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NUMERO 21|MARZO 2015 RICORDATI CHE CIÒ DA CUI SFUGGI, DIVENTA LUOGO DEL DESIDERIO IN FUGA SAMUELA (JPO Wolisso Project) www.sism.org

Marzo 2015

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Numero 21 - Marzo 2015

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NUMERO 21|MARZO 2015

RICORDATI CHE CIÒ DA CUI SFUGGI, DIVENTA LUOGO DEL DESIDERIO IN FUGA

SAMUELA (JPO Wolisso Project)

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LA REDAZIONECoordinatore di ProgettoMaria Luisa Ralli - Sede Locale di Siena

RedazioneIlaria Rossiello - Sede Locale di AnconaCarlo Chessari - Sede Locale di CataniaCaterina Pelligra- Sede Locale di ParmaNoemi Streva - Sede Locale di SienaStefania Panebianco - Sede Locale di Messina Lucia Panzeri - Sede Locale di Monza

Publications Group CoordinatorPaolo Miccichè - Sede Locale di Palermo

info: [email protected]

SISMIl SISM - Segretariato Italiano Studenti in Medicina è un’associazione no-profit creata da e per gli studenti di medicina.

Si occupa di tutte le grosse tematiche sociali di interesse medico, dei pro-cessi di formazione di base dello studente in medicina, degli ordinamenti che regolano questi processi, dell’aggiornamento continuo dello studen-te e riesce a realizzare tutto ciò attraverso il lavoro di figure preposte a coordinare i diversi settori sopraddetti sia a livello locale che nazionale.

Il SISM è presente in 37 Facoltà di Medicina e Chirurgia sparse su tutto il territorio.

Aderisce come membro effettivo all’IFMSA (International Federation of Medical Students’ Associations), forum di studenti di medicina provenienti da tutto il mondo riconosciuto come Associazione Non Governativa presso le Nazioni Unite.

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EDITORIALE di Maria Luisa RalliIL SALUTO DEL PGC di Paolo Miccichè 4IL SISM CHE CAMBIA : LA RIFORMA DEL COLLEGIO REVISORE DEI CONTI

di Carlo Chessari, Rachele Pincino, Barbara Mazzotta 5“IL TAO DELL’EDUCAZIONE...” di Felice Sperandeo 7LO STIGMA CHE È IN ME Anonimo 9FAME D’AMOREdi Serena bugnola,Valeria Meo, Alessandra Ninci, Alessandra Rallo 12TRA LUCI ROSSE E REALTA’di Chiara De Marchi 19WOLISSO: IL FREDDO D’AGOSTO CHE TI INFIAMMAdi Giulia Miglietta 21UN TRAINING “SISMISCO” IN TERRA SCANDINAVA di Enrico Zenati 24APERITIVO DI SLANCIO: LA VOCE CHE SOLO IL SISM PUÒ DARE!! di Thomas Cordaz 28RICONOSCIMENTI ISTITUZIONALI di Claudio NeidHofer 32

INDICE

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Ben ritrovati SISMici! Un augurio speciale a tutte le SIS-Miche da parte della redazione di ZS.Anche questo numero non vi deluderà per i contenuti.

Torniamo a parlare di riforme con il nos-tro Carlo Chessari ,l’Amministratore Na-zionale Rachele Pincino e Barbara Maz-zotta nell’articolo “il SISM cambia: la Riforma del Collegio Revisore dei Conti”. Claudio NeidHofer , invece, ci parla dell’iter per ottenere i riconoscimenti istituzionali per gli scambi internazionali.

In “Fame d’amore” Serena Bugnola, Valeria Meo, Alessandra Ninci, Ales-sandra Rallo ci descrivono attraver-so alcune testimonianze, i disturbi del comportamento alimentare .

Scoprite ne “lo stigma che è in me” che cosa si prova nel con-vivere con una depressione.

Chiara de Marchi fa chiarezza sulla no-tizia del quartiere a luci rosse dell’EUR

di Roma in “Tra luci rosse e realtà”.Felice Sperandeo , ci guida alla scoperta del “TAO dell’educazione” parlandoci del percorso che sta seguendo con la SIPeM.

Siete mai stati a Stoccolma? Avete mai seguito un training che tratta della sa-lute nei contesti di guerra e non solo? Niente paura ci pensa Enrico Zenati a condurvi in questa avventura nel “Training sismico in terra scandinava”

Freddo d’agosto in Africa? Da non crederci, ma niente paura Giulia Miglietta vi racconta la sua espe-rienza a Wolisso iniziata, inaspettata-mente con qualche coperta di troppo.

Infine vi auguro di prendervi un aperi-tivo di SLAncio con Thomas Cordaz e un invitato speciale una malata di SLA, per cercare di capire più da vicino ques-ta devastante malattia neurologica.

Buona lettura!

EDITORIALE

Maria Luisa Ralli

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IL SALUTO DEL PGCPaolo Miccichè

E rieccoci qui!Cosa può esserci di importante fra la Giornata Mondiale della don-na e l’inizio della primavera?!

Ovviamente il nuovo numero di Zona SISMica!!!

La Redazione è stata infuocata questo mese e come leggerete dall’editoriale di Maria Luisa ne abbiamo per tutti i gusti (e tutti gli interessi!!!)

Ho avuto modo di leggere tutti gli arti-coli con calma e vi assicuro che tra frasi d’effetto e racconti in cui è facilissimo

immedesimarsi, questo numero vi las-cerà di stucco.

Vi invito nuovamente (come se ce ne fosse bisogno) a lanciarvi in ques-ta avventura e a contattarci se vo-lete scrivere un pezzo per il giornale! Non esitate!

E non finisce qui!Tantissime cose bollono già in pentola per i prossimi mesi perciò godetevi ques-to numero straricco e restat sintonizzati sul nostro sito e sul nostro canale ISSUU per tante novità!

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IL SISM CHE CAMBIA: LA RIFORMA DEL COLLEGIO REVISORE DEI CONTI

Anche dal punto di vista amministrativo il SISM ha vissuto un cambiamento impor-tante, durante il XLV Congresso Nazionale tenutosi lo scorso novembre: la Riforma del Collegio Revisore dei Conti (CRC).In realtà la Riforma, proposta dall’Amministratore Nazionale Ra-chele Pincino, pone le sue radici all’inizio del 2014, con la creazione di una apposita Task Force composta dall’Amministratore Nazionale e da 5 Amministratori Locali, coordinati da Barbara Mazzotta della Sede Locale di Roma la Sapienza. Lo scopo della Task Force “Riforma del Collegio Revi-sore dei Conti” era quello di rivedere il ruolo del CRC all’interno del SISM, ampliando il contributo di questo organo. In questo modo, il lavoro di compilazione del bilancio da parte degli Amministratori Locali sarebbe diventato più semplice, completo e preciso, in modo da utilizzare lo “strumento” bilancio al massimo delle sue potenzialità: non solo garan-tendo massima trasparenza, tramite una sua accurata compilazione, ma anche sfruttandolo come una vera e propria “vetrina” per ogni Sede Locale e per il SISM Nazionale, permettendo a chiunque di poter vedere come vengono gestite le risorse e quan-ti fondi richiedono le singole attività.

-La riforma del CRC rappresenta un importante passo verso una gestione sempre più trasparente e consapev-ole delle nostre risorse - ci spiega Ra-chele Pincino -Il nuovo foglio di Bilan-cio, mantenendo sia il vecchio format del libro giornale e aggiungendo altri nuovi strumenti permette agli Amminis-tratori di sperimentare metodi sempre più efficaci per la gestione delle risorse di Sede Locale, rendendolo anche più facilmente fruibili da parte di esterni. Altro scopo di questa riforma è quello di migliorare le skills degli Amministratori Locali in materia di rendicontazione, competenza estremamente preziosa soprattutto in ambito di fundraising-.

Prima dell’approvazione della Rifor-ma, il CRC era composto da 3 mem-bri, a cui era attribuito principalmente il compito di rivedere il bilancio del SISM Nazionale e degli eventi nazion-ali maggiori. Con l’introduzione della Riforma i componenti del CRC sono stati ampliati ad un numero di 5, eletti an-nualmente durante la Seduta Autunnale del Congresso Nazionale. Ad essi sono preposti il monitoraggio dell’attività degli Amministratori Locali durante tutto l’anno, tramite on-line meeting in itinere, e la redazione di un end term report alla fine dell’anno, oltre alla revisione dei bilanci del SISM Nazionale e degli eventi maggiori facenti già parte nelle passate competenze dell’organo.I componenti del CRC sono quindi sta-ti rivisti non solo come revisori, m a in chiave di veri e propri collaboratori sia degli Amministra-tori Locali che dell’Amministratore Nazionale: la figura del “Buddy CRC”, ovvero un concreto supporto agli Am-ministratori Locali durante l’anno associativo, permette un aiuto nella compilazione del bilancio stes-so e un’attività, complanare a quel-la dell’Amministratore Nazionale, di monitoraggio delle risorse locali.Barbara Mazzotta commenta il lavoro e i risultati della Task Force: “Il lavoro della Task Force è stato quello di riformare un organo del SISM con tan-tissime potenzialità, molte delle qua-li poco sfruttate. Spesso la gestione amministrativa delle Sedi Locali e dell’Associazione tutta è considerata poco interessante, solo noiosa buro-crazia, ma per quanto mi riguarda la vedo come una sfida, un modo per comprendere ed applicare ragiona-menti di gestione economica e ammin-istrativa ed è anche un modo per am-pliare le nostre conoscenze e le nostre capacità. Tutto questo però non è né facile né immediato per noi studenti in Medicina. Il senso della riforma del CRC è stato quello di creare un organo che dia un sostegno amministrativo du-rante tutto l’anno alle varie Sedi Locali,

Carlo Chessari, Rachele Pincino, Barbara Mazzotta

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introducendo un nuovo format di bi-lancio più funzionale e trasparente. I membri del CRC saranno dei punti di riferimento per gli Amministratori per affrontare e risolvere qualsiasi tipo di problema o dubbio. Lavorare a questa riforma è stato davvero stimolante e tutti i membri della Task Force hanno dato un fantastico contributo per creare qualcosa di innovativo, funzionale e pratico per poter dare una “nuova vita” al vecchio CRC “.

Il lavoro dell’Amministratore Locale si baserà su un nuovo format di bilancio, composto da quattro parti: il bilancio vero e proprio, con le spese disposte in ordine analogico per area tematica; il libro giornale con elenco di spese in ordine di data; il bilancio preventivo da compilare a inizio anno; l’elenco di eventuali debitori o creditori.L’elezione dei componenti del Colle-gio Revisore dei Conti è regolamentata dal Regolamento Interno, che prevede l’elezione, a maggioranza relativa, dei 5 candidati che abbiano ottenuto più voti dal Congresso Nazionale. Il CRC el-egge un coordinatore al proprio interno, invitato a partecipare alle sessioni del Congresso Nazionale. Non possono can-didarsi due soci di una stessa Sede Lo-cale contemporaneamente e la candida-tura è preclusa ai membri del Consiglio Nazionale che abbiano ottenuto la cari-ca durante la stessa Sessione Autunnale del Congresso.La Riforma del Collegio Revisore dei Con-ti, discussa e approvata all’unanimità dal Congresso Nazionale, darà un nuovo slancio al SISM, sempre più capace di costruire solide basi sulle quali crescere.

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“IL TAO DELL’EDUCAZIONE - UNA STRADA VERSO LO SVILUP-PO DELLE COMPETENZE DI LEADERSHIP EDUCATIVA E DELLE ABILITÀ DIDATTICHE PER I PROFESSIONISTI DELLA SALUTE”

“Il Tao dell’Educazione - Una strada ver-so lo sviluppo delle competenze di lead-ership educativa e delle abilità didat-tiche per i professionisti della salute”È questo il titolo del nuovo corso SIPeM (Società Italiana di Pedago-gia Medica) offerto agli studenti SISM ed, in generale, a tutti i (fu-turi) professionisti della salute.Ma andiamo per gradi: qua-li sono gli obiettivi del corso?A questa domanda possono darci ris-posta le parole del Professor Fabrizio Consorti, Presidente della SIPeM e Docente presso l’Università la Sapi-enza di Roma ed ideatore e respon-sabile del “Tao dell’Educazione”:

“Gli obiettivi di questo corso potreb-bero sembrare eccessivi: riassumere in pochi moduli più di un secolo di pensiero pedagogico e le sue applica-zioni nella didattica per le professioni di cura. Indubbiamente, così dichi-arati, essi evocano l’immagine di un riassunto frettoloso, un po’ scolastico.Lo scopo invece è principalmente quello di accompagnare il parteci-pante lungo un percorso di riflessione personale sulla propria attitudine ad essere un educatore, a partire dalle proprie esperienze di formazione. Durante il corso viene proposta una lettura del ruolo dell’educatore attra-verso due punti di vista fondamentali:il punto di vista della complessitàil punto di vista della leadership

Il tratto in comune fra i due ap-procci è quello di una visione dell’educazione come trasformazi-one, non solo del discente ma anche dell’educatore, inevitabilmente coin-volto nei processi di riorganizzazione del sapere e di produzione di senso.Il corso è organizzato per bloc-chi settimanali. Durante ogni setti-mana sono proposte letture e at-tività di produzione autonoma (scritti, discussioni su forum).Più che un corso, è un per-corso da esplorare insieme. Non ci sono test

perché, data la natura dichiarata di questo corso, non riteniamo fon-damentale valutare formalmente l’acquisizione della conoscenza di te-orie e fatti. La valutazione sarà intera-mente affidata allo svolgimento delle attività di produzione che verranno proposte e sarà determinata in coop-erazione fra partecipanti e docenti.”Numerosi sono gli argomenti trattati ed approfonditi con letture specifiche e discussioni. Tra questi ritroviamo temi riguardanti la leadership e formazi-one, tutorship e coaching, la gestione dei conflitti, la gestione del cambia-mento. Vengono introdotte anche le teorie alla base della pedagogia: com-portamentismo, cognitivismo, cos-truttivismo. Infine , a conclusione del percorso, vengono discussi temi di più stretta attualità sulla formazione uni-versitaria: la progettazione educativa per competenze, la valutazione de-gli esiti di apprendimento, la valutazi-one della qualità della formazione.

Numerosi sono anche i partecipanti al corso. Più di 20 studenti e neo-laureati provenienti da tutta Italia: da Brescia a Palermo, passando per Roma, Firenze, Siena, Bologna, Bari, Catanzaro, Messina. Ma non siamo solo studenti di medicina! Infatti la SIPeM, tenendo fede alle sue tradizioni as-sociative di interprofessionalità, ha creato questo percorso non solo per gli studenti di medicina, ma anche per infermieri ed osteopati. Tutto ciò contribuisce ad arricchire ques-ta esperienza altamente formativa.Attualmente siamo giunti alla quar-ta lezione settimanale e lo scorso fine settimana abbiamo avuto il primo incontro (dal vivo o via on-line meeting) di ricapitolazione.Il percorso è ancora lungo, a volte impegnativo, ma non totalizzante (siamo tutti riusciti a superare anche la sessione di esami conclusa). Sicura-mente è un corso molto stimolante per tutti noi partecipanti che con en-tusiasmo abbiamo applicato a questa

Felice Sperandeo

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opportunità. Esplorando sia temi assolu-tamente nuovi, sia temi apparentemente conosciuti ma di cui ignoravamo impor-tanti aspetti, stiamo iniziando a muo-vere i primi passi nel vastissimo, e fino ad ora a noi quasi del tutto sconosciuto, mondo della “Pedagogia Medica” intesa come una vera e propria disciplina scien-tifica che si fonda su solide basi teoriche supportate da evidenze sperimentali.Nei prossimi mesi, a conclusione del “Tao dell’Educazione”, vi racconter-emo le nostre impressioni conclusive, sia di partecipanti che di formatori.Siamo grati al Prof. Consorti e a tutta la SIPeM per aver promosso questa op-portunità di crescita ed aiutarci così ad essere sempre più protagonisti della nostra formazione universitaria.

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Credo che il mio castello di certezze si sia definitivamente sgretolato quan-do mi è stata prospettata l’assunzione di psicofarmaci. Sono stata davvero brava: ho risposto che nonostante fossi molto spaventata all’idea, non mi sarei tirata indietro: “Sono de-terminata a venirne fuori” ho det-to alla psichiatra e all’educatrice.Ho taciuto loro solo un piccolo, irrilevante pensiero… perché alla fine non dovrò prendere farmaci per sempre, no?

Faccio psicoterapia da sei anni, da pri-ma dell’ultima crisi depressiva durata ben due, di cui non ricordo un granché, a parte la grande stanchezza di svegli-armi ogni giorno. Conosco quel senso di solitudine, di isolamento, perché nes-suno può capire cosa stai passando. Mi sta bene la terapia integrata con riedu-cazione, altra psicoterapia, laboratorio teatrale, colloqui con i miei genitori (ommioddiocheansia!). Però ho bisogno, adesso, di una bussola per uscire da un banco di nebbia fitta, qualcosa che renda meno insormontabili gli ostacoli, quel pizzico di fiducia che mi consenta di ricominciare a vivere la mia vita, con impegno e fatica (perché non mi il-ludo che possa essere tutta in discesa).Voglio costruire qualcosa di mio, ami-cizie, una relazione, un futuro profes-sionale... una volta che sarò più sicura sulle mie gambe potrò smettere, no?

Io posso reagire, sono motivata, ho chiesto aiuto tutto da sola, quindi non sono un caso irrecuperabile. Eppure… a voi non ricorda la frase usata ed abusata: “Se ci provassi seriamente, con più ostinazione, con più impegno, ce la potresti fare anche da sola” ?Insomma, sto solo cecan-do la strada più facile?Che il raggiungimento della beatitudine attraverso una vita di sofferenze e ri-nunce sia un’attitudine culturale, con un occhio particolarmente critico verso le donne, è cosa affermata da molti au-torevoli studi. Quindi la risposta a “che male c’è a rivendicare il proprio dirit-

to alla felicità?” è viziata da un’idea di felicità grandiosa e mistica, che prende in considerazione progetti maestosi e dimentica le piccole gioie quotidiane, ad esempio passare del tempo di qual-ità con le persone a cui si vuole bene.Perché dovrei ostinarmi a percorrere una strada tortuosa e brutta, che non sono più sicura di dove conduca, se posso provare ad intraprenderne una al-ternativa? Non dico un’autostrada, ma una provinciale invece che uno sterrato!Non sto scegliendo di assumere sostanze stupefacenti che possono danneggiare irrimediabilmente il mio cervello e la mia vita, ma un farmaco che possa dare inizio ad un circolo virtuoso: una pillola, uno scalino, un amico in più. Una pillola, due scalini in più, mezza giornata di studio. Una pillola, die-ci scalini, una serata in compagnia. Una pillola, cento scalini, presentarsi alla prossima sessione d’esami. Una pillola, mille scalini, abbracciare i miei genitori senza sentirsi fagocitata.Non sto chiedendo un incantesimo che faccia svanire tutto, ma di avere la possibilità di costruire la mia vita.

Quando si parla di stigmatizzazione della persona che vive con un disturbo psichiatrico, si ricorre spesso al para-gone “se avessi il diabete, avresti dubbi nell’assunzione di farmaci vita natu-ral durante?”. Ovviamente no, ma...Ma il diabete non è una malattia psi-chiatrica: avete mai visto un diabete di tipo 1 guarire spontaneamente? Si può vivere con il diabete, contr-ollare il diabete ma non guarire dal diabete, quindi non definireste mai il diabete come una “fase della vita”.Io vedo il disturbo psichiatrico più sim-ile ad una polmonite batterica: esiste la possibilità che il sistema immuni-tario risponda in modo efficace, il che non esclude danni permanenti, perciò voi prendereste mai in considerazi-one di non prendere gli antibiotici per tutto il tempo necessario? Rischiando di morire nella speranza di guarire?

LO STIGMA CHE È IN ME

Anonimo su richiesta

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I disturbi psichiatrici sono controversi, molto diversi tra loro ed influenzati da mille fattori (e quindi suscettibili a re-gressione anche in relazione a questi, che possono essere affetto, lavoro, clima politico e sociale, imprevisti) ed il fatto che alterino la percezione della realtà li rende incredibilmente spaven-tosi. Ci pone di fronte a un grosso limite dell’esistenza, ovvero che se la percezi-one della realtà è influenzabile, può var-iare da individuo ad individuo e di con-seguenza non esistono verità assolute. In passato, il marchio di avere una malattia mentale comportava perse-cuzione, svalutazione ed alienazione. Si dava per certa l’incapacità totale ed immutabile del “pazzo” di effettu-are scelte, di prendersi cura di sé e de-gli altri e di pensare in modo coerente.Nell’ultimo secolo la figura del malato si è evoluta in quella di una persona che ha una malattia, quindi non intrin-seca in ogni aspetto del soggetto; la cui accettazione, tuttavia, sfocia ancora nell’idea pietosa, a volte reale, che il soggetto non risponda di sé e che quin-di non sia imputabile delle sue azioni.Non parliamo di atti giuridica-mente rilevanti, ma di piccole cose: l’essere spendaccione, scontroso, in-fedele, permaloso e inconcludente.Cosa c’è di semplice nel chiedere di assumersi la responsabilità del-la timidezza, di ogni scoppio d’ira, del non riuscire a seguire una dieta, dell’essere irrimediabilmente pigra o del non aver passato un esame?“Scusa. Sono depressa, non ho il control-lo sulle mie azioni, sono priva di volontà” non sarebbe più ammissibile: forse un amico lo accetterebbe, ma io non potrei mai più compatirmi. Quindi, quale pen-sate sia realmente la via meno faticosa?Ciò che più mi manda in pezzi è che queste osservazioni, questo rifiuto e questa paura non vengono da fu-tili incontri o conversazioni casuali.

Lo stigma io ce l’ho dentro.Quando ho chiesto al gruppo di psico-terapia di cui faccio parte (composto per lo più da psicologhe o aspiranti tali) e alla mia psicoterapeuta di aiutarmi ad accettare questo percorso, loro in primis si sono schierate tutte contro qualsiasi supporto farmacologico, riba-dendo che è una scelta da codardi. Va bene provare altro, allontanarmi da casa e ridefinire le aspettative ...ma il farmaco “proprio non lo concepisco”.

Ma quindi, se fossi paraplegica mi con-sigliereste di accontentarmi di vivere in casa e ridefinire le mie aspettative, o di prendere un buon ausilio e battermi per servizi efficienti e piena accessi-bilità dei luoghi pubblici agli invalidi?

Il mio castello di certezze si è sgreto-lato definitivamente non per un peso insormontabile, ma perché le fonda-menta non erano elastiche. Non era-no abbastanza duttili da accettare un cambiamento, un imprevisto, la mia fallibilità. Ognuno professa la sua re-ligione come l’unica via possibile: il che mi rende uguale a tutte quelle deprecabili persone che proprio non capiscono la malattia mentale, che al-lontanano il diverso come se fosse un per-icolo, che si fanno guidare dalla paura.Oggi comprendo che l’approccio inte-grato al disturbo psichiatrico non è solo l’insieme di più metodi che vanno ad agire su differenti aspetti della malat-tia e della persona che vive con quella malattia ,ma un’apertura alle differ-enze interpersonali e all’imprevisto.

Questo scritto non vuole essere un’invettiva contro categorie specifiche.

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Ognuno di noi è sensibile ad alcune tematiche più che ad altre, comprende alcuni argomenti che ad altri riman-gono inafferrabili, ma possiamo ambire alla pluralità di idee (possibilmente che siano scientificamente valide) ed il rispetto di essa. Come studenti di medicina e futuri medici possiamo impegnarci a combattere lo stigma che portiamo dentro di noi e dissem-inare informazioni corrette e utili tra la popolazione, in modo che coloro che sono predisposti ad apprenderle pos-sano essere vettori di un cambiamento, e coloro che hanno bisogno di aiuto non divengano facile preda di impostori.Nonostante tutta questa consapevolez-za, non pretendo di aver scritto un arti-colo pregno di verità ineluttabili. Non so come andrà a finire questa storia; spero solamente che, quando riabbraccerò il mio più caro amico, sarò davvero in gra-do di dimostrargli tutto il mio affetto.

Serena Bugnola, Valeria Meo, Alessandra Ninci,Alessandra Rallo

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FAME D’AMORE

L’anoressia nervosa, il più conosciuto dei disturbi del comportamento ali-mentare, è caratterizzata dal rifiuto nei confronti del cibo, associato in al-cuni casi a periodiche abbuffate a cui di solito fanno seguito meccanismi di compenso quali induzione del vomito, uso di lassativi e/o diuretici, attiv-ità fisica estenuante e digiuni prol-ungati che hanno lo scopo di evitare l’aumento di peso. Il soggetto, infatti, non accetta di mantenere un peso nella norma e si vede estremamente gras-so, nonostante l’evidente magrezza.

Lo chiamo il mio mostro. È entrato nella mia vita senza che io me ne accorgessi e durante quelli che sono gli anni più folli e spensierati si è preso tutto: le ami-cizie, la voglia di mettermi in gioco, il rapporto con la mia famiglia. Tutto ha avuto inizio con la semplice riflessione sul piacere che il cibo provoca: un pi-acere che poteva essere messo a tacere. Perché mi è sempre stato insegnato che il piacere è deleterio, che solo il sacri-ficio porta a dei risultati. Che non c’è spazio per altro; divertirsi è una colpa, frequentare un ragazzo è una colpa, coltivare un hobby che mi distragga dal-lo studio è una colpa. A casa, molti ar-gomenti erano tabù: importava solo che avessi buoni voti, che avessi una perfet-ta condotta morale e che fossi educata e silenziosa. Non bisognava avere dei rapporti umani troppo stretti, rivelarsi e confidarsi, perché, a detta di mamma, mantenere le distanze è meglio. Io non mi ritenevo grassa, anzi, potrei affer-mare che mi piacevo: ma quei 4-5 chili, sarebbe stato fantastico perderli. Ini-ziai con una dieta che può considerarsi molto corretta. Quando poi ho iniziato a perdere i primi chili, i primi obiet-tivi non mi bastavano più, e continuavo a nutrirmi sempre meno. Potevo avere di più, avere il controllo di quel fisico. Inizialmente mi sentivo alla grande. Mi veniva detto che ero brava, che ero in formissima. Poi iniziarono i capogiri e la sensazione di svenire. Ed io me neil

compiacevo. Ogni giorno la mia mente lavorava con uno solo scopo: mangiare il meno possibile, sfidare il mio corpo portandolo a consumare tutto…Tutto. Correvo fino a star male nella perenne lotta con un numero, quello che tutte le mattine vedevo comparire sulla bilancia. Quel numero era in grado di far comin-ciare bene o male la giornata: se lo ve-devo scendere, mi sentivo onnipotente, ma se lo vedevo statico o addirittura in rialzo, la frustrazione mi pervadeva, e piangevo finché non mi bruciavano gli occhi. Odiavo la mia stessa vita, il corpo ad esso associato, odiavo la mia carne, il mio essere così “terrena”; Dio solo sa quante volte ho chiesto di pot-er vivere come solo spirito. Ma anche quando dopo una classica crisi di pianto mi rendevo conto che potevo cambi-are, che volevo cambiare, sentivo che il mostro continuava ad impormi i suoi assurdi schemi, arrampicandosi lungo la mia mente. Ricordo un momento in par-ticolare: ero andati in un pub e quella sera avevo indossato un vestito taglia 38 che avevo fieramente acquistato quello stesso giorno. Mi sentivo quasi bene, quasi nei canoni in cui mi ero imposta di rientrare. Colpivo gli estranei, atti-ravo qualche fischio. Non mi dava gioia. Ormai realizzavo tutto ciò. Tornai a casa stanchissima il giorno dopo, a pranzo mangiai pochissimo e quando mi chia-marono per la cena cominciai a passare il cibo nel piatto di papà. Mamma ten-tava in tutti i modi di infilare qualche caloria in più nel mio piatto (e se non lo faceva, io comunque lo credevo). Papà fino ad allora non aveva mai detto nul-la. Nulla. Anche quella sera non fiatò, ma agì direttamente. Mi vide passare il mio cibo nel suo. Si avvicinò al tavolo, prese il suo piatto, lo alzò e lo scagliò con forza sopra il mio. L’immagine della ceramica sbriciolata mista al cibo sparsi per tutta la cucina è ancora viva nella mia mente. Papà era sempre stato tran-quillissimo. Calò il silenzio e tutto ri-mase immobile per un po’. Quella sera confessai quello che ogni giorno pro-vavo. Quella sera chiesi aiuto e soprat-

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tutto mi imposi di svoltare, per un mo-tivo molto molto semplice: desideravo essere felice, desideravo amare, es-sere amata, desideravo essere ascol-tata, per la prima volta in vita mia.

La bulimia nervosa, disturbo tanto complesso quanto sottovalutato, com-porta il verificarsi di frequentissimi epi-sodi di abbuffate durante le quali il sog-getto sente di perdere completamente il controllo, ingurgitando ingenti quan-tità di cibo . Tali episodi sono seguiti da condotte di compenso o di eliminazione. In passato si pensava erroneamente che fosse meno invalidante rispetto all’anoressia nervosa, anche perché il paziente risulta spesso normopeso; proprio questa caratteristica rende la patologia così pericolosa ed insidiosa.

7:00 del mattino. Maledetta sveglia, anche oggi mi riporta alla realtà e mi strappa via dal mio rifugio onirico. Come ogni mattina, sollevare le palpebre mi provoca la stessa fatica dell’alzare da terra un macigno, quello che mi grava dentro da sempre e che mi impedisce di vivere. Spendere i 40 € che mi ha regalato mio padre in biscotti, gelato, chips e merendine, per poi vomitare tutto a più riprese, mi fa sentire sem-pre così... Vuota, indifesa e ferita. Ep-pure continuo a farlo; l’’ho fatto anche ieri. I miei genitori sono separati, ed io nel weekend vado a trovare mio pa-dre, che continua a farsi i fatti suoi e non mi degna di un secondo delle sue

attenzioni: continua a lavorare, cerca di comprarmi coi suoi soldi dicendomi: “Credo preferiresti trascorrere questo tempo insieme ai tuoi amici o andando al cinema, piuttosto che con me che sto qui, a lavorare. Tieni, cara, divertiti”. Io, invece, vorrei urlargli che non ha capito niente, che ho bisogno di un ab-braccio, di essere ascoltata, di sentirmi davvero amata e che questo amore mi sia dimostrato con il tempo trascorso insieme a me. Non col denaro: del suo denaro non me ne faccio nulla! Le mani tremano,gli occhi sono strabuzzati dalla fatica e pulsano come le vene sui miei polsi, dopo ogni appuntamento al bagno per disfarmi di tutto. Sputo sangue. Una volta ho sputato anche un dente. Ieri erano le 8 di sera quando è successo.Ero appena tornata a casa di mia madre, dove vivo. Lei è rincasata un attimo dopo la fine del mio ultimo “rituale”: ero an-cora tremante e accucciata per terra, quando ho sentito il portone aprirsi.Ho subito pensato a ricompormi e ad eliminare le prove, terrorizzata da cosa sarebbe successo se mi avesse scoperta. Invece non è successo pro-prio niente. Non ho fatto in tempo ad alzarmi, dal momento che non avevo in corpo alcuna briciola di forza; lei mi ha trovata lì, nel “luogo del misfatto”. “Anna, ma che fai lì per terra, a non far nulla? Dai, alzati ed aiutami a sis-temare la cucina, hai lasciato cartacce e residui di cibo dovunque. Hai invi-tato delle amiche mentre ero via? Ma non dovevi andare da tuo padre? Beh,

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comunque siete proprio delle ingorde. Forza, su!”. Perché nessuno vede, sente, capisce. Perché a nessuno importa. Per-ché io sono trasparente, evanescente, io sono nulla. Io sono ingorda, come ha detto mamma. Ma per oggi ho già i miei schemi: andare a correre (minimo per 12 km), andare all’università, tornare a casa e (ovviamente) saltare il pranzo: tanto mamma non se ne accorge ne-anche se mangio o meno, e qualora ne accorgesse, non le importerebbe. Poi, un’ora di cyclette, studio un po’, esco (così mi distraggo dalla fame dato che non cenerò), torno a casa, qualche goc-cia di valeriana così durante la notte non mi sveglio per mangiare, e subito a letto. Così avrò pagato per le mie colpe. Allora mi vesto, metto le scarpette da ginnastica, prendo le chiavi, vado in cucina. Noto che nel sacchetto della spesa è rimasto un pacco di wafer che non avevo visto ieri (e che se avessi vis-to, avrei divorato). Dai, ne prendo solo uno... Due... Ma non mi basta, ho già finito il pacco. Ingurgitando tutto senza gusto, senza fame. Meccanicamente e voracemente... Non posso più fer-marmi! Ma a casa non è rimasto nulla, fuorché ciò che sta nel freezer. Divoro pure quello: cornetti, piselli ed un pani-no, il tutto surgelato. Ancora non basta: pasta cruda. E poi scavo nella spaz-zatura, mi lancio sugli avanzi. Segue il momento della punizione: due dita in gola ed una lametta sulle braccia. Così, guardando le ferite, sentendo quel do-lore, ricorderò quanto sono colpevole. Chiudo gli occhi, distesa nel mio nulla, e ancora, ancora, come sempre, come ogni volta, mi ripeto: “da domani”.

Il binge eating disorder, ancora poco conosciuto nonché molto sottovalutato, si caratterizza per abbuffate frequenti e del tutto simili a quelle bulimiche. In questo caso, però, il soggetto non mette in atto meccanismi di compenso, motivo per cui la patologia determina obesità.

Da quando Emma mi ha lasciato, non ri-esco più a trovare la forza per andare avanti, non ho più motivazione: da lei dipendeva la mia felicità, il mio modo di affrontare le giornate. Dopo quel male-detto giorno di Febbraio, la mia vita è stata un lento declino: non riesco più a studiare, ad impegnarmi in qualcosa e a portare a termine ciò che inizio. Quotid-ianamente sono pervaso da un senso di fallimento che diventa più forte di tutto

il resto, di tutto ciò che di positivo c’è in me e che è seppellito da qualche parte. L’unica mia fonte di piacere mo-mentanea è il cibo: trovo estremamente gratificante mangiare tanto, a tutte le ore, e soprattutto cioccolato e patatine fritte, i miei alimenti prediletti. Li con-sumo davanti alla tv, che guardo per diverse ore al giorno dal momento che sento di non avere la forza di fare altro. La sera esco con gli amici, l’aperitivo è diventato un appuntamento pressoché giornaliero, ormai, e a questo segue, di solito, una pizza coi miei coinquilini o quel che capita, comunque sempre cibi veloci, precotti, surgelati o com-prati alla rosticceria sotto casa. Con un boccone tra i denti, per un attimo mi sento felice. Ma subito dopo, continuo ad essere il solito frustrato: l’unica cosa che mi era rimasta, un fisico invidiabile, è oramai sepolto sotto i 30 kg che ho preso in questi ultimi due anni. Oramai credo di essere arrivato ad un punto di non-ritorno. È inutile reagire: tanto vale continuare rifugiarmi in quella cosa che, anche se solo per pochi istanti, mi dà un qualsivoglia tipo di soddisfazione.

La Night Eating Syndrome ha in sé le caratteristiche del disturbo del com-portamento alimentare (il soggetto è anoressico al mattino ed assume la quasi totalità delle calorie giornaliere durante le ore serali-notturne), del disturbo dell’umore (spesso vi è co-morbilità con la depressione o i dis-turbi d’ansia) e dei disturbi del sonno.

Per me tutte le mattine sono uguali. Ini-ziano tutte con lo stesso doloroso pensi-ero che mi accompagna per tutta la gior-nata: “come ho fatto a ridurmi così?”. Questa notte è andata anche peggio del solito, ma dopo la giornataccia di ieri in ufficio e la discussione con mia madre, non potevo aspettarmi di meglio. Mi sono svegliata addirittura cinque volte, con un buco allo stomaco e un senso di agitazione latente. Ci ho provato a rimettermi subito a dormire, credetemi, ma se non avessi mangiato almeno una brioches, non sarei riuscita a placare l’ansia e ad addormentarmi di nuovo!Ormai la mia vita è un inferno e il tormen-to inizia non appena apro gli occhi, gius-to il tempo di rendermi conto che anche oggi sarà una giornataccia. Mia sorella è già sveglia, sento l’odore del caffè in-vadere pian piano anche la mia stanza.Perché non si è alzata mezz’ora dopo?

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Se la incrociassi, come al solito mi fareb-be notare che dovrà fare un salto al bar se vuole mangiare qualcosa al mattino, perché, “caso strano”, i dolcetti che fino a ieri pomeriggio erano in dispensa, ora sono spariti. Io come al solito, farei colazione con l’unica cosa che riesco a mandar giù nel corso delle mie angosci-ose mattine: due razioni gigantesche di sensi di colpa. Sapete che vi dico? Oggi esco dalla porta del retro, sono troppo codarda per affrontarla. Tra l’altro devo conservare le minime forze mentali che mi ritrovo per riuscire a sopravvivere in ufficio, dove tutti ormai mi guardano con aria compassionevole. So quello che pensano di me: “poverina, a 35 anni, senza un uomo... vive ancora con i suoi”, “è sempre triste, negli ultimi tempi la vedo trascurata: sarà arrivata a pesare almeno 120 kg!”. Ed hanno ra-gione. Negli ultimi anni la mia qualità di vita è peggiorata drasticamente, a par-tire da questo deleterio rapporto con il cibo che non mi permette di avere delle normali relazioni sociali. I vestiti non mi vanno più e la gente mi evita. Dopo 3 mesi di rifiuti, i colleghi hanno smesso di invitarmi a pranzare insieme a loro e di conseguenza i nostri rapporti si sono limitati ai convenevoli. Credo che siano convinti che a mezzogiorno io utilizzi la scusa di non avere fame, per andarmi a rinchiudermi in chissà quale fast food ad affogare i miei dispiaceri. La verità è che, nonostante le apparenze, davvero non mi va di mangiare. Fino al primo pomeriggio il mio stomaco è attivo solo perché dilaniato dal bruciore: il reflus-so, infatti, è lì solo per ricordarmi quan-to sia dannoso rimpinzarsi di spuntini dal tramonto in poi. E’ proprio questo il mio problema: le mie serate (e le mie atroci nottate) sono un continuo via vai dalla cucina, un costante spiluccare per cercare di mettere a tacere la rabbia e l’imbarazzo verso me stessa, oltre che i mille pensieri negativi che partorisco, analizzando tutto quello che di brutto mi è accaduto nel corso della giornata. Non posso continuare così. Mia madre lo dice sempre: “devi iniziare a volerti più bene!” ed io la aggredisco malamente solo perché vorrei che mi aiutasse con-cretamente, invece di dirmi cose che già so. Perché invece di giudicarmi, la gente non mi dà una mano a gestire questa situazione? Perché non mi capita mai di trovare qualcuno nella mia stessa condizione o che ci sia passato, che mi possa indirizzare verso una prospettiva

di miglioramento? Forse dovrei sem-plicemente imparare a chiedere aiuto...ma al momento proprio non ci riesco...

L’ortoressia, patologia emersa di re-cente, è caratterizzata da un’ossessione maniacale per i cibi ritenuti “sani”. L’ortoressico vive in funzione di regole standardizzate ed imprescindibili, che condizionano inevitabilmente i suoi rapporti sociali. Avviene, infatti, un progressivo isolamento che ha il fine di allontanare tutti coloro che criti-cano i suoi atteggiamenti. Le regole auto-imposte sono difficili da sradi-care poiché la propria condotta ali-mentare viene vissuta come un vero e proprio ideale da perseguire ad ogni costo, perché “il proprio benessere dipende esclusivamente dal cibo”.

“Non lo mangio perché non è salutare”: questa è la frase che più spesso mi rip-eto durante il giorno. “Quello fa male al colesterolo”, “basta dolci, fanno venire il diabete”, “no, mi dispiace, la torta non la prendo, non la digerisco” ormai è diventata un’ossessione. Queste sono le frasi che dico in famiglia e agli ami-ci. Quando io ed i miei amici andiamo a mangiare qualcosa dopo la discoteca e tutti prendono un panino con salsic-cia, bacon, salsine varie, io li guardo con terrore. Non posso mangiarlo per-ché mi farebbe male e devo controllare le calorie! “Quanto calorie ci saranno in quel panino? di sicuro troppe”, penso, e

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di sicuro troppe”, penso, e potrei ing-rassare, e ingrassare fa male alla salute. A casa ho imposto a tutti una dieta fer-rea e sto chiedendo ai miei di seguirla con accuratezza; sì, lo so, sono fissata, ma non ci posso fare niente. So che fa male mangiare determinati alimenti, lo sento alla tv, lo dicono in palestra, lo dice perfino il dottore; io devo, DEVO avere una dieta corretta che prevede un quantitativo calorico preciso, che inclu-da solamente cibi biologici, controllati, che tengano a bada la glicemia e ridu-cano il colesterolo. Sono assolutamente banditi lo zucchero, la pasta, i dolci, i biscotti: sono veleno per il corpo! Ce la posso fare a controllare tutto. Ogni tan-to sento il desiderio di mangiare un po’ di quello che ritengo cibo spazzatura, ma non devo farlo, fa male e reprimo il desiderio per una giusta causa. Sto tormentando tutti, mi dicono che sono malata, ma io non ci credo: io penso alla salute, sì, alla mia salute. È vero, questo comportamento mi fa discutere tutti i giorni con le persone a cui voglio bene, ma non capiscono: io lo faccio per loro! Discuto con i miei genitori, disc-uto anche con il mio ragazzo perché non possiamo andare a cena: mangerei trop-po e male, io non voglio questo, quindi evito. Ho iniziato anche a rinunciare alle feste e alle cene con i miei amici: il solo pensiero di mangiare una pizza mi fa venire i brividi. Solo mangiando sempre bene io riuscirò a fare tutto bene, devo fare tutto in modo rigoroso, puntiglioso, devo essere irreprensibile. Anche a scu-ola devo impegnarmi e andare bene per-ché è così che si fa e che si deve fare…

Chi soffre di vigoressia ha l’ossessione della perfezione fisica, intesa (sec-ondo i propri canoni estetici) come eccessiva definizione della massa muscolare. I soggetti tendono ad as-sociare l’esercizio fisico eccessivo ad una dieta rigorosa, a volte associata all’abuso di integratori alimentari.

È iniziato tutto per caso, meno di un anno fa, subito dopo essermi iscritto nella in palestra vicino casa mia. “Ora che ho un lavoro, posso impiegare il mio tempo libero prendendomi cura di me!” ho pensato quando ho visto la mega in-segna mentre traslocavo. “Finalmente arriverò alla prova costume con una tar-taruga non rovesciata!”. Così, il giorno dopo, sono entrato nel locale e mi sono avvicinato alla ragazza che si occupa-

va della parte burocratica per chiederle informazioni: prezzo conveniente, orari flessibili e infine, ciliegina sulla torta, sarei stato affidato ad un affascinante personal trainer, che dopo essersi avvic-inata per presentarsi, mi ha promesso che sarei diventato proprio come quei due tipi che l’avevano appena salutata (in pratica due armadi a quattro ante che se mi avessero stretto la mano, l’avrebbero polverizzata). Ecco arrivare il primo giorno, e con esso, la disfatta. Dopo un minuto di tapis roulant gron-davo sudore come una nuvola di pioggia e avevo un fiatone spaventoso. Ne ero sicuro: sentivo chiaramente i sintomi di un infarto! Il body builder che era sulla panca accanto alla mia, di con-tro, contava ad alta voce. Con la stessa nonchalance con cui si sarebbe potuto bere un caffè al bar, continuava indis-turbato la sua serie di infiniti esercizi per l’addome (95?! senza fermarsi! ma come...?)... e mi incoraggiava! “Tran-quillo, vedrai che con il tempo le cose andranno meglio. Devi avere costanza e mangiare bene! Anche io quando ho iniziato ero nella tua stessa condizione fisica!” Giorno dopo giorno il fiato reg-geva di più, ma il confronto con i fisici allenati e muscolosi che vedevo at-torno a me assolutamente no. Non reg-geva. Bisognava aumentare il carico. Sono passato quasi subito dai canonici 3 giorni alterni a settimana (la frequenza tipica dei “pivelli”), ai 5 giorni consecu-tivi, ovviamente non più per una sola ora al giorno e non solo in sala attrezzi. Ripetevo (e ripeto) continuamente nel-la mia testa un mantra: prima attività cardio per bruciare grassi, poi esercizi mirati per ridefinire e scolpire la musco-latura. Devo arrivare anche io ai 95 Kg di puri muscoli! Purtroppo, però, mi sono anche reso conto che la sola attiv-ità fisica può poco e si vede chiaramente quanto sia mingherlino, nonostante tut-ti i miei sforzi. Mi sono rivolto allora al ragazzo che tanto mi aveva spinto a non mollare nei primissimi tempi, per chie-dergli un consiglio. Lui, entusiasta, mi ha presentato una serie di prodotti ip-erproteici che assume come integratori.. “Guarda, se sei interessato, te li procuro in una settimana”, mi ha detto, dopodichè mi ha fatto leg-gere la lista degli alimenti consen-titi nel corso della giornata: tanta carne magra (anzi tantissima), uova, pesce e molta verdura come contorno.Ho anche scoperto, con

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mia enorme sorpresa, che i carboidrati erano il male assoluto. Mi è stato detto che più ne assumo, più acqua il mio cor-po trattiene. Per questo i miei muscoli non si vedevano nemmeno con il can-nocchiale. L’avessi saputo prima! La mia vita è stata completamente scon-volta da queste consapevolezze. Il sa-bato è sempre stato il mio giorno libero, quello delle serate con gli amici a base di pizza, birra e cocktail in discoteca. Questi lussi ora sono severamente vi-etati ed anche di sabato la mia priorità resta quella di allenarmi duramente e con costanza. Faccio tantissimi sacrifici per cercare di mantenere una corpo-ratura decente, ma a quanto pare non basta. Il mio corpo non è al top della forma e non ne capisco il motivo. Dove sbaglio? Sono mesi che non mi concedo uno strappo alla regola. Anzi, pur di rag-giungere i miei traguardi ho rinunciato anche alle amicizie. All’inizio i miei am-ici forse non mi prendevano sul serio e al massimo lanciavano qualche battuta scherzosa se durante le serate invece del mojito, ordinavo un acqua naturale.Dopo un po’, però, hanno iniziato a farmi pesare il mio nuovo stile di vita con i loro noiosissimi discorsi: “Essere attenti al proprio fisico va bene, ma fino ad un certo punto. Non rendere il tutto patologico! Cosa vuoi che cambi se per una sera mangi un trancio di margher-ita!”. La facevano facile loro...! Quello che mi chiedo io è, invece, come fac-ciano loro ad accettare di convivere con un fisico esile o addirittura infarcito di grassi? Avrebbero dovuto accettare il fatto che io voglia sentirmi possente, che la mia alimentazione sia finalizza-ta non a nutrire me stesso, ma il mio

corpo: i miei muscoli necessitano solo di proteine! A volte penso che è meglio se ormai non si fanno più sentire perché in questo modo non vanifico i miei sforzi e posso continuare a puntare in alto…

Questo breve ed immaginario tour psicologico apre le porte ad un’analisi meno superficiale e più “individualizza-ta” dei disturbi alimentari. Di fatti, nel caso delle patologie psichiatriche (DCA compresi) vale più che in ogni altro caso il concetto partorito da Ippocrate quasi 2500 anni fa, in base al quale “è più importante sapere che tipo di persona ha una malattia, che sapere che tipo di malattia ha una persona”, per poterli aiutare e comprendere. È evidente come il nocciolo della questione non sia affatto l’alimentazione. Traslare i propri conflitti interiori su qualcosa di concreto spinge queste persone a cos-truire una vera e propria gabbia che ne limita la funzionalità in ognuno degli ambiti umani fondamentali: il rapporto con l’altro, quello con se stessi e con il mondo circostante, avendo su di essi degli effetti distruttivi . Rifiutare il cibo o bramarlo in maniera incontrol-lata equivale ad una richiesta disperata e primordiale di comprensione e affetto sinceri; è paradossale, se pensiamo che il punto cardine nell’evoluzione di tali patologie molto spesso è la solitudine nella quale queste persone inevitabil-mente si ritrovano. La gabbia indis-truttibile diventa, infatti, sempre più stretta e blindata. I pensieri-dogma prodotti autonomamente e mai messi in discussione si rafforzano nutrendosi del processo ineluttabile di distorsione che coinvolge qualunque comporta-

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mento e/o frase appartenenti proprio a quelle persone a cui chiedono, in mani-era del tutto atipica, attenzioni e calore umano. Dunque, riconoscere i sintomi ed accogliere il tacito grido di aiuto di chi soffre di disturbi alimentari risulta fondamentale: dare peso alla persona, alle emozioni e prendersene cura ha un’importanza decisiva per fornire un aiuto concreto, alla base del quale si pone imprescindibilmente l’empatia.

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Chiara De Marchi

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TRA LUCI ROSSE E REALTÀ

Se tra un momento di studio e l’altro, durante questa faticosa sessione d’esami, vi è capitato di aprire un gior-nale, avrete probabilmente visto titolo-ni recitare: “Ad aprile il primo quartiere a luci rosse a Roma”. Gli articoli si rif-eriscono ad una proposta del presidente del IX Municipio di Roma, Andrea San-toro, che prevedrebbe, secondo i sud-detti giornali, la creazione di una strada (o un gruppo di strade) in cui la pros-tituzione sarà consentita, al di fuori della quale i clienti saranno multati.

Incuriosita, sono andata sulla pagina Facebook di Santoro, scoprendo che le cose non stanno esattamente come di-cono i giornali. Come lui stesso sotto-linea più volte, anche nelle interviste rilasciate, la costituzione di “zone a luci rosse” non è proprio il suo piano. La proposta invece prevede, come spec-ificato in una lettera aperta ai cittadini dell’EurRoma - Eur, di “vietare la pros-tituzione dove ci sono abitazioni, scuole, parchi gioco; multare fino a 500 euro i clienti delle prostitute che non rispet-tano questo divieto; attivare da subito gli operatori delle unità di strada per strappare dallo sfruttamento ogni donna vittima di tratta, coordinare la presenza delle forze dell’ordine e la Polizia Lo-cale per un controllo del territorio più efficace; attivare giornate di educazi-one sentimentale, affettiva e al rispetto del corpo della donna nelle scuole”.

Leggendo questa la proposta si pos-sono riscontrare certamente dei lati positivi, tra cui, in primis, la lotta allo sfruttamento della prostituzione. Tut-tavia ascoltando le interviste rilasci-ate, sia il presidente del IX Municipio, sia l’associazione “ripartiamo dall’Eur”, che lo appoggia, sembrerebbero di gran lunga più interessati a questioni di pub-blico decoro che non alle vittime della tratta. In particolare ci sono delle pa-role che risuonano nelle mie orecchie e che mi hanno fatto, forse un po’ in-genuamente, rabbrividire, pronunciate da un portavoce dell’associazione di

cui sopra, che ha affermato “le donne non possono rientrare dentro casa che vengono scambiate e aggredite come se fossero delle prostitute”. Le aggressio-ni diventano un problema solo quando colpiscono le donne. Ma non tutte le donne, le brave donne. Perché se ad es-sere aggredite sono solo le prostitute, è tutto normale. Ovviamente la colpa di questo non è degli aggressori, ma delle prostitute stesse, della loro esistenza.

Ma cosa prevede la legge nel nostro paese riguardo la prostituzione? In Ita-lia vige la legge Merlin del 20 febbraio 1958, secondo la quale la prostituirsi non è reato, ma lo è “chiunque in qualsiasi modo favorisca o sfrutti la prostituzi-one altrui”. Vieta inoltre l’esercizio di tale attività in case e luoghi chiusi, mo-tivo per cui questo è un fenomeno che si svolge prevalentemente in strada. Questa legge viene classificata, sec-ondo lo studio Transcrime (Joint Re-search Centre on Transnational Crime) dell’Università degli Studi di Trento e dell’Università Cattolica di Milano, come neo abolizionista, ovvero la prostituzione outdoor non è proibita, (mentre lo è quella indoor nelle case di tolleranza), ma lo sono i reati corre-lati di sfruttamento e favoreggiamento.

Un altro modello presente in Europa, in paesi, tra gli altri, come Germania, Paesi Bassi e Regno Unito, è quello regolamentarista, secondo il quale la prostituzione outdoor e indoor sono regolamentate dallo Stato e perciò le-gali se esercitate secondo le norme. Lo stesso studio stima, secondo gli ultimi dati, che il numero di vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale sia com-preso tra i 19.000 e i 40.000. Sembra però che la violenza legata al mondo della prostituzione sia dovuta soprat-tutto ad altri fattori, come il livello e la complessità della criminalità organ-izzata, oltre all’affidabilità dei dati raccolti in un determinato paese, più che al modello presente in quel paese.

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Il presidente del IX Municipio di Roma ha intenzione di affrontare la tematica in primavera, organ-izzando una conferenza tematica con gli amministratori delle città metropolitane. E’ importante che questo fenomeno, certamente am-pio e complesso, sia trattato col dovuto riguardo, liberando la mente da pregiudizi e liberando le pro-prie parole dal carico di stigma nei confronti delle donne vittime di human trafficking, che troppo sp-esso invece è presente e pregnante.

Vorrei lasciarvi parafrasando le parole di Pia Covre, una delle fon-datrici del Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute, che afferma quanto sia semplicistico e riduttivo pensare di risolvere la questione criminalizzando il lavoro sessuale, oppure vedere i diritti soltanto in funzione di tasse da pagare. Il vero problema non è la prostituzione, non è la morale, ma la povertà che pone donne, uomini e minori in una condizione di vulnerabilità, che fa-vorisce lo sfruttamento e il traf-fico di esseri umani. E’ la povertà ad essere moralmente indecente.

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WOLISSO: IL FREDDO D’AGOSTO CHE TI INFIAMMA

Giulia Miglietta

Africa, Africa, Africa… vorrei partire per l’Africa, fare un’esperienza di vo-lontariato in Africa, capire se sono compatibile con questa terra così af-fascinante ma così diversa e misteriosa nello stesso tempo. Sarà quella la mia strada o è un capriccio passeggero?

Anche i sogni più belli incutono timore negli attimi precedenti alla loro realizzazione.

È maggio 2014. Decido di fare la domanda per il Wolisso Project. Vorrei partire ad Agosto, per realizzare un sogno, per fare una “vacanza” un po’ diversa dal solito.Il 13 giugno 2014 sono in fibrillazi-one perché è da giorni che aspetto quella mail, la mail della graduato-ria dei partecipanti al WP di agosto in cui spero di leggere il mio nome. Ar-riva durante quel pomeriggio in cui in tutta Italia la Wind fa cilecca. La leg-gerò con ore di ritardo, ma le belle no-tizie, come si sa, si fanno attendere.Non sto più nella pelle, ballo e canto dentro casa. Poi in un attimo mi fer-mo e realizzo che tutta quella gioia probabilmente sarà smorzata appena darò la notizia ai miei genitori. Per-ché per loro, come per molti, l’Africa è una terra lontana, pericolosa che non da possibilità di realizzazione per-sonale, intesa come successo e potere.

Ognuno però, ha la sua idea di re-alizzazione personale ed io ero e sono sicura che la mia passasse da lì.

Sono pronta? Cosa dovrò portarmi? Come si vive lì? Che ambiente troverò? Dove dormirò? Cosa mangerò? Iniziati i preparativi, gli interrogativi sono tanti.Ho avuto la fortuna di poterli condivi-dere sin dall’inizio con la mia compagna di viaggio con la quale, nei mesi prima della partenza, abbiamo maturato uno stretto rapporto telefonico che poi nel mese di volontariato a Wolisso si è tras-formato in una splendida e pura amicizia.

Il 28 luglio siamo partite da Roma.Iniziava così la nostra avventura. Ad Ad-

dis Abeba. All’alba. Su un pulmino gui-dato da uno degli autisti del Cuamm. Con la preghiera musulmana dell’alba nelle orecchie. Inaspettatamente in-freddolite. Chi non ha sempre pensato che “Africa fredda” sia solo un ossim-oro inesistente? Ecco, le tre coperte di lana che usavo di notte sono la con-ferma che non è precisamente così.In circa due ore sia-mo a Wolisso. Sono le 7:45.Entriamo nel St. Luke Hospital.Ci accoglie Arianna, una geriatra, la Grande.Con caffè, latte in polvere, banane.Ci dice che il giro visite in os-pedale inizia alle 8:00 e se ci va possiamo iniziare subito.Tra le perplessità di reggere una giornata in ospedale, avendo pas-sato la notte in bianco, ci infiliamo il camice e via. Con rapidità, efficienza.Monito e preludio del nostro rincorrere Arianna, della nos-tra intera esperienza in ospedale.L’attività in ospedale è d’impatto. Sei attratto da ogni particolare: i pazienti, i familiari, l’igiene, l’organizzazione e l’attività dei reparti, il personale locale, la lingua, l’odore.Mezza giornata o poco più bastano per capire che lì farai il medico, anche se ancora non lo sei. Non stai in prima fila ma almeno sei coinvolto nel lavoro quotidiano che si svolge in ospedale,trovandoti di fronte a chi ha voglia di insegnare la “medicina dei sensi” che qui fa la differenza. Si tratta della stessa medicina che, forse illusoriamente, ci si augura di imparare bene durante gli studi.

Il San Luke hospital è una bella struttu-ra. Il personale è per la maggior parte giovane, simpatico e disponibile so-prattutto con noi, ospiti di passaggio.Gli Health officer (figura profes-sionale molto più vicina al medi-co che all’infermiere) sono molto preparati, sono in grado di gestire reparti e situazioni d’emergenza.

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La mia esperienza inizia in Pediatria, con Silvia, pediatra e Samuela, JPO (Junior Project Officer). Il JPO offre l’opportunità di svolgere almeno 6 mesi di formazione teorico-pratica in Africa agli specializzandi.Samuela è a Wolisso da circa un mese. Sembra serena, tranquilla, splendida-mente ambientata e orientata. E’ così carina e disponibile che non posso fare a meno di confidarle le perples-sità iniziali. Scopro che neanche per lei l’ambientamento è stato semplice. Non lo è per nessuno.“Sperimenta lo spirito d’adattamento”, mi dice, “prova quanta fatica costa, ri-dimensiona la tua tendenza a voler far sempre adattare gli altri alle tue idee.Metti a tacere l’istinto di fuga fisiologi-co dei primi giorni. Ricordati che ciò da cui sfuggi, diventa luogo del desiderio in fuga.”

La prima settimana è difficile. Ti è ancora tutto estraneo. Anche il fisico risente delle scosse d’assestamento. Pensi di aver sottovalutato i “contro” dell’esperienza e di aver sopravvalu-tato te stessa, di esserti immedesimata nell’eroina che non sei.Tuttavia, giorno dopo giorno, l’ospedale diventa più familiare, con gli health of-ficer e gli infermieri s’instaura un rap-porto più confidenziale, inizi a visitare e a capire che a causa della lingua sei dipendente dal personale locale. Anche questo è parte del gioco.Fai la tua prima visita ginecologica, vedi il tuo primo parto, meningiti, Tbc e Hiv. Osservi incredula tanti giovani arrivare in pronto soccorso per avvelenamento

da pesticidi. Una valanga di parole lette sui manuali di medicina che si trasforma in realtà.

Qui c’è una fiducia nel personale sani-tario che non si vede più da noi.Di contro, percepisci da subito i privi-legi di vivere in un paese con un SSN che funziona. In Etiopia il paziente arrivato in ospedale dovrebbe pagare ogni pre-stazione, ogni siringa, ogni medicinale. Le stanze d’ospedale sono qui ampi stanzoni con più di 10 pazienti. Quasi impossibile rispettare i principi della privacy.Una delle cose più sorprendenti in giro per l’ospedale è il livello di tolleranza e sopportazione del dolore. Non mancano i rumorosi brontolii, ma per la maggior parte sono gemiti sussurrati. Mi chiedo se sia diversa l’educazione al dolore o se ci sia un estremo rispetto per i “com-pagni di camera”.

Ma cos’è essere medico CUAMM qui in Africa?Con la famiglia è un’esperienza, è un donare le proprie conoscenze, è impara-re un assetto di adattamento familiare, è un mettere alla prova anche i propri figli.In solitudo è una scelta di vita, è la medicina al primo posto, è decidere di stare sola o avere come amici la gen-te locale, è consegnare all’ospedale le proprie chiavi, è forse l’alternarsi dei deliri d’onnipotenza per i pazienti sal-vati e i picchi depressivi per quelli persi, senza che nessuno stemperi i pensieri d’assolutizzazione.E’ educare alla salute dove possibile.

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E’ ogni giorno voglia di comprensione, umiltà.E’ lo sforzo a sentirsi ogni giorno un po’ più parte d’Africa. E’ EMPATIA. Difficile da instaurare se il paziente ti percepisce solo come il bianco, con la sua men-talità tutta occidentale, senza voglia d’integrazione, con la sua irremovibile e superba visione delle cose, del mondo.E’ voglia di starci, ed è disponibilità a lasciarsi un po’ cambiare. Non penso che nessuno ritorni a casa immutato.Parti per prenderti cura di lei e dei suoi figli, ma è questa terra che ti sana.

Nel mese a Wolisso sono stata in com-pagnia di Alessandro, un ingegnere di ISF (Ingegneria senza frontiere) e della sua famiglia, i coordinatori del-la Public Health,, un gruppo di gio-vani della Caritas di Milano venuti a fare attività ludica in ospedale con i bambini, i figli dei medici italiani.Io, la Samu, Ilaria e Alessandro siamo diventati una vera e propria squadra. Era bello tornare a pranzo e cena e ri-trovarsi, ognuno con le proprie “avven-ture” (non sempre piacevoli) da racco-ntare, organizzarsi e uscire per Wolisso dopo una giornata di lavoro per andare a mangiare injera o dei sambusa.

Wolisso è un paese in cui la vita si svolge sostanzialmente su una strada principale.Negozietti, ristoranti, local-etti dove bere una “Meta beer”.Il tutto rapportato ad un paese africa-no. Buon cioccolato quasi introvabile, un dolce venduto come fosse caviale.

Il Mercato, esperienza multisensori-ale. Fangoso, ricco, colorato di frutti e spezie, sciarpe, borse di paglia. Venditori con cui non puoi contrattare il prezzo se non sai i numeri in Amarico o qualche di-aletto della zona. Pericoloso, perché per le stradine passano carretti, asini, ba-jaji (le Api Piaggio trasformate in taxi).I bajajii sfrecciano per le vie di Wolisso prive di segnaletica e di qualsiasi codice della strada. Prima di salire sei lì che ti chiedi se sia meglio fare qualche km in più a piedi o valga la pena provare l’ebrezza di un giro sulle montagne russe.Fuori da Wolisso, per le strade sterrate ci si perde tra le più variegate sfuma-ture di verde, i maestosi alberi d’acacia. Natura incontaminata puntellata da ca-panne. Le loro case da cui puoi veder fuo-riuscire fumo o spuntare un’antenna TV.Dove sarà mai collegata quell’antenna TV?

Africa… al ritorno lo sai: se l’Africa per te era un abbaglio o potrà essere uno spiraglio.

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UN TRAINING “SISMICO” IN TERRA SCANDINAVA Enrico Zenati

Sub Regional Training “Healthcare in danger”, Stoccolma, dicembre 2014.

Il tutto ebbe inizio verso i primi giorni di novembre.Dopo alcuni anni passati a operare nell’ area scambi internazionali della sede lo-cale di Verona, prima come Leo assistant e poi come Leo, fui eletto responsabile dell’area diritti umani e pace (SCORP). Avevo appena controllato le nuove dis-cussioni sul gruppo online di area, quan-do lessi un interessante post della nos-tra responsabile nazionale, Samantha. Il messaggio parlava di un training di tre giorni che si sarebbe tenuto a Stoccolma nel mese di dicembre. Tema: la salute in pericolo nei contesti di guerra e non solo. L’evento era organizzato dall’associazione degli studenti di me-dicina svedesi: l’IFMSA-Sweden. L’idea destò subito il mio interesse e pensai: “l’argomento trattato è davvero molto accattivante dato che mi rendo conto di essere poco informato in materia”. Il fatto poi che il training si sarebbe svolto in Svezia, suscitava in me non poca cu-riosità: ero sempre stato affascinato dai paesi nordici e mi sembrava senz’altro positivo il poter sfruttare l’opportunità di venire a contatto con l’organizzazione studentesca svedese equivalente al nos-tro “Sism”.Compilai dunque la domanda online per l’iscrizione al training.

Nutrivo poche speranze di venire selezi-onato, i posti disponibili non erano mol-ti; ma il 27 novembre, mentre leggevo distrattamente la solita corrispondenza digitale, mi saltò all’occhio una e-mail dal titolo: “You have been selected for the SRT (Sub Regional Training)! Please respond to confirm as soon as possible”. Ero stato scelto! Così, la sera di gio-vedì 11 dicembre, da Orio al Serio, a bordo di un aereo low-cost Ryanair, par-tii alla volta della Svezia: destinazione Nyköping, una cittadina di 27700 anime che dista a circa 200 km da Stoccolma. Nel giro di due ore mi trovai catapultato in un paese completamente sconosciu-

to. Faceva freddo e l’aria profumava di neve; subito fuori dal piccolo aero-porto di Nyköping il terreno, illuminato debolmente dalla luce giallognola dei lampioni, era quasi completamente coperto da una spessa crosta di ghiac-cio. Si intravedeva tutt’attorno una distesa interminabile di abeti e reg-nava un silenzio assoluto. Poco dopo l’atterraggio, presi l’autobus e raggi-unsi l’ostello che mi avrebbe ospitato per la notte.Il mattino seguente, un po’ di corsa e un po’ dispiaciuto per non aver potuto visitare la cittadina di Nyköping, salii sul treno per Stoccolma. Appena arri-vato a Stoccolma, mi aspettava Johan: un ragazzo alto, biondo, ricciolino dall’aria vagamente dandy e intellet-tuale. Assieme a Johan, c’era anche un gruppetto di studenti arrivati come me da altri paesi: Anusheh dal Galles, Nina dalla Svizzera e Anna dalla Georgia. Eravamo tutti ansiosi di partecipare al training e tempestavamo di domande il povero Johan che tra una risposta e un: “Ok, andiamo che sennò poi arriviamo tardi”, ci dava indicazioni sull’evento, sull’ostello in cui eravamo alloggiati e sulla tessera d’abbonamento per la metropolitana.La mattinata passò velocemente e dopo un panino mangiato in velocità, ar-rivammo finalmente alla sede svedese della Croce Rossa Internazionale (CRI): il luogo dell’evento. La sede svedese della Croce Rossa si trovava al primo piano di un moderno palazzo situato nel famoso quartiere di Södermalm e circondato da numerosi edifici assai el-eganti e dallo stile che richiama un po’ il Liberty. Tutto era stato organizzato in modo preciso e meticoloso. Dopo l’accoglienza ci vennero consegnati vari gadget tra cui uno zainetto, un’agenda, una penna e ovviamente il programma dei tre giorni.

Le attività iniziarono puntualissime alle ore 15.00. Le due organizzatrici dell’evento Hana e Anna-Theresia ci diedero un caloroso benvenuto; prese

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prese poi la parola Mr. Dick Clomén, presidente della CRI svedese, che in-iziò a darci informazioni sull’ organiz-zazione della Croce Rossa. Il Movimento Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa (abbreviato spesso con Croce Rossa o CRI) è la più grande or-ganizzazione umanitaria al mondo. E’ stata fondata da Jean HenryDunant e altri quattro cittadini svizzeri nel 1863. Le attività del movimento consistono principalmente nell’assistere e proteg-gere le vittime dei conflitti armati e delle lotte interne ai vari paesi. Il movi-mento prende inoltre parte ad ogni ini-ziativa umanitaria che rientra nel ruolo dell’istituzione. La Croce Rossa opera dunque nei teatri di guerra in modo in-dipendente e neutrale senza inserirsi nei meriti del conflitto. Vengono assistite e curate tutte le persone offese durante i combattimenti senza alcuna distinzione riguardo sesso, etnia, religione, con-dizione economica e soprattutto senza alcuna distinzione circa lo schieramen-to all’interno del conflitto. Le attività dell’associazione sono riconosciute a liv-ello internazionale dalle convenzioni di Ginevra che proteggono le associazioni umanitarie le quali, prestando servizio durante i conflitti, curano i feriti e as-sicurano il rispetto del personale civile e medico non coinvolto negli scontri.

Spesso però la Croce Rossa, ma anche il personale sanitario in generale non coin-volto nei conflitti, vengono attaccati, os-tacolati e danneggiati durante il proprio lavoro. Ciò costituisce una violazione del Diritto Internazionale Umanitario.

Ma, purtroppo, oggi sono sempre più nu-merosi i conflitti armati nei quali ven-gono orrendamente calpestati i diritti umanitari. Proprio questo era il tema del training organizzato dagli studenti di medicina svedesi. Nei teatri di guerra, le organizzazioni umanitarie e il personale sanitario non dovrebbero essere bersa-gliati dalle milizie e dai combattenti. La Croce Rossa per esempio, espone tram-ite insegne e segnali il proprio logo della croce greca rossa in campo bianco come simbolo di riconoscimento al fine di es-sere evitata durante i bombardamenti o durante gli scontri a fuoco. Inoltre, negli ospedali della Croce Rossa non possono essere introdotte o nascoste armi dato che questo vanificherebbe la posizione di neutralità nei confronti delle fazioni belligeranti. Tuttavia, non è solo du-rante un conflitto armato che il diritto alla salute risulta essere minacciato. È infatti sempre più frequente che anche nelle nazioni pacifiche il diritto alla sa-lute venga ostacolato. Per esempio, du-rante le manifestazioni di protesta può succedere che il personale sanitario non sia adeguatamente protetto dalle forze dell’ordine e allo stesso tempo le per-sone offese durante gli scontri non ab-biano un adeguato accesso alle cure a causa di una mancanza organizzativa da parte delle istituzioni. Altre volte in-vece, la mancanza di etica può spingere il personale sanitario a compiere scelte discutibili quali per esempio il rifiuto a curare persone su base discriminatoria. Tutto questo mina alla base il concetto di gratuità e libero accesso alla salute. Se partiamo dal presupposto che, nella

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Tuttavia, non è solo durante un con-flitto armato che il diritto alla salute risulta essere minacciato. È infatti sempre più frequente che anche nelle nazioni pacifiche il diritto alla salute venga ostacolato. Per esempio, durante le manifestazioni di protesta può suc-cedere che il personale sanitario non sia adeguatamente protetto dalle forze dell’ordine e allo stesso tempo le per-sone offese durante gli scontri non ab-biano un adeguato accesso alle cure a causa di una mancanza organizzativa da parte delle istituzioni. Altre volte in-vece, la mancanza di etica può spingere il personale sanitario a compiere scelte discutibili quali per esempio il rifiuto a curare persone su base discriminatoria. Tutto questo mina alla base il concetto di gratuità e libero accesso alla salute. Se partiamo dal presupposto che, nella maggior parte dei casi, una persona si ammali per sfortuna, penso sia ancora più chiaro che la salute debba essere un bene del quale tutti dovrebbero usu-fruire liberamente e gratuitamente.Durante tutta la durata del train-ing a Stoccolma abbiamo sviluppato ampiamente questa tematica. Ol-tre a Mr. Dick Clomén erano pre-senti anche altri esperti del settore.Sabato le attività sono state intro-

dotte dalla dottoressa Rachel Irwing dell’ Istituto di internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma. Abbiamo dis-cusso del concetto di “violenza” nei confronti del personale sanitario op-erante. Oltre alle comuni forme di of-fesa come omicidi, rapimenti, furti … ci sono anche altri modi per ostaco-lare le attività sanitarie. Per esempio l’ostruzionismo nei confronti delle am-bulanze prestanti soccorso ai check-point di guerra, ma anche il costring-ere, sotto minaccia armata, il personale sanitario ad attuare una discriminazione nei confronti di chi curare e chi no.La domenica, è venuto a parlare un uf-ficiale dell’Esercito svedese: il tema trattato quel giorno riguardava i rap-porti tra salute, corpo militare e di-ritto internazionale. L’evento si è poi concluso con l’intervento di un pro-fessore dell’Università di Stoccolma riguardo l’etica medica e la sua im-portanza nei confronti della profes-sione e della gratuità della salute.Durante tutto l’evento inoltre abbia-mo discusso ampiamente tra parteci-panti, sono state organizzate attività di gruppo e abbiamo ragionato riguar-do queste tematiche cercando anche di proporre alcune possibili soluzioni alla minaccia del diritto alla salute.

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Le attività sono state inoltre in-tervallate da numerose pause caffè e da un ricco social program. I pasti, completamente veg-etariani, sono stati offerti dai ragazzi del “Sism svedese”.

L’esperienza è stata molto interes-sante e stimolante. Mi ha aperto gli occhi su di una tematica di cui spesso sentiamo parlare solo marginalmente o riguardo alla quale non veniamo ade-guatamente informati da parte dei media. Partecipare a questo genere di eventi costituisce sicuramente, per ogni “sismico”nonchè per ogni studente di medicina, una tappa irrinunciabile dal punto di vista formativo come futuro medico e offre, inoltre, la possibilità di crescere anche dal punto di vista uma-no, grazie al contatto con diverse realtà e persone, ciascuna con il proprio vis-suto, la propria cultura, le proprie idee.

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APERITIVO DI “SLA”NCIO: LA VOCE CHE SOLO IL SISM PUÒ DARE!! Thomas Cordaz

Quando l’8 aprile ho fatto il test d’ingresso per la facoltà di medicina, mai avrei pensato che, poco meno di un anno dopo, mi sarei commosso per un aperitivo organizzato da me. Detta così, sembra una frase senza senso, ma basta aggiungerci la parola SISM ed ecco che tutto acquista un precisis-simo significato. Già nei primi giorni di questo anno accademico, gli studenti di medicina di Udine mi hanno rapito con la loro presentazione sul SISM: un misto tra euforia e voglia di fare, tra impegno e divertimento, tra ideologie di vita e di lavoro in ambito sanitario.

Ed ecco l’elenco delle aree tematiche e la voglia inaspettata di partecipare, di fare parte di questo grande gruppo che solo a livello locale è in grado di farti di-vertire, di imparare molto e di farti ca-pire quanto impegno ci sia dietro ad ogni cosa, anche la più banale apparente-mente. Poi senti parlare di “area SCORP, diritti umani e pace” e ti convinci: in un secondo pensi a tutto quello a cui potres-ti lavorare e ,nel sentire quelle parole pronunciate dagli studenti sismici che si occupano dell’area, inizi a immaginarti tutto quello che sta accadendo nel mon-do e già ti vedi all’opera al loro fianco!

Così via: iscritto al SISM e assistant dell’area SCORP. Leggi tutti i progetti della tua nuova area, e ti “gasi” tal-mente tanto che vorresti farli tutti tu, organizzarli, metterli in piedi e ved-erli camminare! Calma.. intanto leg-giamoli tutti con gran calma.. poi ti basta leggere il primo progetto per dire: “Mio! Lo faccio io questo!”.

“Organizzare un aperitivo sulla SLA.” Ho carta bianca.. quindi non ci penso su due volte e mi metto all’opera. Mail a fiumi, bar e birrerie da cercare, bozze di volantini che ti occupano l’intero cervello e la voglia di fare che non ti abbandona mai. Anche nei momenti di svago ci pensi, quindi inizi ad informarti sulla malattia: video, foto, discorsi, siti e tanto altro. Si rimane a bocca aperta,

senza saliva e senza parole. La SLA: per i libri una malattia, per la vita di chi ne è affetto una tortura, fisica e psico-logica. Un nemico subdolo e “bastardo”, tanto silenzioso quanto devastante. Più ti informi più vorresti conoscere tutti gli aspetti della SLA, o meglio tutte le sensazioni provate dal malato di SLA. Ed ecco che l’aperitivo diventa quasi un tuo obiettivo: la gente deve capire cosa prova ogni giorno una persona affetta da SLA, o meglio le persone affette da SLA, perché non sono poche, perché sono persone, esseri umani, che avevano una vita normale, come quella di ognuno di noi e perché può capitare a chiunque.

Da lì cominci a buttare giù le prime idee su come strutturare l’aperitivo, pensi a chi dovrebbe parlare e a come dovrebbe parlare: chi chiamo?? Chiamo tutti! Più siamo e meglio è! E via.. neu-rologa, psicologa, presidente di asso-ciazione, esperto di ausili del malato. Tutti! Ma non viene bene così, manca qualcosa, manca il protagonista indis-cusso: il malato di SLA. È brutto chia-marlo malato, perché chiamare una per-sona così significa allontanarla ancora di più dalla società, significa toglierle le forze con cui lotta ogni singolo sec-ondo.. e poi arriva Nadia. Nadia Nar-duzzi, vicepresidente AISLA della sezi-one del Friuli Venezia Giulia, malata di SLA, moglie e mamma di tre bambini.

Intanto l’evento inizia a materializzarsi, il volantino è fatto, mail, facebook e siti vari vanno che è un piacere: tutti i compagni di corso che ogni giorno ti sentono dire “vieni vero?? Oh lascia perdere lo studio questa sera, dai!”.

Mi fermo un attimo. Se l’articolo finisse qui vi avrei già spiegato tutto. Tutto quello che il SISM rappresenta. Non ho usato lunghe definizioni, sigle troppo difficili, né ho elencato nomi e cariche difficili da ricordare. Mi sono limitato solo a scrivere tutto quello che il SISM è riuscito a trasmettermi, e mi sem-bra sia il metodo migliore per descriv-

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erlo. Però l’articolo continua, ed ora viene il bello: l’aperitivo di SLAncio.

21 gennaio 2015, ore 18:00, birreria “Ciò che c’era”, Piazza I maggio, Udine. Alle 17:30 sono già li, e ho il piacere di con-oscere Nadia. Ah, dimenticavo: comple-to la sua descrizione aggiungendo anche “bellissima donna”, e finchè non vedi con i tuoi occhi che non riesce a muo-vere un unico muscolo, non capisci fino in fondo cosa sia la SLA. Non si muove, ti guarda e tenta di sorriderti: ti spiazza, perché già ti fa capire che ti vuole bene per quello che stai facendo per lei con questo semplicissimo aperitivo. Ho pro-vato un misto di sentimenti in un mo-mento solo: compassione, incredulità, senso di impotenza, dispiacere,stima.

I suoi occhi sono un qualcosa di inde-scrivibile: ti guardano, ti parlano, ti cavano l’anima e ti stingono il cuore, praticamente non hai scampo. Sorri-dendo a Nadia una lacrima è scappata. Non ha fatto tempo a toccare terra che ero già in birreria ad assicurami che tutto fosse perfetto: luci, tavoli, sedie e tv. Nel frattempo la gente comincia ad arrivare, e nel loro sguardo c’è cu-riosità, c’è la voglia di capire che cosa sia quest’aperitivo di SLAncio: non tan-to di cosa parli, ma di come ne parli.

Via. Si parte. Sono le 18 e qualche minu-to: inizio a parlare. Mi presento, pre-sento il SISM e presento l’evento. Non sbaglio nulla e convinto della mia per-formance, incontro ancora lo sguardo di

Nadia, la vedo felice e allora so che non mi devo preoccupare perché tutto ques-to è per lei e per il suo difficile mondo.Faccio partire un video abbastanza corto, ma tanto breve quanto elo-quente: primo piano sul diario di una ragazza, qualcuno che lo sfoglia e fa leggere a tutti il suo contenuto. Si legge lo storia di una ragazza nor-male, felice, spensierata, pazza e un po’ paurosa: una ragazza normale in-somma, una ragazza come noi. Poi la diagnosi di SLA, la penna che scrive sempre peggio, ad un certo punto il diario finisce. Finisce anche il video e tutti i presenti sono in silenzio con lo sguardo su di me. Bene. Ci sono.Parla il marito di Nadia, Andrea Maco-righ, un grande uomo, simpaticissimo e con lo stesso splendido sorriso di sua moglie; segue l’intervento della neu-rologa (dott.ssa Delia D’Amico) e poi ancora un video, la parte più SCORP della serata: Stefania Sandrelli che legge la lettera della figlia di un mala-to di SLA, evidenziando tutto il disa-gio che questa malattia porta con sé, sia per il malato sia per i familiari,che devono fare i conti ogni giorno con una malattia oltremodo invalidante, che toglie tutto, a partire dalle più sem-plici funzioni vitali, prima quella di camminare, di gesticolare, di nutrirti e di vestirti autonomamente, di lavar-ti i denti, di parlare, di comunicare e infine di respirare e per la quale è necessaria un’assistenza importante, tanto le persone che ne sono affette quanto per chi se ne prende cura

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ogni giorno impegnandosi a garantire loro una vita il più normale possibile. Tutti i partecipanti sono attenti, anzi attentissimi. Così prende la parola la psicologa (Dott.ssa Temorin) per smor-zare l’impatto del video. La SLA è una malattia particolarmente drammatica in quanto blocca progressivamente tutti i muscoli ma non toglie la capacità di pensare e di relazionarsi agli altri. Come si può leggere nello stesso sito AISLA: “la mente resta vigile in un corpo che diventa via via immobile”. Se oltre a questo dato, consideriamo anche il fat-to che insorge tra i 40 e i 70 anni, dopo aver condotto una vita normale per tan-to tempo, ci rendiamo conto quanto sia devastante dal punto di vista psicologico e di quanto la figura dello psicologo sia essenziale come supporto terapeutico per i malati ma anche per i familiari.

Dopo aver fatto un po’ di formazione sulla SLA, si continua e parte l’esperimento: mettersi nei panni del malato di SLA. Bastano poche cose: due persone e una tavola etran, cioè una tavola in plexi-glass con le lettere dell’alfabeto attac-cate in un particolare modo. Ci sono dei volontari e l’attenzione non cala: uno è il (finto) malato e l’altro è la persona che deve “parlare con lui”. Al mala-to viene suggerita una parola e che la prova abbia inizio: tutti in silenzio, si sente addirittura l’orologio che scan-disce i secondi, quasi a marcare ancora di più il disagio e la difficoltà con cui il malato di SLA deve convivere anche per comunicare una sola parola. Nel frattempo guardo Nadia e la vedo fe-lice, ora si sente capita da tante per-sone, lo dicono i suoi occhi! Esperimen-to riuscito. Applausi e altri volontari.

Prende la parola la presidente AISLA Friu-li Venezia Giulia, Laura Toffolutti e come una mamma premurosa ringrazia di cu-ore tutti, spiega quanta fatica si faccia per tenere in piedi tutta l’associazione e quanto importanti siano eventi come quest’aperitivo per far conoscere la malattia, ma soprattutto per le per-sone che devono conviverci ogni giorno.

I malati di SLA sono persone che vivono con difficoltà ogni singolo istante della vita quotidiana, e l’associazione con il suo lavoro, ne garantisce i diritti fonda-mentali, quali il diritto ad essere tratta-ti come individui con dignità e rispetto, il diritto a ricevere il massimo supporto per garantire loro una vita per quanto possibile normale, la tutela nei confron-ti di qualsiasi forma di emarginazione, isolamento, discriminazione ecc. Tutta-via, per far si che questi diritti possano essere garantiti, è necessario, come in ogni altra cosa, che la malattia sia con-osciuta, che si faccia informazione e sensibilizzazione nei limiti delle nostre possibilità ed è quello che ho cercato di mettere in atto con questo aperitivo.

Dopo quest’ultimo intervento è il mio turno. Il finale non posso sbagliarlo. Guardo ancora Nadia, quasi come se ne fossi innamorato, e le parole mi escono come un fiume in piena. “Date uno slan-cio alle vostre vite, sentitevi tutti un po’ Nadia ogni giorno e parlate al mondo di SLA! Non lasciate questa maledetta malattia qui dentro, ma portatela fuori, fate anche voi informazione, che non è difficile: pensato solo al fatto che ora voi potete applaudire, ridere, scher-zare, alzarvi, andare a pagare e andare via, mentre un malato di SLA vi guarda

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immobile. Pensate bene a questo! La SLA toglie la voce al malato, e noi dob-biamo parlare anche per lui! ”. Applau-si, complimenti, qualche lacrima e tanti sorrisi. Nadia è felice, così come tutti i relatori intervenuti durante l’aperitivo.

Ecco, ora è tutto. Io sono Thomas Cor-daz, studente al primo anno di Medicina presso l’ateneo di Udine. Posso solo ag-giungere che tutto questo è stato per me fantastico, bellissimo, sia organ-izzare che vivere l’evento! Evviva il SISM! Gli applausi in birreria e gli occhi di Nadia sono cose che mi rimarranno impresse nella memoria per sempre.

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RICONOSCIMENTI ISTITUZIONALI Claudio NeidHofer

Ciao a tutti, qui è Claudio, il nuovo Leo di Pavia, che vi parla. Sono is-critto al terzo anno di medicina in inglese e sono ancora molto nuovo nell’area SCOPE-SCORE.Nonostante ciò sono qui per raccon-tarvi della mia esperienza in ambito “scambistico” e nell’ambito dei ri-conoscimenti istituzionali e spero che questa possa essere uno stimo-lo o un punto di partenza per tutte quelle sedi che ancora non sono ri-uscite ancora ad ottenerlo. Come sappiamo bene noi scambisti, gli scambi internazionali professionaliz-zanti e di ricerca del SISM sono forse il motivo per cui il SISM é piú con-osciuto tra gli studenti di medicina.A partire dai primi anni quasi tutti loro sanno che, ogni anno, uno o due mesi dopo l’inizio dell’anno accademico, uscirà il concorso che permetterá ai piú bravi e for-tunati partecipanti di compiere un’esperienza unica e straordinaria in un paese vicino o lontano, lavoran-do in ospedale o in un laboratorio.Ciò che invece forse loro non sanno è che per rendere tutto questo così bel-lo e possibile, c’è dietro tantissimo lavoro organizzativo di tanti studenti che si rendono disponibile a farlo!Ció che invece noi come SISM a Pa-via non sapevamo fino a poco tempo fa, é che in altre Universitá itali-ane il SISM aveva fatto molti più passi avanti: era riuscito a far ricon-oscere lo scambio a livello istituzi-onale, equiparandolo a punti ADE, punti laurea o convalida di tirocinio.Ne ho sentito parlare per la prima volta al Congresso Nazionale, in un discorso privato tra due LEO. Ciò che si doveva fare non sembra-va molto difficile: era importante scrivere una email al presidente di facoltà con alcuni documenti allegati e aspettare la risposta.Mi sono un pò scoraggiato nel mo-mento in cui, una volta avviato il discorso a cena con altri leo/lore, ho scoperto che alcune sedi ci ave-

vano giá provato, ma avevano sem-pre ottenuto risposte negative o hanno dovuto correre da un ufficio all’altro scrivendo decine di mail.Non per tutti quin-di era stato così semplice.Anche i riconoscimenti variavano da chi aveva ottenuto il credito, chi la frequenza e chi entrambe le cose.Una volta tornato a casa, passato il periodo intenso della campagna scambi e la depressione post-congres-so, ho deciso di mobilitarmi io stesso per cercare di raggiungere anche nel-la mia sede locale l’obiettivo ‘Ricon-oscimento istituzionale degli scambi’.Devo ammettere che, nonostante fossi partito senza sapere cosa mi aspettasse, la risposta fu molto presto positiva: una volta inviati tutti i documenti necessari al presi-dente di facoltá, lui stesso a sua volta la inoltrò al presidente di corso di laurea di medicina e chirurgia.A Pavia,quindi, oggi, gli scambi ven-gono convalidati con un credito ADE e l’assenza dalle lezioni è giustificata.È stato quindi molto piú fac-ile del previsto, almeno per noi.Mi sono subito chiesto se non fosse stato giusto chiedere di piú! Non so se un punto ADE è abbastan-za. Anzi, sicuramente no, forse è poco, e probabilmente fra un pò mi spingerò a chiedere un maggiore ri-conoscimento, anche se questo non cambia il fatto che il valore di uno scambio internazionale non è quan-tificabile: è un’esperienza che si porta dentro per tutta la tua vita sia da studente che da medico.Credo che il traguardo che si è raggi-unto in questi ultimi anni, sia davvero molto importante: il riconoscimento istituzionale non è solo un credito ag-giunto all’interno della carriera di uno studente universitario, non è solo un traguardo esclusivo dell’area scambi, bensì è la testimonianza che questa associazione vale molto e si sta allar-gando più di quanto magari avessimo pensato; il fatto che qualcuno pensi

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che quello che facciamo è giusto e ha valore, dà valore all’associazione stessa perchè vuol dire che riuscia-mo a trasmettere anche a gente che non ci conosce il nostro entusiasmo.Sono molto contento del successo ot-tenuto, sebbene possa sembrare pic-colo, perchè sono sicuro che ció aprirà ancora di più le porte a un maggior nu-mero di partecipanti al concorso, così come anche ad un maggior numero di persone che possa ospitare e che pos-sa un giorno portare ad ampliare gli scambi anche nella mia sede locale.Non posso far altro che concludere ringraziando tutta la gente che mi ha aiutato fornendomi le informazioni e i documenti necessari e incoraggian-do le altri sedi locali a fare lo stesso. Cosa state aspettando?

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SISM - Segretariato Italiano Studenti MedicinaUfficio Nazionale: Padiglione Nuove Patologie, Policlinico Sant’Orsola,

via Massarenti 9, 40138 Bologna.tel/fax: +39 051 399507 – e-mail: [email protected]

web: www.sism.org Codice Fiscale 92009880375

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