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Mario Meliadò RAPPRESENTAZIONE DELLA SCOLASTICA E APOLOGIA DELL’IGNORANZA UNA POSTILLA AL DE VANITATE DI CORNELIO AGRIPPA Un noto racconto di Mary Shelley, pubblicato nel 1833 per la rivista The Keepsake con il titolo The Mortal Immortal , raccoglie le memorie di un uomo di nome Winzy nel giorno del suo trecen- toventitreesimo compleanno 1 . Secondo la narrazione, Winzy sarebbe stato l’ultimo (e di certo il più longevo) discepolo del mago e alchimista Cornelio Agrippa. In un lontano giorno dei primi anni del Cinquecento, Winzy avrebbe bevuto all’insaputa del suo maestro un’inebriante pozione da un’ampolla del labora- torio. Il potente elisir, alla cui preparazione Agrippa attendeva da una vita intera, avrebbe conservato l’incauto apprendista in uno stato di immutata giovinezza per più di tre secoli e lo avrebbe consegnato ad un lento e drammatico isolamento dalla società umana. Si incontra in questa storia un ritratto di Agrippa asso- ciato alla ricerca esasperata di conoscenza e dominio sulle leggi della natura e all’elaborazione di un sapere operativo, di carattere magico-alchemico, volto ad estendere i limiti della condizione umana 2 . Questa immagine letteraria ha una lunga storia: essa * Questo studio è stato svolto nell’ambito del progetto ERC-2013-CoG 615045 MEMOPHI (Medieval Philosophy in Modern History of Philoso- phy) presso l’Albert-Ludwigs-Universität Freiburg (dir. Catherine König- Pralong). 1.M. Shelley, «The Mortal Immortal: A Tale», in Collected Tales and Sto- ries. With Original Engravings, ed.Ch. E. Robinson, Baltimore 1976, 219-30. 2. Si vedano le parole che Shelley mette in bocca a Winzy, quando questi dubitava della potenza della «scienza umana» di Agrippa, pur scorgendone già su di sé gli effetti: «He [scil. Agrippa] was a wise philosopher, but had no acquaintance with any spirits but those clad in flesh and blood. His «Micrologus Library» 90, SISMEL Edizioni del Galluzzo, 2018 ISSN 2465-3276 ISBN 978-88-8450-813-3

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Mario Meliadò

RAPPRESENTAZIONE DELLA SCOLASTICAE APOLOGIA DELL’IGNORANZA

UNA POSTILLA AL DE VANITATE DI CORNELIO AGRIPPA

Un noto racconto di Mary Shelley, pubblicato nel 1833 per larivista The Keepsake con il titolo The Mortal Immortal, raccoglie lememorie di un uomo di nome Winzy nel giorno del suo trecen-toventitreesimo compleanno 1. Secondo la narrazione, Winzysarebbe stato l’ultimo (e di certo il più longevo) discepolo delmago e alchimista Cornelio Agrippa. In un lontano giorno deiprimi anni del Cinquecento, Winzy avrebbe bevuto all’insaputadel suo maestro un’inebriante pozione da un’ampolla del labora-torio. Il potente elisir, alla cui preparazione Agrippa attendeva dauna vita intera, avrebbe conservato l’incauto apprendista in unostato di immutata giovinezza per più di tre secoli e lo avrebbeconsegnato ad un lento e drammatico isolamento dalla societàumana. Si incontra in questa storia un ritratto di Agrippa asso-ciato alla ricerca esasperata di conoscenza e dominio sulle leggidella natura e all’elaborazione di un sapere operativo, di caratteremagico-alchemico, volto ad estendere i limiti della condizioneumana 2. Questa immagine letteraria ha una lunga storia: essa

* Questo studio è stato svolto nell’ambito del progetto ERC-2013-CoG615045 MEMOPHI (Medieval Philosophy in Modern History of Philoso-phy) presso l’Albert-Ludwigs-Universität Freiburg (dir. Catherine König-Pralong).

1. M. Shelley, «The Mortal Immortal: A Tale», in Collected Tales and Sto-ries. With Original Engravings, ed. Ch. E. Robinson, Baltimore 1976, 219-30.

2. Si vedano le parole che Shelley mette in bocca a Winzy, quando questidubitava della potenza della «scienza umana» di Agrippa, pur scorgendonegià su di sé gli effetti: «He [scil. Agrippa] was a wise philosopher, but hadno acquaintance with any spirits but those clad in flesh and blood. His

«Micrologus Library» 90, SISMEL Edizioni del Galluzzo, 2018ISSN 2465-3276 • ISBN 978-88-8450-813-3

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ricorre, con variazioni di tonalità, già in Rabelais e Marlowe edè attestata ampiamente nella tradizione dossografica seicentesca 3.Si tratta certo di un «effetto collaterale» della controversa rice-zione del De occulta philosophia, il grande compendio del pensieromagico rinascimentale che Agrippa compose in prima redazioneattorno al 1510 e che diede alle stampe vent’anni più tardi inversione rivista e ampliata 4.

«All the world has heard of Cornelius Agrippa», recita Winzy.«His memory is as immortal as his arts have made me» 5. Nellafinzione narrativa di The Mortal Immortal, si rinviene uno deitemi che maggiormente percorrono gli appassionanti studi diMichela Pereira sulla tradizione alchemica: la riflessione sul-l’uomo nel suo rapporto con la potenza ambigua e trasformatricedel sapere 6. Raccogliendo questa suggestione tematica, il rac-conto di Shelley ben introduce anche al personaggio al centro diquesta digressione e offre lo spunto per distinguere, in via preli-minare, il mito di Agrippa (his memory) dalla complessità della suafigura storica e della sua opera.

In aperto contrasto con il topos «faustiano» che accompagna lafortuna di Agrippa si pongono, infatti, altri scritti dell’autore –quelli su cui intendo soffermarmi – nei quali si formula unaradicale denuncia della vanità di tutte le scienze e arti umane, ivicomprese la magia e l’alchimia, e si difende un ideale estremo esalvifico di ignoranza. Il manifesto di questa polemica contro la

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science was simply human; and human science, I soon persuaded myself,could never conquer nature’s laws so far as to imprison the soul for everwithin its carnal habitation. Cornelius had brewed a soul-refreshing drink –more inebriating than wine – sweeter and more fragrant than any fruit: itpossessed probably strong medicinal powers, imparting gladness to the heartand vigor to the limbs; but its effects would wear out; already were theydiminished in my frame», Shelley, «The Mortal Immortal», 226.

3. Per una galleria di ritratti agrippiani, cf. M. Van der Poel, CorneliusAgrippa. The Humanist Theologian and His Declamation, Leiden 1997, 1-7; e P.Zambelli, «A proposito del De vanitate scientiarum et artium di CornelioAgrippa», Rivista critica di storia della filosofia, 15 (1960), 166-80.

4. Sulla storia redazionale ed editoriale dell’opera si veda l’introduzionecritica a Cornelius Agrippa, De occulta philosophia libri tres, ed. V. PerroneCompagni, Leiden, New York 1992.

5. Shelley, «The Mortal Immortal», 219.6. A mero titolo d’esempio si veda la sintesi monografica offerta in M.

Pereira, Arcana sapienza. L’alchimia dalle origini a Jung, Roma 2001.

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legittimità e il valore del sapere umano è il De incertitudine etvanitate scientiarum et artium atque excellentia verbi Dei, la celebredeclamazione invettiva che Agrippa stilò nel 1526 e la cui editioprinceps apparve ad Anversa nel 1530 presso Johannes Grapheus.L’opera conobbe ampia e rapida diffusione in tutta Europa: bastipensare che nei due anni appena successivi questa venne ristam-pata almeno sette volte e che nel corso del XVI secolo conobbenumerose traduzioni in lingua volgare. Al successo dell’operacorrispose, tuttavia, un’accoglienza ostile da parte del mondoaccademico, tanto che essa subì la censura da parte delle univer-sità di Lovanio, Parigi e Colonia. Il De vanitate mette in scena,non a caso, una critica distruttiva di tutto il sistema educativomedievale e assume la forma di una «enciclopedia negativa», nellaquale ciascun capitolo è dedicato in genere ad una singola disci-plina e ne questiona la pretesa conoscitiva, la solidità epistemolo-gica e l’utilità per la società umana. Agrippa sviluppa un’impie-tosa fenomenologia degli insuccessi e delle incertezze dellaragione assumendo a prima vista una postura scettica volta apalesare, per ogni disciplina umana, la frammentazione in posi-zioni inconciliabili e la storicità di dottrine per lungo tempoaccettate e poi abbandonate o falsificate.

Questa censura della cultura e delle arti sorprende non soloalla luce del costante e duraturo interesse di Agrippa verso lescienze occulte, ma sembra prima facie contraddire il suo itinera-rio intellettuale, che testimonia invece un impegno costante inogni ramo del sapere e un’esperienza di studio in tutte le facoltàaccademiche. Come noto, Agrippa ottenne la licenza presso lafacoltà delle Arti di Colonia nei primi anni del Cinquecento edesercitò nel corso della sua movimentata carriera le professioni diavvocato, medico, storiografo; non da ultimo, insegnò per breviperiodi nelle aule delle facoltà di Teologia 7. Questa circostanzaha reso il De vanitate un testo particolarmente enigmatico e lastoriografia filosofica ha tentato variamente sin dall’Illuminismodi neutralizzare o decifrare questo paradosso 8. Agli inizi del

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7. Per la biografia intellettuale di Agrippa si veda lo studio ormai classicodi Ch. Nauert, Agrippa and the Crisis of Renaissance Thought, Urbana 1965.

8. Il problema si ritrova chiaramente posto già in J. Brucker, Historia cri-tica philosophiae a mundi incunabulis ad nostram usque aetatem deducta, IV,1,

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Novecento, Ernst Cassirer ha rilanciato una lettura scettica delDe vanitate e si è parlato per questo di una progressiva presa didistanza dalla magia nel pensiero di Agrippa, dal fervore dellafase giovanile al disincanto della maturità 9. Taluni interpretihanno invece intravisto nel De vanitate – e nel ripudio dellamagia in esso contenuto – una scelta strategica, una ritrattazionedissimulata10; altri ancora hanno proposto di intendere l’operacome un jeu d’esprit riducendola ad un esercizio di satira o diironia letteraria11. Queste soluzioni presentano una serie di diffi-coltà legate anzitutto al fatto che Agrippa lavorò quasi contem-poraneamente alla pubblicazione del De vanitate e del De occultaphilosophia e si impegnò a difendere con pari vigore entrambe leopere dai detrattori12. Non è mia intenzione dilungarmi inquesta sede sulle opzioni interpretative in grado di conciliarequeste due istanze della riflessione di Agrippa, per le quali rinvioagli eccellenti lavori di Vittoria Perrone Compagni13.

Il percorso che vorrei qui suggerire è molto più modesto, siferma piuttosto al di qua della contraddizione e tenta di indagarela costruzione di un ideale d’ignoranza come strumento di cri-tica verso la concezione scolastica del sapere e, parimenti, comeformula paradossale d’una controproposta educativa. Proverò in

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Lipsiae 1766, 419-21, che propende per una lettura satirica del De vanitate(«esse eum [scil. libellum] satyram, qua superbiam pseudo-eruditorumtumoremque sophistarum dogmaticorum deprimere voluerit»).

9. Cf. E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaftder neueren Zeit, I, Berlin 1906, 181 (e più estesamente nella II ed., 1911, 192-94); su questa linea si muove in parte lo stesso Nauert, Agrippa.

10. Si veda ad es., F. A. Yates, Giordano Bruno and the Hermetic Tradition,London 1964, 131.

11. Cf. B. Bowen, «Cornelius Agrippa’s De vanitate: Polemic or Para-dox?», Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance, 34 (1972), 249-56; E. Korkow-ski, «Agrippa as Ironist», Neophilologus, 60 (1976), 594-607.

12. D’altro canto, vi sono elementi teorici di evidente continuità conalcuni trattati minori che Agrippa compose nel decennio precedente, sututti il De triplici ratione cognoscendi Deum, tali da impedire una lettura del Devanitate in chiave retorica o come netta cesura con la riflessione precedente,cf. V. Perrone Compagni, Ermetismo e Cristianesimo in Agrippa. Il De tripliciratione cognoscendi Deum, Firenze 2005, in part. 52-68.

13. Tra gli altri, si rimanda a V. Perrone Compagni, «Riforma della magiae riforma della cultura in Agrippa», I Castelli di Yale. Quaderni di filosofia, 2(1997), 115-40; ead., «Tutius ignorare quam scire. Cornelius Agrippa and Scep-ticism», in Renaissance Scepticisms, Dordrecht 2009, 91-110.

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tal senso a rileggere alcuni brani agrippiani in cui si fa difesa edelogio degli idiotae, degli illitterati o dei simplices, per intravedervinon una dichiarazione di antintellettualismo ma una diagnosi discleròsi della cultura contemporanea. Mi soffermerò in sequenzasu due aspetti di tale diagnosi per esaminare come l’antimodellodell’idiota veicoli polemicamente una rappresentazione della sco-lastica come gerarchia e istituzione del sapere e come metodo diricerca teologica, alla cui base Agrippa individua una visionedistorta dell’uomo e della sua destinazione. E sebbene il vessillod’ignoranza si sia costituito almeno sin da Petrarca come unluogo classico della polemica antiuniversitaria 14, non è privod’interesse il modo in cui Agrippa rimodula e compone insiemele sue fonti d’ispirazione.

I

L’invocazione al lettore con cui si apre il De vanitate rendeesplicito l’obiettivo polemico di Agrippa e il compito di cui eglisi sente investito. Il brano d’esordio ostenta un tono belligerantee mette in scena, entro una cornice mitologica, il confronto tral’autore e l’esercito delle scienze e delle arti.

Non ti sembrerà, o lettore attento, generosa, di grande ardire e quasi�degna d’Ercole questa mia impresa, se prendo le armi contro l’intera�gigantomachia delle scienze e delle arti e provoco in battaglia tutti i�valorosissimi cacciatori delle scienze e delle arti? Ruggiranno contro di�me l’arroganza dei dottori, l’erudizione dei licenziati, l’autorità dei�maestri, lo sforzo� dei baccellieri, lo zelo di tutti gli scolastici e la ribel-lione dei meccanici. […] E voglio che tu sappia ch’io non scrivo queste�cose per odio o per ambizione, […] ma per la causa QJá�giusta e più vera di�tutte, e cioè che vedo molti insuperbirsi tanto nelle umane discipline e� nelle scienze […] sino a trascurare e disdegnare non solo come grosso-lane e ignoranti le parole delle lettere sacre e le scritture canoniche� dello Spirito Santo, ma giungono per giunta a perseguirle con un certo�disprezzo15.

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14. Cf. R. Imbach, C. König-Pralong, Le défi laïque: existe-t-il une philo-sophie de laïcs au Moyen Âge?, Paris 2013.

15. Henricus Cornelius Agrippa ab Nettesheym, De incertitudine & vani-tate scientiarum atque artium declamatio inuectiua, in Opera, quæcumqve hactenusvel in lucem prodierunt, vel inueniri potuerunt omnia, in duos tomos concinne dige-

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Il riferimento alla battaglia d’Ercole contro i giganti chiariscelo slittamento del bersaglio dalle discipline ai loro venatores. L’at-tenzione si dirige, in particolare, verso gli esponenti accademicidelle scienze, ciascuno identificato con una disposizione d’animo.Gli avversari di Agrippa si allineano secondo una gerarchia isti-tuzionale precisa che va dai doctores ai baccalaurei, per raggiungereinfine i rappresentanti delle arti meccaniche. Il punto di partenzadell’invettiva contro i saperi non è una riflessione epistemolo-gica, ma l’osservazione della prassi universitaria e la messa inquestione di una pretesa di monopolio e possesso della veritàall’interno delle scuole. L’accusa principale che Agrippa rivolgealla pratica accademica contemporanea è la marginalizzazione delmessaggio evangelico dal discorso intellettuale come conse-guenza di un’illusione d’autosufficienza del sapere umano.

Sul solco di questo rimprovero, il primo capitolo dell’opera(de scientiis in generali) si presenta significativamente come unaparodia dell’usanza scolastica di tenere un elogio della disciplinacome prologo all’insegnamento 16. Agrippa capovolge questocostume invitando ad una preliminare critica delle scienze affin-ché esse non vengano (mal)intese come un valore intrinseco oun fine in se stesse. Per Agrippa ciascuna disciplina è una inven-zione meramente umana e, come tale, la sua utilità dipende perintero dalla condotta morale di colui che la esercita (probitas pos-sessoris). L’antienciclopedia del De vanitate si innesta sulla tesi diuna neutralità assiologica delle scienze e denuncia, al contempo,

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sta, per Beringos fratres, Lugduni s.d. [rist. an.: Hildesheim, New York 1970],II, Ad lectorem, f. *4v: «An non tibi, lector studiose, magnanimum præaudax-que ac pene Herculeum hoc meum facinus videbitur, contra vniuersamillam scientiarum omnium atque artium gygantomachiam arma sumere, acvniuersos illos scientiarum, artiumque robustissimos venatores in arenamprouovare? Infrement aduersum me Doctorum supercilium, Licentiatorumeruditio, Magistrorum autoritas, Baccalaureorum conatus, & scholasticorumomnium zelus, mechanicorumque seditio». E poco più avanti, ibidem, f. *7v:«Et te scire volo, me non odio, non ambitione […] hæc scripsisse […] sedcausa omnium cum iustissima, tum verissima, quod videlicet videam multoshumanis disciplinis scientiisque vsque adeo insolescere, vt sacrarum littera-rum eloquia, & Canonicas Spiritus sancti Scripturas […] tanquam rusticas &idioticas, non modo despicere & aspernari, sed & velut contemptu quodaminsuper insectari».

16. Agrippa, De incertitudine & vanitate, cap. 1, 1-3.

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i pericoli di una venerazione del sapere come perfezione in gradodi realizzare il telos della natura umana. E ciò per un duplicemotivo: per la precarietà delle opinioni, sempre molteplici e sog-gette alla forza corrosiva del tempo o delle dispute; e per l’incapa-cità della scienza di garantire la felicità degli individui o dellasocietà, laddove il sapere è invece esposto all’abuso del suo posses-sore che ne può fare strumento di sopraffazione o manipolazione.

La concezione che orienta qui il discorso di Agrippa emergebene in controluce all’influenza esercitata da Erasmo da Rotter-dam. Si tratta di un tema ben esplorato dalla storiografia, poichél’epistolario di Agrippa documenta, sin dal 1518, una costantepremura nell’acquisizione degli scritti erasmiani e ci trasmette lacorrispondenza diretta tra i due eruditi 17. Nel De vanitate, laprossimità intellettuale ad Erasmo non risulta soltanto dallaripresa dei motivi di satira irridente nei confronti degli scolasticio dall’adesione al genere declamatorio. Tale ispirazione investel’architettura stessa della trattazione che, analogamente al MoriaeEncomium, si regge sulla contrapposizione tra la vanità (o follia)degli sforzi umani e l’eminenza salvifica della scienza di Cristo acui si approda nell’ultima parte dell’opera. Proprio questa colli-sione tra le discipline dell’uomo – specializzate, escludenti ed inultima analisi inadeguate alla salvezza – e il messaggio universaledi Cristo, custodito nelle scritture, dà luogo ad un capovolgi-mento di prospettiva che fa dei semplici e degli illetterati i desti-natari della rivelazione e i depositari della vera sapienza.

Meglio è dunque, e più utile, restar ignoranti e non sapere cosaalcuna e credere per fede e carità […] piuttosto che gonfiarsi e insuper-birsi per la sottigliezza delle scienze cadendo in possesso del serpente.Così leggiamo nei vangeli che Cristo è stato accolto dagli ignoranti, dalpopolino senza istruzione, dalla folla semplice delle genti, mentre fudisprezzato dai sacerdoti, dai dottori della legge, dagli scribi, dai maestrie dai rabbini […]18.

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17. Sui rapporti tra Erasmo e Agrippa, cf. P. Zambelli, «CornelioAgrippa, Erasmo e la teologia umanistica», Rinascimento, s. 2, 10 (1970), 29-88. Per un’analisi della corrispondenza, che comprende nove lettere scrittetra il 1531 e il 1533, si veda Van der Poel, Cornelius Agrippa, 116-26.

18. Agrippa, De incertitudine & vanitate, cap. 101, 307: «Melius est ergo &vtilius idiotas & nihil omnino scientes existere, & per fidem & per charita-

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La figura dell’idiota è introdotta come simbolo evangelico d’ac-coglienza verso la rivelazione e funge da istanza di critica neiconfronti delle gerarchie del sapere e della religione. In linea conil programma di Erasmo, questo tema classico della tradizionebiblica e della predicazione paolina viene svolto da Agrippa nelsenso di una riformulazione orizzontale della pratica del sapereche mira ad aggredire il monopolio dell’élite scolastica e a collo-care la lettura delle scritture al centro dell’educazione umana.

La parola di Dio non è appannaggio dei dottori, insisteAgrippa, ma coinvolge ciascun credente e lo autorizza all’inda-gine dei testi sacri, poiché «la teologia deve essere comune a tuttii fedeli»19. L’esaltazione dei semplici non proclama in tal sensouna fuga indiscriminata dagli studi, ma fa della professione diignoranza una debita predisposizione spirituale alla lettura deitesti sacri e al buon uso dei saperi. Questa idea trova compiutaespressione nella lode dell’asino (cap. 102) posta al termine delDe vanitate con una palese reminiscenza erasmiana e ricca dirimandi alla tradizione biblica ed ermetica20. L’esortazione all’asi-nità, su cui torneremo più avanti, definisce anzitutto un percorsodi spoliazione del dotto dai suoi privilegi e dalla sua presunzionedi conoscenza. La rassegna demolitrice delle discipline dispiegatanel De vanitate dà voce alla consapevolezza di una non commen-

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tem credere, […] quam per subtilitates scientiarum elatos & superbientescadere in possessionem serpentis. Sic legimus in Euangeliis, quomodo Chri-stus ab idiotis, a rudi plebecula, & simplici populorum turba susceptus est,qui a principibus sacerdotum, a legisperitis, a scribis, a magistris & rabbinisrespuebatur […]».

19. Ibidem, cap. 100, 304: «Scitote ergo nunc nihil esse in sacris literis tamarduum, tam profundum, tam difficile, tam absconditum, tam sanctum, quodad omnes Christi fideles non pertineat: quin tota ipsa Theologia omnibusfidelibus communis esse debet, vnicuique autem secundum capacitatem etmensuram donationis Spiritus sancti».

20. L’ascendenza erasmiana sembra rispecchiarsi anche nella storia dellatrasmissione del testo. Sebastian Franck confezionò insieme nel Kronbüchleindel 1534 la traduzione tedesca del Moriae Encomium e di parte del De vani-tate. Qualche decennio più tardi l’accostamento tra i due scritti sarà espli-cito nella rilettura di Sir Philip Sidney («Agrippa will be as merry inshewing the vanitie of Science as Erasmus was in commending of follie»,Ph. Sidney, A Defence of Poetry, ed. J. A. Van Dorsten, London 1966, 49). Cf.A. C. Hamilton, «Sidney and Agrippa», The Review of English Studies, 7, 26(1956), 151-57.

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surabilità tra le ambizioni della ragione e il raggiungimentopieno della verità, rivendicando di conseguenza la partecipazionelegittima dell’intera comunità cristiana all’impresa interpretativadelle scritture.

II

La cornice entro cui Agrippa discute e mette in dubbio lalegittimità delle scienze è dunque primariamente teologica. L’in-vettiva si batte per inscrivere tutto il sapere umano in un oriz-zonte religioso e per ridefinirne i limiti e la portata alla lucedella rivelazione scritturale. Non a caso, nella concezione accade-mica della teologia è possibile ritrovare, secondo Agrippa, letracce più limpide del male che affligge la cultura contempora-nea. Il capitolo 97 del De vanitate, dedicato esplicitamente alla«teologia scolastica», propone un compendio dei topoi polemicicon cui gli umanisti erano soliti caratterizzare le pratiche intel-lettuali in uso nelle università. Nei suoi snodi principali, il testoesibisce in particolare una stretta dipendenza dal De studio divinaeet humanae philosophiae (1496) di Gianfrancesco Pico della Miran-dola21. Queste pagine di Agrippa hanno conosciuto peraltro unaricezione significativa. Già nel 1532, il maestro parigino Jérômede Hangest ne proponeva un’articolata confutazione nel suo DeAcademiis in Lutherum 22. E se la storiografia protestante dei secoli

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21. Illustrerò questa parentela testuale nel corso delle note successive. Aduna presenza del De studio nel cap. 97 del De vanitate allude brevementePerrone Compagni, «Riforma della magia», 128, nota 23. In precedenza, ladiscussione circa l’influenza di Gianfrancesco Pico su Agrippa si è concen-trata (senza approdare invero ad una soluzione unanime) sulla ricezione del-l’Examen vanitatis doctrinae gentium (1520) e sulla questione dello «scettici-smo» di Agrippa. Cf. Ch. B. Schmitt, Gianfrancesco Pico della Mirandola (1469-1533) and His Critique of Aristotle, The Hague 1967, 237-42 (app. C: «DidGianfrancesco Pico influence Agrippa?»).

22. Le indagini di Riccardo Quinto hanno messo in luce come lo scrittodi Hangest, sebbene diretto in primo luogo contro Lutero, si prodighi nelsuo secondo capitolo (De artium et scientiarum fida tutela) in una dettagliatadisamina del De vanitate, alla quale sono allegati lunghi estratti dell’operasenza riferimento al nome di Agrippa. Cf. l’accurata introduzione in Jérômede Hangest, A difesa dell’Università (De Academiis in Lutherum, 1532), ed.R. Quinto, Padova 2009. Sulla censura di Hangest al cap. 97, cf. M. Crane,«Agrippa the Lutheran, Luther the Sceptic: A Paris Theologian’s Condem-

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successivi – si pensi al De doctoribus scholasticis (1665) di Adam Trib-bechow – si richiamerà volentieri ad Agrippa per confezionare unritratto ingeneroso del pensiero medievale, una lettura errata diJérôme de Hangest condurrà eruditi del calibro di Jean de Launoye Christoph August Heumann a far circolare sotto il nome diLutero la definizione di scolastica elaborata nel De vanitate 23.

Agrippa ricollega la nascita di questa tradizione teologica alcontesto istituzionale parigino come prodotto storico dell’inse-gnamento presso la Sorbona. La peculiarità della scolastica nelcatalogo agrippiano delle discipline è quella di possedere unanatura duplice derivata dalla commistione di argomenti filosoficie discorso divino 24. La scolastica non è tuttavia identificata conun corpo dottrinale, quanto piuttosto con un genus tradendi. Sitratta di un metodo espositivo improntato alla logica di Aristo-tele che aspira alla dimostrazione in forma sillogistica delle veritàdi fede. Fondativo sarebbe lo strappo all’usus antiquorum: l’allon-

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nation of Agrippa’s De incertitudine et vanitate scientiarum», in Acta ConventusNeo-Latini Upsaliensis, I, Leiden 2012, 317-27.

23. Su questo fraintendimento storiografico si rimanda allo studio diQuinto, v. nota precedente.

24. Agrippa, De incertitudine & vanitate, cap. 97, 282: «Primum autem dica-mus de theologia scholastica, quæ a Parisiensium Sorbona mixtione quadamex diuinis eloquiis & philosophicis rationibus tanquam ex Centaurorumgenere biformis disciplina conflata est: insuper & nouo quodam ac ab anti-quorum vsu alieno tradendi genere per quæstiunculas & argutos syllogismosabsque omnis sermonis elegantia conscripta, alioquin tamen iudicio & intel-lectu plenissima, & quæ ad revincendos hæreticos non modicum attuleritEcclesiæ emolumentum». Agrippa compila qui un mosaico di brani dal Destudio (I, 3) sulla falsariga della disamina critica che Gianfrancesco Picodedica ai Parisienses theologi. Alla fonte pichiana sembrano infatti improntatii richiami alla modalità espositiva, alla genesi istituzionale e alla mancanzadi stile: «[…] eos omnes hac appello nomenclatura qui Parisiorum gymnasijssunt enutriti, quique philosophiam theologiamque pulchritudine elocutionisposthabita, tradiderunt nouo quodam scribendi genere […] per quæstiuncu-las & titillantes argutias […]», Joannes Franciscus Picus, De studio divinae ethumanae philosophiae libri duo, in Opera omnia, II, Basileae 1573, I, 3, 10.Similmente, risalgono allo scritto di Gianfrancesco le concessioni all’acumeintellettuale dei dottori scolastici («homines alioquin iudicio valentes &intellectu subtilissimo», ibid., 9) e all’emolumentum del loro metodo quantoalla lotta alle eresie (ibid., 9-10), nonché il motivo centrale della commi-stione di parola divina e ragioni filosofiche («Nec aliud mihi uidetur Pari-siensium theologia quam mistio quædam ex diuinis eloquijs & naturalibusrationibus dissultans […]», ibid., 12).

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tanamento dall’esempio dei padri e dal modello di una teologiaprecipuamente esegetica. D’altronde, è interessante rilevare comeAgrippa tracci un quadro dello sviluppo storico della scolasticasecondo uno schema di progressivo declino, senza condannaretout court l’intero movimento. Alla scolastica nella sua prima faseevolutiva, che va da Lombardo a Tommaso, Agrippa riconosceprofondità di giudizio e una non trascurabile utilità nella confu-tazione degli eretici. Il graduale irrigidimento dell’elemento dia-lettico e disputante, che troverebbe in Duns Scoto un puntonegativo di svolta, avrebbe fatto scivolare la scolastica verso unaduplice vizio: la sofistica, o meglio la passione per la concettua-lità astratta e le sottigliezze logiche, e lo spirito settario, vale adire il gusto per la logomachia e per la contesa tra fazioni 25. Ilprimo malcostume è responsabile, secondo Agrippa, d’aver recisoil legame costitutivo della teologia con il testo sacro; al secondoviene invece imputata la colpa di sostituire all’autorità dellaBibbia quella dei capiscuola.

Ancora una volta, è l’antagonismo tra l’idiota e il dottore sco-lastico la chiave per cogliere l’intento più profondo che guida leaccuse di Agrippa, laddove il primo sembra in grado di cogliereciò che al secondo irrimediabilmente sfugge 26. Il richiamo almodello dei semplici e l’incitamento a una fuga dai ginnasi sco-lastici costituiscono il controcanto iperbolico a un metodo chepretende di provare con argomenti razionali le verità religiose edunque di emancipare il sapere umano dalla parola rivelata.Questo antidoto non ha un carattere meramente provocatorio,ma è lo specchio di una tesi precisa sull’ermeneutica biblica. Ilsignificato delle scritture si dischiude infatti, per Agrippa, solo invirtù dell’illuminazione di Dio: non può essere penetrato dalragionamento, ma si disvela per ispirazione di fede.

[M]a la scienza di questo verbo non ci è tramandata da alcuna scuoladei filosofi, né dai ginnasi degli scolastici, bensì solo da Dio e Gesù

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25. Cf. Agrippa, De incertitudine & vanitate, cap. 97, 284. La denuncia delsettarismo, confortata dal medesimo versetto paolino (I Cor. 1, 12), si ritrovain Joannes Franciscus Picus, De studio, I, 3, 13.

26. Cf. Agrippa, De incertitudine & vanitate, cap. 101, 310: «Sic inquamsæpissime videt simplex & rudis idiota, quæ videre non potest deprauatushumanis scientiis scholasticus doctor».

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Cristo, per mezzo dello Spirito Santo, nelle scritture dette canoniche[…]. E la verità e l’intelligenza delle scritture dipende solo dall’autoritàdi Dio che si rivela, la quale non si può comprendere con un giudiziodei sensi, né tramite un argomento discorsivo o un sillogismo dimostra-tivo: mediante nessuna scienza, speculazione, contemplazione o forzaumana, ma per la sola fede in Gesù Cristo […]27.

L’esercizio di scetticismo verso le scuole è pertanto propedeu-tico ad una tesi sul primato della fede che pone la stessa esegesicome prolungamento della rivelazione dal testo sacro al suo inter-prete. Ma se in questo brano sembra persino riecheggiare la pre-dicazione luterana, sarebbe tuttavia inesatto attribuire ad Agrippail proposito di un esodo dalla ricerca filosofica e di un rifugio inun fideismo radicale. Leggendo tra le righe della declamazione, èpossibile piuttosto constatare come l’ideale d’ignoranza alluda auna via alternativa del filosofare – non ad una rassegnazione del-l’intelletto ma a una sua pratica attiva di purificazione volta a pre-disporre al dono della fede. In altre parole, si tratta di intenderel’asinità non come uno stato di passiva impotenza, ma come l’esitodi un percorso di liberazione dalle false opinioni e dalla presun-zione di autonomia della ragione. Questa prospettiva, come sotto-lineato dal Keefer 28, è innestata in una gnoseologia platonico-ermetica (implicita ma operativa nel De vanitate) che è analoga aquella esposta da Agrippa negli scritti filosofici o magici e nellaquale la purificazione interiore è posta come condizione d’accessoalla verità. Mentre alla scolastica è imputato un mero intellettuali-smo, un esercizio del sapere sganciato dalla scelta etica e dalla vita

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27. Ibid., cap. 100, 298-99: «[…] huius autem verbi scientiam, nulla scholaphilosophorum, nec quorumcunque scholasticorum gymnasia nobis tradi-dere, sed solus Deus atque Iesus Christus per Spiritum Sanctum in illisscripturis, quæ canonicæ vocantur […]. Harum autem scripturarum (dicocanonicarum) veritas & intelligentia a sola Dei revelantis authoritate depen-det, quæ non ullo sensuum iudicio, nulla ratione discurrente, nullo syllogi-smo demonstrante, nulla scientia, nulla speculatione, nulla contemplatione,nullis denique humanis viribus comprehendi potest, nisi sola fide in IesumChristum […]».

28. Cf. M. H. Keefer, «Agrippa’s Dilemma: Hermetic “Rebirth” and theAmbivalences of De vanitate and De occulta philosophia», Renaissance Quar-terly, 41 (1988), 614-53. Più ampiamente sull’ermetismo di Agrippa v. Per-rone Compagni, Ermetismo e Cristianesimo.

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religiosa, lo schema agrippiano prevede che la disposizione moraledell’anima determini la possibilità e il valore medesimo di ogniconoscenza 29. L’appello conclusivo di Agrippa agli idiotae paresoccorrere questa interpretazione.

Voi dunque, o asini, […] se desiderate conseguire questa divina evera sapienza […] lasciate da parte le scienze dell’uomo e ogni indaginee discorso della carne e del sangue; […] non più nelle scuole dei filosofio nei ginnasi dei sofisti, ma entrando in voi stessi conoscerete ognicosa: in voi è infatti concreata la conoscenza di tutte le cose. Comesostengono gli Accademici e confermano le Sacre scritture, Dio creòtutte le cose «molto buone» (Gen. 1, 31), al massimo grado di perfe-zione che è loro concesso. E allora come creò gli alberi pieni di frutti,così creò le anime al pari di alberi razionali, ricolme di forme e diconoscenze. Ma il peccato del primo uomo pose un velo su ogni cosae fece il suo ingresso la dimenticanza, madre dell’ignoranza 30.

Nella sua ultima metamorfosi concettuale, l’invito all’igno-ranza assume i contorni di un’anamnesi platonica, di un ritornodell’anima a se stessa e alla propria origine spirituale. Rigettandoil «discorso della carne» orientato alle ragioni dell’esperienzasensibile, l’anima sembra compiere una via negativa che la portaa riscoprire in sé la conoscenza di tutte le cose. Secondo l’antro-pologia adottata da Agrippa, il peccato avrebbe oscurato la tota-lità delle forme infuse nell’anima al momento della creazione;l’uomo sarebbe però in grado di contribuire alla propria palinge-

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29. Non a caso, Jérôme de Hangest difenderà contro Agrippa l’idea diuna netta separazione e reciproca indipendenza tra la condotta morale e reli-giosa del soggetto e la validità della scienza da questi professata, cf. Hierony-mus ab Hangesto, De Academiis in Lutherum, Parisii 1532, cap. 2, f. xiiir-v.

30. Agrippa, De incertitudine & vanitate, operis peroratio, 311-12: «Vosigitur nunc o asini […], si diuinam hanc & veram […] sapientiam assequicupitis, proiectis humanis scientiis, omnique carnis & sanguinis indagineatque discursu, […] iam non in scholis philosophorum & gymnasiis sophi-starum, sed ingressi in vosmetipsos cognoscetis omnia: concreata est enimvobis omnium rerum notio quod (vt fatentur Academici) ita sacræ literæattestantur, quia creauit Deus omnia valde bona, in optimo videlicet gradu,in quo consistere possent: is igitur sicvt creauit arbores plenas fructibus, sic& animas ceu rationales arbores creauit plenas formis & cognitionibus, sedper peccatum primi parentis velata sunt omnia, intrauitque obliuio materignorantiæ».

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nesi per mezzo di un’ascesi che restaura l’intelletto e lo vivificanella fede. Illuminato dalla rivelazione, l’intelletto riscopre nellescritture una sapienza che coincide con quella precontenutanell’anima e velata dalla caduta. Si assiste così a uno sdoppia-mento semantico del concetto di ignoranza: quella «divina» del-l’asino, che scaturisce da un itinerario di conversione; e quella«umana» dei sofisti scolastici, che procede sul solco dell’obliocagionato dal peccato e ne perpetra l’atto di superbia 31.

«Nihil scire foelicissima vita»32: così si conclude l’epistoladedicatoria ad Agostino Furnarius con cui Agrippa introducevaalla lettura del De vanitate. Non a caso, contro questa frase si sca-gliarono i censori di Lovanio che la inclusero nell’articolato dicondanna sottoscritto dalla facoltà di Teologia. L’affermazione fuintesa dai censori come un anatema e un’offesa alla tradizione distudio della Chiesa, dai padri sino al magistero delle universitàmedievali. Agrippa replicò tuttavia con fermezza a questa insi-nuazione nel suo scritto difensivo (1533), rivendicando l’ancora-mento della propria dottrina all’autorità di un’illustre schiera diprecursori. Vale la pena di soffermarci in coda su questo passag-gio perché rivela come Agrippa, sollecitato certo dagli accusa-tori, non esiti a riconfigurare l’ignoranza come una specifica viadella ricerca teologica. In primo luogo, Agrippa propone unparagone volto a distinguere due forme di non sapere: da unlato, quella di un cieco che ha udito dire molte cose sulla chia-rezza insostenibile del sole e che «per ciò che ha sentito, crederàdi avere una certa conoscenza della luce del sole»; d’altro lato, l’i-gnoranza di chi vede e «ha avuto esperienza di come la chiarezzadel sole superi le facoltà visive e che dirà di non aver di quella

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31. Per un’analisi della peroratio cf. Perrone Compagni, «Tutius ignorarequam scire», 100-5. L’autrice propone di rileggere l’esortazione conclusiva neitermini della noetica ficiniana che Agrippa espone, ad esempio, nel De tri-plici ratione cognoscendi Deum. In tal senso, la scolastica incarnerebbe unmetodo filosofico che subordina la ratio dell’uomo agli idola dell’esperienzasensibile senza risalire alla mens, la porzione divina dell’anima in cui sonostate infuse le idee d’ogni cosa.

32. Agrippa, De incertitudine & vanitate, epistola dedicatoria, f. *4r.

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luce alcuna conoscenza»�33. Allo stesso modo – precisa Agrippa –molti filosofi e maestri delle scienze, «ciechi con gli occhi della�mente», non possiedono scienza della loro ignoranza pur presu-mendo di sapere. Questo argomento merita attenzione se non�altro perché è un estratto letterale dall’Apologia doctae ignorantiae�di Niccolò da Cusa. Secondo una tecnica consueta di (ri)scrit-tura, Agrippa tesse qui tacitamente numerose citazioni cusaniane�e si appropria della difesa che il cardinale aveva opposto alle cri-tiche sollevate da Johannes Wenck nel De ignota litteratura�34. Sulla�falsariga della fonte, Agrippa reitera uno smarcamento dall’aristo-telismo scolastico e costruisce la genealogia intellettuale di una�corrente alternativa a supporto della pratica del non sapere. Ad�esser mobilitata è anzitutto la teologia mistica dionisiana e la tra-dizione dei suoi commentatori ed esegeti, al cui vertice è poi�posto lo stesso Cusano. Agrippa non approfondisce le implica-zioni metafisiche del discorso cusaniano (non v’è traccia, ad�esempio, della teoria della coincidenza), ma ne raccoglie in pieno�la strategia polemica. L’accostamento a Cusano – che in altri�scritti fece di un artigiano di cucchiai il portavoce fittizio della�propria filosofia� 35� – ci aiuta a chiarire come il De vanitate non�intendesse mettere in scena il trionfo dello scetticismo, né un�������mero gioco di satira irridente; dalla collisione� delle figure del�����dottore� scolastico e dell’idiota, la declamazione di Agrippa gene-������������������rava piuttosto la richiesta di rappresentanza per una nuova fun-�������������zione dell’intellettuale cristiano ostile alla professionalizzazione�accademica, e alimentava, al crocevia di influenze spesso eteroge-��nee, il dibattito cinquecentesco sulla riforma dei saperi.

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33. Henricus Cornelius Agrippa ab Nettessheym, Apologia aduersus calum-nias propter Declamationem de Vanitate scientiarum, & excellentia uerbi Dei, sibiper aliquos Louanienses Theologistas intentatas, s.l., 1533, cap. xi, f. Dviir. Siriporta in appendice il testo latino con l’indicazione della fonte.

34. Sugli scritti difensivi di Agrippa, cf. P. Zambelli, «Humanae litterae,verbum divinum, docta ignorantia negli ultimi scritti di Enrico CornelioAgrippa», Giornale critico della filosofia italiana, 20 (1966), 187-217 (sull’ispira-zione cusaniana in part. 202-3).

35. J.-H., de Boer, «Plädoyer fu� r den Idioten. Bild und Gegenbild desGelehrten in den Idiota-Dialogen des Nikolaus von Kues», Concilium mediiaevi, 6 (2003), 195-237.

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Appendice: L’utilizzo della fonte cusaniana nell’Apologia adversus calumnias (cap. xi) di Agrippa

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Henricus Cornelius Agrippa ab Nettes-sheym, Apologia aduersus calumnias propterDeclamationem de Vanitate scientiarum, &excellentia uerbi Dei, sibi per aliquos Louanien-ses Theologistas intentatas, s.l., 1533, cap. xi, f.Dviiv-Eir.

[F]acit igitur pro illo [prouerbio, scil. «nihilscire fœlicissima uita»], in primis quod ait |alicubi Augustinus, Deum uidelicet potiusignorantia quam scientia attingi. […] HincDionysius ad Caium, ignorantiam perfectis-simam scientiam uocat, & de ipsa ignorandiscientia, passim in multis locis mentionemfacit. Et Philo Hebræus in quæstionibussuper Genesim ait: Finis scientiæ in Deoreconditus est, quem etiam testem animauocat cum pura conscientia confitetur suamignorantiam, sola enim nouit anima, quianihil nouit firmiter. Non est ergo uera & perfecta scientia (utait Nicolaus de Cusa) qua quis credit sescire, quod scire nequit, sed ubi scire est senon posse scire. Nonne cæcus aliquis audiens quempiam deSolis claritudine quanta sit, multa docen-tem, arbitrabitur, per hæc ipsa quæ audierit,habere se aliquam solaris luminis scientiam,quod tamen ignorat, quia lux solo uisuattingitur, uidens autem, quum uiderit clari-tatem solis uisum superare, fatetur se illampenitus ignorare, habetque cum luminisillius experientia, etiam ignorantiæ suæscientiam. Cæcus uero, neque ignorantiæscientiam habet, neque ullam illius quod sescire putat experientiam, sic multi philo-sophi & magistri humanis scientijs clari, sedoculo mentis cæci, & suæ cæcitatis scien-tiam non habentes, putantes se uidere,ob|durantur in assertionibus suis. […] Quiautem uidet sibi thesaurum agri manereabsconditum ab oculis suis, in hoc sapien-tior est cæteris, quia scit se pauperem quodilli ignorant, unde Algazel in sua methaphi-sica ait: Quisquis per probationem necessa-

Nicolaus de Cusa, Apologia doctae ignoran-tiae, in Opera omnia iussu et auctoritate Acade-miae Litterarum Heidelbergensis ad codicumfidem edita, ed. R. Klibansky, Hamburg 2007,passim.

ADI, 2-3: «Nam Dionysius ad Gaium igno-rantiam perfectissimam scientiam affirmatet de scientia ignorationis multis in locisloquitur; et Augustinus ait Deum potiusignorantia quam scientia attingi». ADI, 3:«Simile quid apud Philonem […] Superquaestionibus in Genesim quaestione 51.dixit reperiri […]: “finis enim scientiaeDeo tantum reconditus est, quem etiamtestem anima vocat, quoniam pura con-scientia confitetur suam ignorantiam. Solaenim novit anima, quoniam nihil novit fir-miter”».ADI, 27: «Quia non est scientia, qua quiscredit se scire, quod sciri nequit, ibi scireest scire se non posse scire».ADI, 2-3: «“Potest enim caecus aliquismulta audisse de solis claritate atque quodtanta sit, quod comprehendi nequeat, cre-dens se per ea, quae sic audivit, scire aliquade solis claritate, cuius tamen habet igno-rantiam. Videns vero de solis claritate,quanta sit, interrogatus respondit se igno-rare et huius ignorantiae scientiam habet,quia, cum lux solo visu attingatur, experi-tur solis claritatem visum excellere”. Sicplerosque, qui se scientiam theologiaehabere iactant, caecis comparavit […]».

ADI, 4: «“Iactant se enim”, ut aiebat,“huius temporis plerique magistri, quiagrum habent Scripturarum, ubi audive-runt occultari thesaurum regni Dei, ex hocse divites”». ADI, 13: «Ita eleganter dixitAlgazel in sua Metaphysica de Deo, quod

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rio cognoscit, & apprehendit impossibilita-tem suam, ipse sui est cognitor, &apprehensor, quoniam apprehendit scireipsum a nullo posse comprehendi, & hæcfœlicissima illa ignorantia, quæ longissimesuperexcellit omnem humanam scientiam[...]. [D]enique de hac ignorandi scientia, |multi sancti & mystici theologi, editis librisprofunde locuti sunt, in primis beatus illeDionysius Areopagita, item Marius Victori-nus ad candidum Arrianum, Item Theodo-tus in eo libro, quem inscripsit clauem phi-losophorum. Item Ioannes Scotigena intomis paraphraseos, & Ioannes Mosbacensis,in commentarijs Proculi. Item MaximusMonachus, Hugo de sancto Victore, Rober-tus Linconiensis, & prænominatus Scoti-gena, commentatores in mysticam theolo-giam beati Dionysij supra dicti. Ex recen-tioribus uero, Nicolaus de Cusa cardinalis,quem de docta ignorantia intitulauit, tumetiam in alijs plærisque suis opusculis, deeadem commeminit. Sed condonemus huicarticulatori, suam, non doctam, sed crassamignorantiam, qui pauca legit, & minus quælegit intelligit [...] qui quum sit tam doctæignorantiæ incapax, melius imposuisset orisuo silentium, & quod intelligere nequit,admiraretur potius quam morderet.

“quisquis scit per probationem necessariamimpossibilitatem suam apprehendendi eum,est cognitor et apprehensor, quoniamapprehendit scire ipsum a nullo posse com-prehendi […]”».

ADI, 29-30: «Sunt autem illis nequaquamlibri sancti Dionysii, Marii Victorini adCandidum Arrianum, Clavis physicaeTheodori, Iohannis Scotigenae Περὶφύσεως, Tomi David de Dynanto, Com-mentaria fratris Iohannis de Mossbach inPropositiones Proculi et consimiles libriostendendi». ADI, 20-1: «[…] legat […]Maximum monachum, Hugonem deSancto Victore, Robertum Lincolniensem,Iohannem Scotigenam, abbatem Vercellen-sem et ceteros moderniores commentatoresillius libelli».

ADI, 7: «Pauca videtur hic homo legisse etminus, quae legit, intellexisse». ADI, 20:«cum sit istarum altarum intellectionumincapax, ut ori suo silentium indicat et id,quod capere nequit, admiretur potius quammordeat.

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ABSTRACT

Mario Meliadò, Representation of Scholasticism and Apology of Ignorance. ANote on Cornelius Agrippa’s De vanitate

The paper explores Cornelius Agrippa’s construction of an ideal ofignorance both as a critique of the academic conception of knowledgeand as a paradoxical counter-model of learning. Focussing on De incer-titudine et vanitate scientiarum et artium atque excellentia verbi Dei, the arti-cle argues that Agrippa’s praise of the idiotae and the illitterati is meantto convey a polemic representation of scholasticism as a method of the-ological research based, according to the author, on a distorted view ofhuman destination and on the marginalisation of faith. The intellectualconversion proposed by Agrippa under the label of ignorance revealshere the use of three significant sources: Erasmus of Rotterdam, Gian-francesco Pico della Mirandola and Nicholas of Cusa.

Mario Meliadò Albert-Ludwigs-Universität Freiburg [email protected]

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