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L'INTRODUZIONE DEL ROMANZO (prima parte: analisi narratologica) Il romanzo comincia con un espediente letterario non originalissimo: Manzoni finge di aver trovato un manoscritto del Seicento con una "bella" storia e quindi si mette a copiarlo. «L'Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl'anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. Ma gl'illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d'Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co' loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e trapontando coll'ago finissimo dell'ingegno i fili d'oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose. Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal'argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de' Politici maneggj, et il rimbombo de' bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d'horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d'Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche. E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l'amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l'Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl'Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl'altri Spettabili Magistrati qual'erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d'atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl'huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l'humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d'Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti. Per locché descriuendo questo Racconto auuenuto ne' tempi di mia verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle Parche, pure per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioè la parentela, et il medesmo si farà de' luochi, solo indicando li Territorij generaliter. Né alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della Filosofia: che quanto agl'huomini in essa versati, ben vederanno nulla mancare alla sostanza di detta Narratione.

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L'INTRODUZIONE DEL ROMANZO

(prima parte: analisi narratologica)

Il romanzo comincia con un espediente letterario non originalissimo: Manzoni finge di aver trovato un manoscritto del Seicento con una "bella" storia e quindi si mette a copiarlo.

«L'Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl'anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. Ma gl'illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d'Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co' loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e trapontando coll'ago finissimo dell'ingegno i fili d'oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose. Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal'argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de' Politici maneggj, et il rimbombo de' bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d'horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d'Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche. E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l'amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l'Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl'Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl'altri Spettabili Magistrati qual'erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d'atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl'huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l'humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d'Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti. Per locché descriuendo questo Racconto auuenuto ne' tempi di mia verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle Parche, pure per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioè la parentela, et il medesmo si farà de' luochi, solo indicando li Territorij generaliter. Né alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della Filosofia: che quanto agl'huomini in essa versati, ben vederanno nulla mancare alla sostanza di detta Narratione. Imperciocché, essendo cosa evidente, e da verun negata non essere i nomi se non puri purissimi accidenti...»

Ad un certo punto, però, si rende conto della difficoltà che avrebbe un lettore nel comprendere la lingua usata: molti i lombardismi, frasi tratte dalla lingua parlata, sintassi franta e poco lineare, diversi ispanismi e figure retoriche per stimolare la meraviglia.

         «Ma, quando io avrò durata l'eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l'avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla?»         Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che veniva dopo accidenti, mi fece sospender la copia, e pensar più

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seriamente a quello che convenisse di fare. «Ben è vero, dicevo tra me, scartabellando il manoscritto, ben è vero che quella grandine di concettini e di figure non continua così alla distesa per tutta l'opera. Il buon secentista ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi, nel corso della narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e più piano. Sì; ma com'è dozzinale! com'è sguaiato! com'è scorretto! Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati. E poi, qualche eleganza spagnola seminata qua e là; e poi, ch'è peggio, ne' luoghi più terribili o più pietosi della storia, a ogni occasione d'eccitar maraviglia, o di far pensare, a tutti que' passi insomma che richiedono bensì un po' di rettorica, ma rettorica discreta, fine, di buon gusto, costui non manca mai di metterci di quella sua così fatta del proemio. E allora, accozzando, con un'abilità mirabile, le qualità più opposte, trova la maniera di riuscir rozzo insieme e affettato, nella stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo. Ecco qui: declamazioni ampollose, composte a forza di solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa, ch'è il proprio carattere degli scritti di quel secolo, in questo paese. In vero, non è cosa da presentare a lettori d'oggigiorno: son troppo ammaliziati, troppo disgustati di questo genere di stravaganze. Meno male, che il buon pensiero m'è venuto sul principio di questo sciagurato lavoro: e me ne lavo le mani».

Manzoni, che si rivolge ad un pubblico di non specialisti, ma a tutti i lettori "d'oggigiorno" deve interrompere la trascrizione del manoscritto.

Ma, valutando la bellezza della storia (quindi è un giudizio morale sulla vicenda, che è una rappresentazione di una strenua lotta di umili contro i soprusi dei potenti, in nome della dignità di figli di Dio), decide di "rifarne la dicitura", cioè ricrearne la espressione formale:

         Nell'atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanersi tuttavia sconosciuta; perché, in quanto storia, può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era parsa bella, come dico; molto bella. «Perché non si potrebbe, pensai, prender la serie de' fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura?» Non essendosi presentato alcuna obiezion ragionevole, il partito fu subito abbracciato. Ed ecco l'origine del presente libro, esposta con un'ingenuità pari all'importanza del libro medesimo.

Questa attenzione alla lingua è successiva, però, ad una profonda indagine sulla verità storica dei fatti:

         Taluni però di que' fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, c'eran sembrati così nuovi, così strani, per non dir peggio, che, prima di prestargli fede, abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbi: a ogni passo ci abbattevamo in cose consimili, e in cose più forti: e, quello che ci parve più decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, de' quali non avendo mai avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se fossero realmente esistiti. E, all'occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze, per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe più tentato di negarla.

 

Chi è che interrompe la trascrizione del manoscritto?

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Il romanzo sembra aprirsi con il racconto di un autore anonimo del Seicento (che chiameremo N2, cioè Narratore Due); tale racconto viene interrotto da un altro autore che prende parola per criticare N2, anche se, alla fine, ne proseguirà il racconto. Questo secondo narratore lo chiameremo N1, che seguirà il manoscritto per quanto riguarda la storia, e, dopo averne confermato la storicità, ne curerà la nuova "dicitura".

Dove è Manzoni in tutto questo? Manzoni prende, infatti, le distanze da N1, perché N1 crede al manoscritto, che invece è palesemente un'invenzione letteraria; ancor più lontano è, sia per lingua che per 'finzione letteraria', da N2.

Capiamo, quindi, quale distanza ci sia fra AUTORE e NARRATORE: N1 non si presenta come Alessandro Manzoni che ha ritrovato un manoscritto. Manzoni, infatti, vuole costruire un narratore che, ritrovato il manoscritto, desidera narrarne la storia, dopo averne verificato l'attendibilità storica e dopo averne modificato la lingua.

E' ugualmente evidente che Manzoni, pur mostrando la differenza fra sé e N1 ed N2, è ovviamente dietro ad entrambi; le diverse riapparizioni del narratore durante il corso della vicenda ci rivelano un narratore lontano, ma pensieri dello stesso autore

 

Il Narratore

Assodato che Narratore ed Autore non coincidono, possiamo esaminare a vicino la figura del Narratore dal punto di vista narratologico:

1. è un Narratore ESTERNO, poiché non partecipa alla storia che racconta, ma è solo voce narrante e parla in terza persona. Lo definiamo ETERODIEGETICO CON FOCALIZZAZIONE ZERO.

2. è un Narratore PALESE, quando rivela la sua funzione di narratore, intervenendo spesso per spiegare, commentare, giudicare o solo richiamare l'attenzione del lettore.

Il Narratario

Il destinatario della narrazione prende il nome di Narratario, che è diverso, almeno in parte, dal lettore reale. Può essere una presenza specifica nel testo (come avviene nel Decamerone, in cui abbiamo i nomi dei nove amici cui viene narrata ciascuna novella), oppure è un generico lettore a cui il Narratore si rivolge.

E' il caso dei Promessi sposi, in cui il Manzoni si rivolge ad un Narratario determinato, indicatoci già dal primo capitolo

Aveva (don Abbondio) poi una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne' suoi panni, non accadon mai brutti incontri.         Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato. Lo spavento di que' visacci e di quelle parolacce, la minaccia d'un signore noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere, ch'era costato tant'anni di studio e di pazienza, sconcertato in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio.

Tale Narratario scomparirà nei romanzi del secondo Ottocento e poi del  Novecento.

La struttura

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La disposizione degli avvenimenti scelta dall'autore è piuttosto complessa: si può affermare che in linea di massima tale disposizione coincide con la naturale sequenza dei fatti (in termini narratologici tale sequenza prende il nome di fabula), ma tiene conto della necessità di elaborare flash-back che illustrino al lettore alcuni antefatti.

Tali analessi hanno diverse finalità:- servono per 'dare spessore' al personaggio, che in questo modo acquista agli occhi del lettore un rilievo particolare; il narratore vuole rendere il narratario del tutto partecipe della vicenda e quindi ha bisogno - in casi determinati - di esporgli tutto quanto sa a riguardo, anche per rendergli più comprensibili alcuni atteggiamenti, alcuni gesti, addirittura alcuni tratti della fisionomia. Esempli classici sono le digressioni relative a padre Cristoforo (cap. IV), alla monaca di Monza (cap. IX), all'Innominato (cap. XXI);- servono per recuperare antefatti non conosciuti dal lettore e che servono per una maggiore comprensione dell'intera vicenda (ad esempio la spiegazione delle cause dei tumulti del caro-pane a cui assiste Renzo entrato a Milano l'11 novembre 1628);- servono per inquadrare la cornice storica, fornendo al lettore tutti gli strumenti e le conoscenze di cui presumibilmente non dispone. E' il caso della lunga digressione contenuta nei capitoli XXVIII - XXXII sulle cause e gli avvenimenti della carestia, della guerra e della peste.

 

L'intero romanzo è diviso in sei nuclei narrativi principali, in cui i protagonisti agisco o insieme (I e VI nucleo) o separatamente (gli altri nuclei). Cisono digressioni, in cui i protagonisti non appaiono in azione.

Dallo schema che segue è facile notare come tutto sia perfettamente bilanciato, equilibrato (che è la stessa caratteristica notata riguardo al sistema dei personaggi)

NUCLEI FATTI CAPITOLI

I nucleo i due protagonisti sono insieme nel paese I - VIII

II nucleo vicenda di Lucia a Monza IX - X

1ª digress. vicenda di Gertrude X

III nucleo Renzo nei tumulti di Milano e fuga nel Bergamasco XI - XVII

2ª digress. Conte Zio e Padre Provinciale; Innominato XVIII - XIX

IV nucleo Lucia presso l'Innominato e presso Donna Prassede XX - XXVII 

3ª digress. carestia, guerra, peste XXVIII - XXXII

V nucleo Renzo torna al paese e va a Milano XXXIII - XXXV

VI nucleo si ritrovano e vanno a viere nel Bergamasco XXXVI - XXXVIII

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I primi otto capitoli (I-VIII) costituiscono la sezione borghigiana, perché luogo dell'azione è il borgo dove vivono Renzo e Lucia. Qui la storia prende inizio con la mancata celebrazione delle nozze, qui risiedono i personaggi d'invenzione, che sono presenti per tutto lo svolgimento della storia: i promessi sposi, la madre della ragazza, Agnese, il parroco del paese, don Abbondio e, naturalmente, il persecutore don Rodrigo, che vive in un palazzotto poco distante.

Cronologicamente la sezione borghigiana presenta una narrazione molto lenta e un numero assai elevato di fatti, concentrati in quattro giorni, dal 7 al 10 novembre 1628.

Nei capitoli IX-XVII e XVIII-XXVI le storie dei fidanzati divergono: Lucia viene a contatto con i personaggi "storici" (la monaca di Monza, l'innominato, il cardinal Borromeo, dopo la sua liberazione). La ragazza svolge, del tutto inconsapevolmente, il ruolo di strumento della Provvidenza, perché ha una parte significativa nella conversione dell'innominato. Le scene che la vedono protagonista si svolgono in spazi chiusi (il convento, il castello, la casa del sarto dove viene ospitata dopo la liberazione). Il tempo in cui vive le sue avventure è decisamente indeterminato.

Renzo, invece, si muove in spazi aperti: Milano, la campagna lombarda, l'Adda, il territorio di Bergamo. Egli rimane coinvolto nei tumulti contro il carovita nel capoluogo lombardo, dove, nell'arco di due giorni (11 e 12 novembre) partecipa alla rivolta, si ubriaca, litiga con un ospite, si fa credere un rivoltoso, cade nella trappola di una spia, si fa arrestare, ma riesce a scappare. Il 13 novembre eccolo libero in territorio bergamasco, alla volta del cugino Bortolo, presso cui si ferma una quantità di tempo non specificata.

Nei capitoli XXVII-XXXII e XXXIII-XXXVIII sono descritte, seguendo le cronache del tempo, senza risparmiare dettagli e particolari, la carestia nel Milanese, la guerra per il possesso di Mantova (episodio "italiano" della guerra dei trent'anni che insanguina l'Europa) e la peste che i soldati imperiali (i famigerati lanzichenecchi) diffondono nel ducato e nelle zone circostanti.

Renzo guarisce dalla malattia e torna a Milano in cerca di Lucia. Dopo che l'ha trovata , si reca al paese. I loro destini si ricongiungono e finalmente ecco celebrate le nozze. I personaggi essenziali alla storia ci sono tutti: i fidanzati, in primo luogo, la madre Agnese e poi don Abbondio.

 La trama

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Nella «Introduzione», il Manzoni immagina di aver scoperto, in un vecchio manoscritto anonimo del XVII secolo (quando la Lombardia era sottoposta alla dominazione spagnola) la storia di due giovani operai innamorati, impediti nel loro matrimonio dalla prepotenza di un signorotto del tempo. E trascrive il primo passo del manoscritto, dove l'anonimo autore, nello stile gonfio e ampolloso caratteristico di quel secolo, esprime tuttavia un proposito nuovo e originale: quello di narrare, sullo sfondo della grande storia, una semplice storia di gente umile. In questo modo il Manzoni, nascondendosi dietro l'anonimo autore, afferma la sua adesione al principio romantico (e rivoluzionario) di rivolgere l'interesse dell'artista verso le classi popolari, a rinnovamento della letteratura, intesa molto spesso, fino a quel tempo, come specchio delle classi privilegiate per lettori privilegiati.

Trascritto così il primo passo dell'immaginario manoscritto, il Manzoni ci dice di aver rinunciato ben presto alla fatica di interpretarne le stranezze stilistiche e l'illeggibile calligrafia e di aver preferito riscriverlo interamente a modo suo, in un linguaggio nuovo che troverà, nelle pagine stesse dell'opera, la sua giustificazione.

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Capitolo I. È descritto ampiamente il territorio montuoso di Lecco, a ridosso di «quel ramo del lago di Como», che da Lecco appunto prende nome. L'azione incomincia con una data precisa, la sera del 7 novembre 1628, quando, in una delle stradicciole sulla costiera, un parroco di campagna, don Abbondio, incontra due «bravi» (due gorilla, due killer, diremmo oggi) di un signorotto del tempo, don Rodrigo, che in nome del loro padrone gli ingiungono di non celebrare il matrimonio, già fissato per il giorno dopo, tra i due giovani operai Renzo Tramaglino e Lucia Mondella.

Lo spazio ha un'importanza strutturale. L'azione di ciascuno dei nuclei narrativi si lega ad una precisa dimensione spaziale, in associazioni che si carica di valori simbolici.Il primo e il sesto nucleo narrativo sono ambientati in paese; la strada è lo sfondo del terzo e del quinto; gli spazi interni caratterizzano il secondo (convento) e il quarto nucleo (castello dell'Innominato). Si può cogliere l'opposizione generale fra paese e città, ma il paese solamente nel ricordo e nel sogno (cfr. il capitolo VIII con il famoso brano «Addio, monti sorgenti dall'acque», monologo interiore di Lucia) appare connotato positivamente, perché il mondo contadino è ormai segnato da fame e da carestia, dal passaggio delle truppe e dal dominio dei signorotti locali. La Storia è penetrata nel tempo ciclioco dell'idillio, distruggendolo. L'opposizione è fra 

spazi aperti paese città stradaspazi chiusi convento osteria lazzeretto

 Il castello è uno spazio chiuso, ma caratterizzzato daldominio fisico sull'esterno, quindi rimane un ibrido fra le due categorie. Il concetto di cronòtopoCronotopo alla lettera significa "tempospazio".Il termine è stato usato nelle scienze matematiche e fisiche (e dal famoso scienziato Einstein) per indicare l'interconnessione dei rapporti spaziali e temporali. È stato adattato alla letteratura dallo studioso Michail Bachtin in un saggio del 1937-8, divenendo, a partire dagli anni Settanta, di uso corrente nella critica letteraria. Bachtin informa che con questo termine vuole significare «l'inscindibilità dello spazio e del tempo», vale a dire il loro condizionamento reciproco nelle opere letterarie.Nel cronotopo letterario «ha luogo la fusione dei connotati spaziali e temporali in un tutto dotato di senso e di concretezza»: infatti i «connotati del tempo si manifestano nello spazio, al quale il tempo dà senso e misura». Poiché il cronòtopo letterario implica il modo con cui è trattata da un autore l'immagine dell'uomo (che è sempre cronotopica, collocata cioè nello spazio e nel tempo), esso riguarda tanto la forma quanto il contenuto di un'opera. 1. La cittàÈ il luogo del disorientamento, ma anche della scoperta di sé: qui Renzo avverte la propria differenza e , talora, la propria inettitudine. Nella città domina il movimento; compaiono grandi masse in azione, urlanti ed aggressive dapprima nei tumulti per il pane, poi nella caccia agli untori. Il tempo nella città è più veloce e concitato. Per due volte Renzo è costretto a fuggire, dalle guardie la prima, dai persecutori che lo scambiano per untore la seconda (cap. XXXIV). La città è il luogo della violenza non solo del potere pubblico (che vi erge le sue forche e i suoi strumenti di tortura e vi sguinzaglia i suoi monatti), ma anche del popolo, che assale i forni e la casa del vicario di provvisione o dà la caccia ai presunti untori. Il sapere contadino e artigianale di Renzo appare qui inefficace. Per ritrovare la propria identità, la sicurezza del proprio sapere e le ragioni della propria cultura, Renzo deve ritrovare l'Adda, il fiume della sua esperienza contadina e montanara. Solo allora lo smarrimento cittadino - col traviamento che comporta, fino all'ubriacatura - avrà termine. Episodi significativi: l'«addio, monti ... » (cap. VIII); Renzo riesce a sfuggire all'arresto (cap. XIV) e poi attraversa l'Adda (cap. XVII); episodi di orrore durante la peste a Milano (cap. XXXIV); Renzo scambiato per untore riesce a scappare verso il lazzaretto (cap. XXXIV).

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  2. La stradaLa strada è il luogo del pubblico, degli incontri e delle esperienze.Il tempo - come lo spazio e le persone - è vario, mai monotono. La strada è l'itinerario dell'«eroe cercatore» (definizione di Renzo data da Ezio Raimondi), che ha come oggetto di ricerca se stesso, la propria identità e la propria formazione e quindi crescita interiore. Sulla strada Renzo incontra la storia pubblica del proprio tempo.  3. Il castelloIl castello è un topos del romanzo gotico (a partire già dal titolo del romanzo che dà inizio a questo sottogenere, Il castello di Otranto, 1764, dell'inglese Horace Walpole) e poi del romanzo storico di Walter Scott. Proprio in Scott si caratterizza soprattutto per due modalità:

1. il castello è saturo di tempo passato e di storicità; 2. ha un legame storico con il paesaggio e l'ambiente circostante.

Entrambi questi aspetti compaiono nel palazzotto di don Rodrigo. Gli spazi interni del castello 'dialogano' con il proprietario (cap. VII), mentre l'esterno ha una dimensione simbolica: si trova su un'altura e domina tanto un borghetto di contadini che sono anche bravi e gente di malaffare, quanto, più in basso, il paese di Renzo e Lucia. Rappresenta dunque un potere che sta in alto e che opprime.Diverso è il «castellaccio» dell'Innominato: non ha storicità nelle stanze, ma solo armi. Non ha un passato dietro di sé, sembra non avere né storia né famiglia, dal momento che Manzoni lo vuole far emergere come figura gigantesca ed isolata. Esprime la stessa idea di grandezza e di superbia che viene emanata dal personaggio, un'aspirazione all'onnipotenza, quasi una sfida a Dio (cfr. anche la figura di Napoleone nelle prime due parti del Cinque maggio). È circondato da un paesaggio rupestre, privo di vegetazione e di vita, dove domina il senso dell'inorganico, del selvatico. Forse per questo è più vicino all'Assoluto. Episodi significativi: il castello di don Rodrigo (cap. V) e dell'Innominato (cap. XX).  4. Le osterieNel romanzo si incontrano tre osterie: quella del paese natale, dove Renzo si reca con Gervasio e Tonio la sera del matrimonio a sorpresa; quella di Milano la sera dei tumulti; quella di Gorgonzola in cui il giovane ascolta da un mercante il resoconto della giornata in città e delle sue stesse gesta.L'osteria è uno spazio chiuso in cui entra ed esce continuamente gente; dall'esterno vi penetrano tutti gli echi, le speranze, le minacce e le notizia. E tuttavia l'interno dell'osteria si contrappone all'esterno perché si fonda su un tempo improduttivo, tempo di non lavoro, di gioco. L'esterno rappresenta la serietà del lavoro o della rivolta sociale o della tirannia del potere. L'interno è invece il luogo in cui si beve e si gioca alla morra o a carte e a dadi. L'elemento potenzialmente trasgressivo è confermato dal fatto che essa è frequentata anche dagli strati più bassi della popolazione e che poliziotti e bravi la bazzicano per poter controllare o spiare i potenziali ribelli. Episodi significativi: l'osteria del paese (cap. VII), quella della Luna Piena a Milano (cap. XIV), quella di Gorgonzola (cap. XVI).  5. Il conventoIl convento è un luogo chiuso, contrapposto all'esterno, al normale.  6. Il lazzarettoIl lazzeretto è un recinto chiuso, a metà fra l'ospedale e il campo di concentramento: gli inferi sulla terra. Eppure, accanto alla depravazione dei monatti e alla disperazione dei malati moribondi, ci sono i frati, esempi viventi di carità evangelica e di abnegazione gratuita all'altro.

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Prima della conversioneManzoni compie gli studi in collegio, in quello dei padri Somaschi (a Merate e Lugano) prima, in quello dei Barnabiti (Milano) poi. Ne esce disgustato e ribelle, insofferente e critico nei confronti della religione. È imbevuto di idee illuministiche (1801: Il trionfo della libertà, 1803/4: I sermoni, tra pariniani e alfieriani. Non dimentichiamo che l'ambiente familiare è illuministico: il nonno di Manzoni è Cesare Beccaria, la madre di Manzoni, donna Giulia, prima di recarsi a Parigi a convivere con l'Imbonati frequentava uno dei fratelli Verri). Il giovane Alessandro dimostra una straordinaria precocità nel versificare; ha solo 18 anni quando, fervido ammiratore del Monti, gli invia dei versi di stampo classicistico (Adda - idillio), che gli valgono l'elogio del poeta ormai cinquantenne. Ci sono però, in quegli anni, fermenti del rinnovamento romantico anche in Italia. A Milano, il giovane Manzoni frequenta il Lomonaco e soprattutto il Cuoco, fuggiti da Napoli dopo il fallimento della rivoluzione del 1799. Attraverso le conversazioni col Cuoco, lettore di Vico, Manzoni si apre all'interesse per la storia, che è storia di popoli; assimila concetti che resteranno basilari in lui: per liberarsi dallo straniero oppressore, un popolo deve raggiungere l'unità nell'approfondimento delle proprie tradizioni (tradizione è uguale a comunanza di usi, lingua, ideali). La libertà perciò si conquista e si conquista col lavoro e tale conquista si deve fondare sul senso di responsabilità di ciascuno, onde non disperdere le forze in inutili violenze (com'era successo a Napoli). Nel 1805, Manzoni raggiunge la madre a Parigi; frequenta i salotti parigini e conosce C. Fauriel, a cui resterà legato da vivissima amicizia. Compone il Carme In morte di C. Imbonati, che gli procura notorietà (è apprezzato anche dal Foscolo).Nel Carme, il compagno della madre gli appare come lo stoico campione di virtù democratiche. Nel 1809 compone l'Urania (poema che risente ancora dell'influsso del Monti, in cui la Musa scende a consolare Pindaro e gli rivela qual è lo scopo della poesia: quello di ingentilire i costumi degli uomini).Su queste prime composizioni torneremo poi. Basti qui dire che Manzoni già mostra di non sentirsi appagato da un'arte intesa come sfoggio di bravura, mero calligrafismo, ma avverte imperiosa la necessità di agganciare l'impegno letterario a un ideale etico. Nel 1808 aveva sposato Enrichetta Blondel, con rito calvinista; il matrimonio viene regolarizzato secondo il rito cattolico due anni dopo (1810).In questo periodo si pone la conversione, che determina un mutamento sostanziale in Manzoni uomo e in Manzoni artista.  La conversione La conversione non fu improvvisa, ma piuttosto graduale, consentanea al suo carattere analitico, razionale. (Non sono attendibili le testimonianze che parlano d'una conversione fulminea. Episodio della chiesa di S. Rocco, in occasione del matrimonio di Napoleone con Maria Luisa). «Nei misteri della fede la ragione trova la spiegazione dei suoi propri misteri: come è nel sole, che non si lascia guardare, ma fa vedere» (Dell'invenzione). E ancora: «mistero di sapienza e misericordia... che la ragione non può penetrare, ma che tutta la occupa nell'ammirarlo» (Osservazioni sulla morale cattolica, VIII da ora OMC). Quello di Manzoni, è un «credo ut intelligam», il suo è lo sforzo continuo di spiegare razionalmente il reale alla luce della fede. L'esperienza religiosa è legata a un impegno di chiarificazione intellettuale ed etica; la fede, insomma, è strumento di conoscenza, apre un orizzonte di giudizio nuovo sul mondo, poiché, come egli stesso dice nella prefazione alle OMC, la religione «ha rivelato l'uomo all'uomo».Conviene soffermarsi a considerare la religiosità manzoniana poiché è solo a partire da essa che si può intendere appieno la poesia del Manzoni; dice il Sansone: «Il cristianesimo, come visione del mondo, è lo stato d'animo e la ragione lirica dei Promessi Sposi (e non la premessa ideale come vorrebbe il De Sanctis o un limite come dice il primo Croce)». 

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 Caratteri della religiosità  Scrive in una lettera del 1828 a Diodata di Saluzzo: «L'evidenza della religione cattolica riempie e domina il mio intelletto; io la vedo a capo e in fine di tutte le questioni morali; per tutto dove è invocata, per tutto donde è esclusa. Le verità stesse che pur si trovano senza la sua scorta non mi sembrano intere, fondate, indiscusse, se non quando sono ricondotte ad essa, ed appaiono quel che sono, conseguenze della sua dottrina. Un tale convincimento deve trasparire naturalmente da tutti i miei scritti, se non fosse altro perciocché, scrivendo, si vorrebbe esser forti, e una tale forza non si trova che nella mia persuasione.Ma l'espressione sincera di questa può, nel mio caso, indurre un'idea purtroppo falsa, l'idea d'una fede custodita sempre con amore, e in cui l'aumento sia un premio di una continua riconoscenza; mentre questa fede io l'ho altre volte ripudiata, e contraddetta col pensiero, coi discorsi, con la condotta; e dappoiché, per un eccesso di misericordia, mi fu restituita, troppo ci manca che essa animi i miei sentimenti e governi la mia vita, come soggioga il mio raziocinio. E non vorrei confessare di non sentirla mai così vivamente come quando si tratta di cavarne delle frasi; ma almeno non ho il proposito di ingannare (...).Dal timore di offendere (almeno colpevolmente) la religione, introducendola ne' miei poveri lavori, mi rassicura la coscienza intima, non dico del mio rispetto per essa, ma dell'unica fiducia che ripongo in essa e nella Chiesa che l'insegna. Ma in ogni testimonianza che appunto mi si renda di ciò, sento, insieme con la lode, un rimprovero, e in una con la voce benevola mi par d'intenderne una severa che mi dice:A che tu vai ragionando delle mie ingiustizie?». In un'altra lettera dello stesso anno, indirizzata al Padre Cesari, afferma:«Qui, in materia di religione, c'è il mezzo di non errare in ciò che è necessario sapere: credere cioè quello che la Chiesa insegna; qui so che ho ragione di soscrivere in bianco, qui credo a chi ha un carattere unico di certezza nel conoscere e di veracità nell'insegnare, una promessa di infallibilità data da chi è solo infallibile per sé. Colla Chiesa dunque sono e voglio essere, in questo come in ogni altro oggetto di Fede; con la Chiesa voglio sentire, esplicitamente, dove conosco le sue decisioni; implicitamente, dove non le conosco: sono e voglio essere con la Chiesa, fin dove lo so, fin dove veggo, e oltre». N.B. - Sul cosiddetto giansenismo manzoniano, conviene fare qualche precisazione. È vero che dei due sacerdoti (il Degola e il Tosi) che seguirono Manzoni nel suo itinerario spirituale, il primo soprattutto era di tendenze giansenistiche.Ma a parte l'esplicita dichiarazione di ortodossia che abbiamo appena letto, bisogna tener presente questo: il giansenismo nega la libertà individuale (la grazia è victrix) e quindi la responsabilità. Manzoni, invece, afferma chiaramente la libertà e la responsabilità dell'agire di ogni uomo (vedi i personaggi dell'Innominato e di Gertrude: «la sventurata rispose»). Citiamo ancora un passo delle OMC ove si dice che «è giudizio della più rea e stolta temerità l'affermare d'alcun uomo vivente che non sia predestinato alla gloria, l'escluderne uno solo dalla speranza nelle ricchezze della misericordia di Dio». Cristo è morto per tutti, non solo per i predestinati alla salvezza: «che a tutti i figli d'Eva / nel suo dolor pensò» (La Pentecoste).Tornando al contenuto del brano (lettera al Padre Cesari), la Chiesa è la Casa della verità.Questa è la risposta che Manzoni dà al bisogno di certezze, se vogliamo accentuato in quel particolare frangente storico. Infatti c'è un generale, diffuso disagio in seguito alle delusioni della rivoluzione Francese; non solo l'esperienza del Terrore, ma anche il dispotismo napoleonico, il fallimento della Repubblica Cisalpina e della Repubblica Partenopea hanno mostrato come fosse illusorio l'ottimistico disegno degli Illuministi. Gli intellettuali in primis sono in crisi, si sentono isolati e disorientati. Cito da Appunti al Tosi (1824):«La scienza del mondo è imperfetta e insufficiente, tanto più l'uomo procede in essa tanto più ne conosce i limiti e le incertezze, tanto più la sente inferiore alla sua curiosità. La scienza dello Spirito è compiuta; docebit omnia».  

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Elementi illuministici Con la conversione, dicevamo, Manzoni opera dunque uno stacco radicale dal suo passato. Restano allora tracce in lui della sua formazione illuministica? Sì. Anche a voler trascurare la considerazione di ordine generale, per cui il Romanticismo italiano si configura più che come reazione piuttosto come prosecuzione di certe istanze illuministiche, in Manzoni sono riconducibili all'Illuminismo:

a) l'opposizione alla concezione romantica di religione come ansia di mistero;b) contro certo irrazionalismo, la ricerca razionale del vero, basata quindi sulla fiducia nelle capacità della ragione di riconoscere e accogliere la verità;c) la concezione dell'impegno del letterato. (Il clima che è proprio dell'Illuminismo lombardo favorisce in Manzoni la concezione del mestiere letterario come un compromettersi quotidiano), letteratura non come evasione;d) anche la tendenza all'analisi psicologica si può ricondurre ad ascendenze illuministiche.

Dobbiamo a questo punto concordare col giudizio che hanno dato De Sanctis, e sulla scorta del De Sanctis altri commentatori, quali il Sapegno, che si tratta cioè delle «idee del secolo battezzate»?Da quanto abbiamo letto nella lettera a Diodata di Saluzzo, appare il contrario: è una verità «impazzita» quella che non è radicata nella religione (Sansone).  Elementi romantici Anche l'adesione di Manzoni al Romanticismo (attorno al Manzoni si ritrovano il Visconti, il Cattaneo, il Grossi, il Berchet, il Porta) è legata, o per meglio dire subordinata alla visione religiosa. Gli elementi costitutivi del Romanticismo manzoniano sono:

a) l'apertura a Dio (la religiosità);b) l'interesse per la storia e il senso della storia come divenire, come organismo, in cui i fatti hanno un loro intimo nesso;c) lo spirito democratico. Manzoni partecipa cioè alle idee democratiche europee, per cui alle riforme elargite dall'alto senza mutare sostanzialmente il rapporto fra le classi sociali, subentra la volontà di una spontanea conquista dei diritti umani. Le «genti meccaniche» sono protagoniste della storia, non sono più considerate oggetto di filantropica assistenza (paternalismo);d) conseguenze dirette di questi presupposti democratici sono la posizione di Manzoni sulla questione della lingua e la scelta del genere letterario, aspetti su cui torneremo.

I testi fondamentali della poetica manzoniana sono quattro:

1) Lettre à M. Chauvet (1820), contro le critiche di quel letterato al suo Carmagnola

Rapporto fra storia e poesia

Manzoni dimostra l'irragionevolezza delle cosiddette unità aristoteliche di tempo e di luogo.

Afferma che la storia è l'unica fonte della poesia. In cosa si distinguono le due attività? La storia ci dà dei fatti che non sono, per cosìdire, conosciuti se non nel loro aspetto esteriore, quello cioè che gli uomini hanno fatto, ma non ci dice i pensieri, i sentimenti che li hanno accompagnati: «tutto ciò che la volontà ha di vigoroso e di misterioso, la sventura di religioso e di profondo» (Basti pensare al «5 maggio», che è storia di un'anima, di ciò che non si racconta nella vita di Napoleone).

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Il poeta deve «contemplare la storia», la sua invenzione che «deve accordarsi con la realtà», anzi «è un modo di costringerla a venir fuori, a rivelarsi».

L'arte è creazione, non imitazione

Ogni azione storica, poi, se la si considera attentamente si distingue per «un carattere particolare, quasi individuale, qualcosa di esclusivo e proprio che la fa ciò che essa è»: il poeta deve saper cogliere questo carattere, né può accettare il concetto di imitazione senza contraddire questa realtà esclusiva e propria di ogni soggetto.

Ciò significa che l'arte è creazione.

L'imitazione e le regole, che si vogliono far risalire ad Aristotele, sono in realtà un'invenzione dei grammatici, che hanno abusato del suo nome per «instaurare un deplorabile dispotismo».

Il valore morale dell'arte

Il fine che il poeta deve proporsi è di «interessare per mezzo della verità: non domandiamogli altro che di essere vero».

E la verità è, come dice nelle OMC, «questo fondo comune di miseria e di debolezza», «ciò che è e ciò che dovrebbe essere, il bene e il male» (Prefazione).

Noi viviamo in una sfera di idee e di realtà «stretta ed agitata»: il poeta ci sollevi a una sfera «di idee calme e grandi», agli ideali di giustizia e di bontà che ciascuno porta in sé.

2) Lettera sul Romanticismo (1823), Manzoni vi si professa romantico, mostra perché è arrivato alla professione romantica

La lettera consta di due parti, una negativa e una positiva.

I - Nella prima, più sviluppata, Manzoni dice che il Romanticismo rifiuta l'imitazione servile (che non vuol dire lettura) dei classici; le unità di tempo e di luogo, la mitologia. I due primi rifiuti sono giustificati dal fatto che sono «irragionevoli», se si tien conto che ogni opera poetica è «organismo» che ha una sua legge intrinseca; il concetto di imitazione, cui neppure i classici stessi si sono attenuti, presuppone inoltre un'unica forma di bellezza. La mitologia, infine, va rifiutata perché «è cosa assurda parlare del falso (gli dei bugiardi) riconosciuto come si parla del vero; cosa fredda, perché non richiama nessuna idea o sentimento a un mondo che è cristiano; cosa noiosa il ricantare questo freddo e questo falso». Non c'è quindi una giustificazione poetica per la mitologia, perché non sono più credenze comuni, spontanee, naturali: nel Cristianesimo la mitologia «sta a pigione». Le ragioni più profonde di questo rifiuto vanno comunque ricercate nel rifiuto della concezione pagana della vita rispecchiata nella mitologia («L'uso delle favole è idolatria»).

II - La parte positiva, che «non è così precisa ed estesa», consiste in questo:

a) la poesia (prima edizione) deve porsi per oggetto il vero (vero storico-morale): comportamento degli uomini nella storia;

b) per fine l'utile (utile inteso anch'esso in senso morale: ideale di giustizia e di bene);

c) per mezzo l'interessante, non solo per «le persone più dotte», ma «per un maggior numero di lettori».

Il soggetto interessante dovrà essere tratto «dalle memorie e dalle impressioni giornaliere della vita», cioè dal reale, non da ciò che è fittizio: il diletto della mente può nascere solo dall'assenso dato a un'idea. Il falso è perciò fonte di «diletto instabile e temporario». In queste teorie romantiche che Manzoni fa sue, egli vede una tendenza cristiana: infatti il sistema

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romantico «proponendo anche in termini generalissimi il vero, l'utile, il buono, il ragionevole, concorre, se non altro con le parole, allo scopo del Cristianesimo, non lo contraddice almeno nei termini».

3) Del Romanzo Storico (scritto in varie fasi dal 1830 al 1845)

In questo discorso diventa problema ciò che nella Lettera allo Chauvet appariva come una conclusione pacifica (arte = sintesi di vero storico e di vero morale o poetico): è possibile esprimere il vero non solo attraverso i fatti storici, ma anche attraverso l'invenzione poetica? È possibile costruire un romanzo storico aggiungendo ai fatti conosciuti elementi di invenzione?

L'intento di Manzoni in questo discorso è dimostrare che ciò è impossibile e assurdo, in quanto:

a) l'unico VERO con carattere di storicità è quello POSITIVO, e il VEROSIMILE di per sé non vi aggiunge nulla;

b) è impossibile fondere STORIA e INVENZIONE, VERO e VEROSIMILE.

Pare che Manzoni sconfessi completamente il suo romanzo storico (I Promessi Sposi). In realtà la riflessione teorica lo aiuta a dare un senso più chiaro alla propria opera; se davvero fosse stato persuaso che storia e invenzione sono incompatibili, perché si sarebbe tanto preoccupato di offrire, durante la stesura dello studio sul romanzo storico, un romanzo storico come capolavoro di poesia? (Del Romanzo Storico: 1830-1845; edizione definitiva Promessi Sposi: 1840-1841).

Inoltre nel discorso stesso «Del Romanzo Storico» il Manzoni rinvia al «Dialogo dell'Invenzione» come allo sviluppo ultimo del suo pensiero in proposito.

4) Dialogo dell'Invenzione (1841-1845)

Costituisce la risposta alla domanda: il vero e il bello, il vero storico e l'immaginazione, il bello morale e il bello artistico, tutto insomma, dove trova la sua ragionevolezza? La risposta di Manzoni si articola così:

a) l'artista, a differenza dello storico, «inventa», ma come? in che senso?

b) L'«inventare» (dal latino «invenio») significa «trovare» qualcosa che preesiste, rendere presente alla mente un'idea che era prima che l'artista la rivelasse;

c) ma queste idee dov'erano prima di venire in mente all'artista? Nella mente di Dio. L'inventare assume il significato di scoperta del VERO DI DIO.

d) Così anche il romanzo storico non è più unione di storia = vero e di invenzione = falso, bensì di VERO STORICO e di VERO POETICO, cioè di due tipi di vero, di due modi di rappresentare il vero.

Dietro questo dialogo sta una riflessione filosofica e teologica (vedi rapporto con Rosmini): il poeta non è un genio soggettivo, che crea da sé la verità, ma è invece, attraverso gli strumenti della fantasia e dell'intuizione, un servo della verità, che già c'è ed è la verità di Dio. In questo senso il romanzo storico è l'unione di due modi di esprimere la verità, una verità che Manzoni riconosce come non sua, ma esistente prima di sé. Il compito del poeta è quindi un servizio alla verità : far emergere, dentro la rappresentazione di un fatto, di una vicenda, la verità di quel fatto, di quella vicenda, che è la verità dell'intera realtà dell'uomo e della storia. Nelle tragedie e nei Promessi Sposi questa intuizione, qui espressa teoricamente, cerca di farsi comprensibile a tutti (anche se, nelle tragedie, la verità fatica a intervenire nella storia umana, a emergere in tutta la sua grandezza, e sembra come schiacciata, sconfitta, a differenza dei Promessi Sposi).

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Fermo e Lucia

         La prima stesura dei Promessi Sposi è molto diversa dall'edizione definitiva, che vedrà la luce quasi vent'anni dopo, nel 1840. L'autore, nell'arco di due anni scrive il romanzo in quattro

tomi, intitolandolo provvisoriamente Fermo e Lucia, dal nome dei protagonisti.La composizione inizia nel 1821 e termina nel 1823, con alcune interruzioni. Le sue fonti sono quelle già citate: oltre ai romanzi che circolano in quegli anni e che vengono pubblicati intorno

al 1820, come quello di Walter Scott, il Manzoni attinge alle cronache e alle opere di storiografia del Seicento: ricordiamo: De peste Mediolani quae fuit anno MDCXXX (La peste che

scoppiò a Milano nel 1630), e Historiae Patriae (Le storie della patria, in 23 libri) di Giuseppe Ripamonti (1573-1643), il Raguaglio di Alessandro Tadino (1580-1661), medico milanese che

diagnosticò la peste e le sue cause, nonché le già citate opere dell'economista Melchiorre Gioia, contemporaneo del Manzoni.

         La novità che balza subito all'occhio è il fatto che sono protagonisti personaggi di origine umile e l'ambientazione è di tipo rurale. Niente cavalieri né damigelle, tornei, imboscate e

duelli all'ultimo sangue, ma solo situazioni che, trasposte in epoche diverse, potrebbero vedere coinvolto chiunque. Certo non mancano vicende eccezionali, come la peste, la guerra, il

rapimento della protagonista, una clamorosa conversione: tuttavia Manzoni le presenta con estrema verosimiglianza. Infatti crede nella necessità di rifondere, nel romanzo, il vero storico e

l'invenzione poetica: lo scrittore pensa che la letteratura, per avere carattere educativo, non può rinunciare a proporsi come momento di conoscenza e stimolo alla riflessione. Perciò deve prospettare personaggi, vicende, situazioni, considerazioni, scene, dialoghi e soliloqui in cui il

lettore si possa riconoscere.         Come mai la scelta degli umili come protagonisti? E perché proprio un romanzo storico? Sicuramente non è estranea la concezione cristiana del Manzoni e la sua opinione che la storia

sia fatta dalla gente comune, dalla massa popolare, piuttosto che dalle élites al potere. Naturalmente si tratta di una narrazione, nella quale una vicenda d'amore è inserita in un contesto illustrato con precisione e sul quale l'autore si documenta con cura puntigliosa. A

questo punto torniamo ancora una volta al felice binomio di verità e fantasia che dà al romanzo realismo e universalità.

         Spieghiamoci meglio: l'ambientazione rigorosamente studiata e i tipi umani scelti dall'autore rimandano alla realtà. I protagonisti non sono creature eccezionali, ma gente

semplice come se ne trova ovunque e in ogni epoca. I personaggi "storici", ossia quelli ricavati dalle cronache, sono riprodotti senza che mai siano falsate (o "romanzate") le fonti storiche,

ma proprio questi personaggi acquistano una suggestione straordinaria quando l'autore cerca di illuminare la loro psicologia e immagina ciò che le cronache non possono dire, ossia il loro

dramma interiore, il fastello di irrequietezze, di paure, di contraddizioni, le riflessioni, i compromessi che li portano a scelte e decisioni sofferte. L'autore li ricostruisce dall'interno,

inventa il processo spirituale che li ha resi quelli che tramandano gli storici. Per questa operazione letteraria deve fare appello alla sua arte poetica, alla sua sensibilità, e, perché no?,

anche alla sua esperienza personale: chi potrebbe negare che, per ricostruire la faticosa conversione dell'innominato, Manzoni non abbia ripensato alla "sua" conversione?

         Un'altra domanda: perché proprio il Seicento? Si può rispondere, ricordando il patriottismo profondo del Manzoni. Nel secolo della dominazione spagnola sul Milanese, egli

ravvisa molte analogie con il suo tempo, in cui la Lombardia è sottomessa agli Austriaci e ancora compaiono prevaricazioni e violenze. Come a quei tempi gli umili erano in balìa delle

forze politiche, così ora i diritti dei cittadini sono violati e le loro giuste esigenze di libertà sono soffocate. La vicenda è ambientata nel territorio del Ducato di Milano e dura per due anni, dal 1628 al 1630. Protagonisti sono due giovani borghigiani che non possono sposarsi perché il

signorotto della zona si è incapricciato della promessa sposa. Dopo lunghe peripezie (i fidanzati devono separarsi ma si ritrovano, poi, in circostanze drammatiche) le nozze vengono celebrate.

         Il romanzo non soddisfa affatto l'autore che lo dà in lettura agli amici Visconti e Fauriel. Quest'ultimo gli suggerisce alcuni tagli sostanziali, per modificare una struttura poco

equilibrata, in alcune parti prolissa e fuorviante.         A questo punto, però, l'autore comprende che non si tratta soltanto di scrivere una bella

storia capitata in passato, di comporre un romanzo che sappia divertire e intrattenere il lettore: sente dentro di sé l'urgenza di trasmettere un messaggio universale e di dare alla sua opera

quella funzione educativa, già obiettivo dei suoi capolavori precedenti. Occorre, quindi, guadagnare in sobrietà e chiarezza, dando ai personaggi quel carattere particolare che

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consente di farsi portavoce di un'esperienza di vita.         Nel 1825 i quattro volumi sono ridotti a tre, dall'intreccio più agile e organico. Nel 1827

ecco l'edizione (detta "ventisettana") dei Promessi Sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni: duemila copie sono esaurite nell'arco di due mesi. Già il titolo è notevolmente suggestivo: l'autore, infatti, si presenta nelle vesti di scopritore e

rifacitore, nel milanese in uso ai suoi tempi, di un antico manoscritto secentesco, composto da un misterioso autore Anonimo: non è un espediente molto originale, se pensiamo che già

Ludovico Ariosto l'ha usato per l'Orlando furioso (1532) e Miguel de Cervantes se ne è servito per il Don Chisciotte (1605-16015).

 

La storia

Vediamo ora, in sintesi, la storia che inizia la sera del 7 novembre 1628.

Don Abbondio, parroco di un paesino sulle colline presso Lecco, viene minacciato dai bravi di don Rodrigo, affinché non celebri il matrimonio fra Renzo e Lucia. I malviventi,

al servizio del signorotto, sanno incutere una gran paura al pavido curato che, con mille pretesti, l'indomani convince lo sposo a rimandare la cerimonia. I due giovani cercano una soluzione: Renzo si reca a Lecco per chiedere aiuto all'avvocato Azzecca-garbugli,

Lucia confida nell'intervento di padre Cristoforo, un cappuccino che non esita ad affrontare don Rodrigo in persona.

Ma questi è irremovibile; anzi, progetta il rapimento della ragazza. I fidanzati devono fuggire la notte del 10 novembre. Qui la narrazione si biforca: la storia di Lucia porta il lettore in un convento di Monza. Qui la ragazza trova protezione presso una potente monaca, di cui l'autore ci racconta la storia. Successivamente Lucia viene rapita dal convento, con la connivenza della suora, e portata in un castello sul confine con il

territorio veneziano; è in quest'occasione che fa un voto alla Madonna: rinunciare a Renzo in cambio della salvezza e della libertà. Lì il rapitore, l'innominato, un potente

malfattore che ha voluto assecondare don Rodrigo, commosso dalla ragazza, decide di cambiare vita: già da tempo si sentiva stanco di commettere delitti e violenze. Alla "conversione" lo aiutano anche le buone parole dell'arcivescovo di Milano Federigo Borromeo. Lucia, liberata, trova ospitalità presso la nobile famiglia milanese di don

Ferrante e donna Prassede.Frattanto Renzo giunge a Milano e si fa coinvolgere nei tumulti scoppiati in seguito alla scarsità di pane. A stento sfugge alla polizia, che lo crede un sobillatore, e raggiunge il cugino Bortolo a Bergamo, dove lavora in un filatoio, sotto falso nome. Trascorre così

un anno. Nel 1630 le truppe imperiali dei lanzichenecchi scendono in Italia, attraversano il ducato di Milano, per andare ad occupare Mantova: infatti è in corso la guerra dei trent'anni, che coinvolge molti Stati europei. Francia e Spagna sono in lotta per il controllo del ducato di Mantova e del Monferrato. Le truppe diffondono la peste che falcia migliaia di vite umane e mette in ginocchio la ricca e prosperosa Milano.

Renzo si ammala, ma guarisce e decide di tornare in cerca di Lucia. La trova al lazzeretto, un centro di raccolta degli appestati di Milano: anche lei ha preso la peste

ma l'ha superata ed ora è convalescente e assiste una ricca vedova di Milano.Nel lazzeretto si trova anche don Rodrigo è malato, ma la sua situazione non lascia

sperare, ed è stato oltretutto reso folle dalla malattia e dal tradimento del suo fedele Griso. Non lasciano sperare neanche le condizioni di Fra' Cristoforo che con totale

abnegazione assiste i malati: a lui si rivolge Renzo per la questione del voto, che viene cancellato perché non valido in quanto fatto in condizione di pericolo. Ottenuta la

nuova promessa di Lucia, Renzo torna al paesello per preparare le nozze: un violento acquazzone fa terminare il contagio. I due giovani si riuniscono al paesello e,

finalmente, don Abbondio celebra le nozze. Risolti tutti i problemi, compresa la pendenza con la giustizia relativo al tumulto di San Martino, la famigliola si trasferisce a Bergamo, dove Renzo impianta un filatoio con il cugino. La storia finisce serenamente.

         Che cosa è cambiato dal Fermo e Lucia ai Promessi Sposi? Qualcosa di molto sostanziale. Non solo, infatti, i personaggi modificano il loro nome (Fermo Spolino diventa Renzo

Tramaglino, filatore di seta, come ricorda il cognome; Lucia Zarella si chiama Lucia Mondella;

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fra Galdino, il cappuccino che protegge i fidanzati, assume il nome di padre Cristoforo; il Conte del Sagrato riceve la misteriosa denominazione dell'innominato, Marianna De Leyva diventa l

'anonima monaca di Monza), ma sono introdotti tagli decisi alla narrazione. Le vicende dei due personaggi storici per eccellenza (perché sono il frutto di una pignola consultazione delle cronache del tempo), ossia l'innominato e la monaca di Monza, sono sfumate e ridotte. Di

queste figure il lettore non conosce tutti gli antefatti, ma soltanto le notizie fondamentali: in compenso è approfondito lo scandaglio psicologico, a tutto vantaggio della poeticità e

suggestione della loro personalità. Infatti la storia della fanciulla monacata per forza nel Fermo e Lucia è così vasta da costituire davvero "un romanzo nel romanzo", che spiazza il lettore e gli fa dimenticare il filo centrale della narrazione. Inoltre, subito dopo l'interminabile odissea della monaca, ecco apparire il tenebroso Conte del Sagrato, anche lui con una lunghissima biografia alle spalle, vero excursus in cui il lettore si immerge nel mondo violento dei sicari secenteschi.

Però ne deriva un grosso inconveniente: quando, dopo pagine e pagine, ricompare il povero Fermo, che poi è il protagonista, sembra quasi un intruso piovuto non si sa da dove. A ciò si

aggiunge, come osservano gli amici di Manzoni, che emerge un eccessivo compiacimento per gli aspetti truculenti, torbidi, violenti dei personaggi. Per esempio l'autore illustra con esagerato

realismo l'agguato del Conte a un nemico sul sagrato della chiesa, oppure si dilunga nel descrivere l'assassinio di cui la monaca si rende complice tra le mura del convento.

         Tacendo i torbidi retroscena della monaca e lasciando intuire solamente il passato dell'innominato, il romanzo acquista maggiore eleganza e omogeneità stilistica, mentre i

personaggi risultano più misteriosi, interiormente ricchi, sfaccettati, verosimili e forti di una incredibile capacità di ricreare la suspense.

         Solo don Rodrigo rimane immutato, anzi, risulta peggiore. Sembra che Manzoni voglia davvero fare di lui l'incarnazione del male di tutto un secolo. Nel Fermo e Lucia, infatti, egli è

scosso da una vera passione per la ragazza e vive una tremenda crisi di gelosia nei confronti di Fermo. La sua persecuzione, in fondo, nasce da un sentimento che potrebbe, se non

giustificarla, renderla umanamente comprensibile. Nella redazione successiva, invece, gli ostacoli che frappone alle nozze nascono da una futile scommessa stipulata con il cugino

Attilio, superficiale e prepotente come lui.         Alcune scene ad effetto, come la morte di don Rodrigo, che impazzisce per il contagio

della peste e si getta in una furibonda cavalcata nel lazzaretto, vengono riequilibrate, smorzate nella suspense, a tutto vantaggio dell'armonia della narrazione.

         Anche dal punto di vista strutturale I Promessi Sposi risultano in parte modificati, con lo spostamento di alcuni blocchi narrativi: i due episodi della monaca di Monza e dell'innominato

vengono distanziati con l'inserimento delle avventure di Renzo nei tumulti di Milano.         Nell'edizione del Ventisette il Manzoni attua anche tagli decisi nelle parti più

specificatamente metodologiche e storiografiche: abolisce la dissertazione sul problema della lingua del romanzo e toglie tutta la documentazione dei processi agli untori (presunti

responsabili della diffusione della peste a Milano) che ha rinvenuto negli atti riportati dalle cronache milanesi. Questa documentazione, peraltro di grande interesse, verrà enucleata e rielaborata nella Storia della colonna infame, pubblicata nel 1842 in appendice all'ultima e

definitiva edizione del romanzo.         Non mancano, infine, le aggiunte: poche, ma utili per infondere al romanzo quel tono di realismo, arricchito da un umorismo sottile che tempera la drammaticità di alcuni episodi. Per

esempio l'autore inventa il soliloquio di Renzo che, in fuga verso Bergamo, sta cercando un facile guado dell'Adda. È un capolavoro di introspezione psicologica: chi non ha mai parlato da

solo, in maniera concitata e aggressiva, quando ha rimuginato fra sé un torto subito?         Uno dei primi entusiasti recensori del romanzo è Wolfgang Goethe, ma seguono

rapidamente giudizi molto positivi di scrittori francesi come Stendhal (1783-1842), Alphonse de Lamartine e di autori che languiscono nelle carceri austriache, come Silvio Pellico («quanto

consola il vedere in Manzoni il cristiano senza pusillanimità, senza servilità, senza transazioni co' pregiudizi dell'ignoranza», scrive dallo Spielberg nel 1829).

         Gli anni compresi tra il 1827 e il 1840 sono dedicati a una attenta revisione linguistica dell'opera. L'autore è da tempo interessato alla questione della lingua , che in Italia è dibattuta sin dal XIII secolo: se ne occupa Dante Alighieri (1265-1321) nel De vulgari eloquentia, se ne

occupano importanti trattatisti del Cinquecento. Infatti gli Italiani, divisi politicamente, si sentono uniti nella cultura e nell'Ottocento aspirano a una lingua letteraria che sia nazionale.

La tradizione addita nel fiorentino l'idioma più raffinato della penisola.         Perciò il Manzoni, che vuole fare del suo romanzo un'opera italiana, e non lombarda, mobilita la famiglia, per trasferirsi a Firenze qualche tempo. Ha bisogno di "orecchiare" il

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toscano parlato dalle classi colte, per frequenti e determinanti correzioni al linguaggio della narrazione.

 

L'edizione del 1840 e il linguaggio

         Tredici persone, tra cui cinque domestici, stipate in due carrozze, nel luglio 1827 intraprendono il viaggio per quella che il Manzoni chiama una "risciacquatura in acqua d'Arno".

Nel capoluogo toscano Manzoni riceve un'accoglienza festosa, mentre lo stesso granduca Leopoldo II lo convoca a corte.

         Gli intellettuali che si raccolgono nel Gabinetto scientifico-letterario di Giampiero Viesseux vedono nel Manzoni il rappresentante più accreditato del Romanticismo nostrano.

         Il suo romanzo non è l'unico nel panorama italiano, poiché negli anni di pubblicazione dei Promessi Sposi sono dati alle stampe altri romanzi storici, scritti sul modello delle opere di Walter Scott: proprio a Firenze escono, di Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873), La

battaglia di Benevento, L'assedio di Firenze e Beatrice Cenci. Ricordiamo anche Marco Visconti, di Tommaso Grossi (1790-1853), Ettore Fieramosca, di Cesare D'Azeglio, Margherita Pusterla di

Cesare Cantù (1804-1895).         Eppure nessuno si sognerebbe di negare il primato ai Promessi Sposi.

         A Firenze Alessandro Manzoni si lega d'amicizia con Giuseppe Giusti e Gino Capponi, mentre conosce, senza trarne grande piacere, Giacomo Leopardi (1798-1837) e Giambattista

Niccolini (1782-1861). Conosce anche una fiorentina "verace", Emilia Luti, che lo segue a Milano, come istitutrice della nipotina Alessandra D'Azeglio, diventa la sua più fedele

collaboratrice nel faticoso lavoro di revisione linguistica che porterà all'edizione del 1840. Quando uscirà l'edizione illustrata dei Promessi Sposi, il Manzoni gliene regalerà una copia con questa dedica: «Madamigella Emilia Luti gradisca questi cenci da lei risciacquati in Arno, che Le

offre, con affettuosa riconoscenza, l'autore» (da Citati, Immagini di Alessandro Manzoni, pag. 120).

         Fermo restando che nella Quarantana rimane inalterata la trama e non sono affatto modificati i personaggi, vediamo di mettere a punto in che cosa consiste questa revisione

linguistica.Nel Fermo e Lucia il Manzoni ha usato una lingua derivata dalla sua abitudine a scrivere in

poesie e in parte anche tradotta dal francese. Ne è derivato (sono parole sue!) un «composto indigesto di frasi un po' lombarde, un po' toscane, un po' francesi, un po' anche latine» cui,

nella Ventisettana, viene sostituito il toscano letterario, con l'aiuto del Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini, il Dizionario francese-italiano e il Vocabolario della Crusca, nell'edizione 1729-38. È un toscano libresco che non soddisfa l'autore, il quale crede nel

romanzo come genere letterario che si orienta a un lettore dinamico, calato nella sua epoca, operativo, incisivo nella società e non certo "topo di biblioteca". Il viaggio a Firenze e la

collaborazione della Luti hanno proprio lo scopo di "insegnare" al Manzoni l'uso del fiorentino "borghese", parlato dalle persone colte, con le sue sfumature ironiche, la sua spigliatezza, la sua armonia e musicalità. L'autore vuole superare il divario tra lingua parlata e lingua scritta. Non è un capriccio, ma sente che è in gioco un elemento importante circa il futuro del popolo

italiano: «per nostra sventura» aveva scritto anni prima al suo amico Fauriel (in una lettera del 9 febbraio1806) «lo stato dell'Italia divisa in frammenti, la pigrizia e l'ignoranza quasi generale hanno porto tanta distanza tra la lingua parlata e la scritta che questa può dirsi quasi morta».

Si tratta di portare a dignità letteraria la lingua d'uso.         Il suo obiettivo, si è detto, è di raggiungere un pubblico vasto, di non elevata cultura ma

sinceramente interessato. D'altra parte è proprio per questo pubblico che ha scritto il romanzo, genere letterario tenuto in scarsa considerazione dagli intellettuali italiani che, prima dei

Promessi Sposi, ancora lo ritengono proprio di persone poco acculturate.         L'opera del Manzoni mostra l'assurdità di questo pregiudizio, ma l'autore deve compiere il

grosso sforzo di aprire una strada, anche sul piano del linguaggio, poiché deve inventarlo.Dopo tredici anni di rimaneggiamenti, finalmente l'editore Redaelli di Milano può far uscire I Promessi Sposi a dispense, nella sua redazione definitiva. La pubblicazione si conclude nel

1842, riscuotendo un grande successo grazie, ovviamente, anche alla forma linguistica, in cui Manzoni riesce a superare la discrepanza tra lingua scritta e lingua parlata e appronta lo

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strumento espressivo tanto atteso dai Romantici per una letteratura nazional-popolare.         Non di rado l'autore dialoga con il pubblico, chiamandolo «i miei venticinque lettori» o interrogandolo giovialmente su qualche problema, presentato in modo ironico. È un modo di

costruire un rapporto immediato, che contribuisce a sottolineare l'intento educativo del romanzo, finalmente riconosciuto nella sua dignità di genere letterario a tutti gli effetti.

         I critici sottolineano la vivacità dei dialoghi, la pluralità dei registri, che passano dal tono amichevole e colloquiale a quello solenne e persino oratorio (per esempio del cardinal

Borromeo).

         Manzoni sa introdurre una garbata ironia laddove la tensione emotiva si fa troppo opprimente, ma sa anche assumere la severità dello storico che riferisce avvenimenti con l'indicazione delle fonti. Non meno importante è la capacità mimetica dell'autore che sa

mettere in bocca ai personaggi esattamente le parole e il tono giusto, quasi suggerendo al lettore anche l'intuizione del gesto che lo accompagna. Quando il conte, zio di don Rodrigo, un "pezzo grosso" del Consiglio segreto, accoglie nel suo studio il padre provinciale, responsabile

dei cappuccini del ducato, per decidere la sorte di padre Cristoforo, il Manzoni dice che «il magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo» (cap. XVIII) e l'ampollosità della frase

sottolinea la cerimoniosità dei due interlocutori.         Quando don Ferrante, nobile e ricco intellettuale milanese che ospita Lucia, viene

presentato al lettore, l'autore sottolinea, circa i rapporti con la moglie impicciona : «Che, in tutte le cose, la signora moglie fosse la padrona, alla buon'ora; ma lui servo, no» (cap. XXVII),

sottolineando, con la vivacità della negazione, la dimensione patetica in cui si inserisce il personaggio.

         E così, tanto per sottolineare un toscanismo, è da notare questa espressione: alla domanda di Lucia se rivelerà a padre Cristoforo il progetto di forzare don Abbondio con il

matrimonio "a sorpresa", «- Le zucche! -» (cap. VII), risponde Renzo, frase che equivale a un "Fossi matto!", ma ha sicuramente un'incisività, una pregnanza e un'arguzia molto maggiori.

         La lingua manzoniana sa adattarsi alla psicologia dei personaggi: sa farsi allusiva laddove due "politiconi" organizzano una piccola congiura; sa diventare appassionata ma non priva di humour quando narra le peripezie di Renzo in fuga; sa assumere il tono severo di chi, senza giudicare, non condivide scelte educative improntate all'orgoglio e all'egoismo; sa rispettare

talune caratteristiche del personaggio, come la reticenza di Lucia a corrispondere verbalmente al fidanzato; sa evocare l'allucinazione dell'incubo, nel sogno di don Rodrigo appestato, sa trasmettere il sollievo di chi ha finalmente ritrovato chi cercava; sa riportare con lucidità

cronache del passato; sa descrivere, con pochi tratti sobri e aggettivi "mirati", paesaggi che sono lo specchio dello stato d'animo dei personaggi.

         È necessario sottolineare l'importante scelta artistica che sta alla base di questa "nuova" lingua manzoniana. Prima dei Promessi Sposi il linguaggio veniva modulato secondo

l'imitazione dei classici, sulla base della loro autorità. Il romanzo, invece, propone nella redazione definitiva una lingua viva che ha, però, dignità letteraria. Il criterio che il Manzoni

segue per coniare questa lingua è quello, per usare le sue parole, dello «scrivere come il parlare», per la realizzazione di una prosa duttile, comunicativa, attuale e... italiana. Sì, perché nelle intenzioni più riposte del "patriota" Manzoni c'è anche questa esigenza, che costituisce un

significativo contributo nel processo di unificazione nazionale. Se con la "Ventisettana" lo scrittore presenta un romanzo indirizzato al pubblico milanese, con la "Quarantana" realizza

l'ambizioso progetto di parlare a un pubblico italiano.