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35 Marzo 2006 trimestrale transardennese dei traduttori italiani Direzione generale della Traduzione – Commissione europea http://europa.eu.int/comm/translation/reading/periodicals/interalia/index_it.htm SOMMARIO PAG BELLA E FEDELE: L’irlandese: non tutto, ma un po’ di tutto (Cristina Cona) 2 CULTURALIA: Lorenzo da Ponte (1749-1838) (Clara Breddy-Buda) 6 ANNOTAZIONI Le lingue parlate nei Balcani occidentali e TERMINOLOGICHE: la traduzione dell’acquis (Elena Colombo, Daniela Castrataro) 8 CULTURALIA: Cartoline dall’Istria (Raphael Gallus) 12 ANNOTAZIONI TERMINOLOGICHE: Io attuo, tu recepisci, egli traspone (Giorgio Tron) 15 Comitato di redazione: C. Breddy, C. Cona, R. Gallus, C. M. Gambari, G. Gigante, C. Gracci, D. Murillo Perdomo, E. Ranucci Fischer, D. Vitali Collaboratori: E. Colombo, D. Castrataro (ex-tirocinanti) Foto: R. Gallus Grafica: A. D’Amico (Anna.D’[email protected])

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35 Marzo 2006

trimestrale transardennese dei traduttori italiani Direzione generale della Traduzione – Commissione europea

http://europa.eu.int/comm/translation/reading/periodicals/interalia/index_it.htm

SOMMARIO PAG

BELLA E FEDELE: L’irlandese: non tutto, ma un po’ di tutto (Cristina Cona) 2

CULTURALIA: Lorenzo da Ponte (1749-1838) (Clara Breddy-Buda) 6 ANNOTAZIONI Le lingue parlate nei Balcani occidentali e TERMINOLOGICHE: la traduzione dell’acquis (Elena Colombo, Daniela Castrataro) 8 CULTURALIA: Cartoline dall’Istria (Raphael Gallus) 12

ANNOTAZIONI TERMINOLOGICHE: Io attuo, tu recepisci, egli traspone (Giorgio Tron) 15

Comitato di redazione: C. Breddy, C. Cona, R. Gallus, C. M. Gambari, G. Gigante, C. Gracci, D. Murillo Perdomo, E. Ranucci Fischer, D. Vitali Collaboratori: E. Colombo, D. Castrataro (ex-tirocinanti) Foto: R. Gallus Grafica: A. D’Amico (Anna.D’[email protected])

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L’IRLANDESE: NON TUTTO, MA UN PO’ DI TUTTO

bella o fedele

Oggi che l’irlandese (talvolta viene usata la denominazione “gaelico”: di questo aspetto parleremo alla fine dell’articolo) ha acquisito pieno status di lingua ufficiale dell’UE, può essere interessante per i colleghi traduttori farsi un’idea delle particolarità di questo idioma, uno dei più antichi del nostro continente: l’Irlanda è stata infatti la prima nazione europea ad avere un corpus di letteratura nella propria lingua dopo la caduta dell’impero romano.

Diciamo innanzitutto che, all’interno della famiglia rappresentata dalle lingue celtiche, l’irlandese appartiene, assieme al gaelico scozzese e a quello dell’isola di Man (Manx), al ramo goidelico, noto anche come ramo “C”, mentre gallese, bretone e cornico formano il ramo brittonico, o “P”. Perché queste due iniziali? E' presto detto. Una delle discriminanti fra i due rami è rappresentata dal fatto che certi vocaboli iniziano con p nelle lingue brittoniche e con c (k) in quelle goideliche (probabilmente, in queste ultime, per l’influenza di un substrato preceltico). Ad esempio, "Pasqua" si dice "Pasg" in gallese, ma "Cáisc" in irlandese, mentre "quattro" è "pedwar" in gallese e "ceathair" (pronunciato “kahar”) in irlandese. Mentre all’interno di entrambe le famiglie esiste un grado talvolta elevato di comprensibilità reciproca, questa viene in gran parte a mancare fra un ramo e l’altro. Un irlandese capirà con relativa facilità il gaelico scozzese, ma non il bretone, anche se non mancherà di riconoscere diverse parole di quest’ultima lingua.

Fra le caratteristiche dell’irlandese che più colpiscono a prima vista vi sono l’aspirazione e il fenomeno cosiddetto dell’”eclisse” (urú). Entrambe servono a modificare (cambiandone anche la pronuncia) le consonanti iniziali di sostantivi, aggettivi e verbi in funzione delle regole grammaticali. L’aspirazione pone una h dopo b, c, d, f, g, m, s e t (osserviamo di sfuggita che l’alfabeto irlandese ha solo 18 lettere: mancano j, k, q, v, w, x, y e z). L’eclisse invece modifica la consonante iniziale come segue: mb, gc, nd, bhf, ng, bp, ts, dt.

Prendiamo la parola “tavolo”, che in irlandese è “bord” (termine che significa anche “ente”, e che forse in questa accezione qualcuno di voi avrà già incontrato). “Il tavolo” è “an bord” (osserviamo qui in parentesi che l’articolo indeterminativo non esiste, perciò “un tavolo” sarà sempre “bord”); se però si dice “il mio tavolo” la b iniziale viene aspirata e si ha “mo bhord” (prounciato “mo vord”). Con alcune preposizioni articolate entra in gioco l’eclisse: per riprendere l’esempio di prima, “sul tavolo” sarà “ar an mbord”, pronunciato “ar an mord” (attenzione però: “su un tavolo” è “ar bord”!). Con altre si usa invece l’aspirazione: “armadio” si dice “cófra”, e “nell’armadio” è “sa chófra”.

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bella o fedele Vi sono due generi grammaticali: maschile e femminile. A seconda del genere, in presenza dell’articolo i sostantivi e gli aggettivi possono vedere modificata con l’aspirazione la consonante iniziale. “Fear” (uomo) non cambia dopo l’articolo (“an fear”), ma “poblacht” (repubblica), che è femminile, diventa “an phoblacht”. Se il sostantivo maschile inizia con una vocale, all’articolo “an” fa seguito t- (“arán”, pane: “an t-arán”, il pane); stessa regola se il sostantivo femminile inizia con una s (“seachtain”, settimana; “an tseachtain”, la settimana). In irlandese vi sono quattro casi: nominativo/accusativo, genitivo, dativo e vocativo. L’aggettivo segue di regola il sostantivo e subisce anch’esso certe modifiche a seconda del genere, del numero e del caso. Non esistono regole univoche per la formazione del plurale.

Per quanto riguarda i verbi, l’irlandese può essere definito una lingua di preposizioni. Queste svolgono infatti un ruolo molto importante: spesso non viene usato un verbo preciso (i verbi sono tutto sommato pochi), e si ricorre invece ad una perifrasi contenente una preposizione per esprimere il concetto (un esempio fra i più semplici: “Liam ha un libro” si dice “tá leabhar ag Liam”, costruzione abbastanza simile a quella latina, che usa esse + dativo). Osserviamo poi che proprio la preposizione “ag” serve ad esprimere un’azione continua (il “present continuous” e “past continuous” inglese). "Sto mangiando”: “tá mé ag ithe”; “stavo scrivendo”: “bhí mé ag scríobh”. Da questi esempi avrete capito che nelle frasi irlandesi il verbo si trova all’inizio (seguito dal soggetto e nell’ordine - almeno quasi sempre … – dall’oggetto e poi dai vari altri complementi). Come fare allora con le frasi interrogative? Niente paura! In questi casi si inizia con una particella interrogativa (pensiamo di nuovo al latino: num e nonne), che (c’era bisogno di dirlo?) cambia la consonante iniziale del verbo. “Tu vedi il gatto": "Feiceann tú an cat". "Vedi il gatto?": "An bhfeiceann tú an cat?". “Non vedi il gatto?”: “Nach bhfeiceann tú an cat?” .

Altra particolarità: il verbo “essere” può venire tradotto con “tá” oppure con “is”; la differenza è più o meno paragonabile a quella fra “ser” ed “estar” in spagnolo. “E’ una casa piccola”: “Is teach beag é”. “La casa è piccola”: “Tá an teach beag”.

La coniugazione dei verbi non è particolarmente complicata (sospiro di sollievo) e i verbi irregolari non sono moltissimi. E’ interessante notare che, a differenza delle lingue germaniche, ma analogamente a quelle romanze, esiste l’imperfetto in contrapposizione al passato remoto.

L’ortografia irlandese si presenta a prima vista complessa, eppure è frutto di una semplificazione attuata negli anni Cinquanta. Essa si fonda sul cosiddetto “caighdeán”, o irlandese standard, che è una koiné basata essenzialmente su due fra i tre dialetti parlati in Irlanda (il terzo, l’irlandese dell’Ulster, ha caratteristiche un po’ speciali ed è il più simile al gaelico scozzese).

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bella o fedele

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Consolatevi comunque di fronte a tutte queste difficoltà: almeno l’alfabeto è quello latino. Quantunque … Sì, perché c’è una cosa denominata “Gaelic script” che si ritrova in alcuni testi, o nelle vecchie indicazioni stradali, oppure serve un po', oggigiorno, da richiamo turistico (come nelle insegne di certi pub). Pare comunque che si tratti di una “tradizione inventata” risalente al periodo vittoriano, e non ha grande importanza in sede di apprendimento della lingua.

Siccome alcuni colleghi, incuriositi, mi hanno già chiesto spiegazioni sulla formazione dei cognomi in irlandese, penso valga la pena di spendere qualche parola sull’argomento. La stragrande maggioranza dei cognomi in Irlanda è di origine o gaelica (sono i cognomi dei discendenti dei clan e iniziano con Ó - dall’antico irlandese Ua, che significa nipote (di nonno) – oppure con Mac, che significa “figlio”), o normanna, o inglese/scozzese. I normanni, che arrivarono in Irlanda nel dodicesimo secolo, adottarono lingua e usanze irlandesi (tanto da venire definiti "hibernicis ipsis hiberniores”) e i loro cognomi furono gaelicizzati: si distinguono per il fatto di iniziare quasi tutti con De, alla francese. I planters di origine inglese e scozzese, arrivati più tardi, si acculturarono molto di meno e in generale i loro cognomi conservarono la forma avuta in origine. Per vari motivi storici e culturali, la grande maggioranza dei cognomi sia gaelici che normanni viene oggi utilizzata in versione anglicizzata, ma non sono pochi coloro che usano la forma gaelica.

Prendiamo allora un cognome gaelico iniziante con Ó, ad esempio Ó Conaill. Il signor Seán Ó Conaill ha due figli: un maschio, Peadar, e una femmina, Sinéad. Il cognome di Peadar resterà come quello di suo padre; quello di Sinéad invece avrà la forma femminile: Ní Chonaill (Ní è una contrazione di “iníon”, figlia). Se Sinéad sposa Cormac Ó Domhnaill e vuole prendere il cognome del marito, diventerà Sinéad (Bean) Uí Dhomhnaill (“bean” significa donna, o moglie). Se il cognome inizia con Mac invece di Ó, la versione femminile sarà, rispettivamente, Nic (es. Nic Dhonnacha) e (Bean) Uí o Mhic (Uí Dhonnacha, Mhic Dhonnacha).

Un po’ diverso è il caso dei cognomi di origine normanna inizianti con De: qui uomini e donne, nubili e sposate beneficiano di pari trattamento. Però … (avrete già intuito che in irlandese c’è sempre un “però”) esistono alcuni cognomi normanni inizianti in versione inglese con “Fitz” (da “fils”), come Fitzgerald o Fitzpatrick; questi vengono “tradotti” o con il prefisso Mac, che per l’appunto, come si è detto, significa “figlio” (Fitzgerald: MacGearailt), oppure con il prefisso Mac Giolla, ossia “figlio del servo di” (Fitzpatrick: Mac Giolla Phádraig).

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Essendo stato la lingua della stragrande maggioranza della popolazione praticamente fino a metà Ottocento, l’irlandese ha esercitato una grande influenza sull’inglese parlato in Irlanda. Quest'ultimo è denominato dagli studiosi "Hiberno-English", o “Anglo-Irish" ed è caratterizzato da vocaboli e costruzioni sia di origine gaelica che di lontana derivazione inglese, soprattutto del periodo elisabettiano: questi ultimi sono termini caduti in disuso nella loro madrepatria (come “delph” - da “Delft” - per il vasellame e “press” per l’armadio, o credenza), ma che sono sopravvissuti grazie alla lontananza geografica (lo stesso fenomeno, che i linguisti definiscono “colonial lag”, si verificò in America).

Fra i termini influenzati dall’irlandese ricordiamo invece “bold”, usato in Irlanda quando l’inglese standard dice “naughty” e usa “bold” nel senso di “audace” (in irlandese la parola “dána” copre il campo semantico sia di “bold” che di “naughty”, e in un giorno lontano qualcuno, dovendola tradurre, prese molto probabilmente un abbaglio e scrisse “bold” laddove si parlava non di una persona intrepida , bensì di un bambino un po’ monello).

Ricordiamo poi le costruzioni tipiche dell’inglese d’Irlanda, come “I’m after having my dinner” (= “I’ve just had my dinner”), traduzione letterale dell’irlandese “tá mé tar eis mo dhinnéar a ithe”, o quelle in cui l’interrogativa indiretta viene espressa come un’interrogativa diretta (“she asked were there many people in the hotel").

Come annunciato all’inizio dell’articolo vorrei ora esaminare brevemente la vexata quaestio: “irlandese” o “gaelico”? Premesso che non sono un’osservatrice neutrale, e che propendo fortemente per “irlandese" (come del resto dispone anche il manuale di stile interistituzionale dell’Ufficio delle Pubblicazioni), penso che ci sia più di un buon motivo per questa scelta. Innanzitutto, di ordine pratico: dicendo “gaelico” si rischia di creare confusione con il gaelico scozzese (e dire ogni volta “gaelico irlandese” suona un po’ pesante). In secondo luogo, in Irlanda praticamente tutti usano la parola “Irish” e non “Gaelic” per designare la lingua (sebbene, un po’ paradossalmente, questa sia denominata "Gaeilge" in irlandese), e ha pertanto senso adeguarsi alla prassi seguita dagli utenti.

In terzo luogo, per vari motivi connessi alla storia del paese, la parola “Gaelic” ha una connotazione lievemente spregiativa, se non addirittura ostile (in quanto, relegando la lingua nella passata civiltà gaelica, implica che il suo recupero non sia d’attualità).

Per concludere, una piccola curiosità storica: fino agli inizi del Settecento il gaelico scozzese veniva correntemente designato in inglese con il termine “Irish”, e ciò ad opera sia degli osservatori provenienti dall’esterno, che degli stessi parlanti.

Cristina Cona

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culturalia

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Nell’ambito delle celebrazioni dell’anno mozartiano, un posto importante spetta di diritto a

Lorenzo da Ponte (1749-1838)

Avventuriero e intellettuale

Il racconto della lunga vita di Lorenzo da Ponte si snoda come un romanzo, un soggetto cinematografico o addirittura la trama di un’opera lirica…

Noto ai nostri giorni soprattutto per aver scritto i libretti di alcune fra le più celebri opere di Mozart, Lorenzo da Ponte è stato un personaggio eccezionale che ha attraversato l’Europa del XVIII secolo e ha lasciato la sua impronta anche nel Nuovo Mondo.

Nato Emmanuel Conegliano a Ceneda (l’attuale Vittorio Veneto), in un’umile famiglia ebraica, dimostra sin da piccolo straordinarie doti d’intelligenza. Nel 1763 tutta la famiglia si converte al cattolicesimo per consentire al padre, vedovo, di sposare una giovane cristiana. L’artefice della conversione, occasione di grandi festeggiamenti nella Cattedrale, con processione, orchestra, salve di cannone e fuochi d’artificio, è il vescovo Lorenzo da Ponte, di cui Emmanuel assume il nome e che diventa il suo protettore.

Dopo gli studi in seminario, viene ordinato sacerdote nel 1773 e si trasferisce a Venezia come precettore presso una famiglia aristocratica. La libertà, il talento e l'ambizione lo guidano nell'esplorazione della città. Se a Parigi incombe Robespierre, a Venezia c’è Giacomo Casanova, che ben presto diventa suo amico. Dopo un periodo di avventure amorose, gioco d’azzardo ed eccessi di ogni genere in balia delle tentazioni della società godereccia veneziana, è costretto a rifugiarsi a Treviso, dove insegna latino e retorica. Ben presto le sue tesi, ispirate a Rousseau, suscitano lo sdegno dei benpensanti e quindi ritorna a Venezia come precettore dei figli di Giorgio Pisani, un nobile dalle idee troppo avanzate per i tempi. Infatti, dopo l’arresto del Pisani nel 1779, da Ponte viene bandito da Venezia e dai territori della Serenissima per 15 anni. Si rifugia prima a Gorizia, poi a Dresda e infine approda a Vienna nel 1781, munito di una lettera di presentazione per il compositore di corte Antonio Salieri. Il suo talento non tarda ad essere riconosciuto e viene presto nominato poeta ufficiale dei teatri imperiali. Scrive diversi libretti per Salieri, Paisiello e Martín y Soler e conosce Mozart, che all’epoca ha venticinque anni. Inizia così un fruttuoso sodalizio fra due persone che non avevano quasi nulla in comune.

Da Ponte intuisce le esigenze di Mozart che desidera allontanarsi dalla tradizione tedesca e comporre un’opera “italiana”, un “quasi nuovo genere di spettacolo”. Nascono così Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte, con il bel linguaggio del melodramma appreso alla scuola di Metastasio e Goldoni, abbinato alle magiche note del più grande e geniale compositore di tutti i tempi. Il successo a Vienna è moderato, ma più incoraggiante a Praga. Lorenzo da Ponte scrive freneticamente anche per Salieri ed altri, aiutandosi con numerose bottiglie di Tocai e conducendo sempre una vita sre-golata. Purtroppo questo periodo di grazia è destinato a finire.

Dapprima la guerra contro i Turchi induce l’imperatore ad una maggiore austerità e successivamente, nel 1790, la morte di Giuseppe II e l’avvento di Leopoldo II, che non aveva per la musica l’amore del suo predecessore, segnano la fine di un’epoca.

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culturalia

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Destituito dal suo incarico, Da Ponte lascia Vienna per Trieste dove lo aspetta il destino, nella persona dell’inglese Nancy Grahl, il grande amore della sua vita. Malgrado si trovi in gravi difficoltà finanziarie, decide di recarsi a Parigi con la giovane moglie, essendo in possesso di una lettera di presentazione per Maria Antonietta. Per fortuna lo dissuade l'amico Casanova, che lo convince a recarsi a Londra.

Per il prossimo decennio lavora come poeta del regio teatro di Haymarket, dove all'epoca si rappresentava l’opera italiana. Purtroppo l’indole generosa lo rende vittima delle losche trame del direttore del teatro e viene imprigionato per debiti a più riprese. Non potendo più sovvenire ai bisogni dalla famiglia, imbarca moglie e figli su una nave diretta negli Stati Uniti, dove Nancy ha dei parenti. Poco dopo, nel 1805, è costretto a fuggire anche lui, per evitare il carcere.

Il resto della sua vita, oltre trent'anni e non certo il periodo meno fruttuoso, lo trascorrerà negli Stati Uniti.

A New York, per sopravvivere, in un primo momento da Ponte fa un po’ di tutto, compreso il droghiere e il proprietario di una distilleria, ma ben presto mette a frutto i suoi molteplici talenti. Scrive, traduce, insegna, allestisce opere teatrali, vende libri e con entusiasmo appassionato si dedica al risveglio culturale di una società senza tradizioni. Soprattutto importante è il suo ruolo di difensore e divulgatore della cultura letteraria e musicale italiana, che culmina nel 1825, anno in cui viene nominato primo professore d’Italiano presso il Columbia College, oggi la Columbia University di New York. I volumi di letteratura italiana che ha fatto acquistare formano ancora oggi il nucleo della biblioteca dell’università. Instancabile malgrado l'età, si dedica alla stesura delle sue Memorie, nel 1832 organizza una stagione teatrale italiana e l’anno successivo inaugura un “teatro italiano” con La gazza ladra di Rossini.

Muore nel 1838 poco prima di compiere 90 anni e una grande folla partecipa al funerale dell’illustre professore nella cattedrale di San Patrizio. Sarà sepolto nel cimitero cattolico di New York che, per lo stato di abbandono in cui versa, viene successivamente integrato nel cimitero di Queens. Dopo il 1903 si perdono le tracce della sua tomba e, anche in questo, il destino lo accomuna a Mozart.

Fortunatamente nel 1986 un’associazione italo-americana raccoglie i fondi per erigere una lapide al celebre personaggio e l’iscrizione, che riprende per sommi capi la sua vita straordinaria, è opera di Olga Ragusa, Da Ponte Professor Emeritus alla Columbia University di New York. Dalle corti dei sovrani europei, più o meno illuminati, fino alla giovane democrazia americana, con il suo inquieto peregrinare Lorenzo da Ponte è quasi l’antesignano di tanti altri che avrebbero trovato rifugio e benessere in quella terra lontana. Sui resti mortali di questo grande italiano passano tutti i giorni rombando i jet diretti all’aeroporto Fiorello La Guardia…

Clara Breddy-Buda Per saperne di più:

Anthony Holden – The man who wrote Mozart - Weinfeld&Nicholson.

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Lingue parlate nei paesi dei Balcani occidentali e traduzione dell’acquis

Dall’inizio degli anni Novanta, la situazione politica dei Balcani occidentali è caratterizzata da quella che potremmo eufemisticamente definire una grande instabilità. Tale situazione si rispecchia anche nella complessità linguistica della regione, che ha origini ben più remote. L’inasprirsi delle divisioni etnico-nazionalistiche e la creazione di nuovi Stati indipendenti hanno portato alla luce una frammentazione assai acuta. Con riferimento al quadro legale e costituzionale locale, la situazione attuale può essere riassunta come segue.

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Nonostante non sia indicato apertamente, in questo caso si fa riferimento all’albanese, parlato da circa un quarto della popolazione. In seguito a un emendamento della legge del 1998 riguardante la pubblicazione degli atti giuridici sulla Gazzetta ufficiale, le leggi (ma non gli altri atti) sono pubblicate anche in albanese. Entrambi i testi (la versione macedone e quella albanese) appaiono uno di seguito all’altro. La Gazzetta ufficiale è “pubblicata in macedone, in alfabeto cirillico”. Il macedone è una lingua slava meridionale, strettamente legata al bulgaro e con diversi elementi serbi. Nonostante la precisa formulazione di tutta la legislazione e delle dichiarazioni ufficiali a riguardo, l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia può essere considerata de facto un paese bilingue. È prevista in un futuro prossimo la discussione di una nuova legge sull’uso delle lingua.

Albania

Tra i paesi della regione, l’Albania è quello meno problematico dal punto di vista linguistico: l'albanese è la lingua ufficiale in base alla Costituzione ed è parlato come lingua madre dalla vasta maggioranza della popolazione. Le minoranze etniche e linguistiche rappresentano una piccola percentuale della popolazione totale.

La Gazzetta ufficiale è pubblicata soltanto in albanese. In Albania si parlano due dialetti principali, il ghego a nord del paese e il tosco a sud. Soltanto nel 1972, in seguito a un lungo processo, fu raggiunto un accordo per definire una lingua albanese standard basata principalmente sul dialetto tosco. È opportuno sottolineare, tuttavia, che gli albanofoni del Kosovo e della ex Repubblica iugoslava di Macedonia parlano il dialetto ghego, come i vicini abitanti dell’Albania settentrionale.

Ex Repubblica iugoslava di Macedonia

In base alla Costituzione, “il macedone (...) è la lingua ufficiale dell’intera Repubblica di Macedonia e delle relazioni internazionali. Qualsiasi altra lingua parlata da almeno il 20 percento della popolazione è considerata lingua ufficiale”.

annotazioni terminologiche

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Tuttavia “le versioni in inglese, albanese e serbo del quadro costituzionale fanno ugualmente fede. In caso di conflitto prevarrà la versione inglese”; ciononostante, il “quadro costituzionale deve essere pubblicato anche in bosniaco e turco”. La Gazzetta ufficiale è pubblicata dalla Official Gazette Unit of the Directorate of Administrative Affairs della UNMIK.

La clausola di esclusione della responsabilità, disponibile sulla pagina web che riporta la versione elettronica, sembra in parte essere in contrasto con il quadro costituzionale, in quanto afferma che la versione inglese è la versione ufficiale dei regolamenti della UNMIK e delle direzioni amministrative. Da quanto esposto finora consegue che: a) l’inglese, l’albanese e il serbo sono lingue ufficiali; b) l’inglese è primus inter pares (prevale in caso di interpretazioni contrastanti); c) l’uso delle diverse lingue rappresenta un serio motivo di preoccupazione non solo a livello centrale, ma anche a quello degli enti territoriali.

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Kosovo

In base al quadro costituzionale tutte le leggi adottate dall’Assemblea e promulgate dal rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite “devono essere pubblicate in albanese, bosniaco, inglese, serbo e turco”, mentre “tutti i documenti ufficiali del governo devono essere pubblicati sia in albanese che in serbo”.

Alla metà del XIX secolo, l’amministrazione austro-ungarica promosse la definizione di una lingua comune per serbi e croati e nei decenni successivi vari linguisti e filologi lavorarono attivamente a tale progetto. Fino al raggiungimento dell’indipendenza croata nel 1991, il serbo-croato è rimasto formalmente la lingua comune nell’intera area oggi grosso modo occupata da Serbia e Montenegro, Bosnia Erzegovina e Croazia. Le autorità della ex-Jugoslavia furono molto abili nell’imporre l'uso della lingua comune, mentre gli studiosi croati cominciarono ad evidenziare le peculiarità della propria lingua già dalla fine degli anni Sessanta. Dopo l’indipendenza, è stata attuata una politica di differenziazione netta del croato dalle altre lingue slave centro-meridionali e in particolare dal serbo. Negli ultimi anni sono stati pubblicati nuovi testi di grammatica e nuovi dizionari e l’Istituto per la lingua e la linguistica croata si è mostrato attivo sia nel comprovare l’autonomia linguistica del croato attraverso i secoli, sia nel fornire alcune basi prescrittive per l’uso della lingua. Tuttavia, è un dato di fatto che persino i linguisti serbi ammettano che da un punto di vista socio-linguistico, il serbo e il croato sono due lingue standard piuttosto simili.

Croazia Il croato è la lingua ufficiale della Croazia. È basato sul dialetto stokavo, come le altre lingue slave centro-meridionali, tra cui il serbo e il bosniaco, quasi del tutto intercomprensibili tra loro.

annotazioni terminologiche

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annotazioni terminologiche

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La lingua conosciuta fino all’inizio degli anni Novanta come serbo-croato ha in seguito semplicemente preso il nome di serbo. Il serbo è anch’esso basato sul dialetto stokavo. La carta costituzionale dell’Unione di Serbia e Montenegro non contiene alcun riferimento all’uso delle lingue. La Costituzione della Repubblica di Serbia afferma che la lingua ufficiale è il serbo-croato; la Costituzione della Repubblica di Montenegro entra tuttavia più nel dettaglio, specificando che la lingua ufficiale è la lingua serba basata sul dialetto jekavo. La sfumatura è importante.

Lo jekavo è una delle tre principali suddivisioni del dialetto stokavo, insieme all’ekavo e all’ikavo. Dal momento che in Serbia la variante prevalente è l’ekavo, asserire che in Montenegro la lingua ufficiale è invece il serbo-jekavo apre la porta a possibili rivendicazioni di “autonomia linguistica”. Nel censimento del 2003, più del 20% della popolazione ha indicato il “montenegrino” come lingua-madre (il 60% ha indicato il serbo). Nell’ottobre 2004, ha avuto luogo a Podgorica una Conferenza internazionale sulle norme e codificazioni della lingua montenegrina, organizzata dall’Istituto per la lingua e la filologia montenegrina. Il governo attuale sembra anche considerare in modo favorevole il riconoscimento del montenegrino quale lingua indipendente.

Serbia e Montenegro Mentre la Croazia ha a lungo opposto riserve all'idea di una lingua serbo-croata “unificata”, lo stesso non può dirsi per la Serbia. Di conseguenza, il serbo non è stato sottoposto al forte rinnovamento linguistico di cui è stato oggetto il croato.

In base alla Costituzione della Federazione di Bosnia ed Erzegovina le lingue ufficiali sono la lingua bosniacca[1] e la lingua croata; la Costituzione della Republika Srpska afferma che la lingua serba basata sui dialetti jekavo e ekavo è la lingua ufficiale della Repubblica. La BiH ha pertanto tre lingue ufficiali: croato, serbo e bosniaco. Il croato parlato in alcune aree della BiH (in particolare nella Erzegovina occidentale) presenta caratteristiche tipiche della lingua usata nelle regioni adriatiche della Croazia (stokavo-ikavo ma anche čakavo). Il bosniaco appartiene al dialetto stokavo-jekavo. La recente letteratura specializzata non sembra essere d’accordo con le origini e la classificazione del bosniaco. Il “Dictionary of Characteristic Words of the Bosnian Language” (di Alija Isaković, Sarajevo, 1992) indica che “la lingua bosniaca (Bosnian) non si colloca nell’ambito né del serbo né del croato”, mentre nel “Bosnian-English English-Bosnian Dictionary” (di Nikolina Užičanin, New York, 1996), l’autrice suggerisce che “la lingua bosniaca (Bosnian) è un ibrido tra il serbo e il croato”.

Bosnia Erzegovina La Bosnia Erzegovina (BiH) è divisa in due entità: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Republika Srpska. La Costituzione della Bosnia Erzegovina non contiene alcun riferimento alle lingue ufficiali.

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Il vertice di Salonicco (2003) ha esplicitamente indicato che i paesi dei Balcani occidentali hanno tutti una “vocazione” europea, sono cioè di fatto naturali candidati all’adesione all’UE. A tutt’oggi la Croazia e l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia sono gli unici due paesi della regione ad aver presentato domanda di adesione e ad essere stati dichiarati ufficialmente “paesi candidati”. Entrambi hanno iniziato a tradurre l’acquis rispettivamente in croato e in macedone. La Croazia ha già tradotto oltre 20.000 pagine di Gazzetta ufficiale, la ex Repubblica iugoslava di Macedonia oltre 10.000. Anche la Serbia e Montenegro, sebbene confrontata ad un cammino di avvicinamento all’UE che appare oggettivamente più lungo, ha già tradotto circa 1000 pagine di atti comunitari. Quale sarà il destino di queste traduzioni è difficile da prevedere.

Tranne rare e particolari eccezioni, tutti i paesi che negli anni passati hanno presentato, con esito favorevole, domanda di adesione all’UE, hanno anche chiesto e ottenuto che la loro lingua diventasse una lingua ufficiale dell’Unione. Due sono state le principali conseguenze di tale approccio: prima dell’adesione il futuro Stato membro ha dovuto tradurre tutto l’acquis comunitario nella propria lingua e sottoporlo all’UE affinché fosse esaminato in vista della pubblicazione; dopo l’adesione le istituzioni comunitarie hanno dovuto assicurare l’integrale applicazione del regolamento n. 1 del 1958, che nel frattempo era stato modificato al fine di comprendere le nuove lingue ufficiali.

Qualora ci si avviasse verso un simile esito anche nella prospettiva dell’allargamento dell’Unione a tutti i paesi dei Balcani occidentali, sarebbe comunque opportuno analizzare preventivamente la situazione linguistica sopra delineata, in modo da evitare forzate differenziazioni e, al contempo, inutili doppioni.

L’articolo è parzialmente basato su alcune note (redatte in inglese nell’estate 2005) del collega Paolo Gozzi, già traduttore dell’allora Sdt, attualmente alla DG Allargamento, che ringraziamo per la preziosa collaborazione.

Elena Colombo (ex-tirocinante) Daniela Castrataro (ex-tirocinante)

[1] L’uso della parola bosniacco invece di bosniaco ha un’implicazione politica, ma è irrilevante dal punto di vista linguistico. I bosniacchi (Bošnjaci) sono il gruppo etnico discendente dalle popolazioni slave convertite all’Islam; i bosniaci (Bosanci) sono più in generale gli abitanti della moderna BiH. Quando i bosniacchi chiamano bosniácca (bošnjački jezik) piuttosto che bosníaca (Bosanski jezik) una delle lingue ufficiali della BiH, gli altri gruppi etnici (serbo-bosniaco e croato-bosniaco) tendono a interpretare tale scelta in chiave egemonica. Ai fini di questo testo viene usato il termine “bosniaco”, in linea con la vasta maggioranza della letteratura in lingua italiana sulla questione. In inglese la dicotomia è resa con Bosnian (bosniaco) e Bosniac (bosniacco).

annotazioni terminologiche

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Passare per Trieste in direzione Slovenia è un’impresa labirintica. Cavalcavia di cemento, passanti autostradali rimasti a metà, mostruosi intrichi di deviazioni cervellotiche confondono il viaggiatore e lo sviano dalla via più naturale, quella che costeggia il mare. Le future “eurovie” si confondono con le tracce della cortina di ferro, che qui non lo era tanto ma è rimasta nei cervelli più che altrove.

Dov’è oggi l’anima di Koper, l’antica Capodistria? Il passato della Serenissima (la città diede a Venezia ben cinque Dogi) risplende addormentato, ma quello del socialismo non è da meno, se i palazzi di cemento che coprono la vista del campanile per chi entra in città dalla terraferma non mentono. Forse l’anima di questa città risuona nei passi che rimbombano nelle calli deserte di una fredda notte di bora, nella serena malinconia delle luci che si specchiano nella laguna o forse nelle insegne scritte a mano, in due lingue, che testimoniano la sopravvivenza di antichi mestieri (arrotini e calzolai, soprattutto) accanto alle nuove filiali di banche e multinazionali. E naturalmente la ritrovi nella piccola e aggraziata piazza principale (oggi è ancora piazza Tito) con la sua Loggia in stile gotico dall’elegante loggiato a sette arcate e con l'imponente Palazzo Pretorio, le cui estremità sono presidiate da due basse torrette, tagliato in due da un'arcata sotto la quale si trova la bocca del leone di S. Marco.

Mentre a Parigi infuriano le lotte studentesche, a Capodistria si festeggia il terzo compleanno della Univerza na Primorskem (Università del Litorale). La “solenne cerimonia di premiazione” dei primi dottori laureati dal giovanissimo ateneo si svolge nelle antiche sale di rappresentanza dell’austero e magnifico Palazzo rinascimentale Belgramoni-Tacco, dove si conservano reperti che vanno dall'epoca romana fino all'età contemporanea. Gli ospiti vengono dalle università gemellate: Udine, Belgrado, Graz. Un coro canta musica sacra, il rettore con tanto di mantello talare consegna i diplomi e, dopo la cerimonia, si passa al rinfresco nel cortile interno, detto anche lapidario, dove tra palme, capitelli e pini pigramente piegati al sole alcuni gabbiani saccheggiano i piatti con i resti degli squisiti prodotti che l’Università offre orgogliosa ai suoi ospiti.

culturalia

“La forza dell’Istria, lo so, ne sono certa, è nella sua bellezza.”

(Anna Maria Mori, “Nata in Istria”, Rizzoli 2005).

CARTOLINE DALL’ISTRIA

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Ma, nel suo piccolo, anche l’Università del Litorale vive una curiosa protesta studentesca.Si tratta di un “increscioso incidente” (così lo definisce il giornale della minoranza italiana), che si verifica quando alcuni inservienti comunali rimuovono dalla recinzione del cantiere per il restauro d e l l ’ A r me r i a - F o r e s t e r i a ( f u t u r a s e d e dell ’Universi tà) a lcuni manifest i che l’organizzazione studentesca, con tanto di autorizzazione della ditta edile, vi aveva affisso proprio per richiamare la scarsa sensibilità delle pubbliche amministrazioni nei confronti della cultura. Ma anche questa piccola querelle si risolve musilianamente, con una bella riunione e un comitato che decide la ristampa dei manifesti. La Slovenia non tradisce dunque la sua eredità austroungarica: ordine, innanzitutto, e tranquillità. Parigi è ancora lontana.

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Non è nel centro antico con le sue calli veneziane che i giovani trascorrono le serate. E’ come se la generazione dei ventenni sloveni rifiutasse lo stile di vita mediterraneo. Eppure immagino che siano nati tutti qui, figli dei lavoratori provenienti da tutta la Jugoslavia a rimpiazzare chi se n’era andato, l'80% degli abitanti, lasciando la città nuda e silenziosa. La vita si svolge tutta in una specie di agglomerato del divertimento di sapore vagamente americano: un nuovissimo casinò pieno di lombardi e triestini “out for the weekend”, un centro alberghiero termale, un bar dove risuona un rock metallico e i giovani bevono fiumi di birra in un’atmosfera più berlinese che mediterranea.

Scappare dal cosiddetto “Litorale sloveno”, sin troppo americanizzato, soprattutto nella capitale del divertimento Portorose (mentre Pirano conserva la sua anima nobile e bellissima, e la magnifica piazza Tartini si apre alla vista del visitatore come una magnifica conchiglia luminosa e accogliente) ed entrare nell’Istria croata è anche una fuga dalle luci al neon e dalla mania del divertimento a tutti i costi. Qui gli spazi si fanno larghi, a destra una strada corre in mezzo alla macchia mediterranea verso Punta Salvore, poi un faro (il più antico di tutta la costa adriatica orientale), gabbiani, rocce, pini e il mare finalmente aperto. Umago, con le sue mura antiche sul mare, in cui furono ricavate abitazioni di pescatori oggi trasformate in trattorie. Il campanile, dolce e assai meno maestoso di quelli di Capodistria e Isola, osserva sornione i simpaticissimi bambini bosniaci, i cui genitori trovarono qui rifugio durante la guerra balcanica degli anni 90, che giocano furiose partite a pallone sulla piazza del Duomo. Il sole tramonta, e il tiepido pomeriggio di marzo diventa improvvisamente freddo, secco e ventoso. Viene voglia di esplorare i borghi aggrappati alle dolci colline della cosiddetta Istria verde. Si passano alcuni villaggi agricoli come Materada, dove è nato Fulvio Tomizza, lo scrittore che forse ha meglio descritto la lacerazione degli istriani nella seconda metà del secolo scorso.

Una stradina tortuosa con l’indicazione bilingue “Le strade del vino” conduce a Verteneglio (Brtoniglia in croato), dove non mancano i prodotti genuini. Lo squisito prosciutto istriano asciugato dalla bora, l’aromatico vino rosso Teran che fa onore al suo nome. E’ già buio, dalle case esce un buon odore di caminetto che si mescola agli aromi di una campagna generosa che si prepara già a germogliare. Dalle cantine odore di vino appena imbottigliato. Tutti parlano dialetto istriano, è come se la lingua croata si fermasse al mare, qui sopravvive l’antica civiltà contadina veneta.

L’insegna su una porta dice “agriturismo”, ma in realtà si entra nell’intimità della cucina di

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una famiglia: la nonna sta stendendo la pasta per i fusi (una sorta di penne fatte in casa arrotolandole su una stecca di legno), la mamma affetta il salame “fatto con i nostri maiali” e il bambino di 4 anni rivolge all’ospite mille curiose domande in un antico e a quanto pare sempre vivo dialetto istroveneto. Ci si scalda al caminetto e al calore di questo piccolo mondo familiare che sembra avere scavalcato di un balzo la modernità e i furori ideologici del 20° secolo, così deleteri per la millenaria multiculturalità di questa terra.

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Qui sembra di cogliere la vera anima dell’Istria. Sapori forti, scambio, dolcezza e pudore. Uscendo dalla cucina calda, non senza avere promesso al bambino di tornare con il libro di Pinocchio “(e perché el xe de legno Pinocchio?”) si avverte la brezza di mare che si mescola alla frizzante aria di campagna.

In cambio della storia di Pinocchio mi viene raccontata un’antica leggenda istriana, che narra di tre fate, una bionda, una bruna e una dai capelli color pece, che in una calda giornata d’estate scappano verso il mare in cerca di frescura. La fata bionda si ferma a bere da una sorgente, ma alcune gocce cadono sul terreno arso e fanno germogliare alcune piante di granturco. La sorella bruna, bloccata nella sua corsa verso il mare da alcune colline, si mette a piangere disperata: dalle sue lacrime amare nascono miracolosamente una vite e un ulivo.

Solo la terza fata riesce ad arrivare al mare, si immerge nell’acqua fresca e trasparente e ne esce ricoperta di chiazze bianche: sale. La fata decide di fermarsi in riva al mare e di insegnare agli uomini come si pesca e si ricava dal mare il sale. E fu così che le genti dell’Istria ebbero in dono dalle fate i tre prodotti che le resero soddisfatte e serene: il vino, il granoturco, l’olio, il sale e il pesce. Gli stessi prodotti che ancora oggi vengono offerti da

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innumerevoli bancarelle che costeggiano le strade percorse dai turisti che ogni estate imitano le tre fate nella loro corsa verso la frescura del mare.

Grisignana è un magnifico paese abbarbicato tra i colli del Buiese. In croato si chiama Grožnian (anche qui tutte le insegne sono bilingui), ma prima ancora, nella sua lunga storia romana, poi via via friulana, ungherese, slava e per cinque secoli veneziana, si è chiamata Castrum Grisiniana e Krisignan. La vista spazia dal m a r e a l l e c o l l i n e d e l l a C i c a r i a . Dappertutto vigneti, ulivi, campi coltivati. Sembrerebbe di essere in Umbria, se non fosse appunto per il mare che luccica all’orizzonte. Ma la particolarità di Grisignana è che negli anni 60, quando l’esodo di massa svuotò molti altri paesi istriani lasciandoli alla mercé del vento e delle ortiche, si decise letteralmente di “regalare” il paese agli artisti che vi si installarono da molte parti dell’ex Jugoslavia. Ed e così che oggi i palazzetti magnificamente restaurati ospitano piccole gallerie dove si vendono quadri, ceramiche e miriadi di oggetti colmi dei colori forti e sereni di questo angolo di paradiso.

I prodotti sono genuini, buonissimi, la carne cotta sul caminetto e la grappa sanno di certezze antiche, ma il figlio degli osti è assai sveglio per i suoi quattro anni e intesse un lunghissimo discorso con l’avventore, a cui non pare vero raccontare una versione un poco riarrangiata di Pinocchio.

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I colleghi giuristi raccomandano di preferire attuazione a recepimento nella traduzione di transposition (EN, FR) in riferimento alle direttive.

Questa scelta sembra giustificata dall’uso prevalente del termine attuazione nella legislazione italiana. Si veda ad esempio l’annuale « legge comunitaria » (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee). Nella legge comunitaria 2005 (25 gennaio 2006, n. 29, GURI n. 32 dell’8 febbraio 2006) l’art. 1, comma 1 così recita :

Il Governo è delegato ad adottare (...) i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione alle direttive (…)

Nella legge comunitaria si parla esclusivamente di attuazione di direttive. Un altro testo cui si può fare riferimento è la legge 4 febbraio 2005, n. 11 Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari. Tali obblighi, è precisato all’art. 1, comma 2, conseguono

all’emanazione di ogni atto comunitario e dell’Unione europea che vincoli la Repubblica italiana ad adottare provvedimenti di attuazione.

Art. 8, comma 1 :

Lo Stato, le regioni e le province autonome, nelle materie di propria competenza legislativa, danno tempestiva attuazione alle direttive comunitarie.

Art. 9, comma 1 :

Il periodico adeguamento dell’ordinamento nazionale all’ordinamento comunitario è assicurato dalla legge comunitaria annuale, che reca : (…) c) disposizioni occorrenti per dare attuazione o assicurare l’applicazione degli atti del Consiglio o della Commissione (…)

"Io attuo, tu recepisci, egli traspone"

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In vari periodi dell’anno Grisignana ospita anche giovani musicisti provenienti da tutto il mondo e, vagando per i vicoli, si possono udire note di v io l ino, d i pianofor te e d i t romba. E’ un paese allegro, Grisignana. D’altra parte, come non potrebbe esserlo se il suo stemma comunale raffigura una mano che porge un giglio, con sopra il sole? Un’immagine semplice e solare, come l’anima dell’Istria, pronta ad offrire la sua pudica bellezza a chi avrà la curiosità e il tempo di esplorarne l’interno, dimenticando per un attimo le ferite della storia e le facili trappole del turismo di massa.

Raphael Gallus

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annotazioni terminologiche

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Tuttavia, se si sfoglia la GURI (Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana), è facile constatare che il termine recepimento è ampiamente utilizzato dal legislatore, nella stessa accezione di attuazione. Un rapido spoglio dell’annata 2005 permette di censire (salvo errore) 24 decreti di recepimento e 45 decreti di attuazione. Sembra quindi lecito pensare che, nell’uso del legislatore italiano e in questa specifica accezione, attuazione e recepimento siano perfettamente sinonimi. In un numero recente della GURI (n. 60 del 13/3/2006) si può trovare un esempio per più versi interessante, il Decreto 18 novembre 2005 Recepimento della direttiva 2004/52/CE (…) relativa all’interoperabilità dei sistemi di telepedaggio stradale nella Comunità. Nel preambolo di questo decreto si legge :

Visto l’art. 6 della direttiva 2004/52/CE, che prevede che la trasposizione della stessa negli ordinamenti degli Stati membri deve avvenire entro il 20 novembre 2005 ; Visto l’art. 229 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, che delega i Ministri della Repubblica a recepire, secondo le competenze loro attribuite, le direttive comunitarie (…) ;

È interessante notare che nel citato art. 6 della direttiva è utilizzato, anche nel titolo, il termine attuazione. Se ne potrebbe arguire che per il legislatore italiano non solo recepimento vale attuazione, ma anche trasposizione ha lo stesso significato ed è utilizzato senza scrupoli particolari.

A questo riguardo forse anche più istruttiva (si fa per dire) è la lettura della Relazione illustrativa che accompagna lo schema di Decreto legislativo recante recepimento della direttiva 2004/48/CE (…) sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale. Vi si presentano le singole disposizioni del provvedimento in questi termini :

Con l’articolo 1 si dà attuazione all’art. 5 della direttiva … L’articolo 2 recepisce l’articolo 11 della direttiva …. L’articolo 3 traspone l’articolo 8 della direttiva …. L’articolo 4 dà attuazione all’articolo 8 della direttiva …. (…) L’articolo 8 recepisce l’art 9 della direttiva … (…) L’articolo 10 attua l’articolo 9, comma 2 della direttiva … L’articolo 11 recepisce l’articolo 9 (…) della direttiva … (…) Si direbbe quindi che l’estensore della relazione illustrativa consideri perfettamente

equivalenti i termini attuare, recepire e trasporre e che ne alterni l’uso per la preoccupazione unicamente stilistica di evitare la ripetizione di una stessa formulazione. Converrà d’altra parte tenere presente che, se recepimento vale attuazione, non necessariamente è vero l’inverso, cioè, com’è ovvio, non ogni attuazione è un recepimento. Ci sono atti comunitari che contengono disposizioni (norme, modalità, ecc.) di attuazione di altri atti, nel senso che ne precisano i modi di applicazione concreta, specie quando si tratta di atti formulati in termini di principi generali. In questo caso, evidentemente, l’attuazione (o applicazione) non è un recepimento né una trasposizione. È quindi opportuna qualche cautela nel tradurre implementation, termine che spesso è impiegato nel senso di transposition, e vale quindi attuazione/recepimento, ma più spesso ha quest’ultimo significato di attuazione/applicazione (implementing measures), oltreché quello di esecuzione (implementing powers sono le famose competenze di esecuzione).

Giorgio Tron

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