo non potrà che finire bene per noi. I tifosi stiano tranquilli, non c’è nulla di cui preoccuparsi... Se anche avessimo dato farmaci senza notifica, bisognerebbe dimostrare che ciò ha cambiato il risultato di una partita. E il magistrato non ce ne contesta nemmeno una». Ma negli atti si citano svariate partite disputate da giocatori juventini trattati irregolarmente con farmaci soggetti a restrizione d’uso: Deschamps, Dimas, Lombardo, Montero, Rampulla, Torricelli e Vialli... Inoltre, le carte della Procura contengono una perizia di Gianmartino Benzi e Adriana Ceci (docenti di ematologia presso le università di Pavia e Genova, e consulenti del Coni), secondo la quale i valori ematici di alcuni calciatori juventini sarebbero spiegabili solo con l’utilizzo di sostanze «stimolatrici dell’eritropoiesi»: i casi sospetti sarebbero quelli di Conte, Del Piero, Deschamps, Di Livio, Torricelli e Zidane. Tutte sciocchezze, secondo Chiusano, che ammonisce: «A parte la frode sportiva, che contestiamo, si tratta di contravvenzioni oblazionabili con quattromila lire, ma la Juventus non transige su nulla e si difenderà a spada tratta in tribunale». Malgrado le focose dichiarazioni del suo presidente, la Juventus sembra puntare soprattutto su una rapida archiviazione del procedimento. A metà luglio, gli avvocati Chiusano e Chiappero presentano una serie di controdeduzioni alle accuse basate sui pareri di altri farmacologi e ematologi, e chiedono al Tribunale una “superperizia” farmacologica con “incidente probatorio” in udienza preliminare, di fronte a un Gip. Guariniello, codice alla mano, risponde che per il reato di frode sportiva contestato alla Juve non è previsto niente del genere. Allora, per perdere altro tempo, la difesa juventina solleva un’eccezione davanti alla Corte costituzionale contro la norma che impedisce l’incidente probatorio. La conseguenza è il blocco del processo doping-Juve per un anno. Nel frattempo, la società bianconera si esercita in una serie di iniziative esterne al processo, finalizzate a influenzare il corso della giustizia ordinaria. Tre giorni dopo la sospensione del giudizio a Torino, il dottor Agricola si autodenuncia alla Procura del Coni «per sapere se il suo comportamento professionale alla Juventus sia stato corretto». In sostanza, il medico chiede alla giustizia sportiva di anticipare il verdetto di quella ordinaria. Negli stessi giorni prende posizione il massimo dirigente calcistico nazionale, il presidente della Federcalcio Nizzola: «È inconfutabile e non si può smentire che nel calcio non si fa uso di anabolizzanti e di ormone della crescita», afferma il vecchio amico di Lucianone, e precisa: «Sono stati effettuati più di ventimila controlli in laboratori stranieri e quindi al di sopra di ogni sospetto, e forse solo in un caso è stata riscontrata presenza di anabolizzanti. Nel calcio non si usano queste sostanze, almeno nel calcio di oggi, perché non posso parlare del calcio di trent’anni fa. Riferendomi al calcio di oggi ho in mano gli inconfutabili dati scientifici dei controlli antidoping ». Parole destinate a subire plateali smentite. Moggi continua a tacere, ma solo sulla vicenda doping. Per il resto, nel 2000 il suo traboccante presenzialismo mediatico supera ogni confine. La sua è praticamente la sola voce juventina titolata a parlare durante i silenzi stampa imposti dalla società ai giocatori prima per una settimana a maggio, e poi a oltranza da metà settembre: i calciatori bianconeri possono esprimersi solo per i loro sponsor, oppure attraverso i canali mediatici della società, mentre il direttore generale Lucianone assume l’inedito ruolo di portavoce generale. Difficile comprendere contro chi o che cosa sia stato annodato il bavaglio ai giocatori, salvo che si temano incaute dichiarazioni sulla scabrosa faccenda-doping. Che puntualmente si riaffaccia anche fuori dalle aule di tribunale.

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37 - continua Dagospia 14 Luglio 2006 Il 4 marzo 2001 i bianconeri giocano a Udine e vincono per 2-0, ma i controlli antidoping accertano che i valori di nandrolone (steroide anabolizzante vietato dal codice sportivo) di uno juventino sono quattro volte superiori al limite consentito. Si fa il nome di Edgar Davids, e Lucianone stavolta parla per non dire niente: «Non sappiamo nulla... Tutto quello che so me lo hanno raccontato i giornalisti. Non mi sono mai occupato di queste cose e spero proprio di non doverlo fare in futuro... Per ora siamo di fronte solo a un possibile caso di doping, perciò aspettiamo. Le notizie ufficiali si possono commentare, quelle presunte no». La conferma ufficiale non si fa attendere: il presunto dopato è proprio il fuoriclasse olandese della Juve, che il 17 maggio viene sospeso dall’attività agonistica in attesa del verdetto della Commissione disciplinare. Intanto, all’inizio di luglio, il processo di Torino esce dall’impasse: la Consulta rigetta il ricorso di Chiusano e restituisce la palla a Guariniello, che rinvia a giudizio Agricola, Giraudo e il farmacista Giovanni Rossano. Il 31 gennaio 2002 il terzetto comparirà davanti ai giudici del Tribunale di Torino per rispondere di frode sportiva, ricettazione, falso, violazioni dello Statuto dei lavoratori e della legge 626 per la tutela della salute sul posto di lavoro. Perentorio il commento dell’avvocato Luigi Chiappero: «Quello del pubblico ministero è un teorema insostenibile». Insostenibile e indifendibile, al momento, sembra farsi la posizione di Edgar Davids. Le controanalisi confermano l’illecito uso di nandrolone, e all’inizio di agosto la Procura sportiva chiede che al giocatore venga comminata una multa di 200 milioni di lire e una squalifica di otto mesi, al termine della quale Davids sarà sottoposto a sei mesi di “sorveglianza speciale” (con test antidoping a sorpresa) da parte della giustizia sportiva. Una dura richiesta che non turba Moggi: «Noi siamo tranquilli, non ci aspettavamo niente di più o di meno di quanto formulato dalla Procura». La serenità di Lucianone sembra trovare un perché a fine mese, quando la Commissione disciplinare della Federcalcio si riunisce per giudicare il caso nandrolone. La sentenza sportiva è preceduta da un sorprendente intervento della Fifa, che invoca una squalifica mite per Davids. Davanti alla Disciplinare, il procuratore antidoping Giacomo Aiello modifica la richiesta di squalifica: non più gli otto mesi invocati il 3 agosto, ma soltanto tre e mezzo, pena già scontata da Davids, che così potrebbe tornare in campo entro una settimana. Il verdetto della Commissione presieduta dall’avvocato Stefano Azzali è però meno mite della richiesta, e commina a Davids una multa di 100 milioni di lire con cinque mesi di squalifica: la sosta forzata si concluderà il 18 ottobre (l’olandese è sospeso cautelativamente dal 17 maggio). Mentre il legale juventino, avvocato Chiappero, annuncia ricorso alla Commissione d’appello federale (Caf), Moggi tace. Parla pochi giorni più tardi, all’inizio di settembre, dopo che la Caf ha ridotto a quattro i mesi di squalifica per Davids, restituendo il giocatore dopato agli impegni di campionato. «Uno che non ha fatto niente è giusto che pretendesse l’assoluzione piena», protesta imperterrito Lucianone: «Sembra che Davids sia stato l’unico nel mirino dell’antidoping, si parla soltanto di lui. Per questo ci ritiriamo nel nostro guscio e cerchiamo di non dare fastidio a nessuno». Quando fa la vittima, l’ex ferroviere meriterebbe l’Oscar. Il 22 settembre, a Lecce, insieme al compagno di squadra Paolo Montero, Davids è protagonista di una scazzottata in campo che certamente costerà ai due juventini una pesante squalifica. Ma la contromossa di Lucianone è fulminea: non potendo negare l’evidenza né evitarne le conseguenze, interviene per anticipare e depotenziare il verdetto della giustizia sportiva. «Non giustifichiamo niente e nessuno», tuona subito dopo la rissa, «siamo i giudici più severi di noi stessi, sistemeremo le cose al nostro interno». E il 26 settembre, alla vigilia della sentenza della Disciplinare, convoca presso la sede sociale i due giocatori, previo annuncio di castigo a mezzo stampa: «State tranquilli

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che dopo quanto gli dirò non si vedranno più certe scene». La dirigenza juventina appioppa ai due una multa di duecento milioni di lire a testa. La Disciplinare, commossa, limita le sanzioni a due sole giornate di squalifica per ciascuno. Il 23 gennaio 2002 comincia a Torino il processo-doping. Benché gli imputati siano solo l’amministratore delegato bianconero Giraudo, il medico sociale Agricola e il farmacista Rossano (che avrebbe fornito illegalmente alla società alcuni dei prodotti sotto accusa), il capo d’imputazione chiama in causa l’intera dirigenza juventina per «avere commesso atti fraudolenti al fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento di competizioni sportive... atti consistiti nel procurarsi, detenere, somministrare ai calciatori trattati specialità medicinali contenenti sostanze rientranti nell’elenco formulato dal Cio relativo alle “classi di sostanze proibite e dei metodi proibiti” in materia di doping». E a sostegno delle accuse, la Procura torinese elenca ben 150 testimoni. Tutto il vertice bianconero ostenta sicurezza. L’avvocato-presidente Chiusano dichiara: «Sono sollevato: finalmente, dopo due anni di voluminosissime indagini, possiamo difenderci ». L’imputato-amministratore Giraudo fa lo spiritoso: «So che il giudice Guariniello lavora pure d’estate e di notte. Mi auguro che qualcuno tuteli la sua salute». Ma in aula, davanti al giudice Giuseppe Casalbore, la difesa juventina si arrocca in un serrato catenaccio. Cercando di eludere il merito processuale, gli avvocati della Vecchia Signora si infilano nei meandri della procedura: chiedono la nullità dell’atto di citazione perché il fascicolo depositato dal pubblico ministero sarebbe incompleto, invocando addirittura l’immediato proscioglimento degli imputati. Inoltre, secondo i legali juventini dalla lista dei testimoni della Procura vanno depennati i nomi dei calciatori: primo «per evitargli la gogna mediatica», secondo perché «i giocatori non sanno niente delle sostanze, prendono quello che gli danno». Infine, riguardo alla contestata violazione della legge 626 sulla sicurezza del lavoro, chiedono l’oblazione: in pratica, la Juve ammette implicitamente la fondatezza dell’addebito, e chiede di cavarsela con una multa. I periti del procuratore Guariniello sottolineano che «i medicamenti detenuti [249 tipi di farmaci, ndr] dalla società Juventus sono una riserva soddisfacente per la conduzione di un piccolo ospedale italiano». Gli avvocati bianconeri rispondono che «la creatina in Italia la prendevano tutti: è un prodotto consentito, che può avere anche effetti benefici, e noi non abbiamo mai negato di averla utilizzata». Il perito dell’accusa Adriana Ceci però puntualizza: nella “farmacia” juventina ci «sono farmaci per tutte le patologie possibili e immaginabili, e addirittura inimmaginabili se i potenziali pazienti sono atleti giovani e sani. Ci sono 38 specialità neurologiche, 41 muscolo- scheletriche e 4 ormonali. Ma c’è una logica: i gastroenterici, ad esempio, servono a ridurre gli effetti secondari dei muscolo-scheletrici. E poi ci sono gli antidoti contro le intossicazioni da antidepressivi». La tesi dell’accusa, dunque, è che si alimenti una spirale perversa: si dà a un giocatore sano un farmaco lecito capace di incrementarne le prestazioni (il Voltaren, per esempio), quindi gli si somministra una sostanza che ne riduce i possibili effetti collaterali. Questo spiegherebbe la necessità di allargare continuamente la rosa delle specialità da conservare negli armadietti, acquistandole – è l’ipotesi della Procura – con stratagemmi che svincolino dalle ricette. Nel corso del dibattimento non manca qualche schermaglia dialettica evocativa dell’illustre assente Lucianone Moggi. Dice Guariniello rivolgendosi al principale imputato: «Dottor Giraudo, è quasi come al calciomercato, dammi questo che io ti cedo quello... Ci vorrebbe Moggi, che in queste cose mi sembra molto bravo». Giraudo replica: «Procuratore Guariniello, è vero... Sa, nel calcio moderno i procuratori contano molto, e Moggi è il migliore». Ma a parte questo, Lucianone non c’entra col processo alla “sua” Juve: lui, della presunta faccenda doping, non sa niente. Durante un’udienza il giudice Casalbore non riesce a trattenersi. Di fronte ai silenzi e alle reticenze dei calciatori juventini chiamati a testimoniare, in particolare dell’ex capitano Antonio Conte, il

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giudice sbotta: «Ma insomma, non si può venire in aula e non ricordare niente! Si tratta di medicinali che avete consumato voi giocatori. Attenzione: qui dire tutta la verità è un dovere». Non si sa se nella “farmacia” della Juve tra i 249 tipi di farmaci presenti ci fosse anche del fosforo (per la memoria). Non lo sa neanche Lucianone: lui, benché qualcuno per servilismo arrivi a chiamarlo «dottò», con la scienza medica non ha molta dimestichezza. A proposito di memoria e antidoping. L’11 settembre 2003 l’ex presidente del Napoli calcio Corrado Ferlaino racconta, in un’intervista a “Il Mattino”, un po’ dei suoi ricordi. Ricordi piuttosto imbarazzanti, nei quali salta fuori anche il nome di Lucianone. Ferlaino dichiara fra l’altro: «Maradona l’ho salvato dall’antidoping decine di volte... Dalla domenica sera al mercoledì, Diego, come qualche altro giocatore del Napoli, faceva quello che voleva [cioè sniffava cocaina, ndr], ma il giovedì doveva essere “pulito”... Basta non assumere cocaina per qualche giorno perché non risulti nelle analisi del dopo partita. Moggi, il medico sociale e il massaggiatore chiedevano ai giocatori se erano a posto... [Per l’antidoping] si adottava un trucco: se qualcuno era a rischio, gli si dava una pompetta contenente l’urina di un altro... Nonostante questro trucco, quel giorno del 1991 Maradona fu trovato positivo. Moggi gli aveva chiesto se era in condizione e lui rispose: “Sì, lo sono, va tutto bene”. Il fatto è che i cocainomani mentono a se stessi. Risultò positivo, e quando l’allora presidente Nizzola mi chiamò in via confidenziale per darmi la notizia, gli dissi “Presidente, dimmi cosa posso fare”, ma lui rispose: “Ormai non si può fare più nulla”». La replica di Lucianone è da antologia: «Ferlaino è un maestro nel mimetizzarsi e nel dare le colpe agli altri. Io non ero né il presidente, né il medico sociale del Napoli. Non sono a conoscenza di queste cose... Se le dice, vuol dire che le sa lui». Insomma: io non c’entro, e comunque non ne so niente. 38 - continua Dagospia 17 Luglio 2006

TUTTO IN FAMIGLIA L’inchiesta torinese sul doping ne genera un’altra, più nascosta ma altrettanto clamorosa: quella sugli arbitri e sui meccanismi di designazione. Forte è il sospetto che le procedure dei sorteggi che assegnavano un determinato arbitro a una determinata gara potessero essere aggirate o manipolate. All’inizio di febbraio 1999 viene interrogato Mario Auriemma, presidente del Civitavecchia con alle spalle una lunga esperienza ai vertici dei club pallonari: secondo alcune voci, col magistrato avrebbe parlato anche di Moggi. Auriemma si sottrae alle specifiche domande dei cronisti, però conferma che di Lucianone a Guariniello «ne avevano già parlato altri. Per esempio il povero De Sisti, uno che finché Moggi sarà in circolazione non troverà una panchina nemmeno in serie C». Le voci attorno al nome di Moggi si intensificano nella prima metà di marzo, quando al Palazzo di giustizia di Torino arriva il presidente giallorosso Franco Sensi. Per tre ore parla con Guariniello di meccanismi di potere, arbitri e dirigenti, facendo spesso il nome del presidente federale Nizzola e quello di Moggi (con il quale Sensi ha rapporti tesi fin dai tempi del passaggio dell’ex ferroviere alla Juventus). Il 25 marzo Guariniello dispone il sequestro del “computer degli arbitri” per verificare come venivano designati i direttori di gara nel contestatissimo campionato 1997-98 (il designatore era Fabio Baldas, al momento ospite fisso nel barsport-Tv di Aldo Biscardi). Il magistrato ritiene che i criteri di scelta fossero tutt’altro che trasparenti, anzi facilmente “pilotabili” dall’interno e

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dall’esterno. Uno speciale programma avrebbe dovuto assicurare il massimo automatismo nella scelta dei direttori di gara, abbinando i più bravi e più “adatti” alle varie partite, classificate secondo il grado di difficoltà. Invece si sospetta che il designatore potesse aggirare il software quando le decisioni del “cervellone” non erano gradite, come confermerebbero le spiegazioni tecniche degli ingegneri ai quali il magistrato ha affidato una perizia. Ai primi di ottobre dal pubblico ministero torinese si reca anche il presidente della Lazio, Sergio Cragnotti: “la Repubblica” scrive che «l’indagine sul calcio truccato riguarda una presunta “cupola” di potere formata da alleanze trasversali fra dirigenti di alcuni grandi club, procuratori e arbitri: ne hanno parlato diversi esponenti di società minori, più due “pentiti” rimasti finora top-secret». 39 - continua Dagospia 18 Luglio 2006

Mentre l’inchiesta-arbitri procede, Lucianone si esibisce nel suo miglior repertorio: quello della vittima. Denuncia un fantomatico “complotto” contro la sua Juve, e ospite dell’amico Biscardi si scaglia perfino contro la “prova televisiva” (introdotta nella giustizia sportiva per sanzionare le infrazioni più macroscopiche sfuggite all’occhio dell’arbitro): «Siamo contrari al modo in cui viene utilizzata. Purtroppo il tifo esiste e il regista potrebbe anche esaminare un’azione invece di un’altra... La tv è un mezzo che può venire manovrato dalla mano dell’uomo. Bisogna studiare qualcosa affinché non diventi un problema per il calcio, anche perché ci sono società che possono produrre le immagini autonomamente e altre che non lo possono fare». Lucianone se ne intende: lui nelle tv entra e esce senza problemi, come negli spogliatoi. All’inizio di dicembre arriva a sentenza l’altra inchiesta giudiziaria sui presunti favoritismi arbitrali del discusso campionato 1997-98, quella condotta dal Tribunale di Firenze. Inchiesta avviata dopo Empoli-Juve del 19 aprile 1998, quando l’arbitro Pasquale Rodomonti non convalidò un gol “fantasma” segnato dal difensore toscano Stefano Bianconi, consentendo la vittoria per 1-0 alla Juventus. Il Gip del capoluogo toscano, Antonio Crivelli, dispone l’archiviazione dell’inchiesta, rilevando l’assenza di dolo e di corruzione dei direttori di gara indagati, ma ipotizza che gli arbitri siano affetti da «sudditanza psicologica» nei confronti della Juve moggiana: nel suo decreto, il giudice scrive che «la sospetta coincidenza di errori arbitrali in più partite e a opera di più direttori di gara a favore della Juventus può lasciar trasparire una sorta di sudditanza psicologica». Lo scafato Lucianone incassa, e una volta tanto si cuce la bocca: «No comment». Il 12 dicembre 1999, allo stadio Delle Alpi, si gioca il derby d’Italia, la classica e spesso avvelenatissima Juventus-Inter. E ancora una volta sembra materializzarsi lo spettro della “sudditanza psicologica”. Il direttore di gara, Daniele Tombolini, è protagonista di due marchiani errori: all’8° minuto il portiere bianconero Van der Sar abbatte fuori area il nerazzurro Zamorano lanciato a rete; un fallo da espulsione, perché l’intervento preclude al giocatore interista una chiarissima occasione da gol; ma l’arbitro si limita a estrarre il cartellino giallo. Il secondo abbaglio si verifica al 60°, sull’1-0 per la Juve: il portiere juventino esce fuori area e respinge il pallone con il corpo: Tombolini prima valuta corretto l’intervento; poi, cedendo alle insistenti proteste dei nerazzurri, si consulta con il guardalinee e combina un papocchio: punisce il fallo di mani (che non c’è) con un nuovo cartellino giallo, ed espelle il portiere bianconero per somma di ammonizioni. L’effetto dei due errori parrebbe così compensarsi, ma in realtà è l’Inter a essere danneggiata: l’espulsione del portiere avversario nei primi minuti di gioco le avrebbe permesso di giocare l’intera partita in superiorità numerica.

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Questa stessa partita finisce sul tavolo di Guariniello per una strana omissione nel referto arbitrale. Tombolini avrebbe “dimenticato” di segnalare un importante episodio, poi rivelato da molti testimoni, che riguarda direttamente Moggi: per l’espulsione del portiere bianconero, il direttore generale della Juve si è precipitato nello spogliatoio della terna arbitrale e ha affrontato a muso duro Tombolini e i suoi assistenti di gara; l’arbitro ha messo alla porta Lucianone, ma poi ha evitato di denunciare la scenata nel referto per il giudice sportivo. “Salvando” così l’ex ferroviere, dirigente non autorizzato a frequentare gli spogliatoi arbitrali, dalle inevitabili conseguenze disciplinari. L’episodio viene commentato in maniera sorprendente dal presidente juventino Chiusano: «Sì, Moggi si è recato dall’arbitro a fine partita, com’è sua consuetudine: insieme ai saluti, ha espresso le sue opinioni. Ma non era un intruso, era un dirigente. Escludo che in Juve-Inter ci siano elementi di interesse penale». Che la polemica sia destinata a proseguire, lo dimostra poco dopo il presidente romanista Franco Sensi, protestando per le discutibili decisioni arbitrali che favoriscono sempre due squadre: la Juve moggiana, e il suo alleato Milan diretto dal grande amico di Moggi, il berlusconiano Adriano Galliani. Il dirigente rossonero dichiara subito che «il presidente della Roma ci ha diffamato», e annuncia una querela. Lucianone preferisce il sarcasmo: propone che per la prossima sfida Juventus-Roma «noi mettiamo il campo, il pallone e l’acqua per le docce, loro portino pure arbitro e guardalinee: ci va bene comunque». La tecnica moggiana in materia di arbitri è elementare e collaudatissima. Quando le decisioni arbitrali sono favorevoli alla Juventus (cioè quasi sempre), Lucianone si mostra sprezzante verso chi se ne lamenta o solleva sospetti. Le rarissime volte in cui un errore arbitrale penalizza la Juve (cioè quasi mai), apriti cielo: Moggi insorge, strepita, minaccia, protesta, invoca la gogna per i fischietti “stonati”. Come accade nel tormentatissimo sprint-scudetto con la Lazio. Domenica 3 dicembre 2000, durante Inter-Juventus a San Siro, il difensore bianconero Paolo Montero rifila un pugno alla mascella del centrocampista nerazzurro Di Biagio. L’arbitro Braschi non se ne accorge, ma in seguito il giudice sportivo Maurizio Laudi, basandosi sulla prova televisiva, infligge tre giornate di squalifica al difensore uruguaiano della Juve. Lucianone insorge furibondo: «Contestiamo tutto, incluso lo strumento che è stato utilizzato: la prova tv. In proposito ci siamo affidati ai nostri avvocati: sono loro che valuteranno e decideranno! Mi devono dire dove sia l’eccezionale gravità del fallo di Montero, considerato tra l’altro che Di Biagio ha potuto tranquillamente concludere la partita». Alla fine, Lucianone quasi urla: «È ora di finirla con questa storia! Adesso chiederemo di rivedere tutte le moviole di ogni squadra, per valutare cosa realmente accade in campo. Perché ho la sensazione che succedano anche episodi peggiori dei quali nessuno si interessa». Arroganza, sfacciataggine, vittimismo, sfrontatezza: lo stile-Moggi. All’inizio del 2001 si gioca Juve-Fiorentina: una punizione trasformata in gol dal gigliato Chiesa chiude la gara sul 3-3. Lucianone protesta: «Mi meraviglio del poco risalto dato dalla stampa nazionale ai fatti di questa partita. A parti invertite, avrebbero scaricato chissà quali invettive sulla Juventus... Per molto meno all’Olimpico, durante il match contro la Roma, noi dirigenti juventini che eravamo in tribuna ci siamo sentiti dare del “ladro” perché l’arbitro, con una decisione peraltro dimostratasi poi giusta alla moviola, non aveva sanzionato con il rigore un intervento su Totti. Va detto ciò che è giusto, e scusate se per una volta ho lasciato da parte lo stile Juventus». Poi passa alle minacce: «Dirigenti della squadra avversaria hanno parlato di vento contrario; allora noi dovremmo parlare di ciclone nei nostri confronti. Ma questa tendenza deve finire!». Il 14 gennaio la Juve è impegnata in casa contro il Bologna. Nuove proteste di Moggi contro l’arbitro: «Sull’operato degli arbitri ci siamo già espressi. Dico soltanto che tutti hanno gli occhi per giudicare ciò che sta succedendo».

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Poi però l’ex ferroviere cambia tattica e passa direttamente dalla mezza minaccia alla mezza promessa. Così ai primi di febbraio 2001, dalla solita tribuna Tv del “processo” biscardiano, lancia la sorprendente proposta di multare gli arbitri fuori linea: «Mi sembrerebbe logico, visto che i giocatori e gli altri dipendenti della società vengono multati quando sbagliano... Probabilmente ci sarebbe più attenzione e ci sarebbero meno sviste clamorose: le cose successe in Roma-Lecce, Roma-Bari o Atalanta-Juventus non dovrebbero accadere anche se l’arbitro deve decidere in pochi secondi». Per la cronaca, in Atalanta-Juve, finita 2-1, l’arbitro romano De Santis ha convalidato il gol del pareggio bergamasco, segnato in sospetto fuorigioco. Dalle continue lamentazioni anti-arbitri, Lucianone passa a un interminabile duello verbale con l’allenatore giallorosso Fabio Capello, che a fine febbraio 2001 costa a entrambi un deferimento alla Commissione disciplinare della Lega calcio. Provvedimento che – spiega una nota della Federcalcio – è stato preso «per avere alimentando dannose polemiche e sospetti sulla regolarità del campionato, mantenuto condotte non conformi ai princìpi della lealtà, della probità e della rettitudine nonché della correttezza morale in ogni rapporto di natura agonistica e sociale. Esternazioni che, rese pubbliche da organi di stampa, sono idonee, direttamente o indirettamente, a costituire incitamento a forme di violenza». Ma è un fuocherello di paglia: a metà aprile la Commissione proscioglie Moggi e Capello dalle accuse mosse dal Procuratore federale, con tanti saluti al tentativo di costringere Lucianone a toni più civili. Logico quindi che, a metà luglio, l’ex ferroviere si senta autorizzato a tornare sull’argomento con le solite allusioni: «Negli ultimi due anni abbiamo perso lo scudetto per fattori che nulla hanno a che fare con il calcio. Alcuni sono superati, altri ancora no». Lo scandaloso arbitraggio di Ceccarini che il 26 aprile 1998 ha consegnato lo scudetto 1997-98 alla Juve moggiana ha scavato un solco profondo tra l’Inter di Moratti e la Federcalcio presieduta da Nizzola, l’amicone di Lucianone. E i nodi vengono al pettine nella primavera del 2000, quando è in scadenza la massima carica del calcio italiano. Il “Corriere della Sera” del 13 marzo dà conto delle pressioni nerazzurre sotto il titolo: «L’Inter attacca Nizzola: deve andarsene. Dopo Moratti, interviene Oriali: “Arbitri allo sbando, Federcalcio inesistente. Tutto è contro di noi”». Nell’articolo si afferma: «Moratti, che non crede più nell’istituzione, è pronto allo scontro. Vuole la testa di Nizzola, il presidente fantasma che ha delegato tutti i poteri della Federcalcio alla Lega di Milano e che trascorre il sabato sera in un ristorante di Torino giocando a carte con il direttore generale juventino Luciano Moggi». Ma Luciano II non sembra avere alcuna intenzione di farsi da parte, forte della inossidabile amicizia di Luciano I e degli amici dell’amico. Così, a maggio, annuncia di essere pronto a ricandidarsi per la prestigiosa poltrona. Il “Corriere della Sera” scrive che «Nizzola perde la pazienza e alza la voce, guarda caso, solo quando gli chiedono di Luciano Moggi: burattinaio o semplice dirigente sportivo?». Risposta di Nizzola: «La domanda mi dà l’occasione per ribadire che non accetterò più insinuazioni di basso profilo. Moggi è mio amico dai tempi del Torino, nel quale abbiamo lavorato insieme per cinque anni. Ma sa benissimo che con me di calcio non può e non deve parlare. Se qualcuno oserà ancora insinuare che chissà cosa succede quando io e lui ci incontriamo, ne risponderà a tutti i livelli. Moggi non mi ha mai chiesto nulla, e io nulla sarei disposto a concedergli. Sia chiaro, ora e sempre». Il settembre del 2001 segna un momento top per la carriera di Lucianone. Dopo molti annunci, sulla scia delle due squadre romane la Juve conferma ufficialmente la propria imminente quotazione in Borsa con il collocamento del 35 per cento del capitale sociale. L’outing bianconero viene accompagnato dall’annuncio di un progetto faraonico: la costruzione di due “Juvelandia”, due cittadelle paragonabili a “Disneyworld” che dovrebbero sorgere la prima attorno allo stadio Delle Alpi, la seconda ai confini tra Vinovo e Nichelino, su un’area di cinquecentomila metri quadrati – una megastruttura ricreativo-commerciale immersa nel verde ma dove il marketing sarà tutto

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bianconero. Nella occasione, l’amministratore delegato Giraudo annuncia un’altra decisione strategica: l’aumento da tre a sette del numero dei componenti del Consiglio di amministrazione societario presieduto dall’avvocato Chiusano, e dunque l’ingresso nel Gotha juventino di Lucianone Moggi. Il quale per una volta sembra davvero commosso e cade in ginocchio: «Accolgo con piacere e orgoglio il riconoscimento conferitomi dalla società. Ringrazio la famiglia Agnelli, l’Avvocato e il dottor Umberto, per la stima e l’affetto che mi hanno dimostrato in questi anni. A loro mi lega un rapporto di fiducia ma anche di amicizia». Giraudo parla di lui come di una divinità: «A Moggi devo attribuire molti meriti per i risultati che abbiamo ottenuto in questi sette anni di comune lavoro. Sono molto felice che sia entrato a far parte del Consiglio d’amministrazione, a conferma dello spirito di gruppo che ha contrassegnato il nostro impegno. Oltre ai meriti, devo riconoscere a Moggi di avermi aiutato, e di aiutarmi ancora, a scoprire ogni aspetto del mondo del calcio, che lui conosce da anni... Gli auguro di continuare su questa strada per ottenere, insieme, i risultati che fanno parte della storia della Juve». Sono lontani anni luce i tempi dell’imbarazzato ostracismo verso l’ex ferroviere, i tempi in cui Agnelli lo chiamava «lo Stalliere», e Boniperti lo usava come osservatore esterno, tenendolo fuori dalla porta della sede sociale. Onore al merito: finalmente Lucianone è stato ammesso nel salotto della Real Casa. Ci sperava da tempo, e allo scopo aveva cominciato a vestire con minore pacchianeria, a parlare più l’italiano che il dialetto, ad atteggiarsi a più a manager che a ferroviere, a muoversi da miliardario anziché da arricchito. Certo, ben più di questi espedienti “d’immagine”, per la consacrazione agnelliana ha contato il suo potere smisurato di vero padrone assoluto del baraccone pallonaro. Nel calcio italiano di inizio Duemila non si muove foglia che Moggi non voglia, e il suo è un potere tanto pervasivo quanto inspiegabile. Qualcuno lo attribuisce alla formidabile spregiudicatezza del personaggio, altri al fatto che sia il più bravo di tutti; alcuni tirano in ballo vent’anni di inconfessabili segreti calcistici di cui sarebbe depositario, altri gli attribuiscono un inarrivabile talento per le pubbliche relazioni. Senza dimenticare l’effetto moltiplicatore della dinastia: Lucianone si muove in tandem con il figlio Alessandro, che fa carriera come procuratore. E che carriera. 40 - continua Dagospia 19 Luglio 2006

Negli stessi giorni dell’ingresso di Lucianone nel Cda juventino, nasce a Roma la Gea World, società che cura gli interessi di più di duecentocinquanta tra giocatori e allenatori di serie A e B. Alla nuova società sono interessati vari “figli d’arte”: Andrea Cragnotti (figlio di Sergio, patron della Lazio), Francesca Tanzi (figlia di Calisto, proprietario del Parma), Chiara Geronzi (figlia di Cesare, presidente della Banca di Roma), Davide Lippi (figlio dell’allenatore juventino Marcello), più l’immancabile Alessandro Moggi, presidente della Gea World, affiancato dal vicepresidente Riccardo Calleri (ex deputato berlusconiano e figlio di Gianmarco, ex azionista di maggioranza di Lazio e Torino). Direttore generale della società: Giuseppe De Mita (figlio dell’ex segretario della Dc Ciriaco). La Gea World è un insulto alla trasparenza, alla decenza, al senso della misura, è l’apoteosi di tutti i conflitti d’interesse possibili. Ma il baraccone pallonaro è disposto a tutto, in fatto di miliardi. Ogni tanto si leva qualche voce critica, nasce qualche polemica per il clamoroso conflitto di interessi, specialmente quello della famiglia Moggi. Ma è roba da ridere: Lucianone è intoccabile, può fare quello che vuole. Novembre 2002: durante la partita Modena-Juventus il giocatore Giuseppe Sculli (di proprietà bianconera, ma in prestito al club emiliano) sbaglia un gol già fatto, salvando la Juve.

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Capello dichiara: «Non credo che Sculli abbia sbagliato apposta contro la Juve. Certo, che poi ci sia una situazione anomala in un certo gruppo è sotto gli occhi di tutti: ci sono molti calciatori e allenatori tutti della stessa scuderia». Il pur cauto riferimento alla Gea di Alessandro Moggi è evidente. Lucianone si sente chiamato in causa e replica: «Capello dice così solo perché sta a -8 in classifica». Nel frattempo viene fatta circolare la voce che il figlio dell’allenatore giallorosso avrebbe tentato anche lui – senza riuscirci – di entrare come socio nella Gea World... L’incredibile scandalo di Gea World rende bene l’idea del potere moggiano: nessuno osa fiatare (al massimo, un qualche mugugno), e i pochi che ne parlano lo fanno con molta cautela. È il caso del presidente dell’Assoprocuratori, Oberto Petricca, che dichiara: «Ci vuole serenità nell’affrontare l’argomento. C’è stato un cambiamento di rotta nella professione del procuratore, con l’aggregazione di grandi gruppi, una situazione che non riguarda solo la Gea... Il vecchio regolamento prevedeva un tetto di 40 giocatori assistibili, nel rinnovarlo abbiamo proposto anche che non ci fossero più di 5 giocatori assistibili per squadra, ma le nostre proposte non sono state accettate dalla Figc». Lo scandalo finisce in Parlamento: il deputato leghista Giovanni Didonè rivolge un’interpellanza al ministro della Cultura (con delega allo Sport), il berlusconiano Giuliano Urbani, denunciando il conflitto di interessi e la possibilità che una simile società possa influenzare il campionato di calcio. Lo stesso parlamentare si rivolge anche al ministro dell’Economia, il berlusconiano Giulio Tremonti, perché valuti «l’opportunità di attivare particolari controlli sulle società calcistiche ed emanare norme fiscali per i bilanci delle medesime per evitare false plusvalenze e prevenire quei dissesti finanziari... che travolgono oltre alle società calcistiche anche le grandi imprese che le posseggono». Impensabile in altri Paesi europei, la Gea World è “normale” in Italia, anzi si appresta a diventare il fulcro delle principali iniziative di sfruttamento del mercato, il vero motore del circo pallonaro. Del resto, alla guida del governo italiano c’è il presidente-padrone del Milan (e di una quantità di aziende), primo ministro in pieno “conflitto di interessi” con il suo impero affaristico. All’inizio di dicembre 2002 la Gea World organizza a Firenze la prima edizione della manifestazione “Expogoal”, una tre giorni con l’obiettivo di «creare un’occasione di incontro fra club calcistici, aziende tradizionalmente attive nel campo delle sponsorizzazioni e operatori del marketing»: praticamente una fiera pallonara per valutare le strategie più opportune per sfruttare al meglio le “sinergie” economiche offerte dal calcio. La scelta dei tempi appare perfetta, perché proprio nei giorni della manifestazione fiorentina la dirigenza della Federcalcio è chiamata a deliberare sulla controversa liceità della Gea (un iter avviato nel precedente marzo dal presidente Franco Carraro, il quale ha attivato un’apposita commissione di indagine). Il 2 dicembre Antonio Matarrese, vicepresidente vicario della Lega calcio, dichiara: «Quello della Gea è un problema antipatico, non solo per il bene dei calciatori che rappresenta, ma anche per chi c’è dietro». Ma subito il neopresidente della Lega, il berlusconiano Adriano Galliani, gli replica: «Considero anomale le cose che lo sono, nessuno ha stabilito che la Gea lo sia, il presidente federale ha ordinato una indagine e ne aspettiamo l’esito». Settantadue ore dopo le dichiarazioni di Galliani, sul tavolo del presidente federale approda l’esito di quell’indagine: la Commissione afferma che «la Gea non ha commesso alcuna infrazione al regolamento, pertanto ha lavorato nel pieno della legittimità». Nel dorato dicembre 2002 si comincia a mormorare che Lucianone sia destinato a più elevati incarichi. Cooptato nel Consiglio d’amministrazione del club più blasonato, al primo posto nella speciale classifica dei dirigenti calcistici più pagati d’Italia (con un introito annuo dichiarato in

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2.226.000 euro), l’ex ferroviere secondo i giornali sarebbe in procinto di diventare presidente della Federcalcio (in precedenza guidata solo per interposta persona). Ma non basta. Più di una volta Moggi ha affermato che il vero problema della Nazionale italiana di calcio è la cosiddetta solitudine del commissario tecnico, costretto a subire la volontà dei club più importanti, e al quale dovrebbe dunque essere affiancata una figura inedita per il calcio azzurro, quella del coach-manager. L’idea di Lucianone super-Ct diventa pubblica per bocca del suo amico Pierpaolo Marino, direttore generale dell’Udinese, che propone appunto di affiancare all’allenatore azzurro una “superentità” non più anonima, ma definita: Moggi. In un Paese pieno di commissari tecnici della Nazionale, forse quello sarebbe il posto giusto per Lucianone, superesperto non solo di giocatori, ma anche di allenatori. Nel 2000 il suo vecchio nemico Zeman è finito al Napoli (un miliardo e mezzo di lire, premi a parte, per una stagione): secondo “la Repubblica”, mediatore dell’accordo è stato «il giovane procuratore Alessandro Moggi, figlio di Luciano». Molta acqua è passata sotto i ponti, da quella lontana estate del 1998, quando Moggi e Zeman si scambiavano parole di fuoco sullo scandalo del doping.

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Il padrone

Tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio 1999 la Juve moggiana, ormai estromessa dalla corsa allo scudetto, entra in crisi. Dopo la sconfitta di Cagliari (0-1), appare chiaro che l’allenatore Marcello Lippi ha i giorni contati. E quando la domenica successiva il Parma espugna lo stadio delle Alpi per 4-2, Lippi dichiara: «Se il problema sono io, me ne vado». Lucianone prende la palla al balzo e lo liquida. L’allenatore giubilato, tre mesi dopo, dirà: «Ho capito troppo tardi che non bisogna mai contraddire gli Agnelli» – Lucianone, invece, lo ha sempre saputo. E ha ingaggiato come nuovo allenatore Carlo Ancelotti. È la prova che anche il padreterno Moggi sbaglia (benché i giornali sportivi non osino scriverlo). Come dimostra anche la vicenda di Thierry Henry, un attaccante che Ancelotti apprezza, ma che la società vuole cedere. Nell’agosto 1999, in una saletta dell’aeroporto della Malpensa, alla partenza per Rostov (dove il giorno dopo la Juve giocherà la seconda sfida dell’Intertoto), Lucianone si apparta con Ancelotti: «Henry non deve giocare, perché se gioca non possiamo più cederlo. Lo vuole l’Arsenal, mi raccomando». Messaggio ricevuto: Henry resta in tribuna, e passerà all’Arsenal per undici milioni di sterline (quasi trentaquattro miliardi di lire). «Moggi temeva di non recuperare i soldi dell’investimento, temeva che il valore del giocatore diminuisse, e Henry nemmeno gli piaceva», dirà un suo anonimo collaboratore. Che cantonata, per il re del mercato: Henry, nelle tre stagioni successive segnerà – fra campionato, coppa d’Inghilterra e Champions League – più di 100 gol con l’Arsenal. Passata da Lippi a Ancelotti, la Juve moggiana non riesce a ottenere nemmeno il quarto posto per la Champions League allargata, né il passaporto per la Coppa Uefa. Così le tocca l’onta dell’Intertoto. Alla terz’ultima giornata di campionato si gioca a Torino Juve-Milan e la Lazio – diretta concorrente dei rossoneri nello sprint finale – sente puzza di bruciato visti gli ottimi rapporti che

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legano i due club del Nord: dopo un primo tempo dignitoso, finito 0-0, una doppietta di Weah (che sfrutta due sviste difensive dei bianconeri) stende la Juve e proietta la squadra berlusconiana verso un sorprendente scudetto. Pettegolezzi e insinuazioni sottolineano che mezza squadra bianconera si sarebbe battuta, mentre l’altra mezza avrebbe assecondato il destino... Nella stagione 1999-2000 la Juve ritorna al vertice, almeno in Italia. La Lazio è troppo discontinua, mentre i bianconeri – benché non offrano uno spettacolo esaltante – raccattano punti con impressionante regolarità. A febbraio 2000, dopo aver vinto il derby di ritorno per 3-2 in coincidenza con la sconfitta della Lazio a Verona (0-1), lo scudetto sembra già al sicuro: i bianconeri hanno 9 punti di vantaggio a otto turni dalla conclusione. Invece succede l’incredibile: Inzaghi non segna più e la Lazio passa a Torino sabato 1° aprile con una prodezza di Simeone, portandosi a meno tre. Lucianone trema. Alla penultima giornata il solito scandalo favorisce i bianconeri: durante Juve-Parma l’arbitro romano Massimo De Santis annulla un gol valido del gialloblù Cannavaro, proprio al 90°: così vince la Juve 1-0 (grazie al primo gol su azione di Del Piero in tutto il campionato). Il gol annullato era regolare, il Parma si sente derubato, la Lazio alza la voce. L’arbitro De Santis si contraddice sostenendo di aver fischiato per un fallo (inesistente) in area juventina prima del tocco di testa di Cannavaro, ma la moviola lo smentisce: ha fischiato quando ha visto che la palla stava planando nella rete. Divampano le polemiche, il presidente interista Moratti ricorda i torti subiti due anni prima, il presidente Cragnotti minaccia di abbandonare polemicamente la Lazio, i tifosi laziali annunciano un sit-in di protesta davanti alla sede della Federcalcio. Lucianone perde altre ottime occasioni per tacere: negli studi della “Domenica sportiva” sfodera la sua migliore faccia di bronzo per dire che il calcio d’angolo da cui è nato il gol di Cannavaro «è inesistente, quindi mi sembra che il torto lo abbiamo subìto noi!». La Figc apre un’inchiesta, e l’Aia sospende De Santis, ma è tutto fumo: il protettissimo arbitro sarà fermato per quattro mesi (in piena estate!) e mandato di nuovo in campo nel campionato successivo. In questo clima di sospetti si arriva all’ultima giornata di campionato: Juventus 71 punti, Lazio 69. Se vince a Perugia, contro una squadra già salva, la Signora è campione. Ma a Perugia, domenica 14 maggio, succede l’incredibile: nell’intervallo, sullo 0-0, mentre la Lazio sta domando la Reggina all’Olimpico, un nubifragio si abbatte sull’Umbria, un’ora di pioggia violentissima e incessante. L’arbitro Collina non può far riprendere il gioco, e decide di attendere più di ottanta minuti: le pressioni nei suoi confronti sono pesanti, le telefonate si susseguono, la Federcalcio vuole che il campionato si concluda senza code. Una sospensione definitiva del match e dunque la sua ripetizione provocherebbero conseguenze anche per l’ordine pubblico. A Roma è finita 3-0, quando a Perugia si riparte. E dopo quattro minuti lo stopper Calori insacca nella porta juventina dopo una respinta corta di Conte: 1-0. Mancano quarantuno minuti più recupero, la Juve ha tutto il tempo per rimediare. Ma la squadra è svuotata di ogni energia, il suo forcing non sfonda, il portiere perugino compie buoni interventi, Inzaghi sbaglia almeno tre palle gol. Finisce così. Lo scudetto è della Lazio, mentre l’Italia juventina è in lacrime. Lucianone è furioso: «Dicono che io abbia tanto potere, eccolo il mio potere! Tutti hanno potuto vedere che cos’è successo, la verità è che non si poteva continuare a giocare, ma l’arbitro ha preso una decisione diversa». Traduzione: abbiamo perso lo scudetto per colpa dell’arbitro. Strano: il campo di gioco era bagnato tanto per i bianconeri quanto per i loro avversari... La stagione juventina 2000-2001 comincia come peggio non si potrebbe: in ritardo in campionato (mentre la Roma di Capello vola ipotecando lo scudetto), i bianconeri escono dalle Coppe al primo turno. Ancelotti rischia, ma Moggi lo difende a spada tratta. Lentamente la Juve moggiana risale la classifica e parte all’inseguimento della Roma, fino allo scontro diretto, domenica 6 maggio 2001.

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Finisce 2 a 2, e questo vuol dire scudetto alla Roma. Inutili le successive cinque vittorie consecutive dei bianconeri, che riescono soltanto a ridurre le distanze fino a 2 punti. Il secondo posto non basta, anzi due secondi posti consecutivi sono insufficienti per le ambizioni da primato degli Agnelli. Lucianone continua a difendere l’allenatore Ancelotti, ma Umberto insiste per tornare a Lippi. Allora l’ex ferroviere, uomo dalle mille facce e mille casacche per tutte le stagioni, prontamente si adegua: Ancelotti viene licenziato, Lippi ripescato. Nell’estate 2001 Lucianone ingaggia il laziale Nedved, dopo una laboriosa trattativa con Cragnotti che suscita qualche sospetto: c’è chi parla di un “patto segreto” fra il presidente biancoceleste e il megadirigente juventino. Soltanto fantasie? Chissà. Cragnotti e Moggi si conoscono molto bene e si frequentano volentieri (a parte i rapporti di affari tra i loro rispettivi rampolli). Secondo alcuni giornali, l’Inter avrebbe tentato di strappare Lucianone alla Juve; ma – scrive il “Corriere della Sera” – «il presidente onorario della Juve avrebbe rinfacciato a Moggi di essere stato proprio lui a diffondere l’indiscrezione, forse per riacquistare potere all’interno della società bianconera». A differenza di Ancelotti (definito «un perdente di successo» dal giornalista Franco Rossi), Lippi è un vincente, e lo dimostra. A cinque giornate dalla fine del campionato 2001-2002 la sua Juve ha 6 punti in meno dell’Inter. Alla penultima ha ridotto il distacco a un solo punto. Lo scudetto si decide all’ultima partita, che vede la Juve a Udine e l’Inter all’Olimpico contro la Lazio. Alla vigilia Lippi sbotta: «Mi viene da vomitare» – commenta le voci ricorrenti di una passeggiata nerazzurra in casa laziale. In realtà a passeggiare sarà solo la Juve, che rifila due gol in dieci minuti all’Udinese già salva (ha vinto a Lecce grazie a un rigore inesistente la domenica precedente). L’Inter intanto, due volte in vantaggio con Vieri e Di Biagio, si fa rimontare e dopo l’intervallo crolla: vince la Lazio 4-2, e lo scudetto è della Juve. Dopo quattro stagioni di astinenza, che avevano fatto dubitare delle virtù di Lucianone. Anche lo scudetto 2002-2003 è della Juve. Girone di andata di contenimento, molti arbitraggi “morbidi” (un dato per tutti: Nedved e Trezeguet, diffidati dopo la terza ammonizione, non verranno più ammoniti e chiuderanno il torneo da diffidati, stabilendo un vero record). Girone di ritorno a tutta velocità, con gli avversari sbaragliati. Una stagione felice, guastata però dall’infausta finale di Champions League, persa ai rigori contro il Milan berlusconiano, a Manchester. Ma Lucianone è un uomo di mondo, sa che non tutto il male viene per nuocere: il trofeo europeo al Milan fa contenti il presidente della Lega calcio e il presidente del Consiglio dei ministri. La diarchia Juve-Milan val bene una coppa. * * *Nel mondo crollano i vecchi muri e si combattono nuove guerre, in Italia crollano i miti e si avvicendano le Repubbliche, ma nel calcio nostrano non cambia mai nulla. Passano gli anni, le ère glaciali, ma il pallone italico è fermo al mesozoico. E il padrone è più che mai lui, Luciano Moggi da Monticiano. Direttore generale della più blasonata società italiana; incontrastato boss del calciomercato, e padre del prode Alessandro (presidente della Gea World che cura gli affari di decine di calciatori di serie A, B e C); amicone del presidente della Lega calcio Adriano Galliani; culo e camicia con tanti giornalisti sportivi; santo protettore di una decina di allenatori. Quegli allenatori che non si affidano a Lucianone – o perché non lo amano, o perché credono di poter fare da soli contando sulle proprie capacità – vanno regolarmente incontro a qualche guaio. È il caso di Arrigo Sacchi, di Carlo Mazzone, di Gigi Radice, e soprattutto degli ex azzurri Aldo Agroppi e Giancarlo De Sisti. Agroppi collaborava con Raitre e con le reti Fininvest, poi è entrato in conflitto con la Juve, e oggi deve accontentarsi di qualche comparsata su piccoli giornali e tivù locali.

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De Sisti, da quando Moggi gli ha dichiarato guerra, ha dovuto smettere di fare l’allenatore: non lo ingaggiava più nessuno, e si è dovuto accontentare di fare il commentatore televisivo: «Da quando dissi che Moggi è il capo dei ladroni», ricorda, «non ho più allenato». Anche i dirigenti che hanno osato mettersi di traverso a Lucianone l’hanno pagata cara. È il caso dell’ultimo Boniperti, che ha dovuto farsi da parte; o del presidente della Roma Franco Sensi, che resiste in trincea tra mille difficoltà. Qualcun altro, più pragmatico, ha dovuto andare a Canossa – cioè a Monticiano, che non è molto distante. Il presidente del Toro Massimo Vidulich ha trovato chiuse tutte le porte del calciomercato finché, nell’estate 1998, non si è deciso a ingaggiare come dirigente Luigi Pavarese, l’ex portaborse di Moggi: e a quel punto ha trovato porte aperte, anzi spalancate. È il solito Lucianone di sempre, più potente e sfrontato che mai, fedele al motto andreottiano: «Il potere logora chi non ce l’ha». Chi ama davvero il calcio, invece, confida nel motto craxiano: «Prima o poi le volpi finiscono in pellicceria». 42 - fine

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