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Passaggio a nordovest: Traversata Nufenen - Sempione Mariuccia e Rinaldo Ballerio Pensieri e diari di un’avventura a portata di mano.

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Passaggio a nordovest:

Traversata Nufenen - Sempione

Mariuccia e Rinaldo Ballerio

Pensieri e diari di un’avventura a portata di mano.

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Ai nostri genitori che ci hanno trasmesso il desiderio della montagna.

Ai nostri figli con l’augurio che lo raccolgano.

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Passaggio a nordovest: Traversata NufenenSempione

Pensieri e diari di un’avventura a portata di mano.

Mariuccia e Rinaldo Ballerio

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Prefazione

Un passaggio che mette voglia di partire.

Non è facile scegliere i titoli dei libri e quando Rinaldo Ballerio mi ha sottoposto il suo manoscritto, l’unica cosa che non mi convinceva era proprio il titolo “Passaggio a nord-ovest”. Forse perché mi ricordava troppo la trasmissione televisiva di Alberto Angela. Poi, leggendo queste pagine, mi sono reso conto che quel titolo aveva un senso compiuto, non solo perché si trattava di un taccuino di viaggio, ma perché la parola “passaggio” ha un significato sia fisico che esistenziale. E il trekking di Mariuccia e Rinaldo, attraverso le montagne del nord-ovest, a cavallo tra il Piemonte e la Svizzera, ha assunto ai miei occhi soprattutto quel secondo significato. Hanno camminato, scalato montagne, sopportato il freddo tagliente sui loro volti, per poi rifocillarsi al caldo nei rifugi. Hanno ascoltato il fischio delle marmotte, ammirato i tramonti e assecondato il loro silenzio al cospetto delle vette, senza aspettarsi nulla in cambio se non la muta bellezza della natura selvaggia. Si puo’ essere felici avendo negli occhi la tenace delicatezza di una stella alpina o nella testa il ricordo del sapore deciso del Bettelmatt, un formaggio ricercato quanto il Santo Graal. Queste pagine mettono addosso la voglia di partire con leggerezza, come direbbe l’alpinista-scrittore del Vajont Mauro Corona, perché lo sguardo di chi ha affrontato il passaggio a nord-ovest ha saputo cogliere l’essenzialità della vita di montagna. Raccontare un viaggio ha un valore sia per chi scrive sia per chi legge, perché la bellezza e la felicità non sono tali se non possono essere condivise con qualcuno.

Michele MancinoVicedirettore Varesenews, corrispondente Corriere della Sera

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Introduzione

Var pusè n’andà ca cent’andem!

Da qualche tempo pensavo di organizzare un trekking in montagna, così quando Mariuccia mi ha detto che voleva approfittare della vacanza dei due piccoli in Svizzera per qualche giorno di riposo assoluto, ho pensato che era il momento ideale per proporre quest’avventura.Infatti, l’adesione è stata immediata anche se con la solita scenetta di sospettosa pigrizia.L’idea era di un percorso non affollato ma comunque su montagne epiche.L’alto Piemonte a cavallo della Svizzera costituisce senz’altro un ottimo territorio perché già conosciuto in seguito ad altre numerose escursioni e in prossimità del nostro punto di appoggio a Riederalp nel Vallese.Da tanti anni per via dei bambini piccoli non facevamo un trekking in quota così lungo, e quindi la preparazione dello zaino ha richiesto una meticolosa cura, ma già l’eccitazione dell’avventura si anticipava man mano che lo zaino si riempiva.Immediatamente abbiamo incominciato a fare i confronti con il trekking intorno al Monte Rosa di venticinque anni fa. Di quell’avventura, oltre al paesaggio, non posso dimenticare il peso dello zaino, davvero insopportabile, penso oltre i 30 kg, tanto che nonostante il fresco allenamento militare, Mariuccia doveva aiutarmi a caricarlo in spalla.Questa volta abbiamo rinunciato all’autosufficienza della tenda e confidato di più sull’appoggio dei rifugi il che, abbinato alla leggerezza straordinaria dei nuovi materiali e abbigliamento, ci ha consentito di avere uno zaino di peso tollerabile.

Dopo lo studio delle cartine e degli itinerari, facciamo le prenotazioni dei rifugi, ed ecco che il nostro viaggio prende corpo. Il più è fatto.

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I tornanti della Tremola

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Capitolo 1Dal Nufenen al Busto

Il 25 luglio si parte.

Prima di iniziare portiamo i bambini in vacanza a Disentis nei Grigioni, e quindi cominciamo il nostro peregrinare sui passi svizzeri attraversando il Lucumagno.Lasciati i bambini con pure qualche lacrima, ci si avvia per l’Oberalppass. Appena fuori Disentis vediamo un signore fare l’autostop, il nostro morale è così festaiolo che, senza esitazione, lo carichiamo.Scopriamo con sorpresa che si tratta di un vagabondo inglese di circa sessant’anni, che da oltre dieci, vaga per la Svizzera. Lo lasciamo ad Andermatt dopo una divertente chiacchierata, e da qui attacchiamo il terzo passo della giornata, il Gottardo.

La veloce e moderna strada del passo del Gottardo affianca per qualche km il vecchio tracciato, la famosissima Tremola. Questa strada, conosciuta in tutto il mondo, è scalata da numerosi ciclisti con impegno romantico d’altri tempi, ed è considerato il più importante monumento viario della Svizzera.

Davvero impressionante ammirare dall’alto questa striscia chiara che s’inerpica a serpentina da Airolo fino al passo del San Gottardo a testimonianza dell’arditezza e della tenacia delle popolazioni di montagna.

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Il lago Gries

Il Genepì

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Nel suo tratto più spettacolare la Tremola supera su una lunghezza di quattro chilometri un dislivello di 300 metri in ventiquattro tornanti, ognuno dei quali ha addirittura un proprio nome.

Conserva una parte dei vecchi muri a secco, una parte consistente del caratteristico lastricato in granito, come pure le pietre chilometriche. Terminata la discesa verso Airolo, risaliamo la val Bedretto e quindi arriviamo al Nufenen, dove lasciamo la macchina. Il passo del Nufenen (in italiano passo della Novena) a quota 2480 metri mette in collegamento la valle di Goms e l’alto Vallese con la val Bedretto e quindi il Canton Ticino.

In val Bedretto nasce il fiume Ticino che partendo proprio dal passo del Nufenen raccoglierà tutte le acque della Svizzera italiana per portarle al Lago Maggiore. E’ considerato uno dei posti più nevosi delle Alpi insieme alla val Formazza con cui confina, ed è quindi giustamente rinomato tra gli appassionati di scialpinismo per le numerose salite, ma soprattutto come ultima spiaggia per le sciate negli anni di poca neve o ad inizio stagione.

Fanno da corona numerose cime, tra cui spicca sullo sfondo il Pizzo Lucendro dal nome derivante probabilmente proprio dal luccichio del suo ghiacciaio quando si ammira da lontano.

La zona del Nufenen è anche rinomata per l’abbondanza del genepì. Questa rara e preziosa erba “Artemisia Genepì” è una pianta protetta, sempre più rara a causa della smodata raccolta per produrre il famoso e buonissimo liquore, diffuso in tutte le Alpi e con il quale si è soliti accompagnare le serate nei rifugi. Cresce a oltre i 2300 metri e si può trovare fino a 3500 metri particolarmente nelle pietraie e sulle morene. La coltivazione è difficoltosa e ha bisogno di attenzioni particolari, ma la crescente richiesta consente a diverse aziende valdostane e piemontesi di dedicarsi alla produzione di quest’erba.

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Il passo del Nufenen segna un incrocio bizzarro di geografia e cultura. Il valico costituisce il passaggio tra il nord ed il sud delle Alpi, di qui si parla l’italiano (in salsa ticinese), di là si parla tedesco, e pochi chilometri più a valle si passa al francese.

A pochi minuti di cammino troviamo il confine italiano con il Piemonte che s’incunea impertinente nel cuore della Svizzera più profonda e nascosta. Si cambiano lingua e moneta e si ritorna nella comunità europea. E’ un crogiolo di lingue, usanze, culture, che danzano incrociandosi senza il fastidioso ingombro di dogane e confini. Sono le cinque passate, tira un forte vento e il cielo è cinereo, coperto da nuvole che si rincorrono. In giro non c’è nessuno, e l’abbandono dell’auto ci mette un po’ di apprensione sapendo che per quattro giorni potremo contare solo sulle nostre gambe.

Ci avviamo verso il passo Gries togliendo e mettendo la giacca in base al vento che tira sempre teso e freddo. Il lago Gries ci accoglie grigio e cupo con il suo ghiacciaio che, seppure in ritirata a causa dell’effetto serra, incombe maestoso alle spalle del lago in uno scenario che ricorda i fiordi norvegesi. Si vedono in lontananza la punta dei Sabbioni e il Blindenhorn e tutta la corona di montagne della val Formazza.

Il ritmo costante dei passi sul sentiero, immersi nel silenzio e nella solitudine, scandisce e accarezza il vagheggiare fantasioso dei nostri pensieri.

Al passo Gries

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Il Bettelmatt

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Così prendendo a prestito un noto scritto del Manzoni si poteva immaginare:

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull’animo della povera Mariuccia , quello che s’è raccontato. Lo spavento di questi ghiacciai e delle lande solitarie, la minaccia della incombente serata gelida di montagna, nota per non minacciare invano, una settimana di quieto vivere, che aveva sognato in tutta l’estate di studio e di pazienza, sconcertata in un momento, e quindi ora in mezzo a montagne dalle quali non si poteva veder come uscirne: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso della Mariuccia. «Se avessi detto subito un bel no, via; ma vorrà delle ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli... ih! E poi, e poi, perduto dietro a questa idea della traversata, come... un ragazzaccio, che, per non saper che fare, s’inventa un’avventura, vuol partire, e non pensa ad altro; non si fa carico de’ travagli in che mette una povera ragazza. Oh povera me! Vedete se queste montagne dovevan proprio piantarsi sulla mia strada, e costringermi a tutto sto cammino! Che c’entro io? Son io che voglio fare la traversata? Perché non siamo andati piùttosto a Riederalp a riposarci... Oh vedete un poco: gran destino è il mio, che le cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l’occasione. Se avessi pensato di suggerirgli che andassimo al mare …….”

In giro non troviamo nessuno e camminando di buon passo scendiamo fino all’alpeggio di Bettelmatt (2117 mt), sì, proprio quello del famoso formaggio la cui qualità eccellente, abbinata a un sapiente marketing, ha trasformato un buon formaggio d’alpe in una costosa icona della gastronomia, al punto che deve essere prenotata con un anno di anticipo.

Il nome deriva dal fatto che il formaggio prodotto in quest’alpe è da sempre particolarmente pregiato per l’alto contenuto di fiori nei pascoli e quindi era richiesto quale pagamento delle tasse e dei canoni degli affitti per gli alpeggi.La parola “bettelmatt” pare derivi dall’unione di “battel” che significa questua, con “matt”, che in tedesco vuol dire pascolo.

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Scendendo dal Città di Busto

Il caldo della stufa

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Pertanto, quando gustiamo questo formaggio, non facciamo altro che gustare il “pascolo della questua”.

Ci accingiamo quindi a risalire l’ultimo costone che porta al rifugio città di Busto, dove abbiamo pianificato di passare la notte.Saliamo di buon passo, complice anche il vento che si fa più freddo, ma che non ci convince a mettere la giacca non saprei dire se per pigrizia o per il desiderio di arrivare più in fretta. Gli ultimi dieci minuti li facciamo di corsa, sferzati da un vento gelido che ci raggela al punto che, giunti al rifugio, non riusciamo a slacciare gli scarponi o a chiudere la cerniera della giacca.

Il rifugio città di Busto è una grande costruzione in pietra con circa cinquanta posti letto situato in cima a un costone a quota 2500 metri. E’ la base privilegiata per le salite all’Arbola o al Blindenhorn.Mangiamo al rifugio proprio di fianco alla stufa, alla faccia del caldo torrido che abbiamo lasciato a valle. Gli ospiti sono pochi e il clima è quello tipico del rifugio in quota dove, in rispettoso silenzio, si assapora il passaggio dalla fatica e dalla soddisfazione del giorno passato verso l’attesa e la trepidazione per la salita dell’indomani. I custodi, molto gentili e premurosi, si prodigano in consigli e rispondono con simpatia alle nostre osservazioni. Il cibo è ovviamente da rifugio, ma la fame è così tanta che tutto viene divorato.

Appena possibile ci infiliamo nel letto, ma il freddo accumulato è tale che ci corichiamo vestiti di tutto e con doppio piumone.Fino a mezzanotte non riusciremo a scaldarci, ma ora del mattino siamo di nuovo in forma per riprendere il nostro viaggio.

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Capitolo 2Verso Crampiolo

Dopo un abbondante caffelatte si parte di buon’ora sapendo che questa è la tappa più lunga.Il tempo è bello ma il vento insiste, e ci accompagnerà fino alla fine del viaggio.Il custode si mostra scettico sulla possibilità di raggiungere Crampiolo in giornata, in quanto troppo lungo il percorso, ma noi non abbiamo scelta visto che abbiamo prenotato il rifugio, e poi ci aspetta il geometra per il lavori della nuova baita. Ma questa è un’altra storia.

Si cammina di buona lena, scendendo al lago di Morasco lungo un sentiero tortuoso e molto ripido. Girovaghiamo per un po’, fino a quando troviamo il sentiero che porta al valico di Nefalgiù. Ci accoglie una valle molto aperta con prati bellissimi e risaliamo senza fatica il passo sempre accompagnati dal vento.Queste valli dell’alto Piemonte, Formazza, Antigorio e val Divedro configurano un imbuto naturale rovesciato che si snoda largo a sud e si stringe a nord culminando proprio al passo del Nufenen.

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La cascata del Toce

Verso il Nefalgiu

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In questo cuneo, si raccolgono e s’imbottigliano tutte le perturbazioni che salgono da sud e ci rimangono fino a che non hanno scaricato l’ultima goccia di pioggia. Siamo quindi in una delle zone più piovose e nevose d’Italia. E’ la patria dell’energia idroelettrica.

L’acqua è abbondantissima in ogni dove e i numerosi torrenti sono pazientemente raccolti nelle varie dighe per generare la preziosa energia. Tutta l’acqua dell’alta val Formazza s’incanala poi verso valle, dove darà origine alla famosa cascata del Toce, che, con la maestosità dei suoi 143 metri di altezza e 60 di larghezza, è la seconda più alta d’Europa. A chi venisse voglia di fare una gita nei paraggi, consiglio di controllare l’orario di apertura, giacché è di solito chiusa essendo l’acqua deviata nelle condotte idroelettriche. Aggrappato in cima alla cascata, si staglia il caratteristico alberghetto bianco, con il ponticello a sbalzo, posizione ideale per ammirare il vertiginoso salto d’acqua.

Questa è una terra dove acqua e montagna regnano insieme. Solo nel comprensorio della valle del Devero sono censiti 51 laghi, 41 dei quali sopra i 2000 metri.

Abbiamo aggirato la cima dell’Arbola, montagna già affrontata tanti anni fa, e che da qui ammiriamo nella sua faccia rivolta a mezzogiorno. Scendiamo ora verso il lago del Vannino (2194 m) che dovremo costeggiare sulla sua riva occidentale per risalire fino al passo di Scatta Minoia (2599 m) passando dall’alpe Curzalma. Raggiungeremo il passo tagliando a metà i tempi indicati dai cartelli, tanta è la voglia di arrivare alla locanda La Baita di Crampiolo.

Al passo, riparati in qualche modo dal vento che soffia impetuoso, mangiamo il pane raffermo che ci ha dato il gabanat (nome colloquiale per indicare il custode) del rifugio città di Busto come fosse un pranzo da ristorante a cinque stelle.

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Il passo di Scatta Minoia

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Le uniche persone che incontriamo sono tre alpinisti svizzeri che scopriamo casualmente fare il nostro stesso itinerario, e infatti, ci accompagneranno fedelmente ma senza pianificazione fino alla birreria in piazza a Briga.

Cominciamo la nostra discesa, e dopo una complicata pietraia arriviamo all’alpe Forno (2213 Mt), dove le mucche pascolano numerose pronte a fornire la materia prima per il Bettelmat, che si produce qui e in soli altri sei alpeggi sopra i 2000 metri di quota. La visita è emozionante e istruttiva. Ci mostrano la loro attrezzatura e i procedimenti con cui fanno il formaggio con la sapienza accumulata da generazioni.

La tradizionale riservatezza degli alpigiani si scioglie in un dialogo cortese e amichevole nel quale ci raccontano come il mercato globale sia stato una salvezza per questi alpeggi, consentendo di nobilitare il loro prodotto e poterlo vendere a prezzi che ripagano da tanta fatica. Senza questa valorizzazione il formaggio sarebbe svenduto e alla fine gli alpeggi sarebbero stati abbandonati e persi per sempre. Ecco, in quel formaggio il prezzo comprende la possibilità di mantenere in vita questi posti e perpetuare queste tradizioni consentendoci di gustare un prodotto che ha un’anima, una storia, e come direbbe una ben riuscita pubblicità, “non si fabbrica, ma si fa”.

Altrimenti Philadelfia all’Esselunga per tutti e via pedalare.Scendendo ci vengono incontro due bambini di circa dieci anni con il cane e alcune caprette. Sembrano usciti dai cartoni animati di Heidi. Il loro sorriso è contagioso e la spensieratezza ci mette invidia.Scopriremo poi chi sono.

Siamo ormai sul terreno familiare del Devero e quindi scendiamo verso gli alpeggi, poi il lago di Devero che ci prende quasi un’ora per costeggiarlo e finalmente la discesa su Crampiolo.

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Il lago di Devero

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La vista sul lago è impressionante come al solito, questo grande specchio di acqua azzurra con le montagne riflesse, completamente circondato di larici e impreziosito da una solitaria isoletta anch’essa ricoperta di vegetazione. Curioso notare come le montagne sulla destra hanno tutte cime aguzze, mentre quelle sul lato opposto hanno tutte cime arrotondate. Ciò è dovuto oltre che ad un tipo di roccia diverso anche all’azione più insistente del vento. L’Alpe Devero, così come l’Alpe Veglia, è un parco naturale, una grande conca verde circondata da alte montagne. Quello di Devero è un ambiente alpino dolce e austero: dolce nelle praterie ondulate d’alta quota e austero nella severità e imponenza delle montagne nonché nelle immense giogaie battute dal vento. Siamo nel cuore del “quadrilatero Lepontino” (Veglia Devero, Formazza, Binntal) che costituisce uno dei luoghi più belli delle Alpi e un territorio ideale per l’escursionista che vuole leggere il grande libro della natura in montagna abbinato ai segni storici lasciati dall’uomo.

Le montagne tra Devero e Binn rappresentano uno dei distretti mineralogici più interessanti al mondo. Minerali rari, alcuni dei quali unici al mondo, cristalli di particolare bellezza provenienti dai massicci del Monte Cervandone e dell’Arbola. Quella di Binn è nota in tutto il mondo come “la valle dei minerali“: in effetti, sedici dei suoi minerali non sono mai stati trovati in nessun altro luogo della terra e, dei circa 300 minerali conosciuti in Svizzera, quasi 200 si ritrovano nella Valle di Binn.

L’area del Parco Veglia Devero non è da meno.

L’alpe Forno

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Crampiolo

Le acque limpide del Lago delle Streghe

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Qui sono infatti presenti oltre 150 specie minerali, alcune delle quali molto rare o uniche al mondo, tra queste ad esempio la Cervandonite, il cui nome è già esplicativo della sua unicità.Dopo oltre nove ore di cammino senza soste, siamo davvero stanchi e devo portare lo zaino di Mariuccia per gli ultimi passi.

Ancora una curva ed ecco che all’improvviso ci appare Crampiolo dall’alto. Il paesino è davvero incantevole con i tetti di sasso realizzati a regola d’arte secondo una tradizione diffusa su tutte le Alpi, ma qui messa in pratica con particolare maestria. Scattiamo l’ennesima fotografia con questo scorcio, davvero irresistibile.

Crampiolo (1767 m) è un paesino di poche decine di baite, con una chiesetta bianca in mezzo al paese, che ne sottolinea la cura e l’alpinità. Intorno, prati e montagne senza auto, che devono essere lasciate al Devero, cioè a mezz’ora a piedi. Questo rende il tutto incantato e fiabesco. Il laghetto delle streghe provvede ad aggiungere la sua magia non solo per il nome, ma per la sua acqua cristallina incastonata tra le rocce e i larici. Diramanti radici di abeti secolari, s’intravedono nelle chiare acque sorgive; avvinghiate tra loro, donano all’insieme un aspetto spettrale. Quando il leggero vento che scende dai monti increspa le acque, pare un’anima inquieta in cerca di pace. In questi momenti sembrano riaffiorare, come nella leggenda, gli spiriti delle streghe.

Le baite sono ormai tutte ristrutturate sotto le rigide indicazioni del Parco, quindi con un’architettura strettamente alpina e Walser. Sono una più bella dell’altra, lambite dal verde prato scintillante e ben tenuto che le avvolge senza steccati, e colorate dai fiori che spiccano dai balconi di legno antico o dai muretti di sasso. Entrati in paese, ci accoglie calorosamente Giovanni, colui che ci ha venduto la stalla che andremo a ristrutturare. Sta terminando i lavori della sua nuova baita, e così ne approfittiamo per farci presentare il costruttore che lavorerà per noi.

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Rinviamo gli approfondimenti al giorno dopo non vedendo l’ora di togliere gli scarponi, fare una doccia e soprattutto appoggiare zaino e chiappe.Mariuccia s’infila nel letto piombando in un sonno profondo dal quale si scuoterà solo per la cena. E’ dalla mattina che non si mangia, fatto salvo un tozzo di pane raffermo al passo battuto dal vento.

La notte è prevista alla locanda la Baita, dove abbiamo già passato diverse vacanze, e quindi ci sentiamo a casa sia per il trattamento amichevole sia per la conoscenza di usi e costumi del posto

“A cata’ fora ul sit l’e staia un’uvaziunquan ca se’ dì la Baita cume destinaziun

Par via dul sit ca lè inscì tantu bele chi sa mangia infin a crepapel

E po’ l’è chi tacà, propri fora cantun ca servis nanca la vacinaziun

Parchè al dì d’incoo ormai l’è usanzad’andà fin in Giapun par fà vacanza.”

Ne approfitto per fare parecchie foto alla nostra baita e al paese (come se non ne avessi già abbastanza). In particolar modo cerco di immortalare le baite più belle con l’intenzione di copiarne i dettagli per la nostra, o come minimo sognare come verrà una volta finita.

Durante le belle giornate, Crampiolo è un brulicare di persone, trovandosi nel crocevia di tante suggestive passeggiate, eppure alla sera cala una quiete fiabesca rotta solo da qualche muggìo remoto e accompagnata dal continuo scrosciare del torrente che tra l’altro, ci terrà compagnia per tutta la notte essendo la nostra finestra proprio affacciata sull’acqua.

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La chiesetta di Crampiolo

Finalmente nella nostra Baita

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Ceniamo al tavolo con due simpatici signori di Berna con i quali colloquiamo amabilmente ora in italiano ora in tedesco scambiandoci ricordi ed esperienze di montagna.

Anche loro hanno organizzato un trekking di più giorni simile al nostro con partenza da Briga e arrivo a Binn. Ci raccontano che vivendo in centro a Berna hanno deciso di non possedere auto, ma di muoversi solo con i mezzi. Sono, infatti, dotati di un abbonamento annuale (3500 franchi) che, consente loro di usare qualsiasi mezzo di trasporto pubblico della Svizzera.Considerata l’efficienza e la capillarità dei mezzi dopo un primo momento di stupore, ne capiamo perfettamente la ragione e proviamo anche un po’ d’invidia.In tutto il nostro peregrinare abbiamo trovato prevalentemente alpinisti stranieri e siamo quindi sorpresi di non trovare italiani. Davvero inusuale, ma ci rassicurano dicendo che con l’arrivo di agosto arriveranno anche i connazionali.Ci rimane una sensazione strana d’internazionalità vuoi per il crogiolo di lingue vuoi per il danzare del nostro tragitto a ridosso del confine italo svizzero.

Mariuccia per non sbagliare lascia tutti gli euro a casa e si dota solo di franchi, non rendendosi conto che sebbene si parta e si arrivi in Svizzera, si dorme solo in Italia.Morale, siamo a corto di euro e nessun rifugio prende la carta di credito. Vedremo come andrà a finire, anche se confidiamo che i franchi svizzeri non siano disprezzati in Eurolandia.

Dopo tante vacanze al rifugio la Baita, conoscendone bene la cucina, pregustavamo la tipica cena a base di polenta con tutte le specialità del posto: salsiccia, funghi, formaggi, che per una volta avremmo attaccato senza sensi di colpa, consapevoli delle calorie copiosamente bruciate durante la giornata.

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La nostra Stalla

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Con delusione ci accorgiamo che la cena sarà invece normale e quindi ripieghiamo su zuppa con le verze e bistecca che assaltiamo comunque con gusto e appetito.

Ovviamente non facciamo fatica a prendere sonno, cullati dal rumore del ruscello che accarezza i nostri brevi pensieri e subito dopo i nostri sogni.

“Chel sit chi l’è propi un paradisogni veduda l’è ‘n quadar in curnis

E prima de andà in let ghè minga storiasa dis ul Paternoster l’Ave e il Gloria

Quan ca lè tardi sa tirum su in dul let in d’un silenzi ca l’è quasi perfet

Sa sent dumà un rumur cal vegn el vachel par propri ul fracass dul resegà

E la matina propi fora l’uscsa trova la un muget da resegusc

chel par a dì e fa testimonianza dul laura’ c’an fai in quela stanza”

Baita a Crampiolo

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Capitolo 3 Crampiolesi per un giorno

Passiamo la mattinata a Crampiolo a incontrare le persone che lavoreranno per la nostra baita.Nel corso dell’inverno abbiamo, infatti, comprato una vecchia stalla da ristrutturare appena fuori l’abitato di Crampiolo, proprio davanti ai prati che portano al lago delle streghe.

La baita dovrà essere demolita e ricostruita secondo le stringenti indicazioni dell’ente parco, e quindi i progetti sono stati realizzati in conformità, con in più il desiderio di fare una casa davvero speciale e di buon gusto.

Prima però passiamo per l’immancabile visita alla chiesina del paese, sempre aperta e ben tenuta dalla Teresina, che avremo il piacere di incontrare più tardi.

Le chiesette di montagna hanno tutte un fascino particolare che chiama al raccoglimento ispirando sentimenti di pace e serenità. Anche questa, tutta bianca e ricca di fiori, con i suoi ornamenti semplici ma suggestivi, nel cuore del paese, invita alla preghiera anche i più reticenti.

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“Apena fora chi ghe na gesetacun la so campanina e fora na banchetta

e chi ca pasa la matina ed a la sirasa ferman tucc a digh una preghiera

parchè lè ciar a tucc chi lè evidentca ghe n’ quaivun in ciel cal suvrintend

e sti muntagn e n’ sit inscì precisi han prugetà sicur in paradis”

L’eccitazione per la baita aumenta vedendo la realizzazione di Giovanni, che ci viene mostrata con orgoglio nei minimi particolari. Anche l’incontro con il costruttore e il falegname ci convincono che il risultato sarà all’altezza delle attese. Il geometra, e tutti quelli che vi lavoreranno sono del posto, ed è evidente che desiderano quanto noi fare un bel lavoro che a loro volta mostreranno quale esempio.

Rispettando le tradizioni, avendo la stalla qualche secolo di storia, a furia di successioni è finita con l’avere un numero rilevante di proprietari. Metterli d’accordo tutti, e organizzare l’atto dal notaio ha richiesto non poca pazienza al geometra Damiano che si occupa dei lavori. Dopo tutte le cerimonie dal notaio è finito tutto in Gloria come previsto: una solenne bevuta e la promessa di festeggiare a Crampiolo davanti ad una polentata con il cervo.

Dopo aver discusso un po’ di particolari operativi, ci vengono incontro Tino e Teresina che si presentano ansiosi di conoscere i nuovi crampiolesi, sia pure d’importazione. Sono i più autorevoli rappresentanti del paese, custodi della chiesetta e alpigiani da sempre.

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La piana del Devero con le piste del Monte Cistella

Ai primi di Maggio la neve a Crampiolo è ancora abbondante

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Tino dichiara con solennità di aver fatto medie, superiori ed anche università al Sangiatto, alpeggio molto bello incluso nella ristretta cerchia dei produttori di Bettelmat. Non dubitiamo assolutamente della sua preparazione e della conseguente laurea che avrà meritato in tanti anni di alpeggio.

Scopriamo, quindi, che i bambini incontrati il giorno prima sono i loro nipotini i cui genitori gestiscono l’alpeggio Forno. Ne approfittiamo quindi per chiedere una raccomandazione per prenotare una forma di Bettelmat, esaurito ancora prima di essere prodotto. Ci daranno conferma più tardi che l’intercessione è andata a buon fine, così a ottobre potremo ritirare la preziosa forma.

Il feeling è immediato e siamo quindi invitati nella loro baita per un bicchiere di vino e un pezzo di formaggio. Terminiamo il nostro sopralluogo con una vigorosa stretta di mano con il titolare dell’impresa quale sigla del contratto per l’inizio dei lavori che inizieranno alla fine di agosto per terminare, neve permettendo, l’autunno dell’anno successivo.

Riprendiamo quindi la nostra traversata, non prima di esserci fermati dai nuovi amici per un veloce spuntino a base di formaggio e vino.Ci accolgono nella loro baita, davvero caratteristica e ben tenuta proprio all’ingresso del paese. Sembra certificare il loro ruolo di custodi di Crampiolo.

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Alcuni vasi di stelle alpine fanno bella mostra sul muretto dell’ingresso, testimonianza della cura e del buongusto di questi valligiani.

A questo punto riterrei farvi cosa gradita dandovi qualche interessante notizia su questo bel fiore di montagna.

La Stella Alpina, chiamata anche Edelweiss, con nome scientifico di Leontopodium Alpinum, appartenente alla famiglia delle composite, resta la regina dei fiori alpini, simbolo per eccellenza delle nostre montagne.

E’ sempre stato un fiore abbastanza raro fino a qualche decennio fa, sottoposto com’era da sempre ad una raccolta spietata da parte di montanari e non. Per fortuna ora sta tornando a diffondersi, e non è raro trovarsi davanti distese di centinaia di fiori nei pascoli più alti, vicini alle pendici delle vette.

La Stella Alpina si nota come una pianta dalle foglie color grigio-verde, con i fusti e la pagina inferiore ricoperta da una fitta lanugine biancastra.

Si tratta propriamente di fo-glie trasformate in vari modi per assolvere particolari funzioni come il richiamo di insetti per l’impollinazione dei fiori che essendo molto piccoli potrebbero anche non essere facilmente no-tati: naturalmente possono servire anche per la prote-zione di organi delicati della pianta o del fiore.

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Quando questo tipo di foglie è predisposto per questi scopi principali viene denominato con il nome di Brattea.

Però per approfondire e rendere più chiara questa condizione, che potrebbe anche rappresentare una novità, vorrei portare l’esempio di un’altra pianta che sicuramente abbiamo avuto in casa e che gode di queste condizioni di vita.

Si tratta della nota “Stella di Natale” o Euphorbia Pulcherrima, pianta di appartamento diffusa per decorazioni natalizie.Le foglie sono verde-chiaro, mentre le piccole infiorescenze sono circondate da numerose Brattee cremisi-scuro, che possono essere lunghe anche 15 centimetri. Esistono anche varietà Brattee scarlatte, rosa e bianche.

Mentre sto scrivendo di questi argomenti mi viene naturale accennare anche ai molti fiori, alle erbe, agli arbusti e alle piante cha abbiamo sempre davanti agli occhi e che potrebbero essere interessanti per raccolte di nomi, e di specie da ricercare in natura e da catalogare in tanti diversi modi (colori, habitat, fiori, ecc.) secondo l’interesse di ognuno di noi.In commercio si trovano tanti libri che sarebbero naturalmente di aiuto per facilitare questa operazione.

Vi assicuro che ne potrebbero nascere una passione ed un passatempo bellissimo, serio, istruttivo, e oltremodo coinvolgente! Provateci!

La fantasia popolare ha costruito tante storie e leggende su questo fiore. Storie che hanno un sapore di profonda sensibilità.

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Eccone una efficace e coinvolgente.

Nella grande immensità del cielo una giovane stella, ogni notte, guardava la terra ed i suoi abitanti addormentati e sognanti.Poteva leggere i sogni di ognuno di loro, grande o piccolo che fosse; inoltre amava farsi ammirare da quegli uomini che, con potenti telescopi, la potevano osservare e studiare.

Tutti loro avevano un sogno: averla vicina.

Vedeva pure le giovani coppie che si volevano bene e che, guardando il cielo, esprimevano i loro desideri, sperando di vederli esauditi in futuro.Cosi, nel tempo, la giovane stella si rese conto che sulla Terra tutti avrebbero voluto averla vicino; come poteva essere d’aiuto?Passavano le notti, e la stellina si tormentava al pensiero di come aiutare i terrestri: non era facile trovare una soluzione.

Una notte i suoi raggi illuminarono un piccolo e semplice filo d’erba in mezzo ad un deserto di sabbia: come poteva essere nato, questo filo d’erba, era un mistero.Alla stellina parve bello premiarlo e gli regalò un suo raggio perché non si sentisse più solo e, subito, questi si trasformò in un piccolo fiore: una stellina.

“Ecco la soluzione!” esclamò la giovane stella, “regalerò i miei raggi a tanti fili d’erba e gli uomini, in questo modo, potranno sempre avermi vicina”.Il mattino dopo, una brutta sorpresa attendeva la stellina del deserto.

Un cammello, con il suo carico per il mercato, vedendo il piccolo fiore pensò di mangiarselo per colazione.

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Tornata la notte, la stellina cercò inutilmente, con i suoi raggi, il piccolo fiore: ma capi presto che per lui non poteva fare più nulla.In ogni modo, ora poteva trasformare quanta erba voleva e quindi accontentare tutti.Subito ricoprì, con i suoi raggi, un’immensa pianura di verde prato e questa si trasformò immediatamente in una distesa di milioni di stelle.

Sorse il nuovo giorno e i contadini che si recarono nei campi non credettero ai propri occhi: non c’era più erba per il pascolo, ma tante stelle per tutti.Questi nuovi fiori erano fantastici: tutti ne raccolsero più che poterono ed in breve tempo di stelline nella pianura non ce n’era più una. Tornò la notte, con la sua giovane stella e di nuovo esisteva il problema di sempre: come poteva essere d’aiuto?

Gli esseri umani erano troppo avidi e non si accontentavano di ammirare le stelline nei prati, ma le volevano solo per loro. Era importante trovare altri posti per le future stelline. Continuando a cercare, i raggi della stellina illuminarono i boschi sulle colline e, in mezzo agli alberi, nacquero tante piccole stelle. Col tempo, le persone che si recavano nei boschi diventavano sempre più numerose, curiose d’ammirare il nuovo miracolo della Natura. Gli alberi diventarono presto gelosi, più nessuno guardava loro: cominciarono allora a crescere sempre più vigorosi e forti. In breve tempo, la loro crescita soffocò i nuovi fiori, facendoli morire.

Cosi non poteva funzionare. La giovane stella non sapeva più cosa fare. Restava solo un angolo della Terra dove posare i suoi raggi: le alte montagne. Così, per incanto, le montagne si coprirono di un nuovo mantello: quello che ogni uomo ora può amare e rispettare. Gli alberi non le possono soffocare, gli animali non le possono mangiare e l’uomo può solo ammirarle.

Questo fiore, bello e puro, ora, ha un nome: Stella Alpina.

Da “Fiabe e Leggende” di Enrico Perola

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Crampiolo 2009

According to a long traditionWe organize an expedition

In the mountain in every weatherFor the sake of staying together

So after missing for one yearWe decided to come here

In Crampiolo for some days That we enjoy it all the ways

Let’s get started from the hutThat we choose straight from the gut

Someone says it’s for the viewBut I think it’s for the menu

‘cause the food if great and plentyYou can eat at 4 “palmenti”But this year we have a noveltyA great soldier from Her Majesty

Used to fight around the worldIn the drama that’s the war

But tonight up in the dormsHe won’t hear of shelling bombs

But at most someone who’s snoringNot that dangerous but annoying

Now it’s time to rest the penAnd go sleeping like a hen

And at morning early tomorrowWith no pain and with no sorrow

Adriano our commanderWill be shouting loud the order

So you’ll hear in all the valley“Up and ready” “zaini in spalle “

Questo tentativo di poesia è stato scritto durante le vacanze di ferragosto del 2009, dove abbiamo avuto come ospite Rupert, un soldato inglese appena tornato dall’Afghanistan.

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La locanda “LA BAITA”

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Capitolo 4Dal Devero al Veglia

Ha ora inizio la terza tappa che ci porterà all’alpe Veglia seguendo il tracciato del Grande sentiero delle Alpi, ossia un percorso che partendo dal colle di Tenda arriva a Trieste attraversando tutto l’arco alpino.

Lasciamo Crampiolo e scendiamo all’Alpe Devero (1631 mt) da dove iniziamo la risalita verso la Scatta d’Orogna.Il paesaggio è davvero incantevole con le montagne del Devero a fare da corona a questi immensi alpeggi. Spiccano il Cervandone e lo spigolo della Rossa, un’enorme pala interamente di roccia rossa che torreggia dominando tutta la piana, la cui salita impreziosice il curriculum di moltissimi alpinisti. Salendo, il primo alpeggio è posto su un grande pianoro attraversato da un lento torrente che gorgoglia sinuoso nei prati dove numerose mucche pascolano libere forse inconsapevoli di tanta bellezza.

La valle Buscagna è di un’ampiezza inaspettata per chi sale da Devero; di una malinconia, di una dolcezza, di una solitudine commoventi, paragonabili forse al grande nord canadese o alla Taiga siberiana.

Sulla sinistra abbiamo modo di ammirare il Monte Cistella dove si snodano le uniche tre seggiovie del Devero. Il pendio è interamente esposto a nord in mezzo a boschi radi.

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Lo spigolo della “ROSSA”

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Ci raccontano come d’inverno la neve rimanga polverosa fino a tardi assicurando innumerevoli e sicure discese fuoripista nella neve fresca. Già m’immagino le discese in solitudine immersi in un metro di polvere lanciando l’ormai famoso grido di battaglia “Canadà”.

Oltre l’Alpe Buscagna quando il terreno comincia a salire, prima delle pietraie, troviamo un grande prato completamente coperto di fiori gialli che, oscillando nel vento, creano l’effetto di un mare dorato increspato dalle onde. La fantasia trova terreno fertile e anzi uno dei trucchi per poter camminare ore ed ore consiste nel liberar la mente, e lasciarla vagare senza controllo nei pensieri qualche volta strampalati. Ciò impedisce di continuare a pensare allo sforzo presente, a quello delle prossime ore o ai dislivelli da percorrere. Diversamente il pensiero fisso non farebbe altro che autoalimentare la fatica fino a sfinirci prematuramente.

Così davanti a questo mare di fiori, accarezzati dal vento, la mente indugia su una vecchia canzone:

Eppure il vento soffia ancora spruzza l’acqua alle navi sulla prora

e sussurra canzoni tra le foglie bacia i fiori li bacia e non li coglie

eppure sfiora le campagne accarezza sui fianchi le montagne e scompiglia le donne fra i capelli corre a gara in volo con gli uccelli

La varietà dei panorami di questa vallata è davvero indimenticabile, con continui giochi d’acqua e di colori così delicati che sembrano usciti dalla tavolozza di un impressionista parigino.

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La Val Buscagna

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Nel nostro andar per monti, il silenzio ha rappresentato una delle caratteristiche costanti, rotto solo dal fischio della marmotta sentinella e dal fruscio del vento che sembra spazzar via i pensieri dalla mente per far posto a quelli nuovi ispirati dalle bellezze del paesaggio.

Se la stella alpina è considerata il fiore simbolo delle Alpi, la marmotta è sicuramente l’animale più conosciuto della montagna. Le troviamo ovunque appena raggiungiamo il loro habitat, cioè i pascoli e le pietraie tra i 1800 e i 3000 metri. E’ un animale molto socievole e si organizza in comunità per poter passare gli inverni rigidi a queste quote. Con il caratteristico fischio, la marmotta sentinella avvisa dell’arrivo del pericolo, che è rappresentato dall’aquila e dalla volpe. Anche al nostro passaggio udiamo i numerosi fischi, ma ogni tanto la marmotta si apposta vicino alla sua buca e ci guarda senza paura lasciandosi fotografare da vicino. Spesso incontriamo anche i cuccioli nati in primavera che con goffaggine e simpatia si muovono tra i sassi.

Si tratta di un animale estremo, in grado di vivere e riprodursi in un ambiente inospitale come può essere a volte l’alta montagna. A fine settembre, si ritrovano nelle loro tane e le preparano per affrontare il lungo periodo invernale. In queste tane possono stare da 3 a 10/15 marmotte. La marmotta va in letargo, secondo la rigidità del clima, generalmente da ottobre ad aprile. Questo roditore possiede un sonno da record, che le consente di superare il freddo e nevoso inverno delle alte quote.

Durante il letargo compie un vero e proprio miracolo fisiologico, la sua temperatura corporea scende da trentacinque a meno di cinque gradi, il cuore rallenta da 130 a 15 battiti al minuto e la respirazione diviene appena percettibile. La marmotta sentinella

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I tetti alla Balma

Il verde scintillante al Passo di Valtendra

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In questo periodo lentamente consuma le scorte di grasso corporeo accumulate nella bella stagione e per sei mesi, dorme profondamente accanto al resto della sua famiglia.

Raggiungiamo il valico detto Scatta d’Orogna posto a 2431 metri e dopo un boccone veloce ripartiamo verso il secondo valico cioè il passo di Valtendra. Sotto di noi i ripidi pendii erbosi della val Bondolero mostrano un panorama insolito per queste quote, con un verde scintillante macchiato solo da qualche residuo nevaio o da luccicanti laghetti.

Approfittiamo di un lungo nevaio per fare una divertente e veloce sciata fuori stagione ovviamente con gli scarponi. Lo “sci estivo” sulle lingue di neve dura con gli scarponi è una specialità dai tempi del militare. Oltre che molto divertente, consente di perdere quota velocemente, senza affaticare gambe e piedi con i colpi dei passi durante la discesa.

Il resto della discesa si presenta noioso, o forse la fatica lo rende tale, complice anche una deviazione nel ripido bosco dopo aver perso il sentiero. Finalmente ritroviamo la strada e scopriamo di essere arrivati all’alpe La Balma.

E’ un gruppo di baite e stalle posto su un ridente poggio assolato e aperto, dove pascolano molti cavalli e mucche. Le case sono stupende, appena rifatte, e in particolare la grande stalla impressiona quando la si vede dall’alto per il suo enorme tetto tutto fatto di piode con il tipico stile di queste valli. E’ la prima volta che vedo un tetto così grande interamente in sasso.

Riflettiamo su come l’architettura di montagna sia impregnata di uno straordinario buongusto, e che pur utilizzando forzatamente i materiali poveri disponibili in loco, riesca a coniugare la funzionalità e la comodità con un risultato estetico eccellente. Tetti in piode, balconate in larice, cappellette e oratori bianchi di calce o in sasso, non esiste costruzione pur semplice che sia brutta.

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L’albergo La Fonte

Sulle lingue di neve

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Il Veglia ci accoglie silenzioso e immenso, tanto che dobbiamo girovagare un po’ per trovare il rifugio del quale non mi ricordavo il nome.Improvvisamente si apre questa conca verdissima, perfettamente pianeggiante, solcata da ruscelli che il sole trasforma in lamine d’argento e punteggiata da larici secolari con i tronchi attorcigliati quasi come fossero tormentati dal vento e dalla neve. Davanti a questi alberi si comprende fino in fondo il pensiero di Vincent Van Gogh:

“Vedo ovunquenella natura,

ad esempio negli alberi,capacità d’espressione

e, per così dire,un’anima”

Lo spartiacque principale delle Alpi passa sulle montagne che coronano il Veglia così che un torrente rivolto a sud porterà l’acqua al Pò e quindi all’Adriatico, se invece rivolto a nord finirà nel Rodano e quindi nel sud della Francia.

L’Alberghetto si chiama “ la Fonte” e ci viene indicato da un ragazzino. Per raggiungerlo dobbiamo impegnarci in un supplemento di salita ripida essendo il rifugio in un dosso panoramico dominante l’alpe.

Alcuni asini ci accolgono con il loro lamentoso ragliare che farà anche da buongiorno la mattina seguente. Ritroviamo con piacere gli amici svizzeri incontrati il giorno prima.

Doccia veloce e poi la ricerca del segnale telefonico (che non troverò fino al Sempione) mi costringe a fare il giro di tutto l’alpe aggiungendo un’altra ora alla mia passeggiata.

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L’enorme piana del Veglia

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L’alpe Veglia, seppure molto famosa, si differenzia dal Devero in quanto raggiungibile solo a piedi da San Domenico con un paio d’ore di cammino.

Questo fatto seleziona in modo implacabile i frequentatori consentendo l’accesso solo ai veri amanti della montagna. Quindi no turisti caciaroni , sì ad alpinisti ed escursionisti rispettosi. Non vi sono negozi e bar, ma solo alpeggi e rifugi sebbene l’alpe sia davvero molto grande e accogliente.

Il Monte Leone incombe maestoso su di noi offrendo una vista straordinaria della sua imponenza e dei suoi ghiacciai pensili. L’indomani ci accompagnerà per tutto il giorno sempre più vicino.

Senza dircelo ci ricordiamo di quando un quarto di secolo fa, lo abbiamo scalato in solitudine partendo dall’ospizio del Sempione. In montagna la testa conta più delle gambe, e Mariuccia ha potuto scalarlo solo in quanto, sapendo che la cima è a 3500 metri, e informandola io che il passo era “duemilaecinque” si rassicurava che la differenza di quota di mille metri fosse alla sua portata.

In effetti, il passo è a quota 2005, ma l’averlo constatato dopo le ha permesso di non pensarci troppo e così fare tutta la salita, con i suoi 1500 metri di dislivello. La salita al Monte Leone richiede una buona preparazione fisica in quanto al già pesante dislivello si aggiunge l’attraversamento del ghiacciaio con una corda molla, cioè con una discesa ed una risalita. La lunga e frastagliata cresta terminale mette poi a dura prova la pazienza e la resistenza dell’alpinista.

Il Leone

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La sorgente

L’introvabile etichetta

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E’ una cima molto frequentata in modo particolare con gli sci, giacché ricompensa con una discesa vertiginosa. Viceversa a piedi il ritorno è interminabile.

L’Albergo la Fonte è una pensione appena rimodernata graziosa e accogliente con una vista aperta su tutto il Veglia e sulle montagne che lo circondano.L’albergo prende il nome dalla famosa sorgente ferruginosa che dista pochi minuti di cammino. Si tratta di una vera bizzarria della natura che richiama migliaia di visitatori ogni anno.

L’acqua ferruginosa nasce a 1813 metri ed è la seconda sorgente minerale più alta d’Europa dopo quella di Perticosa nei Pirenei. Nel mezzo del torrente Mottiscia, da un tubo posto curiosamente proprio tra l’acqua del torrente, scorga effervescente e naturale la gustosissima acqua, che oltre alle numerose e pregiate proprietà terapeutiche, secondo gli abitanti del luogo, “risveglia felicità e allegria. Contribuisce ad allontanare tristezza, noia e a dimenticare i bui luoghi in cui si vive durante l’anno”.

Sempre secondo il sito del parco “Molti tra quanti provano l’Acqua Ferruginosa se ne innamorano immediatamente e non riescono più a farne a meno. La frizzante combinazione di minerali (tra cui spicca il ferro) induce a berne sempre più senza riuscire a fermarsi. Purtroppo non piace a tutti. Alcuni riescono ad apprezzarla solo dopo un periodo di attesa e scoperta, altri invece si convincono che è cattiva e non cercano in alcun modo di invaghirsene”.

In lontananza si vedono i numerosi e grandi alpeggi, vivaci di mucche con le rumorose campane e di alpigiani intenti nella mungitura serale. Ci godiamo il panorama crogiolandoci negli ultimi raggi di sole seduti sul muretto di sasso fuori dall’Albergo ammirando il sole che tramonta dietro il Leone. La cena è abbondante anche se un po’ cittadina, quindi veloci a letto a riposare per l’ultimo giorno.

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Verso la Bocchetta d’Aurona

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Con la carta di credito fuori uso e i franchi svizzeri al posto degli euro, riesco a pagare il conto con gli ultimi euro rimasti tanto che lasciandone tre di mancia, non ci resta neanche un centesimo.

Avessimo preso un grappino in più la sera prima, non avremmo potuto pagare il conto. La mente corre con terrore a quando nell’ultima tappa della traversata del Rosa di tanti anni fa, dopo una settimana di girovagare con lo zaino pesante sulle spalle, dovevamo prendere i mezzi da Zermatt fino a lago di Mattmark nella valle di Saas. Con la provvista di franchi limitata (per la verità lo era anche quella di lire), m’informo in stazione sul costo del biglietto per il giorno dopo. Puntualmente mi dicono che il costo è di “zwei und achtzig Franken”. Fresco di un anno di militare a Vipiteno non esito a tradurre in due e otto, cioè ventotto. Ci regoliamo con le spese tenendo conto di conservare i soldi ritenuti sufficienti.

Peccato che i tedeschi che fanno tutto dritto dicono i numeri all’incontrario, e quindi il costo del biglietto era 82 franchi, che a questo punto non abbiamo più a sufficienza. Morale, facciamo il biglietto fin dove i soldi lo consentono, cioè fino a Saas Grund. Qui il conducente ferma apposta il pullman e si ricorda implacabilmente di farci scendere senza sentire ragioni, costringendoci a un paio d’ore di cammino supplementari sotto la pioggia, che si aggiungeranno alle altre quattro necessarie ad arrivare al passo del Moro.

Solo qualche giorno dopo avrò il coraggio di dire a Mariuccia che nel fare i biglietti della funivia per scendere a Macugnaga ho ritrovato nella tessera del Cai i franchi che tengo d’emergenza e che ci avrebbero consentito di proseguire con il bus.

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la Genziana

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Capitolo 5Verso il Sempione

Il primo giorno è stato di assaggio, il secondo ci ha affaticato con la sua lunghezza, il terzo dovevamo riprenderci, ma dal quarto in poi l’allenamento si fa sentire rendendo la fatica inaspettatamente leggera ed il passo veloce.

Questo è l’ultimo giorno e sarà anche il più impegnativo dal punto di vista alpinistico. Dopo abbondante colazione ci avviamo con passo veloce e leggero sentendo che la fatica dei giorni precedenti si è ormai trasformata in allenamento per le gambe e i polmoni. Siamo sempre accompagnati dai nostri tre casuali compagni di viaggio. Gli asini ci salutano fragorosamente, mentre alcuni maiali si rotolano nel fango poco sotto il rifugio.

Il Leone svetta imperioso oltre la piana del Veglia stagliandosi verso il cielo finalmente azzurro e senza nubi. Avremo modo di fotografarlo da molte angolature giacché dovremo costeggiarlo per tutto il giorno fino al Sempione.Nei pianori assolati l’immancabile vento agita l’erba alta facendola sembrare un mare in tempesta attraversato dalle onde. Appena la prateria lascia il campo alle sassaie e alle morene, tra l’erba diradata troviamo le inconfondibili macchie blu di genziana. Il nome deriva dal re dell’Illiria Gentium che per primo ne apprezzò le proprietà curative. Se la stella alpina è un fiore esclusivo e raro, la genziana è sicuramente più facile da incontrare, ma questo non toglie nulla all’emozione che si prova quando ci s’imbatte in questa macchia blu che spicca tra l’erba.

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Il ghiacciaio verso La Bocchetta

L’ultimo sforzo sulla Ferrata

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La genziana è molto usata nella preparazione di liquori o amari tipici delle vallate alpine. In ogni paese di montagna troverete l’albergo Miramonti, la pensione Edelweiss, e il ristorante Genziana. Da lontano vediamo un passo impervio, e ci convinciamo che non può essere il nostro, poiché c’è un ripido ghiacciaio e una parete di roccia da scalare che non ci aspettavamo.

Man mano che si procede diventa invece evidente che il passaggio è proprio lì. Combattendo contro la proverbiale fifa di Mariuccia ci avviciniamo e solo le rassicurazioni di due escursionisti mal in arnese la convincono a proseguire.

Scavando i gradini nel ghiaccio con la punta degli scarponi saliamo il ripido ghiacciaio, e quando il passaggio sembra ormai evidente e quasi facile, costatiamo che invece si deve passare proprio nel mezzo della parete, ossia nel punto che a prima vista sembra proibitivo.

L’ultimo pezzo di ghiacciaio è insidioso e ripido, ma il rischio è limitato a una scivolata senza strapiombi. Lascio Mariuccia senza zaino così da godersi l’arrampicata e la seguo con il doppio carico. Non so se per via della sua fifa o del gusto dell’arrampicata, oppure a causa del doppio peso sulle mie spalle, ma mi scappa via veloce sulle rocce, tanto che insistendo io nel chiederle di posare per una foto “ricordo” che non si gira mai e sono costretto a fotografarla ripetutamente da dietro.

Rivedere Mariuccia salire veloce e leggera senza zaino, mentre io mi attardo appesantito dal doppio carico, richiama alla mente l’articolo di un noto scrittore di montagna. Tengo questo scritto sulla scrivania rileggendolo di tanto in tanto soprattutto nei momenti in cui, prendendomi troppo sul serio, m’intrappolo in pensieri negativi che appesantiscono la mia giornata, il mio lavoro, le mie relazioni con gli altri.

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Mi permetto di proporvelo così come l’ho trovato:

Leggeri come falchi per vivere megliodi Mauro Corona alpinista e scrittore

Nella mia vita ho avuto spesso a che fare con il vuoto, con le arrampicate, e lì è un bel guaio non essere leggeri. In montagna la leggerezza è farsi sostenere dalle correnti, come i falchi e le poiane, senza battere le ali, senza sprecare forze. Nella vita è lo stesso: quando si è leggeri, ogni corrente, ogni minima soddisfazione ci sosterrà in aria, ci terrà allegri.

Per raggiungere una leggerezza nei comportamenti e nell’umore occorre ottenerla anche fisicamente. Bisogna essere ascetici. Non prendersi troppo sul serio, essere leggeri nelle esigenze personali, non prendersela troppo quando qualcuno sbaglia una parola nei nostri confronti. Ricordando sempre che leggerezza nel comportamento non significa prendere la vita poco seriamente o vivere con la testa tra le nuvole. Significa donarci, donare agli altri. Significa di scrollarci di dosso la pesantezza, la serietà ed essere generosi, tolleranti, saper ridere e tentare di perdonare.

Attribuire la pesantezza alla società moderna è un pretesto, mentre ogni individuo dovrebbe essere leggero nelle proprie vanità, nel proprio orgoglio, nelle proprie pretese. Per dire: facciamo un libro, crediamo che sia un capolavoro e vorremmo un premio. Invece bisognerebbe saper dire «ho fatto una cosa, se va, bene, altrimenti pazienza. Essere leggeri non significa essere sciocchi, ma lasciar correre l’acqua sopra di sé, come le pietre nel torrente, senza opporsi, brontolare e mugugnare sempre. In amore essere leggeri significa evitare controllo, gelosie, egocentrismo e possesso. L’amore è donazione, è silenzio. E il silenzio è leggerezza.

Leggerezza è saper accettare anche la sfortuna, senza precipitare nel tragicismo. Ma questo dipende dall’educazione che si riceve: un bambino che cresce in una famiglia dove ogni problema diventa una tragedia, e dove si pretende sempre di più di ciò che si ha o si raggiunge, è inevitabile che presto vorrà andarsene o diventerà un adulto pesante, greve.

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Quindi la leggerezza va insegnata sin da piccoli, anzi: dovrebbe essere insegnata nelle scuole! Ma anche da adulti si può imparare: basterebbe fermarsi e ragionare un po’.

Dialogare con il prossimo, non ritenersi indispensabili o migliori degli altri. Leggerezza è vivere, agire, tentare. Leggerezza è fatica: sembra un paradosso, ma dopo un’arrampicata, dopo una corsa, perdendo qualche chilo, viene voglia di essere più allegri, viene appetito, si dorme meglio. Leggerezza è sobrietà negli oggetti di cui ci circondiamo, anche nelle nostre case, che invece sono piene di orpelli, di marchingegni a motore... e noi stessi diventiamo oggetti in funzione degli oggetti che dobbiamo controllare, guidare, riparare.Leggerezza è generosità, tolleranza, disincanto.

È sapersi trattenere dal suonare il clacson quando l’auto davanti a noi resta ferma qualche secondo dopo che è scattato il verde. Non assecondare e cadere nella trappola della pesantezza. Fare qualcosa per gli altri, ma senza aspettarci gratitudine o riconoscenza, perché questi sono sentimenti che si sciolgono come neve al sole. E infine, saper riconoscere le cose belle che abbiamo a portata di mano, per esempi le montagne: qui a Erto sono bellissime. Ma molti personaggi della politica e dello spettacolo preferiscono andare a Cortina o Courmayeur. Sono vittime della pesantezza della visibilità e dei luoghi comuni che fanno tendenza.Impariamo a essere leggeri: è fondamentale per vivere meglio.

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L’aquila come i Leader,

vola solitaria, al contrar

io

delle oche che volano in

stormo.

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Rapidamente risaliamo la parete approfittando delle corde fisse e dei pioli infissi nella roccia.E’ tutto relativamente semplice, ma siamo davvero esposti nel vuoto. Essere soli qui in quest’ambiente austero e impegnativo ci fa sentire sempre più nel cuore di un’avventura anche proprio per gli aspetti atletici e alpinistici.

Al colle appostato proprio sulla cresta, troviamo il bivacco Farello, un vero nido d’aquila di lamiera a disposizione degli alpinisti.Se la marmotta è l’animale più famoso della montagna, probabilmente per la sua simpatia, l’aquila è quello che meglio ne incarna lo spirito audace e severo. Con attenta osservazione può capitare di vederla volteggiare alta nel cielo alla ricerca, con la sua vista aguzza, delle prede che possono essere anche di medie dimensioni come capretti o altri mammiferi. Il rispetto e l’ammirazione che ispirano l’aquila si riflettono anche nel nostro linguaggio quotidiano per sottolineare persone acute ed ardite. Queste persone così come l’aquila, si vedono una alla volta e raramente, al contrario delle oche che invece si vedono frequentemente ed in stormi numerosi.

Sbuchiamo al passo e attraversiamo il confine svizzero, ovviamente senza doganieri. Ci sentiamo un po’ come i contrabbandieri che nei tempi passati utilizzavano questi valichi per trasportare merci con la loro bricolla da e per il nord dell’Europa, ingaggiando una continua e romantica guerra con i finanzieri. Gli uni e gli altri condividevano la vita faticosa e pericolosa sui valichi alpini con il solo scopo di sbarcare il lunario. Spesso erano conoscenti e non di rado si aiutavano reciprocamente.

A testimonianza di questi tempi ancora oggi su alcuni passi alpini si celebra la “Messa del contrabbandiere”. In particolare ho partecipato al passo Mondelli tra Saas Fee e Macugnaga ad una di queste celebrazioni, dove ho visto pregare gomito a gomito i finanzieri con i vecchi contrabbandieri nel ricordo dei gloriosi giorni passati a rincorrersi per una bricolla di sigarette.

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Sensazioni artiche alla Bocchetta d’Aurona

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Dopo il passo, lo scenario si apre sulle montagne del Vallese, in particolar modo la vista spazia sui Mischabel e sulla parete nord del Fletchorn. Alla nostra destra vediamo il rifugio Monte Leone che funge da base di partenza per la traversata o la salita alla punta di

Terrarossa. Questa montagna potrebbe essere un trattato di geologia, perchè vi è raccontata la tormentata storia delle Alpi. Si vedono chiaramente gli strati regolari di roccia ondulati dalle forze immense della crosta terrestre che si è corrucciata così da sollevarsi e formare le montagne.

Ciò che è descritto nei libri di scienza può qui essere compreso anche da un profano con semplicità. Il colore rosso vivo delle rocce, contrastato dal bianco della neve residua, aggiunge un tocco pittoresco alla vista.Siamo a quota 2800 e il terreno si presenta come uno sterminato pianoro di sassi e rocce.In mezzo troviamo due laghetti insoliti. Il primo piuttosto piccolo vede un grande nevaio scivolare fino oltre metà lago creando una gradazione di colori che va dal bianco della neve a tutti i tipi di turchese ed azzurro man mano che lo strato di ghiaccio penetra verso il centro del laghetto sempre più profondo.L’altro lago più grande ci offre uno scenario artico fatto da grandi banchi di ghiaccio vaganti sulla superficie dell’acqua.

Dopo un po’ incrociamo il sentiero principale che scende dal rifugio e cominciamo a incontrare numerosi escursionisti. In fondo vediamo l’inconfondibile costruzione rosa dell’ospizio del Sempione con la strada brulicante di traffico. La caratteristica aquila di pietra, alta 8 metri, domina il passo quasi a controllare questo passaggio strategico.

Il nevaio scivola nel lago creando colori straordinari

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L’ospizio del Sempione

Il passo del Sempione

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Proprio davanti a noi la parete nord del Fletchhorn brilla ricoperta di ghiaccio. Nonostante l’evidente ritirata del ghiacciaio a causa del noto e ormai evidente innalzamento delle temperature, questa parete nord rimane impressionante per la sua ripidità. Il ghiacciaio sembra proprio appiccicato.

Questa montagna è ben visibile dalla pianura lombarda essendo l’ultima verso nord del trittico formato dalla Weissmiess e dal Lagginhorn, e deve parte della sua notorietà oltre che alla sua bellezza e posizione al fatto che essendo alta “solo” 3996 metri priva l’alpinista dell’ufficialità di un quattromila. Nonostante questo piccolo inconveniente è una cima molto frequentata soprattutto salendo da Saas Grund.

Il passo del Sempione è un valico molto importante ma solo dal 1800, grazie a Napoleone, è stata costruita un’ardita via di comunicazione che ha rilanciato i collegamenti tra il sud e il nord delle Alpi.

1500 metri sotto di noi scorre il tunnel del Sempione, imponente galleria ferroviaria di 21 Km costruita addirittura nel 1906, e che fino a pochi anni addietro era la più lunga del mondo.

Scendiamo con passo allegro sul confortevole sentiero che porta all’Ospizio, pregustando l’ormai prossimo “Zaini a terra” e il conseguente riposo, anche se poi dovremo spendere ancora diverse ore sui mezzi per il recupero dell’auto e arrivare a Riederalp, nostra meta per il resto della settimana.

La vista del traguardo certamente ci rallegra e cominciamo a pregustare i benefici delle comodità della vita quotidiana, ma un velo di tristezza fa capolino. Sta per finire un’avventura davvero straordinaria, non tanto per l’aspetto tecnico o alpinistico ma piuttosto per il senso di libertà che quest’avventura ci ha dato. Mai ci siamo sentiti turisti ma sempre visitatori o viandanti, abbiamo pianificato e programmato il nostro itinerario da soli con

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La Nord del Fletchorn

L’aquila di pietra controlla il Passo

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l’ausilio delle cartine, abbiamo conosciuto la gente del posto e soprattutto ci siamo immersi con rispetto in quest’ambiente e nella sua storia.Abbiamo cercato di capire e di conoscere, con l’occhio dell’alpinista rispettoso, la natura che ci circonda, e siamo stati ripagati da panorami mozzafiato e da dettagli delicati e curiosi.

La lontananza dalle auto, dai computer, dalla tv, spesso anche dai cellulari, ci ha rigenerato lo spirito, le persone che abbiamo conosciuto ci hanno arricchito di informazioni e cultura. Il tempo ci ha donato ritmi diversi, lenti, costanti, amichevoli. La natura ci ha mostrato il suo volto benigno che, solo se assaporato in questo modo, riesce a lasciarsi accarezzare con tanta dolcezza ed efficacia.

Le nostre gambe sono ormai allenate e ci danno proprio l’impressione di poter camminare senza più fare fatica. Si sono dimostrate il mezzo di locomozione “pedibus calcantibus” più efficace in questi terreni.Un grande filosofo disse:

“Quando si vuole soltanto arrivare,si può correre in diligenza.

Ma quando si vuole viaggiarebisogna andare a piedi.”

JEAN-JACQUES ROUSSEAU, Emilio

L’ospizio del Sempione ci accoglie maestoso come sempre, ben tenuto dai pazienti frati vallesani di San Bernardo che continuano l’opera originaria di dare ospitalità ai viandanti e ai pellegrini che si recavano nei santuari dell’Italia del nord o a Roma. La visita è un’esperienza sempre emozionante che ci riporta indietro nel tempo.

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La costruzione con muri molto spessi, locali ampi e alti ci suggestiona facendoci immaginare la vita nei castelli e nei monasteri dei secoli scorsi. Chi ha visto il film “Il nome della rosa” non farà fatica a ritrovare le stesse sensazioni.

La sapienza dei frati di San Bernardo ha saputo ammodernare l’ospizio rendendolo accogliente anche ai visitatori di oggi, ma senza niente togliere alla sua magia di un tempo. La chiesina incastonata all’interno della costruzione è parte integrante della vita dell’ospizio con una vivace attività scandita dai tempi del convento: quindi i Mattinali, la Messa, e i Vesperi.

La cena si consuma non in un ristorante ma in un refettorio, dove il servizio, cortese silenzioso e ordinato ci invita a valorizzare un momento tanto prezioso come mangiare con calma insieme. Lo spezzare del pane, il vino e in generale il cibo, assumono qui un valore anche simbolico quasi a ricordarci che nella vita e nelle opere di Gesù il cibo ha sempre rappresentato una metafora e un momento importante. Non a caso il primo miracolo l’ha fatto alle nozze di Cana, e uno dei momenti più drammatici e significativi è stata l’ultima cena.Nelle serate d’estate non è inusuale sentir risuonare il caratteristico, lungo corno svizzero che viene suonato sul balcone della scala che conduce all’ospizio. Il corno svizzero è nato come strumento di comunicazione tra un alpeggio e l’altro, ma con l’avvento dei moderni sistemi stava per scomparire, quando è stato riscoperto e rilanciato con la tipica cura elvetica che riesce a coniugare la modernità più evoluta con la tradizione.

Fuori nel corridoio tra le varie preghiere appese ai muri, si evidenzia quella scritta dal Priore Gratien Valluz che più di tutti ha animato la rinascita di questo posto.

Il corno Svizzero risuona al Sempione

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Preghiera del pellegrino della montagna Signore Gesù che dalla casa del Padre sei venuto a piantare la tua tenda in mezzo a noi;tu che sei nato nell’incertezza di un viaggioed hai percorso tutte le strade,quella dell’esilio, quella dei pellegrinaggi,quella della predicazione :strappami all’egoismo ed alla comodità,fa di me un pellegrino. Signore Gesù, che hai preso così spesso il sentiero della montagna,per trovare il silenzio, e ritrovare il Padre;per insegnare ai tuoi apostoli e proclamare le beatitudini;per offrire il tuo sacrificio, inviare i tuoi apostolie far ritorno al Padre:attirami verso l’alto, fa di me un pellegrino della montagna.Come San Bernardo,devo ascoltare la tua parola, devo lasciarmi scuotere dal tuo amore.A me, continuamente tentato di viver tranquillo,domandi di rischiare la vita,come Abramo, con un atto di fede;a me, continuamente tentato di sistemarmi definitivamente,chiedi di camminare nella speranza,verso di te, cima più alta, nella gloria del Padre.Signore, mi creasti per amore, per amare:fa ch’io cammini,ch’io salga, dalle vette, verso di te,con tutta la mia vita,con tutti i miei fratelli,con tutto il creatonell’audacia e nell’adorazione.Amen

Padre Gratien Volluz, priore e guida alpina (1929-1966)

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Capitolo 6L’arrivo

Giunti al passo, ci appostiamo alla fermata del mitico postale sul piazzale dell’ospizio.Proprio di fianco al famoso cartello indicante i già ricordati 2005 metri del passo, c’è la fermata del bus che ci dovrà riportare a Briga e l’orario ci indica che abbiamo mezz’ora di tempo.Lo spendiamo a mangiare finalmente qualcosa e a sistemare gli zaini. Confidando sulla proverbiale puntualità dei postali svizzeri non indugiamo e ci mettiamo in fila in attesa del bus che deve arrivare da Domodossola.

Il postale svizzero è un’istituzione nazionale con oltre 100 anni di storia, essendo stato inaugurato nel 1906. Circa 800 di questi bus gialli attraversano oggi in lungo e in largo la Svizzera raggiungendo ogni minuscola frazione di montagna con il servizio passeggeri ed in molti casi ancora con la posta. I suoi segni distintivi – la tromba a tre suoni e il colore giallo – appartengono all’identità culturale della Svizzera. Il marchio AutoPostale è sinonimo di affidabilità, sicurezza e fiducia.

I passeggeri aspettano con pazienza il segnale acustico a tre note del tipico corno dell’autopostale che risuona sulle strade di montagna. Il motivo a tre note è tratto dall’andante dell’ouverture del “Guglielmo Tell” di Rossini comprende le note sol diesis-mi-la, in la maggiore.

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Il Postale

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Oggi con italica soddisfazione prendiamo nota che il postale arriva con ben quindici minuti di ritardo, che però vengono subito dimenticati appena nell’aria risuona il famoso corno. In Canton Ticino, l’approssimarsi del bus è commentato con l’ormai famoso “Ghè scià ul pustal cun la pata verta” che sottintende l’arrivo a tutta velocità del mezzo.

Ritardo a parte la “Classe Gialla” (come viene identificato il servizio auto postale) mantiene le promesse nella pulizia, ordine e nella qualità di tutto il servizio. Alla fermata successiva, sempre annunciata dal Guglielmo Tell, salgono i nostri compagni di viaggio degli ultimi tre giorni.

Sono come noi felici della loro gita e nel chiacchierare scopriamo che sono soliti lavorare durante la stagione sciistica al rifugio Concordia, proprio nel mezzo dello sconfinato ghiacciaio dell’Aletsch che scorre dietro Riederalp, il nostro posto di vacanza.Ne approfittiamo per chiedere informazioni con l’intenzione di mettere in cantiere una traversata anche da quelle parti.

Arriviamo comodamente alla stazione di Briga, proprio nel centro della città, da dove partirà in circa trenta minuti il trenino che ci porterà a Morel.Briga è una cittadina di circa 12000 abitanti nel cuore del Vallese. Si trova in un crocevia naturale al punto d’incrocio del passo del Sempione con la valle del Rodano. Risalendo il famoso fiume, la valle termina con ben tre passi: Il Furka, il Nufenen e il Grimsel.

Scendendo si arriva a Martigny, dove confluisce la valle del Gran San Bernardo, mentre continuando, s’incontra il lago di Ginevra.La gigantesca stazione di Briga, con lo scalo merci, testimonia l’importanza di questo snodo ferroviario, anch’esso circondato da lunghissimi tunnel che consentono di raggiungere rapidamente la Svizzera centrale o l’Italia.

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Il ghiacciaio del Aletschorn

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Nelle vicinanze di Briga si trovano le migliori stazioni turistiche della Svizzera, quali Zermatt, Saas Fee, Bettmeralp, Crans Montana. La corona di montagne è impressionante. In nessun’altra parte delle Alpi c’e’ una concentrazione così elevata di vette da 4000 metri.

L’enorme quantità di acqua che scorre nel Rodano testimonia il numero di ghiacciai che confluiscono in questo fiume. Appena a nord di Briga si spegne l’ultima lingua del ghiacciaio più lungo delle Alpi, lo sconfinato Aletschgletcher, lungo ben 23 Km e da qualche anno diventato patrimonio dell’Unesco.Briga è innegabilmente una cittadina nordeuropea ma la sua posizione le consente di avere sfumature tipiche delle città sudalpine, ed anche il clima beneficia della contiguità con il versante più caldo delle Alpi.

Il grande castello, proprio nel mezzo della città, conferisce un tono autorevole a tutto il panorama a testimonianza di quanto fosse importante controllare questo snodo nelle Alpi.

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Degne di menzione le terme di Brigerbad, aperte solo in estate, davvero molto belle e ben tenute con la grotta termale più vecchia della Svizzera.

Decidiamo di investire i trenta minuti di attesa nella centralissima Bahnofstrasse, ben animata, e come detto con una vivacità quasi italiana, forse anche per il sole ben caldo. Apprezziamo con piacere questo tepore dopo quattro giorni in quota sempre accarezzati (in qualche caso schiaffeggiati) dal vento.

Se il postale è l’orgoglio giallo del trasporto su gomma, il treno è l’orgoglio rosso. In particolare da qui passa il Glacier Express, detto anche l’espresso più lento del mondo. Collega le due città di montagna più famose d’Europa, Zermatt con St’ Moritz, attraversando numerosi passi sempre con i suoi vagoni rossi panoramici.

Proprio uno di questi mitici trenini sarà il nostro prossimo mezzo di trasporto.La stazione si è ormai riempita, ma, sorpresa, anche il treno è in ritardo di 9 minuti, una vera vergogna per gli standard svizzeri. Certamente noi non ci lamentiamo, vuoi perché abituati a standard ben diversi, vuoi perché dopo camminate anche di dieci ore non sono certo dieci minuti che ci faranno perdere la calma.

L’emozione dell’arrivo del postale si rinnova con l’approssimarsi del nostro treno della Gotthardbahn, rosso e fiammante, proprio come quelli delle cartoline. L’invidia per tanta organizzazione ed efficienza si mitiga solo con la consapevolezza che i costi dei trasporti qui sono davvero elevati, oltre il doppio di quelli italiani. Come per il Bettelmatt, tutto ha un costo. Se vuoi il formaggio genuino d’alpe, lo paghi quanto vale, se no Certosino o Philadelfia in 3 per 2 al supermercato. Se vuoi i treni puliti, in orario e disponibili, il servizio costa.

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Il treno a vapore sbuffa verso il Furka

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L’espresso più lento del mondo ci accompagna risalendo il Rodano fino a Morel dove prendiamo la macchina lasciataci dai genitori di Mariuccia, che ci attendono a Riederalp, per recuperare la nostra lasciata quattro giorni prima. Con pazienza risaliamo l’alto Vallese seguendo il corso

del Rodano e affrontando infine i ripidi e numerosi tornanti che ci riporteranno al passo del Nufenen. Ultima curva e come per magia, quasi inaspettata, la nostra auto ci attende solitaria sul ciglio del burrone, dove l’avevamo lasciata. Inizia a piovere, e non possiamo evitare di pensare alla fortuna che abbiamo avuto a non avere mai trovato pioggia durante la traversata, circostanza che avrebbe complicato sicuramente il nostro cammino.

E così ora che siamo a Riederalp, in casa, mi piace ripensare ad ogni passo percorso, e sono stati tanti, innumerevoli, così tanti e veloci che hanno permesso nel frattempo ai nostri occhi di girare un film su questa parte di mondo così ricca di scenari grandiosi.

Tutti gli alpinisti sono affezionati alla propria tessera del Club Alpino Italiano (CAI), e ciascuno di noi conserva questo passaporto della montagna con cura e devozione. E’ un libricino piccolo con i bollini che ne certificano il rinnovo annuale, ed una sola frase vecchia di oltre un secolo scritta da Guido Rey:“Io credetti e credo la lotta con l’alpe utile come il lavoro, nobile come un arte, bella come una fede”

Parole forti, anche esagerate e fuori moda, per chi non ha provato le emozioni di andar per monti. Per noi che abbiamo la possibilità di apprezzare questo privilegio, l’affermazione suona familiare, e sentiamo l’accostamento al lavoro, arte e la fede con l’emozione riservata alle cose rare e preziose.

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Gli alpinisti sono viceversa anche definiti “i conquistatori dell’inutile”, e, in effetti, torniamo a casa a mani vuote, ma con gli animi pieni di soddisfazione e gli occhi luccicanti di bellezze. Non ci resta che raccontare le nostre emozioni, anche aiutandoci con le numerose fotografie, incoraggiati dalla speranza che il nostro entusiasmo possa far scattare la voglia di andar per monti anche ai nostri quattro lettori che avranno avuto la pazienza di leggerci fin qui. (Se Manzoni ne ha venticinque io spero di averne almeno quattro).

Sempre Guido Rey scrive: “La Montagna è fatta per tutti, non solo per gli Alpinisti: per coloro che desiderano il riposo nella quiete come per coloro che cercano nella fatica un riposo ancora più forte”

Da parte nostra rafforziamo la consapevolezza che la fatica più grossa è quella di rompere la pigrizia, di decidere e partire. Il resto viene da sé. Infatti, in montagna c’è un detto: “var pusè n’andà ca cent’andem” traducibile come “vale di più un andare che cento andremo”. E’ proprio così, la fatica più grossa è quella di rompere gli indugi e vincere l’inerzia che ci impedisce di partire. La nostra vita è piena d’impegni veri o presunti che ci danno la possibilità di procrastinare anche le cose che vorremmo fare, come partire per una traversata in montagna o magari scrivere un libro, anche banale e arruffato come questo.

E così sono arrivato alla conclusione che faranno meno fatica le gambe a camminare che la mente a decidersi a dare il via e partire. Allo stesso modo anche per scrivere un libro è molto più faticoso cominciare e dare corpo all’introduzione che scrivere i capitoli che lo compongono. Non prendetela però come una minaccia: prometto di partire per un altro trekking, ma non è detto che scriverò un altro libro.

Rubo anche la chiusura al grande Manzoni : “Se questa storia non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se invece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.”

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Scheda tecnica

Giorno 1 Dal passo del Nufenen al rifugio città di Busto Con l’auto raggiungere il passo del Nufenen tramite l’autostrada del Gottardo uscendo ad Airolo e risalendo la val Bedretto. Lasciare il passo scendendo verso il versante vallesano. Al secondo tornante verso destra trovate un largo spiazzo dove lasciare l’auto e da dove parte la strada che porta alla diga del lago Gries.Risalire la strada e poco prima della diga prendere il sentiero che aggira il lago sulla sinistra. Raggiungere il passo (45 minuti) e poi scendere fino all’alpe Bettelmatt. Qui risalire l’evidente costone che troverete alla vostra destra fino al rifugio. Tempo totale dal posteggio 2 ore. Telefono rifugio 347 5566808, 0324 63092

Giorno 2 Dal Rifugio città di Busto a CrampioloLasciare il rifugio scendendo tramite il ripido sentiero sul lato sud, e raggiungere il lago di Morasco (1 ora). Costeggiare il lago tenendosi sulla sua destra, e percorrere il sentiero più vicino al lago, non curandosi del sentiero a mezzacosta che pure sembra più idoneo. Ciò consentirà di individuare con facilità l’imbocco del sentiero che porta al passo del Nefalgiù, che troveremo proprio quando il sentiero basso incrocia quello a mezzacosta e prosegue attraversandolo. Risalire fino al passo (3 ore tot) e scendere verso il lago del Vannino (tempo tot 4.15). Possibile pernottamento al rifugio Margaroli se si desidera spezzare la tappa. ( tel. 0324 63155)Proseguire lasciando il lago alla sinistra e risalire verso l’alpe Curzalma e da qui a Scatta Minoia (dal Vannino ore 2). Scendere verso l’alpe Forno dove raccomandiamo sosta per acquisto del formaggio e visita alle stalle e caseificio.

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Proseguire fino al lago Devero, che si potrà costeggiare indifferentemente a destra o sinistra, e scendere a Crampiolo (tempo totale di tappa ore 9).A Crampiolo pernottamento alla locanda La Baita (tel. 0324 619190).

Giorno 3 Da Crampiolo alpe Devero all’alpe VegliaScendere da Crampiolo al Devero (30 min) che aggireremo in senso orario indirizzandoci verso il campeggio. Qui facilmente si trova il sentiero per l’alpe Buscagna e quindi per la Scatta d’Orogna. (tot ore 3). Proseguire in costa verso il passo di Valtendra (ore 4 tot), quindi scendere al Veglia rimanendo sul sentiero principale (tot ore 6).Pernottamento all’albergo La Fonte 0324 72576

Giorno 4 Dal Veglia al SempioneSeguire il sentiero verso destra e dopo pochi minuti imboccare il ben segnalato sentiero che sale verso la Bocchetta d’Aurona. Risalire il ghiacciaio, prestando attenzione a indirizzarsi verso il non evidente passaggio situato nel mezzo della parete rocciosa. Per la risalita del ghiacciaio è suggerito l’uso della piccozza e di uno spezzone di corda.La risalita del costone di roccia è ben attrezzata, ma essendo molto esposta si suggerisce l’attrezzatura da ferrata. Il passo si raggiunge in circa tre ore dal Veglia. Per sassaie e nevai si cammina su e giù fino a incrociare il largo sentiero che scende dal rifugio, seguendo il quale facilmente si arriva al Sempione Tempo totale ore 5.30).Per il recupero dell’auto, prendere il Postale giallo (frequenza ogni ora) fino al capolinea di Briga. Con il treno risalire fino a Ulrichen e da qui affidarsi all’autostop per la risalita al passo del Nufenen per il recupero dell’auto.

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Versione aggiornata di un classico da rifugio

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INDICE

Prefazione p.7

Introduzione p.9

Dal Nufenen al Busto p.11

Verso Crampiolo p.21

Crampiolesi per un giorno p.37

Dal Devero al Veglia p.49

Verso il Sempione p.65

Preghiera del pellegrino p.81

L’Arrivo p.83

Cartina Escursione p.94

Scheda Tecnica p.96

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Si ringrazia per la collaborazione:

Renato Pegoraro (Illustrazioni)

Michele Mancino (Prefazione e revisione di bozze)

Giuseppe Cottini (Impaginazione e grafica)

Prima edizione Novembre 2010 - Seconda edizione Novembre 2011

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