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1 V. Jacomuzzi, R. Miliani, F.R. Sauro, Trame - Dalla comprensione del testo alla scrittura © SEI 2010 introduzione L’USO SCRITTO DELLA LINGUA Scrivere è sempre nascondere qualcosa che venga poi scoperto (I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cap. VIII) La lingua scritta è il mezzo privilegiato per comunicare con interlocutori lontani nello spazio e per garantire al messaggio di un testo una durata nel tempo: questo è la ragione d’essere di un’antologia, che non a caso propone testi scritti particolarmente significativi e forieri di un “messaggio centrale” (di cui abbiamo parlato a p. 132 del volume A di Trame). Già, ma nell’antologia la lingua scritta viene proposta soprattutto: • per essere compresa (non a caso esercizi di comprensione accompagnano tutti i testi proposti); • per essere analizzata nelle sue diverse strutture narratologiche, retoriche, sti- listiche; • infine per essere usata ai fini di produrre altri testi scritti, (spesso di tipo- logia e con finalità differenti, come avete potuto comprendere dalla varietà di testi e di tipologie narrative che Trame vi propone). Lo scopo di questo volumetto è quello di affinare le vostre competenze di lettori e scrittori: la vostra esperienza di lettori, infatti, sarà messa alla prova innanzi tutto per quanto riguarda una corretta comprensione, il primo, indi- spensabile gradino per poter poi diventare anche buoni “scrittori”. La vostra capacità di comprensione sarà messa alla prova attraverso delle tipologie di esercizio differenti (almeno in parte) da quelle a cui l’antologia vi ha abituato: si tratta delle tipologie OCSE-PISA, le cui caratteristiche e finalità vengono spiegate a p. 00 (questa sarà, tra l’altro, per voi l’occasione di poter godere della lettura di sei nuovi racconti integrali). A partire dalla vostra accertata (secondo metodi internazionali) competenza di lettori, si può passare alla fase della scrittura. Questo avverrà - attraverso quattro sezioni - in due tempi: • dapprima – dopo una “palestra di prescrittura” – proveremo ad applicare praticamente alcune delle tecniche che avete studiato nella prima parte del volume A di Trame: il fine dell’antologia è infatti quello che voi sappiate ri- conoscerle leggendo testi di altri scrittori, così da diventare “lettori esperti”. Il fine di questo volume è di verificare se le conoscete così bene da poterle ap- plicare. Non tutte, naturalmente, a meno che la vostra ambizione sia quella di diventare scrittori di professione; • il secondo passo è quello scrivere testi veri e propri, cosa che sicuramente già fate, ma questa “palestra di scrittura” ha il fine di insegnare a scrivere in modo meditato e razionale. Scrivere “facendosi capire” dai propri lettori non è così scontato. Saper comunicare è un’arte che si impara attraverso l’e- sercizio. Non a caso Vasilij Andreevi Žukovskij, un poeta russo del XIX se- colo che di mestiere faceva il traduttore, diceva che “ciò che si scrive con fatica si legge con facilità”.

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V. Jacomuzzi, R. Miliani, F.R. Sauro, Trame - Dalla comprensione del testo alla scrittura © SEI 2010

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L’USO SCRITTO DELLA LINGUA

Scrivere è sempre nascondere qualcosache venga poi scoperto

(I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cap. VIII)

La lingua scritta è il mezzo privilegiato per comunicare con interlocutorilontani nello spazio e per garantire al messaggio di un testo una durata neltempo: questo è la ragione d’essere di un’antologia, che non a caso proponetesti scritti particolarmente significativi e forieri di un “messaggio centrale” (dicui abbiamo parlato a p. 132 del volume A di Trame). Già, ma nell’antologia la lingua scritta viene proposta soprattutto:• per essere compresa (non a caso esercizi di comprensione accompagnano

tutti i testi proposti); • per essere analizzata nelle sue diverse strutture narratologiche, retoriche, sti-

listiche;• infine per essere usata ai fini di produrre altri testi scritti, (spesso di tipo-

logia e con finalità differenti, come avete potuto comprendere dalla varietà ditesti e di tipologie narrative che Trame vi propone).

Lo scopo di questo volumetto è quello di affinare le vostre competenze dilettori e scrittori: la vostra esperienza di lettori, infatti, sarà messa alla provainnanzi tutto per quanto riguarda una corretta comprensione, il primo, indi-spensabile gradino per poter poi diventare anche buoni “scrittori”. La vostracapacità di comprensione sarà messa alla prova attraverso delle tipologie diesercizio differenti (almeno in parte) da quelle a cui l’antologia vi ha abituato:si tratta delle tipologie OCSE-PISA, le cui caratteristiche e finalità vengonospiegate a p. 00 (questa sarà, tra l’altro, per voi l’occasione di poter godere dellalettura di sei nuovi racconti integrali).A partire dalla vostra accertata (secondo metodi internazionali) competenza dilettori, si può passare alla fase della scrittura.

Questo avverrà - attraverso quattro sezioni - in due tempi: • dapprima – dopo una “palestra di prescrittura” – proveremo ad applicare

praticamente alcune delle tecniche che avete studiato nella prima parte delvolume A di Trame: il fine dell’antologia è infatti quello che voi sappiate ri-conoscerle leggendo testi di altri scrittori, così da diventare “lettori esperti”.Il fine di questo volume è di verificare se le conoscete così bene da poterle ap-plicare. Non tutte, naturalmente, a meno che la vostra ambizione sia quella didiventare scrittori di professione;

• il secondo passo è quello scrivere testi veri e propri, cosa che sicuramentegià fate, ma questa “palestra di scrittura” ha il fine di insegnare a scrivere inmodo meditato e razionale. Scrivere “facendosi capire” dai propri lettorinon è così scontato. Saper comunicare è un’arte che si impara attraverso l’e-sercizio. Non a caso Vasilij Andreevi Žukovskij, un poeta russo del XIX se-colo che di mestiere faceva il traduttore, diceva che “ciò che si scrive con faticasi legge con facilità”.

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Il fine che vi proponiamo è dunque più modesto del diventare scrittori veri epropri ma molto utile ai fini pratici della scrittura nella vostra vita scolastica enella vostra vita futura. Per questa ragione le sezioni finali del volume sono de-dicate alla stesura:• del tema;• del testo argomentativo;• del saggio breve.

Non passeremo in rassegna i vari tipi di testo (che avete già studiato alle scuolemedie e, dopo l’uso del volume A di Trame pp. 684-709, dovreste aver appro-fondito e messo a punto), non riprenderemo scritture “tecniche” come il rias-sunto (che già trovate nel volume A di Trame a p. 156 e sgg.) rispetto al testoin prosa, o la parafrasi e il commento rispetto al testo in poesia (nel volume Ba p. 73 e sgg.). Ci soffermeremo invece sull’abilità di scrittura, spesso, a torto,ritenuta un talento naturale ma che in realtà si apprende attraverso alcune stra-tegie ed esercizi via via più complessi che vi condurranno a produrre testi sem-pre più chiari, comprensibili ed efficaci rispetto al tema trattato. Lo faremo,appunto, adottando le tecniche imparate nel volume A di Trame, cui spesso fa-remo, non a caso, riferimento.

Chiariamo allora il nostro scopo, che è quello di fare in modo che ogni testoscritto da voi prodotto abbia come requisiti di essere chiaro, corretto,comprensibile, interessante.Tutti voi potete diventare dei buoni “autori” se avrete la pazienza di seguire ilpercorso che vi proponiamo: avrete l’opportunità di cimentarvi con testi crea-tivi, espressivi, composti per lasciare spazio alla fantasia o per fissare sulla pa-gina sentimenti e sensazioni del mondo interiore, vostro o dei personaggi chesaprete inventare.Tutto questo sarà utilissimo ai fini di produrre testi destinati ai compiti scrittidi lingua e letteratura italiana, dove vi rivolgete essenzialmente all’insegnantedi italiano. Ma padroneggiare bene per iscritto la propria lingua madre è fon-damentale per ogni disciplina scolastica e in tutte le situazioni della vita che ri-chiedono un uso scritto della lingua.Basta avere, in ogni caso, ben chiari due aspetti, che non bisogna mai trascu-rare:a chi ci rivolgiamoqual è lo scopo per il quale scriviamo.

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È solo di recente che nella scuola italiana si sono diffuse prove di verifica chefanno riferimento a organismi internazionali, ma in verità è già dalla metà del-l’Ottocento che questo tipo di valutazioni era stato concepito e si era diffuso inmolti paesi. L’origine di queste prove veniva dalla volontà di alcuni pedagogistidi conoscere i sistemi scolastici di altri popoli in modo più sistematico, cer-cando di superare l’occasionalità delle ricerche in proposito e tentando di rac-cogliere informazioni che consentissero di evidenziare analogie e differenze neisistemi d’istruzione. L’obiettivo era molteplice, ma sostanzialmente era finaliz-zato alla conoscenza e alla comprensione del funzionamento dei sistemi scola-stici per raggiungere le condizioni migliori di apprendimento e insegna-mento, pur essendo molto complesso, certamente, costruire dei curricoli chepermettessero di ottenere in modo attendibile una comparazione.

La difficoltà che queste prime organizzazioni dovettero affrontare per realiz-zare i loro lavori non era solo concettuale, ma anche di natura economica, per-ché non riuscivano a coinvolgere istituzioni pubbliche o private per finanziarele loro ricerche. Tuttavia, negli anni Ottanta, quando divenne più chiaro permolti Stati che il rapporto costi-benefici nell’istruzione non era un passaggiotrascurabile, vennero accolte con maggiore interesse le indagini valutative suisistemi scolastici, per poter individuare la relazione più efficace tra investi-menti nel settore dell’istruzione e la riuscita economica della formazionefornita. Le prime rilevazioni internazionali adattarono strumenti e proce-dure che erano già stati utilizzati in America, rivedendo i punteggi in re-lazione ai programmi dei diversi paesi interessati, ma questo sistema aveva evi-

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Le primeindagini.

La svolta deglianni Ottanta.

LACOMPRENSIONEDELTESTO

denti limiti, non foss’altro per la parzialità del parametro di riferimento; cosìdopo i primi strumenti messi a punto soprattutto dall’OCSE (Organizzazioneper la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) nel 1997 ebbe inizio PISA(Programme for International Student Assessment), che aveva l’obiettivo difornire informazioni utili sui risultati dei sistemi d’istruzione per migliorare lepolitiche scolastiche. I lavori di PISA inoltre erano pensati con una cadenza re-golare e ripetuta nel tempo, che si stabilì in cicli di quattro anni.

Alla base dei test OCSE PISA, dunque, c’è la volontà di verificare in quale mi-sura la scuola prepari i giovani ad affrontare la vita di cittadini e di lavoratori,proprio in un momento storico come questo, in cui l’offerta di lavoro implicauna notevole mobilità e la necessità di un apprendimento continuo. PISA ritieneche nelle attuali condizioni sociali e culturali non sia più utile una scuola finaliz-zata alla sola trasmissione di contenuti, ma piuttosto a mettere in condizione glistudenti di applicare ciò che hanno appreso per affrontare (e risolvere) i pro-blemi della vita reale. La scuola deve quindi preparare a sapere e saper fare,abilità che si sostituiscono alla precedente idea di una scuola trasmettitrice diconoscenze, promuovendo un’idea di scuola come luogo formativo che stimolale capacità e le motivazioni necessarie per continuare ad apprendere tutta la vita.

Da tutto ciò risulta chiaro che PISA valuta la scuola in base a un criterioesterno ad essa – di carattere politico ed economico – e non sulla base delpossesso di conoscenze: la scuola deve essere in grado di lavorare sulla lite-racy, ovvero sulla capacità degli studenti di ricercare, identificare, elaborare in-formazioni e comunicare i propri ragionamenti su di esse.

LA REALIZZAZIONE DEL TESTIl progetto PISA è frutto di una collaborazione di molti organismi diversi e dirigela sua indagine su numerosi paesi del mondo: al test del 2006 hanno aderito 57nazioni e 62 a quello del 2009. Il lavoro ha sostanzialmente tre obiettivi: il primoè di individuare indicatori comparabili a livello internazionale su studenti dellastessa età (15 anni) per verificare se i sistemi di educazione siano capaci dipreparare i giovani ad affrontare la vita civile e lavorativa; un secondo èquello di poter interpretare i dati ottenuti per mettere in atto politiche efficacia livello di indicazioni ministeriali; un terzo infine è quello di monitorare glisviluppi delle politiche educative stesse, qualora fossero state immesse delleriforme. Le discipline sulle quali PISA ha stabilito di operare sono l’abilità dilettura, la matematica, le scienze naturali. Ogni ciclo PISA si articola su quat-tro fasi che si svolgono nel corso di quattro anni: ideazione del test (primo anno),indagine pilota per affinare il test (secondo anno), somministrazione del test aglistudenti dei paesi aderenti (terzo anno), preparazione dei risultati con elabora-zione dei dati a livello nazionale e internazionale (quarto anno).

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A che cosaserve la scuola.

Che cosa valuta PISA.

Obiettivi deltest, ambiti e tempid’intervento.

Per quanto riguarda l’abilità di lettura, ritenuta trasversale a molti ambiti e nonsolo propria della letteratura, PISA ha condotto un’ampia riflessione sulle si-tuazioni di lettura distinguendone le tipologie principali: ad uso privato epersonale; ad uso pubblico per partecipare a eventi della sfera civile; in conte-sto lavorativo, legata all’esecuzione di un compito; a fini educativi, per acqui-sire informazioni che vengono richieste da altri. Sulla base di queste tipologie,la prova PISA sulla lettura conterrà un racconto o un testo teatrale, che ri-spondono all’ambito della lettura personale, una lettura di carattere scola-stico, che risponde alla tipologia di testo con fine educativo, un foglio infor-mativo, che si riferisce a un contesto lavorativo, una lettura a uso pubblico. Ilformato dei testi potrà essere – per soddisfare tutte le tipologie possibili – siacontinuo (testi in prosa: narrativi, espositivi, descrittivi, argomentativi, diistruzioni, documenti o atti ufficiali, ipertesti), sia non continuo (tabelle, mo-duli, figure, grafici, annunci e pubblicità, certificazioni). Si è aggiunta di re-cente un’ulteriore distinzione sulla modalità di lettura, che si divide tra letturaa stampa ed elettronica, perché a seconda del mezzo è diversa anche la mo-dalità della lettura, che deve essere ugualmente padroneggiata dagli studenti.

Le domande vengono costruite tenendo conto di tre aspetti che mirano a va-lutare la comprensione del testo stesso:

individuare informazioni: cioè scorrere il testo, cercare, localizzare, sele-zionare l’informazione richiesta;

comprendere il significato generale di un testo, considerandolo nel suoinsieme: ad esempio indicare l’argomento principale, lo scopo dell’autore,trovare informazioni significative sia a livello implicito, sia a livello esplicito;

riflettere sul testo e valutarlo, spiegando e difendendo il proprio punto divista interpretativo, giustificato attraverso anche conoscenze extratestuali,in possesso dello studente.

Dopo numerosi passaggi, PISA ha scelto di riferirsi alle seguenti cinque tipo-logie di domanda:

domande a risposta semplice (scelta tra quattro o cinque proposte);

domande a scelta multipla complessa (costituite da una serie di Vero-Falso o a scelta multipla);

domande aperte a risposta univoca (cioè con una sola risposta esatta che lostudente deve produrre o selezionare tra più alternative);

domande aperte a risposta breve (lo studente può avere più risposte cor-rette);

domande aperte a risposta articolata, in cui si deve fornire una rispostapiù estesa.

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I testdi lettura.

Formati di risposta.

Caratteristichedei quesitiproposti.

PISA ha immaginato una scala di classificazione della difficoltà delle domandesulla base della probabilità che ha uno studente di rispondere correttamente auna domanda che fa parte della prova. In questo modo vengono contemplatecontemporaneamente sia la difficoltà dei quesiti sia l’abilità dello stu-dente di rispondere ai quesiti. La divisione in scala è secondo un livello di dif-ficoltà crescente, da 1 a 5, secondo questo criterio:

• livello 1: si richiede al lettore di reperire informazioni in un punto precisodel testo o di cogliere l’idea principale se questa è ripetuta più volte;

• livello 2: si chiede di cercare connessioni linguistiche o tematiche all’internodi un unico capoverso o di sintetizzare informazioni contenute in parti di-verse del testo per dedurre lo scopo dell’autore;

• livello 3: si chiede di individuare connessioni logiche all’interno del testo,esplicite o implicite, non necessariamente in un unico capoverso, per localiz-zare o valutare informazioni;

• livello 4: si verifica che il lettore sappia seguire collegamenti linguistici o te-matici lungo più capoversi per localizzare, interpretare e valutare informa-zioni di carattere astratto presenti nel testo, ma spesso non esplicitate chiara-mente;

• livello 5: si chiederà al lettore di sapere trovare una relazione tra specificheporzioni di testo e il suo significato o scopo implicito.

Nel test OCSE PISA ogni quesito, nella parte dedicata al docente, viene de-scritto secondo molti indicatori: il tipo di item proposto, la sua classificazionesulla scala, la sua valutazione in termini numerici (secondo un criterio che quinon abbiamo ricordato perché non utilizzato nel testo), la sua risposta corretta,quelle parzialmente corrette e quelle errate (nel nostro caso saranno presentisolo le risposte corrette). La quantità dei quesiti deve rispecchiare la presenzadelle diverse tipologie e dei livelli di difficoltà.

Sulla base di tutte le informazioni presentate nel corso di questa breve in-troduzione, che certo trascura molti dati (per esempio quelli inerenti ai testinon continui, o ai punteggi assegnati in seicentesimi ecc.) sono state predi-sposte le prove che seguono, costruite su sei racconti di autori e generiletterari diversi (non raggruppati per genere, ma presentati in ordine cre-scente di difficoltà), in modo da offrire un allenamento alle tipologie propo-ste dalle prove OCSE PISA. In coda ai racconti e alle verifiche sono statipredisposti i correttori con le indicazioni descrittive degli item. La valuta-zione delle abilità di lettura proposte da prove come quelle che seguono puòanche essere intesa come una possibile indagine sulle abilità raggiunte al-l’interno di una scuola, intendendo ogni classe come un paese a sé, con par-tecipanti, abilità e metodi confrontabili e riferibili all’efficacia del lavorodell’intero istituto.

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Scaledi competenzadi lettura.

Numero deiquesiti e lorodescrizione.

Il contenutodi questofascicolo.

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John Steinbeck

L’affare al n°7 di rue de M...

anno 1955

luogoStati Uniti

genereracconto fantastico

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Presentazione dell’opera Steinbeck è stato uno dei più caratteristici rappresentanti della ripresa economica americana in letteratura, convinto della funzionedi nuova responsabilità che in quegli anni si attribuiva allo scrittore e del forte impegno sociale che questa implicava. Il vigore, laverità e l’immediatezza con cui descriveva le drammatiche vicende del mondo rurale della California gli attirarono le simpatie delpubblico e della critica anche fuori dagli Stati Uniti, come dimostra l’ammirazione mostrata per lui, in Italia, da Pavese e Vittorini.Il periodo bellico, tuttavia, segnò una frattura nel mondo steinbeckiano: la società americana, nel dopoguerra ormai profonda-mente cambiata, stava avviandosi verso valori e modelli consumistici, lontani dalla visione della realtà che aveva così fortementecaratterizzato lo scrittore negli anni Trenta e Quaranta. L’affare al n° 7 di rue de M... appartiene al filone satirico e ironico di Stein-beck, rivolto per l’appunto contro questa nuova società, che lo scrittore coltivò a partire dagli anni Cinquanta. Esasperando le situazioni sino al punto di rottura, tramutando la piccola realtà in un mondo surreale, la sua satira insi-diosa non risparmia nessuno: la nobiltà, la borghesia, il clero, i piccoli impiegati, le spie, i confidenti della polizia. Il suo atteggia-mento è quello di chi, fingendosi un cittadino rispettoso e conformista, recita una falsa obbedienza, un falso perbenismo, ma at-traverso la deferenza clownesca mostra il ridicolo delle convenzioni e delle norme.

vevo sperato di sottrarre alla curiosità del pubblico gli eventi piut-tosto curiosi che, da un mese a questa parte, m’hanno dato qualchepreoccupazione. Sapevo, naturalmente, che nel vicinato si facevanomolte chiacchiere. Mi erano perfino giunte all’orecchio alcune delle

versioni distorte che circolavano nel quartiere: storie, mi affretterò ad ag-

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John SteinbeckNato a Salinas nel 1902, crebbe nella campagna californiana, sfondo di moltisuoi lavori. Nel 1919-25 frequentò saltuariamente la Stanford University e nel1925-35 fu occupato nei più disparati lavori manuali oltre che nelle primeprove narrative, che coincidono con la grande crisi economica del 1929 e il suc-cessivo rilancio. Il suo primo libro importante è la raccolta di racconti I pascolidel cielo (1932), seguito da Al dio sconosciuto (1933), nei quali lo scrittore svi-luppa quella che rimarrà la sua tematica caratteristica, il rapporto tra l’uomo ela terra in California. Dopo un primo romanzo di grande successo, Pian dellaTortilla (1935) di tono picaresco, decide per una scrittura sempre più aspra epolemica. Così è in La battaglia (1936), storia di uno sciopero di lavoratori agri-coli, e soprattutto in Uomini e topi (1937), tragica storia di due braccianti in cerca di lavoro, e in Furore(1939), che narra la disperata migrazione di una famiglia dell’Oklahoma verso una California dominata dastrutture agrarie di tipo feudale. Furore ricevette nel 1940 il premio Pulitzer e diventò, nella trasposizionedi John Ford, un classico del cinema americano. Dopo essersi trasferito a New York, Steinbeck passò partedella guerra in Europa come corrispondente per il «New York Herald Tribune». Di argomento bellico è lacommedia La luna è tramontata (1942), ambientata nella Norvegia occupata dai nazisti. Dopo alcuni altriromanzi, tornò al grande successo internazionale con La valle dell’Eden (1952), moderna trasposizionedella vicenda di Caino e Abele, oggetto di una fortunata versione cinematografica di Elia Kazan. Nell’ultimafase della sua produzione acquistano maggiore rilievo i motivi ironici e satirici: Quel fantastico giovedì(1954); Il breve regno di Pipino IV (1957); L’inverno del nostro scontento (1961) e il tema del viaggio(Viaggio con Charley, 1962). Nel 1962 gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura. Morì a New Yorknel 1968.

giungere, in cui non c’era un briciolo di verità. Sia come sia, il mio deside-rio di tenere la faccenda in privato è stato mandato in frantumi, ieri, dallavisita di due esponenti del quarto potere1, i quali mi hanno assicurato che lastoria, o per meglio dire una storia, aveva oltrepassato i confini del mio ar-rondissement.In vista della pubblicità che ci sovrasta, ritengo mio dovere riferire gli au-tentici particolari di quegli avvenimenti che sono ormai noti come il Casodel N. 7 di Rue de M…, affinché sciocche assurdità non vadano ad aggiun-gersi a una serie di circostanze non prive di una certa bizzarria. Descriverògli eventi come si svolsero, senza commenti, permettendo così al pubblicodi giudicare da sé la situazione.All’inizio dell’estate mi trasferii con la mia famiglia a Parigi e presi alloggioin una graziosa casetta al N. 7 di Rue de M...: un edificio che, in altraepoca, era stato la scuderia della grande casa che sorge lì accanto. L’interaproprietà è ora posseduta, e in parte abitata, da una nobile famiglia fran-cese, di antichità e lignaggio2 tali che i suoi membri si ostinano a conside-rare inaccettabile la pretesa dei Borboni3 al trono di Francia.In quella graziosa stalla rimodernata, con tre piani di stanze sovrastanti unben pavimentato cortile, portai la mia famigliola, formata da mia moglie,dai miei tre figli (due ragazzetti e una signorinella) e, naturalmente, dal sot-toscritto. Il nostro personale, in aggiunta alla custode che, come saprete, ècompresa nella casa, è composto da una cuoca francese di grande abilità, dauna cameriera spagnola e dalla mia segretaria, una ragazza di nazionalitàsvizzera i cui vertici di capacità e ambizione sono uguagliati soltanto dallesue vette morali. Questo, dunque, era il nostro piccolo gruppo familiarequando gli eventi di cui sto per farvi la cronaca ci piovvero tra capo e collo.Se qualcuno deve avere un influsso su questa faccenda, non posso propriofar altro che addossarne non dico la colpa ma piuttosto la paternità, siapure innocente, al mio figliolo minore John, che soltanto di recente hacompiuto gli otto anni: un bambino vivace, di singolare bellezza e dalla ro-busta dentatura.Questo giovanotto, durante i sette anni passati in America, è diventato nondirò proprio un vizioso ma piuttosto un aficionado4 di quella strana abitu-dine americana che consiste nel «masticare la cicca», e uno degli aspettipiacevoli della nostra primavera parigina stava nel fatto che il cadetto Johnavesse trascurato di portare con sé, dall’America, parte di quell’atroce so-stanza gommosa. La dizione del bambino divenne più chiara e non più in-ceppata e dai suoi occhi scomparve l’espressione da ipnotizzato.Ahimè, quella deliziosa situazione non doveva protrarsi a lungo. Un vec-chio amico di famiglia, che si trovava a viaggiare in Europa, portò in regaloai bambini una provvista più che adeguata di quell’ignobile gomma; con-vinto di usare loro una gentilezza. Di conseguenza, tornò a insediarsi l’an-tico stato di cose. Le parole si aprivano un umido varco attorno a un grossognocco di gomma ed emergevano con il rumore di un sifone difettoso. Lemascelle erano costantemente in moto, dando alla faccia, nella miglioredelle ipotesi, un’espressione tormentata, mentre gli occhi assumevano un

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1. Si definisce quartopotere la capacità chehanno i mezzi dicomunicazione di massa di influenzare l’opinionepubblica.2. E la linea di discendenzaattraverso cui una famigliacontinua la sua storia; si usa normalmente perindicare la discendenza di una casata nobiliare.3. La casata dei Borbonisalì al trono di Francia nel 1589 e vi rimase finoall’800, poco prima delladichiarazione dellarepubblica.4. Si tratta di una parolaspagnola che significaappassionato o amante di qualcosa, in questo casodella gomma americana.

che di vitreo, come quelli di un maiale cui di recente fosse stata recisa lagiugulare5. Poiché sostengo che i bambini non vadano inibiti, mi rassegnaia un’estate non così piacevole come a tutta prima avevo sperato.Ci sono momenti in cui non seguo la mia consueta teoria del laissez-faire6.Quando compongo il materiale per un libro, o per un lavoro teatrale, o perun saggio, quando, in una parola, è richiesto il massimo della concentra-zione, ecco che tendo a imporre regole tiranniche in nome della mia per-sonale comodità ed efficienza. Una di queste norme è che non ci siano némasticamenti né esplosioni di bolle, mentre io mi sforzo di concentrarmi.Questa regola è stata compresa in modo così compiuto dal cadetto7 John,che egli l’accetta come una delle tante leggi di natura e non tenta né di pro-testare né di sottrarvisi. È suo piacere, e mio conforto, che mio figlio vengatalvolta nella mia stanza di lavoro, dove per un certo tempo siede tranquil-lamente accanto a me. Sa che deve starsene in silenzio e, dopo essersi trat-tenuto tanto a lungo quanto il suo carattere glielo consente, se ne va inpunta di piedi, lasciando entrambi arricchiti da quella tacita vicinanza.Due settimane fa, nel tardo pomeriggio, sedevo al mio tavolo di lavoro, in-tento a un breve saggio per il Figaro Littéraire8, saggio che in seguito fecesorgere qualche controversia, essendo stato pubblicato con il titolo «SartorResartus»9. Ero arrivato a quel passaggio che riguarda l’abbigliamento piùconsono per l’anima quando, con mia meraviglia e disappunto, udii l’in-confondibile suono, molle ed esplosivo insieme, di un pallone di gomma dacicche che si rompe. Guardai severamente il mio rampollo e vidi che ma-sticava a tutt’andare. Le guance erano rosse per l’imbarazzo e i muscolidelle mascelle sporgevano rigidamente in fuori.«Conosci la regola», dissi, in tono gelido.Con mio stupore, negli occhi gli spuntarono le lagrime e, mentre le man-dibole continuavano a masticare di lena, la vocetta biascicante si fece stradaoltre il grosso bolo di gomma che riempiva la bocca.«Non sono stato io», gridò John.«Come sarebbe a dire, non sei stato tu?» lo investii, irritato. «Ho sentitobenissimo, come ora vedo benissimo che mastichi».«Oh, papà!» gemette lui. «È vero, ti dico. Non sono io che la mastico, è leiche mastica me».Per un momento, lo scrutai negli occhi, da vicino. È un bambino onesto esoltanto quand’è pressato da un interesse assai più forte di lui permette a sestesso una bugia. Mi nacque l’orribile sospetto che la cicca avesse avuto fi-nalmente partita vinta e che la ragione di mio figlio stesse vacillando. In talcaso, era meglio procedere con le buone. Mostrai pazientemente il palmodella mano. «Posala qui», dissi.Coraggiosamente, il mio bambino tentò di districare il bolo di gommadalle mascelle. «Non vuole lasciarmi andare, papà», farfugliò.«Apri bene», dissi; poi, infilandogli le dita in bocca, m’impossessai delgrosso gnocco di gomma e, dopo una lotta in cui le mie dita continuavanoa scivolare e a perdere la presa, riuscii a estrarlo e a deporre l’orribile vi-scosità molliccia sulla scrivania, in cima a una risma di carta bianca.

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5. E uno dei modi usati peruccidere un maiale, ovveroquello di tagliare la venagiugulare al collo.L’animale muore in pochisecondi.6. In francese “lasciarfare”; come già dichiaratopoco sopra il protagonistadel racconto preferisce nondare troppi divieti ai figli,ad eccezione di alcunepoche regole.7. Cadetto indica il figliomaschio non primogenitoall’interno di una famiglianobile. Il termine è usatoqui in modo ironico.8. Le Figaro è unquotidiano francese, diantica fondazione (1826);Le Figaro littéraire dal1946 è un settimanalegratuito, pubblicato inaggiunta al quotidiano incui compaiono articoli diletteratura, filosofia, criticateatrale cinematografica,racconti, ecc.9. Sartor resartus (Il sartorappezzato) è il titolo di un’opera scritta da T. Carlyle nel 1836, in cuil’autore costruisce unasingolare filosofia degliabiti, per riflettere su ciòche è essenziale e ciò che è superfluo, su ciò checondiziona le abitudiniumane e il giudizio sociale.

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Per un attimo, parve rabbrividire là sul foglio candido; poi, con tranquillalentezza, cominciò a ondularsi, a gonfiarsi e rimpicciolirsi con l’esatto mo-vimento di una masticazione in atto, mentre mio figlio e io osservavamocon gli occhi fuori della testa.Per un pezzo la osservammo, mentre io esploravo la mia mente, in cerca diuna possibile spiegazione. O io stavo sognando, oppure qualche principio fi-nora sconosciuto aveva eletto a sua sede la cicca di gomma che pulsava sullamia scrivania. Non sono un ottuso. Mentre consideravo quella cosa indecente,centinaia di piccoli pensieri e barlumi di comprensione saettavano attraverso ilmio cervello. Alla fine domandai: «Da quanto tempo ti stava “masticando”?».«Fino da ieri sera», rispose lui.«E quando ti sei accorto di questa… propensione da parte sua?».Parlò con assoluto candore. «Ti prego di credermi, papà», disse. «Ieri sera,prima di addormentarmi, l’ho messa sotto il cuscino, come faccio sempre.Di notte mi sono svegliato e ho scoperto che l’avevo in bocca. L’ho rimessasotto il cuscino e stamattina l’avevo di nuovo in bocca, distesa sulla lingua.Quando, però, mi sono sentito completamente sveglio, ho avuto l’impres-sione di un lieve movimento e subito dopo mi sono accorto che non ero piùio il padrone della gomma. Si era messa a fare di testa sua. Ho cercato ditogliermela di bocca, papà, e non ci sono riuscito. Tu stesso, con tutta la tuaforza, hai visto com’è stato difficile estrarla. Sono venuto nella tua stanzada lavoro per aspettare che ti riposassi un momento, perché volevo mettertial corrente delle mie difficoltà. Oh, papà, che cosa pensi che sia successo?».L’immonda cosa teneva prigioniera tutta la mia attenzione.«Devo riflettere», dissi. «Siamo in presenza di un fenomeno un po’ fuoridell’ordinario, e ritengo che non si debba accantonarlo così, senza inda-garci su».Mentre parlavo, nella gomma sopravvenne un cambiamento. Cessato di«masticare» se stessa, per un poco parve riposarsi; poi, con un movimentofluido, come quegli esseri monocellulari dell’ordine Paramecium10, lagomma scivolò attraverso la scrivania, nella direzione di mio figlio. Per unattimo lo stupore mi colpì e per un intervallo anche più lungo non afferraiil vero intento della gomma. La vidi cadere sul ginocchio di John, arrampi-carsi orridamente su per il davanti della maglietta. Soltanto allora capii.Stava tentando di ritornargli in bocca. Lui la guardava salire, paralizzatodal terrore.«Ferma!» gridai, perché mi ero reso conto che il mio terzogenito era inpericolo, e in momenti simili sono capace di una violenza che rasenta lafuria omicida. Afferrai il mostro sul mento del piccolo e, uscendo a grandipassi dal mio studio, entrai nel salone, aprii la finestra e scagliai la cosa trail pesante traffico della Rue de M… Ritengo doveroso, per un genitore, dissipare, quand’è possibile, queglichoc che potrebbero causare incubi o traumi. Ritornai nel mio studio e tro-vai il piccolo John seduto dove l’avevo lasciato. Fissava nel vuoto.«Figliolo», dissi, «tu e io abbiamo visto qualcosa che, pur avendo la cer-tezza che sia accaduta, troveremmo difficile descrivere ad altri con qualche

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10. Si tratta di unorganismo che vive in acqua, conun’organizzazionemonocellulare, dalla formaovale la cui superficie è ricoperta da cigliaattraverso le quali il paramecio si sposta.

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probabilità di riuscirci. Ti prego di immaginare la scena se noi raccontas-simo questa storia agli altri componenti della famiglia. Temo immensa-mente che diventeremmo lo zimbello di tutta la casa».«Sì, papà», disse lui, passivo.«Ragion per cui intendo proporti, figlio mio, di seppellire entrambi l’epi-sodio in fondo alla nostra memoria e di non farne mai parola a nessuno,finché vivremo». Aspettai il suo assenso e, poiché non veniva, lanciaiun’occhiata al suo faccino e lo vidi completamente devastato dall’orrore.Pareva che gli occhi volessero schizzargli dalla testa. Seguii la direzione delsuo sguardo. Sotto la porta, si stava infiltrando un foglio bianco, sottilecome carta, che, una volta entrato nella stanza, crebbe fino a diventare unabolla grigiastra e rimase là sul tappeto, a pulsare e a contrarsi. Dopo qual-che istante si mosse di nuovo per progressione pseudopodiana11, avanzandoverso mio figlio.Mi precipitai, lottando per non lasciarmi sopraffare dal panico. L’afferrai ela scaraventai sulla mia scrivania; poi, agguantata, tra i molti trofei cheadornavano le pareti, una mazza di guerra africana, letale strumento irto dipunte, battei la gomma fino a rimanere io senza fiato ed essa ridotta a unlacero pezzo di sostanza plastica. Nell’attimo stesso in cui mi riposai, la vidiraccogliersi su se stessa e, per alcuni momenti, contrarsi rapidamente quasistesse ridendo della mia rabbia e impotenza, e poi muoversi inesorabil-mente verso mio figlio, che a questo punto si era rincantucciato in un an-golo, gemente di terrore.Ora una gelida calma si era impossessata di me. Raccolsi la sudicia cosa,l’avvolsi nel fazzoletto, uscii di casa, percorsi tre isolati fino alla Senna escagliai il fazzoletto nella pigra corrente del fiume.Passai buona parte del pomeriggio a calmare il mio figliolo e a cercar diconvincerlo che non aveva più niente da temere. Ma era tale il suo nervo-sismo che la sera dovetti dargli mezza tavoletta di sonnifero per farlo ad-dormentare, mentre mia moglie insisteva perché telefonassi al medico.Non osavo, quella sera, dirle perché non potevo obbedire al suo desiderio.

Durante la notte, venni svegliato – anzi, venne svegliata l’intera casa – daun urlo soffocato e atterrito, che arrivava dalla camera dei bambini. Infi-lai le scale a due gradini alla volta e irruppi nella camera, facendo scattarecontemporaneamente l’interruttore della luce. John sedeva in mezzo alletto, urlante, mentre con le dita si tormentava la bocca semiaperta,bocca che, orridamente, continuava a masticare. Mentre guardavo, unabolla emerse tra le dita infantili e scoppiò con un umido e viscido«plop».Che speranza c’era di conservare il nostro segreto, ormai? Bisognò spie-gare ogni cosa; ma, con la scoppiettante gomma inchiodata a un tagliereper mezzo di un punteruolo del ghiaccio, la spiegazione risultò più faciledel previsto. E sono orgoglioso dell’aiuto e del conforto che mi venne dato.Non c’è forza che valga la solidarietà di una famiglia unita. La nostra cuocafrancese risolse il problema col rifiutarsi di crederci, perfino dopo averlo

11. Si dice cosìl’andamento di alcuniorganismi monocellulari(ad esempio le amebe) che circondano e inglobano le prede per farne il proprio cibo.

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visto con i suoi occhi. Non era una cosa ragionevole, ci spiegò, e lei era unessere ragionevole di una ragionevole razza. La cameriera spagnola ordinòe pagò un esorcismo al parroco che, pover’uomo, dopo due ore di strenuitentativi se ne andò, mormorando che la questione riguardava più lo sto-maco che non l’anima.Per due settimane, fummo assediati dal mostro. Lo bruciammo nel cami-netto, facendolo sfrigolare tra azzurre lingue di fuoco fino a fondersi in unarepellente porcheriola confusa tra la cenere. Prima che spuntasse il mat-tino, era già strisciata attraverso il buco della serratura della stanza deibambini e ancora una volta venimmo strappati al sonno dalle urla del Ca-detto.Disperato, mi portai con l’auto in piena campagna e la gettai dal finestrinodella macchina. Il mattino dopo era di ritorno. Evidentemente, era stri-sciata fino all’autostrada e si era collocata lungo il flusso del traffico versoParigi, finché era stata raccolta da un pneumatico. Quando la estirpammodalla bocca di John, aveva ancora impressa l’impronta di un battistrada Mi-chelin12.Fatica e avvilimento finiscono alla lunga per farsi sentire. Esausto, sen-tendo che la mia volontà di lottare si era afflosciata e dopo che avevamotentato tutti i mezzi possibili e immaginabili per distruggere la cicca, laposai alla fine sotto una campana di vetro che uso, in genere, per proteg-gere il mio microscopio. Poi crollai in poltrona e rimasi a osservare la ne-mica con occhi stanchi ed espressione disfatta. John dormiva nel suo lettinosotto l’effetto dei sedativi, effetto rinforzato dalla mia promessa che nonavrei mai perso di vista la Cosa.Accesi la pipa e mi disposi alla sorveglianza. Dentro la campana di vetro,il grigio gnocco coperto di escrescenze si spostava inquieto, alla ricercadi una via per uscire dalla sua prigione. Di tanto in tanto si fermava,come soprappensiero, ed emetteva una bolla nella mia direzione. Sen-tivo benissimo l’odio che aveva per me. Nella mia stanchezza, scopriiche la mia mente scivolava in un’analisi che fino a quel momento mi erasfuggita.Sul retroscena di quella realtà, mi ero soffermato solo affrettatamente. Laspiegazione doveva essere che, grazie a una costante associazione con lavita lambente rappresentata da mio figlio, la magia dell’esistenza si era tra-smessa alla gomma. E, con la vita, era venuta l’intelligenza: non l’intelli-genza maschia e aperta del ragazzo, ma un’astuzia perfida e calcolatrice.Come poteva essere diversamente? L’intelligenza, senza l’anima a farle dacontrappeso, deve di necessità essere malvagia. La gomma non aveva as-sorbito alcuna parte dell’anima di John.Benissimo, stabilì la mia mente, ora che abbiamo un’ipotesi delle origini,vediamo di considerarne la natura. Che cosa pensa? Che cosa vuole? Diche cosa ha bisogno? La mia mente spiccava balzi da terrier13. Ha biso-gno, si diceva, di ritornare nel suo ospite, mio figlio, e vuole assoluta-mente tornarci. Vuole essere masticata. Dev’essere masticata per soprav-vivere.

12. La Michelin è unafamosa ditta produttrice dipneumatici per automezzi.13. Il terrier è unaparticolare razza di cani dacaccia specializzati nellaricerca di animali selvatici,specie nelle tanesotterranee.

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Dentro la campana di vetro, la gomma inserì un sottile cuneo della propriasostanza sotto la pesante base di vetro e spinse in modo tale che l’interovaso si sollevò di alcuni millimetri. Risi, nel ficcarla sotto di nuovo. Risicon un senso di trionfo quasi folle. Avevo trovato la soluzione.In sala da pranzo, mi procurai un piatto di plastica, dalla dozzina di si-mili stoviglie che mia moglie aveva acquistato per le merende all’a-perto. Poi, capovolgendo la campana e tenendo il mostro compresso sulfondo, cosparsi la bocca del vaso di pesante cemento da presa14, garan-tito a prova d’acqua, d’alcool e di acidi. Pressai il piatto contro l’aper-tura e ve lo tenni premuto finché l’adesivo fece presa, incollando persempre il piatto al vetro, formando un contenitore a perfetta tenuta. In-fine rimisi la campana di vetro nella posizione originale e regolai lalampada da tavolo in modo da poter osservare ogni movimento dellamia prigioniera.Di nuovo essa si mise a esplorare il cerchio di base, alla ricerca di una viaper fuggire. Poi si collocò in modo da fronteggiarmi ed emise, rapida, ungran numero di bolle. Udivo i suoi brevi, scoppiettanti «plop» attraverso ilvetro.«Ti tengo, bellezza», gridai. «Sei in trappola, finalmente».

Questo accadeva una settimana fa. Da allora non mi sono mai mosso dallapoltrona vicino alla campana di vetro, e al massimo ho distolto un attimo losguardo per accettare una tazza di caffè. Quando devo andare in bagno,mia moglie siede lì a darmi il cambio.Posso ora riferire le seguenti, consolanti notizie. Nel corso del primogiorno e della prima nottata, la cicca di gomma americana tentò con ognimezzo di fuggire. Poi, per un giorno e una notte parve agitata e nervosa,come se per la prima volta si rendesse conto della disperata situazione incui si trovava. Il terzo giorno si rimise all’opera per tentare un movimentomasticatorio, solo che l’azione era enormemente accelerata, ora, un po’come la masticazione di un tifoso di baseball. Il quarto giorno cominciò aindebolirsi e ora notavo con gioia una sorta di squamosa aridità sulla suasuperficie un tempo così elastica e lustra.Siamo ormai al settimo giorno e ritengo che stia per avvicinarsi la fine. Lagomma giace al centro del piatto. Il suo colore si è fatto livido e giallastro.Oggi, quando mio figlio è entrato nella stanza, la gomma ha dato un balzodi eccitazione; poi, è parsa rendersi conto di non avere alcuna speranza e siè afflosciata sul piatto. Stanotte morirà, penso, e soltanto allora scaverò unaprofonda buca in giardino, vi depositerò la campana di vetro sigillata e vipianterò dei gerani.È mia speranza che questo resoconto possa finalmente far tacere alcunedelle sciocche fandonie che sono state spacciate nel vicinato.

L’affare al n° 7 di rue de M..., in “Il racconto”, I, n. 1, giugno 1975

14. Cemento che è in grado di indurire moltorapidamente, usatonormalmente per lacostruzione dei muri.

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STRUMENTI DI LETTURALa storiaL’incipit è quello tipico di tantiracconti del soprannaturale e

dell’orrore, inteso a rafforzare la “veridi-cità” di una vicenda che, dopo poche bat-tute, si rivela invece fantastica. In questicasi il narratore premette che la storia cheil lettore si sta accingendo a leggere è unresoconto di pura verità, essendone eglistato protagonista e testimone diretto, eche con il presente scritto intende dissi-pare gli equivoci intorno a una certa vi-cenda dai contorni oscuri. Sennonché,nello specifico, la minacciosa presenza al-l’origine della vicenda non si presentasotto le sembianze di un’entità sopranna-turale né come un’orripilante creatura ge-nerata dalle oscurità della terra e neppurenelle vesti di un sanguinario serial killer.Essa assume, in questo caso, la più inoffen-siva sembianza immaginabile, quella diuna minuscola, banale (benché, volendo,leggermente ripugnante) gomma da ma-sticare. L’innocuo “vizio” di masticare lagomma, il chewing-gum americano, si tra-sforma però in un vero e proprio incubo,angoscioso e ossessivo, ancor più sconvol-gente in quanto la vittima predestinata è ilfiglio del narratore stesso, un tenerobimbo di otto anni.

Il personaggionarratore

L’impressione di veridicità della vicenda èrafforzata dal fatto che l’io narrante sem-bra essere facilmente identificabile con la

figura dell’autore reale del racconto,John Steinbeck, il quale soggiornò ripe-tutamente a Parigi insieme alla famiglia.Il protagonista, infatti, è uno scrittore, euno scrittore di successo, a giudicare dal-l’alto profilo residenziale della sua di-mora parigina e dal numeroso seguito dipersone di servizio. Inoltre, nella realtà,Steinbeck aveva effettivamente un figliodi nome John, nato nel 1946 e che per-ciò, all’epoca della stesura del racconto,aveva la stessa età del John masticatore dichewing-gum.

Le tecnichenarrative

Benché il racconto sia costruito comeun tipico racconto di “orrore quoti-diano” e narri una vicenda angosciosa,nella quale un incubo ritorna ossessiva-mente ad assillare personaggi “reali” ca-lati in una realtà quanto mai “normale”,il fatto che il “mostro” persecutore siauna banale gomma da masticare intro-duce una forte componente ironica e sa-tirica. Siamo, anzi, in presenza di duepiani di lettura ben distinti: il chewing-gum, sembra voler suggerire l’autore,proprio per la sua banale inoffensività èil simbolo più adatto per esprimere lesubdole insidie del moderno consumi-smo, che sotto apparenze allettanti insi-nua tra le pieghe della vita quotidiana, apartire da quella dei bambini, gli invisi-bili tentacoli della manipolazione psico-logica di massa.

DOMANDE DI VERIFICA

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L’ambientazione del racconto pone i personaggi protagonisti in

Una casa in affitto in una località di villeggiatura in America.Una casa di Parigi, che faceva parte di una dimora storica.Una villa dei Borboni, a Parigi.In una non meglio identificata rue de M.., all’interno di una casa sconosciuta.

Tra il saggio che sta scrivendo il protagonista della storia dal titolo Sartor Resartus e quanto ac-cade a lui e al figlio si può dire ci sia una qualche corrispondenza?

No, le due vicende sono completamente diverse: in una si parla di abiti e nell’altra di unchewing-gum che non vuole smettere di essere masticato.No, in una si parla di filosofia e nell’altra si fa il resoconto di un fatto reale.Sì, si parla in entrambi della stessa questione ovvero di che cosa sia essenziale e cosa superfluoper gli uomini.Sono simili almeno in alcune cose perché fanno riferimento alla difficoltà di raggiungere l’es-senziale e di rifiutare le convenzioni sociali più inutili.

Facendo riferimento alle caratteristiche che la gomma presenta nel corso del racconto, produciuna sua descrizione, ripercorrendo la storia nell’ordine di narrazione.

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Le vie tentate per contrastare la gomma e la sua irrefrenabile volontà chiamano in causa diversequalità umane: quali ritieni siano, deducendole dal racconto?

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Quale registro ritieni sia stato usato nel racconto, facendo sì che a generare di volta in volta scon-certo, paura, terrore o panico sia una semplice gomma da masticare? Giustifica la tua risposta, ar-gomentandola attraverso quanto puoi dedurre dalla lettura del racconto e dal suo significato.

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“E mia speranza che questo resoconto possa finalmente far tacere alcune delle sciocche fandonieche sono state spacciate nel vicinato” dice il protagonista nella frase conclusiva del testo, an-dando a concludere quanto affermato in apertura. Per quale motivo, secondo te, l’autore costrui-sce con questo intento la storia, che narra con il tipico andamento piano di un resoconto?....................................................................................................................................................................................................................................

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Margery Allingham

Il fantasma di Henry

anno 1931

luogoInghilterra

genereracconto tra realtà e fantasia

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Presentazione dell’opera I romanzi della Allingham appartengono al tipo “sofisticato” del genere poliziesco e dimostrano una notevole accuratezza sia nelladescrizione dei più disparati ambienti sociali, sia nella definizione psicologica dei personaggi. Il fantasma di Henry, uno dei raccontimigliori della Allingham, può essere considerato un esempio dello stile della scrittrice, caratterizzato da uno spirito sottilmente sa-tirico e una buona dose d’ironia. Il suo, anzi, è uno humour d’impronta tipicamente britannica, sempre molto contenuto nei tonima acuto e pungente, che la scrittrice appunta tanto sui personaggi principali quanto su quelli secondari.

ara Millie, credo di essermi spiegato abbastanza, vero? Henry». Ilsignor Henry Brownrigg firmò con uno svolazzo il foglietto di cartaceleste, poi lo posò esattamente al centro della vaschetta mal lavata,e lasciato l’utensile bene in vista sul tavolo di cucina, perché la mo-

glie lo trovasse al suo rientro, si allontanò, soddisfatto d’aver espresso il suorimprovero con fermezza e insieme con garbo. In quindici anni di matrimonio, il signor Brownrigg sentiva di essersi im-padronito dell’arte di dire alla moglie il fatto suo. Non che fosse riuscito adinsegnarle qualcosa. Con una donna ottusa come Millie, questo andava aldi là di ogni speranza. Ma ormai, grazie alla lunga pratica, poteva indiriz-

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Margery AllinghamNata a Londra nel 1904, negli anni fra le due guerre fu una prolifica autricedi romanzi gialli, tanto che, accanto ad Agata Christie, Dorothy Sayers, Jo-sephine Tey, Gladys Mitchell e altre, può essere considerata una tipica espo-nente dell’“epoca d’oro” del romanzo poliziesco inglese. E la creatrice diAlbert Campion, un investigatore dilettante che maschera la propria intelli-genza sotto un’aria ebete e svagata; il suo, per di più, è soltanto uno pseu-donimo, sotto il quale si cela un personaggio di altissimo lignaggio, addirit-tura vicino alla Casa Reale. Fa la sua comparsa nel 1929 in La lunga notte diBlack Dudley, seguito da L’isola (1930), Il segreto della torre, La polizia incasa (entrambi del 1931) e Dolce pericolo (1933), ove appare un altro perso-naggio fisso, la bellissima lady Amanda, moglie di Campion e alter ego della scrittrice. Nei primi anniTrenta la Allingham pubblica anche alcuni romanzi con lo pseudonimo di Maxwell March, ma il verogrande successo arriva con Morte di un fantasma (1934), che segna uno spartiacque nella sua produ-zione. I primi romanzi con il personaggio di Campion, infatti, sono densi di azione, mentre da Morte di unfantasma in poi sono più strettamente “classici”, meno movimentati e caratterizzati da una più accuratadefinizione psicologica dei personaggi: Corte d’Assise (1936), Danza sull’abisso (1937), La parte del de-stino (1938) ecc. In Black plumes (1940) la Allingham sostituì Campion con l’ispettore Bridie, ma conminor successo. Tornò quindi al vecchio protagonista in Il ritorno di Campion e L’amnesia del signor Cam-pion (entrambi del 1941), ma il filone si andava ormai esaurendo, tanto che in Un’ombra nella nebbia(1952), da molti considerato il suo capolavoro, Campion ha una parte del tutto marginale, e nella versionecinematografica l’autore della sceneggiatura lo tagliò del tutto. L’ultimo romanzo, Cargo of Eagles, lasciatoincompiuto alla morte della scrittrice nel 1966, fu portato a termine dal marito Philip Youngman Carter, ilquale proseguì da solo la serie dedicata al bizzarro investigatore creato quattro decenni prima dalla moglie.

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zarle un rimprovero o farle pervenire un biasimo in modo tale da penetrarela placida balordaggine di lei.Mezz’ora dopo che Millie fosse tornata dalla spesa, e prima che il pranzofosse portato in tavola, la vaschetta sarebbe stata al suo posto nella cameraoscura1, lustra e splendente come quando era nuova, e nient’altro sarebbestato detto sull’argomento. A tavola, tutt’al più, Millie sarebbe stata un po’più ansiosa del solito di compiacere (senza riuscirvi) il marito.Il signor Brownrigg passò dietro il bancone, spazzando via un granello dipolvere dallo scatolone di creme per il viso. Erano le dodici e venticinque.Tra cinque minuti esatti, Phyllis Bell avrebbe lasciato il suo ufficio in fondoalla High Street, e tra sette minuti e mezzo sarebbe entrata dalla porticinastretta e inondata di sole nella farmacia fresca e profumata di spezie.Si sarebbe fermata sul pezzetto di pavimento sul quale il sole formava unachiazza gialla e azzurra, tra i grandi vasi della vetrina2 che erano l’emblemadel mestiere del signor Brownrigg, e l’avrebbe fissato con i suoi limpidiocchi azzurri, sporgendo le piccole labbra adorabili. Il farmacista prese dal banco uno degli specchietti che erano in vendita traaltri articoli di profumeria e si specchiò. Non era un uomo molto appari-scente. Alto non era mai stato, e, a quarantadue anni, la persona robustamostrava la netta tendenza a metter su pancia; ma c’era forza e virilità nellespalle quadrate, la faccia rasatissima e il collo largo avevano un che di tau-rino, e le labbra erano piene e carnose.A Phyllis piacevano i suoi occhi. La incantavano, diceva, e molte delle altregiovani donne che entravano nel negozio per acquistarvi qualcosa, e si in-trattenevano a conversare col signor Brownrigg attraverso il banco, sareb-bero state d’accordo con lei. Gli occhi del signor Brownrigg erano scuris-simi, rotondi, ardenti; occhi che parevano quasi un’assurdità, in un farmacistagrassoccio di mezz’età che aveva una moglie come Millie.Ma il signor Brownrigg non contemplava i propri occhi. Si lisciò i capelli,si umettò le labbra, poi, rendendosi conto che Phyllis sarebbe entrata da unmomento all’altro, sparì dietro il banco di vendita. Era bene, si ripetevasempre, non mostrarsi mai troppo impaziente.Ma stava tenendo d’occhio la porta, quando la ragazza entrò. Intravide lagonna verde, mentre lei si arrestava un attimo sullo scalino, e notò l’espres-sione mezzo ansiosa, mezzo preoccupata con cui sbirciava verso il banco.Era contento che non fosse entrata mentre c’erano altri clienti. Phyllis eradiversa da tutte le altre avventurette avute durante quei quattordici anni.Quando c’era Phyllis in negozio, il signor Brownrigg andava sempre a ri-schio di sbagliarsi, di lasciar cadere la roba e di imbrogliarsi nel dare il resto.Brownrigg uscì dal cantuccio oscuro, emozionato suo malgrado, e brusca-mente attirò a sé la ragazzina bionda, attraverso quella parte del banco cheera leggermente più bassa del resto e che lui teneva sgombra di proposito.La baciò, e l’impetuosità improvvisa e avida del gesto lo tradì. Sentì che laragazza tratteneva il fiato, prima di liberarsi e indietreggiare.– Non… non dovete – disse lei, riassestandosi nervosamente il cappellino.Aveva sì e no vent’anni, era piccola e d’aspetto un po’ infantile, con i capelli

1. Per alcune particolaripreparazioni i farmacistiusano una camera oscuraperché la luce nonmodifichi le proprietàchimiche dei componentida loro trattati.2. Nelle farmacie –soprattutto quelle piùantiche – sono esposti inappositi scaffali i vasi diceramica dipinta nei qualisono contenute le sostanzeutili a preparare i farmaci.

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chiarissimi e il portamento aggraziato, tranquillo. Ora gli occhi azzurrierano spaventati e un po’ disgustati, come se si fosse trovata coinvolta inun’emozione che i suoi istinti giudicavano poco gradevole.Henry Brownrigg riconobbe l’espressione. L’aveva già vista in altri occhi,ma, mentre in occasioni passate era riuscito a mostrarsi benevolmente di-vertito e di conseguenza amabile e rassicurante, in Phyllis quell’espressionequasi lo spaventò.– Perché no? – replicò bruscamente; troppo, e se ne accorse subito, mentreil sangue gli saliva alla faccia.Phyllis prese un lungo respiro.– Sono venuta a dirvi – dichiarò con voce incerta, da bambina che recitauna lezione – che ho pensato molto a questa storia. Non posso andareavanti così. Voi siete sposato. Io voglio sposarmi, un giorno o l’altro. Per-ciò... voglio dirvi che non tornerò più.– Ne avete parlato con qualcuno? – domandò lui, raggelandosi.– Di voi? No, misericordia!Tanta veemenza era convincente; lì per lì, Brownrigg ignorò quanto dipoco lusinghiero vi era compreso e sospirò di sollievo.– Ma tu mi ami – mormorò poi. – Io ti amo e tu mi ami. Lo sai, no?Non voleva essere istrionico3 di proposito, ma gli veniva un tono roco,quello che, come alcuni attori hanno scoperto, è fra i più efficaci ad espri-mere profonda sincerità.Phyllis assentì avvilita, e insieme stranamente imbarazzata. I suoi occhi an-darono alla strada piena di sole, prima di tornare a posarsi sul farmacista.– Addio – mormorò con un filo di voce, e fuggì dal negozio.Attraverso la vetrina, Brownrigg la vide allontanarsi, quasi di corsa.Per un poco, rimase a fissare la chiazza di sole sulla porta. Poi rialzò losguardo e sorrise. Sarebbe tornata. Domani, o magari fra una settimana.Sarebbe tornata. Ma l’ostacolo, l’ostacolo insuperabile, si sarebbe levato dinuovo, e a lungo andare l’avrebbe sconfitto, facendogliela perdere.Di sicuro, l’avrebbe persa. Phyllis era diversa dalle altre.A meno che... l’ostacolo non fosse stato rimosso. Henry Brownrigg aggrottò la fronte.C’erano anche altre cose da considerare.Il vecchio libro mastro4 insudiciato dalle mosche stava lì a ricordargliele.Ma una volta rimosso l’ostacolo, automaticamente sarebbero state spazzatevia anche le altre difficoltà; non c’era l’assicurazione? E quel capitaletto cheil padre di Millie aveva vincolato5 con tanta prudenza, nemmeno fosse statopresago che la figlia, da adulta, sarebbe stata una perfetta ebete? Gli occhi del signor Brownrigg si posarono sul cassettino sotto il bancone,quello con l’etichetta «Ricette – Non toccare». Era chiuso, e nemmenoPerry, il fattorino e commesso di bottega, che ficcava il naso dappertutto,sospettava che sotto la pila di foglietti si nascondesse un piccolo fascio dilettere scritte con la calligrafia quasi infantile di Phyllis.Brownrigg si voltò bruscamente. Aveva il respiro faticoso, e quasi tremava.Il momento era venuto.

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3. Istrione è sinonimo diattore; istrionico, in questocaso, vuol dire che ilfarmacista non volevaassumere unatteggiamento cheapparisse non naturale,fatto apposta, comefarebbe un attore.4. Il libro mastro è ilregistro della contabilitàche ogni attivitàcommerciale possiede pertenere conto dei movimentidi pagamento ricevuti e da effettuare.5. Si dice capitale vincolatouna somma di denaroposta in banca che, perpoter essere usufruita,deve soddisfare a unadeterminata condizione (adesempio la maggiore età diun figlio, la morte del suopossessore attuale, ecc.).

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Alcuni mesi prima, Henry aveva deciso che sarebbe diventato vedovo entrol’anno; il colloquio di quel mattino gli aveva fatto capire che bisognavastringere i tempi. In quel momento Millie, ancora rossa di vergogna al pensiero della va-schetta mal lavata, mise dentro la testa dalla porticina del retro.– È in tavola, Henry – annunciò, e aggiunse, con quella stupidità che avevasmesso di fargli piacere, dandogli un senso di superiorità, e che ormai loannoiava a morte: – Come sei serio. Oh, Henry, hai forse fatto qualche er-rore? Non avrai mica dato a un cliente una bottiglia per un’altra?– No, cara Millie – replicò il marito, fissandola gelido e calcando sul sarca-smo. – Questo è uno di quegli sbagli idioti che ancora non mi è capitato difare. Non ho raggiunto il livello di mia moglie, si vede.E mentre seguiva la figura rassegnata di lei, nella stanzetta dietro il nego-zio, una parola echeggiava ritmicamente nel suo cervello, a tempo coi bat-titi del suo cuore: – Presto! Presto! Presto!

– Henry, caro – disse Millie Brownrigg guardando turbata il marito – per-ché il dottor Crupiner? È così salato nelle parcelle... a parte il fatto che èdecrepito.Millie era in piedi, davanti allo specchio, nella grande stanza da letto soprail negozio, e si spazzolava i capelli castani striati di grigio, prima di rifarsi latreccia e girarsela attorno alla testa.Henry Brownrigg, sdraiato nel letto all’altra estremità della stanza, non lediede risposta.Millie continuò a parlare. Era abituata ai silenzi di Henry. Era così intelli-gente, Henry! La maggior parte del tempo la impiegava a pensare.– Ho sentito una quantità di cose strane sul dottor Crupiner – osservò. –Dicono che è talmente vecchio, che si dimentica tutto. Perché non an-diamo da quello della mamma? Lei ne ha una tale fiducia...– Disgraziatamente per lei, povera donna, tua madre ha la tua stessa intelli-genza, ma non ha un uomo che si prenda cura di lei – disse Henry Brownrigg.Millie non fece commenti.– Crupiner – continuò Brownrigg – non sarà un genio, come medico ge-nerico, ma è specialista per un certo tipo di disturbi. Voglio che tu vada dalui. Desidero che ti rimetta bene, mia cara.La faccia dolce e inespressiva di Millie arrossì, e gli occhi le si fecero umidie smarriti. Henry, che la vedeva riflessa nello specchio, girò la testa. In certimomenti, vedendo quanto lei gli era grata di una parola buona, provavaquasi un certo disgusto per il progetto che aveva architettato.– Sai, Henry, – riprese improvvisamente la signora Brownrigg – io mi sentopiuttosto bene. Quelle cose che mi dai tu mi fanno benissimo, ne sonocerta. Ora non mi sento più molto stanca, alla fine della giornata. Non po-tresti continuare a curarmi tu?L’uomo s’irrigidì sotto le coltri. Quel poco rimorso provato poc’anzi svanì,lasciandolo seccato e guardingo.– Si capisce, che ti fanno bene – confermò, soddisfatto di sapere che, finoad un certo punto, diceva la verità, almeno per il momento. – Io non credo

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nelle specialità, ma le pillole di Fender sono buone, aiutano a tirarsi su.Però preferisco assicurarmi che sei organicamente a posto. Non mi piace ilfatto che appena ti affretti un po’ ti viene subito l’affanno, e poi le tue lab-bra hanno un colore che non mi piace.La grassoccia, ingenua Millie si guardò allo specchio, e si passò un ditosulle labbra.Come molte donne della sua età, aveva perso i colori, e attorno alla boccaaveva effettivamente un leggerissimo alone azzurrognolo.Il farmacista si affrettò a rassicurarla.– Non sarà niente di grave, ne sono sicuro, ma è meglio andare staserastessa a consultare Crupiner – disse. – Non vogliamo correre rischi, vero?Millie assentì, con le labbra tremanti.– Sì, caro – disse; e aggiunse nel suo solito modo stucchevole. – Penso chehai ragione.Dopo che Millie fu scesa per occuparsi della colazione, Henry si alzò, l’ul-tima frase pronunciata ancora sulle labbra. Se la ripeté, pensoso.– Non possiamo correre rischi. Proprio così. Niente rischi. Nessuna stu-pida imprudenza, Henry Brownrigg!Solo gli sciocchi fanno le cose a casaccio. Solo gli sciocchi si fanno coglierein fallo. Ma in effetti, l’impresa era veramente semplice. Millie era così in-genua, così incredibilmente fiduciosa.Verso la fine della giornata, il signor Brownrigg era nervosissimo. Perry, ilcommesso, gli aveva riferito, con molto candore, di aver visto il giovaneHill passare lungo l’Acacia Road nella sua nuova auto, a velocità sostenuta,e aveva aggiunto tra l’altro che nella macchina c’era anche quella ragazzabionda, Phyllis Bell. Se la ricordava, vero, il signor Brownrigg? Quellabiondina tanto graziosa… Per un attimo, Henry Brownrigg aveva tremato all’idea che il commessoavesse scoperto il suo segreto e stesse punzecchiandolo con malizia. Maanche dopo essersi convinto che non era così, il fatto e la rabbia restarono.Hill era un bel giovanotto, scapolo. Phyllis era giovane e inesperta. Il far-macista se li immaginava fermi in qualche boschetto fuori città, intenti a te-nersi per mano, forse a baciarsi: il suo cuore, che poteva restare calmo sottolo sguardo spaventato di Millie che parlava della propria malattia, gli bal-zava nel petto all’idea di quell’abbraccio.«Presto!». La parola si formò di nuovo nel suo cervello. «Far presto, farpresto!».Millie era senza fiato quando arrivarono alla vecchia casa del dottor Crupi-ner. Henry, assorto nei propri pensieri, aveva camminato molto in fretta.Il dottore li ricevette subito. Era un vecchietto impolverato. Dentro di sé,Millie pensava che le sarebbe piaciuto dargli una buona spazzolata, e aquell’idea le si presentò alla mente un quadretto così spassoso da farlauscire in una risatina sciocca. Henry dovette lanciarle un’occhiataccia,scrollando la testa.Subito lei arrossì, e il suo volto ritrovò la consueta espressione ottusa.Henry illustrò al dottore i sintomi della moglie, e Millie parve grata e sor-

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presa dell’ansia che il marito tradiva. Evidentemente, Henry aveva notato isuoi piccoli malesseri, più spesso di quanto lei non supponesse.Quando Henry ebbe terminato l’elenco dei piccoli malanni di Millie, nes-suno dei quali era veramente grave in sé, ma il cui totale assommava a unaquantità piuttosto paurosa di indizi, il dottor Crupiner girò verso di lei gliocchietti avidi, dalla cornea striata di venuzze rosse. Le labbra del vecchio,coperte di piccole macchie come il registro di Henry, si sporsero per un at-timo, prima che la voce ne uscisse, affannosa e sepolcrale.– Bene, signora, vostro marito sembra preoccupato per voi. Sarà bene chevi dia un’occhiata.Millie tremava. L’apprensione le faceva di nuovo mancare il respiro. Un paiodi volte, negli ultimi tempi, aveva avuto l’impressione che quelle pillole diFender le dessero l’affanno, anche se sotto altri aspetti la facevano sentire piùarzilla, ma aveva preferito non farne parola con Henry.Il dottor Crupiner le si accostò, respirando forte dal naso, nello sforzo perconcentrarsi. Le premette un dito tozzo e malfermo nell’occhiaia, tirandogiù la pelle per scrutare con occhio miope la cornea. Poi le appioppò unamanata sulle spalle, nell’intento di rincuorarla, e le toccò il palmo delle mani.Il signor Brownrigg, che osservava con occhio pensoso e sfuggente il ri-tuale, prese improvvisamente il medico da parte, e i due uomini ebbero unaconversazione sottovoce, all’altra estremità della stanza.Millie non poté fare a meno di ascoltarne una parte, anche perché il dottorCrupiner era mezzo sordo, e Henry era ansioso di farsi sentire bene.– Vent’anni fa – udì Millie. – D’improvviso. – E poi, dopo una pausa, la pa-rola terribile: – Ereditario.Il tremito di Millie aumentò di intensità, e la sua faccia larga e insulsa preseun’aria terrorizzata. Stavano parlando del suo povero papà, che era mortoall’improvviso, di un attacco cardiaco.Sentì il cuore martellare dolorosamente. Ecco perché, dunque, Henrysembrava tanto preoccupato!Il dottor Crupiner tornò ad avvicinarsi. Millie dovette slacciarsi la cami-cetta e il dottore le auscultò il cuore con un vecchissimo stetoscopio. Mil-lie, che già stava tremando, cominciò a respirare con difficoltà, tanto la suaansia si era acuita.Finalmente il vecchio terminò il suo esame. Per alcuni secondi rimase a fis-sarla senza batter ciglio, poi tornò da Henry e insieme si portarono verso ilfondo della stanza.Millie aguzzò le orecchie e udì la voce cavernosa del vecchio.– ... una certa irregolarità. Niente di preoccupante, per ora. Bisognerà chela riveda fra qualche giorno.Poi ci fu una domanda di Henry che lei non riuscì a captare, ma subitodopo, dato che il dottore sembrava incerto sulla risposta, il farmacista sog-giunse con voce normale:– Le ho dato delle pillole di Fender.– Pillole di Fender? – il dottore parve ripetere quelle parole con sollievo. –Eccellenti. Di solito io non ho simpatia per le specialità, ma quelle pillole

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sono ottime, e vi risparmierò il disturbo di preparare qualcosa di mia pre-scrizione. Continuate pure con quelle, per qualche giorno. Sono ottime, an-ch’io le prescrivo molto spesso. Vanno prese con moderazione, s’intende.– Oh, certo – assicurò Henry. – Comunque pensate che abbia fatto bene afargliele prendere, dottore?Millie era sorpresa e compiaciuta per lo zelo che il tono di Henry rivelava.– Senza dubbio, caro Brownrigg –. E il dottor Crupiner tornò ad avvici-narsi a Millie. – Allora, signora Brownrigg – disse con affettata giovialità –abbiatevi cura e fate quello che dice vostro marito. Tornate a trovarmi trauna decina di giorni e sarete di nuovo vispa come prima. Arrivederci. Ah,signora Brownrigg, mi raccomando: niente emozioni, badate bene! Cer-cate di stare calma il più possibile e non affaticatevi.Le strinse distrattamente la mano, e mentre Henry aiutava Millie a racco-gliere le sue cose, mostrando una premura assolutamente insolita, il vec-chio andò a togliere da uno scaffale un polveroso volume di medicina.Un momento prima che i due uscissero, Crupiner sbirciò Henry al di sopradelle lenti.– Quelle pillole di Fender sono un’ottima idea – osservò in tono completa-mente diverso dal borbottio professionale di poco prima. – Proprio quelloche ci vuole. Contengono una piccola dose di digitalina.

Una delle abitudini meno lodevoli del signor Brownrigg era il suo modo ditrascorrere il sabato sera.Alle sette e mezzo, paziente e solerte, benché disapprovasse, Millie facevasparire le tracce della cena e metteva sulla tovaglia di tela verde un bic-chiere e una bottiglia di whisky sigillata.Fatto questo, si ritirava in cucina, rigovernava e si metteva a stirare. Di so-lito si riservava quest’operazione per il sabato sera, perché era una faccendalunga, con frequenti soste per piccoli punti da dare alle camicie di Henry ealla sua biancheria, e Millie sapeva che avrebbe avuto dinanzi a sé unalunga serata tranquilla.Infatti, aveva tempo fino a mezzanotte. Quando l’orologio di cucina se-gnava le dodici, Millie riponeva l’asse da stiro e posava il ferro sul fornellospento lasciandolo lì a raffreddarsi.Poi andava nel soggiorno e toglieva di mezzo il bicchiere e la bottigliavuota, perché la donna a giornata6 non li vedesse il mattino dopo. Inoltreraccoglieva da terra i giornali e rimetteva in ordine la stanza.Finalmente, dopo avere spento la stufetta a gas, si occupava di Henry.Circa tre settimane dopo la sua prima visita al dottor Crupiner (il medico, susuggerimento di Henry, aveva aumentato la dose delle pillole Fender da tre acinque al giorno) Millie passò la sera del sabato seguendo il solito cerimoniale.Per un uomo impegnato in un progetto quale quello del signor Brownrigg,ubriacarsi anche una sola volta, in modo totale e sistematico, poteva esserepura follia. Ma Brownrigg continuava a farlo, una volta la settimana.Un bicchiere di whisky lo rendeva taciturno. Dodici abbondanti dosi diwhisky, ovvero, l’intera bottiglia, facevano di lui un sacco silenzioso e senza

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6. Si intende una personadi servizio cheevidentemente andava in casa Brownrigg durantela mattina.

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forze, incapace di movimento e di parola, e tuttavia – fenomeno quantomai notevole – ugualmente in possesso della propria lucidità.Millie avrebbe anche potuto domandarsi perché mai il marito ci tenessetanto a trasformarsi in una specie di rudere paralitico, ogni sabato sera dellapropria vita; ma, nonostante la sua grande stupidità, Millie era una donnatollerante: secondo lei, gli uomini erano creature strane e privilegiate chetrovavano diletto nelle più assurde forme di perversione7. Ragione per cui lolasciava fare, e nascondeva perfino alla madre la debolezza del consorte.Henry Brownrigg comunque provava un grande piacere nella sua orgia set-timanale8. Gli altri giorni non beveva, e quella del sabato sera era insiemeun’avventura ed un’abitudine. All’inizio del suo piano aveva pensato di ri-nunciare all’orgia fino a progetto attuato, ma poi si era persuaso dell’asso-luta necessità di attenersi rigidamente al normale corso della sua vita, inmodo che non vi fosse nessun appiglio, anche piccolissimo, al quale i so-spetti altrui potessero agganciarsi.Nella serata in questione, Millie si esaurì completamente nello sforzo ditrascinare il marito di sopra e metterlo a letto. Era talmente stanca e spos-sata che si lasciò cadere sull’orlo del letto, ansando penosamente, incapacedi trovare la forza per spogliarsi. E così dimenticò di prendere le due pilloleche Henry le aveva lasciato sul piano della toletta. Se ne rese conto quandoera già coricata, ma non poté, in nessun modo, indursi ad alzarsi dal letto,per prenderle.Il mattino dopo, Henry le trovò ancora al loro posto. Ascoltò in silenzio lespiegazioni di Millie e infine, mentre lei aggiungeva scuse su scuse, ridi-ventò quello di sempre.– Cara Millie – disse, nel tono esasperato che la moglie conosceva anchetroppo – a che serve che io faccia tutto quello che posso per farti star bene,se tu mi metti il bastone tra le ruote, ogni momento?Millie si chinò sui fornelli. Henry, forse intuendo che lei cercava di na-scondere le lagrime, si fece più conciliante.– Non ti piacciono? – domandò gentilmente. – Hanno un sapore che nonti va? Forse sono troppo grosse? Senti, cercherò di renderle più facili daingerire. Lascia fare a me. Su, su, non preoccuparti. Le pesterò e le chiu-derò in una capsula. Però tu devi prendere la medicina, ricordatelo.Millie divenne pensosa. Henry doveva essere molto preoccupato per lei, altri-menti non si sarebbe certo mostrato così comprensivo verso i suoi stupidi errori.

Bill Perry, l’aiutante di Brownrigg, era un ragazzo impacciato, e forse sa-rebbe rimasto un timido fino alla morte.Era smilzo, rosso di capelli, con una certa tendenza all’acne e coi grossi polsiruvidi e sempre arrossati. Detestava il signor Brownrigg, come solo i giovanipossono detestare chi possiede una lingua pungente, ma a Millie voleva bene,e i suoi occhi slavati assumevano una luce gentile, quando lei gli parlava.Il giovane Perry non pensava affatto che Millie fosse tanto cretina quanto ilpadrone cercava di farla apparire in ogni occasione.Non foss’altro perché lei si mostrava sempre gentile, il giovane Perry si in-teressava molto allo stato di salute di Millie.

7. Millie cioè non approvaquel particolaredivertimento del maritoche trova vicino alla follia.8. Il termine è usato quiper indicare la condizioneun po’ proibita e un po’esagerata del bere finoall’abbrutimento.

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Il lunedì sera, Perry vide il signor Brownrigg mettere il contenuto dellepillole di Fender in capsule di gelatina, e volle sapere per chi fossero.Brownrigg si mostrò insolitamente comunicativo. Spiegò al commesso, intutta confidenza, che la signora Millie non stava affatto bene e che il dottorCrupiner era preoccupato per lei.Brownrigg lasciò anche capire che tanto lui quanto Crupiner, da gente delmestiere, erano convinti che se l’assenza di ogni preoccupazione e le pillole diFender non potevano salvare la povera donna, nulla avrebbe potuto salvarla.– Volete dire che potrebbe morire? – domandò, desolato, il giovane Perry.– Così… all’improvviso?Subito, si pentì di aver parlato. Al signor Brownrigg tremava la mano alpunto che lasciò cadere una capsula. Perry capì allora che il Vecchio eraterribilmente affezionato alla sua Vecchia, sotto sotto, e che la punzec-chiava con cattiveria solo perché si vergognava di mostrare i propri senti-menti.All’istante, il cuore sensibile e sentimentale del giovane Perry s’intenerì peril povero signor Brownrigg, perdonandogli tutte le osservazioni sarcasti-che di cui era tanto prodigo.Arrivarono i rifornimenti di medicinali. Bill Perry aprì i due scatoloni piùgrandi e mise a posto la roba; il più piccolo lo aprì, ma lasciò che la roba lamettesse a posto il padrone.Brownrigg finì di confezionare le capsule, si lavò le mani, poi si mise al la-voro con la solita alacrità.Non era molta, la roba arrivata, e il giovane Perry che, qualche tempoprima, aveva dato un’occhiata al registro dei conti, credeva di sapere per-ché. Il Vecchio ce la faceva appena appena. Il giro d’affari era scarso, la far-macia rendeva pochino.Il ragazzo leggeva la nota del grossista, e Brownrigg riponeva via via i me-dicinali.– Bicarbonato di sodio, magnesia – leggeva Perry, stentatamente. – Iodio,chinino, tintura di digitale... dev’essere questa, signor Brownrigg. Qui,questo pacco più grosso... Bill Perry sapeva di leggere male, e voleva solo rendersi utile, indicando ilpacco, ma Brownrigg gli lanciò un’occhiata addirittura terrificante, mentreafferrava il pacco e lo riponeva nell’armadione dei medicinali.Il giovane Perry era costernato. Era già in ritardo e voleva andarsene. Im-barazzato com’era, continuò a farfugliare, peggiorando più che mai le cose.– Mi dispiace, signore – disse. – Volevo solo rendermi utile. Pensavo chepoteste... ecco... che foste distratto e che poteste confondervi.– Ah, – fece lentamente il signor Brownrigg, fissandolo con i suoi occhi ar-denti e tondi in modo tutt’altro che rassicurante. – E, secondo te, a checosa penso, mentre faccio il mio lavoro?– A… alla signora Millie, signore – balbettò spaventatissimo il povero Perry.Henry Brownrigg si irrigidì. Il sangue gli si congelò, gli occhi parvero rientrare nella fronte.Bill Perry, accortosi di aver detto qualche altra sciocchezza, e temendo

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d’essersi mostrato indelicato ed invadente, scambiò per imbarazzo quei sin-tomi minacciosi.– Scusate – disse ancora. – Cercavo proprio di rendermi utile. Sono anch’ioun po’... un po’ frastornato, signore. La signora Brownrigg è sempre statacosì gentile con me. Mi dispiace tanto che sia così ammalata.Un gran sospiro sfuggì dal petto del farmacista.– Non devi scusarti, ragazzo mio – disse, con una cortesia che il commessonon gli conosceva. – Sai com’è, ho i nervi un po’ scoperti. Vai pure, ora. Fi-nirò da me.Il giovane Perry non se lo fece dire due volte, felice di ritrovarsi libero nellachiara serata estiva, ma anche un po’ commosso per la rivelazione improv-visa di quella tragedia d’amore coniugale.

Phyllis camminava spedita lungo Coe’s Lane, una scorciatoia tra la via incui abitava e Priory Avenue. Era un viottolo angusto e tortuoso, con unprato polveroso da una parte e una staccionata piuttosto alta dall’altra.In quel momento la scorciatoia appariva deserta, ma quando Phyllis rag-giunse il grosso albero che sorgeva proprio a metà strada, una persona uscìda dietro il tronco e le si fece incontro.La ragazza si fermò bruscamente in mezzo al viottolo, con le guance infiamme, trattenendo il respiro, come se avesse avuto paura di se stessa. Brownrigg stesso non era preparato alla violenza della fitta che sentì inpetto, nel vedersela davanti; l’impeto di passione che gli bloccava il respiroe gli rendeva le palpebre pesanti e la bocca arida, quasi lo spaventò.Erano soli nel viottolo, e lui la baciò, concentrando nelle braccia e nellelabbra avide tutto l’insopportabile desiderio accumulato in quei diciottogiorni.Quando la lasciò andare, lei piangeva.– Vattene – gli disse, e il tono era disperato e implorante. – Oh, ti prego... va’via!Dopo il bacio, Henry era ritornato umano. Non era più quell’essere posse-duto dai demoni, appostato dietro l’albero, in attesa. Poteva comportarsinormalmente, almeno per un po’.– E va bene – disse. Poi, in tono così accorato che lei gli credette davvero,aggiunse: – Ti vedi anche quest’oggi con Peter Hill?Le labbra della ragazza tremavano, gli occhi erano supplichevoli.– Cerco di liberarmi – mormorò. – Non lo capite che cerco di liberarmi divoi? Ma non è facile, credetemi.Per un minuto intero, Brownrigg la fissò con occhio indagatore. Poi, diedein una breve risata e si allontanò, a grandi passi. Camminava in fretta, itondi occhi assorti ma il passo sciolto e deciso. I suoi pensieri erano piace-voli. Dunque, Phyllis era là, pronta per lui, una volta che l’ostacolo fossestato rimosso; quello era stato il suo unico dubbio, ma adesso era certo delfatto suo. Restava solo da mandare ad effetto la parte materiale del piano.Altre piccole cose, relativamente prive d’importanza, si affollavano alla suamente: per esempio, la nuova storia che il vecchio registro avrebbe raccon-tato quando il premio dell’assicurazione fosse stato versato in banca e il ca-

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pitaletto di Millie investito ben diversamente. Ma lui le scacciò, spazien-tito. Per adesso bisognava restare con i piedi per terra. Quel pomeriggio, loaspettava un lavoretto delicato e bisognava portarlo a termine.Quando arrivò a casa, Millie s’era già diretta da sua madre.Quel giorno, si chiudeva bottega più presto del solito, e il commesso avevail pomeriggio di libertà.Il signor Brownrigg fece il giro della casa e si assicurò che tutte le porte fos-sero chiuse. Le saracinesche nella farmacia erano abbassate, e lui sapeva be-nissimo che non lasciavano filtrare nemmeno un filo di luce dall’interno.Si tolse la giacca e indossò il camice. Accese la luce in bottega, chiuse la portatra la farmacia e il soggiorno dell’abitazione, poi si mise al lavoro.Sapeva perfettamente quel che doveva fare. Ormai, da otto giorni Millie avevapreso regolarmente cinque pillole al giorno. Ciascuna conteneva un sedice-simo di grammo di digitalina9, e la droga aveva la prerogativa di accumularsinell’organismo. Nessuna meraviglia, se Millie, negli ultimi tempi, s’era la-mentata di mali di testa e di disturbi al fegato! Millie era proprio un’idiota!Tirò fuori la bottiglia di digitalina, arrivata il giorno in cui il giovane Perrygli aveva fatto prendere quel po’ po’ di spavento. Il grossista non potevaaver trovato nulla di strano in quell’ordinazione. Non ci sarebbero state in-chieste sull’uso che ne aveva fatto: il che voleva dire che sarebbe potutostare tranquillo... a cose fatte.Lavorava febbrilmente, e intanto il pensiero galoppava. Conosceva la dose.Tutto era stato predisposto mesi prima, quando gli era nata l’idea, e avevaripassato mentalmente il procedimento da usarsi, infinite volte, per essercerto di non commettere errori.Nove dragme10 di quella tintura avrebbero ucciso un paziente che nonavesse già avuto della digitalina in circolo. D’accordo che la tintura si dete-riorava facilmente, ma quella bottiglia era ancora fresca; di sei giorni ap-pena, se il grossista era stato onesto.Preparò il bruciatore e l’evaporatore. Ci voleva tempo. Lui era piuttostopratico, ma aveva le mani malferme, e i vapori gli andavano negli occhi, ir-ritandoglieli.D’improvviso scoprì che erano quasi le quattro. Venne colto dal panico. Dilì un paio d’ore appena, Millie sarebbe tornata a casa, e c’era ancora tantoda fare.Mentre il bruciatore faceva il suo lavoro, la mente di Brownrigg mulinava.La digitalina era talmente difficile da rintracciare, dopo… questo era ilvantaggio! Perfino il grande Tardieu era stato incapace di affermare con si-curezza se nel caso Pommerais era stata usata la digitalina, e questo, dopoun’autopsia scrupolosa e le prove sulle rane e su ogni sorta di animali11.La faccia di Henry Brownrigg si allargò in una specie di ghigno. Il vecchioCrupiner non era Tardieu. Crupiner si sarebbe ben guardato dal richiedereun’autopsia. Avrebbe rilasciato il certificato di morte senza indagare troppo.Probabilmente non sarebbe nemmeno venuto ad esaminare il cadavere.Una scampanellata alla porta di servizio lo fece sussultare al punto che, perpoco, non rovesciò tutto il suo armamentario. Per un momento, restò im-

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9. Composto che consistein una miscela di estrattidalla digitale, che in dosemassiccia risultano letali,producendo un arrestocardiaco.10. Unità di misura usataanticamente nellafarmaceutica inglese,corrispondente circa a 3,6grammi.11. L’autore si riferisce aun famoso caso giudiziariodella seconda metàdell’800 in cui un medicodi nome Pommerais, perpoter usufruire dei capitalidella moglie, aveva primaavvelenato la suocera e poi aveva ucciso la moglieusando la digitalina. Il medico legale Tardieu,molto famoso per avererisolto casi celebri, venneincaricato di fare l’autopsiae capì che era stata usatala digitalina, ma compresealtrettanto che sarebbestato molto difficiledimostrarlo; al processoportò i suoi esperimentieffettuati su tre rane e alcuni cani, perargomentare la sua tesi. La difesa riuscì a renderedubbie le dimostrazioni di Tardieu, ma il tribunalecondannò ugualmente a morte Pommerais percircostanze sospette.

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mobile ed ansante, come un animale preso in trappola, ma poi si ricom-pose. Si rimise la giacca, e si mosse per andare ad aprire.Chiuse dietro di sé la porta del negozio, si lisciò i capelli ed aprì, sicuro dimostrare un aspetto assolutamente normale.Ma il ragazzino con il giornale della sera non aspettò d’essere pagato, cometutti i sabati, e fuggì via, dopo una sola occhiata alla faccia del signorBrownrigg. Era un dodicenne timido, che spesso si metteva in mente chissàche, e il compagno che l’aveva incaricato della commissione, un ragazzopiù grande, gliene disse di tutti i colori e prese mentalmente nota di passarelui il lunedì sera a riscuotere i soldi della settimana. L’effetto dell’incidente, su Henry Brownrigg, fu notevolissimo. Il farmaci-sta tornò al suo lavoro come un sonnambulo, e per tutto il resto dell’ope-razione dovette imporsi di pensare a quello che stava facendo.Come Dio volle, terminò.Spense il bruciatore, pulì l’evaporatore, misurò con cura la dose tossica, ab-bondando, tanto per non sbagliare.Poi, fece sparire accuratamente i residui e si sentì molto meglio.Stava per chiudere la farmacia, e si era già rimesso la giacca, quando ebbeuna sorpresa sgradevolissima. Dapprima, la sua attenzione venne attiratada uno strato di lievissima polvere sopra una delle bottiglie. La tolse, concura meticolosa. Detestava il disordine.Aveva rimesso via il fazzoletto, quando lo sguardo gli cadde sul ripiano delbanco, e il primo barlume dell’orrenda verità gli si presentò alla mente.Dal ripiano, i suoi occhi si spostarono agli scaffali, ai diversi oggetti espo-sti, alle bottiglie e ai vasi di farmacia, all’impiantito stesso.Grosse gocce si formarono sulla fronte di Henry Brownrigg. Non c’era uncentimetro di superficie, in tutto il negozio, libero da quello strato di sot-tilissima, impalpabile polvere giallastra.La digitalina! Digitalina sparsa dappertutto, ovunque! La prova della suacolpa in ogni dove, limpida, inconfondibile, elementare per un osservatoreintelligente.Henry Brownrigg era inchiodato al suolo.Un po’ alla volta il suo cervello, aggrappandosi all’istinto di difesa, di con-servazione, ricominciò a funzionare. Un rinvio, ecco la prima cosa da farsi:rinviare. Millie non doveva prendere la capsula quella sera, come sarebbestato nei piani. Né quella sera né l’indomani. Millie non doveva morirefino a che ogni traccia della digitalina non fosse scomparsa dal negozio.Rapidamente, cambiò tutto il suo programma. Quella sera si sarebbe com-portato come al solito, e l’indomani, appena Millie fosse uscita per andarein chiesa, lui avrebbe dato una prima spolverata, in modo che il commessonon si accorgesse di nulla.Lunedì, poi, con una scusa qualsiasi, avrebbe mandato a chiamare un’im-presa di pulizia. Sarebbero venuti con un’enorme macchina per aspirare,introducendo i tubi attraverso la vetrina. Sovente lui aveva detto che in-tendeva chiamarli per una buona ripulita.Quelli dell’impresa lavoravano in fretta; perciò, entro martedì…

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Nel frattempo, attenersi alla più assoluta normalità. Questo era l’impor-tante. Non fare nulla che potesse insospettire Millie o destarne la curiosità.Gli venne il pensiero che sarebbe stata una truce ironia pregare Millie diaiutarlo a spolverare il negozio quella sera stessa: ma lo scacciò. Con tuttala buona volontà, non ci sarebbe stato il tempo di fare un lavoro accurato.Andò a lavarsi le mani in cucina e ritornò nell’ingresso. Un passo sullescale, sopra la sua testa gli fece salire alla gola un urlo che riuscì appena intempo a reprimere.Era Millie. Era rientrata dalla porta di servizio senza che lui la sentisse, esolo il cielo sapeva da quanto tempo si trovasse in casa.– Henry – gli annunciò lei, mite come sempre – mi sono fatta prestare damia madre una tenda per la tua camera da letto, così non sarai più distur-bato dagli spifferi d’aria e dalla luce che filtra in camera. È un bel tendonespesso. Ho finito proprio adesso di metterlo su.Henry Brownrigg rispose con un borbottio che avrebbe potuto significarequalsiasi cosa. Aveva i nervi completamente a pezzi.L’osservazione che lei fece seguire, suonò rassicurante; così rassicuranteche lui, per poco, non diede in una sonora risata.– Oh, Henry – disse lei – oggi mi hai dato solo quattro di quelle pillole.Non dimenticare la quinta, sai, caro?

– Prosciutto cotto, piselli in scatola già pronti, insalata di patate e salsa pic-cante in bottiglia. Che cuoca ho sposato, mia cara Millie.Henry Brownrigg traeva una maligna soddisfazione da quelle battute sar-castiche da quattro soldi. Quando vide la faccia pallida di Millie irrigidirsi,ne rimase contentissimo.Mentre, seduto a tavola, guardava la moglie, Brownrigg si rese conto di uncurioso fenomeno. La donna spiccava in mezzo a tutto il resto della stanzacome se lei sola fosse in rilievo. Henry vedeva chiaramente ogni linea delsuo volto, ogni piega dell’abito di stoffa scura, come se quei particolari fos-sero stati sottolineati con un pesante tratto di matita nera.Millie era silenziosa. Persino il suo solito torrente di banalità si era pro-sciugato, ed Henry ne era contento.Si sorprese ad osservarla con occhio spassionato, come se fosse stata un’e-stranea. Arrivò alla conclusione che, in fondo, non la odiava affatto. Al con-trario, era dispostissimo a credere che, sia pure in modo limitato, fosse unapersona apprezzabile e di grandi qualità. Ma... gli intralciava la strada!Quella creatura vuota e grassoccia, niente affatto diversa da tante altre pa-drone di casa della città, aveva commesso l’errore capitale di mettersi sulsentiero di Henry Brownrigg. Lei, quella donnetta ridicola, priva di inte-resse, si ergeva tra Henry Brownrigg e i più riposti desideri del suo cuore.In quel momento, nulla faceva tanta impressione sul farmacista quantoquell’impudenza, quell’incredibile audacia di moglie.Lunedì, pensava. Lunedì, al più tardi martedì, e poi… Millie cominciò a sparecchiare.Il signor Brownrigg trangugiò il suo primo bicchiere di whisky e soda con

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avidità maggiore del solito. Per lui, il piacere della bevuta del sabato stavatutto nella strana sensazione che provava una volta ubriaco.Quando Henry Brownrigg diveniva, per sua moglie e per il resto delmondo, un sacco vuoto e inerte, per se stesso si trasformava invece in untranquillo, potentissimo fantasma annidato comodamente nel guscio pro-tettivo del proprio corpo, in grado di vedere e di comprendere tutto, matroppo onnipotente e troppo importante per dirigere le piccole questionidi nessuna importanza che formavano il suo immediato universo.In quelle occasioni, Henry Brownrigg si sentiva un dio.La sera cominciò come tutte le altre, e quando nella bottiglia quadrata nonrimasero più che due dita dell’elisir12 color ambra, Millie, e la polvere inbottega, e il dottor Crupiner, erano divenuti nella mente di Henry tanteformicuzze, sulle quali lui torreggiava, colosso di intelligenza e di potere.Quando anche quelle due dita si furono ridotte a un velo giallognolo sulfondo della bottiglia di vetro bianco, il signor Brownrigg rimase perfetta-mente immobile. In pochi minuti, avrebbe raggiunto il culmine della suaascesa al di sopra dei comuni mortali: e cioè quando il suo corpo, così im-portante ai loro occhi, fosse divenuto per lui letteralmente nulla. Meno diun pesante ingombro, meno ancora di un rivestimento inerte: un nulla as-soluto, un elemento senza peso, senza alcuna importanza.Quando Millie entrò nella stanza, nella carne di Henry Brownrigg si sa-rebbe potuto conficcare un ago, e lui non se ne sarebbe accorto.Solo quando fu a letto, con l’inutile corpo rivestito di un pigiama di bu-cato, Henry si accorse che Millie si comportava in modo diverso dal solito.La donna aveva ripiegato con cura gli abiti del marito, deponendoli sullasedia ai piedi del letto, e tutt’a un tratto lui la vide scrutare qualcosa conaria assorta. Seguendo lo sguardo di lei, notò per la prima volta il tendone nuovo. Erasenza dubbio una tenda bellissima: un tessuto spesso, pesante, felpato, cheaveva tutta l’aria di non lasciare passare nemmeno un filo di luce, nem-meno il più lieve spiffero d’aria.Henry ricordava perfettamente d’aver perso la pazienza con Millie, ungiorno, in presenza del commesso Perry, e cercando un pretesto per daresfogo alla sua rabbia, aveva inventato lo spiffero in camera da letto. Spifferoche non c’era, questo era il bello: il suo fantasma lo ricordava perfetta-mente. La porta aderiva benissimo allo stipite. Ma così Millie aveva avutoun motivo di più per preoccuparsi. Millie uscì dalla camera del marito, senza spegnere le luci. Lui cercò dichiamarla, e solo allora si rese conto degli svantaggi di essere uno spiritodisincarnato. Non poteva parlare, naturalmente.Giaceva perplesso per quella evidente lacuna nella sua onnipotenza,quando udì la moglie scendere di sotto invece di entrare nella propriastanza, dall’altra parte del corridoio. Andò subito su tutte le furie, e si sa-rebbe alzato, sempre che gli fosse stato possibile. Ma nel bel mezzo dellasua rabbia, si ricordò un particolare molto spassoso, e giacque immobile,internamente convulso da risa segrete.

12. Si dice elisir un liquorecorroborante, un preziosodistillato dalle proprietà e dal gusto eccezionali; inquesto caso il testo alludeal whisky.

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Ben presto, Millie sarebbe morta, morta. Morta! Millie non sarebbe stata più una stupida. Millie non l’avrebbe più mandatoin bestia con la propria sbadataggine. Millie sarebbe stata un cadavere!Lei tornò di sopra ed entrò in punta di piedi nella stanza.Ormai l’alcool aveva fatto il suo effetto, ed Henry non poteva muoverenemmeno la testa. Ben presto, sarebbe sopraggiunta l’incoscienza totale,ed egli avrebbe lasciato completamente il corpo, per precipitare in unaoscurità eccitante.Riusciva a vedere soltanto le spalle e la testa di Millie, quando la donna en-trava nel suo campo visivo. Era piuttosto seccato. Lei aveva ancora quellelinee attorno alla persona, e sulla faccia un’espressione assorta, che Henryricordava d’averle già visto nel corso di qualche impresa domestica parti-colarmente difficile.Millie spense la luce, poi si diresse verso la finestra. Henry, a questo puntointeressatissimo, la vide tirar su la veneziana.Poi, con sua grande meraviglia, udì un fruscio di carta; non un fruscio qual-siasi, ma uno particolare e a lui ben noto, che aveva udito centinaia di volte.Improvvisamente lo individuò. Carta adesiva. Millie aveva in mano ilgrosso rotolo di carta adesiva che lui usava in negozio.Era talmente indignato contro di lei, che, per qualche istante, non si do-mandò nemmeno che cosa stesse facendo la moglie; solo quando la videprofilarsi contro la seconda finestra, intuì. Millie stava tappando le fessure.Il suo fantasma rise di nuovo. Lo spiffero! Sciocca, stupida Millie che dav-vero aveva creduto alla storia dello spiffero.Lei riabbassò le veneziane e riaccese la luce. Aveva la solita faccia mite einespressiva, il solito sguardo vuoto e insulso.Il marito la vide andare alla toletta, muoversi indaffarata, come semprequando si occupava delle faccende domestiche.Ancora una volta, il fenomeno che aveva notato a tavola lo colpì. Vide lamano di lei e ciò che conteneva: li vide con chiarezza a causa del contornonerissimo, più che mai in contrasto con la tovaglietta candida della toletta.Millie stava posando sul ripiano due pezzi di carta: uno bianco, con l’orlofrastagliato, uno celeste di forma a lui nota.Il fantasma di Henry Brownrigg si agitò nella sua prigione: ora il corpoaveva cessato di essere un’entità trascurabile, era diventato una bara, unabara sigillata, di piombo, che lo soffocava nel suo inanimato involucro.Lottò per liberarsi, per ridare vita e peso alla propria potenza, per muoversi.Millie sapeva!Il foglietto bianco con l’orlo frastagliato era una lettera di Phyllis tolta dalcassettino della farmacia, e quello azzurro – ora se ne ricordava – era il bi-glietto che lui le aveva lasciato nella vaschetta mal lavata.Rivide le proprie parole scarabocchiate a matita, con tanta chiarezza, comese avesse posseduto un obiettivo telescopico.«Cara Millie, credo di essermi spiegato abbastanza, vero?».E poi la firma, un «Henry» con tanto di svolazzo. Pensare che quando l’a-veva scritto si era sentito così soddisfatto di sé!

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Lottò come un disperato. Ora la bara era fatta di vetro, di pesante opacovetro che restava insensibile a tutti i suoi sforzi.Millie esitava. Aveva preso in mano di nuovo la lettera di Phyllis. Ecco, larileggeva.Henry la vide farsi seria e strappare la lettera in tanti pezzi, che si ficcò poinella tasca del golf.Henry Brownrigg comprese. Millie aveva pietà di Phyllis. Nonostante lasua ottusità, aveva intuito la sincera infatuazione della poverina, e aveva de-ciso di tenere la cosa per sé, di lasciare Phyllis fuori da quella storia.E adesso? Henry Brownrigg si contorceva dentro il proprio corpo inerte. Millie era tornata vicino alla toletta. Ora vi deponeva qualcos’altro. Co-s’era? Oh, ecco cos’era...Il registro dei conti! Henry lo vide perfettamente, il vecchio registro mac-chiato dalle mosche, la cui storia era facile a leggersi e a comprendersianche per il magistrato più ottuso.Ora Millie si stava allontanando. Henry quasi rischiò di non accorgersi chesi era fermata vicino al caminetto. La donna non si chinò nemmeno. Con ilpiede calzato dalla pantofola, aprì la chiavetta della stufa a gas.Poi, uscì dalla stanza, chiudendo la luce, prima di tirare a sé l’uscio. Henry udìprima il fruscio del tendone che veniva chiuso, poi il cigolio dei cardini e loscatto della serratura. Seguì una brevissima pausa, poi si udì girare la chiave.Millie si era comportata durante tutta l’operazione come se stesse prepa-rando la cena, o riordinando lo stanzino di sgombero.Chiuso nella sua prigione, il fantasma di Henry Brownrigg ascoltava, im-potente. Dall’altra estremità della stanza arrivava un sibilo sostenuto, co-stante.Su, in soffitta, sebbene lui non potesse naturalmente sentirlo, il contatoredel gas ticchettava a pieno ritmo.Henry Brownrigg ebbe la visione di quello che si sarebbe svolto il mattinodopo. Le chiavi erano uguali in tutte le porte delle stanze, perciò Millienon avrebbe avuto nessuna difficoltà a spiegare che, svegliandosi, avevasentito odore di gas e che, trovando la porta del marito chiusa a chiave,aveva aperto con la chiave della propria.Il fantasma si mosse nel proprio guscio. Ancora una volta la terra e i fattiterreni apparivano piccoli e trascurabili. L’incoscienza stava per soprag-giungere, l’oscurità era in attesa, pronta a sopraffarlo; solo che, in quell’o-scurità, non vi sarebbe stato più nulla di eccitante.L’oscurità lo ingoiò. Egli aveva perso ogni nozione del guscio, ormai. Il gu-scio era annientato, aveva abbandonato la lotta.Il riverbero della luce di un lampione, che filtrava sotto la veneziana, stavasbiadendo. Impallidiva sempre più. Ecco... era scomparso.Mentre lo spettro di Henry Brownrigg strisciava fuori, nel gelo notturno,un mormorio gli risuonò accanto, carico di raggelante certezza:«I tipi così riescono sempre a farla franca. Sono troppo ottusi, troppo pra-tici, troppo privi di fantasia. Riescono sempre a farla franca».

Il fantasma di Henry, in “Il racconto”, I, n. 2, luglio 1975

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STRUMENTI DI LETTURALa storiaIl fantasma di Henry è una via di

mezzo tra due generi letterari, quello delgiallo vero e proprio e il noir. Se nelprimo l’elemento principale è la solu-zione di un enigma, destinata a scioglierela tensione e ricondurre a una condizionedi equilibrio, nel secondo il finale rimanespesso “aperto” e, in ogni caso, non è maiconsolatorio. Nel Fantasma di Henry, in-fatti, assistiamo all’accurata progettazionedi un delitto ma alla fine non c’è nessunassassino da scoprire, poiché né la vitti-ma né il colpevole sono quelli che ci sa-remmo aspettati, anzi, abbiamo ottimimotivi per supporre che l’assassino ri-marrà impunito. Altro elemento tipica-mente noir è il torbido sentimento amo-roso che s’impossessa del protagonista,una cupa ossessione che lo spinge ad ar-chitettare quello che egli, illusoriamente,ritiene un “delitto perfetto”. Se vogliamo,proprio nelle ultime battute, il raccontosembra sconfinare addirittura nella ghoststory, con l’immagine dello spettro delprotagonista che, mentre striscia fuori,«nel gelo notturno», sente risuonare in-torno a sé una sconvolgente e beffardasentenza: l’assassino riuscirà a farlafranca. L’intera vicenda è scandita dalletappe che preludono al compimento deldelitto, dettagliatamente “motivato” al-meno per quanto riguarda il protagonistaprincipale. E in effetti, alla fine, un delittoavrà luogo, anche se all’ultimo momentol’assassino si troverà nei panni della vit-tima, e viceversa.

I personaggi L’intera vicenda si sviluppa in-

torno a personaggi profondamente ambi-gui, che alla fine si rivelano tutt’altro ri-spetto a quel che apparivano all’inizio.Tutto ruota intorno al signor Brownrigg,farmacista di mezza età, la cui acuta de-scrizione psicologica trova riscontro inuna gustosa e pungente caratterizzazionefisica. Tronfio, supponente e prevarica-

tore, si rivela invece un imbecille e unpasticcione, vittima predestinata dellapropria debolezza e dell’inclinazione alvizio dell’alcol, che lo spinge settima-nalmente a ubriacarsi tanto da piombarein uno stato di catatonia completa. La“sciocca” Millie, sua moglie, sembra es-sergli completamente sottomessa, mal’ambiguità di certe sue considerazionisul marito dovrebbero mettere pronta-mente sull’avviso il lettore riguardo al-l’effettivo acume della donna. Ambiguisono anche i personaggi di contorno,dall’anziano dottor Crupiner a PhyllisBell, la ragazza attratta in un primotempo dal bieco farmacista ma che ora lorifiuta, a Bill Perry, il commesso, devotoa Millie ma pronto a fraintendere clamo-rosamente le intenzioni e i reali senti-menti di Henry Brownrigg.

Il narratoreL’impersonalità del narratore è

quasi una regola del genere giallo, det-tata da esigenze strumentali come quelladi non fornire prima del dovuto al let-tore determinate informazioni, oppuredi mantenere intorno a uno o più perso-naggi un alone di mistero o ambiguità.In questo caso, il narratore scompare elascia in primo piano il personaggioprincipale, il signor Brownrigg, che se-guiamo nella lunga, meticolosa ma far-raginosa preparazione del delitto. Il ma-turo farmacista è convinto di conquistareper sempre la giovanissima Phyllis, ma allettore non mancano elementi tali dapoter concludere che quella di Brown-rigg è e rimarrà soltanto un’illusione.Al contempo, la più volte ribadita stu-pidità di Millie appare, a ben guardare,solo un pregiudizio dettato dalla sconfi-nata supponenza del marito. Il narra-tore, neutro e impersonale, forniscecosì una sorta di puzzle di elementivolta a volta congrui o contrastanti, cheil lettore dovrà ingegnarsi a disporrenel modo più adeguato.

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DOMANDE DI VERIFICARipercorri gli elementi della descrizione fisica di Brownrigg che appaiono nella prima parte delracconto e valuta se, in base a quanto dice il testo, le affermazioni che seguono sono vere o false.

Era un uomo alto di quarantacinque anni.Era una persona robusta che tendeva ad appesantirsi.Aveva faccia rasata, un collo taurino e labbra carnose.Non aveva occhi interessanti né incisivi.Nel complesso era un uomo appariscente e piacevole.

Nella parte iniziale del racconto, Brownrigg parla di un “ostacolo”: a che cosa pensi si riferisca?

Al fatto che sarebbe comparso presto un fidanzato per Phyllis, la ragazza di cui egli dice di es-sere innamorato.Al fatto che non possiede sufficiente denaro per fare la vita che vorrebbe.Alla presenza della moglie che gli impedisce di avere relazioni con altre donne in modo più libero.A Perry, il fattorino della bottega, la cui presenza rappresenta per lui un ostacolo ad agire li-beramente.

Sulla base dello svolgimento del racconto, puoi dire per quale motivo Brownrigg porta la moglieMillie dal dottor Crupiner?

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Per più di una volta nel corso del racconto si fa riferimento al “vecchio registro macchiato dallemosche”. Per qual motivo, secondo te, questo elemento ricorre in modo quasi marginale, ma tut-tavia insistito?

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L’abitudine del sabato sera di sbronzarsi con il whisky pone Brownrigg in una particolare condi-zione che viene descritta nel racconto per due volte, una nel corso del testo, per rendere contodelle abitudini di vita del protagonista, e una seconda volta nella scena finale. Quale differenzaesiste nella descrizione del corpo e della mente nelle due situazioni?

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Quando il fantasma di Henry sta lasciando definitivamente il corpo, comprendendo di esserestato ucciso dalla moglie, dice a proposito della donna che “i tipi così riescono sempre afarla franca. Sono troppo ottusi, troppo pratici, troppo privi di fantasia. Riescono sempre a farlafranca”. Valutando la figura di Millie, saresti d’accordo con l’opinione di Brownrigg?

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Gabriel García Márquez

Un signore molto vecchio con due alienormi

anno 1972

luogoColombia

genereracconto fantastico

Presentazione dell’opera Un signore molto vecchio con due ali enormi, del 1968, fu scritto un anno dopo la pubblicazione di Cent’anni di solitudine, capo-lavoro di García Márquez e uno dei massimi romanzi del Novecento. Anche qui ritroviamo una colorita quanto amara rappresen-tazione di un paese dell’America Latina, del quale lo scrittore delinea la condizione allucinata con inventiva, bruciante ironia maanche con una profonda schiettezza.

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Gabriel García Márquez Nato nel 1928 ad Aracataca, Colombia, come giornalista soggiornò in Francia,Messico, Spagna e Italia, dove studiò al Centro sperimentale di cinematogra-fia di Roma. Ai romanzi Foglie morte (1955) e Nessuno scrive al colonnello(1961) seguono i racconti di I funerali della Mama Grande (1962), ove giàemerge il mondo mitico e paradossale che gli sarà caratteristico. Dopo Lamala ora (1962), il romanzo Cent’anni di solitudine (1967), centrato sull’im-maginaria ed epica comunità di Macondo, viene considerato il suo capola-voro e riscuote un successo planetario. Ai racconti di L’incredibile e triste sto-ria della candida Eréndira e della sua nonna snaturata (1972) seguono Occhidi cane azzurro (1974), L’autunno del patriarca (1975) e Cronaca di unamorte annunciata (1981). Nel 1982 ottiene il premio Nobel per la letteratura. Seguono L’amore ai tempidel colera (1985), Il generale nel suo labirinto (1989), Dell’amore e altri demoni (1994). Nel 1999 gliviene diagnosticata una grave malattia che lo spinge a scrivere le sue memorie, il cui primo volume, Vi-vere per raccontarla, esce nel 2002. Nel 2004, vinta la sua battaglia contro il cancro, pubblica il romanzoMemoria delle mie puttane tristi (2004) e il monologo teatrale Diatriba d’amore contro un uomo seduto(2007). E anche autore di numerosi volumi di articoli e saggi.

l terzo giorno di pioggia avevano ucciso così tanti granchi dentro casache Pelayo dovette attraversare il cortile allagato e buttarli in mare,perché la notte il piccolo aveva avuto la febbre e si pensava fosse acausa del fetore. Il mondo era triste fin dal martedì. Il cielo e il mare

erano un tutt’uno di cenere, e la sabbia della spiaggia, che in marzo scintillavacome polvere di fuoco, era diventata una brodaglia di fango e molluschimarci. A mezzogiorno la luce era talmente fioca che quando Pelayo tornò acasa dopo aver buttato via i granchi fece fatica a vedere cosa si muoveva e silamentava in fondo al cortile. Dovette avvicinarsi un bel po’ prima di ren-dersi conto che era un vecchio, sdraiato a faccia in giù nel pantano, che mal-grado i continui sforzi non riusciva ad alzarsi, impedito dalle sue enormi ali.Spaventato da quell’incubo, Pelayo corse a cercare Elisenda, sua moglie,che stava facendo impacchi al bambino malato, e la portò in fondo al cor-tile. Tutti e due osservarono il corpo caduto con tacito stupore. Era ve-

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stito come uno straccivendolo. Gli restava appena qualche filo sbiaditosul cranio pelato e pochissimi denti in bocca, e la sua penosa condizionedi bisnonno fradicio lo aveva privato di ogni grandezza. Le ali da grossoavvoltoio, spennacchiate e sporche, erano definitivamente incagliate nelpantano. Pelayo ed Elisenda l’osservarono talmente tanto, e con tale at-tenzione, che si ripresero ben presto dallo stupore e finirono per trovarlofamiliare. Allora si azzardarono a parlargli e lui rispose in un dialetto in-comprensibile, ma con una bella voce da navigatore. Fu così che passa-rono sopra l’inconveniente delle ali e conclusero con molto buonsensoche era un naufrago solitario di qualche nave straniera affondata nellatempesta. In ogni modo decisero di chiamare una vicina che sapeva tuttodella vita e della morte, e a lei bastò un’occhiata per disilluderli.«È un angelo» disse. «Veniva di sicuro a prendersi il bambino, ma è tal-mente vecchio, poveretto, che la pioggia l’ha abbattuto».Il giorno dopo tutti sapevano che in casa di Pelayo era prigioniero un an-gelo in carne e ossa. Contro il parere della saggia vicina, per cui gli angelidi questi tempi erano fuggiaschi sopravvissuti a una cospirazione cele-stiale, non avevano avuto cuore di ammazzarlo a bastonate. Pelayo loaveva sorvegliato tutto il pomeriggio dalla cucina, armato del suo ran-dello di gendarme, e prima di andare a letto lo aveva trascinato fuori dalpantano e chiuso con le galline nel pollaio. A mezzanotte, quando avevasmesso di piovere, Pelayo ed Elisenda stavano ancora ammazzando gran-chi. Poco dopo il bambino si era svegliato senza febbre e con appetito. Aquel punto si erano sentiti magnanimi e avevano deciso di mettere l’an-gelo su una zattera con acqua dolce e provviste per tre giorni, e di abban-donarlo alla sua sorte in alto mare. Ma quando alle prime luci dell’albaerano usciti nel cortile, avevano trovato tutti i vicini davanti al pollaio, adivertirsi con l’angelo senza la minima devozione e a gettargli roba damangiare attraverso la rete come se fosse un animale da circo e non unacreatura sovrannaturale.Padre Gonzaga arrivò prima delle sette, allarmato da quella notizia spro-positata. Allora erano già accorsi curiosi meno frivoli di quelli dell’alba eavevano fatto ogni genere di congettura sul futuro del prigioniero. I piùsemplici pensavano che sarebbe stato nominato alcalde1 del mondo. Altri,di spirito più rude, supponevano che sarebbe stato promosso generale dacinque stellette per vincere tutte le guerre. Alcuni visionari speravano chevenisse tenuto come stallone per fondare sulla terra una stirpe di uominialati e sapienti che reggessero l’universo. Ma padre Gonzaga prima di di-ventare sacerdote era stato un robusto taglialegna. Affacciato alla rete, ri-passò un momento il suo catechismo e poi chiese che gli venisse aperta laporta per esaminare da vicino quel pover’uomo che sembrava piuttostoun’enorme gallina decrepita in mezzo alle altre galline assorte. L’angeloera sdraiato in un angolo e si asciugava al sole le ali spiegate, tra le buccedi frutta e gli avanzi di colazione che gli avevano buttato i più mattinieri.Insensibile alle impertinenze del mondo, alzò a stento gli occhi da anti-quario mormorando qualcosa nel suo dialetto quando padre Gonzaga

1. Era detto così in Spagnae nelle sue colonie unfunzionario statale cheaveva funzioniamministrative e giudiziarie. Derivadall’arabo al-qadi, giudice.

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entrò nel pollaio e gli diede il buongiorno in latino. Il parroco ebbe iprimi sospetti sulla sua impostura appena si rese conto che non capiva lalingua di Dio2 né sapeva salutare i suoi ministri. Poi constatò che visto davicino appariva fin troppo umano: aveva un insopportabile odore di in-temperie, il rovescio delle ali coperto di alghe parassitarie, le penne piùgrandi sciupate da venti terrestri, e niente nella sua miserabile natura eracompatibile con l’illustre dignità degli angeli. Allora uscì dal pollaio econ un breve sermone mise in guardia i curiosi contro i rischi dell’inge-nuità. Ricordò che il diavolo aveva la brutta abitudine di ricorrere ad ar-tifizi da carnevale per confondere gli incauti. Argomentò che se le ali nonerano l’elemento essenziale per stabilire le differenze tra uno sparviero eun aeroplano, tanto meno potevano esserlo per riconoscere gli angeli. Mapromise di scrivere una lettera al suo vescovo, perché questi ne scrivesseun’altra al suo primate, e costui una terza al Sommo Pontefice, così che ilverdetto finale giungesse dai tribunali supremi.La sua prudenza cadde in cuori sterili. La notizia dell’angelo prigionierosi sparse con tale rapidità che in poche ore nel cortile c’era una baraondada mercato, e dovettero portare la truppa con le baionette per disperderela folla in tumulto che stava per buttar giù la casa. Elisenda, con la spinadorsale storta a forza di spazzare immondizia da fiera, ebbe allora labuona idea di recintare il cortile e far pagare cinque centavos3 il bigliettoper vedere l’angelo.Arrivarono curiosi fin dalla Martinica. Arrivò una fiera girovaga con unacrobata volante che passò varie volte a razzo sopra la folla, ma nessunogli badò perché le sue ali non erano d’angelo ma di pipistrello siderale.Arrivarono in cerca di guarigione i malati più disgraziati dei Caraibi: unapovera donna che fin da bambina contava i battiti del proprio cuore e nonle bastavano più i numeri, un giamaicano che non riusciva a dormire per-ché era tormentato dal rumore delle stelle, un sonnambulo che di notte sialzava a disfare quanto aveva fatto da sveglio, e molti altri meno gravi. Inmezzo a quel disordine da naufragio che faceva tremare la terra, Pelayoed Elisenda erano felici nella loro stanchezza, perché in meno di una set-timana avevano riempito di soldi le camere da letto, e la fila di pellegriniche aspettava di entrare giungeva ancora fin oltre l’orizzonte.L’angelo era l’unico che non partecipava al proprio evento. Passava iltempo a cercare di accomodarsi alla meglio nel suo nido prestato, stor-dito dal calore infernale delle lampade a olio e delle candele votive chemettevano vicino alla rete. All’inizio cercarono di fargli mangiare cristallidi canfora, che secondo la scienza della saggia vicina era l’alimento speci-fico degli angeli. Ma lui li disdegnava, come aveva disdegnato senza as-saggiarli i pranzi papali che gli portavano i penitenti, e non si seppe maise fu perché era un angelo o perché era vecchio che finì per mangiare sol-tanto pappette di melanzana. La sua unica virtù sovrannaturale sembravala pazienza. Soprattutto nei primi tempi, quando le galline lo becchetta-vano in cerca dei parassiti stellari che proliferavano nelle sue ali, e glistorpi gli strappavano le penne per passarsele sulle magagne, e persino i

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2. Il testo allude al fattoche la lingua ufficiale dellaChiesa è il latino.3. Parola spagnola e portoghese che significacentesimo.

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più misericordiosi gli tiravano sassi cercando di farlo alzare per vederlo afigura intera. L’unica volta che riuscirono a innervosirlo fu quando glibruciarono il fianco con un ferro per marchiare i manzi, perché era rima-sto immobile così tante ore che lo credevano morto. Si svegliò di sopras-salto, strepitando nella sua lingua ermetica con le lacrime agli occhi, esbatté un paio di volte le ali sollevando un vortice di sterco di gallinae polvere lunare, e un uragano di panico che non sembrava di questomondo. Molti pensarono che la sua reazione non fosse di rabbia ma didolore, però da quel momento si guardarono bene dall’infastidirlo, per-ché la maggior parte comprese che la sua non era una passività da eroe inritiro, ma da cataclisma in riposo.Padre Gonzaga affrontò la frivolezza della folla con formule di ispira-zione domestica, in attesa di ricevere il verdetto definitivo sulla naturadel prigioniero. Ma la posta da Roma aveva perso la nozione dell’ur-genza. Passavano il tempo ad appurare se il reo aveva l’ombelico, se il suodialetto era legato in qualche modo all’aramaico4, se poteva stare piùvolte sulla punta di uno spillo o se non era semplicemente un norvegesecon le ali. Quelle lettere flemmatiche sarebbero andate avanti e indietrofino alla fine dei secoli, se un fatto provvidenziale non avesse posto ter-mine alle tribolazioni del parroco.Accadde che in quei giorni, fra le numerose attrazioni delle fiere erra-bonde dei Caraibi, giunse in paese il triste spettacolo della donna che siera trasformata in ragno per aver disobbedito ai genitori. Il biglietto pervederla non solo costava meno del biglietto per vedere l’angelo, ma erapermesso farle ogni genere di domanda sulla sua aberrante condizione edesaminarla dal dritto e dal rovescio, perché nessuno mettesse in dubbio laverità dell’orrore. Era una tarantola spaventosa delle dimensioni di unmontone e con una testa da donzella triste. La cosa più straziante perònon era la sua figura assurda, ma la sincera afflizione con cui raccontava idettagli della propria disgrazia: quando era ancora quasi una bambina erascappata dalla casa dei genitori per andare a un ballo, e mentre tornavaattraverso il bosco dopo aver ballato tutta la notte senza permesso untuono spaventoso aveva squarciato il cielo, e da quella fenditura era uscitoil lampo di zolfo che l’aveva trasformata in ragno. Il suo unico alimentoerano le palline di carne trita che le gettavano in bocca le anime caritate-voli. Un simile spettacolo, carico di tanta verità umana e di un così terri-bile monito, doveva sconfiggere senza volere quello di un angelo sprez-zante che si degnava a stento di guardare i mortali. E poi, i pochi miracoliattribuiti all’angelo rivelavano un certo disordine mentale, come il casodel cieco che non aveva recuperato la vista ma aveva messo tre dentinuovi, e quello del paralitico che non aveva ripreso a camminare ma erastato lì lì per vincere alla lotteria, o quello del lebbroso a cui erano natigirasoli nelle ferite. Quei miracoli di consolazione, che sembravano piut-tosto passatempi beffardi, avevano già danneggiato la reputazione del-l’angelo quando la donna trasformata in ragno finì di distruggerla. Fucosì che padre Gonzaga guarì per sempre dall’insonnia, e il cortile di Pe-

4. L’aramaico era la linguasemitica parlatacorrentemente al tempo di Gesù e presente nelterritorio del vicino Orientegià da mille anni circa,come lingua ufficiale del culto e della legge.

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layo ritornò solitario come ai tempi in cui aveva piovuto per tre giorni ei granchi si aggiravano nelle camere da letto.I padroni di casa non ebbero niente di cui lamentarsi. Grazie al denaroraccolto costruirono una villa a due piani, con balconi e giardini, e sogliemolto alte perché non entrassero i granchi d’inverno, e sbarre di ferroalle finestre perché non entrassero gli angeli. Inoltre, Pelayo aprì un alle-vamento di conigli a un passo dal paese e rinunciò per sempre al suobrutto lavoro di gendarme, ed Elisenda si comprò delle scarpette di rasoa tacco alto e tanti vestiti in seta cangiante, di quelli che all’epoca indos-savano la domenica le signore più invidiate. Il pollaio fu l’unica cosa anon ricevere attenzioni. Se qualche volta lo lavarono con creolina e vibruciarono grani di mirra non fu in omaggio all’angelo ma per scacciareil fetore da letamaio che ormai si aggirava ovunque come un fantasma estava invecchiando la casa nuova. All’inizio, quando il piccolo imparò acamminare, badarono che non ci si avvicinasse troppo. Ma poi pian pianodimenticarono i loro timori e si abituarono alla puzza, e prima che ilbambino cambiasse i denti si era già infilato a giocare dentro il pollaio, lacui recinzione marcita cadeva a pezzi. L’angelo non fu meno scontrosocon lui che con il resto dei mortali, ma sopportava le infamie più inge-gnose con una mansuetudine da cane senza illusioni. Contrassero la vari-cella insieme. Il medico che curò il bambino non seppe resistere alla ten-tazione di auscultare l’angelo, e sentì talmente tanti soffi al cuore erumori nelle reni da sembrargli incredibile che fosse ancora vivo. Ma fula logica delle sue ali a stupirlo di più. Apparivano così naturali in quel-l’organismo completamente umano che non riusciva a capire perché nonle avessero anche gli altri uomini.Quando il bambino andò a scuola, il sole e la pioggia avevano da tempodistrutto il pollaio. L’angelo si trascinava qua e là come un moribondosenza padrone. Lo cacciavano via da una camera a colpi di scopa e un mo-mento dopo se lo ritrovavano in cucina. Sembrava essere in così tantiposti assieme da spingerli a pensare che si sdoppiasse, che si moltiplicassein tutta la casa, e l’esasperata Elisenda gridava fuori di sé che era una di-sgrazia vivere in quell’inferno pieno di angeli. Lui riusciva a stento amangiare, i suoi occhi da antiquario erano così annebbiati che inciam-pava nei pilastri della casa, e non gli restavano che le cannule5 pelate delleultime penne. Pelayo gli buttò addosso una coperta e gli fece la carità dilasciarlo dormire sotto la tettoia, e solo allora si accorsero che passava lanotte a delirare per la febbre con scioglilingua da vecchio norvegese.Quella fu una delle poche volte in cui si allarmarono, perché pensavanoche stesse per morire, e neppure la saggia vicina aveva saputo dire checosa si faceva degli angeli morti.Eppure non solo sopravvisse al suo peggiore inverno, ma parve ripren-dere le forze al primo sole. Rimase immobile per giorni e giorni nell’an-golo più appartato del cortile, dove nessuno poteva vederlo, e agli inizi didicembre cominciarono a spuntargli sulle ali penne grandi e dure, penneda uccellaccio decrepito che sembravano quasi un nuovo guaio della vec-

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5. Struttura portante della penna con cui essa si attacca all’ala.

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chiaia. Ma lui doveva conoscere la ragione di quei cambiamenti, perchéstava bene attento che nessuno li notasse, né sentisse le canzoni da mari-naio che a volte cantava sotto le stelle. Una mattina Elisenda stava affet-tando una cipolla per il pranzo, quando entrò in cucina un vento chesembrava d’alto mare. Allora si affacciò alla finestra e sorprese l’angelonei suoi primi tentativi di volo. Erano talmente goffi che aprì con le un-ghie un solco d’aratro fra gli ortaggi e per poco non buttò giù la tettoiacon quegli indegni colpi d’ala che scivolavano sulla luce e non trovavanoappiglio in aria. Ma riuscì a guadagnare quota. Elisenda tirò un sospiro disollievo, per lei e per lui, quando lo vide passare sopra le ultime case, te-nendosi su in qualche modo con un incerto svolazzio da avvoltoio senile.Continuò a vederlo anche quando finì di tagliare la cipolla, e continuò avederlo anche quando non era possibile che potesse vederlo, perchéormai non era più una seccatura nella sua vita, ma un punto immaginariosull’orizzonte del mare.

Un signore molto vecchio con due ali enormi, in L’incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata,

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STRUMENTI DI LETTURALa storiaSin dall’incipit, l’autore riesce

a farci accettare come “normali” unaquantità di elementi surreali, da una casainvasa dai granchi al fatto di scovare infondo al cortile un anziano signore conle ali. Così, dopo lo spavento causato daquell’«incubo», alla fine si finisce pertrovarlo «familiare». Tuttavia, poiché inquel mondo tropicale, impantanato emisero, pare non esservi posto per i sen-timenti, colui che la superstizione popo-lare aveva immediatamente identificatocome un angelo caduto diventa un feno-meno da baraccone, da esibire a paga-mento. Il sistematico, minuzioso intrec-cio di reale e surreale fa scaturire quelsenso di «realismo magico» per cui Gar-cía Márquez è giustamente famoso, dovela «magia» è come la scintilla che rivelatutto lo squallore di una «realtà» avida,

cinica e crudele. Così, alla fine, quandol’uomo con le ali vola via, per qualcunosarà soltanto una «seccatura» in meno.

La lingua e lo stile

In García Márquez, considerato il mag-gior esponente del moderno «realismomagico» in letteratura, un acuto sensodel particolare sfuma costantemente nel-l’indefinito e nel fantastico. La prosa èscorrevole ma costantemente pervasada un’ironia amara. Il linguaggio, com-plesso e articolato, intreccia realtà e fan-tasia, storia e leggenda, vita quotidiana emito, infimo e sublime. Nel raccontotrovano posto, nella stessa misura para-dossale, uno stile vivo e concreto e unadolente rappresentazione della vita.

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DOMANDE DI VERIFICAL’ambientazione del racconto è situata in:

Un pollaio malridotto in prossimità del mare.Una villa ben costruita con un pollaio semi distrutto.Un cortile pieno di fango, di granchi e galline.Una casa in sud America, vicina al mare, tormentata dalla presenza dei granchi.

Prima che la vicina di casa lo riconosca come tale, l’autore introduce la figura dell’angelo (oltrea ciò che già dice nel titolo) come “un vecchio, sdraiato a faccia in giù nel pantano, che mal-grado i continui sforzi non riusciva ad alzarsi, impedito dalle sue enormi ali”; un “corpo ca-duto”; “vestito come uno straccivendolo”; “con il cranio pelato”; “pochissimi denti in bocca”;“bisnonno fradicio”; con “ali da grosso avvoltoio, spennacchiate, sporche, incagliate nel pan-tano”; capace solo di “parlare un dialetto incomprensibile”. Sapresti interpretare i dati scelti dall’autore per presentare il personaggio dell’angelo?....................................................................................................................................................................................................................................

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Servendoti degli elementi tratti dal racconto, quale giudizio sull’angelo esprime il parroco,padre Gonzaga?

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Tenendo conto di tutto lo svolgimento del racconto, quale comportamento hanno gli uominidel popolo (esclusi i protagonisti) rispetto all’angelo?

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Considerando l’aspetto dell’angelo e il suo comportamento nel corso della storia, individua gliaspetti “divini” che connotano la sua immagine.

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Ripercorrendo l’intera storia, si può dire che Márquez abbia usato l’espediente dell’angelo –presentato nei termini che conosciamo – per dare una sua particolare valutazione della realtàumana?

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Antonio Tabucchi

Treni che vannoa Madras

anno 1985

luogoItalia

genereracconto trarealtà e fantasia

Presentazione dell’opera L’attenzione critica dedicata a Pessoa ha fornito a Tabucchi suggerimenti e suggestioni anche per la sua opera narrativa. Dopo iprimi romanzi lo scrittore si è rivolto soprattutto alla forma del racconto, più congeniale a creare situazioni in cui si mette in evi-denza ciò che è possibile, relativo o capovolto rispetto alla realtà, e in cui ritornano insistentemente i motivi del destino, dell’am-biguità, dell’insensatezza dell’esistenza. Alla base di Piccoli equivoci senza importanza vi è il concetto della vita come rebus, rebusdestinati a rimanere senza soluzione fra mille ipotesi e congetture. In Treni che vanno a Madras il compagno di viaggio del prota-gonista “potrebbe” essere colui che commette l’omicidio di cui si parla sul giornale il giorno seguente, ma il protagonista di Rebus,un altro racconto della stessa raccolta, riflettendo sull’impossibilità di capire la realtà, fa questa considerazione: «la vita è comeuna tessitura, tutti i fili si intrecciano, è questo che un giorno vorrei capire, vedere tutto il disegno». Tuttavia, poiché il disegnosfugge al protagonista quanto al lettore, i piccoli rebus diventano metafora di un rebus ben più ampio, quello rappresentato dallaletteratura, vista come enigma insolubile o come equivoco.

Antonio TabucchiNato a Pisa nel 1943, già direttore a Lisbona dell’Istituto italiano di cultura,della letteratura portoghese ha fatto oggetto d’insegnamento, saggi critici etraduzioni. A lui si deve la diffusione in Italia delle opere di Fernando Pessoa,il massimo scrittore lusitano moderno. Pessoa ha profondamente influenzatoil Tabucchi narratore, autore di romanzi e racconti lunghi fra i quali Piazzad’Italia (1975), Il piccolo naviglio (1978), Notturno indiano (1984), Il filo del-l’orizzonte (1986), Requiem (1992), Sostiene Pereira (1994), il suo libro dimaggior successo, La testa perduta di Damasceno Monteiro (1997), Si sta fa-cendo sempre più tardi (2001). Dopo il suo primo racconto Irma Serena, pub-blicato nel volume L’Astromostro. Racconti per bambini (1980), sono uscitenumerose raccolte: Il gioco del rovescio (1981), Donna di Porto Pim e altre storie (1983), Piccoli equivocisenza importanza (1985), I volatili del Beato Angelico (1987), L’angelo nero (1991), Sogni di sogni(1992). Per il teatro ha scritto i monologhi I dialoghi mancati (1988), mentre della sua produzione sag-gistica ricordiamo La gastrite di Platone (1998) e, tra quelli dedicati a Pessoa, Il poeta e la finzione(1983) e Un baule pieno di gente (1990).

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1. Il viaggio descritto dal racconto attraversa da ovest a estla penisola indiana nella zona meridionale, congiungendodue delle maggiori città della regione.2. La similitudine accosta l’idea del viaggiatore più banaledesideroso di conoscere i luoghi più tipici a quella delpredone, ovvero del brigante che si impadronisce delle

cose preziose che incontra sulla sua strada in terrastraniera. Così facendo l’autore pone idealmente aconfronto un turismo più superficiale che incontra lebellezze artistiche e naturali di un paese seguendo schemipredefiniti, con uno più attento alla realtà che incontra,anche se apparentemente meno organizzato.

treni che da Bombay vanno a Madras1 partono dalla Victoria Station.La mia guida assicurava che una partenza dalla Victoria Station valeda sola un viaggio in India, e questa era la prima motivazione che miaveva fatto preferire il treno all’aereo. La mia guida era un libretto

un po’ eccentrico che dava consigli perfettamente incongrui, e io lo stavoseguendo alla lettera. Il fatto era che anche il mio viaggio era perfettamenteincongruo, dunque quello era il libro fatto apposta per me. Trattava il viag-giatore non come un predone avido di immagini stereotipe2 al quale si con-sigliano tre o quattro itinerari obbligatori come nei grandi musei visitati di

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corsa, ma alla stregua di un essere vagante e illogico, disponibile all’ozio eall’errore. Con l’aereo, diceva, farete un viaggio comodo e rapido, ma salte-rete l’India dei villaggi e dei paesaggi indimenticabili. Con i treni di lungapercorrenza vi sottoporrete al rischio di soste fuori programma e potreteanche arrivare un giorno più tardi del previsto, ma vedrete la vera India.Però, se avrete la fortuna di prendere il treno giusto, sarà puntualissimo econfortevole, avrete cibo eccellente e un servizio perfetto, e un biglietto diprima classe vi costerà meno della metà di un biglietto aereo. E poi non di-menticate che sui treni indiani si possono fare gli incontri più imprevedibili.Queste ultime considerazioni mi avevano definitivamente convinto; e forsemi era anche capitata la fortuna del treno giusto. Avevo attraversato pae-saggi di rara bellezza, o comunque indimenticabili per l’umanità che avevovisto; il vagone era di un conforto eccezionale, l’aria condizionata grade-vole, il servizio impeccabile. Stava calando il crepuscolo e il treno attraver-sava un paesaggio di montagne rosse e scabre. Il servitore entrò con unospuntino su un vassoio di legno laccato, mi porse una salvietta umida, miversò il tè, mi informò con discrezione che ci trovavamo in mezzo all’India.Mentre mangiavo sistemò la mia cuccetta, specificò che il vagone ristoranterestava aperto fino alla mezzanotte e che se desideravo cenare nel mioscompartimento bastava suonassi il campanello. Lo ringraziai con una pic-cola mancia e gli restituii il vassoio vuoto. Poi restai a fumare guardando dalfinestrino quel panorama ignoto, pensando al mio strano itinerario. Andarea Madras a visitare la Società Teosofica3, per un agnostico4, e per di più faredue giorni di treno, era un’impresa che probabilmente sarebbe piaciuta aglistrambi autori della mia stramba guida di viaggio. Ma la verità era che unapersona della Società Teosofica mi avrebbe potuto fornire un’informazionealla quale tenevo moltissimo. Era una tenue speranza, forse un’illusione, enon volevo bruciarla nel breve spazio di un viaggio aereo: preferivo cullarlae assaporarla con un certo agio, come si ama fare con le speranze alle qualiteniamo molto e che sappiamo hanno poche possibilità di realizzarsi.La frenata del treno mi strappò alle mie considerazioni, forse al mio tor-pore. Probabilmente mi ero appisolato per qualche minuto e il treno era giàentrato in una stazione senza che potessi leggere il nome sul cartello. Avevoletto sulla guida che una delle fermate intermedie era Mangalore, o forseBangalore, non ricordavo bene, ma ora non avevo voglia di mettermi nuo-vamente a sfogliare il libro per cercare l’itinerario della strada ferrata. Sottola pensilina c’erano rari viaggiatori: indiani vestiti all’occidentale dall’aspettodi persone facoltose, un gruppo di donne, alcuni facchini affaccendati. Do-veva essere una città importante e industrializzata. In lontananza, oltre i bi-nari, si vedevano le ciminiere di una fabbrica, grandi edifici e viali alberati.L’uomo entrò mentre il treno si stava rimettendo in movimento. Mi salutòfrettolosamente, verificò che il numero della cuccetta libera corrispondessea quello del suo biglietto e dopo avere constatato che non c’erano errori michiese scusa dell’intrusione. Era un europeo di una grassezza flaccida, por-tava un completo blu abbastanza fuori luogo dato il clima e un cappelloelegante. Come bagaglio aveva soltanto una valigetta ventiquattrore di

3. La teosofia afferma chetutte le religioni hannoun’unica origine e che nel corso della storia soloalcune persone a conoscenza di questaverità abbiano potutorivelarla agli altri. I seguacidella teosofiaappartengono a unmovimento che chiede di raggiungere la veritàreligiosa solo attraverso un percorso graduale ed esclusivo, sotto la guidadi maestri. Non tutti sonopresupposti raggiungere glistessi livelli di conoscenzae di approfondimentoreligioso. 4. Posizione di chi ritienedi non sia possibileaffermare o negarel’esistenza di Dio, inquanto non si possiedonoelementi sufficienti allasoluzione del problema.

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cuoio nero. Si sedette al suo posto, trasse di tasca un fazzoletto candido e sipulì con cura gli occhiali da vista, sorridendo. Aveva un’aria affabile ma ri-servata, quasi compunta.– Anche lei va a Madras? – mi chiese senza aspettare la mia risposta – que-sto treno è molto puntuale, arriveremo domani mattina alle sette.Parlava un buon inglese con accento tedesco, ma non mi parve tedesco.Olandese, mi venne da pensare senza sapere perché, o forse svizzero. Aveval’aria di un uomo d’affari, così a prima vista pareva sulla sessantina, maforse era più vecchio.– Madras è la capitale dell’India dravidica5 – aggiunse – se non c’è mai statoavrà cose straordinarie da vedere –. Parlava con la disinvoltura un po’ di-staccata degli europei che conoscono l’India, e mi preparai a una conversa-zione basata sulle banalità. Decisi che era opportuno informarlo che pote-vamo cenare nel vagone ristorante, preferendo intercalare i prevedibili luo-ghi comuni dell’inevitabile dialogo con i necessari silenzi previsti da unpasto consumato civilmente.Mentre camminavamo nel corridoio mi presentai scusandomi per la di-strazione di non averlo fatto prima.– Oh, le presentazioni sono diventate una formalità inutile, ormai – af-fermò con la sua aria affabile. Accennò un lieve inchino con la testa. – Michiamo Peter – concluse.A cena si dimostrò un esperto prezioso. Mi sconsigliò le cotolette vegetalisulle quali mi stavo orientando per pura curiosità, «perché i vegetali de-vono essere molto variati e lavorati» disse «ed è difficile che ciò possa veri-ficarsi nelle cucine di un treno». Tentai timidamente altri cibi a caso, susci-tando sempre la sua disapprovazione. Alla fine acconsentii al tandoori diagnello che egli aveva scelto per sé, «perché l’agnello è un cibo nobile e sa-crificale, e gli indiani hanno il senso della ritualità del cibo6».Parlammo molto delle civiltà dravidiche7, anzi, parlò quasi sempre lui,perché i miei interventi si limitavano alle domande tipiche dell’inesperto,a qualche timida obiezione, perlopiù al consenso incondizionato. Mi de-scrisse con dovizia di dettagli i rilievi rupestri di Kancheepuram8 e l’ar-chitettura dello Shore Temple9, mi parlò di culti arcaici e ignoti, estraneial panteismo induista10, come quello delle aquile bianche11 di Mahabali-puram12; del significato dei colori, dei riti funebri, delle caste13. Gli esposicon qualche esitazione quello che sapevo: le mie conoscenze della pene-trazione europea sulle coste del Tamil14; parlai della leggenda del marti-rio di san Tommaso a Madras15, del fallito tentativo dei portoghesi di fon-

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5. Si individua comedravidica la regionemeridionale della penisolaindiana.6. Il testo allude al fattoche l’agnello era unanimale usato da moltereligioni, soprattutto nelpassato, nei sacrifici versole divinità. Peter consiglial’agnello perché ritiene chela cucina indiana usi deiprocedimenti cheassomigliano a quelli deiriti religiosi e dunquel’agnello sarebbe un piattoparticolarmente conformealle modalità della cucinaindiana.7. Le civiltà dravidiche siattestarono nella valle delfiume Indo nel periodocompreso tra il III e il IImillennio a.C., praticavanol’agricoltura, conoscevanol’uso della ceramica e la lavorazione dei metalli;la vita associata eraorganizzata in città. Dopo il II millennio a.C. gli arii,popolazione nomade diorigine indoeuropea, reserole civiltà dravidiche lorosottomesse, inglobandole.8. Si tratta di sculture etempli monumentali nellaroccia, compiuti sotto ladinastia Pallava (III-IXsecolo), caratterizzati daun ricco ornato conelementi vegetali, animali,umani.9. Tempio costruito ingranito sotto la dinastiaPallava, datato all’VIIIsecolo, dedicato alledivinità indu Shiva e Visnu.Dichiarato Patrimoniodell’Umanità dall’UNESCO,è uno dei maggiori esempidi arte e architetturaindiana.10. Nel testo sacro dellareligione indiana, i Veda, siindica il Brahma come unoSpirito che attraversa tuttoil cosmo e si definisceinfinito ed eterno; perquesto il racconto parla di ‘panteismo’, perchél’induismo intende tutto il mondo pervaso dalloSpirito di Brahma.11. Il testo probabilmenteallude a una divinità informa di aquila dalla testabianca e dalle ali d’oro, che nei Veda è citata come

14. Si fa riferimento all’arrivo degli occidentali nellaregione del Tamil, situata nell’India sud orientale, a partiredal XVI secolo in avanti; si trattò dei Portoghesi,successivamente degli Olandesi e infine dei Britannici.15. La tradizione cristiana dell’India racconta cheTommaso, apostolo di Cristo, venne a diffondere il Vangeloin India e morì a Madras, martire. Nella cripta della chiesasi dice siano conservati resti delle sue ossa.

Garuda, un antico maestoso uccello che portava agli dei ilnettare dal Cielo alla Terra.12. Anche a Mahabalipuram sono presenti templimonumentali costruiti sotto la dinastia Pallava, fra il VII e il IX secolo, dichiarati nel 1984 Patrimonio dell’Umanitàdall’UNESCO.13. In India la società è divisa in gruppi sociali, o caste, checostituiscono una gerarchia rigida, per cui un individuo chefa parte di una casta non può entrare a fare parte diun’altra, specie se questa risulta di rango più elevato.

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dare un’altra Goa16 su quelle coste, delle loro guerre con i reami locali,dei francesi di Pondicherry17. Egli completò le mie informazioni e cor-resse certe mie inesattezze sulle dinastie indigene citando nomi, date,luoghi e avvenimenti. Parlava con sicurezza e competenza, e la sua erudi-zione denotava una vastità di conoscenze che lo facevano supporre unesperto qualificato, forse un professore universitario o uno studioso illu-stre. Glielo chiesi in modo diretto, con una certa ingenuità, sicuro di unarisposta affermativa. Egli sorrise non senza finta modestia e scosse ilcapo.– Solo un semplice amatore – disse – è una passione che il destino mi ha in-vitato a coltivare.La sua voce aveva una nota struggente, mi parve, come un rimpianto o unapena. I suoi occhi erano lustri, e il volto glabro pareva più pallido sotto laluce del vagone ristorante. Aveva mani delicate e i gesti stanchi. C’era unasorta di incompiutezza, nel suo aspetto, qualcosa di dimidiato18, ma era dif-ficile dire che cosa: pensai a qualcosa di infermo e di nascosto, come unavergogna.Tornammo nel nostro scompartimento continuando a conversare, ma orala sua verve si era affievolita e il nostro colloquio era intercalato da lunghisilenzi. Mentre ci disponevamo a prepararci per la notte, solo per dire qual-cosa, senza una ragione specifica, gli chiesi perché viaggiasse in treno, piut-tosto che in aereo. Pensavo che per una persona della sua età sarebbe statopiù agevole e comodo usare l’aereo, invece di sottoporsi a un viaggio cosìlungo; e probabilmente mi aspettavo la confessione del timore di un similemezzo di trasporto, come a volte accade a persone che non vi furono abi-tuate nella giovinezza.Il signor Peter mi guardò perplesso, come se non ci avesse mai pensato.Poi si illuminò all’improvviso e disse:– Con l’aereo si fanno viaggi comodi e rapidi, ma si salta la vera India.Certo con i treni che fanno lunghi percorsi c’è il rischio di arrivare anchecon un giorno di ritardo; ma se si ha la fortuna di indovinare il treno giustosi può fare un viaggio molto confortevole e arrivare con estrema puntualità.E poi sul treno c’è sempre il piacere di una conversazione che l’aereo nonpermette.Fu più forte di me e mormorai:– India, a travel survival kit. – Come? – disse lui.– Niente – risposi – mi era venuto in mente un libro –. E poi dissi con si-curezza: – Lei non è mai stato a Madras.Il signor Peter mi guardò con candore.– Per conoscere un luogo non è sempre necessario esserci stati – affermò.Si tolse la giacca e le scarpe, infilò la sua valigetta sotto il cuscino, tirò latenda della sua cuccetta e mi augurò la buona notte.Avrei voluto dirgli che anche lui aveva una tenue speranza, e per questoaveva preso il treno: perché preferiva cullarla e assaporarla a lungo, invecedi bruciarla nel breve spazio di un viaggio aereo, ne ero certo. Ma natural-

16. Si tratta di un piccolostato fondato dai mercantiportoghesi sulla costaoccidentale dell’India nelXVI secolo. Rimase sotto ildominio portoghese per450 anni fino al 1961,quando venne inglobatodall’India.17. Pondicherry è una cittàfondata dai francesi nelXVII secolo sulla costa sudorientale dell’India erimasta in possesso dellaFrancia fino al 1956.18. Dimezzato, diviso ametà.

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mente non dissi niente, spensi la luce centrale, lasciai la veilleuse azzurra19,tirai la mia tenda e gli augurai la buona notte.

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Ci svegliò il fastidio della luce accesa all’improvviso e una voce che chie-deva qualcosa. Dal finestrino si vedeva una baracca di tavole rischiarata dauna luce fioca, con un cartello incomprensibile. Il controllore era accom-pagnato da un poliziotto molto scuro dall’aria sospettosa.– Stiamo entrando nel paese Tamil Nadu20 – disse il controllore con un sor-riso – è una pura formalità –. Il poliziotto tese la mano e disse: – Documenti, prego.Guardò il mio passaporto con aria distratta e lo richiuse subito. Sul docu-mento del signor Peter si trattenne con maggiore attenzione. Mentre loesaminava mi accorsi che era un passaporto israeliano.– Mister... Shi… mail? – sillabò faticosamente il poliziotto.– Schlemihl – corresse il mio compagno di viaggio – Peter Schlemihl.Il poliziotto ci restituì i documenti, spense la luce e si accomiatò fredda-mente. Il treno aveva ripreso a correre attraverso la notte indiana, la lucedella lampada azzurra creava un’atmosfera di sogno, restammo a lungo insilenzio, poi alla fine io parlai.– Lei non può avere questo nome – dissi – esiste un solo Peter Schlemihl,è un’invenzione di Chamisso21, e lei lo sa perfettamente. Una cosa del ge-nere va bene per un poliziotto indiano.Il mio compagno di viaggio non rispose. Poi mi chiese:– Le piace Thomas Mann?– Non tutto – risposi.– Che cosa?– I racconti, alcuni romanzi brevi, Tonio Kröger, Morte a Venezia.– Non so se conosce una prefazione al Peter Schlemihl – disse lui – è untesto ammirevole.Il silenzio cadde di nuovo. Pensai che il mio compagno si fosse addormen-tato, ma non poteva essere, certo. Aspettava solo che parlassi io, e io parlai. – Che cosa va a fare a Madras?Il mio compagno di viaggio non rispose subito. Tossì leggermente.– Vado a vedere una statua – sussurrò.– È un lungo viaggio, per vedere una statua.Il mio compagno non rispose. Si soffiò il naso a più riprese.– Voglio raccontarle una piccola storia – disse poi – ho voglia di raccon-tarle una piccola storia –. Parlava sommessamente e la sua voce mi giun-geva attutita da dietro la tenda. – Molti anni fa, in Germania, conobbi unuomo. Era un medico, e doveva visitarmi. Stava seduto dietro una scriva-nia e io stavo in piedi nudo davanti a lui. Dietro di me c’era una fila dialtri uomini nudi che egli doveva visitare. Quando ci avevano condotti inquel luogo ci avevano detto che noi servivamo al progresso della scienzatedesca22. Accanto al medico c’erano due guardie armate e un infermiere

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19. Si tratta della lampadadalla luce azzurra cherimane accesa durante lanotte negli scompartimentiferroviari, senza disturbareil sonno dei viaggiatori. Dalfrancese veille, veglia.20. Come detto inprecedenza, il Tamil Naduè la regione sud orientaledell’India21. A. von Chamissopubblicò nel 1814 la Storiastraordinaria di PeterSchlemihl, in cui ilprotagonista viveva molteavventure originatedall’aver barattato con ildemonio la sua ombra perun sacco dal qualesarebbero uscitecontinuamente moneted’oro.22. Il racconto di Peter fariferimento al fatto chemolti degli ebreiperseguitati dai nazisti nelcorso della seconda guerramondiale rientrarono inspeciali programmi distudio nel campo dellaricerca medica, come cavieumane.

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che riempiva delle schede. Egli ci poneva delle domande precise concer-nenti le nostre funzioni virili, l’infermiere procedeva a certe analisi sui no-stri corpi, e poi scriveva. La fila procedeva svelta, perché quel medicoaveva fretta. Quando avevo già superato il mio turno, invece di proseguireverso la stanza in cui ci conducevano, indugiai qualche attimo, perché ilmio sguardo fu attratto da una statuetta che il medico teneva sulla scriva-nia. Era la riproduzione di una divinità orientale, ma io non l’avevo maivista. Rappresentava una figura danzante, con le braccia e le gambe in po-sizioni armoniche e divergenti iscritte in un circolo. C’erano solo pochispazi aperti in quel circolo, piccoli vuoti che aspettavano di essere chiusidall’immaginazione di chi lo guardava. Il medico si accorse del mio rapi-mento e sorrise. Aveva una bocca sottile e beffarda. – Questa statua rap-presenta il circolo vitale – disse – nel quale tutte le scorie devono entrareper raggiungere la forma superiore della vita che è la bellezza. Le auguroche nel ciclo biologico previsto dalla filosofia che concepì questa statua leipossa avere, in un’altra vita, un gradino superiore a quello che le è toccatonella sua vita attuale23.Il mio compagno di viaggio tacque. Nonostante il rumore del treno potevoavvertire perfettamente la sua respirazione pausata e profonda. – Vada avanti, la prego – dissi.– Non c’è molto da aggiungere – disse lui – quella statua era l’immagine diShiva danzante, ma io allora non lo sapevo. Come vede non sono ancoraentrato nel circolo del riciclaggio vitale24, e la mia interpretazione di quellafigura è un’altra. Ci ho pensato ogni giorno, è l’unica cosa a cui ho pensatoin tutti questi anni.– Quanti anni sono passati?– Quaranta.– Si può pensare a una sola cosa per quarant’anni?– Credo di sì, se si è provata su di noi la turpitudine.– E quale è la sua interpretazione di quella figura?– Credo che essa non rappresenti affatto il circolo vitale. Rappresenta sem-plicemente la danza della vita.– In che cosa consiste la differenza? – chiesi io.– Oh, è molto diverso – sussurrò il signor Peter. – La vita è un cerchio. C’èun giorno in cui il cerchio si chiude, e noi non sappiamo quale –. Si soffiòdi nuovo il naso e poi disse: – E ora mi scusi, sono stanco, se permette vor-rei cercare di dormire.

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Mi svegliai nei dintorni di Madras. Il mio compagno di viaggio era già ra-sato e pronto nel suo impeccabile vestito blu. Aveva un’aria riposata e sor-ridente, aveva rialzato la sua cuccetta e mi indicava il vassoio della cola-zione posato sul tavolo accanto al finestrino.– Ho aspettato che si svegliasse per prendere il tè insieme – disse. – Non hovoluto disturbarla, dormiva così bene.

23. Come poco oltre ilracconto chiarirà, si trattadella statua di Shiva, unadelle tre divinità maggioriindu. Il discorso fatto dalmedico spiega un concettoproprio della religioneinduista secondo la qualeogni forma di vita, anchequelle che appaiono piùbasse, assumerannoattraverso un ciclosuccessivo direincarnazioni una formapiù alta e perfetta.Sottintesa è la teoriapropria del nazismosecondo cui solo la razzaariana era superiore,mentre quella semitica,ovvero quella ebrea, erainferiore e imperfetta. Nelleparole del medico sifondono perciò la teorianazista con quella dellareligione indu.24. Ovvero non è ancoramorto; solo attraverso lamorte, secondo la religioneinduista, si entra nel ciclodelle reincarnazioni.

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Entrai nello stanzino del lavabo e feci rapidamente la toeletta mattutina,raccolsi le mie cose, sistemai il mio bagaglio e mi sedetti davanti alla cola-zione. Cominciavamo a percorrere un luogo abitato, una zona di villaggipopolosi con le prime avvisaglie di città.– Come vede siamo in perfetto orario – disse il mio compagno – sono lesette meno un quarto –. Piegò con cura il suo tovagliolo. – Mi piace-rebbe che anche lei andasse a vedere quella statua – aggiunse – si trovanel museo di Madras. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa –. Si alzò inpiedi e prese la sua valigetta. Mi tese la mano e mi salutò col suo tono af-fabile. – Sono grato alla mia guida di viaggio che consigliava questomezzo di trasporto – disse, – è vero che sui treni indiani si possono faregli incontri più inattesi: la sua compagnia è stata per me un piacere e unconforto.– È un piacere reciproco – replicai – sono io che sono grato ai consigli dellamia guida.Stavamo entrando nella stazione, davanti a un marciapiede brulicante difolla. Il treno azionò i freni e il convoglio si fermò dolcemente. Gli cedettiil passo ed egli scese per primo, facendomi un cenno di saluto con la mano.Mentre si allontanava lo chiamai e lui si voltò.– Non so dove potrei eventualmente comunicarle la mia opinione – gridai– non ho il suo indirizzo.Lui tornò sui suoi passi, con quell’aria perplessa che già gli conoscevo, e ri-fletté un istante.– Mi lasci un messaggio all’American Express25 – disse – passerò a racco-glierlo.Poi ciascuno di noi si perse tra la folla.

* * *

A Madras restai solo tre giorni. Furono giorni intensi, quasi febbrili. Ma-dras è una città enorme di case basse e di immensi spazi incolti, ingorgatada un traffico di biciclette, di autobus sconnessi e di animali; per percor-rerla da una punta all’altra ci vuole molto tempo. Assolti gli obblighi chemi aspettavano mi restò un solo giorno di libertà, e al museo preferii unavisita ai rilievi rupestri di Kancheepuram26, che distano molti chilometridalla città. La mia guida, anche in quell’occasione, si rivelò una preziosacompagnia.La mattina del quarto giorno mi trovavo in una stazione degli autobus chefanno il percorso per il Kerala e per Goa27. Mancava un’ora alla partenza,faceva un caldo torrido e le pensiline dell’enorme hangar della stazioneerano l’unico rifugio contro la calura delle strade. Per ingannare l’attesacomprai il giornale in lingua inglese di Madras. Era un giornale di appenaquattro fogli, dall’aspetto di giornale di parrocchia, con molti annunci diogni specie, riassunti di film popolari, cronaca cittadina. In prima pagina,con molto rilievo, c’era la notizia di un omicidio avvenuto il giorno prece-dente. La vittima era un cittadino di nazionalità argentina che viveva a Ma-

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25. American Express èuna società nata inAmerica nel 1850,specializzata in servizifinanziari e di viaggio. Nellesue sedi sparse in tutto ilmondo, è possibile fareoperazioni finanziarie dicambio e di credito,usufruire di una sorta difermo posta per recapitaremessaggi personali,comunicare attraverso iltelefono.26. Cfr. nota 8.27. Il Kerala è uno statoche occupa una lunga estretta striscia di terracostiera nella zona sudoccidentale dell’India; perGoa cfr. nota 16.

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dras dal 1958. Era descritto come un signore schivo e discreto, senza ami-cizie, settantenne, che viveva in una villetta nel quartiere residenziale diAdyar. La moglie era deceduta tre anni prima per cause naturali. Non ave-vano figli.Era stato ucciso con un colpo di pistola al cuore. Era un omicidio apparen-temente inspiegabile, perché l’assassino non aveva agito a scopo di furto.La casa risultava in ordine, senza tracce di scassi. L’articolo descriveval’abitazione come una residenza semplice e sobria, con alcuni pezzid’arte di buon gusto e un piccolo giardino. Pareva che la vittima fosse unintenditore di arte dravidica; il giornale menzionava alcuni servigi resinella catalogazione del locale museo e riportava la fotografia di uno sco-nosciuto: il viso di un vecchio calvo, con gli occhi chiari e la bocca sot-tile.Era una descrizione neutra e anodina28. L’unico particolare curioso era lafotografia di una statuetta abbinata al volto della vittima. Si trattava certo diun abbinamento plausibile, perché la vittima era un intenditore di arte dra-vidica e la danza di Shiva è il pezzo più noto del museo di Madras, una spe-cie di simbolo. Ma quell’accostamento plausibile suscitò in me un altro ac-costamento. Mancavano ancora venti minuti alla partenza, cercai untelefono e feci il numero dell’American Express. Mi rispose una signorinagentile.– Vorrei lasciare un messaggio per il signor Schlemihl – dissi.La signorina mi pregò di attendere un attimo e poi disse:– Per il momento non abbiamo nessuna persona con un recapito a questonome, ma se lo desidera può lasciare ugualmente il suo messaggio, gli saràconsegnato appena passerà.– Pronto, pronto – ripeté la telefonista che non sentiva più la mia voce. –Un attimo, signorina – dissi – mi lasci riflettere un attimo.Che cosa potevo dire? Pensai al ridicolo del mio messaggio. Forse cheavevo capito? E che cosa? Che per qualcuno il cerchio si era chiuso?– Non ha importanza – dissi – ho cambiato idea –. E riattaccai.

Non escludo che la mia immaginazione abbia lavorato più del consentito.Ma se avessi indovinato quale era l’ombra che il signor Schlemihl avevaperduto; e se mai gli capitasse di leggere questo racconto, per lo stessostrano caso che ci fece incontrare quella sera in treno, vorrei che gli giun-gesse il mio saluto. E la mia pena.

Treni che vanno a Madras, in Piccoli equivoci senza importanza, Feltrinelli, Milano 198528. Insignificante.

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STRUMENTI DI LETTURALa storiaLa vicenda esprime in modo esemplare il

concetto, tipico di Tabucchi, dalla vita come rebus.Attraverso quali misteriosi passaggi, infatti, si puòcollegare un incontro casuale durante un viaggio intreno nella remota India all’angoscia dei campi disterminio nazisti nell’Europa sconvolta dall’ultimaguerra mondiale? E poi, questo collegamento esistedavvero, oppure è soltanto frutto dell’interpreta-zione del protagonista del racconto? E il cerchio, allafine, si chiude davvero? e per chi? Il finale rimaneaperto, e il rebus irrisolto.

I personaggiIl protagonista-narratore definisce il suo

viaggio «perfettamente incongruo» e descrive sestesso come «un essere vagante e illogico». Si pre-senta dunque come un personaggio che non amarispettare le regole e stare in schemi predefiniti.Per esempio, si dice agnostico, ma si sobbarca duegiorni di treno per andare a Madras a visitare laSocietà Teosofica; viaggia in treno e non in aereo– cosa che gli farebbe risparmiare tempo – perchévuole vedere «la vera India» e non quella dei cir-cuiti turistici predefiniti. Durante il suo percorso,in modo del tutto inatteso, entra in contatto conun misterioso viaggiatore che si presenta con ilnome fittizio di un personaggio letterario – PeterSchlemihl, l’uomo che in un racconto di Adalbertvon Chamisso vende la sua ombra al diavolo – etalora si esprime con le identiche parole del libroche il narratore usa come guida turistica. Anche ilpasseggero appare, a suo modo, non meno «illo-gico» del narratore: provvisto di un bagaglio mi-nimo, vestito in modo incongruo rispetto al climaindiano, affabile ma riservato, è di età e di nazio-nalità indefinibili. Viaggia però con passaportoisraeliano.

Il tempoll tempo del viaggio in treno diventa un

viaggio nel tempo e anche un viaggio all’interno del-l’enigma rappresentato dall’uomo che ha il nome diun personaggio letterario. Dunque, anche il lettoredeve andare indietro nel tempo, è invitato a stornarela propria attenzione dal “presente” di questo rac-conto, quello di Tabucchi, al “passato” di un altroracconto, quello di Chamisso, alla ricerca di un pos-sibile scioglimento del rebus circa l’identità del mi-sterioso viaggiatore. Non si tratta solamente, però,di rimandi letterari: c’è anche il tempo della Storia,

quella presente che si intreccia con quella passata,che ritorna, incancellabile, quella della guerra e deicampi di sterminio.

Lo spazioL’immensità caotica dell’India, i suoi gro-

vigli di strade, di gente, di traffico, di case, di vegeta-zione, apre e chiude il racconto. Tra lo spazio apertoe illimitato dell’India dell’incipit e della chiusa, c’è lospazio limitato del treno, l’angusto scompartimentodove, poco alla volta, fra allusioni, reticenze, ambi-guità si costruisce il rebus dettato dal viaggiatore mi-sterioso.

Il narratoreLe perplessità del narratore diventano le

stesse del lettore: sperduto tra le varie interpretazionipossibili, si sente intrappolato come tra le figure diun insolubile rebus illustrato. Né il narratore, né illettore riescono perciò a dare un ordine all’universo,destabilizzando qualsiasi tipo di certezza e costrin-gendosi a riflettere su un mondo dai molteplici signi-ficati.

Le tecniche narrativeSeppure con finalità del tutto particolari,

l’andamento narrativo del racconto potrebbe essereparagonato a quello di un giallo (del resto, nella sto-ria non manca il classico delitto). Tabucchi, infatti,procede accumulando indizi, dettagli inquietanti, al-lusioni misteriose, anche se nella sua opera l’infit-tirsi del mistero non culmina nella soluzione finale ela tensione non si scioglie in una liberatoria “spiega-zione”. Al contrario, il mistero rimane tale, nonsolo, ma in conclusione diventa ancora più inquie-tante perché sentiamo che il «cerchio» non si èchiuso, e la realtà rimane alla fine sostanzialmenteindecifrabile.

La lingua e lo stileLa scrittura di Tabucchi è semplice e al

tempo stesso raffinata, intensa e coinvolgente masempre venata d’ironia. Evoca vividamente am-bienti, personaggi e situazioni, eppure rimaneben lontana da qualsiasi tipo di realismo. Il suostile ha un andamento apparentemente lineare,ma da esso scaturisce alla fine un mondo com-plesso e quasi indecifrabile, cosicché la fedeltà aldato reale sfuma continuamente in una dimen-sione di sogno.

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DOMANDE DI VERIFICAAlle righe 11-18 e 122-127 si trovano due passi quasi identici. In base ai contenuti del racconto,sapresti spiegare che cosa comprende il protagonista a proposito del suo interlocutore Peter at-traverso le parole che questi ripete dalla guida di viaggio?

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Il nome Peter Schlemihl scritto sul passaporto del viaggiatore risulta essere:

Un nome israeliano, come la nazionalità del suo possessoreUn falso, derivato da un racconto di Thomas MannIl nome del protagonista di un romanzo di ChamissoIl nome di un medico tedesco

L’ambientazione della prima parte del racconto si trova:

Nell’India meridionale In un treno di lunga percorrenza con destinazione MadrasNella città di BombayTra Goa e Pondicherry

“E quale è la sua interpretazione di quella figura?”.“Credo che essa non rappresenti affatto il circolo vitale. Rappresenta semplicemente la danzadella vita”.“In che cosa consiste la differenza? – chiesi io”.“Oh, è molto diverso – sussurrò il signor Peter. – La vita è un cerchio. C’è un giorno in cui il cer-chio si chiude, e noi non sappiamo quale”.Sulla base dei contenuti del racconto e anche del suo finale, quale interpretazione pensi sipossa dare a questa precisazione di Peter sul significato della statua di Shiva come cerchio enon come circolo vitale?

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Che cosa significa nella parte finale del racconto l’espressione “se avessi indovinato quale eral’ombra che il signor Schlemihl aveva perduto [...] vorrei che gli giungesse il mio saluto. E la miapena”.....................................................................................................................................................................................................................................

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Sapendo che l’agnello nella religione ebraica e cristiana è un animale che rappresenta la vittimasacrificata per riparare al male che esiste nel mondo, sapresti interpretare la scelta di Peter diprendere per cena l’agnello e di consigliarlo al suo compagno di viaggio “perché è un cibo nobilesacrificale”?

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Considera come possibile l’interpretazione che nel finale propone il protagonista-narratore se-condo cui Peter avrebbe compiuto un lungo viaggio per arrivare, dopo quarant’anni, a commet-tere l’omicidio del medico nazista del campo a cui era stato assegnato. Per quali motivi secondote il protagonista dice di provare “pena”?

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Isaac Bashevis Singer

Il figlioanno 1970

luogoPolonia

genereracconto realistico

1. Il testo fa riferimento agli ebrei che si sono conformatialle abitudini di vita dei popoli lontani dalla Palestinapresso cui si sono stabiliti per via della diaspora.2. Il rabbino, all’interno delle comunità di religione ebraica,è colui che, dopo avere studiato i testi sacri e le loro

maggiori interpretazioni, è in grado di insegnare ecommentare i libri biblici e di decidere sui problemi dellavita quotidiana sulla base dei principi religiosi. Portanonormalmente una lunga barba e l’abito nero.

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Presentazione dell’opera La narrativa di Singer, costantemente fedele a certi temi e atteggiamenti, è sostanzialmente divisa in due filoni, che potremmo de-finire rispettivamente magico-folklorico e realistico. Nel primo, che si esprime in alcuni romanzi brevi e in numerosi racconti am-bientati nei villaggi della vecchia Polonia rurale, compaiono ogni sorta di demonietti o demoni maggiori, streghe vecchie o giovanie belle, amanti diabolici. In alcuni racconti scritti negli Stati Uniti viene introdotto anche il tema del «magico» contemporaneo, le-gato a fenomeni di telepatia e stati di allucinazione (Singer dichiarava di essere particolarmente attento a tutte le forme di cono-scenza non razionale). Nei romanzi e racconti di carattere realistico, spesso di evidente impronta autobiografica, Singer dà corpoa una narrativa attenta alle dinamiche storiche e sociali. Nei racconti di ambiente americano, come Il figlio, lo scrittore pone par-ticolare attenzione al mondo interiore dei personaggi, mettendone in luce travagli e debolezze. Centrale è il tema dell’identità, delloscontro tra un sistema di valori tradizionali e l’inesorabile processo di assimilazione dell’ebraismo alla cultura dominante.

Isaac Bashevis SingerScrittore polacco naturalizzato statunitense, nacque a Radzymin, presso Varsa-via, nel 1904. Sin dalla prima infanzia visse in un ambiente di profonda culturareligiosa. Figlio e nipote di rabbini, studiò alla scuola rabbinica (yeshivah) diVarsavia e quell’ambiente osservante e bizzarro, domestico e sacrale, costituìuna ricca fonte di spunti per la sua narrativa, in un inesauribile teatro di casiumani, personaggi curiosi, situazioni comiche o patetiche. Esordì con il romanzostorico Satana a Goray (1935) e nello stesso anno, prevenendo l’invasione te-desca della Polonia, emigrò a New York. Nonostante le sue opere si conoscanonella versione inglese, in parte tradotte da lui stesso (considerava queste tradu-zioni come un «secondo originale»), in parte da letterati americani come SaulBellow, Singer compose sempre in yiddish (cfr. nota 17 nel racconto), da lui definita «la saggia e umile lin-gua di noi tutti, l’idioma di un’umanità spaventata e piena di speranza». Il primo romanzo pubblicato in in-glese fu La famiglia Moskat (1950), cui seguirono, tra gli altri, La fortezza (1957), Il mago di Lublino (1960),Lo schiavo (1962), La proprietà (1969). Molte sono le raccolte dei suoi racconti, ad esempio Gimpel l’idiota(1957), Breve venerdì (1964), Un amico di Kafka (1970), Una corona di piume (1973), La morte di Methu-selah e altre storie (1988). La trilogia autobiografica Un ragazzo in cerca di Dio (1976), Un giovane in cercadi amore (1978) e Perduto in America (1981) ripercorre in particolare le tappe della sua evoluzione spiri-tuale. Tra i racconti e i romanzi autobiografici ricordiamo ancora Alla corte di mio padre (1966), Ricerca eperdizione (1984), mentre tra le raccolte di storie per l’infanzia, che attingono al patrimonio popolare dellaterra d’origine, vi sono Zlateh la capra (1966), Un giorno di felicità (1976), Quando Schlemiel andò a Var-savia (1978). Fu insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1978. Morì a Miami nel 1991.

a nave proveniente da Israele doveva arrivare a mezzogiorno, ma erain ritardo. Si fece sera prima che attraccasse a New York; poi do-vetti attendere ancora prima che si lasciassero sbarcare i passeggeri.Il tempo era caldo e piovoso. Una folla era venuta ad attendere l’ar-

rivo della nave. Mi parve che tutti gli ebrei della città fossero lì: ebrei assi-milati1, e anche rabbini con lunghe barbe e basette2; ragazze con un nu-

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mero impresso sul braccio nei campi di sterminio hitleriani3; ufficiali di or-ganizzazioni sioniste4 con cartelle rigonfie; studenti yeshivah5 con il cap-pello di velluto e la barba incolta; donne di mondo con il volto imbellettatoe le unghie laccate. Mi resi conto che ero di fronte a un’epoca nuova dellastoria ebraica. Quando mai gli ebrei avevano avuto navi? E se le avevanoavute, le loro navi si erano dirette a Tiro e a Sidone6, non a New York. Purammettendo per vera la folle teoria di Nietzsche sull’eterno ritorno7, eranodovuti passare quattro-cinque millenni prima che accadesse nel presenteun minimo degli eventi accaduti prima. Ma quell’attesa mi infastidiva. Mi-suravo ogni persona con gli occhi e ogni volta mi facevo la stessa domanda:che cosa rende costui mio fratello? Che cosa rende costei mia sorella? Ledonne di New York agitavano i ventagli, parlavano tutte insieme con vociroche, si ristoravano con cioccolata e coca-cola. Lo sguardo che si sprigio-nava dai loro occhi era di una durezza non ebrea. Era difficile credere cheappena pochi anni prima i loro fratelli e le loro sorelle d’Europa erano an-dati al macello come pecore miti8. Giovani ortodossi moderni, con minu-scoli zucchetti9 nascosti come cerotti nei capelli folti, parlavano ad alta vocein inglese e scherzavano con le ragazze, che nel contegno e nelle vesti nonmostravano alcun segno della loro religione. Persino i rabbini qui eranodiversi, ben diversi da mio padre e da mio nonno. A me, tutta quella gentepareva mondana e scaltra. Quasi tutti, eccetto me, si erano procurati il per-messo di salire sulla nave. E facevano conoscenza fra loro con insolita rapi-dità, si scambiavano informazioni, scotevano il capo con l’aria di chi la salunga. Incominciarono a sbarcare gli ufficiali della nave, rigidi nelle lorouniformi con le spalline e i bottoni dorati. Parlavano in ebraico, ma ave-vano l’accento dei gentili10.

Rimasi fermo ad attendere un figlio che non vedevo da vent’anni. Avevacinque anni quando mi ero separato da sua madre. Io ero venuto in Ame-rica, lei era andata nella Russia sovietica. Ma evidentemente una rivolu-zione11, a lei, non era bastata. Voleva la rivoluzione permanente. E, aMosca, l’avrebbero liquidata, se non avesse avuto dalla sua chi poteva es-sere ascoltato in alto loco. Le sue vecchie zie bolsceviche12, reduci dalle pri-gioni polacche per attività comunista, avevano interceduto per lei, e se l’eracavata con la deportazione13 in Turchia, con il suo bimbo. Di là aveva tro-vato il modo di raggiungere la Palestina, e vi aveva allevato nostro figlio inun kibbutz14. Ora egli veniva a trovarmi.

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3. Durante la secondaguerra mondiale gli ebreiche vennero internati neicampi di concentramentovennero marchiati con unnumero sul braccio, unicosegno della loro identità.4. Le organizzazionisioniste nacquero alla finedel XIX secolo tra gli ebreiresidenti in Europa peristituire uno stato ebraicoin terra d’Israele.Soprattutto in seguitoall’antisemitismo del ’900le organizzazioni sioniste sioccuparono anche diraccogliere informazioni emateriali giudiziari peragire legalmente contro iloro persecutori.5. La yeshivah è una scuolapresso cui si impara lostudio dei testi sacridell’ebraismo (Torah), èdiretta da un rabbino e sidivide in piccola (in cui sifornisce un’istruzione dibase) e grande (in cui siapprofondiscono gli studi alivello universitario).6. Tiro e Sidone erano cittàfenicie, situate sulla costaa nord della Palestina. Ilprotagonista allude quiall’epoca antica, in cui icommerci via naveportavano alle città discambio più vicine e nonoltreoceano, in America,per via della diaspora edelle persecuzioni.7. Nietzsche, filosofovissuto tra la fine dell’800e l’inizio del ’900 parlò di‘eterno ritorno’, teoriasecondo la quale nellaStoria e nella vita diognuno le cose cheaccadono non sonoinfinite, ma anzi possonoripresentarsi in modo taleche eventi già vissutipossono ritornare infinitevolte nel futuro.8. Il protagonista pone aconfronto i tranquilli ebreid’America con quelli chepochi anni prima, inEuropa, erano stativittima delle persecuzioninaziste.9. Si fa riferimento allakippah, un piccolo cappelloa forma di zuccotto chetutti gli uomini di religioneebraica portano sul capo.10. I gentili secondo la

religione ebraica sono tutti coloro che non appartengonoal popolo eletto, ovvero i non ebrei.11. Si fa riferimento al movimento rivoluzionario che portòla Russia nel 1917 al rovesciamento della monarchiazarista e all’instaurazione del primo Soviet.12. I bolscevichi ritenevano che in Russia proletari econtadini dovessero guidare la rivoluzione, concordandocon le tesi di Lenin. Dalla rivoluzione del 1917 si diconobolscevichi tutti colori che, in tutto il mondo e non solo inRussia, concordavano con le tesi del socialismo. Il testo fa

riferimento ad alcune zie della moglie del protagonistaimprigionate in Polonia proprio per avere aderito alle tesidei bolscevichi.13. Si tratta del forzato allontanamento dalla terra in cui sivive per essere trasferiti in un luogo lontano, senza lestesse condizioni economiche, sociali e civili.14. Il kibbutz è un’associazione volontaria di lavoratorinello stato d’Israele, basata sul possesso comune dellaterra e sull’uguaglianza sociale e civile.

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Mi aveva mandato una fotografia fatta al tempo in cui aveva servito l’eser-cito e combattuto gli arabi15. Ma era sfocata, e per di più lo ritraeva in uni-forme. Ora, mentre i primi passeggeri cominciavano a sbarcare, mi vennein mente che non avevo un’immagine chiara dell’aspetto di mio figlio. Eraalto? Basso? I suoi capelli biondi erano diventati scuri con gli anni? L’arrivodi quel figlio in America mi riportava indietro in un’epoca che avevo con-siderato già relegata nell’eternità. Egli emergeva dal passato come un fan-tasma. Non si inseriva nella mia attuale vita privata, né fuori avrebbe le-gato con le mie conoscenze. In casa non avevo una stanza per lui, non unletto, né denaro, né tempo. Come quella nave che batteva bandiera biancae blu con la stella di Davide16, egli costituiva una strana combinazione delpassato e del presente. Mi aveva scritto che di tutte le lingue da lui parlatenell’infanzia, l’yiddisch17, il polacco, il russo, il turco, ora parlava soltantol’ebraico. Così sapevo in anticipo che, con quel poco di ebraico che avevoappreso dal Talmud e dal Pentateuco, non mi sarebbe stato possibile con-versare con lui. Invece di parlare da padre a mio figlio, avrei farfugliato eavrei dovuto cercare le parole nei vocabolari.

Le spinte e il chiasso aumentavano. La banchina era in tumulto. Tutti urla-vano e si lanciavano in avanti con la gioia esagerata della gente che ha per-duto il senso della misura per quanto riguarda le conquiste terrene. Ledonne gridavano istericamente; gli uomini piangevano con mugolii rochi. Ifotografi scattavano fotografie, e i cronisti si precipitavano dall’uno all’al-tro, facendo frettolose interviste. Poi accadde quel che mi accade semprequando faccio parte di una folla: mentre tutti divenivano una sola famiglia,io rimanevo un estraneo. Nessuno parlava con me, né io con gli altri. Laforza segreta che li aveva uniti mi metteva in disparte. Certi sguardi mi mi-suravano assenti, quasi dicessero: che cosa fa qui costui? Quando tentai,vincendo la riluttanza, di fare una domanda a qualcuno, l’altro non miascoltò, o almeno se ne andò via prima ancora che finissi di parlare. Avreipotuto benissimo essere uno spettro. Dopo un poco mi risolsi, come sem-pre in casi simili, a fare pace col destino. Mi tenni in un angolo, lontano daltrambusto, e osservai le persone a mano a mano che scendevano dalla nave,selezionandole nella mia mente. Mio figlio non poteva essere tra i vecchi,né fra le persone di mezza età. Non poteva avere i capelli nero pece, lespalle larghe e gli occhi ardenti; un tipo del genere non poteva essere ger-mogliato dai miei lombi. Ma a un tratto apparve un giovane stranamentesimile al soldato dell’istantanea, alto, magro, piuttosto curvo, con il nasolunghetto e il mento stretto. «Questo è lui», qualcosa proruppe in me. Mistrappai dal mio cantuccio per corrergli incontro. Egli cercava qualcuno.L’amore paterno mi si destò dentro. Aveva le guance incavate e un palloremalato soffuso sul viso. È malato, è tisico, pensai ansiosamente. Avevo giàaperto la bocca per chiamare «Gigi», come sua madre ed io lo chiamavamoda bambino, quando improvvisamente un donnone caracollò verso di lui elo serrò tra le braccia. Il suo pianto si tramutò in una specie di latrato; pre-sto una folla di altri parenti lo circondò. Mi avevano portato via un figlioche non era mio! In quel fatto sentivo una specie di ratto spirituale. I miei

15. Il testo allude alconflitto tra gli ebrei che sisono stabiliti sul territoriodella Palestina e gli arabiche lo abitavano inprecedenza.16. La bandiera bianca astrisce blu con la stella diDavide in centro è quelladello stato d’Israele.17. Significa giudaico e siriferisce alla lingua che gliebrei parlarono nell’Europacentrale e orientale tra il Xe il XVII secolo; tuttora èdiffusa in numerosecomunità in tutto ilmondo. E scritta con icaratteri dell’alfabetoebraico ma si distanziadall’originale perché fondeuna particolare linguagermanica medievale conelementi della linguaebraica e aramaica.

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sentimenti paterni si sentirono umiliati e arretrarono in fretta in quel na-scondiglio dove le emozioni possono rintanarsi per anni senza farsi sentire.Ebbi la sensazione di essere arrossito di vergogna, come se fossi stato col-pito in faccia. Stabilii di attendere con pazienza, di non lasciare i miei senti-menti prorompere prematuramente. Per un pezzo non sbarcò più alcunpasseggero. Che cos’è un figlio, in fondo? pensavo. Che cosa rende il mioseme più importante per me che per un altro? Che valore ha un legame disangue e di carne? Siamo tutti schiuma dello stesso calderone. Se retrocedidi un certo numero di generazioni scopri che probabilmente tutta questafolla di sconosciuti ha avuto un avo in comune. E fra due o tre generazionii discendenti di coloro che ora sono parenti saranno estranei. Tutto è tem-poraneo e passeggero; siamo spuma dello stesso oceano, pantano della stessapalude. Poiché non si può amare tutti, non si dovrebbe amare nessuno.

Altri passeggeri sbarcarono. Tre giovani comparvero insieme e li esaminai.Nessuno dei tre era Gigi; e comunque, se uno lo fosse stato, nessuno me loavrebbe tolto. Fu un sollievo vedere che ciascuno dei tre se ne andava conqualcun altro. Nessuno di loro mi era piaciuto. Appartenevano alla feccia.L’ultimo si era persino voltato e mi aveva lanciato un’occhiata aggressiva,come se in qualche modo misterioso avesse captato i miei pensieri di di-sapprovazione per lui e per i suoi simili.

Se è mio figlio, sbarcherà per ultimo, mi venne in mente a un tratto, e ben-ché questa fosse una supposizione, non so come, ero certo che sarebbestato così. Mi ero armato di pazienza e di quella rassegnazione che è sem-pre pronta in me a immunizzarmi contro i miei fallimenti e a frenare qual-siasi velleità di liberarmi dalle mie limitazioni. Continuai a osservare ognipasseggero attentamente, cercando di indovinare il carattere e la persona-lità dall’aspetto e dal vestito. Forse era soltanto frutto d’immaginazione,ma ogni volto mi trasmetteva i suoi segreti e mi pareva di sapere esatta-mente come funzionava ogni cervello. Tutti i passeggeri avevano qualcosain comune: la fatica di un lungo viaggio attraverso l’oceano, l’irritabilità el’insicurezza della gente che arriva in un paese nuovo. Gli occhi chiede-vano tutti, con un’ombra di delusione: è questa l’America? Una ragazza conil numero impresso sul braccio scosse irosamente il capo. Il mondo interoera un Auschwitz18. Un rabbino lituano, con la barba grigia tagliata tonda egli occhi sporgenti, stringeva un pesante volume. Lo aspettava un gruppodi studenti yeshivah19 e appena egli li raggiunse incominciò a predicare conlo zelo stizzito di uno che possieda la verità e cerchi di divulgarla in frettae furia. Lo udii dire: «Torah... Torah...20». Avrei voluto chiedergli perché laTorah non avesse difeso e salvato milioni di ebrei dai forni crematori21 diHitler. Ma a quale scopo chiederglielo, quando già sapevo la risposta? «Imiei pensieri non sono i vostri pensieri». Subire il martirio in nome di Dioè il più alto dei privilegi. Un passeggero parlava una specie di dialetto chenon era né tedesco né jiddisch, ma un pasticcio inintelligibile attinto a libriantichi. Strano, quelli che erano venuti ad attenderlo chiacchieravano nellostesso linguaggio.

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18. Uno dei campi disterminio più tristementenoti durante lapersecuzione nazista degliebrei. 19. Cfr nota 5.20. La Torah nella religioneebraica indica i primi 5libri delle Sacre Scritture(Genesi, Esodo, Levitico,Numeri, Deuteronomio) ai quali si riferisce il nucleopiù antico ed essenzialedella religione ebraica, in cui sono contenute le principali norme dicomportamento e di purità.21. Il testo si riferisce alpiano di sterminio di Hitlerdurante la seconda guerramondiale, per cui dopoavere ucciso gli ebrei nellecamere a gas, i loro corpivenivano bruciati in forni;le ceneri poi, come si dicepoco più avanti nel testo,venivano poste in anonimefosse.

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Pensai che nel più completo caos esistono leggi precise. I morti restanomorti. Coloro che vivono hanno i loro ricordi, i loro calcoli, i loro pro-getti. Chi sa dove, nei fossati della Polonia, vi sono le ceneri di coloro chefurono bruciati. In Germania, gli ex nazisti giacciono nei loro letti, ognunocon l’elenco dei propri delitti, delle torture, degli stupri più o meno vio-lenti. Chi sa dove, deve esservi un Onnisciente che conosce i pensieri diogni essere umano, che sa le sofferenze di ogni infima creatura, che cono-sce ogni cometa, ogni molecola della più lontana galassia. Gli parlai. Bene,potente Onnisciente, per te ogni cosa è giusta. Tu sai tutto e sei informatodi tutto... per questo sei tanto bravo. Ma che cosa debbo fare io con le miebriciole di realtà?… Sì, debbo attendere mio figlio. Di nuovo era cessato losbarco dei passeggeri; pensai che dovevano essere scesi a terra tutti. Di-venni nervoso. Forse mio figlio non era a bordo di quella nave? Forse melo ero lasciato sfuggire? E se si fosse gettato nell’oceano? Quasi tutti se neerano andati dalla banchina e intuivo che gli inservienti si preparavano aspegnere le luci. Che cosa dovevo fare adesso? Avevo avuto una premoni-zione: doveva andare storto qualcosa con quel figlio che per vent’anni erastato per me soltanto una parola, un nome, una colpa sulla coscienza.

Improvvisamente lo vidi. Scendeva lentamente, incerto, con l’espressionedi chi non si aspetti che qualcuno gli sia venuto incontro. Non smentiva lasua fotografia, ma pareva più vecchio. Aveva rughe giovanili nel volto e gliabiti sgualciti. Dimostrava la trascuratezza e la negligenza di un giovaneche non ha casa, che ha passato anni in luoghi strani, che ha avuto parec-chie traversie ed è invecchiato precocemente. Tra i suoi capelli arruffati escarmigliati mi parve di vedere qualche filo di paglia o di fieno, come dichi dorme nei fienili. I suoi occhi azzurri, che guardavano di traverso sottole sopracciglia biancastre, avevano il sorriso semicieco di un albino22. Por-tava con sé una cassetta di legno come una recluta dell’esercito, e un paccoavvolto in carta marrone. Invece di corrergli subito incontro, rimasi im-mobile, a bocca aperta. Il portamento del dorso era leggermente curvo,non come quello di uno studente yeshivah23, ma piuttosto di chi è abituatoa portare sulle spalle carichi pesanti. Assomigliava a me, ma riconobbi al-cune caratteristiche di sua madre, l’altra metà che non poté mai fondersicon la mia. Persino in lui, che era il prodotto di noi due, non armonizza-vano le nostre caratteristiche contrastanti. Le labbra della madre non si ac-cordavano con il mento del padre. Gli zigomi sporgenti non s’intonavanocon la fronte alta. Egli si guardò intorno attentamente e il suo volto dicevabonario: «Naturalmente, non è venuto a incontrarmi».Mi avvicinai e domandai incerto: – Atah Gigi? Egli rise. – Sì, sono Gigi.Ci baciammo e la sua barbetta ispida mi raspò le guance come una grat-tugia. Era un estraneo per me, eppure nello stesso tempo sapevo che gliero devoto come lo è il padre verso il figlio. Rimanemmo immobili conquella sensazione di appartenerci reciprocamente, che non ha bisogno diparole. In un attimo seppi come dovevo trattarlo. Aveva servito tre anninell’esercito, aveva combattuto una guerra crudele. Doveva avere avuto

22. L’albino è chi, per viaereditaria, ha un difetto diproduzione della melaninanella pelle, negli occhi e neicapelli. Per questo unalbino ha pelle e capellimolto chiari e occhi di unazzurro molto pallido.23. Cfr. nota 5.

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chi sa quante ragazze, ma era rimasto timido quanto può esserlo un uomo. Gli parlai in ebraico, piuttosto meravigliato io stesso della mia conoscenzadella lingua. Acquisii immediatamente l’autorità di un padre, e tutte le mieinibizioni svanirono. Volevo prendere la sua cassetta di legno, ma egli nonme lo permise. Indugiammo a cercare un tassì, ma tutti se n’erano già an-dati. La pioggia era cessata. La strada lungo il porto si stendeva umida,scura, malamente pavimentata, l’asfalto tutto buche e pozze d’acqua che ri-flettevano lembi di cielo luminoso, un cielo basso e rosso come una cappadi rame. L’aria era soffocante. Guizzavano lampi senza tuoni. Cadeva qual-che rara goccia d’acqua, ma era difficile sapere se erano le ultime della ces-sata pioggia, o le prime di un nuovo acquazzone che incominciava. Il fattoche New York si mostrasse a mio figlio così cupa e triste feriva il mio orgo-glio. Avevo la sciocca ambizione di fargli vedere subito i quartieri più bellidella città. Ma attendemmo un quarto d’ora e nessun tassì comparve. Sisentivano già i primi fragori dei tuoni. Dovevamo rassegnarci ad avviarci apiedi. Parlavamo tutti e due con lo stesso stile, breve e tagliente. Come vec-chi amici che conoscono i reciproci pensieri, non avevamo bisogno di lun-ghe spiegazioni. Mi diceva senza parole: «Capisco che non potessi starecon mia madre. Non ho rimostranze. Anch’io sono fatto della tua stessapasta...». Gli domandai: – Che tipo di ragazza è quella di cui mi hai scritto?– Una brava ragazza. Ero il suo consigliere nel kibbutz. Poi andammo in-sieme nell’esercito.– Che cosa fa nel kibbutz?– Lavora nei granai.– Ha studiato almeno?– Siamo andati insieme alle scuole superiori.– Quando vi sposerete?– Al mio ritorno. I suoi genitori pretendono un matrimonio ufficiale. Lo disse in un modo che significava: «Naturalmente, noi due non abbiamonecessità di simili cerimonie, ma i genitori delle ragazze hanno una menta-lità diversa».Feci un cenno a un tassì di passaggio ed egli quasi protestò.– Perché un tassì? Potevamo camminare. Posso camminare per miglia.Dissi all’autista di condurci oltre la quarantaduesima strada, verso la parteilluminata di Broadway, e poi di voltare nella quinta strada. Gigi sedetteguardando fuori dal finestrino. Non fui mai tanto orgoglioso dei grattacielie delle luci di Broadway quanto quella sera. Egli guardava e taceva. Intuii,non so come, che stava pensando alla guerra contro gli arabi, e a tutti i pe-ricoli ai quali era sopravvissuto sul campo di battaglia. Ma le forze che reg-gono il mondo avevano stabilito che dovesse venire a New York a vederesuo padre. Era come se sentissi i suoi pensieri passare dietro la sua fronte.Certo, anche lui, come me, stava ponderando gli eterni interrogativi.Quasi per provare le mie forze telepatiche, gli dissi:– I casi fortuiti non esistono. Se è detto che devi vivere, resti vivo. È de-stino che sia così.

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Volse il capo e mi guardò meravigliato:– Ehi, leggi nel pensiero, tu!E sorrise, stupito, incuriosito e incredulo, come se gli avessi paternamentegiocato uno scherzo.

Il figlio, in Un amico di Kafka, Longanesi, Milano 1987

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STRUMENTI DI LETTURAIl personaggionarratore

Poiché l’intera vicenda è osservata dalpunto di vista dell’io narrante, emerge inprimo piano la psicologia del narratore, ilsuo proprio modo di vedere la realtà. Conun profondo senso di estraneità, eglisente di appartenere a un’epoca passata,non più in sintonia con i modi di vita chevede praticati in terra americana. Persinocoloro i quali, in attesa come lui sul molo,recano evidenti i segni della propria ap-partenenza religiosa, sembrano dimo-strare una modernità che non gli appar-tiene. Come l’unica fotografia del figlioin suo possesso è «sfocata», egli stesso di-chiara di non avere «un’immagine chia-ra» del giovane, il quale emerge dal pas-sato «come un fantasma». La folla etero-genea in attesa della nave gli appare uncampionario dell’intera umanità, «genteche ha perduto il senso della misura perquanto riguarda le conquiste terrene»,ma mentre tutti sembrano diventare «unasola famiglia», egli si sente un estraneo,anzi, «uno spettro». L’attesa del figlio sitramuta così in un tempo di riflessione sudi sé, in cui hanno parte l’appartenenzaculturale e religiosa ebraica, ma anche, insenso più lato, il significato e lo scopodell’appartenenza al genere umano fino adomandarsi: l’Onnisciente sa tutto, «mache cosa debbo fare io con le mie bricioledi realtà?». Disorientato, senza un validopunto di riferimento in questo mondo«sfocato», il personaggio-narratore tro-verà nell’incontro col figlio le ragioni pertornare a confrontarsi lucidamente e po-sitivamente con la realtà.

Il tempoIl racconto intreccia magi-

stralmente due diverse dimensioni tem-

porali, il tempo reale che il personag-gio-narratore trascorre sul molo in at-tesa della nave, e il tempo interioredella memoria, delle riflessioni sulla vi-ta, sul passato, sui misteriosi, insonda-bili legami che collegano al «tutto» le«briciole di realtà» di cui dispone. Lesue vicende personali, quelle della exmoglie, del figlio lontano, che ora ècresciuto e ha combattuto in guerra,s’intrecciano con le vicende collettivedel popolo ebraico. È il tempo dellameditazione sul contrasto tra il passatoe il presente, tra l’antica fede dei padriche ancora sopravvive nei segni este-riori degli ebrei ortodossi e il destinodelle nuove generazioni, costrette a di-fendere con le armi la sopravvivenza diIsraele.

Le tecnichenarrative

Oltre che sul piano temporale, anchedal punto di vista narrativo il raccontoappare suddiviso in due parti. La primaè costruita come un lungo, ininterrottomonologo interiore, attraverso il qualeconosciamo il modo di pensare del pro-tagonista, il suo punto di vista sulmondo, i suoi sentimenti. Nel secondo,scandito per lo più dal dialogo direttotra padre e figlio, si scioglie, per cosìdire, la cupa tensione accumulatasi nellaprima parte in cui dominano le rifles-sioni sul senso di estraneità, l’ossessionedell’olocausto e l’angoscia per quelloche potremmo definire “il silenzio diDio”. Il dialogo ha la funzione di un’a-pertura al mondo, di una liberazionedalle ossessioni personali: parlare è an-dare finalmente verso «l’altro» e, non acaso, il racconto si chiude sul sorriso delfiglio.

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DOMANDE DI VERIFICA“A me tutta quella gente pareva mondana e scaltra”. Così dice il narratore osservando la folla inattesa dello sbarco della nave, all’inizio del racconto. Sulla base dei contenuti del testo, quali mo-tivi spingono il protagonista a fare questa considerazione?

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“Avevo già aperto la bocca per chiamare ‘Gigi’, come sua madre ed io lo chiamavamo da bam-bino, quando improvvisamente un donnone caracollò verso di lui e lo serrò tra le braccia. [...] Miavevano portato via un figlio che non era mio!”.Questa breve sezione del testo significa che:

Una donna riconosce erroneamente il figlio del protagonista come suo e si allontana con lui.Il protagonista non riesce a riconoscere suo figlio.Non è semplice per il protagonista riconoscere il figlio; pensa di averlo identificato, ma poi in-vece vede che non è così.Il figlio del protagonista non è sulla nave.

Durante l’attesa del figlio, una delle preoccupazioni più importanti del protagonista è di non sa-pere in quale lingua potrà conversare con lui. Facendo riferimento a tutti gli elementi a tua dispo-sizione nel testo, per quale motivo questo aspetto risulta così problematico per il protagonista?

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“Che cos’è un figlio, in fondo? Che cosa rende il mio seme più importante per me che per unaltro? Che valore ha un legame di sangue e di carne? Siamo tutti schiuma dello stesso calderone.Se retrocedi di un certo numero di generazioni scopri che probabilmente tutta questa folla di sco-nosciuti ha avuto un avo in comune. E fra due o tre generazioni i discendenti di coloro che orasono parenti saranno estranei”.In questa parte del testo si può distinguere tutta la paura del protagonista di incontrare suo figlio.Sapresti giustificare questa interpretazione?

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Leggi le seguenti affermazioni e indica se a tuo giudizio risultano vere o false, sulla base dei con-tenuti del racconto:

La madre del ragazzo che sta arrivando, almeno da un certo momento in avanti, ha allevato il figlio in un kibbutz.

Il vero aspetto del figlio è molto diverso dall’immagine sfuocata della fotografia che il padre aveva con sé.

L’aspetto del volto del figlio appare al padre come una copia fedele di quello della madre; non riconosce invece tratti propri.

Il modo di comportarsi e di muoversi del ragazzo era composto e curato.

Il ragazzo aveva combattuto nell’esercito di Israele e aveva compiuto anche lavori pesanti.

Dopo qualche domanda del padre il figlio dice di essere fidanzato e che tra poco si sposerà.

Considera come il protagonista del racconto cambi la sua prospettiva nel vivere la paternità di unfiglio lontano, dal momento in cui lo aspetta, a quello in cui lo incontra e infine gli parla e loascolta: si può dire che ci sia un’evoluzione radicale nel personaggio? O si può affermare che in luiera sempre esistito il sentimento di paternità e che egli scopre soltanto di possederlo, nel mo-mento in cui vede il figlio? Giustifica i due punti di vista argomentandoli.

Primo punto di vista: ..........................................................................................................................................................................

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Secondo punto di vista: ....................................................................................................................................................................

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Giorgio Scerbanenco

Villa della disperazione

anno 1970

luogoItalia

genereraccontorealistico

1. Si tratta di un modello della Alfa Romeo, dittaproduttrice di automobili del gruppo FIAT. Così anche perquanto riguarda la Giulietta, citata poco più avanti nelracconto.2. San Giovanni a Teduccio è un quartiere della periferia diNapoli; prima paese autonomo, venne aggregato alla città

durante il fascismo e, pur mantenendo alcuni aspettidell’antico borgo, ha avuto uno sviluppo poco coerente pervia della speculazione edilizia.3. Molte delle strade presenti nel sud italiano erano statefatte costruire durante la dominazione dei Borboni,regnanti sulle Due Sicilie dal 1734 all’Unità d’Italia.

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Presentazione dell’opera La fama di Scerbanenco come giallista è affidata alla tetralogia incentrata su Duca Lamberti, esperto della nuova criminalità del-l’hinterland milanese, caratterizzata da una notevole violenza. Alla produzione romanzesca lo scrittore ha affiancato un cospicuonumero di racconti, spesso brevissimi e dall’effetto fulminante. Villa della disperazione appartiene al ristretto numero di quelli chenon sono ambientati a Milano o comunque nel nord industrializzato. Al di là dell’impianto narrativo giallo o noir, i suoi romanzi eracconti appaiono oggi come un amaro e disincantato spaccato degli anni Sessanta, che svelano un’Italia difficile, avida, cattiva edisillusa, ben lungi dalla solita immagine edulcorata degli anni del cosiddetto “miracolo economico”. «Le storie che racconta Gior-gio Scerbanenco non sono storie delicate, sono storie nere, nerissime, storie di delitti efferati, di sentimenti abbietti, di trasgres-sioni e devianze, di bassifondi bruti e di ambienti alti anche peggio. Sono storie ambientate in un’Italia di ieri che non ha quasiniente di diverso da quella di oggi, perché potere e politica, delitti e passioni, mafia e criminalità più o meno o per niente organiz-zata sono ancora gli stessi» (Carlo Lucarelli).

Giorgio ScerbanencoVladimir Giorgio ·cerbanenko, poi italianizzatosi in Giorgio Scerbanenco, nac-que a Kiev nel 1911 da madre italiana e padre ucraino. A sedici anni si trasferìa Milano dove praticò svariati mestieri prima di approdare all’editoria, rico-prendo importanti incarichi redazionali e direttivi presso noti settimanali fem-minili. Scrittore straordinariamente prolifico e versatile, esordì come roman-ziere nel 1935 e quando scomparve prematuramente al culmine del successo,nel 1969, aveva al suo attivo innumerevoli racconti e più di sessanta romanzi(altri ancora furono pubblicati postumi). Famoso soprattutto come autore diromanzi “rosa”, molto in voga negli anni Cinquanta e Sessanta, diede tuttaviail meglio di sé nel genere giallo e noir, tanto da essere oggi considerato un mae-stro del genere. Venere privata (1966), Traditori di tutti (1966), I ragazzi del massacro (1968) e I milanesiammazzano al sabato (1969), costituiscono un ciclo il cui protagonista è Duca Lamberti, ex medico dallaprofonda umanità che diventa una sorta di investigatore privato, a contatto con i risvolti più torbidi espietati della vita metropolitana. Scerbanenco è stato anche uno straordinario autore di racconti, talorabrevissimi ma sempre di fulminante intensità, recentemente raccolti in varie edizioni (Uccidere per amore.Racconti 1948-1952, Racconti neri, Il cinquecentodelitti). A tutt’oggi, Scerbanenco è l’unico autore italianoa essersi aggiudicato, con Traditori di tutti, il prestigioso “Gran Prix de la littérature policière”, che dal1948 viene ogni anno assegnato in Francia al miglior romanzo giallo. Alla sua memoria è dedicato ancheil premio più importante per la narrativa gialla italiana, il “Premio Scerbanenco”.

La vecchia Alfa1, attraversato il caos costruttivo di San Giovanni aTeduccio2, lasciò la strada borbonica3 e prese quella che conducevaal Vesuvio, di cui nella chiarità del pieno mattino di giugno si ve-deva l’aggraziata e pur minacciosa mole.

Al volante c’era un giovane con un grosso ciuffo di capelli neri che gli rica-deva in mezzo alla fronte, e vicino a lui c’era come il suo contrario, un

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uomo anziano, ma grosso, tutto robusto e tutto rapato in testa. Nei sedilidietro c’era un uomo di neppure trent’anni con un maglione grigio scurodal collo alto fino al mento perché quel giugno anche a Napoli fece freddo,era bruno, ma dai capelli tagliati cortissimi, meno di un dito, e, anche se erarasato da poche ore, aveva una maschera violacea sulle guance. Vicino a luiuna donna giovanissima, bionda, boccheggiava al finestrino aperto, l’abitopremaman, per quanto largo fosse, aderiva ormai strettissimo al suo ventreenorme di gestante all’ultimo giorno. Dopo una svolta quasi a L, l’Alfafermò di colpo davanti alla villa. La villa era tutta recintata da una staccio-nata, all’ingresso c’era un grande cartello: Ministero della Pubblica Istruzione.Sovrintendenza ai monumenti della Campania. Restauro e ripristino delle villesettecentesche vesuviane. L’ingresso è consentito soltanto alle autorità competenti.Non è permessa alcuna visita.L’uomo rapato lesse il cartello senza parlare e senza parlare tutti scesero. Ilragazzo col ciuffo dette un piccolo colpo di clacson, poi slegò i numerosibagagli che erano sul tetto dell’Alfa. Non c’era nessuno sullo stradone, l’a-ria era polverosa di microscopiche faville che piovevano dalle falde del Ve-suvio spazzato da un vento abbastanza forte e freddo.Al brevissimo, quasi inesistente colpo di clacson il portello della staccio-nata si aprì e vennero avanti una donna e un uomo, anziani ma dall’aspettorobusto, e una ragazza alta, dal viso pallido, dai capelli bruni, lunghi, tuttiin disordine, da una gonna rossa cortissima, ma spiegazzata e stracciata.Senza parlare, la vecchia donna andò a sostenere la giovane gestante, men-tre il vecchio e la ragazza presero le molte valigie che erano sul tetto dellavettura, escluse due che, con un gesto imperioso, il vecchio robusto dallatesta rapata volle portare lui.«Sbrighiamoci,» disse il ragazzo col ciuffo, «prima che qualcuno ci veda.»Attraversarono lo stradone in fretta e furono tutti al riparo un momentodopo dietro la staccionata che circondava la villa, senza che si fosse visto unpassante o un’auto.La villa sembrava dovesse crollare da un momento all’altro, i due portalidisegnati dal Sanfelice4 erano spariti, così le preziose ringhiere panciute efogliute dei quattro balconi5, e delle preziose persiane dell’epoca non esi-steva neppure il ricordo: finestre e balconi erano tappati da assi di legno.Percorso il lungo androne arrivarono nel cortile con porticato e, a sinistra,entrarono nel vasto anticamerone di servizio, buio come una cantina, laluce filtrava soltanto da due grandi finestre tappate però dalle assi di legnoe a destra di questa area di disbrigo6 entrarono nella cucina. Una cucina deltardo seicento, grande come una vasta sala da ballo di oggi, con un caminoalto due metri, il soffitto che recava ancora qualche traccia di affreschi dicani che inseguivano la selvaggina, fagiani, lepri, uccellini.«Di qui, signori,» disse la vecchia. Aprì una porta ed entrarono in unastanza ancora più vasta della cucina. Le finestre non erano chiuse dalle assidi legno, ma da polverosi vetri e rozze imposte non verniciate. In quell’im-mensità, il letto matrimoniale, l’altro letto singolo, un armadione, enormee sgangherato, un lavabo con la brocca e il catino7, un tavolino e due sbrin-

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4. Ferdinando Sanfelice fuun architetto del XVIIsecolo, di famiglia nobilenapoletana, che realizzòmolti edifici sia civili siareligiosi nell’area campana,secondo lo stile barocco.5. Le ringhiere dei balconidurante l’età barocca eranotalvolta fatte in ferrobattuto e ricche di motiviornamentali come foglie,fiori, piccoli animali,creature fantastiche.6. Sinonimo di anticamera,cioè un locale che precedela zona effettivamenteabitata della casa.7. Il lavabo, fatto in ferrobattuto con una catinellanella parte superiore e unabrocca che conteneval’acqua nella parteinferiore, era in uso nellecamere da letto per fare latoilette personale; è unaltro indizio del fatto chenella casa mancano lecomodità proprie dell’etàcontemporanea, comel’acqua corrente.

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dellate poltrone, si sperdevano come pochi chicchi di riso in una grandescodella.«Signora, stendetevi qui un poco,» disse la vecchia alla giovane, nel suomorbido, grasso napoletano. Aiutò la donna incinta, viola in viso, a met-tersi sul letto. «È un letto molto morbido, mio marito dice che è troppomorbido, che fa fatica a dormirci.»Erano entrati anche il vecchio e la ragazza con le valigie, insieme col gio-vanotto dal ciuffo che aveva guidato l’Alfa.«Mandali via,» disse il grosso uomo rapato al ragazzo col ciuffo. «Tu restaqui, dobbiamo parlare.»Senza parole, con un gesto e uno sguardo, il ragazzo ordinò ai tre di usciree chiuse la porta dietro di loro.Il vecchio gli andò davanti. Con la mano gli indicò una delle poltrone.«Siediti.» Così lo dominava meglio. «Che posto è?»«È il posto più sicuro, signo’, qui non vi trova nessuno,» disse il ragazzo,anche lui evidentemente napoletano.«Perché?»«Perché è un monumento nazionale...» disse il ragazzo, «avete visto lastaccionata e il cartello? Nessuno va a pensare che qualcuno si voglia na-scondere qui, infatti nessuno ci si è mai nascosto.»«Chi ha pensato a questo nascondiglio?» disse il grosso vecchio, incom-bendo su di lui.«Gli amici…» disse il ragazzo, dette un’inflessione speciale alla parolaamici. «Siete con una signora che aspetta un bambino, non potevamo te-nervi a Napoli, troppo vistoso. Allora abbiamo pensato qui, è l’angolo piùdeserto della zona.»«Chi sono quei due vecchi e la ragazza?» disse il grosso. Fece segno di no all’uomo col maglione dal collo alto fino al mento, cheaveva preso una bottiglia di whisky da una valigia e gliene offriva un po’ inun bicchiere di metallo, dette un’occhiata alla donna distesa sul letto cheinvece beveva bravamente dalla bottiglia.«Sono i custodi della villa. La ragazza è la loro figlia, ed è la mia fidan-zata,» disse caldamente il giovane col ciuffo. «Per questo gli amici mihanno detto: “Tu hai la passione, lassù, in quella villa, e allora portalilassù”. Sono gente brava, dovete stare sicuro, dotto’,» cominciò a chia-marlo dottore per quanto con quella faccia non desse troppo la sensazionedel dottore.La grande camera era illuminata da due sole finestre e quindi, nonostantela mattinata così luminosa, era piena di ombre. L’uomo in maglione era se-duto sul letto vicino alla giovane donna, fumavano tutti e due quei robustisigaretti, e dopo tutto il whisky lei, invece di vomitare, pareva che stessemolto bene, e aveva un dolce color fragola in viso.«Come ti chiami?» disse il vecchio. «Fiorello,» disse il ragazzo.«Io mi chiamo Gennaro. Se non ci credi, fai male,» disse il grosso, si frugòsotto la giacca, come avesse prurito, e ne tirò fuori una grossa browning8.

8. Browning è in realtà ilnome della dittaproduttrice dell’arma, nondel modello.

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«Sono più napoletano di te anche se da quarant’anni vivo a New York eparlo l’italiano così male.» Alzò la voce rabbiosamente, urlò addirittura:«Alzati!».Lentamente, non per svogliatezza, ma per terrore, Fiorello si alzò, cer-cando di non guardare la piatta canna della rivoltella.«Ascoltami, Fiorello,» disse Gennaro, «tu mi sei stato raccomandato dagliamici di laggiù. Mi hanno dato la tua fotografia a New York, e a Capodi-chino, quando siamo scesi dall’aereo, tu eri lì ed eri quello della fotografia.Ti ho chiesto: “Lei è dell’agenzia alberghiera?” e tu hai risposto, secondola parola d’ordine: “Sì, dell’hotel Continental”. Tutto questo va bene, maio prima di fidarmi sto attento.» Alzò la browning, gliel’appoggiò sullapelle, sotto il mento, costringendolo ad alzare il viso. «In questo posto cisono molte cose che non mi piacciono. Per esempio non c’è il telefono.»«Dotto’,» si lamentò Fiorello, «ma in questi scavi di Pompei9 cosa voleteche mettano il telefono? È solo questione di pochi giorni, poi vi troviamola casa degna di voi, dotto’.»Gennaro abbassò la rivoltella, ma la tenne sempre in mano.«Poi non mi piaci tu. Sei troppo giovane, l’ho detto anche a New Yorkquando mi hanno dato la tua fotografia, per una cosa così grossa. Mihanno assicurato che posso fidarmi, ma non mi piaci lo stesso.» Alzò dinuovo la rivoltella verso il suo viso, guardò un attimo l’uomo in maglioneche si era disteso sul letto accanto alla donna. «Ti assicuro che, se sbagli,se servi due padroni, se prendi soldi da noi e poi vai a informare la polizia,non ti salverai più, e non solo tu, ma tua madre, tuo padre, la tua ragazza,tua sorella. Siamo venuti qui per questo, ci sono troppi figli di Giuda in-torno a noi, e siamo venuti a sistemarli.»«Dottore, io non le faccio certe cose.»«Sarà,» disse il grosso. «E poi non mi piace che non ci sia la luce elettrica.Qui di notte ci infilzano come tordi allo spiedo.»«Dotto’, qui non c’è mai stata la luce elettrica, sono ville di tre, quattro se-coli fa. Ma ci sono i lumi a petrolio e le candele, e poi nessuno si sogna divenire qui, state sicuro, dotto’, parola.»L’altro si rimise la rivoltella dentro la camicia. «Adesso cerca di ricordarti quello che mi occorre subito, e portamelo su-bito.»In quel momento la donna distesa sul letto ebbe una specie di breve ran-tolo.Il vecchio, con voce d’improvviso tenera, raucamente dolce, le si rivolse:«Cos’hai, cara?». «I dolori, papà, diventano sempre più forti,» disse lei. «Il dottore verrà subito,» la rassicurò lui, poi la sua voce ritornò dura e sirivolse al ragazzo napoletano. «Te l’ho già detto prima in macchina: mioccorre subito l’ostetrico.»«Sì, dottore, lo teniamo il cavapupi10, gli amici lo sapevano che arrivavatecon la signora così.»«Subito vuol dire subito, ragazzo.»

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9. Non si trattaevidentemente degli scavidi Pompei. La battutaironica di Fiorello intendedire che la villa è unrudere, come appunto lecase scavate a Pompei.10. Ovvero un medicoginecologo, in grado di farenascere i bambini(cavapupi, ovvero indialetto prendi-bambini,dal ventre della madre).

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«Sì, dotto’, fra un’ora arrivo qui col cavapupi.»«E mi occorrono due auto.»«Due, dotto’?»«Non molto grandi, ma veloci. E subito. Quando vieni qui con l’ostetricodevi portare anche le due auto, col serbatoio pieno.»«Piccole, ma veloci,» rifletté a voce alta il ragazzo. «Due Giuliette forsevanno bene.»«Non conosco le auto italiane, ma voglio che facciano almeno i centoses-santa.»«Va bene, dottore.»«Sono le undici e tre quarti. All’una meno un quarto devi essere qui coldottore. Se succede qualche cosa a mia figlia perché tu ritardi, è meglioche ti tagli la gola da solo.»«No, dotto’, sono qui anche prima di un’ora.» Il ragazzo era lucido di su-dore.«E porta questo messaggio agli amici, ricordati bene le parole.»«Sì, dotto’.»«Questo è il messaggio: “voglio subito casa con telefono”.»Quello voleva tutto subito, pensò il ragazzo.«E adesso voglio la cosa più importante: il numero di telefono dell’amicopiù grosso, e tutti e due sappiamo chi è.»«Sì, dotto’, ve lo scrivo subito.»Lo sapeva a memoria, aveva in tasca dei foglietti sparsi, consunti, sgualciti,e una matita che si passò tra le labbra per inumidirla. Era un numero facileda ricordare, 35.25.65, e scrisse il numero sul foglietto, ma arrivato allaquinta cifra sbagliò, non si accorse che invece di scrivere 6 aveva scritto 5,così consegnò al vecchio, la mano tremante per l’agitazione, il fogliettocon scritto questo numero sbagliato: 35.25.55.«Adesso va’ via e fa’ presto,» disse il vecchio.Solo quando fu fuori, sulla strada, il ragazzo riprese a respirare normal-mente. Era la prima volta che veniva in contatto con gli americani, erastata una prova di fiducia che gli avevano dato, ma un po’ pesante. Coisuoi padroni napoletani si sentiva molto più sicuro, ma di questi stranierie delle loro rivoltelle aveva paura. E bisognava far subito subito. Si mise alvolante dell’Alfa, girò la macchina e discese verso Napoli, continuava apensare che doveva trovare il cavapupi, subito subito, e poi le due Giu-liette, subito subito, che strano che a mezzogiorno, a Napoli, e in giugno,dovesse fare freddo, tirò su il finestrino dalla sua parte e senza accorger-sene continuava a premere l’acceleratore, finché, come era prevedibile,appena arrivò sulla via borbonica, due militi della strada11 alzarono il loropalettino irritante e gli fecero segno di fermarsi, coi loro irritanti caschi, leloro irritanti moto appoggiate al muro, e le loro irritanti facce.Il ragazzo col ciuffo, Fiorello, era un napoletano verace, e un napoletanoverace se nell’orecchio ha il rombo di cento “subito, subito, subito”, nonresiste a tante cose irritanti insieme. E infatti non resisté. Invece di fer-marsi all’intimazione, accelerò, schizzò via nel traffico convulso di San

11. Ovvero due vigiliurbani oppure due agentidella polizia stradale.

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Giovanni a Teduccio in quell’ora convulsa vicino all’ora di colazione. Eraimpossibile che ce la facesse, e infatti non ce la fece. Un bambino che eracaduto di bicicletta rompendo il fiasco di vino che teneva in mano e chepiangeva, lì, in mezzo alla strada, lo bloccò, e dallo specchietto lui vide ar-rivare come un proiettile uno dei motociclisti.«Vieni fuori.»Il ragazzo guardò il bambino che si rialzava, fradicio di vino rosso e di la-crime, e scese. Dette al milite la patente e il libretto. Arrivò anche l’altromilite.«Perché sei scappato?»«Avevo fretta.»Il milite si trattenne i documenti.«Sali, e seguici,» disse. «E sta’ tranquillo.»«Tranquillissimo,» disse lui colando sudore dalla fronte al rimbombo diquella voce nelle orecchie: “Subito, subito, subito.”

La prima mezz’ora l’italo-americano Gennaro la passò a ispezionare la villa.Il vecchio custode, con un lume a petrolio in mano, lo condusse al piano su-periore e alle soffitte, o stanze, a quei tempi, per la servitù. Il lume a petro-lio era necessario perché di sopra tutte le finestre erano sbarrate da assi dilegno. La larga scala era senza l’arabescata ed elaborata balaustra di bronzo,bisognava stare attenti perché non sempre i gradini si mostravano sicuri, sulprimo e sul secondo pianerottolo si erano aperte due falle, due grossi buchidai quali s’intravedeva il vago chiarore dell’anticamera sottostante.«Dotto’, attento a dove mettete i piedi,» diceva il custode.Al piano superiore vi erano due grandi saloni e quattro stanze. Anche quivi erano dei buchi nel pavimento, e anche nel soffitto. Pezzi di muro ca-devano un po’ da per tutto, sempre semplici scaglie, ma era una pioggiacontinua. In uno dei saloni vi era ancora un massiccio, lungo tavolo del-l’epoca, evidentemente non era stato rubato soltanto per la sua mole e lasua pesantezza. E a tutte le pareti si vedevano ancora, in ogni stanza o sa-lone, le larghe chiazze di affreschi del Fischetti12, gentili vergini nudenelle volute ariose e geometriche delle decorazioni, con fantastici paesaggisullo sfondo, monti sui quali si ergevano leggiadre rocche, e cani da cacciache inseguivano la selvaggina in irreali foreste.Gennaro guardò tutto senza capire, guardò il grande lampadario penzo-lante pericolosamente dal soffitto.«Una volta c’era la luce elettrica,» disse indicandolo con la browning, cheteneva in mano.«No, signore, quello è un lampadario a candele.» «Di sopra cosa c’è?»«Le soffitte. Il tetto è molto rotto, si sta sfasciando tutto, sono due anniche hanno messo quel recinto col cartello intorno alla villa, ma non hannoancora fatto nulla. Sono venuti un paio di volte, forse a controllare che lavilla sia ancora in piedi, ma io ho paura a starci, qualche notte magari cicasca tutto addosso.»

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12. Fedele Fischetti è unpittore del Settecentonapoletano, che affrescòedifici di culto e palazzicivili, tra cui anche molteparti della reggia diCapodimonte, dellaresidenza reale e dellareggia di Caserta.

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Gennaro ispezionò anche le soffitte, e solo quando fu sicuro che nella villanon c’era nessuno tornò da basso nella stanza dove erano sua figlia e il ge-nero.Tina dormiva.«È ubriaca fradicia,» disse l’uomo in maglione. «Non resiste alle doglie,adesso le ha ogni quarto d’ora, ma non si sveglia neppure, si lamenta unpo’. Il bambino nascerà sbronzo.»«Non c’è nessuno nella villa, Charlie,» disse Gennaro.Charlie aveva un viso da duro, ma non da bruto, i suoi occhi, anzi, espri-mevano intelligenza, acume, se avesse portato gli occhiali sarebbe sem-brato un giovane e aitante professore.«Figurati che consolazione,» disse acre. «Avrai tempo di incontrare tantipoliziotti da non poterli contare. Non si va in giro a fare i gangster conuna donna gravida appresso.»«Io non lascio mia figlia sola in un momento come questo. E tu che seisuo marito dovresti pensare come me.»«No, non posso pensare che Tina abbia il bambino qui, in questa catapec-chia, in questo letto,» Charlie alzò la voce, guardò il suocero con odio,«non ci farei dormire il gatto, su queste lenzuola, su questo cuscino…»«Forse non nasce subito, domani o dopo ci sistemeranno in una casa mi-gliore.»«No, nasce qui, fra poche ore, le doglie sono sempre più fitte. Senti,»disse Charlie. Pur nel sonno dell’ubriachezza Tina si mosse convulsamente e lanciò unaspecie di ululato, poi respirò profondamente e ricadde in quella specie dicoma.«Adesso guarda l’orologio, fra dieci minuti gliene verrà un’altra, poigliene verranno ogni cinque minuti e allora ci vuole subito il medico.»«Sta arrivando,» disse Gennaro.All’una e mezzo non era arrivato nessuno. Alle due neppure, alle due emezzo Tina si svegliò urlando e Charlie dovette metterle una mano sullabocca. Le dettero ancora tanto whisky da narcotizzarla, e lei si riaddor-mentò.Gennaro guardò l’orologio. «Vado a telefonare.»Charlie si accese uno dei sigaretti che gli erano rimasti.«E a chi telefoni? Non hai ancora capito che ti hanno tradito? Siamo ve-nuti qui per vedere se tradivano, e adesso lo sappiamo.»«Vado a telefonare lo stesso.»Aprì una delle due valigie che aveva voluto portare personalmente lui:c’era parecchia roba, quattro cinture caricatori per la browning, due pi-stole mitragliatrici e due mitra smontati in due. Sul fondo c’erano le sca-tole, tre, coi candelotti di nitroglicerina, ne aprì una e si mise due cande-lotti in tasca, prese una cintura caricatore e se l’allacciò alla vita. Sembravaun po’ più grosso, ma era già abbastanza grosso per non destare sospetti.Un uomo così equipaggiato, e deciso a usare il suo equipaggiamento, è un

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po’ difficile da prendere. Charlie non disse nulla e non lo guardò neppuremolto: il vecchio gli faceva pena, gli faceva pena sua moglie schiacciata daun tiranno così spietato e aveva anche pena di se stesso. Ma era nato inquell’ambiente, e doveva viverci. Gennaro risolveva tutto sparando. Anchequando parlava senza puntare la rivoltella era implicito che se qualcunonon fosse stato del suo parere, avrebbe sparato. Facesse pure.Il vecchio si tolse la rivoltella da sotto la camicia ed entrò di colpo nellastanza accanto, la grande cucina: c’era la ragazza che sembrava una zingarache stava ascoltando una radio a transistor, e al tavolo c’erano sua madre esuo padre che discutevano, con un fiasco di vino in mezzo a loro. Puntò larivoltella contro di loro.«Devo telefonare. Quanto è lontano il telefono più vicino?»Il custode si alzò.«Signo’, non sparate, noi non vi abbiamo fatto niente.» «Dov’è il telefono più vicino!» urlò selvaggiamente Gennaro. «Se no,sparo davvero.»«È più su, verso il Vesuvio,» disse il custode, frustato da quell’urlo, «c’èun ristorante per i turisti che vanno fino in cima, lì c’è il telefono.»«Allora mi ci accompagni, e subito. Voi due starete qui in camera col miogenero,» le sospinse malamente nella stanza. «Vado a telefonare. Sta’ si-curo che torno. Se non torno, sai cosa devi fare,» disse a Charlie.Oh, sì, lo sapeva, doveva uccidere le due donne. I traditori devono mo-rire, sì, verissimo, ma a che serviva?«Sì, lo so,» disse Charlie.Guardò Gennaro che usciva col custode, richiuse la porta e, con lo stiledesiderato da suo suocero, levò dalla cintura la rivoltella e la tenne puntatacontro le due donne.«Sedete nelle poltrone e non seccate.»Carezzò con la sinistra il viso umidiccio di Tina. Dormiva tranquilla.Guardò l’orologio: erano più di venti minuti che non aveva la doglia.Forse aveva ragione il suocero, poteva essere un falso allarme.

Dopo un’ora e mezzo, Gennaro non era ancora tornato. Tina non sudavapiù, continuava a dormire e ogni tanto rabbrividiva, e non aveva più avutonessuna doglia. Chiese delle altre coperte alle due donne, ma Tina conti-nuò lo stesso a tremare.Dopo un’ora e tre quarti, Gennaro tornò, rientrò nella stanza spingendoavanti il custode.«Mi hanno dato un numero di telefono falso,» disse con una voce senzarabbia ma cattiva, spietata. «Ho chiamato venti o trenta volte, rispondeuno che non ha niente a che fare col nostro amico. Siamo dentro la trap-pola. Bisogna uscirne subito perché fra poco arriverà la polizia.»Era logico, pensò anche Charlie, avevano tradito, avevano voluto liberarsidagli ispettori che venivano da New York.«Mamma santissima, guardate sotto il letto, signo’, quello è sangue, sisente anche l’odore,» disse la moglie del custode. Charlie guardò subito:

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da sotto il letto usciva e si allargava una spessa macchia di liquido scuro lu-cido che subito diveniva opaco. Si curvò a guardare. Il sangue gocciava dalsotto del materasso, allora Charlie sollevò un attimo le coperte e il len-zuolo che coprivano Tina, e la ricoprì subito stringendo i denti dalla nau-sea.«Tina, Tina,» carezzandola sul viso e sentì il viso non ancora freddo mache stava divenendo rapidamente freddo, la scosse, le mise l’orecchio sullabocca, e così capì, che era morta, sotto i suoi occhi, dissanguata.«È morta,» disse.Gennaro si avvicinò, cauto, a Tina, le mise una mano dietro il collo, allanuca, le sollevò il capo e non ebbe bisogno di altro che di questo, di sen-tire l’innaturale peso della testa di lei e l’innaturale rigidità del collo. Laridepose, cauto, sul cuscino e la coprì tutta col lenzuolo. Sedette sull’altrolettino, accanto a Charlie, e stettero tutti e due lì in fondo al loro abisso didisperazione, per lunghi e lunghi e lunghi minuti. Poi Gennaro si alzò.«Dobbiamo andare,» disse, «fra poco qui arriva la polizia.»Era logico. Erano stati traditi e adesso li davano in pasto alla polizia.«Ma dove andiamo?» disse Charlie. «Non conosciamo nessuno, neppurei posti…»«Io so dove andare,» disse Gennaro. «A Napoli, ai telefoni. Voglio telefo-nare a New York perché siano informati di quello che succede qui, e diche genere di amici sono. E perché vengano a prenderci.»Forse era l’unica cosa che potessero tentare, pensò Charlie.«Tu porta la valigia coi soldi,» disse Gennaro, «io prendo quella con learmi.» Le mani gli tremavano. Si rivolse ai tre napoletani che stavano inpiedi, ammucchiati vicino al muro. «Mia figlia è morta per colpa vostra.Se voi non foste delle sporche carogne di traditori, il medico sarebbe arri-vato qui in tempo e mia figlia sarebbe viva, e anche il bambino. Siete degliassassini.»«No, signo’, no, signo’, Fiorello è acqua chiara, non ha tradito mai nes-suno, gli deve essere successo qualche cosa,» disse la vecchia custode.«Ah, sì? E che cosa? E perché mi ha dato un numero di telefono falso?Stai zitta.» Si avvicinò alla ragazza, le prese un braccio. «Tu adesso vienicon noi e ci insegni la strada.» Si rivolse ai genitori della ragazza. «Se lavolete rivedere viva state qui buoni. Se noi ci salviamo, si salva anche lei.»Guardò Charlie che si stava asciugando con le dita gli occhi umidi. «An-diamo, Charlie.»Charlie bevette, vuotò la bottiglia di whisky, e prese la sua valigia piena divaluta italiana avvolta nei pigiama, negli slip, nei maglioni e nelle camicie. «Io non vengo con voi, io ho paura, lasciatemi stare.» La ragazza si divincolò dalla presa di Gennaro che le teneva un braccio efrullò via verso i suoi genitori che le si strinsero addosso, in una posa diprotezione che era quasi un affresco, come quelli dipinti sui muri dellavilla.Il viso di Gennaro si scompose tutto nel furore, la morte della figlia gli ri-bollì nel sangue come veleno. Era vecchio, ma nessuno ebbe il tempo di

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accorgersi di ciò che succedeva. Anche Charlie, solo quando udì la se-quenza di spari, capì che cosa aveva fatto Gennaro, mentre i tre, i custodie la loro figlia, non capirono neppure di morire, morirono semplicemente,senza saperlo.«Sporche carogne, assassini.»«Sei tu un assassino,» disse Charlie, la voce ingolata di pianto rabbioso.«Muoviti!» Gennaro gli agitò la rivoltella davanti. «O vuoi star qui adaspettare la polizia?»Charlie resisté alla voglia di sparare lui al vecchio pazzo e uscì per primodalla stanza. Uscirono insieme dalla villa, sullo stradone, sotto il sole noncaldo del tardo pomeriggio, ciascuno con la sua valigetta blu scurissimo, inuna specie di foschia data dal polverume pietroso delle falde del Vesuvio,che il vento quasi freddo diffondeva nell’aria. S’incamminarono, versoNapoli.

Nel buio totale dello stradone, le due Giuliette, con le mezze luci, ferma-rono davanti alla villa. Al volante della prima era Fiorello, che dette il so-lito, piccolo colpettino di clacson e scese, quasi rotolò fuori dall’auto. Su-bito, subito, subito, risentiva sempre la voce. Era riuscito a farsi rilasciaredalla polizia stradale solo un’ora prima, ma in un’ora, grazie ai suoi pa-droni, aveva trovato le Giuliette e il cavapupi. Chi sa come era arrabbiatol’americano, doveva ritornare dopo un’ora e arrivava invece con nove oredi ritardo.L’altra Giulietta era guidata da quello che Fiorello chiamava il cavapupi,che scese dall’auto a fatica, data la corpulenza, con una grossa valigia, incui vi era tutto quello che poteva occorrere per un parto, fino ai flaconi diplasma e al forcipe13. Era il solito medico quarantenne che ha passato treo quattro anni in galera per procurato aborto, se non per omicidio col-poso in seguito alla morte della ragazza che non voleva essere madre.Corsero tutti e due verso la staccionata, il portello era aperto, il ragazzocol ciuffo in fondo era contento, aveva fatto quello che doveva fare, anchese in ritardo, l’americano doveva riconoscerlo. Soltanto, non gli piacque ilbuio assoluto della villa, e il silenzio assoluto. Perché stavano così al buio?La luce dei lumi a petrolio avrebbe dovuto trapelare dalle finestre, così in-vece sembrava che non ci fosse nessuno. Entrarono a tentoni, poi il dot-tore fece scattare l’accendino: erano in cucina.«Silvana, Silvana,» disse Fiorello. Nessuno rispose. Chiamava la sua ragazza.Sul tavolo c’era una candela, il dottore l’accese. «Silvana, Silvana...»Continuò a chiamarla, non comprendendo come mai nella villa non cifosse più nessuno, finché, entrando nella camera vicina, non la vide am-mucchiata a terra insieme con la madre e il padre, in un ricamo di macchiedi sangue che decorava il volto e gli abiti di tutti e tre, alla viva, lunga, fu-mosa fiamma della candela che il dottore teneva alta.«Dottore, che cosa è?» il ciuffo gli ondeggiò sulla fronte, vedeva che cosaera ma non riusciva ancora a capire, a crederlo.

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13. Il forcipe è unostrumento usato talvoltadurante i parti, quando sipresentano difficoltà nellanascita, per estrarre ilbambino; il plasma è usatoper le trasfusioni disangue, in caso diemorragia.

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«Li hanno sparati,» disse il dottore, in grasso napoletano.Fissò la candela al tavolo e andò vicino al letto, sollevò il lenzuolo che co-priva il viso di Tina, posò una mano sulla fronte di lei, sollevò tutta la co-perta e vide la pozza di sangue. Non avrebbe avuto più da cavare nessunpupo. Poi si volse subito a quei sordi tonfi e vide Fiorello che stava sbat-tendo la testa contro il muro con tutta la sua forza. Gli saltò addosso e lotrattenne.«Lasciatemi fare, dotto’, che volete che faccia d’altro, adesso? Lasciatemifare.»

L’indomani, nel tardo pomeriggio, un quotidiano riportò per primo la no-tizia: Ieri sera, negli uffici delle comunicazioni intercontinentali della SET, sonostati arrestati due pericolosi banditi italo-americani che avevano chiesto una co-municazione con New York. Il loro atteggiamento aveva messo in sospetto l’a-gente di P.S. Andrea Salapanti che aveva chiesto loro i documenti. Uno dei duebanditi, allora, il più anziano, ha subito sparato, ma l’agente Salapanti è riuscitoa evitare il colpo e a sparare a sua volta ferendolo lievemente, riducendolo all’im-potenza. L’altro, il più giovane, non ha opposto alcuna resistenza. In seconda pa-gina i particolari...

Villa della disperazione, in Il centodelitti, Garzanti, Milano 1970

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STRUMENTI DI LETTURALa storiaUna serie di banali contrat-

tempi – un 5 al posto di un 6, un bambinoche cade dalla bici – scatenano un massa-cro. Siamo a Napoli e due gangster ita-loamericani venuti da New York per si-stemare certe faccende oppongono airitmi blandi e caserecci della malavita no-strana una spietata ferocia criminale. Ilracconto, d’intonazione tipicamente noir,ha la caratteristica di essere ambientatocompletamente nell’universo squallido ecrudele della malavita, con l’esclusione diqualsiasi personaggio “positivo”.

I personaggiGennaro, un gangster italo-

americano folle e spietato, sentendosipreso in trappola a causa di un equivoco,massacra un’intera famiglia. La tragedia èresa ancora più sinistra dalla presenza diTina, una giovane donna incinta trasci-nata suo malgrado in questa vicenda al-lucinante dalla follia paterna. Charlie,complice e genero di Gennaro, si rendeperfettamente conto della pazzia del suo-cero ma non può che assistere impotenteal precipitare degli eventi verso il tragicofinale. Scerbanenco ha sempre prestatoparticolare attenzione alla psicologia deipersonaggi, anche quando si tratta di cri-minali, descrivendoli con acume e parte-cipazione in tutti i loro risvolti, dai piùumani ai più efferati.

Il tempoIl racconto è costruito me-

diante il montaggio di due tempi diffe-

renti, quello “dentro” la villa e quello“fuori”. Nel tempo di “fuori” il giovaneFiorello annaspa freneticamente per com-piere il suo incarico, in quello di “dentro”la tensione aumenta in un crescendo pa-rossistico. Sono due dimensioni temporalinon comunicanti, e soltanto al lettore èdato di percepirne la giustapposizione,che genera una forte carica di suspense.La banalità dei disguidi all’origine delmassacro stride con il clima di cupa ango-scia e di tensione che regna all’internodella villa.

Lo spazioA un tempo di “dentro” e un

tempo di “fuori” corrispondono altret-tante dimensioni spaziali. Benché la storiasia ambientata presso Napoli, “fuori” fafreddo e tira vento. “Dentro”, nel chiusodi una fatiscente villa settecentesca in at-tesa di restauri, il luogo appare oscuro eminaccioso, e man mano si trasformerà inuno spazio claustrofobico e ossessivo, unteatro di morte.

Le tecnichenarrative

Prevale il dialogo diretto, insistito e mar-tellante, fatto per lo più di domande sec-camente perentorie e risposte ossequientio imbarazzate. Il ritmo incalzante e dina-mico della narrazione contrasta con l’at-mosfera del racconto, sostanzialmente“nera” e immobile. L’unico svolgimentoriguarda il lettore, al quale Scerbanenco,con un sapiente uso della dilazione, som-ministra la realtà dei fatti a piccole dosi,poco per volta.

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DOMANDE DI VERIFICADalle azioni compiute nel corso del racconto, ritieni che il ragazzo napoletano messo dagli ‘amici’ a dispo-sizione dei boss newyorkesi sia:

incapace di eseguire i compiti che gli sono stati affidati

troppo emotivo per mantenere la calma in una situazione di pericolo

troppo innamorato per essere obiettivo nelle decisioni

succube senza capacità di reazione rispetto ai gangster

Servendoti di tutto quanto puoi ricavare dal testo nel suo complesso, che cosa rivela del personaggio l’af-fermazione che “Gennaro risolveva tutto sparando. Anche quando parlava senza puntare la rivoltella eraimplicito che se qualcuno non fosse stato del suo parere, avrebbe sparato”?

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Nel corso della narrazione uno degli episodi più drammatici e violenti è quello della morte di Tina. Qualiaspetti la rendono particolarmente cruda, sia a livello descrittivo, sia di significato?

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L’ambientazione della villa risulta così fatiscente perché:

intende conferire al racconto un’atmosfera di paura

costituisce uno spazio chiuso e separato rispetto all’esterno in cui si trova la minaccia della polizia

fa intendere che altrettanto traballante è l’agire dei gangster, solo apparentemente minacciosi

diventa uno spazio simbolico della rovina che incombe su tutti i personaggi del racconto

Nella fiducia data e tradita risiede uno degli aspetti fondamentali del racconto. Facendo riferimento a tuttigli elementi che ritieni necessari, prova a descrivere in quale modo viene vissuto questo legame dai perso-naggi della storia.

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Provando a riflettere sul racconto nel suo complesso, trovi che la conclusione sia significativa e adeguataa esplicitare il senso della vicenda narrata? Giustifica, argomentandola, la tua risposta.

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