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IL LICEO GINNASIO STATALE “RAIMONDO FRANCHETTI” PRESENTA: E anche per quest‟anno, è fatta! Le lezioni sono finite e i nostri pensieri ormai sono proiettati alle vacanze. Ma poiché la fine della scuola è an- che un momento di bilancio su ciò che si è fatto, il Camaleonte, con quest‟ultimo numero dell‟anno, vuo- le dare il suo contributo alla riflessio- ne. C‟è il bilancio di chi è ormai giunto al traguardo: che senso ha avuto, cosa ci hanno dato questi cinque anni al Franchetti? E con quali prospettive un giovane, al giorno d‟oggi, studia e si impegna per raggiungere i propri obiettivi? La scuola però è anche il luogo dove si possono fare esperienze diverse, come la partecipazione al gruppo tea- trale e al coro dell‟istituto, che richie- dono impegno ma che sono, allo stes- so tempo, gratificanti e divertenti: lavorare con gli altri, accettare la sfida e salire su un palco hanno una di- mensione formativa che troppo spes- so viene trascurata a livello istituzio- nale e che invece andrebbe sostenuta e valorizzata. Infine, due momenti molto impor- tanti hanno caratterizzato questo an- no scolastico: la celebrazione del Set- tantenario e i festeggiamenti per i 150 anni dell’unità d’Italia. Vorrem- mo che la celebrazione di questi anni- versari non rimanesse solo un episo- dio, ma ci aiutasse a riscoprire il sen- so di una appartenenza, alla scuola e alla nazione. Ci piace pensare che d‟ora in poi le diverse targhe, monu- menti, nomi di vie e piazze del nostro territorio assumeranno un significa- to, o almeno susciteranno il desiderio di sapere qualcosa di più della nostra storia e delle persone che hanno con- tribuito, spesso a prezzo della loro vita, a renderci Paese. Lo studio e la celebrazione del passato, poi, hanno un senso se ci aiutano anche a vivere in modo più consapevole e critico il presente e a progettare il futuro. Non lasciamo che le decisioni vengano prese sulle nostre teste, accettando passivamente che altri decidano per noi: riflettiamo, dunque, sul federali- smo, sul referendum, sugli stessi que- siti referendari. La tragedia in Giap- pone ha costretto tutti a ripensare all‟energia nucleare, tanto che molti si sentono in dovere di attuare una specie di moratoria generale. Ma non per questo dobbiamo smettere di oc- cuparcene e di capire. ANNO IX N°3 GIUGNO 2011 In redazione: Anna Baldo (V D), Virginia Barelli (IV D), Giada Bozzelli (IV D), Tommaso Bortolato (V D), Laura Carraro (V C), Edoardo Cecchinato (I C), Pietro Della Sala (III C), Anna Fortunato (II C), Eleonora Marangon (V C), Elena Pantaleoni (IV B), Ginevra Rocchesso (II C), Elena Viggiani (V C), Serena Voltan (V C), Irene Zuin (V C). Impaginazione: Francesca Trevisan(IV B), Lorenzo Manzoni (IV C). SI RINGRAZIANO: Giovanbattista Zane, Giovanni Azzalin, Anna Bernante, Elisa Taglia- pietra, Alice Salvadego e il prof. Andrea Gioia In questo numero: L’Unità d’Italia Tempi Di bilanci e di progetti Il nucleare Referendum 2011

L’Unità d’Italia - liceofranchetti.it · Nato a Nizza nel 1807 da una famiglia di mari-nai, Giuseppe Garibaldi aveva aderito, ancora giovanissimo, alle idee mazziniane. Costretto

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IL LICEO GINNASIO STATALE “RAIMONDO FRANCHETTI” PRESENTA:

E anche per quest‟anno, è fatta! Le lezioni sono finite e i nostri pensieri ormai sono proiettati alle vacanze. Ma poiché la fine della scuola è an-che un momento di bilancio su ciò che si è fatto, il Camaleonte, con quest‟ultimo numero dell‟anno, vuo-le dare il suo contributo alla riflessio-ne. C‟è il bilancio di chi è ormai giunto al traguardo: che senso ha avuto, cosa ci hanno dato questi cinque anni al Franchetti? E con quali prospettive un giovane, al giorno d‟oggi, studia e si impegna per raggiungere i propri obiettivi? La scuola però è anche il luogo dove si possono fare esperienze diverse, come la partecipazione al gruppo tea-trale e al coro dell‟istituto, che richie-dono impegno ma che sono, allo stes-so tempo, gratificanti e divertenti: lavorare con gli altri, accettare la sfida e salire su un palco hanno una di-mensione formativa che troppo spes-so viene trascurata a livello istituzio-nale e che invece andrebbe sostenuta e valorizzata. Infine, due momenti molto impor-tanti hanno caratterizzato questo an-no scolastico: la celebrazione del Set-

tantenario e i festeggiamenti per i 150 anni dell’unità d’Italia. Vorrem-mo che la celebrazione di questi anni-versari non rimanesse solo un episo-dio, ma ci aiutasse a riscoprire il sen-so di una appartenenza, alla scuola e alla nazione. Ci piace pensare che d‟ora in poi le diverse targhe, monu-menti, nomi di vie e piazze del nostro territorio assumeranno un significa-to, o almeno susciteranno il desiderio di sapere qualcosa di più della nostra storia e delle persone che hanno con-tribuito, spesso a prezzo della loro vita, a renderci Paese. Lo studio e la celebrazione del passato, poi, hanno un senso se ci aiutano anche a vivere in modo più consapevole e critico il presente e a progettare il futuro. Non lasciamo che le decisioni vengano prese sulle nostre teste, accettando passivamente che altri decidano per noi: riflettiamo, dunque, sul federali-smo, sul referendum, sugli stessi que-siti referendari. La tragedia in Giap-pone ha costretto tutti a ripensare all‟energia nucleare, tanto che molti si sentono in dovere di attuare una specie di moratoria generale. Ma non per questo dobbiamo smettere di oc-cuparcene e di capire.

ANNO IX N°3 GIUGNO 2011

In redazione: Anna Baldo (V D), Virginia Barelli (IV D), Giada Bozzelli (IV D),

Tommaso Bortolato (V D), Laura Carraro (V C), Edoardo Cecchinato (I C), Pietro Della

Sala (III C), Anna Fortunato (II C), Eleonora Marangon (V C), Elena Pantaleoni (IV B),

Ginevra Rocchesso (II C), Elena Viggiani (V C), Serena Voltan (V C), Irene Zuin (V C).

Impaginazione: Francesca Trevisan(IV B), Lorenzo Manzoni (IV C).

SI RINGRAZIANO: Giovanbattista Zane, Giovanni Azzalin, Anna Bernante, Elisa Taglia-

pietra, Alice Salvadego e il prof. Andrea Gioia

In questo numero:

L’Unità d’Italia

Tempi Di bilanci e di progetti

Il nucleare

Referendum

2011

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2 Ci riguarda da vicino

Loro ci hanno creduto davvero... Lo sapevate che nella nostra città e nella vicina Venezia vi sono piazze, calli, vie dedicate ad al-cuni personaggi che hanno combattuto per un ideale comune, cioè la formazione di un Regno d‟Italia? Se oggi possiamo infatti parlare di un‟Italia uni-ta e festeggiare i 150 anni dalla sua formazione è grazie ad alcuni avvenimenti storici e ad alcu-ne persone, divenute in seguito eroi nazionali, che hanno preso parte al processo lungo e tor-mentato, ma giustamente tanto celebrato, che chiamiamo Riunificazione. Ma chi sono costo-ro? E cos‟hanno fatto?

Fra questi eroi, questi personaggi che hanno fortemente voluto l‟Italia Unita vi è Giuseppe Mazzini, un giovane carbonaro che dopo aver partecipato alle proteste studentesche del 1821, fu esiliato. Stabilitosi in Francia, a Marsiglia, diede origine ad un movimento organizzato, mirante all‟istituzione di una Repubblica Italia-na Unitaria: la “Giovine Italia”. In seguito al fallimento di questo, fondò la “Giovine Euro-pa” ma anche questo tentativo fallì. Tuttavia, nonostante l‟insuccesso, diede inizio ad una serie di “agitazioni” popolari che sfociarono prima, nel 1848, in moti rivoluzionari che vide-ro come protagonisti, a Venezia, Daniele Ma-nin e, a Milano, Carlo Cattaneo e portarono

inoltre alle guerre d‟indipendenza. Queste si conclusero nel 1861, quando, il 17 Marzo, venne proclamato il Regno d‟Italia, un Regno “parziale” perché, come sappiamo, man-cavano ancora il Veneto, il Lazio e il Trentino. Nel 1866 un accordo militare con la Prussia mise l‟esercito italiano nelle condizioni di ri-prendere le ostilità contro l‟Austria che fu co-stretta a combattere su due fronti. L‟Italia, pur subendo due sconfitte, una a Cu-stoza, l‟altra a Lissa, poté tuttavia godere i van-taggi derivati dalle vittorie prussiane ottenute dall‟esercito del primo ministro Bismarck. Secondo gli accordi Italo - Prussiani, stabiliti prima della guerra, l‟Austria dovette cedere il Veneto all‟Italia. Il Trentino, invece, rimase sotto il dominio austriaco e bisognerà aspettare il termine della prima guerra mondiale. Nel Lazio, invece, il potere era nelle mani della Chiesa che si mostrò, fin da subito ostile all‟unione del Regno d‟Italia. Ma il 20 settembre del 1870, dopo che i France-si, sconfitti in una guerra con la Prussia, furono costretti a ritirare le truppe che presidiavano Roma, le truppe italiane entrarono in Roma attraverso una breccia aperta nelle mura della città presso Porta Pia. Due settimane dopo, un plebiscito proclamò l‟annessione del Lazio al

Regno d‟Italia. E la capitale, inizialmente a To-rino e poi a Milano, si spostò a Roma. Forse, però, i personaggi più importanti, che presero parte ad una serie di eventi che portò all‟unificazione, furono Giuseppe Garibaldi e Camillo Benso conte di Cavour. Nato a Nizza nel 1807 da una famiglia di mari-nai, Giuseppe Garibaldi aveva aderito, ancora giovanissimo, alle idee mazziniane. Costretto a fuggire dall‟Italia per aver partecipato ad un tentativo d‟insurrezione a Genova, s‟imbarcò nel 1835 per l‟America Latina dove rimase per 12 anni e combatté a fianco delle popolazioni del Brasile, dell‟Argentina e dell‟Uruguay, in rivolta contro i loro oppositori. Tornato in Italia allo scoppio dei moti rivolu-zionari del 1848, combatté contro gli Austriaci e contro i Francesi. Quando Palermo si sollevò

Piazza Ferretto, Mestre

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contro i Borboni, Garibaldi decise un migliaio di volontari per guidarli ad una spedizione a sostegno dei ribelli siciliani. Il 5 Maggio 1860 Garibaldi partì segretamente con due navi dal porto di Quarto. Sbarcato in Sicilia sconfisse a Calatafimi i soldati borbonici, entrò in Palermo e neutralizzò la resistenza delle truppe federali del re. Poi iniziò la risalita della Penisola preparandosi ad invadere lo Stato Pon-

tificio ma fu fermato da Vittorio Emanuele III a favore del Papa. Così Garibaldi lasciò il coman-do del suo esercito e si ritirò nell‟isola di Capre-ra. Cavour invece divenne Capo del Governo nel 1852 e fu molto abile sia in politica interna, sia in quella estera. Egli prese parte al Congresso di Parigi nel Febbraio 1856, dove pose il problema dell‟Unificazione dell‟Italia, affinché venisse af-frontato ufficialmente e per ottenere l‟appoggio di alcuni stati. Inoltre “partecipò” alla seconda Guerra d‟Indipendenza che portò nel 1860 all‟annessione della Toscana e dell‟Emilia Ro-magna al Regno di Sardegna in cambio di Nizza e Savoia. Egli si dimostrò contrario alla spedizio-ne dei Mille e morì tre mesi dopo la proclama-zione del Regno d‟Italia, di cui era stato uno dei grandi artefici. Ed è grazie a queste persone se possiamo, quest‟anno, festeggiare i 150 anni dell‟Unità d‟Italia. Inoltre ritengo sia giusto festeggiare questa ricor-renza innanzitutto per le tante persone, tra le quali molti giovani, che hanno creduto e, talvol-ta, perso la loro vita perché la penisola Italiana fosse uno stato unito. Ad una ragazza di 16 anni come me però può importare poco delle tante persone (delle quali ho parlato in precedenza) che oggi chiamiamo eroi nazionali. Infatti, la Storia e i personaggi che l‟hanno vissu-ta sono lontani e possono non toccarci: noi sia-mo nati adesso e loro 150 anni fa... apparente-mente non hanno nulla a che vedere con noi. Certo, questo è vero, ma noi cosa veramente avremmo fatto se fossimo vissuti nel corso del 1800? O piuttosto, gli ideali per i quali molte persone hanno versato il sangue sono così diver-

si dai nostri? Penso di no. Anzi, tutti noi abbiamo il desiderio di sentirci parte di un gruppo, questo fa parte dei bisogni principali di una persona. Basti pensare ad un ragazzo che cerca una compa-gnia di amici, una classe dove si senta accolto, una squadra sportiva o, semplicemente, la fami-glia... E l‟Italia adesso è una grande famiglia della quale dobbiamo essere orgogliosi di fare parte e dovremmo combattere perché questa unità non si perda... Non cerchiamo infatti di mantenere un gruppo unito, non facciamo qualunque cosa perché la nostra famiglia rimanga unita e non soffriamo quando questa si sfalda? E così vale an-che per la nostra Nazione. Per natura noi non vogliamo e non possiamo stare soli ma cerchiamo sempre l‟appoggio e la vicinanza di qualcuno. E quindi sì ai festeggiamenti, ben vengano la co-struzione di monumenti in ogni città per ricorda-re le azioni dei nostri Eroi Nazionali. E dico no-stri (e lo sottolineo) perché dobbiamo provare un po‟ di riconoscenza e magari un po‟di amore per tutti quelli che hanno dato tutto ciò che avevano perché i posteri (quindi anche noi) potessero vive-re in un‟Italia non più frazionata ma unita sotto un‟unica bandiera che dovremmo essere orgoglio-si di appendere fuori dal balcone in questa ricor-renza e non solo quando dobbiamo sostenere la Nazionale ai Mondiali di Calcio. Poi, per carità, va bene anche questo, solo se però siamo consapevoli di ciò che questa rappresenta.

Anna Baldo

Riva degli Schiavoni, Venezia

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4 Ci riguarda da vicino

Fratelli d’Italia

«Federalismo, federalismo!» biascica, ma con mol-ta energia, come se fosse il suo ultimo desiderio, un vecchio malvissuto ai microfoni delle reti tele-visive che lo intervistano. Federalismo,federalismo!»: più che come parte di un progetto politico, suona come un ordine, un imperativo, una minaccia. Questa parola ormai da quindici anni, cioè da quando è al potere la Lega - ovviamente per chi quindici anni fa aveva svilup-pato le facoltà intellettive e non si trovava a livello di feto o poco più, come la maggior parte di noi - rimbomba sulla grancassa mediatica e ora, per ovvi motivi, è ritornata di moda. Ma, poiché il presupposto fondamentale, prima di formulare qualsiasi opinione o argomentare un qualsiasi di-scorso (come spesso ricorda il mio professore di greco) deve essere conoscere l‟argomento di cui si sta parlando, riguardo alla questione federalista mi permetto di riportare una frase del professor Mario Bertolisi, che ha iniziato il suo intervento nella conferenza del 25 febbraio dicendo che «si parla tanto di federalismo, ma in realtà nessuno ha veramente capito l‟argomento». Ovviamente in questo insieme sono stati inclusi governati e, so-prattutto, governanti, che a mio parere, ma anche di molti altri, non sono stati in grado di spiegare adeguatamente la questione: le fugaci interviste televisive, infatti, lasciano spazio solo a slogan ba-nali e le tribune politiche sono luoghi riservati al lancio degli scheletri nell‟armadio o, peggio, lun-ghi excursus di escort. Quindi partiamo dai termini: Il Sole 24 ore defini-sce il federalismo «un'organizzazione di Stati o di altri enti territoriali (es. Regioni) che si associano per conferire ad un'organizzazione sovranazionale (lo Stato federale) delle competenze e quindi dei poteri (es. politica estera, difesa, gestione dell'eco-nomia), con la conseguente rinuncia alla propria sovranità nazionale[…]. Il nostro Paese è stato fino-ra basato sul regionalismo, ossia su un sistema fondato sulle limitate autonomie delle Regioni, mentre allo Stato competeva tutto quanto non era esplicitamente delegato alle Regioni.» Per federalismo fiscale, invece, si intende:

«Instaurare una proporzionalità diretta fra le imposte riscosse in una determinata area territoriale del paese - i Comuni, le Provin-ce, le Regioni - e le imposte effettivamente utilizzate dall'area stessa. […] Principi fonda-mentali del federalismo fiscale sono - da

una parte - il coordinamento dei centri di spesa con i centri di prelievo - che comporterà automati-camente maggiore responsabilità da parte degli enti nel gestire le risorse. [...] Il federalismo fiscale per diventare operativo necessita di una serie di provvedimenti che si snodano nell'arco di 7 anni: 2 anni per l'attuazione e 5 di regime transitorio. Il finanziamento delle funzioni trasferite alle regio-ni, attraverso l'attuazione del federalismo fiscale, comporterà ovviamente la cancellazione dei relati-vi stanziamenti di spesa, comprensivi dei costi del personale e di funzionamento, nel bilancio dello Stato. A favore delle regioni con minore capacità fiscale - così come prevede l'art. 119 della Costitu-zione - interverrà un fondo perequativo, assegnato senza vincolo di destinazione.» E ora che abbiamo capito cos‟è il federalismo, già sorge spontanea la prima domanda: se il 17 marzo siamo stati a casa da scuola perché volentes o nolen-tes abbiamo capito che in quella data centocin-quanta anni fa il re Vittorio Emanuele II ha pro-clamato il regno d‟Italia, quindi di fatto ha creato uno stato che, con l‟eccezione di Veneto, Trenti-no, Friuli e i territori dello Stato pontificio, si con-figurava circa come adesso, perché viene messo ancora in discussione il concetto di Italia? Perché le piccole regioni dovrebbero diventare (o ritorna-re) organismi autonomi dal punto di vista econo-mico e amministrativo? Sono gli stessi problemi che interessarono l‟Italia post-unitaria, poiché Ca-vour estese al nuovo stato gli ordinamenti pie-montesi, non per imporre il dialetto torinese della capitale ai contadini siculi, ma per uniformare il territorio a livello politico, economico, burocrati-co e amministrativo: perché da Paese diventasse Nazione. Questo processo fu necessario perché solo la realizzazione di uno Stato-Nazione avrebbe permesso all‟Italia d‟inserirsi all‟interno dell‟organizzazione economica e politica dei Paesi del Nord Europa del XIX secolo; la forma più a-vanzata di governo dell‟economia, inoltre, com-portò numerosi vantaggi come «la fondazione del-lo stato di diritto, l‟ampliamento degli spazi delle libertà individuali e collettive e la nascita del mo-derno cittadino» (Pietro Bevilacqua). Proseguendo lungo il nostro itinerario storico, inoltre, possia-mo constatare come il dualismo tra Nord e Sud possa essere ricondotto solo a un ”rozzo economi-cismo”, poiché non si tratta solo di considerare i dati del PIL del Veneto e della Lombardia per ri-

In occasione delle celebrazioni per il centocinquantenario dell'Unità d'Italia il Liceo «Franchetti», in collaborazione con la Fondazione «Gianni Pellicani» e con il patrocinio del Comune di Venezia, ha organizzato, sotto il titolo complessivo di I buchi nello Stivale - slabbrature e cuciture dell'Italia unita, due giornate di studio (25 febbraio e 4 marzo) volte ad approfondire alcuni aspetti storici di perdurante attualità sul tema dell'unità nazionale. Tra i relatori, il prof. Mario Ber-tolisi, docente di Diritto costituzionale all’ Università di Padova, il prof. Pietro Bevilacqua, docente di Storia contempora-nea all'Università "La Sapienza" di Roma e presidente dell'IMES - "Istituto Mediterraneo di Storia e Scienze Sociali", e l’ex Sindaco di Venezia e filosofo, prof. Massimo Cacciari

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vendicare l‟autogestione della ricchezza insediata nei territori settentrionali. Espresso in termini hegeliani, la ricchezza accumulata nel Nord non può essere separata dal processo attraverso il quale si è formata: ad esempio, il contributo degli emi-granti o dei braccianti meridionali che hanno la-vorato alla F.I.A.T. , il ruolo dei professionisti e dei quadri tecnici formatisi nelle università meri-dionali e diventati classe dirigente distribuite in tutte le regioni; senza contare che l‟arretrato Mez-zogiorno ha costituito per decenni un tranquillo mercato interno per le produzioni industriali del Nord. Comunque la frattura più grande si avreb-be a livello sociale e culturale. La bellezza dell‟ Ita-lia è stata proprio quella di raggiungere l‟ unità nella varietà, cioè di superare le barriere culturali per unirsi in nome di qualcosa che fosse superio-re. Non più una minuscola regione con il suo dia-letto e i suoi piatti tipici, ma uno Stato che, dopo molti sforzi e molta fatica, è entrato a far parte delle potenze europee. Questo processo non ha eliminato le singole iden-tità territoriali, ma al contrario le ha arricchite di un valore aggiunto e, nonostante alcuni storici non siano d‟accordo su questa questione, si può tranquillamente affermare che un Veneto può continuare benissimo ad essere Veneto, pur essen-do anche italiano. Questo è lo stesso principio per cui «se chiedessi a

un abitante della Baviera di che nazionalità è, mi risponderebbe che è tedesco, non bavare-se» (Massimo Cacciari). Quindi si possono conti-nuare ad opporre alla verità storica del 1861 riven-dicazioni padane o borboniche, ma allora se dav-vero si vuole essere “duri e puri” non ci si può concentrare solo sulla creazione di una squadra di calcio per i campionati degli stati non riconosciuti o concorsi di bellezza, ma si dovrebbe consegnare allo Stato una parte dello stipendio, dato che a pagare sono i “fratelli d‟Italia” che, a quanto pare, non vengono neanche onorati cantando l‟inno. Comunque a ognuno le sue idee, libertà di pensie-ro e libertà di parola. Ecco perché posso ammirare chi supera gli spasmi muscolari conseguenti ad un ictus per dire: «La bandiera italiana buttatela nel cesso!», ma apprezzo di più mia nonna che il 17 Marzo era in Piazza Ferretto con la coccarda trico-lore per il solenne alzabandiera e si è commossa fin dalle prime note dell‟inno di Mameli. Non voglio sfruttare l‟artificio retorico dell‟elogio della patria, già noto agli oratori attici, per far breccia nei vostri cuori, ma ho voluto riportarvi questo episodio perché provo una grande gioia nel vedere che c‟è ancora qualcuno che crede in questo Sta-to e in questa unità, e ci crede davvero, se non altro perché mia nonna non l‟hanno pagata.

Cecilia Rocco

Qual era la vera storia della famiglia di Francesco? Chi era Jacopo? E Paolina? Ma, soprattutto, cosa avevano a che fare con Nonno Dionigi? Queste erano le domande che il protagoni-sta del romanzo si poneva. Forse lui, un giovane nobile e affascinante, fidanza-to con Lucrezia, la ragazza più bella di Firenze, cir-condato da amici e stimato in famiglia, aveva con-dotto fino a quel momento una vita superficiale, una vita vuota. Si rende conto di questo solo quan-do il nonno gli racconta le vicissitudini della sua famiglia e capisce che doveva cambiare la vita. È così che ne inizia una nuova, al centro della quale vi è Eugenia, una ragazza diversa da Lucrezia e da tutte quelle che aveva conosciuto fino a quel mo-mento, una ragazza riservata che non si lascia cor-teggiare facilmente, una ragazza semplice e umile ma molto combattiva, pronta a rinunciare al suo

Senza Nulla In Cambio Titolo: Senza nulla in cambio

Autori: ANNA LAVATELLI, ANNA VIVARELLI

Anno: 2010

titolo nobiliare e ad allon-tanarsi dalla famiglia pur di non abbandonare i suoi ideali. Continui flashback, storie diverse che si intreccia-no, descrizioni dei senti-menti che legano i perso-naggi e un finale inaspet-tato rendono il romanzo piacevole e accattivante. Un libro ambientato nell'Ottocento che ha co-me filo conduttore l'amore, visto in tutte le sue fasi, fraterno, filiale, coniugale e per la patria; un amore intenso, che fa soffrire ma al quale non si può fare a meno, per il quale dai tutto senza nulla in cambio, come dice lo stesso titolo del libro. Un romanzo che le due autrici, Anna Lavatelli e Anna Vivarelli, dedicano non solo ai tanti ragazzi morti durante i moti studenteschi del Gen-naio 1821, ma anche ai ragazzi di tutti i tempi: è, infatti, a questi che è affidato il compito di migliorare la storia; sono i ragaz-zi la speranza del futuro!

Anna Baldo

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6 Tempi di bilanci...

Ricordi dal sottobanco Un senso di fine e ineluttabilità invade gli ultimi giorni di scuola, in questo viale del tramonto, che vedrà l'alba di una stagione nuova. Je suis l'impeur à la fin de la décadence. Ecco allora uno sguardo retro-spettivo. Gli occhi erano azzurri, non cristallini, ma pene-tranti. Avevano visto non poco e capivano molto. La sala era vasta e piena, ma non gremita. Eppure, riuscivano a saettare sulla folla smarrita e chioccian-te, quasi fosse il mercato del mercoledì, sullo scran-no degli imputati. Forse lo era in effetti. Di sicuro, però, quella sala era l'aula magna fregiata dai geni italici del liceo Franchetti. Il giorno: il primo in asso-luto dell'intero ciclo quinquennale tra quelle mura venerande. E chiocciare era il minimo da fare. Ma anche il massimo concesso. Dopo i discorsi di convenzione, i due occhi si leva-rono in un turbinio di lino ed effluvi di vaniglia e guidarono il novello corso C nell'ultima classe del corridoio opposto a quello della presidenza, al pri-mo piano, e si presentò. Capelli pepe-e-sale, ampia sahariana e sguardo duro, beffardo. Due gli occhi felini, mica superbi come da leonesse, ma da gatti soriani. A un certo punto, il gesso scorreva niveo a mansueto sulla superficie bruna della lavagna, deli-neando l'imperativo METODO. Una profezia. Una promessa. Uno stile di vita. Altro che tiriamo a campà, vabbè, okay, non ce l'ho fatta, non mi vie-ne, il vocabolario dice così, assolutamente, ho tra-dotto così. Qui si fa sul serio, o quella è la finestra. In realtà, si discusse anche molto, su tanti argomen-ti e con esiti straordinari, tanto che ancora al quin-to anno, nelle oziose conversazioni d'intervallo, vibrano echi di quel passato mitico e brutale assie-me. Il passato del ginnasio, che strappa tantissimo e rende tanto, molto tardi. Che lascia i segni dello spirito che ha lottato con la gomma dell'indifferen-za per sopravvivere, ma ha ceduto e se li porta die-tro come dire: guarda, sono caduto eppure ora so-no in piedi. E si porta dietro pure i segni delle fru-state che ti prendevi per l'accento ritratto all'aoristo o il present perfect fuori luogo. Alle cattedre di italia-no e matematica c'erano invece due mostri d'uma-nità che riuscivano a bilanciare il rigore del greco, del latino e dell'inglese. Ci sono state ore passate a descrivere con lirismo e trasporto il dramma di Didone o gli amori dannun-ziani. Ore in cui si sentiva di trascendere dal rigore abituale che è tipico del ginnasio. Ore che nobilita-vano le giornate, come quelle dedicate a parlare della criminalità che alligna al Sud e protende i suoi artigli inanellati al Nord, grazie ai racconti di chi ha visto e conosce. Di chi ha dimostrato l'accor-tezza di non far sempre il professore in cattedra, ma anche la persona tra i banchi. E non per questo la classe non lavorava: anzi, lo ha fatto nella misura per cui in terza liceo ottiene riconoscimenti dai suoi insegnanti per il valore della sua formazione. E si sa che a seminar come si deve sin dall'inizio i

frutti poi si colgono. L'impatto difficile dell'ingresso al liceo è come il fantasma dei castelli scozzesi: tutti ne parlano ma nessuno l'ha visto. Ci sono cambiamenti profondi nell'approccio alle materie, che esigono un'indagine più matura. La qualità è l'obbiettivo: dopo lo svezza-mento del ginnasio, si cercava il raffinamento della materia informe. C'erano riflessioni, spirito critico e autonomia di pensiero. Gli strumenti di com-prensione per cui si dovrebbe studiare, insomma, food for thought, secondo un prospero detto. Ma tan-te erano le occasioni di studio alternativo, come il viaggio d'istruzione, ormai abolito, relitto di un'epo-ca. Sarebbe stato edificante oltreché ambizioso avere un'infarinatura di storia, filosofia e di storia dell'ar-te, che invece il primo anno di liceo sembrarono avere cattedre vacanti. Ma ogni tanto, qualcuno che scherzava, dicendosi insegnante, passava di lì. Tutta la classe ricorda le lezioni mute di filosofia per mal di denti del docente, o le interrogazioni sulle date di nascita di Socrate, Platone, Aristotele. Otto e mezzo a chi le diceva in corretto ordine cronologico – come se ve ne fosse uno sbagliato. Il maggior contributo culturale è stato di sicuro l'uscita di classe al Ghetto di Venezia: quell'occasio-ne aveva dell'ambizioso e del solenne, tanto che il professore, noto per sagacia e senso pratico, decise di farci prendere il treno per arrivare a Venezia. Egli disse treno, e treno fu. E anche il ritardo fu, di solo un'ora e dieci. E pratico in effetti dimostrò di esserlo, ché – come disse in modenese – aveva l'ab-bonamento e “porca boia, non mi frego mica i sol-di dell'autobus io”. Lui che è furbo. Passabile, tutto questo, perché divertente. Ma arrivati al ghetto, la serie di porte sbarrate del museo fecero sorgere so-spetti. Costui si guardò attorno con l'abituale lam-po di genialità negli occhi e, con diplomazia – da uomo di mondo e di pensiero, insomma –, impre-cò contro tutte le generazioni future perché capì che bisognava prenotare una visita. E lui non lo aveva fatto. Fu esaltante. Quanto a idiozia, si faceva la coppia con le lezioni di storia dell'arte. In prima liceo si assistette alla spiegazione – e solo Zeus-dio-del-tuono sa cosa ci fosse da spiegare – della povera “Ilavia del Cavvetto, cioè, ecco” (citazione fedelmente biascicata) dell'in-felice Jacopo della Quercia per quattro volte di segui-to. Rivoltata nella tomba, la poveretta, per il nume-ro perfetto della trinità, più uno, che è il cielo che ci manda in Terra prove scoraggianti come questa, e quella del supplente di matematica rovigotto. Co-stui era alle prime armi, come si suol dire, ma tal-volta ne faceva persino uso improprio. Dopo aver infatti spiegato i radicali a cui era seguito un compi-to con media-classe di tre e mezzo, tentò con la geo-metria. Per creare una lezione dinamica e dialettica, a un certo punto tirò fuori dallo zaino, in corredo con la cintura firmata Playboy (lettore affezionato,

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7 Tempi di bilanci…

evidentemente), una pallina da tennis e la lanciò per errore sul sopracciglio di una compagna in primo banco. La perplessità fu generale. Nessuno rivide più il rovigotto. Gli anni successivi sono trascorsi all'insegna della sobrietà nella condotta e del rigore nell'impegno. O quasi. Le defiances non sono mancate e il motore del pullman che, per protesta ai moscerini in con-tromano, muore nell'autostrada per Venezia al ri-torno da Praga è stato uno dei diversivi di due anni seri, in cui si è stati iniziati ai misteri della filosofia, si è appreso l'esistenza di una materia chiamata sto-ria moderna e s'è addirittura scoperto che il genio umano ha prodotto altro dopo Ilavia del Cavvetto. Straordinario. Traumatico, persino. Della Quercia, insomma, non è stato l'ultimo avanguardista della storia dell'arte. Il fatto è, però, che non sono stati gli ultimi due anni a esser seri, ma siamo noi che siamo cambiati, bene o male. Ed è in quest'ottica che si può dire che la scuola ha deluso. Non si lancino scomuniche o censure per questo. Al principio del ginnasio, più che nutrire precise aspettative, ci si fa delle idee e si cova qualche spe-ranza soprattutto per curiosità e magari per esorciz-zare le paure. E lì la scuola si rivela un crogiolo di risorse, che dà molto ma esige altrettanto, pervaso

di insidie e gratificazioni. Un luogo ricco, insom-ma. Un microcosmo che nella sua rincuorante im-mobilità offre sempre un rifugio e un campo di prova perpetuo. Un campo di prova, appunto. È proprio l'immobilità di questa sicurezza a risultar un limite. In principio era una necessità, conferma di prote-zione e garanzia di successo. Un'immobilità che tra l'altro non ha nulla a che fare con le attività svolte o l'operato dei docenti, sempre più all'altezza della situazione di quanto si possa apprezzare. Si tratta dell'immobilità d'un tempio che ospita idoli d'un culto estinto. Una stagione al crepuscolo. Un reto-re anziano che, stremato, ha concluso la sua ultima perorazione per i suoi allievi troppo cresciuti e im-pazienti di uscire di scuola. È stato un campo di prova: ora ci vuole la realtà. È ora di alzarsi e anda-re. Una calata di sipario dopo uno spettacolo in gran-de stile, quello di cui abbiamo goduto. Ma pur sem-pre un sipario che chiude la serata. “Ah Vanitas Vantatum! (…) Venite, ragazzi, riponiamo baracca e burattini: la commedia è finita.” (W. M. THACKERAY, La fiera delle vanità)

Pietro Della Sala

Sogna ragazzo sogna Alla fine dell‟ultimo anno di liceo, guardandosi indietro, non si ha la sensazione che siano passati cinque anni. Sembra di aver vissuto due, forse tre vite. Due o tre vite in cui, bene o male, siamo cresciuti. Certo, un po‟ a singhiozzo e con fatica, ma siamo cresciuti. Dopo cinque anni, siamo arrivati ad ades-so. A quello che siamo ora. In queste due o tre vite c‟è stato spazio per i sogni, i desideri, le speranze. Per gli ideali, le battaglie per difenderli, la rabbia per una libertà negata. C‟è stato spazio per fare quelle che potremmo definire le “prove generali della vita vera nel mondo”. Un mondo che, a quanto dicono, è popolato di squa-lacci pronti a papparsi noi, pesciolini di 18-19 an-ni. Sono stati gli anni più incredibili delle nostre vite, per tanti motivi diversi. Perché abbiamo conosciu-to la fatica, l‟amicizia, l‟impegno. Perché abbiamo incontrato tante persone; abbiamo amato, riso, scherzato. Perché abbiamo lottato, vincendo e per-dendo. Perché in questi cinque lunghi, lunghissimi anni, ci sono state insegnate tante cose. Improbabili ver-bi, preoccupanti pronomi, teoremi apparentemen-te insensati. Ma soprattutto, ci è stato insegnato ad essere coraggiosi. Ad accettare la sfida di essere qui, al nostro posto, e lottare per difenderlo. Ci è stato insegnato che le parole hanno una vita,

più che un peso. E che delle parole dobbiamo ave-re cura, perché sono preziose. Le parole sono tutto quello che abbiamo per non essere soli, per non perdere quello che per noi è importante. Molte volte, durante l‟ultimo anno di liceo, si è presi dal più terribile sconforto. Soprattutto quan-do ci si rende conto che è arrivato il momento di dare una risposta a quella domanda che, da bambi-ni, ci faceva tanto sognare: “E tu da grande cosa vuoi fare?”. Noi? Ma perché, adesso i grandi siamo noi? Si: senza nemmeno accorgercene, abbiamo percor-so la nostra strada. Senza nemmeno rendercene conto, siamo arrivati al primo di una lunga serie di momenti cruciali. Ecco, forse è per questo che l‟esame finale si chia-ma “maturità”. Maturare non vuol dire essere infal-libili, perfetti, sicuri e pronti a tutto. Essere maturi significa avere la voglia di affrontare il mondo lì fuori con quello che la vita e la scuola fino a qui ci hanno insegnato: il coraggio e l‟onestà. La malinconia si fa sentire, alla fine dell‟ultimo anno di liceo. Attacca allo stomaco, e per quanto tu possa provare a fare finta di nulla, lei sta lì. Si fa sentire,e ti dice: “Guarda cosa ti lasci dietro!”. Alla cara, vecchia malinconia, si deve rispondere così: “E tu, guarda cosa ho davanti!”.

Giulia La Bombarda

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8 Tempi di bilanci...

Io ti voria contar... …pour mon mal appaiser, donne moy un baiser. Silenzio. Applausi. Usciamo e la tensione si scioglie. La professoressa ci ha raccomandato di essere pun-tuali: ore 9 in stazione. Guardo l‟orologio. Elisa deve ancora arrivare. Eppure è sempre in orario. Sorrido e la immagino che si affretta giù per le scale trascinan-dosi dietro un‟enorme valigia rosa. Qualche minuto dopo arriva trafelata sgridando sua mamma per aver-la fatta ritardare. Si scusa con la Gatti ridendo isteri-camente come suo solito quando è agitata. Se non la conoscessi penserei che è una matta… La cerco con lo sguardo ma non la vedo. Sta già scen-dendo le scale sollevando, quasi senza fatica, un prati-co trolley rosso. Cerco di raggiungerla ma i tacchi me lo impediscono. Se solo fossi più alta… Finalmente si gira, scocciata, ed esclama: “Non iniziare con le tue fobie. Spero che il treno non ti faccia paura altrimen-ti non vengo nel tuo scompartimento!”. Saluto gli altri che stanno chiacchierando tra loro tranquilla-mente e saliamo sul treno. Il viaggio passa veloce fra risate, compiti di latino, musica e pettegolezzi. Tutto fila liscio, troppo liscio. Una voce ci annuncia che è il momento di scendere e ci affrettiamo verso la porta d‟uscita. Siamo in perfet-to orario sulla tabella di marcia ma c‟è solo un picco-lo particolare che non quadra: abbiamo sbagliato stazione. Ci sistemiamo nelle stanze. Elisa poggia la valigia sul pavimento, esausta, come se avesse appena tagliato il traguardo del Giro d‟Italia. Va verso la finestra chiu-sa, gira la maniglia ma si blocca di colpo. Mi guarda allarmata e dice: “Non apriamo, altrimenti potrebbe-ro entrare i pipistrelli!” Sbuffo e la rassicuro che non ce ne sono nella zona e che comunque non entrano nelle case di giorno. Disfiamo i bagagli e ci sediamo sui letti. Io sono emozionata e felice: cantare tutti i giorni sarà splendido. Guardo Anna: è allegra e soddisfatta. Io un po‟ me-no… Vado nel bagno per aprire la finestra. Non si apre. Non è possibile. “Calma, Elisa, calma, ce la puoi fare”. Tiro. Spingo. Giro. Non si apre, però fa uno strano rumore. Meno male che c‟è Anna. Arriva e con un colpo secco la spalanca. Inizia a sbattere, c‟è vento. Dobbiamo assolutamente richiuderla. Magari si rompe, magari disturba i clienti che desiderano riposare, magari entrano degli insetti! “Va bene Elisa, adesso la chiudiamo...” o meglio, così pensavo. Dopo 15 minuti siamo ancora lì ad armeg-giare con la finestra. Qualcuno bussa alla porta: ”Ci siete? Abbiamo iniziato già da 5 minuti!”. Il panico mi assale, io ero già arrivata in ritardo al mattino: la Gatti mi avrebbe scorticata. Abbandonia-mo la finestra al suo destino e ci affrettiamo verso la

sala in cui si tiene il nostro atelier. Wow, ci sono un sacco di ragazzi della nostra età. Tutti noi apparente-mente non abbiamo nulla in comune eccetto il fatto di essere dei giovani studenti in gita, ma appena ini-ziamo a cantare, capiamo che qualcosa di molto im-portante ci unisce: la passione per la musica e il can-to. I pezzi che cantiamo appartengono al repertorio rina-scimentale: “Matona mia cara”, “Io ti voria contar”, “Echo”, “Il tedesco” e “Pastime”. C‟è inoltre un brano d‟assieme cantato da tutti gli atelier: “La libertà” di Giorgio Gaber. I tre giorni di prove, nonostante la stanchezza, passano in un attimo, fra partite a carte, bramate terme e piscine, libri autografati, smalti colo-rati, passeggiate per Montecatini, gelati squisiti, notti insonni, biondi esaltati, corse per il pranzo e canzoni urlate a squarciagola. Manuel, il nostro maestro, sembra soddisfatto del nostro lavoro e noi ci sentiamo cresciuti artisticamen-te lavorando duramente con Mauro Marchetti, diret-tore del corso. Una sera ci portano al concerto del Coro Giovanile Italiano che ci propone brani sacri e contemporanei. Sono molto bravi, sicuramente non reggiamo il con-fronto sul piano canoro ma dai loro occhi si capisce che si divertono come noi. Il giorno dello spettacolo arriva presto: dobbiamo presentare un nostro pezzo, “Pavane” e quelli dell‟atelier. La sera siamo tutti emozionati e bellissimi nei nostri abiti da concerto. Riusciamo ad ascoltare solo il primo coro ed è già il nostro turno. I cuori battono veloci e le fronti si imperlano di sudore. Sul palco le luci ci abbagliano. … pour mon mal appaiser, donne moy un baiser. Silenzio. Applausi. Usciamo e la tensione si scioglie. Quando torniamo ai nostri posti, in platea, ci sembra sia passato solo un secondo. Alla fine della serata eseguiamo “La libertà” con tutti i ragazzi presenti nel teatro. Cantare insieme ai nostri coetanei, provenienti da tutta Italia, è uno di quei momenti che rimangono impressi; è stato sicuramen-te un bel modo per celebrare l‟unità del nostro paese. Lasciato Montecatini, prima di tornare a Mestre ci fermiamo in una scuola di Empoli per eseguire un concerto con le ragazze del coro del Liceo Marco Polo di Venezia, e con questo episodio si conclude il no-stro “Festival di Primavera”. Ringraziamo la professoressa Gatti e il maestro Ma-nuel Zanella per averci permesso di partecipare a que-sto evento, e tutti i nostri compagni del coro del no-stro Liceo con cui ci siamo divertiti condividendo questa esperienza.

Anna Bernante e Elisa Tagliapietra

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9 Tempi di bilanci…

Una sbirciata dietro le quinte Quante volte ci siamo trovati in situazioni nelle quali ci sarebbe piaciuto fuggire, diventando un puntino sempre più piccolo all‟orizzonte fino a scomparire, eppure per un motivo o per l‟altro, non l‟abbiamo fatto? Per esempio, che ragione così forte potrà mai esserci in un attore, magari alle prime armi, tanto da farlo restare sul palco? Tutto inizia con un respiro, volto ad eliminare dalla mente le mille voci che vi si affollano: quelle da die-tro le quinte, quelle in platea, quelle dei tecnici, la voce maligna della paura che fa tremare le gambe e che, come un soffio o un sospiro, continua a sussur-rare all‟orecchio di scappare lontano da tutto quel frastuono; poi, quasi impossibile da udire, si sente un qualcosa provenire da dentro il petto, come una ne-nia regolare e austera, che piano piano sovrasta tutti gli altri rumori e si fa strada imperterrita sgomberan-do dall‟animo tutti i dubbi e le paure, infondendo una sensazione di potenza inaudita, di forza, e scari-cando infine tutta la tensione nei polmoni, pronti a pronunziare con convinzione la battuta di questo o quel personaggio. La curiosità quindi, la curiosità di poter vestire i pan-ni di qualsiasi individuo e di trasmetterla agli altri, godendo delle loro reazioni e a volte meravigliandosi delle proprie; chi se non l„attore ha il grande privile-gio di potersi trasformare da persona normale in un bucaniere o in un detective o, perché no, magari in un personaggio dell‟antichità, cercando di far vivere a tutti coloro che lo ascoltano la sensazione di essere in un‟altra dimensione? Signore e Signori, voi accomodati tra il calore delle poltroncine lì in platea, preparatevi ad entrare in un mondo tutto nuovo, un mondo antico, che profuma di mare e di ambrosia, dove si può ancora sentire il suono di qualche nostalgica melodia innalzata agli dei olimpici: l‟antica Grecia, quella di Aristofane, quella di Platone, di Socrate, della tragedia, provvista come da tradizione di un coro che vi accompagnerà alla scoperta della storia che sta per svolgersi, anche se, a onor del vero, le vicende raccontate nel “Le Donne al Parlamento” di Aristofane, sono tutt‟altro che tragiche. Platone disse: ”Le Muse, cercando un tempio che mai non perisse, trovarono l‟anima di Aristofane”, ed è proprio questa la sensazione che si ha leggendo que-sto testo teatrale, poiché nonostante sia ambientato migliaia di anni orsono, riesce comunque a narrare fatti di grande attualità, come la salvezza dello stato, il malcontento dei cittadini, la voglia e la necessità di un cambiamento. Chissà se ai giorni nostri, magari a qualche moglie di un politico corrotto, verrebbe in mente di formare una congrega e prendere in mano il governo; di sicu-ro potrebbe prendere spunto dalle azioni di Prassago-ra e delle sue compagne, che all‟alba mettono in sce-na una grande mascherata con tanto di barbe e vestiti sottratti ai propri mariti, per dirigersi all‟assemblea,

luogo nell‟antichità dove si prendevano le grandi de-cisioni riguardanti lo Stato; così, guidate dalla loro capogruppo, si fanno passare per uomini, in modo da poter meglio convincere i cittadini maschi ad affi-dare la gestione della città proprio a loro, portando avanti esempi e discorsi su tematiche molto forti, la cui validità o meno viene lasciata alla sensibilità di pensiero dello spettatore. Noi, gruppo teatrale del Liceo “R. Franchetti”, assie-me ai membri dell‟associazione culturale La Vanguar-dia Nonsensista, abbiamo cercato di rimanere il più possibile fedeli al testo originale, tentando di carpire il messaggio di fondo che Aristofane voleva trasmette-re, anche se poi per rendere il tutto più accattivante abbiamo inserito elementi che richiamassero alla co-micità attuale ottenendo, a quanto ci è parso, un buon risultato. Cercare di riportare alla luce un testo ormai scono-sciuto ai più non è stato per nulla semplice; durante questi mesi di duro lavoro si è cercato di riscoprire uno stile di scena in disuso da tempo, per cui oltre al semplice coordinamento delle posizioni di scena dei vari personaggi, si è dovuto andare a sistemare anche la coesione dei vari membri del coro, quell‟organo fondamentale in un testo teatrale greco, indispensa-bile per accompagnare il pubblico all‟interno della vicenda e per la buona riuscita dello spettacolo. Ma certamente nulla sarebbe riuscito bene senza la collaborazione di ogni singolo membro del gruppo; quando si prepara uno spettacolo, è importante per prima cosa divertirsi (e con i ragazzi della Vanguardia, vi posso assicurare che ci si diverte tantissimo), poi però occorre essere anche capaci di mantenere san-gue freddo e serietà sia durante le prove, sia quando si è in scena, poiché può sempre capitare che a qual-cuno sfugga la battuta, o che magari se ne dica una di due scene dopo, quindi, essere concentrati in quello che si fa non può che aiutare a salvare la situazione nel migliore dei modi, senza far cadere quell‟imbarazzante silenzio, tanto temuto da ogni regista che si rispetti ( e fidatevi che in quei momenti, non è il solo a sudare dietro le quinte!). Affrontare per la seconda volta l‟esperienza del labo-ratorio teatrale del “Franchetti” mi ha dato la possibi-lità di conoscere persone straordinarie, con cui riten-go sia un piacere e un onore lavorare; colgo quindi l‟occasione di ringraziare i Franchettiani, sia quelli attuali che quelli un po‟ stagionati, per essere stati capaci di rendere straordinario un anno di scuola, per aver reso possibile tutto questo grazie alle loro capacità e per aver riso e sofferto fino alla fine, uniti dalla passione per questo pazzo mondo che è il tea-tro; qualcuno una volta ha detto: ”il teatro è sofferen-za”… ma anche amicizia e affetto, genialità e scem-piaggine, sorrisi e nostalgia di un ricordo che portere-mo sempre nel cuore.

Alice Salvadego, neo Vanguardista e orgogliosa di esserlo.

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10 ...e di progetti

Ai festeggiamenti maturati sui ricordi di 150 anni di unità, indipendentemente dal fatto che questi siano sentiti e condivisi realmente, seguono una serie di interrogativi che sembrano volgere tutti verso un‟unica questione: quale futuro attende noi giovani, se non vi sono certezze nemmeno per il nostro pre-sente? E‟ una delle domande che credo ci susciti mag-giori emozioni e sensazioni, dalla gioia di poter realiz-zare autonomamente il proprio futuro secondo desi-deri e aspettative personali, al timore di non poter decidere nulla, perché non c‟è scelta. Alcuni giorni fa leggevo “[…] migliaia di giovani che vorrebbero dedicarsi alla cultura non ci riescono: solo il 16% dei laureati in Conservazione dei Beni culturali trova un lavoro pertinente. Che fare, dun-que?[…]”. Studio, impegno, fatica e tempo: questo è ciò che richiede ogni percorso di studio con la pro-messa di una futura soddisfazione e realizzazione pro-fessionale. Ma se così non accade, o meglio accade solo per un numero limitato di persone, a cosa è val-so l‟impegno di anni di studio e formazione? Il caso citato come esempio poi si verifica in un‟Italia che paradossalmente ha un patrimonio artistico rilevante

e noto in tutto il mondo. Tuttavia credo che questa sorta di crisi riguardi molte altre facoltà, la maggior parte delle quali sono umanistiche. Ergo, la sottoscritta, studentessa del liceo classico Raimondo Franchetti, avente quindi una preparazio-ne eminentemente umanistica, si chiede quale futuro le spetti: più volte mi hanno per così dire “incoraggiata” dicendomi che la preparazione di un liceo classico è tale da permettere di frequentare le più diverse facoltà universitarie. Ma se volessi prose-guire i miei studi in questo senso perché credo nel patrimonio culturale della nostra nazione che è ciò che più indiscutibilmente ci contraddistingue al di là di un‟unità politica travagliata ora più che mai? Resta tuttavia un dilemma a mio giudizio e cioè se sia più giusto dare voce ai propri interessi e alle proprie attitudini o se convenga (mi sembra un termine ad hoc) subordinare tutto ciò alla richiesta lavorativa, scegliendo tra i percorsi formativi che garantiscono uno sbocco futuro più certo. Trovare una mediazione tra le due cose? Credo sia molto difficile: del resto le vie di mezzo nella vita sono sempre piaciute a pochi.

Anna Fortunato

Tra passato e futuro

“Che cosa vuoi fare da grande?” Intervista a due giovani registi

«Che cosa vuoi fare da grande?» «Voglio scrivere» Uso il verbo volere, anche se potrà sembrare azzarda-to, perché è, in questo caso, il più adatto: contiene in se stesso un sogno, un impegno, una promessa, una sfida contro il destino. Molti mi dicono infatti che si tratta di una battaglia persa in partenza perché in Italia non c‟è spazio per gli scrittori, o meglio per quelli veri, quelli che vivono in simbiosi con le paro-le, traendo da esse linfa vitale, respirandole, quelli che impugnano la penna solo per il piacere di osser-vare l‟inchiostro imprimersi su un foglio bianco, colo-randolo con mille significati, privi di condizionamen-ti e limitazioni dati dalla società e dal sistema in cui viviamo. I giornalisti di oggi, escludendo alcune ecce-zioni, ci vengono presentati come uomini senza scru-poli, ossessionati talmente tanto dalla ricerca di una notizia che faccia scalpore da ingigantirla essi stessi, allontanandosi spesso dalla verità. Nel contesto di una società della menzogna non posso fare altro che spaventarmi: non sono pronta ad affrontare una guerra dalla quale uscirò quasi sicuramente sconfitta perché le possibilità che io riesca a lavorare in questo settore e, più in generale, che i giovani giungano a realizzare i propri sogni sono alquanto limitate. Non si tratta di una visione pessimistica della vita, come molti potranno pensare, perché continuerò a lottare ad oppormi allo status quo nello stesso modo in cui

difendono le proprie passioni Alvise e Federico, due registi in erba, conosciuti in occasione della realizza-zione di un cortometraggio contro il gioco d‟azzardo da parte della classe II C del nostro istituto, che ho intervistato per voi. Come è nata la vostra passione per il cinema e quali sono i vostri progetti futuri? Federico: Vivendo al Lido, sono sempre stato a con-tatto con la Mostra del Cinema, grazie alla quale si è sviluppato il mio interesse per questo settore. Non sapevo quali studi intraprendere: ho frequentato il liceo scientifico, realizzando una tesina sul cinema per l‟esame di maturità, e, in seguito, mi sono iscritto al TARS (tecniche artistiche e dello spettacolo – uni-versità Ca‟ Foscari) che fornisce un‟ampia base teori-ca, ma manca di laboratori e vi è ridotta possibilità di esperienza, necessaria per lavorare in questo campo. Per me il cinema è comunicazione. Preferisco occu-parmi della regia per quanto riguarda quest‟ultimo mentre prediligo la recitazione se si parla di teatro. Alvise: Ho cominciato a guardare film e cartoni quando ero bambino: mi ricordo che non riuscivo a mangiare prima di aver visto “I pompieri” di Neri Parenti. Dopo aver avuto qualche esperienza nel cam-po del teatro, ho frequentato l‟ITIS Zuccante e stati-stica, economia e finanza per un anno. Ho lasciato l‟università, mi sono preso un anno sabbatico per riflettere su quello che avrei voluto fare in futuro e

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11 ...e di progetti

mi sono iscritto al TARS. Ho poi preso parte ad uno stage di 625 ore per ottenere crediti, lavorando per circa tre mesi e mezzo come assistant director nel film “Iago” di Volfango De Biasi. Sto cercando di vivere in funzione del mio futuro. I miei prossimi passi sa-ranno quelli che mi porteranno a diventare, spero, un regista conosciuto in tutta Italia, specializzato pro-babilmente in film riflessivi, che fanno ragionare. L‟università che ho frequentato non mi ha fornito i mezzi che credevo mi avrebbe dato: è per questo che mi trasferirò per alcuni mesi a Londra, dove pratiche-rò un corso di Inglese, ed, in seguito, a New York. Ho bisogno di esperienza all‟estero e necessito di al-largare i miei confini, per allontanarmi dalla triste realtà italiana. Parlando di triste realtà italiana, cosa ne pensate della disoccupazione e quali sono secondo voi le difficoltà maggio-ri per i giovani in cerca di un lavoro? Federico: In Italia esiste soltanto il nepotismo men-tre all‟estero ci sono più prospettive, c‟è meritocrazia. Abbiamo bisogno di gavetta, di sovvenzioni. Anche se vi sono delle eccezioni: ad esempio il figlio di Mi-chele Placido, che ho conosciuto, voleva distaccarsi dalla carriera del padre, tentando di fare l‟attore con i propri mezzi. Alvise: È un circolo chiuso: per riuscire a lavorare, soprattutto nel mio campo, devi avere amicizie, cono-

scenze nel settore. Io sono sempre stato fortunato però mi sono impegnato al massimo delle mie possi-bilità. Sono entrato subito nel mondo del cinema e della pubblicità anche se rimango l‟unico se non uno dei pochi del mio corso che è riuscito a dedicarsi a ciò che gli piace. Avete idee per migliorare il futuro dei giovani nel nostro paese? Federico, Alvise: La situazione non è risolvibile. È per questo motivo che è spesso necessario trasferirsi all‟estero. Il nepotismo è una caratteristica tipicamen-te italiana e non funziona se applicata in quasi tutti i settori. In alcuni casi può essere positiva perché con-siste nell‟affidare un determinato incarico a persone fidate che possono svolgerlo al meglio ma è comun-que fondamentale lasciare spazio ai giovani che non hanno esperienza, per dare loro l‟opportunità di co-struirla. Di conseguenza alla domanda “Che cosa vuoi fare da grande?” rispondo che voglio essere me stessa, nono-stante le difficoltà che incontrerò lungo il mio cam-mino, nonostante la fatica inenarrabile che dovrò compiere, per difendere il sogno che mi accompagna fin dall‟infanzia, per dimostrare agli altri che le cose possono cambiare .

Ginevra Rocchesso

È uscito il numero unico di «Artefici», una rivista che parla di arte e spettacolo, soprattutto giovani-le, “un universo di realtà culturali talmente vasto da sfuggire all‟attenzione anche delle persone che vivono il territorio veneziano”. E in effetti, sfogliandola si rimane sorpresi scoprendo la quantità di teatri, gruppi musicali, associazioni culturali che animano la realtà veneziana, in cen-tro storico ma anche in terraferma, “luoghi capa-ci di favorire il dialogo, la crescita e la consapevo-lezza di certe tematiche”. Una realtà giovanile creativa e coraggiosa, che ha molte cose da dire e con fatica, ma anche con determinazione, cerca di emergere. La rivista è il prodotto finale del laboratorio «Inchiostro sulla scena» promosso dalla Fonda-zione di Venezia, laboratorio cui hanno parteci-pato alcune studentesse del nostro istituto e che sono pertanto tra le autrici della rivista: Anna Fortunato, Francesca Palumbo, Ginevra Roc-chesso e Isabella Primicerio. Per chi fosse interessato, ci sono alcune copie a disposizione.

ARTEFICI

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12 Finestra sul mondo

Referendum 2011 acquistare a prezzi esorbitanti dai paesi esteri l‟uranio necessario, il che smentirebbe l‟idea che le centrali possano renderci indipendenti energeticamente. Inoltre l‟associazione ambientalista Sortir du nucléaire ha lanciato un allarme sulle “inquietanti anomalie” di 34 delle 58 installazioni atomiche francesi. Questo ha riacceso la diffidenza sulla sicurezza degli impianti francesi, il che ci pone di fronte a un altro dubbio: ben venga una discussione matura sul nucleare, ma le condizioni di sicurezza sono irrinunciabili e il fatto è che le centrali che acquisteremo non sono l‟ultimo modello in circolazione, anzi sarebbero un modello così superato e poco sicuro che non solo nessun altro paese occidentale, ma neanche gli stessi francesi co-struiscono più centrali di quel tipo; infine nell‟ultimo periodo il disastro di Fukushima pone svariati inter-rogativi che si possono riassumere con la domanda: «Le percentuali bassissime di incidenti sono abbastan-za per noi o non vogliamo neanche correre il rischio che si verifichino eventi come quelli di Chernobyl o di Fukushima?» Il referendum sul legittimo impedimento è il più po-litico dei tre, poiché l‟intero PDL ha sostenuto con forza questa legge, tesa a garantire alle quattro più alte cariche dello stato una sorta di impunità dai pro-cessi, che permetterebbe loro di governare con meno preoccupazioni e di dedicarsi interamente agli inte-ressi del Paese. Il testo originale è stato bocciato par-zialmente dalla Consulta, per cui nella formulazione approvata dovrà essere un magistrato a valutare la legittimità dell‟impedimento. La legge è stata aspra-mente criticata dalla sinistra, che evidenzia come di fatto essa blocchi i processi Mills e Mediaset che coin-volgono il Presidente del Consiglio, da cui il sospetto di una legge ad personam. Alcuni sostengono però l‟inutilità del referendum, proprio perché nella legge vigente, al contrario di quanto avveniva nella prima formulazione, sono stati corretti quegli aspetti che avrebbero reso di fatto alcune persone meno proces-sabili di altre.

Giovan Battista Zane

Noi oggi viviamo in una democrazia rappresentativa, nella quale la sovranità del popolo è esercitata da rappresentanti. Eppure con l‟attuale legge elettorale il parlamentare non è eletto direttamente dal popolo ma scelto da un partito, quello sì votato dagli elettori, e ovviamente rende conto del suo operato in primo luogo al partito che lo ha scelto piuttosto che ai suoi elettori. Questo ci costringe a domandarci dove si eserciti, in questo contesto, il controllo del cittadino sul suo rappresentante. Si dirà: «L‟elettore scontento non voterà più lo stesso partito», ma ciononostante il par-lamentare potrà cambiare partito ed essere scelto di nuovo, sempre senza che l‟elettore possa decidere. E dunque, come fa il cittadino ad esprimere diretta-mente la sua volontà? Col referendum egli può votare per abrogare leggi che non approva ed esercitare una democrazia diretta. In Italia il referendum è previsto dall‟articolo 75 della Costituzione e generalmente può essere abrogativo, cioè volto ad annullare leggi in vigore, o costituziona-le, per le modifiche e le revisioni riguardanti la Costi-tuzione. Per indire un referendum abrogativo devono essere eseguiti alcuni essenziali passaggi: devono esse-re raccolte un minimo di 500.000 firme, la Corte Costituzionale deve approvare i quesiti come costitu-zionali e la Corte di Cassazione come conformi alle leggi vigenti, devono presentarsi al voto il 50+1% degli aventi diritto e infine si deve eseguire la votazio-ne. Il 12 e 13 giugno gli Italiani saranno chiamati ad esprimersi su quattro referendum abrogativi, giudica-ti ammissibili sia dalla Corte Costituzionale che da quella di Cassazione: due riguardano la privatizzazio-ne dell‟acqua, uno il ritorno al nucleare e uno il legit-timo impedimento. Proposti da associazioni per l‟acqua pubblica e IDV, i due referendum sull‟acqua si oppongono alla privatiz-zazione dell‟acqua attualmente pubblica. Secondo i promotori del referendum, ciò non causerebbe, come sostengono gli estensori della legge, una diminuzione dei prezzi legata alla concorrenza, ma piuttosto il mo-nopolio dell‟acqua da parte di grandi società, proba-bilmente estere, che potrebbero quindi in tutta liber-tà stabilire i prezzi. Inoltre un privato segue logiche d‟azienda e non può considerare il suo prodotto un diritto ma, appunto, solo un prodotto, quindi si può temere che serva peggio le zone più scarsamente po-polate che gli rendono meno. Per non parlare del fatto che il sistema degli appalti pubblici in Italia è disastroso e la preoccupazione è che l‟appalto dell‟acqua diventi un mezzo per quella distribuzione di favori che corrode il nostro paese. Il referendum sul nucleare è forse il quesito più con-troverso, in particolare perché era già stato indetto un referendum e il voto popolare aveva bocciato le centrali. Eppure, un referendum non proibisce di legiferare nuovamente sulla questione. Le preoccupa-zioni riguardano la sicurezza, lo smaltimento delle scorie, l‟impatto sull‟ambiente e il fatto che dovremo

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13 Finestra sul mondo

Dentro la centrale Ultimamente sentiamo molto parlare di centrali nu-cleari: basta accendere la televisione in qualsiasi mo-mento ed è facile trovare un dibattito sulla questione. C‟è chi vuole introdurre di nuovo il nucleare in Italia e chi, alla luce di ciò che è successo in Giappone, preferisce cercare altre fonti di energia. Così, ci siamo incuriositi sull‟argomento e in particolare sul funzio-namento di queste complicate fabbriche di energia. Le centrali nucleari producono energia secondo il principio della fissione nucleare, ottenuta per la pri-ma volta da Enrico Fermi e dai ragazzi di via Pani-sperna nel 1934. Per capirne il procedimento bisogna partire dalla composizione dell‟atomo. Queste picco-lissime unità di materia sono formate da un nucleo, costituito da minuscole particelle dette subatomiche: protoni, con carica positiva, e neutroni, sprovvisti di carica. Attorno al nucleo ruotano in aree dette orbita-li delle particelle con carica negativa, gli elettroni. Il nucleo è minuscolo: in proporzione, se fosse grande quanto una pallina da tennis, gli elettroni girerebbe-ro in un‟area ampia come la città di Mestre. Il nume-ro di elettroni e protoni è variabile, come quello degli orbitali, ma elettroni e neutroni devono equivalersi: l‟atomo è dunque neutro, altrimenti viene detto ione positivo o negativo. L‟isotopo è invece un particolare atomo di un elemento che possiede lo stesso numero di elettroni e protoni di un atomo ordinario, ma un diverso numero di neutroni e ha quindi proprietà fisiche diverse La fissione nucleare è una reazione in cui il nucleo di un particolare atomo, ad esempio l‟Uranio 235, l‟isotopo dell‟uranio, viene bombardato di neutroni. Immaginiamo di dividere un nucleo in due parti con questo procedimento e di sommare la massa dei due frammenti che abbiamo ottenuto. Otterremo una massa minore di quella originaria. Secondo l‟equazione di Einstein E=mc², anche una massa pic-colissima, se si distrugge, può creare una grande ener-gia. La differenza tra i due frammenti di massa e il nucleo che si era rotto è proprio l‟energia che si è sprigionata durante la fissione. In un processo di fis-sione vengono liberati anche due o tre neutroni che possono colpire altri nuclei atomici, che generano ancora frammenti di neutroni ed energia, innescando quella che viene detta reazione a catena: su questo principio è basato il funzionamento della bomba ato-mica. Se si riesce a controllare il numero dei neutroni prodotti dalla reazione, arrivando a produrne uno

solo alla volta, la fissione viene controllata e può essere impiegata in un reattore nucleare per pro-durre energia. Arriviamo finalmente a parlare della centrale elet-tronucleare (o nucleoter-moelettrica) a fissione, più comunemente chiamata centrale nucleare. All‟interno del nocciolo avviene la fissione, secondo il processo spiegato precedentemen-te, di combustibili composti per la maggior parte di isotopi di uranio o plutonio. Nel nocciolo possono essere calate barre di controllo per rallentare il pro-cesso di fissione. Attualmente i tipi di centrale più usati sono due: Il reattore BWR ad acqua bollente, dello stesso mo-dello del reattore di Fukushima1, è caratterizzato da due circuiti. Il primo, circuito moderatore o termo-conduttore, fa entrare acqua a diretto contatto con il combustibile. Qui l‟acqua si vaporizza e fa girare la turbina, diventando radioattiva. Poi il vapore rag-giunge il circuito di raffreddamento, dove viene con-densato anche con l‟aiuto di acqua prelevata dall‟ambiente. In Inghilterra e Francia si usano centrali di modello MAGNOX o AGR, identiche al modello BWR se non per il fatto che nel nocciolo viene usato un gas termovettore al posto dell‟acqua. Il reattore PWR ad acqua pressurizzata è costituito da 3 circuiti. Nel primo l’acqua ad altissima pressione entra a contatto con il nocciolo e raggiunge i 300-330°C ma non si vaporizza per via della pressione. Il l‟acqua del circuito 1 viene quindi viene trasferita al circuito 2, si vaporizza e fa ruotare la turbina (in que-sto modo l‟acqua non diventa radioattiva). Il raffred-damento avviene poi come nel reattore BWR. Questo tipo di centrale ha una resa inferiore rispetto al BWR, ma è più sicuro e diffuso. Esiste anche il modello RBMK (quello che era in uso a Chernobyl), che attualmente è usato pochissimo perché è soggetto a pericolose esplosioni di potenza. Tutti i reattori finora usati sono di prima, seconda o terza generazione (la prima era solo sperimentale, tra la seconda e la terza non esistono sostanziali differen-ze di costruzione). I reattori di quarta generazione

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dovrebbero fornire scorie più trattabili (la fissione produce infatti inevitabilmente scorie radioattive) e con un tempo di decadimento più breve, smaltibili non più in milioni ma in centinaia di anni, ma sono ancora in fase sperimentale o progettuale. Le centrali a fusione atomica non sono al momento utilizzabili per la produzione di corrente elettrica per-ché non è stato ancora creato un reattore che produ-ca più energia di quella che consuma per alimentarsi. Il funzionamento di una centrale a fusione è opposto a quello di una a fissione: il calore non è generato dalla reazione a catena, ma dalla fusione di due isoto-pi di idrogeno. In questo caso le scorie prodotte sa-

rebbero ridottissime e di pericolosità pressoché nulla, senza bisogno di stoccaggi o tempi di decadimento. Per questo tipo di centrale sono in atto numerosi progetti europei che dovrebbero condurre a una spe-rimentazione finale entro dieci anni. Per concludere, è necessario precisare che le centrali nucleari non possono durare in eterno. Il periodo di funzionamento dipende da centrale a centrale, ma ognuno dei modelli finora esistenti deve essere chiu-so e smantellato entro un periodo di circa sessant‟anni dalla costruzione.

Tommaso Bortolato e Elena Pantaleoni

Una scomoda eredità La tragedia in Giappone ha scatenato seri ripensa-menti sull'opportunità di costruire centrali nucleari in Italia. Nonostante le rassicurazioni scritte, il giorno prima che la centrale di Fukushima iniziasse ad avere quei problemi che ora sono tragicamente sotto gli occhi di tutti noi, in particolare sul notoriamente im-parziale "Giornale" di Sallusti, ormai è nata la doman-da: "Vale davvero la pena di costruire nuove centrali nucleari in Italia, in particolare nel meridione, a causa della sua ben nota sismicità?". A ciò darà risposta solo il referendum del 12 giugno. Aspettando tale data, vorrei aprire una piccola paren-tesi storica su un avvenimento tutto italiano a mala pena conosciuto e troppo spesso sottovalutato: la centrale nucleare nella zona del Garigliano (Campania). Questo enorme impianto venne costruito tra il 1960 e il 1963 nella zona compresa tra il Volturno e il Circe-o. Quando entrò in azione, si riscontrarono pratica-mente subito problemi dovuti addirittura all'eccessiva complessità delle sue apparecchiature, che portarono il suo reattore a raggiungere una fase critica il 5 giu-gno 1963. Risolto il problema, la centrale continuò a funzionare in modo discontinuo fino al 1978, quan-do, a causa del collasso di un generatore di vapore secondario e dell'eccessivo costo del mantenimento in funzione dell'impianto, si decise di chiuderla lascian-dovi dentro le scorie. Si sa comunque che nel lasso di tempo in cui la centrale rimase in funzione, si verificò una lunga serie di incidenti, di cui l'opinione pubblica non venne messa mai a conoscenza. Inoltre, nessuno sapeva che i filtri della ciminiera attraverso cui fuoriu-sciva il vapore di scarico erano imperfetti: essi poteva-no estrarre dal vapore solo il 99.97% del materiale radioattivo: il restante 0,03 finiva sulle colture (guardando su Google Earth si nota subito che la cen-trale è in mezzo ai campi) e nei polmoni di chi ci vive-va attorno, causando malformazioni genetiche e ma-lattie. A un lettore attento questo dato potrà sembrare insignificante, ma, calcolando l'emissione media ora-ria di 36 metri cubi aeriformi di materiale radioattivo moltiplicata per i quindici anni di funzionamento della centrale, da questa bomba atomica a orologeria sono stati emessi in totale 4730400 metri cubi di va-

rie sostanze letali, come ad esempio Trizio, Cesio137, Stronzio90, Cobalto 60 e molte altre an-cora. Questo dato, sommato a quello dell'altissima fre-quenza di incidenti, spiega ciò che avvenne e che avviene ancora nelle zone sotto il nefasto raggio d'a-zione della centrale: con la messa in funzione dell'im-pianto iniziò infatti un'intensificazione dei casi di malformazione genetica: stiamo parlando di pulcini con tre zampe, uova a triplo guscio, maiali nati morti e orribilmente deformati, vitelli con tre cervelli o con due teste... Sembra una follia, ma è la pura e tremenda verità. Inoltre il dato veramente scioccante è che tra il '72 e il '78 la mortalità per tumore o leu-cemia toccava nella piana del Garigliano il 44,48%. Praticamente la metà delle morti totale era causata dalla radioattività liberata dalla centrale! Eloquente in questo senso è la testimonianza diretta dell'avvoca-ta Marcantonio Tibaldi, rintracciabile anche su You-tube (http://www.youtube.com/watch?v=eMCyD8sPXR4). Nonostante le scorie rimanenti all'interno dell'im-pianto siano state portate via nel dicembre del 1987, la radioattività attorno all'impianto rimane (anche se la Enel che ha in gestione l'area considera i valori troppo bassi per dover provvedere) e la gente là con-tinua a morire, ignorata da ogni fonte di informazio-ne. Ora, il governo, chiamato a designare luoghi idonei per la costruzione di centrali nucleari, secondo voi dove ha in progetto un sito di stoccaggio scorie? Ov-vio, nella centrale della morte della piana del Gari-gliano. Allora mi domando: vogliamo davvero mettere que-sta seria ipoteca sul nostro futuro? Vogliamo lasciare ai nostri figli un mondo in cui per l'irresponsabilità e l'interesse di una casta privilegiata, per il dio denaro el'impunità si muoia? Dobbiamo lasciare lo stoccag-gio di sostanze pericolosissime alle stesse "società", alla mafia, che hanno gestito l'emergenza rifiuti e che da tutto questo ci guadagna?

Lorenzo Manzoni

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Una voce a favore Il dibattito attuale per introdurre nell'economia ita-liana il nucleare si sviluppa fondamentalmente per un motivo: il rischio di una catastrofe come quella di Cernobyl o quella più recente di Fukushima. Ma andiamo ad analizzare cosa successe quel 26 apri-le 1986. L'incidente non fu causato da anomalie o perdite della centrale ma per un errore umano. Infat-ti, il motivo della perdita di controllo del reattore fu la totale mancanza di rispetto delle regole di sicurezza durante un esperimento, pertanto il surriscaldamen-to provocò la fusione del nucleo del reattore e l'esplo-sione del vapore radioattivo. Si levò quindi al cielo una nube di materiale radioattivo che si posò per il 15% sulla zona circostante il reattore, per il 50% sul-le aree vicine e il resto venne portato via dai venti. Circa 30 persone morirono immediatamente, altre 2.500 nel periodo successivo per malattie e cause tu-morali. Ci sono stati altri incidenti: Kyshtym, Unione Sovietica, 1957: rischio di conta-

minazione per 270000 persone, ma nulla di fat-to

Sellafield, Gran Bretagna, 1957: 300 morti per cause ricondotte all'incidente (malattie, leucemie, tu-mori)

Three Mile Island, Harrisburgh, Usa,1969: vennero solo evacuate 3.500 persone

Tokaimura,Giappone,1999: tre persone morirono all'istante mentre altre 400 furono esposte alle radiazioni

Fukushima, Giappone, 2011: dati ancora non dispo-nibili

Se contiamo i morti e i contaminati, questi sono me-no di quelli che ogni anno muoiono per tumori derivati dal fumo (ogni anno infatti si contano 3.000.000 persone a causa del fumo). Il problema principale che influenza l'opinione pub-blica riguardo il nucleare è dunque la sicurezza degli impianti. Cernobyl è stato un errore umano, ma Fu-kushima no. Bisogna tuttavia tenere in conto due aspetti che molti ignorano sulla tragedia giapponese: la prima è che il design del reattore numero uno, seppur vecchio di 40 anni (avrebbe dovuto essere spento all'inizio di quest'anno ma si era deciso di al-lungarne la vita di altri 10), non può causare un rila-scio di nube radioattiva come quella di Cernobyl, e che questo incidente è stato classificato dalla AIEA (Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica) di grado 5 nella scala INES, ovvero 100 volte minore della catastrofe di Cernobyl (classificata di grado 7, il massimo della scala). Il secondo aspetto è che l'evento verificatosi è stato, come confermano i geologi, di natura assolutamente eccezionale: l'impianto ha retto al sisma (era dimensionato per un sisma grado 8, ma quello accaduto l'11 marzo scorso è stato di grado 9, oltre la peggiore delle aspettative), ed era progettato per reggere ad uno tsunami con onde alte fino di 5,7 metri e non di 14, che hanno mandato in tilt i moto-ri diesel che dovevano alimentare i sistemi di emer-genza. Questa ovviamente non è una giustificazione,

ma un evento di questo genere mi pare abbia la stessa probabilità di accadimento della caduta di un meteo-rite. Il fatto è che il nucleare suscita molta paura per la sua complessità tecnica, che mette la maggior parte della popolazione nella posizione di colui che deve addentrarsi in un vicolo buio. Ciò che mi dà più fa-stidio è che non si parla più delle tragedie umane-ambientali di Seveso (1976), o Bophal (1984 in cui morirono 3787 persone, senza contare gli intossicati) e, parlando di energia rinnovabile, del disastro del Vajont dell'ottobre del 1963, dove morirono 1918 persone. Qualcuno in seguito ha chiesto di abolire l'energia da fonte idroelettrica? Non che mi risulti. In Italia si teme per la sicurezza, ma le centrali di ulti-ma generazione hanno un sistema di sicurezza e raf-freddamento del reattore molto sofisticati, che non necessitano di interventi di un operatore per essere messe in moto. Qualcuno può obiettare sull'eventua-lità terremoto, ma le nuove centrali saranno a prova di eventi più improbabili e catastrofici quali sismi, tsunami, bombe, caduta di aerei di linea ecc.. Anche il problema dello smaltimento delle scorie è attualmente gestito in modo sicuro: le scorie vengono immobilizzate in vetri appositi e poi messi in oppor-tuni contenitori di acciaio (dello spessore di 5 cm) e ancora,di rame (altri 5 cm). Successivamente, si sep-pelliscono nella bentonite a 500-1000 m di profondi-tà in siti geologici appropriati, scelti ad hoc affinché l'acqua arrivi il più tardi possibile. Si pensi ai deserti o alle miniere di sale per fare degli esempi: l'acqua è assente da milioni di anni! In queste condizioni le scorie non hanno la possibilità di nuocere. Le preoc-cupazioni possono nascere solo se un giorno lontano ed ipotetico, giunta l'acqua, sciogliesse il contenitore e penetrasse nei vetri rimettendo in circolo le sostan-ze radioattive. Ma anche in questo caso la bentonite tenderebbe a bloccare il loro movimento. Si capisce che tale eventualità richiederebbe milioni di anni: nel frattempo, le sostanze radioattive avrebbero perso in altissima misura la loro pericolosità, in altri termini si sarebbero autoincenerite. È una questione discutibi-le, ma sicuramente di secondo piano. Ritengo fondamentale per lo Stato italiano aprirsi al nucleare, perché agli standard attuali di consumo non possiamo fare a meno dell'energia atomica. Non ci si può affidare alle risorse rinnovabili. E spiego il perché: l'energia, per essere sfruttabile con successo, deve essere concentrata, frazionabile, indirizzabile, regolabile e continua. Le fonti alternative non hanno queste qualità: se si installano aerogeneratori o pan-nelli fotovoltaici, quando il vento non soffia o il sole non splende, qualche altro impianto deve fornire prontamente la potenza mancante. Tale impianto quindi, a carbone, a petrolio o nucleare, non si potrà mai spegnere, e dovrà comunque subentrare per dare energia, pertanto queste fonti dovrebbero chiamarsi “integrative” e non “alternative”. Poi il costo per in-stallare questi impianti fotovoltaici-eolici è superiore a quello per installare siti nucleari. Nel 2009 infatti

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lo Stato ha speso 10 miliardi di euro a fronte di una produzione elettrica pari allo 0,3%, cioè praticamen-te nulla. La Lituania produce il 76,23% del suo fabbi-sogno energetico con il nucleare, la Francia il 75,17% e la media UE si aggira verso il 30-35%. In Italia abbiamo incrementato i consumi senza ricor-rere al nucleare, ma forse non tutti sanno che, produ-cendo noi energia con il gas, ne consumiamo più di Francia, Svizzera, Portogallo, Danimarca, Romania e Finlandia messe insieme. L'Italia importa gas e petro-lio da Russia, Romania, Ucraina e Libia (14%) ed energia dalla Francia. Non vogliamo il nucleare? Allo-ra continueremo a pagare il petrolio. La produzione di energia dal nucleare riduce l'importazione di petro-lio e la dipendenza dalle economie basate sul petro-lio. La copertura del fabbisogno energetico interno tramite il nucleare riduce la possibilità di shock ester-

ni sull'economia e consente ai governi un minore carico di spesa sulla bilancia dei pagamenti con l'este-ro. Il tutto si traduce in una maggiore stabilità del sistema economico nazionale: per questo dobbiamo convertirci al nucleare. Da ultimo, voglio sottolineare che il nucleare non inquina, non emette CO2, non produce anidride carbonica ed ossidi di azoto e di zolfo, principali cau-se del buco nell'ozono e dell'effetto serra. In conclusione,con questo articolo vorrei far riflettere tutte le persone che pensano che il nucleare sia un male e a pensare bene ai vantaggi che questo compor-terebbe. Penso che chi rifiuta il nucleare abbia princi-palmente paura della sua complessità, ma se le cose non cambieranno l'Italia sarà sempre in netta difficol-tà economicamente rispetto gli altri paesi.

Giovanni Azzalin

L‟AIEA svolge importanti funzioni di tipo operativo, alcune delle quali sono intese a verificare se gli Stati ottemperano o meno agli obblighi da essi assunti me-diante convenzioni internazionali. In particolare, l‟AIEA ha un importante ruolo ispettivo nel campo della verifica degli obblighi assunti dagli Stati in mate-ria di non proliferazione delle armi nucleari, specie in base al Trattato di non proliferazione nucleare del 1968. In caso di accertamento di violazioni, il Consi-glio dei Governatori dell‟AIEA ha l‟obbligo di farne rapporto agli organi politici di vertice delle Nazioni Unite: l‟Assemblea Generale e, soprattutto, il Consi-glio di Sicurezza, che può poi adottare misure coerciti-ve vincolanti (ad es., nel caso dell‟Iran). Per questo motivo, l‟AIEA viene spesso designata dagli organi di informazione come “il cane da guardia delle Nazioni Unite in campo nucleare”. Tuttavia, è importante sottolineare che le convenzioni internazionali non attribuiscono attualmente all‟AIEA un ruolo paragonabile in altri campi, a cominciare da quello della verifica degli standards di sicurezza delle centrali nucleari. Anche in caso di incidente nucleare, il ruolo dell‟AIEA è soprattutto quello di diffondere le informazioni ufficialmente ricevute dallo Stato dell‟incidente e di fornire e coordinare l‟assistenza da questo eventualmente richiesta. A seguito del tragico incidente che ha coinvolto la central nucleare di Fuku-shima, in Giappone, a partire dall‟11 marzo 2011, gli Stati hanno iniziato a discutere se sia arrivato il mo-mento di assumere obblighi più precisi in materia di sicurezza e, in questo contesto, se rafforzare il ruolo dell‟AIEA.

Prof. Andrea Gioia AIEA-Ufficio Legale

L’AIEA L‟Agenzia internazionale dell‟energia atomica (AIEA) è il centro della cooperazione internazionale nel cam-po nucleare. Il suo scopo principale è quello di pro-muovere lo sviluppo e le applicazioni pratiche dell‟energia atomica, nonché la ricerca in questo cam-po, assicurandosi nel contempo, e per quanto possibi-le, che l‟assistenza che essa fornisce agli Stati e le altre attività soggette al suo controllo non vengano utilizza-te in maniera tale da servire a scopi militari. I suoi tre campi principali di attività sono quelli relativi a: (a) scienza e tecnologia; (b) sicurezza – intesa sia come protezione dalle radiazioni, prevenzione degli inciden-ti e minimizzazione delle loro conseguenze (“Safety”), sia come prevenzione, individuazione e reazione nei confronti di atti di terrorismo e altri atti non autoriz-zati (“Security”); (c) verifica della non diversione a sco-pi militari. Costituita nel 1957, si tratta di un‟organizzazione in-tergovernativa di tipo classico, indipendente ma colle-gata con l‟Organizzazione delle Nazioni Unite. A diffe-renza dell‟Unione europea, l‟AIEA non ha scopi di integrazione ma di mera cooperazione tra i Governi dei suoi Stati membri (attualmente 151). Per questo motivo, pur avendo un Segretariato composto da fun-zionari internazionali indipendenti, le decisioni politi-che fondamentali vengono prese da organi collegiali composti da rappresentanti dei Governi degli Stati membri: la Conferenza Generale di tutti gli Stati membri, che si riunisce ogni anno in settembre, e il Consiglio dei Governatori, composto dai rappresen-tanti di 35 Stati, tra i quali quelli più avanzati nel cam-po della tecnologia nucleare. Inoltre, l‟AIEA non possiede veri e propri poteri nor-mativi nei confronti degli Stati membri, nel senso che non può adottare atti vincolanti nei loro confronti: gli strumenti normativi vincolanti adottati nell‟ambito dell‟AIEA, o che comunque attribuiscono ad essa de-terminate competenze, sono convenzioni internaziona-li negoziate dagli Stati e che gli Stati sono liberi o me-no di sottoscrivere e ratificare; a parte tali convenzio-ni, in ambito AIEA vengono adottati standards nor-mativi non vincolanti, che hanno il valore di racco-mandazioni per gli Stati membri.

Periodico del Liceo Ginnasio Statale «Raimondo Franchetti» Docente responsabile: Maria Angela Gatti

Corso del Popolo, 82 - 30172 Mestre (VE) tel.: 041/5315531 www.liceofranchetti.it/index.php?pagina=camaleonte