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ottavio cappellani manifesto per le città alla fine del mondo

Manifesto per le città alla fine del mondo

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brevissimo romanzo architettonico in forma di aforismiOttavio Cappellani (Catania, 16 giugno 1969) è uno scrittore, romanziere, drammaturgo e sceneggiatore italiano.Esordisce nel 2001 con "La morale del cavallo"(Edizioni Nadir) un dialogo teologico con la postfazione di Manlio Sgalambro. Nel 2004 pubblica il suo primo romanzo, "Chi è Lou Sciortino?" (Neri Pozza) viene tradotto in 26 paesi, la traduzione americana "Who is Lou Sciortino?" (Farrar, Straus & Giroux, 2007) è inserita nel "Reading The World" (i 40 titoli più significativi tradotti e pubblicati in America durante l'anno). Nel 2006 pubblica per Arnoldo Mondadori Editore "Sicilian Tragedi". David Leavitt dedica alla traduzione americana ("Sicilian Tragedee", Farrar, Straus & Giroux, 2008) un'intera pagina del New York Times definendolo l'erede di Pietro Germi. Nel 2009 pubblica per Arnoldo Mondadori Editore "Chi ha incastrato Lou Sciortino?", prequel del suo primo romanzo.Nel gennaio 2010 il Teatro Stabile di Catania produce e mette in scena, con la regia di Guglielmo Ferro, la riduzione teatrale (ad opera dello stesso autore) di Sicilian Tragedi.Nel 2011 scrive il soggetto e la sceneggiatura di "My name is Sid", cortometraggio in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia dello stesso anno, nella sezione Controcampo Italiano "Nel novembre 2011 esce per Mondadori, Strade Blu, il romanzo "L'isola prigione" ".Nel dicembre 2011 il Ministero per i Beni Culturali ha riconosciuto di Interesse Culturale Nazionale una sua sceneggiatura originale ambientata nel mondo di Facebook, dal titolo "FB".È attualmente al lavoro su un film horror del quale è anche produttore ".Suoi scritti sul tema dell'architettura e dell'urbanistica sono apparsi su AD (agosto 2001) e su testi universitari di Urbanistica.

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ottavio cappellanimanifesto per le cittàalla �ne del mondo

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ottavio cappellanimanifesto per le cittàalla fine del mondobrevissimo romanzo architettonico in forma di aforismi

illustrazioni e copertina di Franz Mannino

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copyright Ottavio Cappellani, Franz Manninoil testo e le immagini si intendono di libera circolazione in formato elettronicoi diritti a stampa restano riservati.

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PROLOGO

Quanto segue deve essere inteso come un romanzo, come una “storia”. Chi scrive crede nella struttura, ma oggi, un romanzo sulla città, non può che seguirne la sua struttura saltabeccan-te, fatta di improvvise illuminazioni e cambi di direzione. Il centro svuotato e lo sprawl anarchico. Oggi, un romanzo sulla città, non può che prendere una forma aforistica, quella dei suoi abitanti senza “sistema”.

Anche la misura, il tempo di questo romanzo, si cadenza sulla misura e sul tempo della città moderna, della città internazio-nale. Essa è, appunto, brevissima. Dalla rivoluzione industria-le alla fine del mondo è passato un battito di ciglia. Neanche il tempo di “pensare” la città, che essa è già finita.La durata di questo romanzo è perfettamente coincidente alla durata della città. Né una pagina in più, né un decennio in meno.

Protagonisti di questo romanzo sono essenzialmente Gropius e Wolfe. In un secondo momento apparirà Thoreau. Sullo sfondo, Rockefeller.

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1.

NON E’ UNA CRISI.E’ LA FINE DEL MONDO

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Non è una “crisi”, come la politica vuole credere. Siamo di fron-te a un cambiamento strutturale, un cambiamento di modello. Se volete potete anche chiamarla la fine del mondo.Se fino a ieri le città erano state un contenitore di schiavi, oggi questi ultimi, rimasti senza padrone, scivolano nella povertà o nel crimine.La città non è più il luogo della fabbrica. Il cittadino-operaio, con una sua identità e dignità, non esiste più. Al suo posto il cittadino-servitore, ossia il cittadino nato dalla società dei servizi.Soltanto che.

Soltanto che anche il cittadino-servitore, ossia tutta la masna-da di laureati, professionisti in un qualche servizio scelto a caso all’uscita del liceo (avvocati, farmacisti, ingegneri, certo, anche architetti), ebbene anche loro sono rimasti senza datori di lavoro. Poiché i datori di lavoro dei cittadini-servitori erano

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proprio i cittadini-operai.Le città vanno ripensate a partire dal controesodo.

La società dei servizi, e la sua infiorescenza primaverile - la new economy, si sono rivelate per quello che erano: bolle.Mentre i padroni del mondo trasportavano sui mercati inter-nazionali milioni di tonnellate di materie prime - patate, gra-no, carne macellata - operai e servitori, manovali e lavorato-ri dell’intelletto, credevano ancora al mito della “città”, questa invenzione post-bellica in cui serviva ammassare in un luogo concentrato e facilmente controllabile il maggior numero di persone.

Le città non nascono come un centro di multiservizi, ma come campo di concentramento attraverso il cui controllo fare pro-sperare i nuovi Stati, dopo che la seconda guerra mondiale aveva rimescolato le carte.

Mentre l’America si estendeva orizzontalmente, creando un mito “folk-country”, l’Europa si rinchiudeva nelle città. Ma i cittadini che si rispecchiavano nelle vetrine del centro erano nient’altro che deportati. E le griffe erano le strisce e i numeri sui loro abiti da carcerati.

Un’operazione analoga era stata già compiuta ai danni della cosiddetta beat-generation. All’improvviso divenne cool au-toemarginarsi e fottersi il cervello. Le menti migliori della sua

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generazione...

Come ogni buon economista sa, niente attira di più l’animo umano del concetto di cool. Si è disposti a sborsare cifre astro-nomiche, del tutto spropositate rispetto ai costi di realizzazio-ne e alla funzione che un oggetto assolve, purché esso sia grif-fato, o quantomeno incarni una tendenza.

Fottersi il cervello, autoemarginarsi, diventò cool. Ci si sba-razzò così, con qualche articolo sui giornali di tendenza, di un’intera generazione.

Allo stesso modo il metropolitano si sbarazzò con un solo ge-sto urbanistico di un’intera popolazione.

Questo aneddoto è riportato da Tim Robbins, nel film “Il prez-zo della libertà”.Anni Trenta. Rockefeller e alcuni compagni di merenda sie-dono a un tavolo di un ristorante del costruendo Rockfeller Center.Investire in arte è all’epoca una gran cosa. Rivalutazioni del mille per cento in poche settimane. I collezionisti facevano il mercato. E non c’è niente di meglio che investire in un mercato le cui regole te le fai tu da solo.Tra una tartina e una coppa di champagne (all’epoca erano tutti, perennemente, ubriachi - la cosa era considerata chic) si presentò il problema dell’arte figurativa. Gli artisti tendevano

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a usare le “figurine” per fare passare idee socialiste, se non ad-dirittura comuniste.La figura permetteva di affrontare temi come l’ingiustizia so-ciale, il dolore, l’alienazione, lo sfruttamento, la divisione in classi della società. E la figura era facilmente comprensibile da tutti. La pittura stava, pericolosamente, diventando un “me-dia”.“Astrattismo” disse qualcuno seduto alla tavola.“Geometrie” rispose qualcun altro.“Siamo noi che facciamo il mercato. Se vogliono continuare a vendere, gli imbrattatele, dovranno fare delle linee, dei trian-goli, possono spingersi ai cubi, se proprio ci tengono”.Domanda: l’astrattismo si impose per propri meriti estetici?

Le Corbusier: “Come evitare che le nostre città si dilatino e si diluiscano, perdendo la propria forma e la propria anima?”.Domanda: Le Corbusier si impose per propri meriti o perché contribuiva inconsapevolmente (e ingenuamente) all’idea di città come carcere?

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2.

COME LE CARCERI DIVENTARONO COOL

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Tom Wolfe, in From Bauhaus to our house, è troppo impe-gnato, pur genialmente, a sfottere gli americani con il “Com-plesso delle Colonie” (a causa del quale gustano ogni goccia intellettuale proveniente dal Vecchio Continente come fosse ambrosia) per rendersi conto del problema. Tom Wolfe, anche se veste da un sarto italiano che ha bottega nella Quinta, ha il midollo americano. Vede il vetro sul quale si rispecchia la “scatola di Yale”, non l’interno della scatola stessa. Per Wolfe la scatola è la sua superficie stessa. Invece essa ha la profondità degli abissi della borghesia.La scatola antiborghese nasce per volere della borghesia.Per volere del nuovo imperatore borghese: il costruttore.

Le Corbusier: “Prendiamo coscienza della realtà, nel campo che qui ci interessa, quello della costruzione. Vincolata anco-ra, attraverso la scuola, ai modi d’esecuzione e di concezione del passato, tanto da offrire ancora diritti di cittadinanza agli

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‘stili’ greco-romani: contesa da due gruppi di pretendenti, gli ingegneri e quelli che si dicono architetti, l’arte del costruire appare all’opinione pubblica e alla classe dirigente una que-stione ingarbugliata, un covo di vipere, un nodo gordiano. Il nodo sarà reciso da un’arma tagliente che è un esercito e si chiama “i costruttori”.Qui Corbu diventa grandissimo scrittore e mette sul tavolo il suo stile (al quale la sociologia in futuro attingerà a piene mani). Una oggettività lucida e spietata che sopravanza il cini-smo di una spanna.Le Corbusier individua in un colpo solo il nuovo padrone e ne tesse un elogio tanto più efficace quanto più ne sottolinea il maestoso potere.Per combatterlo o per mettersi a suo servizio?

“Ricominciare da zero”: ecco il mantra di Gropius, dietro il quale Tom Wolfe vede un gesto intellettuale. Criticandolo ma al contempo raccontandolo con ammirazione, come se si trat-tasse di un “gesto” in cui l’arte rivendica il proprio ruolo. Wolfe dissacrandone la “purezza”, l’ “indipendenza”, in qualche modo le riconosce loro.Ma bastava un calendario.QuattordiciDiciotto.Nel 1918 finisce la prima guerra mondiale. Inizia il primo do-poguerra tra le macerie fumanti.1919: Nasce Bauhaus.Ricominciare da zero non vuol dire “arte”. Vuol dire, semplice-

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mente, “ricostruzione”.Tom Wolfe è troppo intelligente per capirlo. La ricostruzione, invece, è già diventata ottusa come il capitale che la porta per mano.

In Shock Economy Naomi Klein racconta meravigliosamente la nuova economia della ricostruzione. Ogni Tsunami, ogni terremoto, apre sterminati spazi di ricostruzione. Gli shock economici che venivano preparati ad arte nelle aule della scuo-la economica di Chicago vengono ancora meglio alla natura.Ma se Naomi Klein teorizza e Milton Friedman “replica”, era stato invece Gropius, con un unico “gesto” (a forma di scatola) a comprendere e mettere in pratica in pochi mesi.La ricostruzione e il capitale.Semplicemente: la carica eversiva della cosiddetta architettura internazione non esisteva.Esisteva il capitale.Ed esisteva l’esigenza di ricostruire alla svelta.La scatola di Gropius, diventata successivamente la scatola di Yale, era la soluzione che la borghesia (dopo la prima guerra mondiale padrona al posto della vecchia aristocrazia) agogna-va, senza sperare di arrivare a tanto.Il regalo di Gropius fu quello di ammantare di arte e concetto e filosofia e lotta operaia la scatola di cemento con la quale i costruttori si apprestavano a impadronirsi del mondo.

Wolfe satireggia ancora sull’arrivo degli europei in America.

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La classe dirigente americana spalanca le porte delle migliori università a questi “profughi delle scatole”.Wolfe non se ne capacita.Li descrive ancora come se davvero fossero bohemienne all’in-seguimento del gesto artistico puro.Non aveva capito niente.La borghesia americana importava un modello: quello secon-do il quale era possibile arricchirsi e controllare le masse in un solo, unico gesto artistico.

La scatola diventò cool.

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3.

L’INCHINO AI COSTRUTTORI

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No, non c’è motivo di continuare a litigare. Le Corbusier si propone come grande pacificatore. Ingegneri, architetti e ur-banisti. Tutti sotto una grande ala protettrice: il cemento. Ma in nome delle masse!

Le Corbusier: “Le grandi guerre moderne [...] riducono tutto in macerie [...] mettono alla prova la genialità umana perché la vita non si estingua nelle scadenze così brevi che possono talvolta esser poste alle società e che bastano a far morire di fame, di freddo, di disperazione”.Nessuno riesce a sentire come gode? Popolo, dice Corbu, le tue esigenze sono non morire di fame, e di freddo, e di dispe-razione. Ti ci vuole un lavoro e un tetto. Anzi: un lavoro come costruttore di tetti.Ingegneri, architetti, urbanisti, non vedete che il costruttore è lì, pronto. Aspetta soltanto che qualcuno lo liberi di questo fastidioso ammennicolo che è il bello.

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Le Corbusier, il braccio intellettuale dei proprietari di betonie-re, ha la risposta: “Se apparisse in tempo utile una dottrina co-erente, tutti i nuovi professionisti dell’urbanistica potrebbero forse trovarvi una luce capace di rischiarare il loro cammino”.Lavoro per tutti, architetti, ingegneri e urbanisti. Basta inven-tarsi qualcosa prima che inizino i lavori. E questo qualcosa da inventarsi è semplice, per una mente sveglia e una lingua pronta come quella di Corbu: bisogna inventare (sì, fingere di inventare) quello che il costruttore sa da sempre. Massimo ri-sultato con il minimo sforzo: la scatola.

Ma ci sono ancora due problemi.Corbu è un arrampicatore sociale, non è stupido. Conosce questi due problemi.

Problema numero Uno: l’Urbanismo.Con la repubblica di Weimar cittadino e territorio erano stati pensati insieme in un “giardino”. La progettazione urbana si allenava al mito del bello. Dentro il mito.Corbu nota: “Grandi urbanisti ve n’erano tuttavia già stati, che però non maneggiavano la matita ma le idee: Balzac, Fourier, Considerànt, Proudhon...”Tra loro persino uno dei fondatori del “romanzo moderno”, quel contenitore di tutto che cercava di raccontare, e al con-tempo di edificare, una intera città che, cresciuta esponenzial-mente con la rivoluzione industriale, aveva perso le fila di se stessa. Il “romanzo moderno” nasce come sguardo d’insieme,

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dove ormai le singole discipline venivano sommerse dalle fol-le.Il “romanzo” dilaga.La “società” fa la fila a ogni nuova puntata di un feuilleton. L’unica figura in grado di raccontare la città è il romanziere. Nasce la figura dell’intellettuale citizen. Conosce i drammi ur-bani, le speculazioni dei ricchi, freuenta le bettole e i salotti, passa da una riunione in fabbrica a un ballo nel salone degli specchi.I costruttori lo odiano.Chi è mai costui che viene a spiegare a noi, che le abbiamo costruite, le città?Strappare l’”urbanismo” all’intelletto è una cosa che va fatta immediatamente! I costruttori lanciano il pitbull Corbu, che pronto abbaia: “Il vero problema vivere oggi, potrà essere risolto dallo sforzo in-tenso di tutta la nazione e dalla partecipazione appassionata di coloro che ne saranno i responsabili: gli architetti divenuti urbanisti”.

Ma la frase di Le Corbusier resta lì, stampata nero su bianco, a testimonianza del suo misfatto: l’urbanismo non era cosa da architetti.

E’ da quella frase che nascono le città moderne.Che sono durate fino adesso.Fino alla fine del mondo cioè dire.

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Problema numero due: Lo Stile.Che parola fastidiosa. I costruttori, gente dalla fronte calva e abbronzata, che si sono fatti da sé, chini sulle cave, nei cantieri, che indossano panta-loni sformati, odiano tutto quello che è, appunto, forma, ele-ganza, stile, cultura, appannaggio di scrittori viziati diventati tali grazie alle possibilità delle rendite e delle biblioteche di famiglia.Non solo.Questi scrittori, questi intellettuali, con i loro fogliettoni, con i loro romanzi a puntate in appendice, mettono idee strane in testa agli operai. Idee strane come la cultura.Eppure, i costruttori, mentre sentenziano contro gli orpelli, addobbano le loro case scimmiottando quantomeno le fami-glie reali. Mentre vanno al sodo nel pensare (attività per loro nuova) le abitazioni e le città dell’uomo-operaio, si compor-tano all’inverso nel loro privato, esplodono nell’imitazione di quello che odiano sfondando immancabilmente nel kitsch.Ma soprattutto: sono collezionisti d’arte.E adesso come si fa?La soluzione è: la collina.In senso metaforico, ovviamente.

Sempre Tom Wolfe: “Insomma, lo stile architettonico predo-minante in questa (l’America) ch’è la Babilonia del capitalismo è lo stile dell’edilizia popolare. Quegli alloggi operai, concepiti

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da alcune conventicole di architetti europei, fra le rovine del-la Grande Guerra, sono diventati poi il modello da imitare e hanno assunto, in America, la forma di musei, edifici univer-sitari, gallerie d’arte, dimore dei ricchi...”.

Cos’era accaduto?Semplicemente un contrordine compagni costruttori!Era lampante, era “esibito” come la struttura, che non si potes-se continuare a “pauperizzare” l’architettura popolare-operaia, mentre il costruttore stesso, l’ex addetto alla betoniera, orpel-lava e decornava la propria abitazione ispirandosi a uno stile che spaziava dal tempio di Athena (colonne e colonnati) al ne-oclassico sbiancato europeo (fontane a tema idilliaco ispirato a orgette greche in piena provincia americana).Insomma, il tetto liscio su pareti lisce faticava a diventare cool perché ancora nessuno dei suoi osannatori si azzardava a rin-chiudersi dentro una casa spoglia (tanto valeva restare in can-tiere allora).Ancora Wolfe: “Chissà perché gli operai, intellettualmente sottosviluppati com’erano, preferirono sempre tenersi alla lar-ga da queste case operaie. Le chiamavano semplicemente the projects e le evitavano come se puzzassero. I lavoratori pre-ferivano andare nei sobborghi. Si ritrovarono quindi in po-sti come Islip (Long Island) e come la Valle di San Fernando, dove si comprarono case dai tetti spioventi, rivestite di assicel-le, con fregi e modanature, senz’ombra di ‘struttura dichiarata’, con lampade in stile ‘lampione a gas’ sulla veranda...”.

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L’operaio voleva lo stile, così come lo volevano i nuovi ricchi, i parvenu: i costruttori.Qui venne l’idea.

Ricordate la fabbrica del cool? Ben prima di essere utilizzata contro la generazione beat, la fabbrica del cool (Rockefeller e compagnucci di merenda) l’avevano già testata sulla pittura: niente più figurativo - troppo pericoloso - largo alle geometrie su tela, che non vogliono dire niente, o che se hanno qualcosa da dire (Kandinsky) lo dicono però in maniera troppo com-plessa per le masse.In poche parole i costruttori decidono di dare l’esempio: per-ché continuare a sfoggiare le bomboniere e le organze in città?Il Sussex in Inghilterra, le alpi in Germania, la Champagne francese, la collina torinese... gli immobili magari comprati dalla vecchia aristocrazia decaduta (qualcuna - oddio! - ac-quista persino il titolo), sono questi i luoghi dove fare sfoggio di pizzi, merletti e tintoretti. Lontani dalle masse e dalla loro invidia. In città, adesso, la parola d’ordine è una sola: understa-tement. La Rolls in campagna, l’utilitaria in città.E la scatola, ovviamente.I ricchi abitano nelle scatole, si iniziò a dire.Se all’inizio soltanto i ricchi abitavano l’edilizia popolare, dopo qualche anno il povero si decise a metterci piede. Quattro pa-reti spoglie di cemento a vista, et voilà, anche tu potevi essere cool.

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4.

HANNO ROTTO LA SCATOLA

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“Nessuna creatura bruta ha altri bisogni oltre Cibo e Rifugio”, questo scrive Thoreau, prima di abbandonare tutto e trasferir-si per due anni (1845-1847) sulle rive del lago Walden, in una casa di legno costruita con le proprie mani. Cibo e Rifugio: se sono queste a mancarti non puoi pensare alla libertà.Naturalmente il rifugio di Walden è una scatola. Di legno ma una scatola. Ed è indubbio che questa scatola, costruita con le proprie mani, sia il simbolo per eccellenza della libertà, del-la purezza di pensiero, della monasticità bastante a se stessa, dell’indipendenza proclamata e raggiunta da qualsiasi obbligo “borghese”.

Con il lavoro di Thoreau Gropius ci gioca. In malafede.“Kunstlers discussion on on modernism which highlights ‘the brutality of industry’ and the ‘romance of the machine’ ironi-cally brings to mind some passages from Thoreau’s Walden. While Thoreau was completely against industrialization and

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escaped to the woods to live a deliberate lifestyle that counte-red the town and city life that was arising due to industry, his thoughts on architecture are strangely similar to those of Gro-pius and Loos”.

Recentemente James Kunstler ha sollevato la questione: ma perché Thoreau e Gropius sembrano così simili?Eppure a Kunstler sfugge una cosa che è lì sotto gli occhi di tutti.Quale è la differenza tra la scatola di Thoreau e la scatola di Groupius?La “vista”.

Ammassare il cittadino-operaio in città ad alta densità di po-polazione, farli vivere in formicai a cielo aperto, affacciati a tristi balconi che si aprono su asfittici casermoni, com’era pos-sibile se non ammantando l’imbroglio per libertà?Come il magnaccia che suggerisce alla sua lavorante di libe-rarsi dalla famiglia che la opprime, allo stesso modo Grou-pius fa tabula rasa di ogni storia individuale. Quanta “storia” può passare attraverso un ammenicolo? Quanto “affetto” in un portacenere decorato del secolo scorso?La “vetrinetta”! Mio Dio! Peggio dell’arte figurativa! Si corre a ogni ora il rischio che la “lavorante” possa scoppiare a piange-re, fuggire dal bordello, e rintanarsi nuovamente fra le quattro mura familiari, dove magari il paparino sarebbe ben contento di prendere a fucilate il magnaccia “di città”.

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La scatola, per Groupius, era solo il primo passo verso La Sca-tola, con la S maiuscola. La singola abitazione era il germe che avrebbe dato vita, come in una infiorescenza frattale, alla città. L’obiettivo mai dichiarato, il “patto” tra costruttori, governanti e “architetti diventati urbanisti”, non era l’abitazione come sca-tola, ma la città come scatola.Una Scatola ripiena di scatole. Una Scatola in cui ogni singola scatola si riflettesse sull’altra scatola (e cosa c’era di meglio del vetro?), in un gioco di specchi inebriante in cui la mancanza di stile diventava stile esso stesso. La mancanza di stile, riprodot-to all’infinito, diventa uno stile: per quantità, non per qualità.

E’ la “qualità” la differenza tra la scatola di Thoreau e la scatola di Groupius. La qualità dell’ambiente.La scatola di Thoreau è sulle rive di un lago. La scatola di Gro-pius è incastonata tra altre due scatole dirimpetto a una ster-minata serie di scatole.Il problema, come avrete capito, non è la “scatola”.Il problema è la Scatola: la Città come Scatola.

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5.

LA CITTA’ DISTOPICA

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Fin qui la “storia”, il breve romanzo architettonico in forma aforistica.

E adesso?

E adesso scordatevi la fabbrica, scordatevi l’operaio: le macchi-ne lo sostituiranno a breve, l’uomo non conviene alla produ-zione.

Cosa resterà del sogno malato di Groupius e del patto scelle-rato con i costruttori? Le città Scatole, ovviamente. Loro reste-ranno. Ripiene di uomini ormai svuotati di storia e senso.I “cancelli” delle fabbriche scompariranno, al loro posto alti muri di cemento armato e torrette armate che si attiveranno automaticamente.Dopo avere fatto di tutto per fare entrare l’uomo nella fabbrica, rendendolo schiavo, a breve si farà di tutto per tenerlo fuori.

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Il concetto di “ordine sociale” continuerà a farsi sentire ancora per qualche anno. Il ‘politico’ rivendicherà la sua funzione, ma non essendoci più nessuna funzione da rivendicare si butterà sull’unica rimasta: la polizia.Il capitale lascerà fare. Starà placido e protetto ad attendere che anche il ‘politico’ venga risucchiato nel caos della natura. Il sogno della civilizzazione è stato nient’altro un incubo, una messa in scena perché i forti costruissero i loro imperi, i fara-oni le loro piramidi.Le violenze, come sempre, scoppieranno come reazione all’or-dine repressivo, come reazione a un governo che tassa la po-polazione per comprare i manganelli con i quali pestarla. Si instaurerà una forma di economia keynesiana della violenza. Nuove ricchezze fioriranno sul mercato nero delle armi.I pavidi si ritireranno nelle fogne, lontani dagli scontri di su-perficie, avranno un tetto e i ratti come cibo, creeranno una loro filosofia e probabilmente anche loro finiranno per sentirsi cool, in qualche modo.Le città collasseranno. Il capitale non ha più interesse a inve-stire su esse.Di più: il capitale non ha più interesse a investire. Provate a farvi domande sugli istituti di credito e provate a rispondere alla domanda: dov’è, il credito?I giochi sono fatti.Gli umani in salute correranno armati verso le campagne, si impadroniranno dei campi in un nuovo far west, al di là di ogni regola. Ma non c’è più nessuna ferrovia da costruire,

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nessuna cittadina da edificare. Si formerà una nuova casta: i produttori di cibo. Mettersi al loro servizio spontaneamente, o assaltarli per acquisirne le proprietà, sarà una delle poche maniere per sfamarsi.Alcuni si ritireranno sulle montagne, cercando di vivere di caccia. Dato lo scarso rifornimento di munizioni si tornerà all’arco, alla clava. Si moltiplicheranno gli episodi di cannibalismo. Alcuni, su di esso, fonderanno una religione.Atri ancora dimenticheranno l’uso della parola.

Nascerà nuovamente la figura dell’architetto di corte. Si calcola che per sopperire al fabbisogno mondiale di archi-tettura basteranno in tutto non più che una ventina di archi-tetti. Ognuno formerà una propria scuola al fine di assicurare ai capitali regnanti una riserva di architetti in caso di morte del maestro.Stessa fine per gli ingegneri.L’architettura predominante sarà il castello...

Potremmo continuare, descrivere nei dettagli il mondo dietro l’angolo, il mondo dopo la fine del mondo. Ma ognuno di voi riesce a comprendere da solo cosa accadrà del mondo che co-nosciamo dopo che il capitale ha deciso che “basta così”. L’or-dine, la civilizzazione, il progresso, sono soltanto serviti alla spartizione del pianeta terra.

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E adesso?

E adesso la storia si sta scrivendo da sola. Siamo a un bivio. Ma la china è quella. La città è in bilico.

Esiste un futuro per la “forma” città?Al di là della retorica è importante porsi questa domanda, per quanto sia brutale. Tenendo presente che non esiste una legge naturale che “imponga” all’uomo di vivere in una città. E per quanto riguarda le leggi dello Stato: quale Stato?

Quello che la politica non dice è che la città non ha più motivo di esistere, e con essa la civile convivenza. Città e civile convi-venza sono concetti svuotati di ogni significato che la politica perpetua - fino a che potrà - per giustificare la sua stessa esi-stenza.

Esiste una città dopo la fine del mondo?C’è solo un modo per saperlo.

FINE