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36 anno 9 dicembre 1999 rivista trimestrale dell'associazione per l'incontro e la comunicazione tra i popoli MADRUGADA Siamo un esercito di sognatori per questo siamo invincibili. Qui, in questo luogo, nel cuore della selva, un pugno di indios ha abbattuto alberi, con i tronchi ha costruito panche e in mezzo alla montagna stupita ha costruito uno stadio, un anfiteatro, dove a prima vista la cascata di legno dei sedili sembrava una conchiglia, la chiglia di una nave, la copertura di tela una vela, la tribuna la cabina di comando, il podio con i microfoni il timone. In quest’Arca sono giunte più di seimila persone, provenienti da tutte le parti del paese, sopravvissute al diluvio. Erano pellegrini in cammino verso una mecca immaginaria? Erano bucanieri, ladri, briganti, rivoluzionari, militanti sociali, messicani in cerca del sogno perduto che volevano salire su di una nave inventata nella selva, che in realtà non era una nave, ma una metafora, una farfalla, uno scarafaggio che si chiama utopia.

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Page 1: MADRUGADA36 anno 9 dicembre 1999 rivista trimestrale dell'associazione per l'incontro e la comunicazione tra i popoli MADRUGADA Siamo un esercito di sognatori per questo siamo invincibili

36a n n o 9

d i c e m b r e 1 9 9 9

r i v i s t a t r i m e s t r a l e d e l l ' a s s o c i a z i o n e p e r l ' i n c o n t r o e l a c o m u n i c a z i o n e t r a i p o p o l i

MADRUGADA

Siamo un esercito di sognatoriper questo siamo invincibili.

Qui, in questo luogo, nel cuore della selva,un pugno di indios ha abbattuto alberi,

con i tronchi ha costruito panche e in mezzo alla montagna stupitaha costruito uno stadio, un anfiteatro, dove a prima vista la cascata di legno

dei sedili sembrava una conchiglia, la chiglia di una nave,la copertura di tela una vela, la tribuna la cabina di comando,

il podio con i microfoni il timone.In quest’Arca sono giunte più di seimila persone,

provenienti da tutte le parti del paese, sopravvissute al diluvio.Erano pellegrini in cammino verso una mecca immaginaria?

Erano bucanieri, ladri, briganti, rivoluzionari, militanti sociali,messicani in cerca del sogno perduto che volevano salire

su di una nave inventata nella selva, che in realtà non era una nave,ma una metafora, una farfalla, uno scarafaggio che si chiama utopia.

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direttore editorialeGiuseppe Stoppiglia

direttore responsabileFrancesco Monini

comitato di redazioneStefano BenacchioGaetano Farinelli

collaboratoriMario Bertin

Corrado BorsettiEnzo DemarchiAndrea GandiniEttore Masina

progetto graficoAndrea Bordin

stampaLaboratorio Grafico BSTRomano d’Ezzelino (Vi)

Stampato in 2.400 copie

Chiuso in tipografia il 24 novembre 1999

Registrazione del Tribunale di Bassano n. 4889 del 19.12.90La redazione si riserva di modificare e abbreviare i testi originali.

Studi, servizi e articoli di “Madrugada” possono essere riprodotti,purché ne siano citati la fonte e l’autore.

MADRUGADA36

a n n o 9d i c e m b r e 1 9 9 9

Via Romanelle, 12336020 Pove del Grappa / Vi

telefono 0424 80.84.07fax 0424 80.81.91

c/c postale 12794368http://www.macondo.it

E-mail: [email protected]

Hanno scritto fino ad oggi su Madrugada:Alberton Diego, Alunni Istituto Alberghiero Abano Terme, Alves Dos SantosValdira, Amado Jorge, Amoroso Bruno, Anonimo peruviano, Anonimo,Antonello Ortensio, Arveda Gianfranco, B.D., Benacchio Stefano, Bertin Mario,Bertizzolo Valeria, Bianchin Saul, Bordignon Alberto, Borsetti Corrado,Boschetto Benito, Boselli Ilaria, Braido Jayr, Brighi Cecilia, Brunetta Mariangela,Callegaro Fulvia, Camparmò Armida, Cardini Egidio, Castellan Gianni, CavadiAugusto, Cavalieri Massimo, Ceccato Pierina, Chierici Maurizio, ColagrossiRoberto, Colli Carlo, Corradini Luca, Correia Nelma, Cortese Antonio, CrimiMarco, Crosta Mario, Crosti Massimo, Cucchini Chiara, Dalla Gassa Marcello,Dantas Socorro, De Lourdes Almeida Leal Fernanda, De Marchi Alessandro,De Silva Denisia, De Vidi Arnaldo, Deganello Sara, Del Gaudio Michele,Demarchi Enzo, Di Felice Massimo, Di Sante Carmine, Di Sapio Anna, DosSantos Isabel Aparecida, Eunice Fatima, Eusebi Gigi, Fabiani Barbara, FarinelliGaetano, Ferreira Maria Nazareth, Figueredo Ailton José, Fiorese Pier Egidio,Fogli Luigi, Fongaro Claudio e Lorenza, Furlan Loretta, Galieni Stefano, GandiniAndrea, Garbagnoli Viviana, Garcia Marco Aurelio, Gattoni Mara, GianesinRoberta, Giorgioni Luigi, Gomez de Souza Luiz Alberto, Grande Ivo, GravierOlivier, Grisi Velôso Thelma Maria, Guglielmini Adriano, Gurisatti Paolo, HoyetMarie-José, Lazzaretto Marco, Lazzaretto Monica, Lazzarin Antonino, LazzariniMora Mosé, Lima Paulo, Lupi Michela, Manghi Bruno, Marchesin Maurizio,Marchi Giuseppe e Giliana, Margini Luigia, Masina Ettore, Masserdotti Franco,Mastropaolo Alfio, Matti Giacomo, Medeiros J.S. Salvino, Mendoza KuauhkoatlMiguel Angel, Menghi Alberto, Mianzoukouta Albert, Miguel Pedro Francisco,Milan Mariangela, Milani Annalisa, Miola Carmelo, Monini Francesco,Montevecchi Silvia, Morelli Pippo, Morgagni Enzo, Mosconi Luis, MuradorPiera, Ortu Maurizio, P.R., Pagos Michele, Pase Andrea, Pedrazzini Chiara,Pedrazzini Gianni, Pegoraro Tiziano, Peruzzo Dilvo, Peruzzo Krohling Janaina,Peyretti Enrico, Pinhas Yarona, Pinto Lúcio Flávio, Plastotecnica S.r.l., RamaroGianni, Ramos Valdecir Estacio, Ripamonti Ennio, Rossetto Giorgio, RuizSamuel, Sansone Angelica, Santarelli Elvezio, Santiago Jorge, Sartori Michele,Sbai Zhor, Scotton Giuseppe, Sella Adriano, Sena Edilberto, Serato Stefano,Simoneschi Giovanni, Sonda Diego Baldo, Spinelli Sandro, StanzioneGabriella, Stoppiglia Giuseppe, Stoppiglia Maria, Stradi Paola, Tanzarella Sergio,Tessari Leonida, Tomasin Paolo, Tonucci Paolo, Tosi Giuseppe, Touadi JeanLeonard, Trevisan Renato, Turcotte François, Turrini Enrico, Vulterini Stefania,Zanetti Lorenzo, Zaniol Angelo, Zanovello Ivano.

copertinaversi di Subcomandante Marcos

(Convenzione nazionaledemocratica, agosto 1994 in Dallemontagne del sud-est messicano,

Edizioni Lavoro, Roma 1995

foto di Sebastião Salgado

fotografieAdriano Boscato

SOMMARIO

3 controluceL’isola di Castellinariala redazione

4 tradizione e modernitàL’utopia biblica di libertà e giustiziadi Enzo Demarchi

7 dentro il guscioUtopiadi Gianfranco Arveda

10 letteraRadunare i frammentidi Ettore Masina

12 testimoniLa pasqua di dom Hélderdi Enzo Demarchi

13 luoghiOratorio Don Boscoin Valdagno, 1977-1981di Andrea Pase

15 controcorrenteDiritti dell’uomo e verità trasversalidi Giuseppe Stoppiglia

18 etica del confrontoDal creolo alla creolia,dalla creolità alla creolizzazionedi Marie-José Hoyet

22 terzo millennioIl sonno interiore senza sognodi Maurizio Marchesin

24 per nataleL’inquietudine e il sognodi Stefano Galieni

26 diario minimoQuell’emozione di un’Italia bambinadi Francesco Monini

28 notizieMacondo e dintornidi Gaetano Farinelli

31 redazionaleDentro la cornice,dietro la cornicea cura di Gaetano Farinelli

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Caro lettore e cara lettrice,

cercare l’isola che non c’è (Utopia, il monogra-fico del presente numero), mentre vanno som-mersi gli atolli e le isole del grande oceano,complica la ricerca; ma, avendo trovato altrimarinai, salpiamo.

Sulla scialuppa Enzo Demarchi si porta L’uto-pia biblica di libertà e giustizia, secondo cuicreazione e rivelazione non sono due pro-grammi chiusi e definiti, ma scelta di libertà atutela della persona e giustizia imparziale, manon qualunquista, bene espressa da Maria nelcanto del Magnificat.

Secondo membro dell’equipaggio, con in ma-no il timone ed il cane al guinzaglio, ArvedaGianfranco nel suo Utopiapresenta le posizioni dei filo-sofi che nel corso degli annihanno inseguito e descritto ilnon tempo del non luogo edora vorrebbero strappare il ve-lo della sposa; perché questomatrimonio non s’ha da fare.

Terzo dell’equipaggio unadonna, Marie-José Hoyet conDal creolo alla creolia, dallacreolità alla creolizzazioneche lei stessa introduce condomanda: vocaboli astrusi interritori nebulosi? Poi spiega econclude che la creolizzazio-ne non è più solo quel signi-ficato offerto dai linguisti, maun processo più vasto, i cui li-miti geografici vanno oltre leAntille.

A bordo della scialuppa unapiccola radio ci trasmette unalettera di Ettore Masina intito-lata Radunare i frammenti; lapreziosità del piccolo, in cuidopo aver parlato dei lillipu-ziani e dei trucioli e delle sca-glie d’Assisi ci presenta figureminori (romero, tito ed altripiccolissimi) che solo pochiriescono a riconoscere come ilmontare della marea che som-mergerà il Gulliver Globale.

Un corroborante nel viaggio è la pagina delTestimone di Enzo in La pasqua di Dom Hél-der che da integralista filofascista entra incollusione coi potenti dell’economia e dellapolitica. Per cercare anche lui una terra chenon c’è.

Ora la radio di bordo segna il tempo; e si di-stende sul Diario minimo di Francesco Monini;e mentre soffia il vento sul fianco mi passa trale mani la carta gualcita di Maurizio MarchesinIl sonno interiore senza sogno in cui l’autore la-scia il Mario nel sepolcro plurinominale, con inmano una torcia a tempo, che forse non basterà;alla prossima!

Ora l’equipaggio ha visto un gabbiano e cam-bia rotta nel Controcorrente di Giuseppe Stop-

piglia che batte bandieracorsara in Diritti dell’uomo everità trasversali. Il camminograduale della compassione,per affrontare il difficile temadella verità, che ha mille oc-chi come la fama, e producemille brighe; a meno chenon si costruisca insiemenella pazienza con convin-zione e tolleranza.

Dai luoghi, Andrea Pase inOratorio di Don Bosco inValdagno ci invita a puntaresu di un’isola minore, attrac-care e andare oltre.

E poi Stefano Galieni, chetra inquietudine e sogno cipresenta il Diario del vian-dante Giuseppe.

Alcune diapositive di Adria-no Boscato, commentate daFarinelli, accompagnano lacena dell’equipaggio senzaTV a base di carciofi sottolioe tonno in scatola.

Sul fondo della barca gal-leggiano le pagine di Ma-condo e dintorni con cui ilcronista presuntuoso tenta dicoprire i fori impercettibilidella scialuppa.

La redazione

L’isola di CastellinariaScorrendo le pagine di Madrugada

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c o n t r o l u c e

«L’isola di Utopia è larga duecento miglia nella suaparte centrale, che è la più estesa e per un lungotratto non si restringe di molto. Si va poi assotti-gliando gradualmente su entrambi i lati, che pie-gandosi come per seguire la linea tracciata da uncompasso per cinquecento miglia le conferisconol’aspetto di una luna crescente...

Quasi tutte le insenature delle sue coste sono portisicuri, che avvolgono navi d’ogni genere con granprofitto per gli abitanti.

L’approdo non è tuttavia senza rischi, a causa discogli e secche, una soltanto delle quali affiora alcentro dello specchio d’acqua.

Soltanto i nativi conoscono i passaggi, per cui nes-suno straniero può accedere fin dentro la baia sen-za la guida di un pilota del luogo. Gli stessi abitantidi Utopia non potrebbero entrarvi senza rischio senon ci fossero dei segnali sulla costa, spostando iquali si potrebbe mandare una flotta nemica versosicura catastrofe...

Tutti gli anni i cittadini anziani ed esperti si riuni-scono per discutere i problemi comuni dell’isola aCastellinaria, che per la sua posizione centrale e perla comodità di radunarvisi da parte dei rappresen-tanti di tutte le regioni è la capitale dello stato...».

- da Utopia di T. Moro -

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Su La Repubblica del 13 aprile 1999,Gad Lerner, in un articolo dal titolo“Se il Dio dei popoli combatte neibalcani”, scriveva: «Il nostro ecume-nismo laico [cultura laica dell’Occi-dente] erede di una tradizione giu-daico-cristiana, deprivata dei suoi ri-ferimenti alla trascendenza, da noi ri-modellati in forma di ideali civili, al-la fine del millennio viene chiamatoa fare i conti col fenomeno nuovodelle etno-religioni». Tra le varie inte-ressanti questioni che possono susci-tare queste incisive affermazioni ini-ziali, scelgo quella relativa all’identi-ficazione tout court della “modernità”dell’Occidente con un’eredità giu-

daico-cristiana deprivata dei suoi ri-ferimenti alla trascendenza. Tra le do-mande che sorgono spontanee, unami pare rilevante per il dialogo inter-culturale in generale: siamo propriosicuri che la modernità, fiera dei suoiideali civili (che riassumeremo inun’unica parola: libertà), sia il sem-plice sviluppo di una tradizione giu-daico-cristiana “rimodellata”? Nonpotrebbe darsi il caso che tale tradi-zione sia stata gravemente ferita edestenuata con la privazione del riferi-mento al Trascendente? Più provoca-toriamente, non rischierà anche lalaicità, di cui va fiero l’Occidente, diessere una pseudoreligione?

L’utopia biblicadi l ibertà e giustizia

di Enzo Demarchi

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t r a d i z i o n e e m o d e r n i t à

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La minaccia di unacerta trascendenza

La cultura moderna dell’Occidente havisto la trascendenza (o meglio, il Tra-scendente) come una verità assolutae oggettiva, (una cosa) da possedereo da accettare supinamente per “rive-lazione”: un pericolo quindi per ilprogresso storico della ragione e del-la sua libertà, nella conquista senzafine di verità relative e nel dialogo ri-spettoso con la verità degli altri. Chinon vede la minaccia sempre incom-bente di brandire come una clava laTrascendenza così intesa e così im-posta contro ogni “dissenziente” osemplicemente “diverso”? In questosenso la laicità, come piena indipen-denza della ragione umana da ogniimposizione esterna alla sua libertà,continua a essere un valore fondantedella cultura occidentale. Tale cultu-ra ha creato utopie di progresso e disviluppo, così riassunte in lucida sin-tesi da Carmine Di Sante: «La moder-nità è stato il grandioso tentativo dileggere la realtà - cosmo e storia,mondo e uomo, natura e cultura - co-me progresso, sia nella linea più in-genua della prima modernità, chepensava il dominio dell’uomo sullanatura assoluto e incontrastato [v. l’i-deologia attualmente imperante del-la razionalità strumentale di scienzae tecnologia], sia in quella più matu-ra - quella della dialettica - che, con-sapevole dei guasti del progresso pro-dotti dall’incipiente industrializzazio-ne, assume il negativo come stru-mento e mezzo di evoluzione» (DiSante I, 4).

Potremmo tradurre queste utopiemoderne negli ideali sbandierati dal-la Rivoluzione francese: libertà, egua-glianza (giustizia), fratellanza. Senon-ché la fratellanza umana è risultata co-sa ardua, per non dire impossibile, difronte a una libertà incapace di vole-re e praticare la giustizia (cfr. liberali-smo delle democrazie liberali), e difronte a una giustizia incapace di as-sicurare la libertà (democrazie popo-lari del cosiddetto socialismo reale).

Il fallimento dell’iochiuso su di sé

Alla radice di questo fallimento,drammatico per le rovine e i lutti cheha provocato, soprattutto nel nostrosecolo, non è difficile scoprire il con-

cetto ambiguo di “libertà”, intesa insenso individualistico e razionalistico(la ragione astratta confusa con la spi-ritualità). Così poteva scrivere uno sto-rico classico del liberalismo europeo:«La libertà è coscienza di sé, del pro-prio infinito valore spirituale», e nel-la sintesi conclusiva: «La libertà coin-cide col valore stesso dell’attività spi-rituale, che si svolge da sé e da sé traela sua norma... la libertà costituisceuna condizione essenziale di svilup-po e di progresso»; «è un Io sempremaggiore che si libera in questo pro-cesso: un Io che si fa coscienza, pen-siero, parola, azione, famiglia, pro-prietà, associazione, classe, società,insomma si coestende a tutto il do-minio umano. Le libertà civili e so-ciali non sono, così, che il prolunga-mento di quelle individuali...» (DeRuggiero, 15, 419-20 passim).

È proprio pensando a questo Io chesi coestende a tutto il dominio uma-no (diventando anche, perché no?,nazione, popolo, razza) che ci accor-giamo come una simile coscienzaastrattamente (razionalisticamente)universale di individuo possa rivelar-si terribilmente angusta e generarecontinue divisioni e conflitti. L’indivi-duo incentrato su “se stesso” e sullevarie rivendicazioni dell’Io è incapa-ce di dar conto di un altro tipo diesperienza umana, quella di una li-bertà dove l’identità dell’individuonon è data semplicemente dal “sestesso” e da tutte le sue conquiste, madal “se stesso aperto originalmente adaltri”. L’individuo umano è anche per-sona = individuo-in-relazione. Non lachiusa sostanzialità dell’“in sé”, “dasé” e “per sé” di tanta filosofia mo-derna decide del valore dell’essereumano (individuo), ma quella singo-lare “accidentalità” (in realtà “essen-zialità” nella vita quotidiana dell’uo-mo in carne ed ossa) che lo fa perso-na, dandogli un’identità aperta: la suarelazione-ad-altro.

Se trascendenza significasserapporto gratuito?

In quella che viene comunementechiamata postmodernità, la culturaoccidentale continua a essere carat-terizzata da un individualismo libera-le che, fiero della razionalità scienti-fica e tecnologica, restringe e fa ri-fluire le varie utopie su di un io nar-cisista, disincantato e privo di attese

per le quali valga la pena sacrificarsi.Esito, questo, davvero «paradossaledella modernità nata come utopia:come volontà di sconfitta del male edi instaurazione della società ideale»(Di Sante I). Di fronte a questi risulta-ti fallimentari delle utopie moderne,è saggio porsi domande come queste:e se Trascendenza, anziché qualcosadi imposto all’uomo contro la sua li-bertà, volesse dire invece libero donodi un Creatore che istituisce la libertàdell’Uomo per farlo co-creatore deldestino proprio e di quello del mon-do, diventando così fondamento diautentico umanesimo?

E se Rivelazione non significasseuna verità piovuta dall’alto, estraneaalla ragione dell’uomo, ma sollecita-zione da Persona (divina) a persona(umana), dis-velamento di un proget-to a cui l’Uomo è chiamato a parteci-pare con libertà responsabile? La miarisposta a questi interrogativi è positi-va, e cercherò di esemplificarla in rap-porto a due temi fondamentali comelibertà e giustizia. Basta un’onesta“lettura laica della Bibbia” per accor-gersi che l’«atto identificatore di Dioè stato la liberazione»: «Io sono il Si-gnore tuo Dio, che ti ha fatto usciredal paese d’Egitto, dalla condizione dischiavitù» (Es 20,1) (cfr. Maguire,352ss). Questo entrare di Dio nellastoria come liberatore si inscrive inuna creazione che è, a sua volta, pro-getto affidato alla responsabilità del-l’uomo. Al mito creato dal pensieromoderno, di un uomo che cerca “sestesso” in piena autonomia e indi-pendenza da ogni altro (compresoDio, visto come supremo antagonistadell’uomo), il pensiero biblico con-trappone il principio “alleanza” traDio e l’Uomo: «Per la Bibbia l’amoredi Dio non opera come “principio vi-talistico”, bensì come libertà d’amoreche istituisce la libertà umana... An-che Dio si rivela “bisognoso”, ciò dicui egli ha bisogno è la libertà del-l’uomo alla quale affidare il suo pro-getto d’amore, cioè la creazione.Questa non è realizzata solo da Dio eneppure solo dall’Uomo, ma dall’al-leanza tra l’uno e l’altro» (Di Sante I).

Insomma, la rivelazione di Dio al-l’uomo non è quell’assoluto chepiomba dall’alto a soffocare ogni au-tonomia umana, ma la proposta libe-rante di un cammino da fare insieme.È come se Dio con la creazione si ti-rasse indietro, sospendesse il suo do-minio per consegnarsi alla responsa-

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bilità e decisione dell’Uomo. Il Crea-tore non vuole esecutori schiavi ma li-beri co-creatori. Per giungere, o me-glio, tornare al vero “se stesso”, a unalibertà che ha smarrito il senso dellaresponsabilità, l’uomo ha bisogno del-la domanda-appello di Dio: «Dovesei?» (Gn 3,10). Quando «Adamo af-fronta la voce, riconosce di essere intrappola e confessa: “Mi sono nasco-sto”», solo allora «inizia il camminodell’uomo» (Buber, 21-23, passim).

Il Trascendente dunque come susci-tatore di libertà responsabile. Il nega-tivo, il male nel mondo non viene su-perato con l’“astuzia della ragione”,con i sotterfugi della “dialettica stori-ca”, come voleva Hegel (e come vuo-le ogni storicismo che ha secolarizza-to l’idea di provvidenza in quella di“progresso” e “sviluppo” senza fine),ma con l’ascolto della Voce, con la ri-sposta a Colui che ci chiama a realiz-zare nel mondo l’utopia del Bene. Perla Bibbia «l’amore di Dio è amore dilibertà». Gli stessi comandamenti so-no un unico appassionato invito:«Amami, se vuoi». L’uomo è semprerinviato e consegnato alla sua libertàresponsabile, all’“amore di libertà”(cfr. Di Sante II,44-46). Per l’ebraismo,secondo Karen Hassan, la stessa fon-damentale osservanza del Sabato mi-ra solo a farne un simbolo ad un tem-po dell’incommensurabilità di Dio edella libertà dell’uomo. Dio interrom-pe liberamente l’opera, che libera-mente aveva iniziato, col settimo gior-no perché essa aveva ormai “le gam-be per camminare da sola”: con il Sa-bato Egli torna a se stesso per lasciareche il mondo sia se stesso, per fare inmodo che il popolo scelto scegliesseautonomamente il suo Dio (Garribba,10-11). Tuttavia occorre forse dire chepiù che interrompere la sua opera,Dio nel Sabato la perfeziona.

Libertà, alterità, liberazione

La pace è frutto della libertà dell’uo-mo in operoso dialogo con la libertàdi Dio. “Amore di libertà” non è un’e-spressione romantica; è un impegnocoraggioso per la giustizia, è “amoredi alterità”, un amore che libera dalmale praticando il bene. È su questopunto che la Bibbia presenta un’uto-pia etica - utopia del soggetto - chetrasforma, umanizzandola, l’utopiacoltivata dalla modernità. Dal “pro-gresso” e dallo “sviluppo” incentrati

più che altro sulle “cose utopiche” (daconquistare, rivendicare, imporre, di-stribuire...), si passa al cuore del “sog-getto utopico” (buono, giusto o san-to), non sognatore o fruitore soltantodi utopia, ma produttore di utopia nel-la responsabilità quotidiana. «Niente,all’apparenza, è così poco utopico co-me “amare l’orfano, il povero, la ve-dova, lo straniero”, o il nemico ecc.,ma è da un gesto come questo chefiorisce l’utopia». Per la Bibbia il frut-to autentico della libertà che viene daDio (dalla risposta al Trascendente) èl’amore al fratello allo stesso modo dicome Dio lo ama. Ciò significa entra-re in quello spazio che il profetismochiama del “diritto” e della “giusti-zia”, lo spazio dell’alterità in cui l’ionon si sviluppa, ma viene dis-avvi-luppato da “se stesso” (Di Carmine I,passim). Per le Scritture ebraiche l’a-more di alterità sarà l’amore alloschiavo e allo straniero ( Lv 19,33-34);per le Scritture cristiane, l’amore ainemici (Mt 5,43-44).

Per una giustizianon bendata e parziale

Il simbolo più comune della giustizianella nostra cultura è una donna congli occhi bendati che sostiene una bi-lancia in perfetto equilibrio. La nostragiustizia è questa: matematicamenteequilibrata, a ciascuno il suo, senzaguardare in faccia a nessuno. Vera-mente anche nella Bibbia si dice, contermine tecnico greco (prosopolem-psia = accettazione di persone) cheDio non si lascia incantare da chic-chessia, ma ciò non vuol dire che Diosia imparziale alla nostra maniera:un’imparzialità che rasenta l’indiffe-renza. È qui che la giustizia biblicapresenta tutto il suo slancio rivolu-zionario che la contrappone alla no-stra giustizia miope e gretta: Dio èparziale, parteggia per i poveri, i di-sgraziati, gli oppressi. Basti pensareche la grande utopia di giustiziaespressa nel messianismo vede il refuturo, messianico appunto, come co-lui che farà giustizia ai poveri (cfr. Sal72,12-14). Maria di Nazaret avevariassunto questa “giustizia” di Dio intermini inequivocabili nel suo Magni-ficat: «Ha rovesciato i potenti dai tro-ni, ha innalzato gli umili; ha ricolma-to di beni gli affamati, ha rimandato amani vuote i ricchi» (Lc 1,52-53).Schematicamente, mentre la nostra

giustizia (quella della cultura occi-dentale) è dichiaratamente imparzia-le, fondata sulla proprietà privata e suidiritti definiti in termini individualisti-ci, risultando quindi statica e conser-vatrice, quella biblica è pregiudizial-mente favorevole ai poveri e criticanei riguardi dei ricchi, fondata sullaproprietà sociale e sui diritti definiti intermini di solidarietà e di bisogno, ri-sultando quindi evolutiva e rivoluzio-naria (cfr. Maguire, 183ss). Si potreb-be concludere dicendo che la veracritica alla religione (quella non vi-ziata da uno pseudoassoluto, quellache non butta via il bambino con l’ac-qua sporca), la critica libera e libe-rante è forse, ben più e diversamenteda quella proclamata dai filosofi del-la cultura moderna (Marx, Nietzsche,Freud...), la critica dei profeti di Israe-le, quando descrivono, ad esempio,la nausea di Dio di fronte a un cultoche serve a camuffare l’ingiustiza (cfr.Is 1,10-17); quella di Gesù di Naza-ret , un ebreo doc , quando dice, adesempio: «Il sabato è stato fatto perl’uomo e non l’uomo per il sabato»(Mc 2,27), o quando annuncia l’uto-pia del “regno di Dio”, intendendoche Dio regna quando l’Uomo prati-ca la giustizia, quando vive la libertàper la giustizia (cfr. Mt 6,33).

Enzo Demarchi

Note bibliografiche:• M. Buber, Il cammino dell’uomo,Ed. Qiqajon, Comunità di Bose,Magnano (Vc) 1990.• J. Bury, Storia dell’idea di progresso,Feltrinelli, Milano 1964.• G. De Ruggiero, Storia del liberalismoeuropeo, Feltrinelli Economica,Milano 1977.• C. Di Sante I, Ripensare l’utopia,in Via Po (Settimanale culturale diConquiste del lavoro-152) 19-20dic.1998.• C. Di Sante II, Il futuro dell’uomo nelfuturo di Dio, Ed. Elle Di Ci, Torino 1994.• P. Garribba (a cura di), Feste ebraiche,Ed. Com Nuovi Tempi, Roma 1999:art. di Karen Hassan, “E il Sabato Dioaffidò l’uomo a se stesso”, 9-14.• K.Lövith, Significato e fine della storia,Ed. Comunità, 21965 (in particolare,i par. 2 e 3 su Hegel e Marx,rispettivamente, e la Conclusione).• D. C. Maguire, Il cuore etico dellatradizione ebraico-cristiana. Una letturalaica della Bibbia, Cittadella Ed.,Assisi 1998.

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All’origine del termine utopia sta il ti-tolo di un’opera che è diventata ilmodello di un genere letterario e unmodo di pensare al sociale che oggisembra caduto in discredito presso lanostra cultura.

Si tratta dello scritto De optimo rei-publicae statu deque nova insula Uto-pia di Tommaso Moro, edito nel 1516.

Tommaso Moro racconta, attraver-so il personaggio di Raffaele di ritor-no da un viaggio nel nuovo mondo,di un’isola, Utopia (il termine ha neltesto il duplice significato di non luo-go ou-topos e luogo felice eu-topos),dove è stata abolita la proprietà pri-vata, dove il lavoro, pur rappresen-tando l’attività più significativa per gli

isolani, lascia spazio ad altre occu-pazioni, culturali o ricreative; nell’i-sola i beni vengono saggiamente am-ministrati a favore della comunità. Sipratica, inoltre, un elevato grado ditolleranza religiosa. L’obiettivo cui èfinalizzato tale sistema sociale è la fe-licità degli utopiani, che ricevono unaeducazione aperta all’accettazionedegli altri, di altre opinioni, nel di-sprezzo delle ricchezze e in partico-lare dell’oro.

Il racconto di Raffaele che ci forni-sce una descrizione dettagliata dellavita nell’isola, appare a prima vista ungioco della fantasia, un piacevolepassatempo di corte, una costruzioneimmaginaria, fatta per divertire.

Utopia

di Gianfranco Arveda

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«Una carta geografica che non

registri il paese di Utopia non

merita uno sguardo»

[O.Wilde]

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In realtà lo slancio utopico che per-vade il testo si radica in un’analisi del-le condizioni delle classi più umilinell’Inghilterra di Enrico VIII: la crisidella proprietà contadina, l’incame-ramento delle terre comuni da partedelle grandi proprietà terriere e la lo-ro destinazione a terra da pascolo,avevano gettato nella miseria i conta-dini poveri, che ormai vagabondava-no per il Regno, costituendo una mi-naccia per l’ordine pubblico. Tutto ciòviene denunciato con forza da Tom-maso Moro nella prima parte dellasua opera.

Da questo testo possiamo già rica-vare alcuni dei tratti salienti del con-cetto di utopia: essa, in particolare,quando ha finalità sociali, si presentacome un’alternativa totale, razionale,rispetto alla realtà presente che è se-gnata da tali ingiustizie e disarmonieda apparire irrazionale. Le utopie so-ciali si presentano come un progettopercorso da una logica interna, strin-gente, rigorosa, un progetto che inve-ste la società nel suo complesso. Visi-tare l’isola di Utopia vuol dire quindiassumere un modo di pensare, per cuila realtà viene commisurata ad unmodello ottimale, insomma quell’u-topismo che è tanta parte del nostropassato politico.

«Da questo non-luogo viene getta-to uno sguardo esteriore sulla nostrarealtà, che improvvisamente appareinsolita, poiché niente è più dato perscontato» (P. Ricoeur, Tradizione o al-ternativa, Morcelliana). Il vedere uto-pico equivale ad un processo di estra-neamento, di dislocazione perifericache permette di considerare il quoti-diano, il nostro mondo sociale, le no-stre categorie, fluttuanti all’internodel nostro orizzonte fatto di scelte, dipossibilità esperibili, e di possibilitànon-esperibili; ciò che viene valuta-to come impossibile consente di arti-colare meglio ciò che è possibile: «Èperfettamente esatto e confermato datutta l’esperienza storica, che il pos-sibile non verrebbe raggiunto se nelmondo non si ritentasse sempre l’im-possibile» (M. Weber). Ma c’è di più:nell’isola di Utopia, gli uomini ap-paiono in grado di modificare il pro-prio destino su questa terra, di indi-rizzarlo verso un approdo caratteriz-zato da giustizia sociale, fraternità trai suoi membri, benessere diffuso. ConTommaso Moro inizia la storia del-l’utopia letteraria moderna, che in

modi diversi, a seconda delle epoche,declinerà la speranza escatologicadel cristianesimo medioevale e la ca-rica contestativa nei confronti dellasocietà gerarchica dei movimenti ere-ticali premoderni; quell’aspirazionead uno stato originario felice (mito),quell’attesa della Gerusalemme cele-ste, si convertono nello slancio versoun mondo storico alternativo. Iniziail processo di secolarizzazione del-l’escatologia cristiana.

Nella storia del genere utopico unpassaggio significativo è rappresenta-to dalla produzione del XVIII secolo.Le utopie fino al ‘700 vengono pen-sate come luoghi geografici, isole fe-lici e fantastiche. In questo secolo l’u-topia assume una caratterizzazionediversa. Nel ‘700 si ha una straordi-naria fioritura di trattati, romanzi ecc.di argomento utopico. È il periodo incui si afferma il mito del buon sel-vaggio, che consente non solo unacritica della società contemporaneama di tutto il corso della civiltà occi-dentale. A ciò va ad aggiungersi unafilosofia come quella di Rousseau,che teorizza che la natura fa gli uo-mini buoni e la società li corrompe.In questo contesto, in particolarefrancese, prende piede una nuovaforma di utopia, definita ucronica,cioè una utopia dislocata nel tempo,anziché nello spazio: dal non-luogosi passa al non-tempo. È in questo se-colo che nasce il rapporto tra storia eutopia. Ciò che incomincia a farsistrada come orizzonte culturale è laconcezione del cammino umano co-me di un procedere per tappe suc-cessive e cumulative segnate da unacrescita inarrestabile di sapere, libertàe felicità.

Nasce l’idea della storia come pro-gresso. L.S. Mercier scrive la più co-nosciuta delle opere di questo gene-re, “L’anno 2440”. Il protagonista siaddormenta nel XVIII secolo e si sve-glia nel XXV. Parigi è diventata unacittà pulita, la gente è felice e virtuo-sa. Si gode di grande libertà, le leggisono giuste, l’economia prospera, nonci sono più guerre. L’evento che si in-carica di dimostrare che si può rove-sciare una società che corrompe gliuomini rendendoli malvagi è la rivo-luzione francese che apre al secolodell’utopia comunista, al secolo sto-rico per eccellenza. Utopia e storiaora marciano insieme per prepararela società senza classi.

Questa alleanza entrerà definitiva-mente in crisi con la caduta del mu-ro di Berlino e il crollo dell’imperosovietico. Nella letteratura utopica diquesto secolo questo esito era statogià intravisto: la carica utopica, il prin-cipio speranza, si era già affievolito;allo slancio progettuale si sostituisce,nei romanzi utopici, il ritrarsi inorri-dito di fronte ad un futuro che là do-ve dovesse realizzare la società otti-male porterebbe con sé l’annulla-mento dell’uomo, della sua libertà, li-bertà di un essere fragile, tormentato,anche infelice, ma custode di unastraordinaria ricchezza. Gli autori chesi dedicano a questo genere di disto-pia, come è stata definita, sono piut-tosto noti, come le loro opere, Hux-ley, Orwell, Bradbury ecc.

L’esperienza totalitaria in Russia eb-be naturalmente una grande influen-za su questo nuovo orientamento:l’utopia comunista realizzata sembròmettere una pietra tombale sulle illu-sioni maturate nei due secoli prece-denti quanto a capacità degli uominidi progettare una polis che non co-noscesse forme di ingiustizia. Quel-l’esperienza, soprattutto dopo la se-conda guerra mondiale, dimostrò chela feroce determinazione nel perse-guire l’egualitarismo sociale comeunica forma di giustizia, comportavalo sradicamento di ogni espressionedi libertà. Il pluralismo sembra esse-re incompatibile con il progetto diuna società se non perfetta più giu-sta, che consenta la eguale dignitàdei cittadini.

È ancora nel corso del nostro seco-lo che si sviluppa in modo approfon-dito il dibattito intorno alla funzionestorica e sociale dell’utopia; se da unlato v’è chi considera l’utopia comeun principio fondamentale per pro-muovere ogni azione riformatrice (èil caso di E. Cassirer che afferma «lagrande missione dell’utopia è di daradito al possibile, in opposizione al-la passiva acquiescenza all’attualestato di cose. È il pensiero simbolicoche trionfa della naturale inerzia del-l’uomo e lo dota di una nuova facoltà,la facoltà di riformare continuamenteil suo universo»), dall’altro v’è chi co-me Ruyer o come Popper considera ilpensare utopico come una forma dipensiero totalitario.

È Popper in particolare a muoverela più implacabile e argomentata cri-tica all’utopia. Egli parte dalla con-

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statazione che il pensiero utopico sta-bilisce fini assoluti all’azione sociale;ma questi fini assoluti non possonoessere fondati razionalmente, perciònel processo di edificazione della so-cietà umana si è costretti a ricorrerealla violenza per imporre questi fini,combattendo tutto ciò che allontanada questa meta, tutto ciò che trovaespressione in modi di pensare e at-teggiamenti divergenti. Il pensieroutopico ha un carattere statico, rigi-do, difficilmente si adatta ai naturalicambiamenti sociali, totalizzante,pretende di ricondurre ad unità ciòche vive nel pluralismo e si alimentadi pluralismo, e quindi i suoi esiti so-no inesorabilmente totalitari. «Che ilmetodo utopistico, scrive Popper (daUtopia e violenza), che elegge unostato ideale della società come scopocui tutte le azioni politiche devonotendere, possa generare violenza, èdimostrabile nel modo seguente. Da-to che non è possibile determinare ifini delle azioni politiche scientifica-mente, ..., le differenze d’opinionecirca le caratteristiche dello statoideale non possono venir appianatecol metodo dell’argomentazione. Es-se avranno almeno in parte il caratte-re dei contrasti di natura religiosa, enon può esservi tolleranza fra religio-ni utopistiche diverse... Ma egli (l’u-topista) deve fare di più. Dev’esseremolto severo nell’eliminare e soffo-care tutte le posizioni eretiche rivali...L’impiego di metodi violenti nellasoppressione delle tendenze rivali di-venta ancor più urgente se conside-riamo che il periodo di edificazionedell’utopia può essere un’epoca di ri-volgimenti sociali. In un periodo sif-fatto anche le idee possono mutare.Così quel che appariva a molti desi-derabile all’epoca in cui fu stabilito ilprogetto utopico, può risultare un se-guito meno desiderabile. In tal casola concezione utopica rischia di in-frangersi». Da ultimo, per conclude-re questa breve nota su Popper, il mo-dello sociale cui fa riferimento il pen-siero utopico è la società chiusa, rin-tracciabile in Platone, Tommaso Mo-ro, e in particolare nel pensieromarxista. La società chiusa ruota in-torno ad un gruppo unitario di con-vinzioni, rappresenta una condizionedi felicità, di benessere e giustizia fi-nalmente realizzata; si tratta di un ti-po di società che per affermarsi devesopportare un grado elevato di vio-lenza e di limitazione della libertà.

Desiderabili, per Popper, sono le so-cietà aperte, dove non esiste una ve-rità unica, ma un libero esercizio dicritica, e tutto viene acquisito me-diante esperimenti, libere discussio-ni, parziali interventi nel sociale, il cuifallimento, proprio perché limitati,non ha conseguenze insopportabili.Desiderabili le società aperte quantopiù si ha presente che è impossibilela progettazione di una società buo-na, tenendo conto che gli elementi ele variabili che costituiscono unarealtà così vertiginosamente com-plessa sono in numero quasi infinito(M. Moneti).

È difficile negare che oggi le utopiehanno scarso rilievo, non sono più dimoda (tranne che non si voglia rifon-darle quale progetto della società digiustizia volto verso il futuro ma in-nervato nella storia e sempre parzial-mente espresso, del quale l’utopia let-teraria è solo un fatto accessorio, ve-di A. Colombo “L’utopia” edizioniDedalo; ma questa via merita di es-sere esplorata in modo più approfon-dito). Il venir meno dell’alleanza frastoria e utopia, ha reso la prima inin-telligibile per gli uomini, l’ha privatadi senso, di un telos e ha svuotato diogni slancio progettuale la seconda.Ai grandi progetti oggi si preferisce ilbricolage sociale come suggeriva Pop-per. L’atmosfera è fatta di modestia easpettative decrescenti. L’agire politi-co non provoca più particolari emo-zioni: l’atteggiamento che prevale as-somiglia sempre più ad una sorta di

pragmatismo deteriore; la politica as-sume i toni di un’attività dimessa, bu-rocratica, impegnata semmai nel de-vitalizzare gli slanci, nello spegnerele speranze, che possono infrangerel’ingessatura pseudo-scientifica edeconomica nella quale gli individui sitrovano costretti. Nonostante questovorrei concludere riprendendo una ri-flessione-domanda di Bobbio intornoalla catastrofe del comunismo,dell’“utopia capovolta”: (che vorreileggere come una domanda circa lanostra capacità oggi che la miserevo-le caratterizzazione in senso econo-mico e tecnico-scientifico di ogni mo-mento della nostra esistenza ha bru-ciato ogni slancio, e la nostra razio-nalità appare sempre più povera e pri-va di compiti, di ricollocarsi respon-sabilmente, con passione, di fronte aibisogni e alle miserie di questo mon-do) egli si chiedeva, con evidentepreoccupazione, se la democrazia ri-masta sola perché i regimi comunistisono stati scossi, lacerati attraverso lecrisi economiche, sarà in grado di da-re una risposta ai giganteschi proble-mi degli oppressi della terra da cui eranata la speranza di emancipazionedell’utopia comunista. Saprà la nostrasocietà deidologizzata accogliere insé quella sete di giustizia che conti-nua a guidare l’azione degli uomini eche i regimi comunisti avevano cer-cato di soddisfare globalmente e inconflitto con gli altri bisogni fonda-mentali?

Gianfranco Arveda

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1.

Lo hanno chiamato “il cantiere del-l’utopia”. Il terremoto del settembre1997 aveva crudelmente squassato labasilica di San Francesco in Assisi egli affreschi di Giotto e di Cimabueerano crollati in più di centomilaframmenti. Sarebbe stato possibile re-stituire all’arte e alla fede quegli ini-mitabili tesori? «Utopia» diceva ilbuon senso, sempre pessimista. Mal’utopia sta diventando realtà.

I crolli continuavano (e facevanoquattro morti) e già decine di volon-tari si spezzavano le unghie e intossi-cavano il respiro setacciando i detritialla ricerca di ogni tessera dell’im-menso puzzle polveroso in cui eranostate ridotte le meravigliose opere; ealtri recuperavano un mattone dopol’altro, e altri ancora cominciavano araggruppare i frammenti per sfumatu-re di colore, continuità di pennellata.

Oggi sugli immensi banchi del la-boratorio dell’Istituto centrale del Re-stauro, accanto alla basilica e al SacroConvento, in cui i muratori ripristina-no pareti e consolidano archi, i santi

di Giotto cominciano a riapparire, co-me venendo dal nulla, con occhi chesembrano dilatati dal terrore e vesti la-cere e mani piagate e aureole sbrec-ciate: feriti, indelebilmente, e tuttaviariconoscibili; e presto (entro il 2001,forse) pronti ad essere ricollocati làdov’erano per secoli, ad aprire nellevolte stellate le porte del Cielo allepreghiere dei pellegrini.

Ho visitato il laboratorio (un regalofattomi da padre Egidio Manzani edalla dottoressa Paola Passalacqua,dai grandi occhi che sembrano quel-li di un’icona romanica) quasi travol-to dalle emozioni: per la commozio-ne che nasce dal vedere da vicino lagravità delle ferite delle meravigliegiottesche, la straordinaria dedizionedei restauratori e i prodigi delle tec-niche di cui si servono; ma più anco-ra per quel riemergere di un disegnounitario, di unitaria bellezza da tantiframmenti disseminati dalla tragedia.E subito mi sono detto (per uno diquei guizzi un po’ clowneschi in cuiil cervello si produce di quando inquando) che la gioia profonda chesentivo in me era, in qualche modo,simile a quella provata per la Marciadella Pace: lieta e sudorosa armatabrancaleone, di cento colori, mosai-co musicale (dalle nenie saharawi aiflauti andini), costellazione di ban-diere e cartelli e magliette-manifesti;ma soprattutto di frammenti ideali, disperanze variegate diventate un solodisegno, una sola volontà.

Penso che nella ricomposizione deiframmenti, qualunque essi siano, sipossa leggere una specie di simboli-co ritorno all’opera della creazione,l’ordine che subentra al caos primi-genio e – insieme – la rivalutazionedi ogni particella come elemento ne-cessario del tutto. Ho sempre credu-to nella necessità di raccogliere ogniframmento di vita per ricomporlo congli altri alla ricerca del disegno uni-tario esigito dalla storia. Sconfitte da

Radunare i frammentiLa preziosità del piccolo

di Ettore Masina

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quella capitalista tutte le altre ideo-logie, e dopo l’avvento del consumi-smo nei paesi cosiddetti “del benes-sere”, con la frantumazione di quasitutti i rapporti comunitari, che altrosiamo, se non frammenti minuscoli,apparentemente sterili e insensati?Sembrerebbe una condanna definiti-va e invece là dove i frammenti cer-cano di unirsi (o li smuove la neces-sità dell’essere, del significare), l’esi-stenza del frammento si fa preziosa:le briciole diventano pane, le solitu-dini amore, gli individui famiglia, leparole messaggio.

2.

Preziosità del piccolo. Forza che vie-ne dall’unità dei piccoli. Leggo congioia, un po’ dovunque sui fogli del-la controinformazione, che riprendeluce la storia del gigante Gulliver le-gato e domato dai lillipuziani, tantopiù piccoli di lui. Felice ritorno di unageniale invenzione, e preziosa per inostri tempi in cui basta la cronaca diogni giorno a farci sentire minimi,impotenti, schiacciati da forze gigan-tesche e insensate nella loro logicanefasta, nella loro ideologia totalita-ria, nella loro blasfema teologia. Lil-lipuziani davanti al Mostro.

Che fare? Gulliver, se ricordo bene,fu immobilizzato, reso inoffensivomentre dormiva, esausto, dopo unnaufragio: ed è ben difficile giudicarese il capitalismo “globale” stia viven-do un suo disastro. Tuttavia è certo chequa e là le rotte percorse dai suoi su-perbi vascelli si fanno tempestose, isuoi meccanismi scricchiolano, le sueprediche diventano un po’ ansimantie sempre meno persuasive; e i suoiestremismi rivelano pulsioni, a lungoandare, suicide. Ma il mostro continuaa uccidere, a divorare, a cancellare ci-viltà e diritti, libertà e dignità. Dunquenon è possibile rimanere inerti, atten-dendo che esso crolli, corroso dallesue stesse contraddizioni e dalle vio-lenze di cui è seminatore: è necessa-rio preparare i fili, le reti, i coordina-menti per muoverci intorno al suogrande corpo e togliergli un po’ dellasua forza. Penso con sorridente sim-patia ai lillipuziani che nella notte pre-parano corde, piantano picchetti, sal-gono impauriti ma decisi su quel grancorpaccio, minaccioso anche nel son-no, armano i loro minuscoli archi; pre-parano difese; ai messaggeri che cor-

rono a cavallo nelle tenebre per re-clutare uomini e portare ordini all’e-sercito, rassicurare i cittadini inermi; epenso alle sentinelle che scrutano ilcielo in attesa dell’aurora o del mez-zogiorno che sveglieranno Gulliver,quando dovranno mostrare tutto il lo-ro coraggio…

Forse il secolo XX, cominciato conle gigantesche masse degli oppressiraccolte intorno alle bandiere dellegrandi rivoluzioni, è destinato a chiu-dersi mentre tanti piccoli individuitentano di ridarsi, in modo nuovo,collegamenti ideali, lottando, secon-do le diverse opportunità, nell’uno enell’altro mondo in cui è diviso il no-stro pianeta, perché giustizia e libertànon rimangano parole vuote o, peg-gio, parole corrotte nelle bocche deisacerdoti del Mercato. Forse le ban-diere sono tutte cadute, e spente legrida della rivolta. È un esito imprevi-sto, ma non tragico se le speranze co-muni, le “buone” speranze, radunanoi frammenti, li dispongono in modonuovo, preparano comunità capaci dicostruire, in una storia rinnovata, legrandi cattedrali della dignità del-l’uomo.

3.

Una delle caratteristiche più evidentidel pontificato di Giovanni Paolo II èla prolificità di santificazioni. Nessunpapa ha mai portato sugli altari tantepersone e, fra esse, tanti sacerdoti. Mai martiri dell’America Latina riman-gono per lui senza aureola: monsi-gnor Romero sembra sepolto da qua-si vent’anni nel gelo degli archivi del-la apposita congregazione vaticananon meno che nella sua tomba di ElSalvador, ma, nei Sacri Palazzi, senzatributo di affetto e di preghiere.

Figuriamoci se mai potrebbe esserecanonizzato un giovane sacerdotesuicida, al quale, in molti, guardiamocome a un testimone della fede. So-no passati 25 anni dal giorno in cui ilfrate domenicano Tito de Alencar Li-ma fu trovato impiccato a un alberonel sud della Francia. Aveva 28 annie a 23 era stato arrestato dal delegatoPranhas Fleury, uno dei peggiori ele-menti dalla terribile polizia brasilianadegli anni ’70. «Visiterai la succursa-le dell’inferno» - gli garantì uno deipoliziotti. Tito rimase in carcere treanni. Pretendevano da lui false chia-mate di correo a carico dei suoi con-

fratelli e una piena confessione sul-l’accusa di avere organizzato – e conchi – un congresso clandestino del-l’Unione degli studenti. Nel 1972 lotorturarono per giorni e giorni, neimodi più spaventosi. Il capitano Be-roni de Arruda Albernaz, che dirige-va i suoi carnefici, gli disse: «Se con-tinuerai a tacere, non potrai più di-menticare il prezzo del tuo silenzio».Temendo di cedere, Frei Tito si tagliòle vene con una lametta da rasoio.Scrisse su una pagina della sua Bib-bia che era «meglio morire che per-dere la vita». Fu “salvato”.

Espulso dal Brasile qualche mesepiù tardi, in cambio della libertà datadai guerriglieri all’ambasciatore sviz-zero che era stato da loro sequestra-to, Frei Tito venne in Europa. Ebbi uncolloquio telefonico con lui e mi in-gannò la sua apparente serenità: misembrava che sorridesse dicendo:«Preferisco andare in Francia, daimiei confratelli domenicani». Ma inFrancia il suo torturatore lo riprese. Ti-to vedeva Pranhas Fleury nei boule-vards e nei parchi, nei bar e nellechiese. Sotto le piogge di una gelidaprimavera, gli intimava di non ripa-rarsi, di restare fermo, diritto e silen-zioso. Gli ordinava di restare fermo,immobile e silenzioso sotto il sole ro-vente dell’estate. Gli infangava i so-gni e gli rendeva il respiro aspro co-me un cilicio. Tito pianse come Cristonel giardino degli ulivi ma nessun an-gelo veniva a consolarlo. Deciseun’altra volta di morire per non per-dere la vita, per essere di nuovo libe-ro. Era il 10 agosto 1974. Nello stes-so giorno, a diecimila chilometri didistanza, il capitano Albernaz venivaportato in manicomio.

Quando la dittatura militare brasi-liana cominciò a entrare in fibrillazio-ne, nel 1983, e fu costretta ad allenta-re i suoi artigli, fu possibile riportarela salma di Frei Tito nel suo paese.Una immensa folla la accolse a SãoPaulo, ove il cardinale Arns celebrò ilfunerale nella sua basilica. Nessunoosò pensare che Frei Tito avesse man-cato di coraggio. La crudeltà della tor-tura di stato aveva spinto altri uominicoraggiosi a morire per non tradire.

C’è gente che adesso prega Frei Ti-to come un santo. Come un santoguardò a lui, in Italia, la Rete RadiéResch che si addossò le spese per latraslazione della sua salma.

Ettore Masina

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In manus tuas

Il 27 agosto scorso dom Hélder Câ-mara, vescovo emerito della diocesidi Olinda e Recife (capitale dello sta-to di Pernambuco, Brasile), ha cele-brato la sua pasqua, ha realizzato de-finitivamente il suo battesimo, sacra-mento della fede. Smorzatisi da tem-po luci e clamori attorno al suo per-sonaggio, la sua persona con la mor-te è entrata nel mistero di Cristo chepassa da questo mondo al Padre, hacosì conosciuto e sperimentato larealtà ultima (l’eschaton) dell’esisten-za credente: la morte-risurrezione inCristo Gesù.

«Io non sono importante. L’impor-tante è il Padre» (cf. N.Piletti-W.Praxedes, Dom Hélder Câmara.Tra potere e profezia, Queriniana,Brescia 1999, p.690 - in questa e nel-le altre citazioni, il corsivo è mio),così diceva dom Hélder in un’inter-vista degli ultimi anni. Il Padre era la“realtà” per la quale preparò nel si-lenzio, per lunghi anni, il “grandeviaggio” (o.c., 691-92), silenzio incui il “fratello Gesù Cristo” lo guida-va come Pastore buono attraverso lavalle oscura della purificazione ulti-ma. In una poesia datata 2/3 marzo1966, aveva già scritto: «Quandosentirai / il primo inconfondibile se-gnale / di morte prossima, non fidar-ti di te... / Afférrati alla grazia. / Rav-viva la fede / nella vita eterna. / Nonchiedere un secondo in più... / Chiu-di gli occhi / e salta / nell’abisso dimisericordia / della divina compren-sione...» (o.c., 532). Senso della mor-te e abbandono al Padre, magnifica-mente riassunti nel motto araldico-episcopale scelto da dom Hélder epoi commentato in una poesia: “Inmanus tuas” (o.c., 293-94).

La pasqua decisiva, la realtà ultimadi dom Hélder era stata anticipata davari passaggi-conversione della sua

esistenza di uomo, credente, aposto-lo. Accennerò qui solo al passaggiopiù significativo e denso di conse-guenze, quello dell’apostolo che dauna Chiesa alleata del potere e deiprivilegi che ne derivano, si convertea una “Chiesa dei poveri”.

Nell’omelia tenuta in occasione delgiubileo sacerdotale celebrato dadom Hélder a Recife il 16 agosto1981, il vescovo nero José Maria Pi-res (il dom Pelé dei brasiliani) «ri-cordò la fase integralista del giovanesacerdote Hélder Câmara nel Ceará ela sua fase di intimità con i potenti aRio de Janeiro finché, avvenuta unasvolta decisiva nella sua vita, andòaccostandosi al popolo, smise di ri-cercare i grandi per ottenerne aiuti daportare ai poveri. Cominciò ad ani-mare i poveri esortandoli a unirsi traloro per esigere di diritto quello cheprima veniva loro dato (o negato) co-me elemosina. La sua voce ha oltre-passato le frontiere nazionali e conti-nentali. È giunta fino alle metropolidel Nordamerica e dell’Europa perdenunciare il colonialismo delle gran-di nazioni contro le più povere e me-no sviluppate...» (o.c., 669-71).

Chi l’avrebbe mai detto? Un HélderCâmara “in tonaca nera e camiciaverde” (di integralista filofascista), epoi in collusione con i potenti dell’e-conomia e della politica... Ma Dioscrive diritto su righe storte, dice unproverbio portoghese, e sa sempresollecitare e operare col suo Spiritosvolte decisive. Con semplice e co-raggiosa autocritica, così scriverà lostesso dom Hélder sulla conversioneche il Concilio operò nella sua vita:«Uno dei gravi peccati di omissionedella mia vita io l’ho commesso so-prattutto nel corso dei miei dodici an-ni di segretario generale della CNBB(ma è chiaro che lo stavo già com-mettendo molto prima): ero convintoche in Brasile vivessimo una situa-zione ideale di mutuo rispetto e lea-

La pasqua di dom Hélder

di Enzo Demarchi

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Nella vita di una persona credo siamolto importante sperimentare un mo-mento denso di “utopia”, per quelloovviamente che è possibile “vivere”un’utopia e quindi con tutte le media-zioni e le riduzioni che conseguono al-l’impatto con la realtà. Anzi proprioqueste mediazioni, se non vengono ri-mosse, sono preziose perché consen-tono di “vaccinarsi” dal troppo amoreper “utopia”, un eccesso di passioneche rischia spesso di far dimenticare laconcretezza delle persone, l’incertez-za dell’operare, il limite intrinseco adogni progetto, per orientare inevitabil-mente l’agire utopico verso le tragicheconseguenze dei sistemi ideologiciproiettati a forza sulla vita dei singolie dei popoli. Quindi sperimentare una“utopia minore”, ma comunque unmomento in cui si condivide con altriun’esperienza carica di attese e intes-suta di realizzazioni, ovviamente pic-cole rispetto alla “grande storia”, maoriginali. Avere alle spalle una simileesperienza è oggi un “privilegio” par-ticolare perché consente di dare una

risposta personale alle due difficoltàche investono nei nostri giorni la co-struzione del senso1: da un lato l’ab-bassarsi dell’orizzonte delle attese, chederiva dalla crisi dei grandi progetti disocietà ideale e dal conseguente col-lasso di ogni speranza al solo futuro in-dividuale, e dall’altro il restringersi del-lo spazio di esperienza, l’inutilità a cuisembra essere destinata ogni memoriadi ciò che è stato, per la velocità deicambiamenti e per l’impossibilità diconsolidare una “tradizione” efficacedei vissuti2. Il frammento di utopia chesi è gustato costituisce allora un depo-sito di memoria su cui appoggiarsi eda cui può prendere slancio la spe-ranza per il futuro. Se il presente, “nonpiù sorretto dagli insegnamenti dellatradizione, né da una polarizzazioneverso il futuro”, diviene oggi “puntoevanescente”, “spazio inospitale”3, èallora veramente significativo potercontare su questo bagaglio di vita. Èl’esperienza che permette l’alleanza traun passato dotato di senso e un futuroaperto al progetto, al di là delle molte

Oratorio Don Boscoin Valdagno, 1977-1981

di Andrea Pase

le collaborazione tra Stato e Chiesa[...]. Ma dopo il Concilio era natura-le che la mia posizione cambiasse[...]. L’ho ripetuto tante volte e non mistancherò di farlo: preoccupati di aiu-tare a mantenere l’ordine sociale,sembravamo non accorgerci nemme-no che si tratta piuttosto di un disor-dine stratificato. In pratica servivamoda sostegno a strutture di schiavitù e,con le migliori intenzioni, predicava-mo una religione-oppio del popolo,vivevamo una religione alienata ealienante» (o.c., 681).

La vicenda umana e cristiana didom Hélder, la conversione che loespone alla persecuzione dei disce-poli di Gesù, diventa emblematica ditutto un passaggio epocale di Chiesada cristianità, sempre in pericolo diautoesaltazione e di identificazionecol potere, a piccolo gregge (comu-nità ecclesiali di base) di credentiaperti alla missione universale, so-prattutto nel vasto mondo dei poveri.Conversione e missione che non gliperdonarono mai i prepotenti, so-prattutto in patria, negli anni della dit-tatura (a partire dal 1964), quand’e-gli prese le difese di tutti i persegui-tati, torturati, uccisi in nome della si-curezza nazionale e della “civiltà cri-stiana” da salvare dal comunismo. Alpunto di vedersi affibbiati epiteti in-giuriosi quali «Fidel Castro in veste daprete, guerrigliero ecclesiastico, pa-dre della menzogna, corruttore dellecoscienze...» (o.c., 590-91).

In realtà Dom Hélder Câmara eradiventato profeta e portavoce del ter-zo mondo credendo nella rivendica-zione nonviolenta e nell’appello allacoscienza dei privilegiati. La grande“meraviglia” della sua vita è stato ilcammino attraverso tante prove che,anziché scoraggiarlo e chiuderlo nel-l’amarezza e nel vittimismo, lo han-no portato a incarnare e diffondereun messaggio di speranza e salvezzaper tutti, facendosi “voce dei senzavoce” dell’umanità.

Enzo Demarchi

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l u o g h i

1 G. Mari, Postmoderno, democrazia, storia, ETS, Pisa 1998, pp. 109-122.2 R. Bodei, Libro della memoria e della speranza, il Mulino, Bologna 1995, pp. 11-26.3 Ibid., p. 15.

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opacità del quotidiano. Tanto più inci-sivo è sperimentare una simile realtàse si colloca in quella fase della vita incui si formano gli orientamenti essen-ziali di una persona.

Un’esperienza si situa nel tempo edè costruita su spazi condivisi. Ecco al-lora un piccolo catalogo dei luoghi delmio personalissimo “angolo di utopia”.

Spazi in “movimento”

La prima cerchia: gli spazi interni del-l’oratorio.

La sala ovale: al centro il tavolo chedava il nome alla stanza, attorno a cuisi riuniva il gruppo nonviolento e si di-scuteva di Gandhi e di satyagraha, diCapitini e del potere di tutti, di Dolci edi educazione, di Don Milani e di obie-zione di coscienza, e ancora di centra-li nucleari, di testate atomiche, di dife-sa popolare nonviolenta, di ecologia...

Il salone: il luogo degli incontri dei“gruppi” il sabato pomeriggio, delloscambio con i coetanei, del confron-to con i più grandi, gli “animatori”;ma ancor più la sede delle riunioni ditutto il Movimento durante le cele-brazioni a Natale e a Pasqua ed an-che lo scenario per le feste dell’ulti-mo dell’anno.

La biblioteca: stretta e lunga, sugliscaffali la prima catalogazione del sa-pere, libri e riviste che lasciavano in-travedere mondi nuovi: romanzi, poe-sia, sociologia, psicologia, teatro, Ame-rica Latina, Africa, Stati Uniti... Lì con-venivano solo per noi (attraverso la pa-rola scritta, spesso letta insieme) scrit-tori, profeti, monaci, attori, italiani estranieri, antichi e contemporanei... Ri-mangono impigliati nella memorialunghi pomeriggi estivi, ad esplorareparole e a giocare con i testi.

La cappella: i lavori di un’estate l’a-vevano trasformata da uno stanzonefreddo, con il muro dietro l’altare pia-strellato come il fondo di una piscinae il marmo per terra, in un ambientecaldo, dai toni marrone e crema, rico-perto dove possibile da fogli di sughe-ro, con la moquette intorno all’altare eal centro che formava uno spazio vuo-to da sedie e disponibile per inginoc-chiarsi, sedersi su sgabellini, per pre-gare con più libertà anche attraverso ilcorpo. Le preghiere comunitarie delmartedì e del giovedì ritmavano la set-timana e lo spazio per la meditazionepersonale era sempre aperto.

“Adiacente” alla cappella, non ma-terialmente ma da un punto di vistaspirituale, c’era la chiesa parrocchia-le, in cui si condivideva con tutta lacomunità uno stile di preghiera, at-traverso l’animazione della messa del-le undici e mezza e di molte celebra-zioni dei tempi liturgici forti, durantele quali venivano reinterpretati i segniper renderne più evidente ed attualela densità simbolica. Alle volte veni-vano rovesciati gli spazi abituali difruizione della chiesa, spostando ibanchi, ricostruendo un centro diver-so della celebrazione.

Lo studio di Don Pino: pieno di librie riscaldato d’inverno da una stufettaelettrica, era il luogo dei colloqui piùintensi, sulla fede, sull’impegno, sulfuturo, ma anche di dialoghi menoesigenti, magari nei momenti di ripo-so dopo qualche lavoro in bibliotecao in segreteria. Sul muro stava appesoun manifesto brasiliano, con una fra-se in portoghese, che trasportava franoi un pezzetto delle sofferenze e del-le speranze di quel popolo.

La segreteria: il centro logistico eoperativo del Movimento: la macchi-na da scrivere, i cartelloni, i penna-relli, ma soprattutto il “ciclostile”, suicui misteri (come fare perché non siinceppasse o perché non lasciassemacchie informi sulle stampe) e sullainterpretazione dei suoi segni (il ru-more “giusto” e quello sbagliato, i ci-golii, le trasparenze della matrice...)si era formato un piccolo circolo diiniziati. In un armadio aveva trovatoposto il primo archivio del gruppo diAmnesty International.

La seconda cerchia: Castelvecchio,Marana, Quargnenta…

Erano le case per gli incontri del fi-ne settimana. Il tempo per le discus-sioni e per l’amicizia poteva dilatarsiin questi spazi privilegiati.

La terza cerchia: Agordo, S. Antoniodi Mavignola, Cant del Gal…

Queste ed altre, le case dei campiestivi dove si viveva per una settima-na insieme, a costituire una cesuraforte tra il prima e il dopo, e il ritornoalla quotidianità era sempre difficile.I molti relatori e testimoni ascoltati aicampi allargavano lo sguardo su oriz-zonti inattesi.

La quarta cerchia: Taizé, Spello, Bose.I più significativi punti di riferimento

per la vita spirituale, frequentati da so-li o in piccoli gruppi, consentivano ditrasportare parole e forme nuove neimomenti di preghiera comunitaria.

Ovviamente questi spazi non eranoesclusivi del Movimento: lo stessooratorio vedeva la presenza di altreassociazioni con la loro identità edautonomia e una volta all’anno era loscenario di una festa di tutti. Il picco-lo catalogo presentato poi non è cer-to completo: gli spazi descritti nonesauriscono i luoghi di questo “fram-mento” di utopia. Ci sono gli spazilaici della città, affrontati spesso in-sieme: il Consiglio comunale, con lascoperta della politica, le sale degliincontri pubblici e delle mostre... Eancora i luoghi dell’impegno sociale,con l’invenzione di nuove modalitàdi aggregazione. Altri spazi a Vicenzamettevano in contatto con movimen-ti diversi all’interno della realtà dio-cesana. E, sullo sfondo, i monti, i pra-ti, i boschi delle lunghe passeggiate…

Spazi in “movimento”, attraverso iquali si andava formando di giorno ingiorno una piccola utopia. In questispazi ancora mi aggiro e trovo respi-ro, quando più forte sento la difficoltàdi condividere con altri un passato edi sognare insieme un futuro.

Andrea Pase

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l u o g h i

Biblioteca Cappella

Sala ovale Studio di Don Pino

Salone

Segreteria

Taizé, Spello, Bose Castelvecchio, Marana,Quargnenta, Mucion…

Agordo, S. Antonio diMavignola, Cant del Gal…

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Nelle vicinanze di S. Petronio m’im-battei in una donna vestita di nero,prona a terra, con un fazzoletto nerosul capo. Immobile, a faccia in giù,come in preda a malore. La gentesciamava indifferente, distratta, im-passibile: finché, dopo essermi cur-vato su di lei e averla scossa inutil-mente senza averne risposta, non ri-chiamai l’attenzione di una coppiet-ta giovane (sono spesso i meglio di-sposti) che telefonò prontamente al-l’ospedale mentre io cercavo di soc-correre la poveretta e le infilavo in ta-sca tutto quello che potevo.

«Non si dia la pena di farlo» - miesortò un passante scuotendo la testa- «è tutta scena, sa. Lo fanno per im-pietosire: è accattonaggio professio-nale, non sono tanto nel bisogno; nonc’è da sorprendersi se hanno il contoin banca o sono proprietari di appar-tamenti. La polizia li conosce: li tol-lera perché siamo a Bologna. E poi,meglio accattoni che delinquenti. La-sciamoli campare finché non fannomale a nessuno. Non si faccia carpi-re la sua buona fede. Si limiti ad unapiccola elemosina e sappia difender-

si dalle estorsioni, non sono solo lezingare a praticarle».

Fra il negare a chi è nel bisogno ve-ro e il dare a chi forse bisogno nonha, che cosa sceglieranno i miei qua-rantasei lettori?

Il debole va spazzato via

«Tu, vecchio anarchico umanitario enon violento» - sorride Guido - «do-vresti continuare a credere, come di-ceva Plinio il Vecchio, che il Divinoper l’uomo, creatura mortale, è gio-vare agli altri mortali. Più che fedemorale, questo è convincimento ra-zionale, persuasione profonda chepiù si cerca se stessi, più ci si chiudein se stessi, nel proprio narcisismo epiù si è infelici e insoddisfatti. Credoche solo donando si riceva, soloamando si è amati».

Il suo entusiasmo è contagioso, ilsuo ottimismo mi sorprende e miscuote l’anima. «Ma la nostra civiltàè mostruosa, è giunta a negare questalegge in tutte le sue forme e i suoi co-rollari. Nel cuore del mondo, dietro

Diritti dell’uomo e verità trasversaliIl cammino graduale della compassione

di Giuseppe Stoppiglia

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c o n t r o c o r r e n t e

«Se alla violenza risponde

sempre la violenza,

potrà mai cessare la violenza?»

[Catama Budda]

«Noi non sappiamo risolvere il

problema del male, ma non per

questo siamo dispensati

dall’occuparci dei mali…

Alla fine dei giorni,

il male sarà sconfitto dall’Uno;

in tempi storici,

i mali devono essere

sconfitti ad uno ad uno».

[Abraham Heschel]

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la facciata ipocrita, puoi leggere an-cora le parole di Hitler: “Il debole vaspazzato via”».

Guido non demorde ed incalza:«Ogni persona sensibile conosce iltunnel dell’angoscia, della crisi esi-stenziale… e credo che la miglior me-dicina dell’anima sia proprio quelladi uscire dalla prigione dell’io e oc-cuparsi degli altri. Per far questo nonc’è bisogno di preti, di litanie, di san-tini e di processioni, non c’è bisognodi farsi complici di un apparato di po-tere che provoca e rafforza, con la suamondanità, il più intransigente atei-smo… Basta non dimenticare quelloche noi stessi abbiamo ricevuto».

Ti ringrazio, ignoto Iddio, per quel-lo che mi hai tolto e per quello che mihai dato: il tesoro dell’amicizia, del-l’ospitalità, della condivisione, che tuhai profuso nel mio cammino incertod’indegno peccatore. Insegnando allamia superba fierezza, l’umiltà digni-tosa del povero invitato alla mensa delricco. E la silenziosa pena del lavoromal apprezzato e non retribuito.

Depositari della verità

Viviamo in un contesto dove si fron-teggiano risorgenti fondamentalismi esoggettivismi estremi che si alimenta-no a vicenda: gli uni, sicuri di tenerein pugno la verità, provocano la rea-zione degli altri, che parlano di “opi-nioni” individuali in quanto ciascunoha la “sua” verità, mantenendo l’op-posizione di “fratelli sospetti”.

Sono, infatti, entrambe posizioni

chiuse e insidiose: la prima con la suapretesa di possedere la verità in esclu-siva, non ha nulla da imparare da nes-suno e ha storicamente prodotto tota-litarismi e intolleranza, quindi vio-lenza; la seconda, arroccata nel suoparticolarismo, è di fatto indifferentealle convinzioni altrui e va esprimen-do un’anarchia di valori che facilita illassismo e ostacola la scoperta diideali comuni.

Ed ecco l’insidia: per ragioni oppo-ste, ma convergenti, sgretolano le fon-damenta di un’effettiva convivenza tradiversi, possibile soltanto sulla basedi valori condivisi, anche se legitti-mati con visioni differenti dell’uomo.

Per sfuggire al dilemma tragico trafondamentalismo e soggettivismo,credo occorra seguire un atteggia-mento aperto verso la verità, dimen-sione vitale da esprimere in formula-zioni altrettanto aperte, quindi prov-visorie, in grado di assumere gli ap-porti nuovi, le acquisizioni via viaemergenti dall’esperienza umana.

Una ricerca paziente

Penso, perciò, che la comprensionedella verità delle cose, della persona,della vita, sia un cammino, una ricer-ca paziente, umile, ostinata, che con-tinua di generazione in generazione.

È questa la via per raggiungere al-cune “verità universali” come i “dirit-ti dell’uomo”, da considerare nonquali mutevoli “opinioni”, bensì idea-li da trasformare in “convinzioni” sta-bili, che orientano le scelte personali

e collettive affinché l’altro sia semprericonosciuto persona e mai ridotto aoggetto su cui esercitare violenza.

In questa linea la verità si presentacome realtà viva, non una cosa iner-te, bloccata in una formula definitiva.Si scopre per “intuizione” dentroun’esperienza e si approfondisce epurifica in un “dialogo” tra le diverseconcezioni della vita, dialogo tantopiù urgente quanto più sono nuovicerti problemi come quelli legati allagenetica, all’incontro tra culture, aldialogo tra religioni.

È una dimensione “trasversale” cheriguarda tutte le espressioni dell’u-mano: anche la giustizia, anche il va-lore sommo dell’amore possono es-sere “veri” o “falsi” e vanno verificatinel confronto.

La verità non è un privilegio

Essendo io un prete, formato per die-ci anni in seminario, dove si afferma-va e si insegnava che l’ordinazione cifaceva “ontologicamente” diversi da-gli “altri”, ho avvertito la necessità diun cammino per ricostruire un miopensiero e una mia prassi che fosseroliberazione dalla “cultura del privile-gio” della casta sacerdotale, dentrouna chiesa “istituzione totale”. Chie-sa che chiede di continuo libertà persé, come istituzione monarchica, mache difficilmente ammette spazi di li-bertà, autonomia, diversità al suo in-terno.

La richiesta di libertà da parte dellachiesa, nella linea della cultura delprivilegio, è frutto della sfiducia e del

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poco rispetto della realtà complessae pluralista dentro la quale la chiesaè posta.

Si produce così una specie di bipo-larismo o contrapposizione, in cui la“posizione della chiesa” è il criteriodi “verità e validità” su cui il “resto”della realtà viene valutato.

Se sono convinto che la mia con-fessione di fede è depositaria della ve-rità, allora le altre confessioni, le al-tre religioni e non religioni sono falsee non possono essere che tollerate innome della laicità dello Stato, che èper principio (e con il consenso di tut-ti) senza religione.

Ciò a cui bisogna dapprima rinun-ciare, è ad un rapporto possessivodella realtà; dire: io non ho la verità,ma spero di essere nella verità.

Se le convinzionidiventano opinioni

Secondo passo: non posso sperare diessere io stesso nella verità senza spe-rare e senza credere che anche voi,che non credete ciò in cui io credo,siate, in un modo che non so, nellaverità. E questo modo io non posso

saperlo in virtù del carattere limitatodi ogni comprensione.

Quest’altra parte della verità nonposso che presentirla, riconoscerla la-teralmente, di sbieco in qualche mo-do, senza poter paragonare dal di fuo-ri la credenza dell’altro e la mia.

Il modo peggiore d’incontrare l’al-tro è di annullare la sua intenzione diverità contemporaneamente alla mia.Non esistono convinzioni, ma opi-nioni così differenti che divengonoindifferenti. Ogni dialogo, allora, spa-risce perché non c’è più confronto, enon c’è più confronto là dove non c’èpiù convinzione.

So che questo paradosso è difficileda considerare. Ma non è questa “laverità nella carità”, dono eccellentedello Spirito? Lo Spirito è uno, manessuno sa donde soffia il vento.

La miseria non è nel destinoma nel giudizio su di noi

La televisione sta rimandando imma-gini di carestia, di povertà, di miseria,di case distrutte, di corpi straziati inuna regione del Sudan in Africa.

Annullo la voce del cronista e so-

vrappongo le note della Quinta diBeethoven. Il primo movimento siapre con l’incalzare dei colpi deldestino: così avrebbe spiegato lostesso Beethoven. Ma in queste pri-me battute non ci si interroga solosu chi bussa alla nostra porta. È lanostra identità a essere in gioco: chisiamo, noi?

La televisione rimanda immagini dimorte, di atrocità. Chi siamo noi?Quale il destino che ci andiamo co-struendo?

Scena da un villaggio di profughi:un bambino si aggrappa al biberon. Ètra le braccia di un altro bimbo, pocopiù grande, che si china con un sorri-so indefinibile, stanco e gioioso allostesso tempo, a dargli un bacio sullaguancia.

Continuo ad ascoltare la Quinta. Aldi là del buio, la luce.

Oltre il volto della violenza, quelladell’amore.

Credere in questo, per continuare avivere.

Quel bambino lo sa.

Pove del Grappa, novembre 1999

Giuseppe Stoppiglia

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Vocaboli astrusi coniati in territori ne-bulosi? Concetti astratti formulati interre fantascientifiche? Parole bizzar-re sfornate da individui in cerca diesotismo? Nient’affatto. Creolia, creo-lità, creolizzazione sono realtà benvive in varie parti del globo, tanto ne-gli arcipelaghi del mar dei Caraibi chein quelli dell’oceano Indiano, ossialaddove le società meticce, nate dal-la schiavitù e sopravvissute per seco-li in un contesto - quello schiavistaprima, quello coloniale poi - di vio-lenza e di sopraffazione alle qualihanno cercato in tutti i modi di resi-stere, aspirano oggi a una propria col-locazione nel mondo. Risultanti an-che dai contatti fra aree vicine e daivari flussi migratori in costante au-mento, mescolanza e ibridazione so-no parte di un processo inarrestabile,che coinvolge aree sempre più este-se, di cui non si può oggi non pren-dere atto.

Volutamente dimenticate dai po-tenti, per lungo tempo luoghi di ten-sioni razziali e sociali, le aree in cuisi sono sviluppate le società meticcein generale, e quelle creole in parti-colare, costituiscono tuttavia casiesemplari di convivenza e straordi-narie testimonianze di creatività. Leculture a lungo represse, emarginate,occultate dalla storiografia ufficiale,spesso ancora dominate, stanno non-dimeno diventando un elemento ca-pitale per la posta in gioco dei pros-simi decenni nelle strategie socio-po-litiche mondiali.

Se uno dei primi fattori di coesioneè stato di carattere linguistico, questesocietà hanno sviluppato progressiva-mente un complesso di elementi che,fusi in una nuova cultura, costituisco-no ormai da tempo un sincretismo deltutto originale che chiede di essere ri-conosciuto come tale. Le lotte di ri-vendicazione per il proprio riconosci-mento su scala regionale, nazionale,continentale si sono moltiplicate ne-

gli ultimi tempi e non solo non devo-no più essere ignorate ma possono ad-dirittura rappresentare un esempio divalore mondiale per il futuro.

Con lo sviluppo degli studi specia-lizzati, una volta soprattutto linguisti-ci, che investono oggi l’intero camposocio-politico-culturale e l’incremen-tarsi dei rapporti tra territori (preva-lentemente insulari) di lingue diversema con substrato comune, si è elabo-rata una nuova coscienza identitaria- l’identità creola - che assume lo spe-cifico dell’immaginario delle popola-zioni coinvolte in questi processi e siesprime mediante comuni elementi diuna poetica finora “inedita”.

Creolo

Prima di procedere in questo campoforse non ancora adeguatamente in-dagato in Italia, s’impongono alcuneprecisazioni terminologiche che ri-guardano innanzitutto la parola creo-lo, la quale ricopre significati diversia seconda delle epoche e delle areegeografiche.

Etimologicamente derivato dallospagnolo criollo, poi passato in fran-cese nel XVII secolo, il termine créo-le non indica all’origine, contraria-mente a quello che si potrebbe pen-sare, un idioma ma ogni individuonon autoctono, nato e cresciuto nel-le Americhe. Tuttavia l’uso comune,in alcune aree, dà al termine una con-notazione razziale, cosicché vieneusato solo per i bianchi nati nelle co-lonie antillane francesi, come attesta-no i dizionari del XIX secolo. Il ter-mine creolo sarà esteso in seguito adaltre aree, sempre francesi ma non in-sulari (Guiana, Louisiane) e non ame-ricane (Mauritius, Réunion, ecc.), perindicare esclusivamente i discenden-ti degli schiavi africani.

Molto più recente è la denomina-zione creolo per indicare l’idioma ap-

Dal creolo alla creolia,dalla creolità alla creolizzazione

di Marie-José Hoyet

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e t i c a d e l c o n f r o n t o

«Andiamo decisamente

verso questa utopia

di cui abbiamo tanto bisogno.

Facciamo della Martinica

un luogo del mondo,

quella è la nostra vocazione».

[Edouard Glissant,Traité du Tout-Monde, 1997]

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parso nelle colonie francesi tra il 1625e il 1670 che rimane ancora oggi lalingua madre di tutti i creoli e, in al-cuni casi, l’unica lingua per una partedella popolazione, per esempio adHaiti e nelle zone rurali. Nato in con-dizioni sociali ben precise, il creolonon appare in tutte le situazioni colo-niali e non è presente infatti, per rima-nere nel campo francese, né in Algeriané in Nuova Caledonia né in Polinesiafrancese che, tra l’altro, non hanno co-nosciuto il sistema schiavista. Non esi-ste nemmeno nella repubblica di San-to Domingo, pure contigua a quella diHaiti, né a Cuba, e infatti la creolizza-zione su base spagnola si limita prati-camente al palanquero colombiano,mentre esiste alla Giamaica e alleHawai un creolo su base inglese e va-ri tipi di creoli su base neerlandese co-me il srnam nel Surinam e il famosopapamiento a Curaçao. Tuttavia è l’a-rea creolofona su base francese che ri-sulta di gran lunga la più estesa e la piùdiversificata e, proprio per questo, èstata, più delle altre, oggetto di moltistudi, utili anche per ricerche linguisti-che di vario tipo.

La mescolanza di francese del XVIIsecolo (lingua non ancora unificata) edi arawak e karib (lingue degli autoc-toni amerindi) che viene chiamata ba-ragouin nei primi tempi della con-quista, si trasforma presto - con l’arri-vo massiccio degli schiavi e le loronumerose e differentissime lingue afri-cane (fon, yoruba, ewe, ecc.) - inquello che veniva allora chiamato pa-tois negro. Questo, nato fin dalla par-tenza della prima nave negriera dallecoste africane per permettere la co-municazione tra mercante e schiavo,poi tra padrone e schiavo nella pian-tagione, si sviluppa ovviamente tra glistessi schiavi che parlavano idiomi di-versi essendo state accuratamente di-vise le famiglie e le etnie per evitareogni tentativo di ribellione. Successi-vamente il creolo si arricchirà di ele-menti indiani, cinesi, siro-libanesi edaltri, a seconda delle migrazioni tut-tora in atto in alcune zone come laGuiana, terra di varie deportazioni edi immigrazioni continue tanto daipaesi limitrofi quali Brasile, Surinam,Guyana inglese, quanto da terre piùdistanti quale Haiti o persino lonta-nissime come Laos e Cina. Studi lin-guistici e sociolinguistici approfondi-ti hanno dimostrato che non si pote-va parlare, come si era fatto in un pri-mo tempo, a proposito del creolo e

della sua evoluzione, né di pidgin nédi lingua franca né di dialetto poichéanche se la sua genesi ha visto fiorirevarie ipotesi divergenti, tutti concor-dano nel riaffermare il suo statuto dilingua vera e propria.

La lingua creola, o meglio le linguecreole, dato che sono numerose quan-to le lingue europee della colonizza-zione, e che quella su base francese sidiversifica a sua volta in vari tipi: hai-tiano, antillano, guianese, maurizia-no, ecc., sono le uniche lingue di cuisi conosce la data di nascita e costi-tuiscono, come è stato detto, un labo-ratorio di notevole importanza.

Nel caso particolare dei Diparti-menti francesi d’oltremare (i cosid-detti DOM: Martinica, Guadalupa,Guiana e Réunion), esiste una situa-zione di diglossia (e non di bilingui-smo) nella quale coabitano due lin-gue: il creolo fino a poco tempo falingua popolare orale senza sistemadi trascrizione codificato e il france-se, lingua ufficiale. Le due lingue so-no usate in alternanza, in contesti di-versi: la prima, lingua madre di tuttigli Antillani, nella comunicazionequotidiana e le situazioni di affettività,l’altra nell’amministrazione e in tuttele occasioni in cui si rende necessa-rio l’uso di un registro convenziona-le o ricercato. Gli inevitabili fenome-ni di contiguità, d’interazione e di fri-zione hanno generato una situazionelinguistica complessa e unica, fontedi tensione e di rivendicazione, inquanto la buona conoscenza del fran-cese rimane tuttora il primo strumen-to di promozione sociale.

Creolità

Non è un caso se il termine creolité,nato in risposta all’egemonia del fran-cese, si afferma proprio nelle Antillefrancofone negli anni ’70 con i movi-menti autonomisti e indipendentisti.L’uso della lingua creola, sempre vis-suta in opposizione a quella francese,è da sempre proibito e quindi ogget-to di un vero tabù. Tollerata nel pe-riodo successivo, si avvia lentamenteverso un riconoscimento ufficiale ecostituisce ora un problema urgenteda affrontare poiché la Carta europeadelle lingue regionali o minoritarie,adottata nel 1992 dal Consiglio d’Eu-ropa, è stata firmata da alcuni paesima non dalla Francia perché incom-patibile con la costituzione che al-

l’articolo 2 stipula che «la lingua del-la Repubblica francese è il francese».

La Creolità odierna, preconizzata daun gruppo di intellettuali, linguisti escrittori, ha portato alla redazione, daparte di Jean Bernabé, Patrick Cha-moiseau e Raphaël Confiant, di un ma-nifesto, L’Eloge de la Créolité (1979).Questo testo segna una data impor-tante e ha originato un movimento incui molti si riconoscono nell’apparte-nenza comune a un’identità molte-plice, detta identité mosaïque , nellapromozione della lingua creola, lin-gua solo orale fino allora (anche seesisteva una sporadica produzionescritta) e nella difesa del mondo creo-lo e dei suoi valori. Significativo l’in-cipit dell’Elogio, «Né europei, né afri-cani né asiatici, ci proclamiamo creo-li», che prosegue con varie dichiara-zioni di principio: «La Creolità è il ce-mento della nostra cultura aggrega-zione interattiva o transazionale deglielementi caraibici, europei, africani,asiatici e levantini che il giogo dellaStoria ha riunito sullo stesso suolo».

Una seconda data importante ri-guarda la stesura, nel 1982, dellaCharte culturelle créole ad opera delGEREC (Groupe d’Etudes et de Re-cherche en espace créolophone) cheha sede in Martinica presso l’univer-sità Antilles-Guyane. Il problema piùurgente da risolvere consisteva nel va-rare un metodo scientifico di trascri-zione del creolo, il quale poco a po-co sarà accettato da tutti, malgrado lanecessità per gli utenti di padroneg-giare il sistema fonetico internazio-nale, cosa non facile per una popola-zione alfabettizzata in francese, abi-tuata quindi all’ortografia e all’etimo-logia della lingua francese. L’appro-cio del GEREC presenta similitudinicon l’Elogio nel suo desiderio di co-struire «il futuro su basi transrazzialie transculturali» e nell’affermare chela «Creolità è l’espressione concretadi una civiltà in gestazione».

La Creolità si è fatta inoltre cono-scere di recente nel mondo caraibico,in Francia e nell’intero mondo fran-cofono, come un campo letterariospecifico, in cui una letteratura libe-rata dai modelli occidentali si sta fa-cendo strada e ottiene sempre mag-giori consensi, pur tentando di pre-servare la sua autonomia il che puòapparire paradossale, dati i rapportinon sempre facili che intrattiene conla cosiddetta madre patria.

Un’ulteriore ma fondamentale di-

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stinzione va fatta tra la creolità inquanto risultante del mondo creolo,e la creolità quale discorso ideologi-co su quel mondo creolo, quest’ulti-ma presentando sempre una dimen-sione politica, soprattutto nella lette-ratura, spesso accompagnata da undiscorso critico. Ma non tutti gli scrit-tori si rifanno al movimento dellaCreolità; alcuni prendono le distan-ze da queste posizioni estreme e, pu-re sentendo di appartenere ad unacomunità, hanno progetti scritturalidi altro tenore, a volte divergenti, senon opposti.

Creolia

La Créolie, risposta oceano-indianaalla creolità antillana, parte dalla ne-cessità di uscire da un certo isola-mento, rapportandosi ad altre aree vi-cine (o lontane) e non più esclusiva-mente alle ex potenze coloniali. Co-sì come viene concepita e vissuta aMauritius, appare un esempio riusci-to di integrazione e di coesione che siestende a un territorio che include l’i-sola della Réunion, in cui è stato co-niato il neologismo dal poeta Jean Al-bany, negli anni ’70-80, le Seychelles(con il creolo unica lingua ufficiale),le Comore anche se la lingua ufficia-le è l’arabo, e una parte del Madaga-scar con la sua minoranza francofonainsediata nell’area del Toamasina.

Isola più cosmopolita del mondo,Mauritius presenta un caleidoscopiodi etnie e di culture tanto più sor-prendente se si considera la ridottaestensione del territorio (neanche1/15 della Sardegna mentre Guada-lupa e Martinica hanno superfici an-cora minori). Accanto all’inglese, lin-gua ufficiale, e quindi dell’ammini-strazione e dell’insegnamento, e alfrancese, lingua dei media e della cul-tura che viene capita da buona partedella popolazione, il creolo mauri-ziano che risulta dalla contaminazio-ne del lessico francese con alcunelingue africane e indiane, ma anchecon il malgascio e l’inglese, è parlatoda tutti ed è la lingua della comuni-cazione interetnica e della cultura po-polare. Tuttavia ogni gruppo della co-munità orientale, anch’essa molto di-versificata, conserva, insieme alla re-ligione, la propria madrelingua: gli in-diani (emigrati come braccianti dopol’abolizione della schiavitù che costi-tuiscono il 70% della popolazione)

per la maggior parte parlano hindi ebhodjpuri ma anche urdu e tamul, e icinesi si dividono tra il cantonese el’hakka. Così se il francese costituiscesolo una delle componenti linguisti-che di un insieme in cui gli individuisono spesso plurilingui, tuttavia la let-teratura in lingua francese, rispetto aquelle molto più ridotte in creolo, ininglese e in lingue orientali, ha sem-pre dimostrato un’eccezionale vitalitàe riflette nella sua variegata ispirazio-ne la ricchezza multiculturale dell’i-sola. Negli ultimi anni la situazione siva sempre più diversificando. La pro-duzione in creolo, prima solo orale,usata a teatro e nei generi tradiziona-li, gode oggi di maggior successo. Al-lo stesso modo, la forte componenteorientale, soprattutto indiana (70%circa) ha oggi una letteratura in tamule la comunità cinese anche se mino-ritaria (3%) ha artisti che utilizzano lacalligrafia a pennello secondo la tra-dizione per i poemi epici. Inoltre, esi-stono casi di scrittori che usano ilfrancese per le loro opere in prosa el’inglese in poesia, oppure saggisti eromanzieri che usano il francese perla narrativa e l’inglese per le pubbli-cazioni scientifiche.

Nuovi modelli basati insieme sulpluralismo e la preservazione delleidentità locali alimentano sogni con-federativi, che investono anche zonemultietniche non insulari, meno notedei sedicenti paradisi tropicali esoticievocati precedentemente perché rite-nute meno attraenti ma forse proprioper questo ancor più significative, co-me la Guiana francese. Sede di forti

movimenti rivendicativi, rifiuta sia ap-pellativi che gli sono stati imposti(quello di territorio caraibico) sia diessere accomunata alle Antille dallequali dipende per molte infrastrutture(università, ecc.) e deve anche libe-rarsi da pregiudizi legati a fatti storiciormai superati (i penitenziari). Nonsentendosi affatto coinvolta dall’ideadi una grande federazione caraibica etanto meno dal movimento dellaCreolità antillana, cerca contatti mag-giori con i suoi vicini, gli stati indi-pendenti della Guyana ex inglese edel Suriname, con i quali costituisceun’entità geografica. Significativo ilfatto che perdurino contestazioni perle frontiere e che ancor oggi alcunezone lungo i grandi fiumi amazzoni-ci siano rivendicate da più stati: Suri-name / Guiana francese ad est eGuyane francese / Brasile ad ovest,poiché geograficamente e geologica-mente esiste anche una Guiana brasi-liana nonché una Guiana venezuela-na. Scissa artificialmente prima daiconquistatori europei, poi dalla suc-cessiva espansione coloniale e infineda accordi politici tra grandi potenzeche volutamente tendono a isolare lepopolazioni le une dalle altre, leGuiane soffrono di questa situazionesu tutti i piani: la Guiana francesecommercia solo con la Francia, e ilSuriname, che produce una culturascritta in neerlandese di limitatissimadiffusione mondiale, cerca sbocchi sulmercato francese e inglese. L’originecomune, per una buona parte, dellerispettive popolazioni (tribù amerin-de, creoli discendenti dagli schiavi,

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africani discendenti da schiavi marronfuggiti dalle piantagioni, che hanno ri-costituito comunità etniche), solo direcente ha consentito a Guiana e Su-riname (oltre il neerlandese, lingua uf-ficiale, vi è diffuso un creolo, lo sr-nam) di prendere coscienza della lo-ro identità collettiva chiamata Guia-nità. Dispongono inoltre, lungo il fiu-me Maroni, di un idioma veicolarecomune, il taki-taki e stanno incre-mentando le relazioni culturali, con ilprogetto di formare un giorno unaconfederazione delle tre Guiane.

La multietnicità con le origini e lelingue diverse che vengono rimesco-late da secoli, ma anche le forze cheallontanano queste aree dai Centri oc-cidentali per rivolgersi alle varie Peri-ferie, diventa un fattore portante chesi diffonde nel campo sociale, cultu-rale, letterario e politico-ideologico.La sete di comunicazione e i nuovi si-stemi di relazioni che la multicultura-lità mette in atto deve essere presa inconsiderazione non solo dalle aree li-mitrofe, dove fioriscono nuove iden-tità di frontiere, ma anche dal restodel mondo.

Creolizzazione

La creolizzazione non va più intesa oranel significato scientifico usato dai lin-guisti per descrivere l’evoluzione del-le lingue creole, ma in quello di unben più vasto processo, che offre spun-ti di riflessione per l’attualità e i cui li-miti geografici vanno ben al di là del-le isole antillane, anche se queste - esoprattutto l’isola della Martinica conalcune personalità di spicco (ricordia-mo che è la patria di Aimé Césaire,ideatore del concetto di negritudine,considerato il più grande poeta viven-te di lingua francese) - sono state pun-to di partenza di un’approfondita ri-flessione e territorio fecondo di inven-tive scritturali e teoriche.

Molti assunti del movimento dellaCreolità sono stati suggeriti, come ri-conoscono gli stessi autori dell’Eloge,da un altro ormai celebre martinica-no, Edouard Glissant, vero padre fon-datore, che instancabilmente rielabo-ra, di opera in opera, la formulazionedella sua visione del mondo, dal con-cetto di Antillanità (1981) a quello diPoetica della relazione (1991) a quel-lo infine di Tout-Monde (1997). L’uni-verso caraibico, malgrado l’insularitàche lo caratterizza, non è nella sua es-

senza territorio di chiusure ma luogodi passaggio e di contatto, nel quale ladimensione culturale, pur essendo sta-ta emarginata nelle relazioni interna-zionali, è concepita come apparte-nenza aperta e costituisce un model-lo di nuova configurazione degliscambi culturali per il futuro. In que-sto senso potrebbe essere esportatoverso il mondo mediterraneo operan-do, nella scia della riflessione glissan-tiana, «una nuova forma di creolizza-zione», certo «non ancora accettata,tra oriente e occidente» ma valida peril futuro, come sottolinea lo scrittorefrancese Thierry Fabre.

La Poetica della relazione espostada Glissant nei suoi saggi e illustratanel sue fictions (oltre alle Poesie com-plete e i volumi di saggistica sono ap-parsi sei romanzi pubblicati tra il1958 e il 1993, tutti poco noti in Ita-lia dove si dispone per ora di un solotesto La poetica del diverso, trad. diFrancesca Neri, Roma, Meltemi, 1998ma è in corso la traduzione del ro-manzo Il quarto secolo presso le edi-zioni Lavoro di Roma), si fonda, tral’altro, sull’affermazione che ogni cul-tura possiede qualcosa di irriducibilee che questa irriducibilità deve esse-re integrata nella relazione con ognialtra cultura. Il caos-mondo, di cui se-condo Glissant occorre prendere at-to, deve essere interpretato non comeun disordine che divide ma come undato positivo, perché ricettacolo dipotenzialità infinite. Questo nuovomodo di relazionarsi, questo giocodella relazione, contrariamente allapretesa universalità cui si rifaceva laciviltà occidentale, forte del prestigiodelle antiche culture scritte, sta ela-borando nuove strategie e nuovi va-lori. Sempre a partire dall’esempioantillano e dal concetto di traccia dauna parte e di opacità dall’altra, Glis-sant prosegue nella sua ricerca d’in-terpretazione globale, profetizzandoineludibili trasformazioni secondo unprocesso definito da lui archipélisa-

tion (da arcipelago) del mondo, ilquale annullerebbe le distinzioniCentri/Periferie e Nord/Sud, esclu-dendo così ogni forma di egemonia estrutturando un autentico «immagi-nario della totalità-mondo».

Il tentativo di coniugare elementi ap-parentemente non coniugabili in unpensiero-mondo, allo stesso mododella visione dell’universo investito daun vasto processo di creolizzazione inreazione all’uniformizzazione e allaglobalizzazione, sono sempre piùcondivisi da pensatori di altre aree cheoperano in campo culturale secondoi più svariati approcci. Gli studi del so-ciologo Edgar Morin come quelli del-l’antropologo Francis Affergan, alcu-ne considerazioni di studiosi e scrit-tori quali Milan Kundera, Thierry Fa-bre oppure Homi K. Bhabha, nonchéla famosa dichiarazione di NadineGordimer fatta nel 1994, subito dopola fine dell’apartheid in Sud Africa cheprende atto che «quell’altro mondoche era il mondo non è più il mon-do», testimoniano di un tentativo dideterritorializzazione, in vista semmaidi una riterritorializzazione di tiponuovo, ben recepito anche in Italia instudi comparatistici come quelli di Ar-mando Gnisci, riuniti con il titoloCreoli meticci migranti clandestini eribelli (Roma, Meltemi, 1999) oppurenelle investigazioni in campo geogra-fico effettuate durante il Convegno diBergamo del 1998 e raccolte nel vo-lume Culture dell’Alterità. Il territorioafricano e le sue rappresentazioni,(Milano, Unicopli, 1999), a cura diEmanuela Casti e Angelo Turco.

Se il nuovo orizzonte di attesa del-la società civile necessita di un edifi-cio concettuale da opporre al sistemadominante attuale, occorre guardareagli esperimenti audaci e inediti, ri-velatisi positivi non solo in campoeconomico, che ci vengono dal Suddel mondo, che per quanto utopicipossano sembrare, ci fanno scoprirenuove dimensioni della vita in comu-ne, lontane tanto dalla mondializza-zione dilagante quanto dalle chiusu-re identitarie, nella prospettiva certodi preparare la società di domani,senza dimenticare che questa non av-verrà finché la dimensione del pre-sente vissuto nelle suoi paradossi enelle sue contraddizioni non sarà as-sunta pienamente dal maggior nume-ro possibile di cittadini del mondo.

Marie-José Hoyet

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1.

Dove vi avevo lasciato l’ultima volta?Ah sì, fuori dal cancello sotto l’acqua.Purificatevi. Cosa ci volete fare, cariora dodici acciaiosi lettori, fatti nonfoste a viver come imbuti e quindimeno anche voi al doloroso mazzo.

Lo so, lo so, cupe vampe livide stan-ze (alla CSI) su questa seconda tappadel nostro cammino (comunque fida-tevi, è tutto calcolato: poi ci tiriamosu) perchè ci addentriamo nel non-luogo, nel sancta sanctorum, nellaselva oscura, nella caneva (in veneto),nella cantina. Insomma: nel sepolcro.

Nel Sepolcro? Odo già rapidi picchidi corna, tocchi di palle. Occorre pre-cisare. Il sepolcro, purtroppo, non èsolo quello standard. Ne esistono in-finite varianti, ognuno se ne costrui-sce uno a suo aggrado, oserei dire asua immagine. C’è chi preferisce eri-gere a sepolcro la famiglia, altri lacarriera; molto, molto popolare ancheil denaro. Più sofisticati coloro chescelgono gli ideali, la politica, la chie-sa, una certa maniera di intendere glienti citati ovviamente. E via via elen-cando, con una caratteristica che ac-comuna tutte le varianti: il sepolcro èquella situazione in cui ciascuno dinoi che cinque minuti prima era vivoentra (volente o volante, come si di-ce) e si trova nel buio e da solo. Spa-rito tutto, spariti tutti. Intanto questo,poi vi devolvo il resto. Adesso zitti, lu-ci, sipario. Entra Mario: a casa sua.

2.

E chi ha va a dormire adesso? pensòMario girando con cautela la chiave.

Cercò a tastoni nel buio l’interrutto-re della luce. Click. Buio.

«Lampadina fulminata». Provò allo-ra la luce del cancelletto esterno.

Click. Buio. «Manca proprio la cor-rente invece». Niente tv, niente libri.

E chi si addormenta più adesso?Fu così che trovò una scatola di

EMERGENZA BUIO (la sposa previ-dente ne aveva disseminato la casa),e scese con la candela accesa in ma-no gli scalini che portano allo scanti-nato. Passò in rassegna l’ammasso dicose stipate nella stanza, lentamente,silenziosamente. Lì c’erano gli eso-scheletri delle sue vite, il residuo sec-co dei propri sogni. Sembrava Danteche attraversa senza nessun Virgiliogironi e gironi di esperienze passate:le proprie, quelle della moglie. Si era-no sedimentati sul pavimento anchealcuni strati più recenti della figlia(nella fattispecie una giraffa di gom-ma di quelle che premendo suonano:una vera mina acustica anti-uomo adincontrarla al buio, di notte).

Scansò accuratamente la giraffa an-ti-uomo e la candela spinse il suospot tremolante su vecchi manifesti dirinnovi contrattuali, libri di ere geo-logiche precedenti, moto-cimelio-ve-spa-150, uno zaino sul quale spicca-va uno stemmino in stoffa con suscritto «CHILE». Era quello che avevausato per il suo viaggio in Cile quan-do ancora el hondero era entusiasta,Allende era vivo, Pablo Neruda era vi-vo. Anche lui allora si sentiva piutto-sto vivo.

«Chissà quando la Rita (che sareb-be la moglie) mette a posto ‘sto casi-no... e i fogli, i fogli per terra! E que-sto, e questo chi è che butta in giro ifogli... cos’è? Ma quant’è che nonvengo qua? Cos’è... eh porca... pro-prio adesso». Eh sì. Forse non si ve-deva, ma solo il Pablo nacionàl se-duto sopra gli scatoloni (o la figlia delMario, fate voi) poteva piazzare inuna notte così nera per il nostro unapagina di quel libro buttata per terrache più casuale di così sembra di es-sere al cinema. E in quella cazzuola-ta paginetta la candela leggeva: ve-nite a vedere la sua casa violata, leporte e i vetri infranti, venite a vede-

Il sonno interiore senza sogno

di Maurizio Marchesin

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re i suoi libri ormai cenere, a vederele sue collezioni ridotte in polvere,venite a vedere il suo corpo lì cadu-to, il suo immenso cuore lì rovescia-to sopra la scoria dei suoi sogni rot-ti, mentre continua a correre il san-gue per le strade.

Da una poesia così si sente che an-che il Neruda aveva una cantina ri-dotta a una schifezza, come il cuoredel Mario, foglietto tremante in mano.

3.

Beh, nell’intervallo vi conto una co-sa. Si diceva del sepolcro (o cane-va). Quindi: uno arriva lì solo e albuio. E poi?

Succede qualcosa (a volte non suc-cede assolutamente niente e il pro-blema sta lì) per cui uno si trova ilnulla alle sue spalle, il vuoto dietro disè, con un terrore come di ubriaco di-rebbe l’Eugenio. Tutto o quasi di quel-lo che ci rendeva vivi è scomparsonel tritacarne quotidiano.

A quel punto, il procedimento puòprendere anche parecchio tempo, sidecide che è finito tutto, game over,«non ci credo più», crisi, eccetera. In-

somma: si apre la fase sepolcrale. Chedi per sè non è negativa, anzi. Il Freu-do diceva che la conoscenza comin-cia con la disillusione. Tanto per dire:il mio prosecco riserva nella caneva (ilsuo sepolcro) lavora i suoi zuccheriper ottenere il meglio di sé. Matura.C’è gente che in tre giorni ha fatto mi-racoli... Ho un dolore intercostale nelvedere invece che spesso preferiamola soluzione ceto-mediale del sonno.Dire che decidiamo è grossa.

Facciamo che non vediamo alter-native, e bene non sappiamo fuori dalmiracolo che schiude la divina indif-ferenza (ah, Montale assasin!). Il son-no. Il sonno interiore senza sogno. Neuccide (dentro prima che fuori) più luiche gli incidenti in auto. A ben vede-re (lo dico per quelli che sono anco-ra con la mano scaramantica nei pan-taloni), la morte vera è una ipotesi re-sidua, come i fulmini in montagna, eha una intatta dignità.

Coraggio, figliuoli, c’è ben di peggio.E il Mario cosa fa nel suo sepolcro?

Non ve la smeno più, lampeggiano leluci, inizia il secondo atto. Passami ipop-corn.

Maurizio Marchesin

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t e r z o m i l l e n n i o

Dal 1° novembre 1999

l’Associazione Macondo

ha cambiato

le proprie coordinate

su Internet:

Sito Web:

www.macondo.it

Indirizzo di posta elettronica:

[email protected]

on-line

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Ho iniziato a sfogliare il Diario di unviandante durante una interminabi-le fila all’ufficio di collocamento. Unfilo comune, nitido, collegava l’u-manità dolente, sfiduciata e abbruti-ta da cui ero circondato alla lucidae appassionata prosa che andavoleggendo.

Pensavo «non c’è bisogno di anda-re lontano o di scendere tanto in bas-so per toccare con mano i fallimentidel presente».

Un presente che Giuseppe Stoppi-glia viaggia e racconta. Il suo è ildiario di bordo di un viaggio duratonove anni: la nave è Macondo, “as-sociazione per l’incontro e la comu-nicazione fra i popoli” fondata nel1988. Articoli apparsi su Madruga-da, il mensile dell’associazione, let-tere ai soci e relazioni alle assem-blee, frammenti e riflessioni che trag-gono spunto da disastri epocali co-me dai versi di un poeta o dal sem-plice risvegliarsi. Si apre nell’apriledel 1991 fra le macerie della Guer-ra del Golfo, si chiude nel marzo1999, un attimo prima che un nuo-vo conflitto divampi.

E in mezzo ci sono questi anni giàdimenticati, già lontani. Piccole egrandi tragedie immediatamente ri-mosse. Ma un diario serve proprio anon perdere la memoria, a ricono-scere, nel tempo come nello spazio,una rotta percorsa. Lo rileggi e ti ac-corgi di come non si tratti di fram-menti strappati ad una statica quoti-dianità; la rotta non è, non può esse-re, lineare ma il narrare non è quellodi un naufrago alla deriva.

Viaggiare oggi non è semplice. Sipuò facilmente essere turisti dellacronaca, riempirsi occhi ed orecchiedei pacchetti “tutto compreso” che ciriservano i media, ma questo non èviaggiare. Occorre il vento dell’indi-gnazione e dell’utopia per muoversi,per affrontare le tempeste del pessi-mismo e della rassegnazione come la

bonaccia del quieto vivere, per resi-stere alla voglia di fermarsi finalmen-te stanchi in un porto tranquillo e,malgrado tutto e tutti, ripartire.

Non piace all’autore questo presen-te, come potrebbe essere altrimenti.Chiunque provi ad uscire dal proprioguscio di figlio garantito del mondoopulento e ad attraversare quel con-fine sempre più invalicabile che se-para gli inclusi dagli esclusi non puòche incazzarsi.

Si naviga in un oceano di disprezzoe miseria, governato dall’idolatria del-la moneta. L’orizzonte è il mercatoche da strumento si fa legge inviola-bile, la cui osservanza è demandata auna politica ridotta a sterile ammini-strazione, priva di qualsiasi fonda-mento etico. Ma poi ci sono queiquattro quinti del mondo fatti di uo-mini e donne la cui sopravvivenza ècontrassegnata dalla precarietà, sen-za futuro, perché hanno avuto la sor-te di nascere in Somalia, nel Chiapas,in una favela brasiliana o perché trop-po deboli per affrontare la violenzadella competitività che caratterizza ilvivere in un paese come il nostro. E sitratta di scegliere da quale parte sta-re e poi di rendere concreta e opera-tiva la scelta di parte.

La speranza condivisibile di Giu-seppe Stoppiglia, al di là delle proprieconvinzioni politiche o religiose, pog-gia sulla comunione delle differenze,su quella capacità che si acquisiscesoltanto attraverso il viaggiare, di re-cepire intimamente la ricchezza insi-ta nella pluralità delle culture e dellesensibilità altrui.

L’“altro”, il povero, il rifugiato, il di-seredato, non è soltanto il debole acui esprimere solidarietà, termine dicui troppo facilmente si abusa. Cosasignifica essere solidali? Aiutare il ter-zo mondo a integrarsi nel primo?

«… Temo che il metodo capitalisticodelle multinazionali, che, sotto la cap-pa dell’integrazione economica, na-

L’inquietudine e il sogno

di Stefano Galieni

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scondono lo sfruttamento più cinico ecrudele, contamini l’intenzione cosìumana e cristiana della solidarietà».

Continuamente il Diario si soffermasu parole come umiltà, amare, mise-ricordia, elementi necessari ed essen-ziali per poter incontrare realmentel’altro, per poter condividerne il cam-mino. Questo significa accettare il ri-schio, rinunciare alle pretese dellapropria tecnologia vincente e acco-starsi alle infinite possibilità che ogniesistenza può offrire per cambiarlo,questo mondo orribile. Chi scrive si ètrovato, leggendo questo libro, inprofondo, salutare, imbarazzo. Hospesso guardato con superficiale di-stacco il radicalismo lessicale con cuisi esprime la parte più attiva dellachiesa. Le tante splendide esperienzedi sacerdoti che hanno saputo real-mente porsi dalla parte degli ultimi misono spesso parse vanificate da unacultura dell’obbedienza che impedi-va di andare oltre lo sterile alleviarele sofferenze, senza produrre un cam-biamento reale dell’esistente. Ma quisi chiamano i lettori a coltivare e ri-lanciare l’utopia come unica alterna-

tiva realistica, a operare e mettersi incammino per «inquietare, disturbaree far sognare».

La stessa scelta di chiamarsi Ma-condo, luogo di fusione di immagi-nario e reale da cui scaturisce comeun flusso inarrestabile una perenne vi-talità, esprime pienamente la radica-lità del suo messaggio.

Il viaggio dell’autore non è solo neltempo (nove anni) e nello spazio(Praga, il Brasile, il Chiapas) ma pren-

de corpo dal fermarsi su di un picco-lo dimenticato fatto di cronaca, co-me dal recuperare il senso di paroleche altri hanno scritto. Galeano, Si-mone Weil, Capitini, Benjamin, Cé-line, la Bibbia ma anche il Talmud eil Popolo Vuh, citati non come prete-sti per ricondurre tutto alla propriaunica verità ma per riaffermare im-plicitamente la ricchezza della plu-ralità delle culture.

Nella precarietà micidiale del pre-sente, in una inutile fila ad un inutileufficio di collocamento, leggo paroleche hanno lo stesso effetto di un sec-chio di acqua gelata, di uno schiaffo.«Tentiamo di rompere l’isolamentoche ci imprigiona e ci toglie ognienergia, ogni vitalità. Perché solo conun’irrazionale, istintiva ostinazione,chiudendo occhi ed orecchi di frontealle lusinghe delle sirene di turno, po-tremo avere la forza di incrinare lacrosta dorata di passività, che impe-disce ai nostri sensi di vigilare».

Diviene inevitabile rimettersi incammino.

Stefano Galieni

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È nel viaggio che l’uomo incontra l’altro uomo,che una cultura viene a contatto con unacultura diversa. È rispecchiandosi in chi è diversoda lui che l’uomo scopre la propria identitàe che accetta la propria diversità. Il viaggio hauna funzione pedagogica perché portaalla comunione delle differenze.Il senso della vita risiede in questo cammino.

Giuseppe StoppigliaDiario di un viandante

1991 - 1999a cura di

Gaetano Farinellie Stefano Benacchio

Macondo Libri,Edizioni Lavoro,

pagine 164,Lire 20.000

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Da bambini, “quando i mulini eranobianchi” e credevamo ancora che gliindiani fossero selvaggi, crudeli e tra-ditori, i telefilm finivano tutti bene.Sul più brutto, quando le cose si met-tevano veramente male per la caro-vana accerchiata, si sentiva uno squil-lo di tromba. Era il segnale della ca-rica del Settimo Cavalleria: «Arrivanoi nostri!».

Invece (l’abbiamo capito dopo) ilmito del far west - pieno di prodipionieri, generosi cowboy ed eroi-ci cavalleggeri - era una colossalebufala. Tutto falso, esattamente co-me i saloons di cartone costruiti pergirare gli spaghetti western di casanostra.

Tutto falso, tranne una cosa. Trannequell’emozione che ci prendevaquando vedevamo le giubbe blu (e levedevamo proprio blu, nonostante iltelevisore fosse in bianco e nero) delSettimo Cavalleria arrivare in soccor-so agli assediati.

Quell’emozione - con buona paceper quello psicopatico del generaleCuster - era il segnale di un desiderioprofondo, di una speranza inestingui-bile, di una utopia di cui non possia-mo fare a meno.

«Arrivano i nostri» era la prova chequando tutto sembra perduto, quan-do pare impossibile una qualsiasi viadi salvezza, quando abbassi la testa easpetti solo il colpo di grazia, allora -

Quell’emozionedi un’Italia bambina

di Francesco Monini

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proprio allora - dal buio assoluto puònascere l’alba.

Davide vince Golia, Cenerentolasposa il principe, il Settimo Cavalleriasalva i pionieri rimasti senza cartucce.

• • •

È una emozione di questo tipo quel-la che abbiamo provato quando -correva l’anno 1992 - un gruppo digiudici e magistrati, fino allora per-fetti sconosciuti, ha incominciato ascoperchiare il pentolone e ad in-chiodare politici e imprenditori ec-cellenti.

Un’Italia bambina ha pensato, al-l’unisono, la stessa cosa: «Arrivano inostri!». Proprio quando tutto sem-brava perduto, qualcuno - inaspetta-tamente e gratuitamente - ci stava sal-vando. Ecco: dal grande marcio dellacorruzione, da una politica ridotta amazzetta, da un paese guidato da unmanipolo di manigoldi, sarebbe natauna nuova Italia. La seconda repub-blica? No, molto di più: “mani puli-te” prometteva una catarsi generale,un bagno purificatore, un’alba nuovaper l’intera nazione.

E Di Pietro? Lui era il combinato diZorro, Robin Hood e l’arcangelo Ga-briele.

• • •

Ora - lo leggete su tutti i giornali - èvenuto il momento di chiudere Tan-gentopoli. Occorre - lo dicono tutti ipolitici - una pacificazione generale.Bisogna - l’ha dichiarato anche D’A-lema - ridare il primato alla politicae rivalutare la storia gloriosa dei par-titi italiani.

Intanto Zorro si è messo in politica.I giudici - e perché mai dovevano es-sere meglio dell’Italia che volevanoprocessare? - rilasciano interviste in-vece di mandare avanti i processi. Iprocessi si chiudono per decorrenzadei termini. Andreotti non viene soloassolto, ma si raccolgono prove perla sua beatificazione. Craxi non è piùun latitante ma un perseguitato: tor-nerà per curarsi e lo faranno senato-re a vita.

Alla fine, non sarà né la prima né laseconda né la terza Repubblica, mala solita minestra.

Eppure, anche se abbiamo preso unabbaglio, quell’emozione, quell’uto-pia, quella voglia di pulito che senti-vamo dentro di noi, era vera e auten-

tica. Era, forse, l’unica cosa vera di“mani pulite”.

Che tristezza. Non c’era il cavalierebianco senza macchia e senza paura.Non c’era nemmeno il Settimo Ca-valleria. Non era vero che qualcunovoleva veramente salvarci.

Vera era solo la nostra voglia di es-sere salvati. Toccherà però salvarcida soli.

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Bill Gates è il Paperon dei Paperonidel Duemila. Buon per lui.

Ora il governo degli Stati Uniti haintentato causa alla sua Microsoft per-ché avrebbe “giocato sporco”, stron-cando ogni concorrenza per lavorarein monopolio. La battaglia legale siannuncia lunga e senza esclusione dicolpi. O forse la soluzione è già die-tro l’angolo: basterà scindere in quat-tro, cinque pezzi, il colosso delsoftware. Bill Gates-Paperone conti-nuerà a regnare sul suo impero tra-sformato in arcipelago. Sono i mira-coli dell’alta finanza.

Ma c’è una cosa più insopportabile.Sono le dichiarazioni di Bill Gatesche si professa benefattore dell’uma-nità. Senza di me - dice - il mondo sa-rebbe più piccolo, più primitivo, piùpovero. Con i miei programmi - dice- ho spalancato le porte di una nuovae radiosa era.

Balle. Le solite balle. Le stesse bal-le di Ford e di Agnelli che - secondoloro - avrebbero donato agli uominiquella meraviglia chiamata automo-bile. Le stesse di Murdoch e Berlu-sconi che - colti da un impeto insop-primibile di generosità - hanno rega-lato all’umanità un milione di canalitelevisivi zeppi di pubblicità.

Tutti i capitani d’industria hannoquesto vizio di dipingere la propriaimpresa aziendale come una missio-ne umanitaria. E a forza di ripeterloe di ripeterselo arrivano addirittura aconvincersene. Buon per loro: rie-scono a dimenticare tutti quelli chehanno dovuto calpestare per arriva-re così in alto. E arrivati lassù, sedu-ti sul loro mucchio di dobloni d’oro,sono anche in pace con la loro co-scienza.

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A volte sembra che i potenti - capi distato, grandi capitalisti, manager in-ternazionali, banchieri, generali e dit-tatori - si assomiglino tutti. Formino,tutti insieme, un piccolo Olimpo re-golato da leggi proprie. E da una leg-ge in particolare: il cinismo dei con-ti economici e delle convenienze po-litiche.

Il pianto, le parole, i gesti di MikhailGorbaciov alla scomparsa della suacompagna di vita Raissa hanno com-mosso il mondo. E hanno squarciato,per un attimo, il velo che separa ilmondo dei comuni mortali dal mon-te dei semidei che decidono a tavoli-no le sorti del mondo.

Nel momento della breve e crude-le malattia di Raissa e dopo, nell’oradel distacco, dove amore e dolore so-no una cosa sola, Mikhail era uno dinoi. Per questo, anche solo per que-sto, il secolo che fugge deve qualco-sa all’uomo che cambiò la geografiadel mondo.

Per questo, anche per questo, il clubdei potenti lo dimenticherà in fretta.

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A Foggia si è sbriciolato un palazzodi sei piani. Non era dell’era romana,ma della più recente età della specu-lazione edilizia.

Peccato non si possa dare la colpaall’alluvione, al terremoto, all’effettoserra o alla maledizione divina.

Seguiranno accurate indagini. For-se un censimento - che occuperà iprossimi cinquant’anni - sulle abita-zioni a rischio di crollo, dalle Alpi aCalatafimi.

Oppure non seguirà un bel niente.Solo l’anonimo dolore di gente inin-fluente. Fino al prossimo cordoglionazionale.

Francesco Monini

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1 settembre 1999 - Vene-zia. Arriva Farinelli dal Bra-sile. Ha lasciato alle sue spal-le gli amici e il cielo di Rio.Porta nella borsa polvere diguaranà, tante cose da rac-contare di Salvino, di Leo-nidas, della scuola di italia-no alla San Martino, il pro-getto di viaggio in Brasile diGiuseppe e Tullio Chimi-nazzo e parole sospese.

4 settembre 1999 - Mo-nastier (Tv). Giorgio e Nivesconvolano a liete nozze, evolano per il Brasile. Lei haun vestito bianco, con unacoda lunga; lui un vestitoscuro senza la coda di ron-dine. Gli amici improvvisa-no una danza. C’è pane evino per tutti; gridano vivaviva gli sposi, che volano, evolano come nei sogni, at-traversando il cielo di Vene-re sulle ali dell’ippogrifo; daCuiabà c’è un ospite d’ono-re, l’amico dello sposo: Joa-quim, che interverrà ancheall’incontro di Galeano.

7 settembre 1999 - Bre-gantino. Verso il terzo mil-lennio. L’occasione dell’in-contro è data dalla morte diun giovane e dall’avvio diuna fondazione in suo ono-re. Dalle carte di Nostrada-mus dovrebbe durare a lun-go; anche perché le carte di-cono che mille anni non pas-sano in fretta; solo i secon-di battono veloci, ma ca-denzati come le campanedel mattino.

12 settembre 1999 - Pez-zoli (Ro). Messa celebratada Giuseppe Stoppiglia in

memoria dell’avvocatoGiorgio Ambrosoli, alla pre-senza di Giancarlo Caselli,Antonino Caponnetto, Pao-lo Ielo e molti altri amici,nella parrocchia di don Giu-liano.

13 settembre 1999 - A SanZeno di Cassola (Vi), nel-l’aula grande della Scuolad’impresa Etica ed Econo-mia, Macondo aspetta loscrittore uruguagio EduardoGaleano. L’attesa è emozio-nante; in breve l’aula si èriempita. C’è un’aria di me-raviglia e di festa. L’ospiteintanto si è fermato ad Aso-lo, a bere un aperitivo incompagnia di amici e delPresidente. Abbiamo ap-profittato della sua presen-za in Italia dove presenta ilsuo ultimo libro per invitar-lo nel nostro territorio.

Iniziano le presentazioni;il banditore recita dal pal-chetto una salmodiante bio-grafia, poi il presentatore uf-ficiale propone alcune do-mande all’ospite e poi fi-nalmente la voce di Galea-no che si inceppa su quelladel traduttore. Riprende al-cune tematiche già affron-tate in “Le vene aperte del-l’America latina”, il libro chelo ha lanciato a livello mon-diale. E poi prende a legge-re alcuni passi del libro: “Atesta in giù”, la scuola delmondo alla rovescia.

Il libro e il tono della vo-ce mi ricordano la parados-salità del Candido di Voltai-re; ma insieme l’assurdità diquesto mondo d’Occidenteche pensa di avere la verità,e dio compreso nel conto,

per proporre e imporre lapace a suon di gran cassa,di mortaretti, chirurgia pla-stica, pardon!, al plastico.

Ci sono vari interventi siadal pubblico che dal tavo-lo della presidenza. Moltihanno dovuto fermarsi nel-la saletta della televisione,per accompagnare in videol’oratore, dato che i postisono esauriti; solo alcuniragni possono appendersial soffitto, dondolandosi alsuono delle parole di Ga-leano.

Legge: si nega ai bambinidi essere tali; ... e Wilchesraccontò ai bambini di es-sere stato investito da unamacchina… i bambini do-mandano: che macchinaera? aveva l’aria condizio-nata? … dal punto di vistadel gufo, del pipistrello… ilcrepuscolo è l’ora della co-lazione. La pioggia è unamaledizione per il turista euna buona notizia per il con-tadino; enigmi: di che cosaridono i tedeschi? San Fran-cesco d’Assisi amava anchele zanzare? Perché i libri dieducazione sessuale ti la-sciano senza la voglia di fa-re l’amore per parecchi an-ni? Nelle guerre, chi vendele armi? E sono continuatealtre letture, che paiono pa-radossali o gratuite, ma so-no il grimaldello per scardi-nare le nostre sicurezze.

14 settembre 1999 - Giu-seppe, nella Romagna sola-tia, ritrova dopo trent’annidon Giancarlo Moretti, in-contrato a suo tempo nel re-gionale di Bologna e poi per-so di vista nelle pieghe del-

la vita, e riscoperto in un an-golo di tempo fugace.

15 settembre 1999 - Riode Janeiro. Una malattia im-provvisa e grave ha costret-to Maria al ricovero nella cli-nica di Barra D’or; dopo iprimi accertamenti viene ac-compagnata in Italia da suofratello e da una delle so-relle, suor Tarcisia. Attual-mente risiede nella casa pa-terna a Pove del Grappa, do-po aver affrontato le primecure per combattere il ma-le. Molti hanno conosciutoMaria nei viaggi in Brasile.La chiusura della casa di Rio,già prevista per il duemila,sarà anticipata al novembredi quest’anno. A custodirela casa per intanto ci sta lasignora Vera, che per anniha lavorato con Maria. A di-cembre Giuseppe e Stefanoandranno a Rio, nella casa,per consegnare l’arredo achi ne ha bisogno, famigliee associazioni.

25 settembre 1999 - Fer-rara, Cooperativa “Le Pagi-ne”. Riunione di redazionedi Madrugada. Si discutonoe poi si fissano i temi deiprossimi numeri: utopia; per-dono e remissione; lavorosviluppo e sfruttamento; lacooperazione. Erano pre-senti: Stefano, Francesco,Andrea, Maurizio, Gaetano,Paola, Enzo, Corrado. La sen-sazione generale è che la ri-vista abbia buona acco-glienza presso i lettori, siasotto l’aspetto grafico chequello dei contenuti. Inte-ressante il servizio fotogra-fico, che ha una sua auto-

Macondo e dintorniCronaca dalla sede nazionale

di Gaetano Farinelli

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nomia di espressione e let-tura. Dopo la riunione ci sia-mo trovati in una casa delCinquecento, con colom-baia al fondo, dal nostro di-rettore Monini, per una ce-na frugale e una discussio-ne animata. Clelia ci ha pre-parato il lesso; la piccolaAmelia dormiva nel suo let-to, accanto all’angelo dei so-gni.

2 ottobre 1999 - Monte-belluna (Tv). Riccardo DeFonzo e tutti i suoi familia-ri si raccolgono attorno allamemoria della nonna. Nonè un ritorno al passato, mail recupero delle radici, deisentimenti e della voglia divivere; non per celebrare lasua scomparsa, ma per ri-prendere il contatto con lei,con la sua umanità.

5 ottobre 1999 - Catan-zaro. La presentazione dellibro di Giuseppe fa il girod’Italia. Manca il cronistaemerito, senza voce di De

Zan. Il diario di un viandanteper le strade e stradine del-le nostre città e dei nostripaesi. Chi l’ha visto ’sto vian-dante?

8 ottobre 1999 - Sovizzo(Vi). Funerale della mammadi Maurizio Dei Zotti, de-ceduta dopo lunga malattia.Giuseppe ricorda agli ami-ci presenti il senso della mor-te e la sua paura; il senso deldolore e la sua irrazionalità.

9 ottobre 1999 - Pove delGrappa (Vi). Si riunisce alcompleto la Segreteria diMacondo. Nutrito l’ordinedel giorno. Assemblea na-zionale dei soci per l’ele-zione del Presidente e dellasegreteria: rinnovata, allar-gata? Ci sarà una breve re-lazione sui tre anni del man-dato e una riflessione sul ruo-lo politico del volontariato.Altro punto importante: lachiusura della casa di Rio deJaneiro; proposte per il fu-turo per mantenere il rap-

porto con il Brasile, che si ècostruito attorno alla casa,nei viaggi, e nei rapporti discambio tenuti con gli ami-ci e le associazioni.

Breve riflessioni sui cam-pi scuola, e sulla formulaconvegno di Sulzano, sul la-go d’Iseo, che ha funziona-to sia sotto l’aspetto orga-nizzativo che dei contenu-ti. Lancio del Diario di unviandante, che ad oggi haavuto un discreto successo.

11 ottobre 1999 - Rovato(Bs). Incontro con dirigentisindacali sulla solidarietà; ese vale ancora quella vec-chia, che difendeva nei col-leghi anche il proprio lavo-ro e la propria famiglia; e seinvece deve tener conto dialtri risvolti, di altre com-ponenti, e di altri numeri fuo-ri del cerchio.

14 ottobre 1999 - Basti-glia (Mo). Sandro Fogli pre-senta assieme a FrancescoMonini e Giuseppe il Diario

di un viandante. La sala ègremita. Tanti gli amici cheapprofittano del passaggiodel viandante.

17 ottobre 1999 - Dosolo(Mn). Incontro dei giovanicon Erri De Luca, scrittore.Sono legato al passato - rac-conta Erri, con la voce pa-cata di un uomo che pareancora scrivere sulle sue pic-cole pagine di vita e di fati-ca, senza nostalgia. Nel pas-sato ci sono le mie radici,sono contento della vita cheho vissuto; il futuro è un gior-no qualunque in cui cessodi vivere; sono legato allaBibbia; mi sono formato suilibri fin da bambino; ho la-vorato come muratore; i mu-ri dividono; i ponti sono unmanufatto cordiale, Mostar;la libertà è rispondere a qual-cuno che ti chiama; essereliberi è obbedire (par di sen-tire le parole di san France-sco ai suoi frati); sono statoqualche tempo a Belgrado;bombardata; dopo qualche

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giorno gli abitanti della cittàhanno continuato a viveresotto le bombe come se lavita fosse regolare; lunghefile, ma niente isterismi; ilGiubileo può diventare unagrande sagra, giubileo è ri-prendersi la libertà perduta;è riconsegnare la ricchezzaal debitore; Sansone era ungiudice; dio in lui non siesprimeva nella parola, manella forza; oggi non ci so-no profeti; il profeta non con-testa; ora la profezia è mor-ta; forse rimane solo il bi-sbiglio della natura; il mon-do; la storia è stata spezza-ta verso l’alto; ora si va a ten-toni. Dio si manifesta nel de-serto; parla verso Mosé, so-pravvissuto alla strage; an-che Gesù è sopravvissuto al-la strage. E sua madre primadi lui ha parole di fuoco con-tro i potenti della terra.

Sono state poi molte le do-mande ad Erri De Luca, scrit-tore e muratore, cui rispon-de in modo asciutto, con unavoce ed un gesto che parelontano; ma è solo la paro-la nella sua scarna e riccapregnanza che comunica achi intrattiene il respiro edascolta fino al pallido zenitd’autunno, l’ora del pranzo.

Che è preparato dal grup-po di Dosolo; non mancanulla, neppure l’affetto pri-ma e dopo il dolce. E il vi-no generoso.

Nel pomeriggio, il presi-dente richiama alcuni mo-menti della giornata; ri-prende alcuni fili di rifles-sione; poi al termine, men-tre molti partono, qualcunosi ferma per celebrare l’eu-caristia. Farinelli commen-ta le letture e parla di in-ganni e di risposte date sot-to interrogatorio, di discus-sioni aperte per tranello; edi riflessioni cadute nellasordità di quanti ponevanoi quesiti.

20 ottobre 1999 - Val-dobbiadene (Tv). Giuseppeparla ad un gruppo di qua-ranta giovani e ragazze. Con-versano sul significato del-

la vita intesa come viaggio;sulla scelta che è sempre unapartenza da un luogo per an-dare verso l’ignoto; e sul sen-so del volontariato inteso co-me condivisione dei pro-blemi dentro il territorio, enon come tempo bruciatonel tepore delle buone ope-re per forza.

21 ottobre 1999 - Vene-zia. Parte la Giuseppina perl’Argentina. Qualcuno è giàpassato per la sua comunità.Può essere un buon puntodi sosta per fermare i caval-li prima della pampa.

Nello stesso giorno Giu-seppe incontra un gruppo didelegati tessili a Villa Elenasulle motivazioni dell’im-pegno sociale.

22 ottobre 1999 - Asiago(Vi). Giuseppe si incontracon Mario Rigoni Stern, lamoglie, e mamma Gina diThiene, al momento in cuiscrivo ricoverata in ospeda-le per accertamenti. Artefi-ce dell’incontro è stata An-na Zen, socia di Macondo.

23/24 ottobre 1999 - No-garedo (Vi). Incontro conla Comunità per la giorna-ta missionaria. Essere man-dati, non per annunciare iparametri della nostra cul-tura, ma il vangelo senzainterpolazioni, calato nelquotidiano, nella fatica enella gioia, nel dolore e nel-

la festa.San Floriano di Marostica

(VI). La domenica Fabio eDaniele organizzano una fe-sta con gli amici, mangian-do marroni, bevendo vino ericordando i momenti felicie le tensioni fruttuose deicampiMac.

25 ottobre 1999 - Vene-zia. Leonilde parte per ilGuatemala; prima tappa saràdalla Rosalina Tuyuc, cheabbiamo conosciuto due an-ni fa alla festa di Macondo.

27 ottobre 1999 - Padova.Presentazione del libro diCarmelo Miola al Caffè Pe-drocchi. Numerose le pre-senze.

29/30 ottobre 1999 - Ta-ranto. I giovani di Macondopreparano assieme all’An-gelica la due giorni di festae incontri all’Istituto Sale-siano don Bosco, sul tema“Restituiamo il sogno e l’u-topia ai giovani…”. Sonomolte le associazioni ed igiovani che partecipano al-la festa. Il venerdì è dedica-to alle presentazioni e al te-ma della festa; in serata ungruppo senegalese tiene unconcerto; il sabato è dedi-cato al libro: Diario di unviandante, di Giuseppe; inserata ci sarà un concerto dimusica per archi.

Sono numerosi gli inter-venuti alla festa: dott. An-

gelica Sansone, dottor Al-fengo Carducci, don Giu-seppe Stoppiglia, Anna Ma-ria Laganà; intervengono pu-re giovani Kossovari, Kurdi,Albanesi, Indiani. Al sabatoil dottor Mario Bertin, PieroFantozzi, Franco Ferrara nel-la presentazione del Diariodi Giuseppe; i ragazzi dellescuole per gli stand e gli spet-tacoli. Veramente festa gran-de. L’utopia è a portata dimano, anche se ha il viziodel pudore e sfugge di ma-no e si proietta in avanti co-me ballerina; ma che noncada nelle mani di qualchevolgare istrione o capocircodegli orchi. Da Malconten-ta è partito certo Dario, ani-matore e formatore nei cam-pi del sud; ci è volato d’im-peto, come suol dirsi, per ri-trovare gli amici e il caldocielo di Taranto. I ragazzidell’Angelica, i cui nomi so-no nel nuovo elenco che Ste-fano Benacchio ha stampa-to in questi giorni, hannopreparato il pranzo per gliinvitati e hanno condotto inmodo egregio la festa.

Purtroppo nei giorni dellafesta di Taranto il padre diAngelica Sansone è stato ri-coverato in ospedale per in-farto; noi ci auguriamo chepossa superare questo diffi-cile momento e possa ritor-nare nella tranquillità dellasua casa.

1 novembre 1999 - Mila-no. Giuseppe incontra il poe-ta Vittorio Stringi e i suoi ami-ci, non rassegnati al rullodell’omologazione.

2 novembre 1999 - Si riu-nisce lo staff di “MacondoTracce” per riprendere il cor-so di socio-politica; per ve-rificare i danni del rullo sul-le orme, e per prospettarenuovi percorsi che affati-chino quanti s’affannano aspingere sulla ruota della for-tuna, che pare cieca ed ac-carezza pochi. Mai contropelo?

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Forse non è un titolo e neppure una provocazione; masolo una chiave di lettura di un fenomeno, che è il ra-duno dei motociclisti. O meglio, i motociclisti in radu-no. E la prima tentazione da scongiurare è di leggerel’evento con le categorie di apparenza e di sostanza,che sono anche categorie morali; in cui l’apparenza èla vanità del precario; e la sostanza è il sacro indicibi-le sottostante alle parvenze. In parole più pedestri, so-stanza e apparenza sono verità e bugie.

Ci troviamo di fronte una serie di foto di Adriano Bo-scato, scattate dentro la cornice; e la foto è immagine,e dunque non è verità: tenta di carpirla, di mascherar-la, di stravolgerla; o di smascherare la falsità, forzandoi limiti del vero e del verosimile. La foto è finzione ecome tale è creazione, ricreazione, gioco e non solo.

Ma veniamo alla rivelazione del clic.Dentro la cornice rombano i motori che sulle piste

scorrazzano spingendo altri rulli, trasferendo i guer-rieri in direzione della velocità; il guerriero in avam-posto e lei alloggiata sul lungosella, ai bordi delle co-sce del guerriero.

Rumori di guerra che la pellicola suggerisce; dellaguerra ci sono le divise delle periferie metropolitane;della guerra i volti camuffati e la pelle dipinta. La tor-

tura dei sigilli sul naso e sulle labbra; gli orecchini delpirata; i grossi dadi di ferro del bolide nei lobi dell’o-recchio con posteggio a cronometro.

Ma è una guerra contro nessuno, o forse contro lanoia, contro l’omologazione di serie, che i loro motoriportano sulla superficie dell’anima. Fugge la moto conil guerriero e la bella, si stemperano i suoi lineamentinel mosso contro mano; e dietro non vedi il saracinoche si batte contro il paladino; né il marine spara sulvietcong, forse don Chisciotte sui mulini a vento.

Riposa il guerriero nella tenda con la sua donna; esotto la minigonna si illumina la calzamaglia dellapulzella, negli occhi del guerriero in riposo.

Giovani allegri bevono sui loro cavalli di fuoco e difumo bottiglie comprate al bar e stappate sul bordodelle staffe. Avanzano con i giubbotti antiproiettile, conle casacche sbracciate, calpestano l’asfalto coi grossiscarponi di cuoio e di ferro; e portano sulla tela dellaloro pelle la saga dei sogni e degli incubi che sono an-che nostri, e che essi forse tentano di esorcizzare. Conil passo del drago; e accanto sfiora il terreno la gaz-zella; i lineamenti rilevati nei muscoli d’acciaio; e die-tro le brocche d’argento e di ferro un volto, che forseriscopri nella foto ricordo della prima comunione.

Dentro la cornice fa un altro effetto.

Dentro la cornice,dietro la cornice

Le immagini di questo numero di Madrugada

a cura di Gaetano Farinelli

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IN CASO DI MANCATO RECAPITO RESTITUIRE ALL’UFFICIO DI VICENZA FERROVIA, DETENTORE DEL CONTO, PER LA RESTITUZIONE AL MITTENTE

(VIA ROMANELLE, 123 - 36020 POVE DEL GRAPPA - VI) CHE SI IMPEGNA A PAGARE LA RELATIVA TARIFFA.