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L’Universale 1 L’ Universale Periodico di politica, attualità e cultura 18-06-12 ANNO 2012 N. 8

L'Universale numero 8. I TECNICI

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I tecnici, L'Universale 8

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L’Universale 1

L’UniversalePeriodico di politica, attualità e cultura

18-06-12ANNO 2012 N. 8

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Sommario

4 I TECNICI

di Stefano Poma

6COSì PARLO’ MONTI: “ABBIAMO PERSO L’APPOGGIO DEI POTERI FORTI”

di Gianluca Di Agresti

8 PELLEGRINAGGIO A FRANCOFORTE

di Massimo Pittarello

10LAUREA IN TERREMOTIdi Marika Borrelli

12DURANTE IL TERREMOTO CI SIAMO ABBRACCIATE

di Laura Fois

14LIMES 2012LA GUERRA DI INTERNETdi Massimo Pittarello

16LA CULTURA DEL BISCOTTO

di Fabio Pittau

DIRETTORE

STEFANO POMA

VICEDIRETTORE

GIANLUCA DI AGRESTI

REDAZIONE

FRANCO MORETTINIMARIKA BORRELLI

MASSIMO PITTARELLOFABIO PITTAU

BRUNA LAROSASILVIA FABBRI

LAURA FOISDENISE PUCA

VIGNETTE E DISEGNI

ROBERTO MASCILONGOMANUELA DE ANGELIS

UWWW.LUNIVERSALE.COM

PASQUALE RESTAINO

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di STEFANO POMAL’Universale

EDITORIALEL’Universale

EDITORIALE

Le cartelle di Equitalia vengono recapitate al debitore dello Stato dopo dieci anni dalla scadenza, gonfiate da more e interessi. Da un giorno all’altro ci si ritrova con un debito di decine di migliaia di euro; gli zero aumentano proporzional-mente alla disattenzione del debi-tore e alla furbizia di Equitalia. Il cittadino è abbandonato a se stesso; la politica, che dovrebbe tutelarlo, l’ha lasciato solo, come il padrone lascia il bastardino in autostrada prima di arrivare al casello. Il tecni-co Monti è sicuro: “Le conseguenze umane dovrebbero far riflettere chi ha portato l’economia in questo stato, e non chi da quello stato sta cercando di farla uscire”. Il tecnico prosegue il suo mandato facendo finta che tutto sia normale. Si vuol essere, a tutti i costi, conservatori in un Paese dove non c’è nulla da conservare; corruzione, nepotismo, privilegi, corporazioni; quattro sostantivi che formano un Paese: quello italiano. Bersani avversa l’articolo 18 per poi appoggiarlo e farlo appoggiare ai suoi in parla-mento; consuetudine, questa, che lascia la ragione disarmata; chi vive di politica può permettersi queste contraddizioni, tanto non sarà mai spodestato o esonerato. Sbagliano a cuor leggero; la politica è casa loro

e comandano loro. Il cittadino deve adeguarsi, obbedire, sperare nella loro buona fede e capacità; come i sessantacinquemila esodati della Fornero poi lievitati a trecentono-vantamila. Non c’è il licenziamento politico per giusta causa, una per tutte l’incompetenza, soprattutto per quanto riguarda il metodo di riscossione e di gestione delle tasse, con rapporto debito/credito. Un debito con lo Stato di dieci-mila euro arriva in pochi anni a cinquantamila; e l’imprenditore, affossato dalla crisi mondiale, se ne va, portandosi nella tomba i quarantamila euro di sanzione, i diecimila euro di debito e facendo pervenire nelle casse dello Stato una cifra che non supera lo zero. Alla luce di questi dati salvare una vita riducendo l’eccessiva sanzio-ne non sarebbe filantropia; ma, al contrario, furbizia. Le tasse, dai morti, non vengono pagate. E l’eccessiva tassazione a cui il nostro Paese è sottoposto riduce i consu-mi e, quindi, il gettito fiscale. Se lo spread per qualche tempo ha allentato la presa sull’Italia non è stato grazie alle riforme dei bocco-niani, ma grazie agli aiuti europei. Questi professori sono considerati dei geni, degli elementi imprescin-dibili sullo scacchiere economico

europeo; tanto capaci che hanno chiesto consigli agli italiani su come “recuperare denaro”. Perché loro, con l’aureola bocconiana, non ci sono riusciti: ad aprile il debito pubblico italiano ha toccato un nuovo record, raggiungendo quota 1.948,584 miliardi di euro, e crescendo di due miliardi rispetto a marzo. E, nel complessivo, da quando i tecnici sono al governo il debito pubblico è aumentato di 50,709 miliardi. La casta vive in un mondo artificiale, creato da loro, e vorrebbe far credere a tutti che quello è il mondo reale. Alla lettura di Montesquieu, Kant, Mazzini, preferiscono quella dell’economista puro Say, che non dà importanza all’esito a cui porta la sottrazione o la moltiplicazione esatta. Gli audaci della politica se ne sono andati con Pertini. Mazzini, per creare uno Stato sociale all’interno del quale non ci fossero state forti disugua-glianze economiche, propose di vendere i beni della Chiesa. L’ita-liano non vuole crescere; acerbo di libri e cultura, giustifica la propria esistenza coi dogmi cristiani, come il bambino giustifica i regali sotto l’albero con la presenza di Babbo Natale. Chiesa e Stato si coalizzano, per formare l’italiano provvisorio, sprovveduto, che deve sottostare

ai giochi di potere. Si vive nella politica della menzogna, che viene concepita come una politica di stampo conservatore, dopo ventot-to anni dalla morte di Berlinguer. La questione morale annaspa, vista come nemica del cursus honorum dello Stato, che vuol cambiare il meno possibile temendo la propria caduta; roba già vista in Francia, con le brioches di Maria Antoniet-ta. È, come la chiamava Marx, la distanza tra struttura e sovrastrut-tura: la struttura crepa, la sovra-struttura porta i capitali nel nord Europa: l’Italia nell’ultimo anno ha avuto una diminuzione d’inve-stimenti stranieri pari a duecento miliardi di euro, che hanno fatto perdere quattordici punti di Pil. La burocrazia e la tassazione eccessive sono un perfetto alleato della crisi, per scoraggiare eventuali investito-ri a portare soldi nel nostro Paese. Si spera sulla spending review,

attesa come il tossico attende l’arrivo del pusher con la dose; il tentativo di mettere i conti dello Stato in ordine unicamente taglian-do sulla spesa poteva essere fatto anche dal contabile del ristorante “Er pesce palla”, stipendiato con novecento euro al mese. Il tecnico vive e agisce seguendo i suoi libri di teoria. Il tecnico non concepisce altro modo di procedere al di fuori del procedimento classico; cresciu-to sulle panche dell’altare vestito da chierichetto, anche da adulto subisce il fascino del ministrante; Gianluigi Nuzzi nel suo ultimo libro Sua Santità rivela, in un capi-tolo intitolato “La sacra ingerenza sull’Italia”, il carteggio tra Vaticano e Stato italiano affinché la Chiesa sia esentata da tassazioni varie o, ancora meglio, finanziata da de-naro italiano. Riporta il libro che, secondo alcune stime non ufficiali dell’Agenzia delle entrate, l’esen-zione dal pagamento Ici ha tolto ogni anno alle casse dello Stato un potenziale introito di due miliardi di euro all’anno, quasi quanto una manovra. Ma, per i bocconiani, è meglio conservare i privilegi, lo status quo; del resto, il linguaggio tecnico dovrebbe fare più o meno così: “se gli italiani non hanno del pane, dategli una bibbia”.

“DA QUANDO I

TECNICI SONO AL

GOVERNO IL DEBITO

PUBBLICO è AUMENTATO

DI 50,709 MILIARDI”

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di GIANLUCA DI AGRESTI

COSì PARLO’ MONTI: “ABBIAMO PERSO

L’APPOGGIO DEI POTERI FORTI”

Il premier Mario Monti dice che il governo da lui presie-duto ha perso l’appoggio dei “poteri forti”. La platea del congresso nazionale dell’Acri è quella giusta per fare que-sto tipo di affermazione. Se la prende con la Confindustria ed il quotidiano nazionale dei cosiddetti poteri forti, ovvero il “Corriere della Sera”, che ha pubblicato un editoriale firmato da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, nel quale si critica da un punto di vista neo-conservatore la riforma del mercato del lavoro ed il decreto sulle liberalizza-zioni. Al primo ministro ha dato fastidio questo dissenso interno, anche perché sono stati proprio questi appara-ti del tessuto produttivo e dell’informazione italiana ad essere lo sponsor ufficiale del governo. Il professor Mon-ti si difende, dicendo che i provvedimenti presi dal suo

esecutivo sono ben visti da organismi neutrali come Ue e Fmi. In realtà, di neutrale poco hanno questi organi-smi, come di tecnico poco ha questo governo,battezzato dalla BCE. Questo sistema di potere risponde ad un solo dogma, quello neo-liberista, il quale rappresenta la vera religione laica del nostro tempo, professata dai profes-sori e dai banchieri, sommi sacerdoti di questa ortodos-sia. Le politiche rigoriste del governo stanno stremando il paese. La disoccupazione tocca livelli superiori al 10 %, record storico dal 2004. Essa si aggrava, tra l’altro nei luoghi già soffocati dalla soffe-renza sociale. E l’obiettivo del Ministro del Lavoro Fornero è quello dei licenziamenti. Misure che invece di risolvere il problema, ne rappresentano la radice. In queste ore si sta materializzando lo smantel-

lamento delle conquiste del movimento operaio. Il Senato ha già approvato il decreto Fornero. Ora la palla passa alla Camera dei Deputati. Nel testo è contenuta l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quella “palla al piede” per le imprese, secondo la nuova borghesia produttiva e finanziaria che non permette di licenziare e che sarebbe la causa della crisi economica. In realtà se le imprese, soprat-tutto quelle medie e piccole, non stanno bene, bisognereb-be prendersela con il sistema attuale finanziario, il quale si è mangiato letteralmente il settore reale dell’economia. Il rigore bisognerebbe applicarlo con chi specula e non con chi già subisce la crisi. Che venga-no tagliati i veri sprechi, i veri

privilegi, rovesciando l’attuale paradigma secondo il quale il lavoro è un privilegio e le intelligenze che lo esercitano sono uno spreco. Il problema vero dell’Italia è l’evasione fiscale. Dal recupero di questi soldi potrebbero essere stan-ziati fondi diretti per l’occupa-zione e la ricerca. Le imprese straniere non investono non per colpa dell’articolo 18 ma per il dominio esercitato dalle mafie. Sarebbe interessante andare a Rosarno oppure a Castel Volturno e dire a quelle lavoratrici e a quei lavoratori (in grandi percentuali immi-grati che vengono sfruttati) che cosa ne pensano della riforma del lavoro. Loro non ne sono mai stati interessati e difesi perché lo Stato non è presente ed ora lo Stato si sta

allontanando anche da quelle aree dove c’era un minimo di garanzie e di tutele. Che sia da monito anche alle attuali forze politiche, sempre più barricate nel Palazzo, facendo aumen-tare in maniera vertiginosa la loro autoreferenzialità: l’Italia non ha bisogno di grandi ri-forme istituzionali o di allean-ze spurie raffigurate in “foto-romanzi”. Le vere alleanze si cercano nel paese attraverso il dialogo con le cittadine e con i cittadini. C’è chi parla di elezioni anticipate ad ottobre. Se il governo tiene, comunque a marzo 2013 si va a votare. In ogni caso c’è uno iato tra corpo elettorale ed istituzioni politiche difficile da colmare. Il paese ha bisogno di risposte concrete. Né demagogia, né populismo.

“Le politiche rigoriste del

governo stanno

stremando il paese. la di-

soccupazione tocca livelli superiori al 10 %, record storico dal

2004.”

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di MASSIMO PITTARELLO

PELLEGRINAGGIO A

FRANCOFORTE

L’Italia andrà salvata. Poche sto-rie. Non ci sarà Monti o Europa federale in grado di evitare questo scenario. Dovremo chiedere aiuto, a meno che improvvisamente l’Eu-ropa agisca da Europa e la Merkel non si comporti da Merkel. Ma for-se non cambierebbe nulla lo stes-so. Eravamo sull’orlo del baratro a novembre, e siamo ancora qui. Due mesi per capire se ci cadremo, e con noi metà del Vecchi Conti-nente. I segnali ci sono tutti, come le nuvole prima della tempesta. I rendimenti dei titoli di stato con-tinuano a salire e il nostro gigan-tesco debito pubblico è sempre più caro: siamo prossimi al fallimento. Lo Stato non può farcela a finan-ziarsi ad un costo così alto (6,25% per i Btp decennali e 4% per quelli annuali). L’insolvenza è vicina, molto vicina. E allora nonostante nel 2013 avremo l’avanzo primario più alto d’Europa e ciascun italia-no ha fatto e sta facendo sacrifici enormi, il destino sembra tracciato. I calcoli sono stati fatti un po’ da tutti e il risultato finale è che se il costo del debito superasse il 6,8% non ci sarebbero avanzi di bilancio in grado di salvare il Paese, perché il debito pubblico arriverebbe a

toccare il 131% del Pil nel 2016. Il senso è che abbiamo fatto talmen-te tanti “buffi”, che questi hanno ormai preso vita e camminano da soli. Manca davvero poco. Un paio di settimane avanti di questo passo e le parole di Josè Maria Aznar saranno confermate: “All’Italia ser-vono 700 miliardi di euro per non fallire”. Valli a trovare 700 miliardi. Chi li presta? I tedeschi? Ma perché i rendimenti dei titoli di Stato con-tinuano a crescere da mesi? E’ l’I-talia insolvente? Il debito privato e quello bancario non sono in grado di reggere? Il sistema pensionistico si basa e si baserà su privilegi e di-storsioni? Nulla di tutto questo. Ai mercati poco importa se il bilancio primario sia in attivo e migliore di quello tedesco o che l’età pensiona-bile sia la più alta d’Europa, poco importa delle riforme strutturali e delle modifiche del mercato del lavoro, chissenfrega se nel Belpaese non esiste una bolla immobiliare. Non importa nemmeno che le nostre banche sono meno indebi-tate di quelle francesi e tedesche. Figuriamoci dei sacrifici che i cit-tadini comuni fanno tutti i giorni. Semplicemente, per chi acquista i titoli di Stato nostrani, l’Italia è

fallita perché nella direzione in cui i mercati stessi hanno indirizzato i titoli di Stato c’è la bancarotta del Tesoro. Una logica c’è, perversa e distorta, ma c’è. Ed è quella della favola “al Lupo! Al Lupo!”. Invece non c’è logica alcuna nel percorso che ha condotto la moneta unica europea ad essere oggetto di attac-chi speculativi. Parliamoci chiaro, ognuno fa il proprio mestiere. I politici dovrebbero fare il loro come gli speculatori e gli agenti del mercato hanno fatto e continuano a fare il loro. “Gli speculatori” non sono un male assoluto. Gli avvoltoi ci sono dove c’è un animale morto o morente, mica vanno a disturbare il leone vivo e ruggente. L’Europa è solo una sovrastruttura tecnica di una unione doganale; quella creata nel Secondo Dopoguerra. Un artificio nato dalla paura che per l’Alsazia e la Lorenza, Francia e Germania potessero tornare a farsi le guerra nel giro di qualche anno. Così come l’Euro: è stato il frutto di un compromesso. La Ger-mania si sarebbe riunificata e gli Stati europei avrebbero avuto una moneta forte, in grado di risanare i bilanci e rilanciare l’economia. Come sappiamo, la Germania si è

riunificata, l’Euro è nelle nostre ta-sche (forse…), ma i vantaggi della moneta unica sono stati perlopiù sfruttati in chiave elettorale dalla politica, piuttosto che per lungi-miranti opere di ristrutturazione economica dei Paesi dell’Euro-zona. E ora siamo qui. Con una Banca centrale europea priva di logica e poteri, perché uno statuto modellato su quello della Bunde-sbank vieta di fatto all’istituto di Francoforte di pensare e di agire. E mentre la Fed svaluta il dollaro e Londra la sterlina, noi siamo qui a chiederci se e quando Frau Merkel si renderà conto che la Germania senza Europa è un cavaliere senza armi. La forzata inazione della Bce costringe Bruxelles a dei salvatag-gi che hanno davvero qualcosa di “insano”. Dei 100 miliardi prestati a Madrid al tasso del 3%, una venti-na arrivano dall’Italia: la quale, di fatto, s’indebita ad oltre il 6% per trovarli. Proprio un bel “sistema europeo”.

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di MARIKA BORRELLI

CORSI DI LAUREA IN

TERREM0TII terremoti sono come le fa-miglie infelici di Tolstoj: tutti diversi nella loro tragicità.Ogni terremoto italiano inaugu-ra un nuovo modo di studiare l’evento, affrontarne l’emergenza, illustrare l’antropologia delle popolazioni colpite.Ogni terremoto, almeno dal Belice in poi, ha consegnato alla Storia una diversa chiave di lettura, dipesa dalla situazione politica, economica o geografica. Le preoccupazioni del Governo si sono appuntate, via via, più sull’aspetto tragico ed inevitabile (Belice ed Irpinia), sulla maggio-re o minore capacità economica o organizzativa delle popolazioni (Friuli e Emilia), sulla possibilità di soddisfare la fame di grandi appalti (L’Aquila), o sono stati piuttosto dimenticati (Umbria e Marche, San Giuliano).Non c’è uno standard di coping, parola inglese molto concisa per descrivere le strategie per affron-tare le situazioni. Neppure la

Protezione Civile (nata e speri-mentata per la prima volta in Ir-pinia, nel 1980) ha potuto tenere una coerenza di intervento: dalle roulotte (Irpinia) alle C.A.S.E. (L’Aquila), dai fondi assegnati ai Comuni, alla gestione Commis-sariale, dagli interventi singoli alle Grandi Opere, da Zamber-letti a Gabrielli, transitando (e soffermandosi pericolosamente molto a lungo) su Bertolaso.Da cittadina dell’Irpinia, non ho molto da dire o recriminare, semplicemente perché – come già premesso – ogni terremoto è diverso, non ce n’è uno migliore o peggiore ed i confronti non sono possibili. (Vorrei sommes-samente ricordare, però, che l’Irpinia è il fulcro di maggior intensità sismica, con ricorrenze periodiche piuttosto regolari. Ha il colore più intenso sulla mappa della sismicità, perché la nostra zona è quella specie di cardi-ne su cui si scarica la maggior potenza della placca africana

che spinge. Da noi, il terremoto dell’Ottanta ha fatto tremila vit-time. Anche nel Belice ne ha fat-te tantissime, e ciò è dipeso dal combinato disposto della forza d’urto e dall’architettura delle vecchissime abitazioni.). Da noi e per gli Aquilani, ad esempio, e a differenza dell’Emilia, non è stato distrutto il tessuto produt-tivo, perché semplicemente non esisteva. Da noi, a differenza de L’Aquila, hanno tentato di crear-ne uno, ma dopo qualche anno le Aziende, presi i soldi, sono andate via, e non certo per la mancanza d’infrastrutture viarie (costruite grazie ai fondi della 219). I capannoni sono rimasti inutilizzati, tanto che un nostro amministratore ha ingegnosa-mente proposto di smontarli da qui e rimontarli in Emilia, anche perché sono intonsi e progettati per resistere in zone altamente sismiche: si risparmierebbero molti quattrini. È tuttavia com-prensibile la preoccupazione

dei politici attuali nei confron-ti di un territorio, quello della Bassa, che – come è stato più volte ripetu-to – rappresenta l’un per cento dell’intero PIL nazionale. Meno comprensibile è la clausola libe-ratoria proposta agli operai che tra le due scosse sono tornati a lavorare nei capannoni. Come non si capisce, nonostante la rettitudine e l’antropologia di stampo solidaristico e colletti-vo di quelle popolazioni, come si possano edificare – dopo le nuove norme del 2005 sui criteri ingegneristici anti-sismici – ca-pannoni venuti giù come castelli di carte da gioco sulla testa degli operosi operai Emiliani.Sì, è vero che i terremoti sono

tutti diversi, ma la costante che li rende tutti tragici ognuno a suo modo, non è l’evento in sé e per sé, bensì il fatto che acca-dano in Italia, circostanza che li rende misteriosamente più tragici, financo dell’ecatombe di Fukushima.

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di LAURA FOIS

“DURANTE IL TERREMOTO CI SIAMO ABBRACCIATE”Cala il sipario dei media sull’Emilia. Di cui ancora bisogna parlare. E dove tutto è fermo, ma si resiste. E si vince!

Maggio, per chi fa sport, è il mese delle finali, delle medaglie e dei pianti. Di quelle lacrime che sgorgano liberatorie dopo un anno di sacrifici e lividi che spuntano come funghi. Sara gioca a basket a Vigarano, piccolo centro dell’Emi-lia. Veste la maglia della Vassalli, squadra di A2 che proprio durante i giorni terribili del terremoto ha giocato e vinto le finali dei playoff di promozione nella massima serie. Il tempo per loro si è fermato il 20 Maggio 2012. “Quando è arrivata la prima scossa ci trovavamo in casa, a Vigarano. Dormivamo, erano le 4.00 quando ho sentito il letto muoversi violentemente. Ci ho messo 3, forse 5 secondi a realiz-zare di cosa si trattava. Era buio ed era andata via la luce. Con le altre compagne di quadra con cui vivo ci siamo abbracciate, mentre tutto continuava a tremare, incessante-mente. Ho pensato di morire, che tutto fosse finito”. La terra si placa, torna la luce. Inizia ad esserci un via vai inconsueto di macchine per quell’ora del mattino. Poi viene un’altra scossa, e un’altra ancora. “Noi ci guardavamo negli occhi terrorizzate, incredule… poi verso le sei abbiamo deciso di prendere la macchina per farci un’idea di quel-lo che fosse realmente accaduto... mentre le persone che incontrava-mo iniziavano a parlarci dei danni nei paesi vicini, principalmente ai campanili e alle chiese... ci siamo dirette verso Mirabello, un paesino un può più grande di Vigarano a 2 km da noi, e lì abbiamo visto... muretti di recinzione crollati, brecce nelle strade, chiese crollate... l’intera popolazione ai bordi delle strade... uomini, donne, vecchi

e bambini con lo sguardo perso, impaurito, sconvolto... protetti da coperte, in pigiama, scappati dalle proprie abitazioni durante il sonno...era tutto così surreale”, ricorda Sara. La tappa successiva è stata Cavezzo. Lungo la strada che porta dal Ferrarese al Modenese lo scenario è deprimente: case coloni-che crollate, tetti sfondati, fabbri-che aperte e tendopoli allestite in poche ore. “Le scosse continuavano e sembrava l’apocalisse... un intero centro storico distrutto... e come Cavezzo, anche Mirandola, Con-

cordia, Rovereto, Fossoli, Medol-la...”, racconta Sara come un fiume in piena. “Dormiamo in macchina per i cinque giorni seguenti al terremoto, per il terrore di rinchiu-derci ancora dentro quattro mura. E lo shock è pensare che proprio quella che prima poteva definirsi SICUREZZA ora non lo è più... la sicurezza non è più una porta che si chiude alle tue spalle, non è più una casa di mattoni, non è più una rete sotto un materasso... la sicurezza diventa una macchina, quattro lamiere in croce su quattro

ruote che isolano dalla terra che trema, due sedili che si ribaltano, un piumone che scalda e dei cusci-ni per dare ristoro alla testa che fa male, che macina, che si domanda senza potersi dare risposta... la Sicurezza è anche un parcheggio, pieno di nuove case di lamiera su quattro ruote, a loro volta piene di uomini, donne e bambini...e ci si fa forza così... condividendo tutto questo”. Intanto il calenda-rio del basket ha le sue scadenze e i suoi impegni. Ci sono i playoff da giocare, quelle tre partite che

valgono una stagione. Ma la testa è da un’altra parte e Sara e compagne affondano in gara 1.“Quella partita è stata un delirio, eravamo assen-ti, stanche, sfinite”, racconta Sara. “Anche perché il palazzetto era diventato la casa degli sfollati della zona e noi cambiavamo di giorno in giorno palestre per allenarci.” La sua squadra non voleva neanche giocare (“intorno a noi morivano persone, incastrate tra le macerie, lavoratori nei loro posti di lavoro, e noi avremmo dovuto giocare!?) ,” ma la Federazione si è opposta

e sono dovute scendere in campo. “Eravamo sconvolte”, è il commen-to di Sara. Ma qualcosa dentro di loro cambia. Per sempre.“L’indignazione per l’indifferenza totale nei confronti di una situa-zione così seria e drammatica ci ha fatto trovare le forze”, ricorda la numero 11, “e la forza di tutte le persone che hanno vissuto ciò che abbiamo vissuto noi diventa la nostra forza... la forza di chi ha perso tutto e vuole ricominciare, la forza di chi non riesce a staccare gli occhi dalla propria casa, la forza di chi ha visto il suo paese distrutto e il terrore negli occhi dei propri familiari, la forza di una madre che gioca col proprio bambino per non fargli sentire la terra che trema... Abbiamo vinto così gara 2 e gara 3.” La Vassalli è in paradiso, ma si fa per dire. Si festeggia, ma col cuore che piange e un ricordo che martella la testa. Dal giorno della finale vivono a Cavezzo, tra roulot-te e tende, come tutta la gente della zona. “Per adesso è tutto fermo... chiedono soldi a chi ha perso le case per le demolizioni... è qualcosa di incredibile... chi perde la casa deve anche pagare per demolirla e rimuovere le macerie...tutti i settori produttivi hanno rimediato una bella botta... è un disastro totale...”, dice Sara. È questa la realtà. Ma non c’è arrendevolezza, né voglia di mollare, in Emilia. Si ricomincia, anche dopo aver perso tutto.Il giorno della finale, vinta dalla Vassalli, un cartellone esposto al palazzetto aveva la scritta “Ripar-tiamo!”. Che anche il basket lo inse-gna, che le sconfitte sono le figlie d’arte delle vittorie.

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di MASSIMO PITTARELLO

LIMES 2012LA GUERRA DI INTERNETLa battaglia per il controllo del mondo cibernetico è la nuova fron-tiera dove si affronteranno e si con-fronteranno le potenze planetarie, ma non solo. Nel dicembre 2012 si svolgerà a Dubai la Conferenza Mondiale delle Comunicazioni Internazionali; primo capitolo della nuova grande battaglia planetaria per il dominio della Rete. Le grandi potenze mondiali torne-ranno a rinegoziare il trattato del 1988, quello che stabilisce l’attuale regime. Di fronte si troveranno due schieramenti che hanno idee diverse su come dovrà essere regolamentato Internet: da un lato gli Stati Uniti con il loro approccio “multi-stakeholder”, che tutela tutti i portatori di interesse sulla Rete, e perciò di carattere essenzialmente privato. Anche perché allo stato at-tuale delle cose i domini .org, .net, .com – tra i più diffusi e utilizzati – sono amministrati da compagnie basate negli Stati Uniti e dunque sottostanti alle leggi americane. Dall’altro lato una coalizione ca-peggiata dalla Cina, sostenuta da India, Russia, Brasile, e anche la Francia, che vorrebbero introdur-re un controllo multigovernativo, attraverso organizzazioni collegate alle Nazioni Unite. In sostanza siamo di fronte a uno scontro fra chi difende un approccio “priva-tistico” da uno “diretto dal settore pubblico”. Ma qui, come in tanti altri casi, la formulazione giuridica è solo uno strumento con cui si vuole ottenere il controllo della quinta dimen-sione: quella cibernetica. Dopo il controllo delle terre, quello delle acque, poi quello dei cieli e infine

quello degli spazi extrat-mosferici, la battaglia per il dominio globale si sposta su un nuovo campo di battaglia: il virtuale. Che è divenuto fondamentale, strategico, de-terminate, come testimoniato da molti fenomeni. Basti pensare che il processo di arricchimento dell’uranio attuato dall’Iran è stato bloc-cato per anni da un attacco informatico che – anche se non rivendicato – è stato lan-ciato da Israele. Se negli anni Ottanta furono i jet, adesso sono i byte l’avanguardia per il controllo strategico mon-diale. Nel 2009 in Moldavia c’è stata la cosiddetta “Twitter revolution”, ma è stato con le “primavere arabe” che l’im-portanza dei social network ha palesato tutta la propria importanza. Tra l’altro, molti dei promotori delle proteste avevano partecipato ad appo-siti corsi formativi promossi dagli Stati Uniti sin dall’am-ministrazione Bush. Il Dipartimento di Stato ame-ricano ha dichiarato di aver stanziato, dal 2008 al 2011, 76 milioni di dollari per pro-muovere la “libertà di Inter-net” nel solo Medio Oriente. Nel 2012 sono previsti altri 25 milioni di dollari, oltre all’esenzione dall’embargo verso l’Iran di alcune tecno-logie e servizi informatici che possono favorire “il libero flusso di informazioni”. Gli Stati Uniti, con il control-

lo di Internet, stanno proseguendo nella strate-gia del “full spectrum dominance” e cioè con il controllo di tutti gli ambiti strategici. Una volta c’era la “diplomazia del ping pong”, ora c’è la “twitter diplomacy”. E allora la nuova battaglia – speriamo solo diplomatica – verrà combattuta proprio qui. Se in passato gli americani vende-vano armi alle forze oppositrici di un regime considerato “nemico” oggi, finanziano tecnolo-gie che permettono ai dissidenti di comunicare

aggirando i controlli che i regimi dittatoriali pongono sugli accessi a Internet. Se in passato la informazioni si ottenevano con servizi segreti, spie e infiltrati, oggi esiste il Web 2.0; strumento integrato nelle strategie di intelligence, psicologiche e militari americane. Durante la guerra in Libia, monitorando i social network dei ribelli, gli strateghi della Nato hanno aggiornato la lista degli obiettivi da colpire con gli aerei. Ma altra e pratica dimostrazione di come i media siano armi ormai determinanti in ogni scenario ci è arrivata dalle elezio-ni amministrative italiane, con il successo dei candidati del Movimento Cinque Stelle. Tale forza politica si è costituita dal basso, intorno ad un blog, quello di Beppe Grillo, che poi, sempre sul web, si è consolidata ed affermata. Ora ha il suo primo sindaco e l’obiettivo dichiarato è quello di entrare in parlamento. Ma il “fenomeno Grillo” non è unico, né isolato. Il Partito Pira-ta è un movimento politico internazionale diffuso in numerosi Paesi (Spagna, Austria, Australia, Francia, Polonia, Russia, Belgio e Italia) e che in Svezia e Germania ha riscosso anche un discreto successo elettorale. Ma non solo. Nelle elezioni presidenziali francesi appena con-cluse con la vittoria di Hollande, entrambi i candidati hanno assunto un folto gruppo di under 30 che potessero sviluppare sul web il rispettivo marketing politico, pagandoli fra l’altro profumatamente. Se il quarto potere è quello dell’informazione, il web ne è ormai colonna portante, da cui non si può non prescindere. A volte funge da cassa di risonanza, altre volte anticipa e condi-ziona gli altri media. Inoltre, quando Guttenberg inventò la stampa, in pochi, anzi pochissimi sapevano leggere e scrivere. Nei primi anni del novecento il tasso di alfabetizzazione era intorno al 30%, oggi, negli stessi territori la percentuale di chi è “internettizzato” è prossima al totale.Internet incide sul Pil francese per 7,6%, mentre solo il 3% su quello italiano. Promuovere l’uso del wi-fi per tutti darebbe un’accelerazione decisiva allo sviluppo economico. Ma fino ad oggi, e nonostante gli annunci del governo sull’Agenda Digi-tale, in Italia ci è concentrati esclusivamente su un’azione di controllo, peraltro assolutamente abusiva, restrittiva e limi-tante. Come ad esempio la legge Levi, che obbliga le persone a registrarsi prima di effettuare l’accesso alla Rete. Ma la Rete nasce e si sviluppa dal basso, e come tutti i movimenti di que-sto genere, non può essere fermato, come uno scoglio non può arginare il mare.Sulla fenomeno virtuale, che si sostanzia nella realtà del web, la speranza è che l’Italia possa diventare protagonista. Ma per farlo è necessario che si metta al passo coi tempi, che cominci a pensare in un’ottica globale e che soprattutto la smetta di ragio-nare in termini di limiti, vincoli e che elimini lacci e lacciuoli che reprimono e impediscono nel breve periodo uno sviluppo delle potenzialità del nostro Paese. Che però, alla lunga, sono comunque destinate a riemergere e a farsi largo, magari rove-sciando l’esistente, con grande perdita di energia. E di byte.

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L’Universale 16

di FABIO PITTAU

LA CULTURA DEL BISCOTTO

Noi italiani, si sa, abbiamo una gran bella faccia tosta. Siamo ancora con l’acqua fino al collo per uno degli scandali più clamorosi della storia dello sport, e nonostante tutto, abbiamo il corag-gio di puntare il dito su Spagna e Croazia e sulla loro presunta anti-sportività. Temia-mo il “biscotto”: il 2-2 nell’ultima giornata, che ci manderebbe a casa dopo soltanto otto giorni di Europeo.Ma io dico: non sarebbe il caso di attirare il meno possibile l’attenzio-ne su di sé, so-prattutto aprendo dibattiti che nulla hanno a che vede-re con il calcio giocato? E per dirla tutta, perché non pensiamo prima a vincere una partita sul campo e poi a prendercela con gli altri? Lo score della Nazionale Italiana negli ultime cinque gare tra Mondiale e campionato Europeo dice: 4 pareg-gi, 1 sconfitta, 0 vittorie. Togliendo

i Campioni del Mondo all’esordio in Polonia, con cui abbiamo dispu-tato la miglior partita degli ultimi due\tre anni (che io ricordi), gli avversari affrontati nelle fasi finali, con tutto il rispetto, sono stati Paraguay, Nuova Zelanda, Slovenia e Croazia.

Sono convinto che la Spagna non scenda a patti con nessu-no: ogni match è un’occasione nuo-va per specchiare la propria forza e mostrare a tutto il mondo l’onnipo-tenza calcistica. E per di più, un pareggio a tavo-lino che faccia fuori una Nazio-nale nemmeno lontanamente considerata una diretta concor-rente per il titolo finale, è un’offesa intellettuale non concepita dalle parti di Madrid. Quindi, lunedì battere l’Irlanda non dovrà essere il presupposto, ma l’unica cosa che conterà per

raggiungere gli ottavi di finale. Se non vogliamo ricordarlo come l’Europeo delle frasi omofobe di Cassano e delle scappatelle di Ba-lotelli.