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www.judicium.it MASSIMO FABIANI Garanzia di terzietà e imparzialità del giudice ed efficienza del processo SOMMARIO: 1. I confini dell’indagine. – 2. Uno sguardo alle dispute ideologiche sulla affermata o negata innovatività dell’art. 111 Cost. – 3. Giudice terzo e imparziale: dall’endiadi al sintagma. – 4. La terzietà. – 5. L’imparzialità. – 6. Le ipotesi critiche prima della Riforma. – 7. L’evoluzione giurisprudenziale conservativa. – 8. L’adeguamento del legislatore. – 8.1. Iniziativa del p.m. sollecitata dal tribunale fallimentare. – 8.2. L’opposizione agli atti esecutivi. - 8.3. Ipotesi critiche residuali in ambito concorsuale. - 9. I casi irrisolti. – 9.1. Le impugnazioni straordinarie e i giudizi di rinvio. – 9.2. Fattispecie di tutela sommaria. - 10. Tecniche di selezione dei parametri dell’imparzialità. - 10.1. Possibili soluzioni per i casi irrisolti. - 11. La frontiera dell’imparzialità nelle attività del giudice nei diversi modelli processuali. – 12. La discrezionalità imparziale nell’approccio sulle prove: l’iniziativa. – 12.1. La regola sull’onere probatorio. – 12.2. La funzione integrativa della prova officiosa. – 12.3. L’iniziativa officiosa come potere-dovere. - 13. Conclusioni. 1. Dal confezionamento della legge costituzionale 2/1999 è, oramai, trascorso un decennio; un periodo che consente riflessioni più mature ed anche più meditate sui valori del “giusto processo”. Nel corso di questi anni abbiamo assistito ad ulteriori cambiamenti dell’assetto del processo civile, alcuni dei quali sono diretta derivazione della riforma dell’art. 111 Cost.; ed ancora molte modifiche sono state apportate dal legislatore alla materia del diritto fallimentare, la materia che ai più è apparsa il terreno elettivo delle problematiche che attengono al giusto processo nella sua declinazione di processo che si deve svolgere davanti ad un giudice terzo e imparziale. Sappiamo bene e tutti ne sono convinti, che la tessitura dell'art. 111 Cost. venne cucita da un sarto-legislatore che aveva come obiettivo quello di vestire di garanzie l’abito del processo penale, così da affermarne il valore di “giusto processo penale”. Ma chiunque per curiosità voglia scoprire quanto il tema del giusto processo sia stato trattato nelle varie discipline processuali, si renderà facilmente conto sulla base di una semplice indagine compiuta su una seria banca-dati, che di giusto processo si discute non solo in ambito penalistico e, in misura minore, nel contesto del processo civile, ma anche e piuttosto frequentemente con riguardo al processo amministrativo, contabile e, soprattutto, al processo tributario. Procediamo con ordine e tracciamo, subito, una serie di circonferenze sempre più strette al fine di marcare l’oggetto dell’esposizione. La prima, più ampia, è la circonferenza che coincide con il processo civile e più in particolare con i profili che riguardano il giudice. All’interno di questo cerchio posizioneremo le nozioni di terzietà ed imparzialità del giudice. Di poi, in una circonferenza sempre più ristretta inseriremo le fattispecie critiche che erano state selezionate negli anni “novanta”, con due appendici perché si tratterà di vedere quale è stato l’atteggiamento della giurisprudenza rispetto ai problemi del giusto processo e quale è stata la replica del legislatore. Infine nella circonferenza concentrica minore vedremo le fattispecie irrisolte e quali sono i possibili parametri da utilizzare per risolverle. L’indagine potrebbe chiudersi qui e così facendo credo si

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MASSIMO FABIANI

Garanzia di terzietà e imparzialità del giudice ed efficienza del processo

SOMMARIO: 1. I confini dell’indagine. – 2. Uno sguardo alle dispute ideologiche sulla affermata o negata innovatività dell’art. 111 Cost. – 3. Giudice terzo e imparziale: dall’endiadi al sintagma. – 4. La terzietà. – 5. L’imparzialità. – 6. Le ipotesi critiche prima della Riforma. – 7. L’evoluzione giurisprudenziale conservativa. – 8. L’adeguamento del legislatore. – 8.1. Iniziativa del p.m. sollecitata dal tribunale fallimentare. – 8.2. L’opposizione agli atti esecutivi. - 8.3. Ipotesi critiche residuali in ambito concorsuale. - 9. I casi irrisolti. – 9.1. Le impugnazioni straordinarie e i giudizi di rinvio. – 9.2. Fattispecie di tutela sommaria. - 10. Tecniche di selezione dei parametri dell’imparzialità. - 10.1. Possibili soluzioni per i casi irrisolti. - 11. La frontiera dell’imparzialità nelle attività del giudice nei diversi modelli processuali. – 12. La discrezionalità imparziale nell’approccio sulle prove: l’iniziativa. – 12.1. La regola sull’onere probatorio. – 12.2. La funzione integrativa della prova officiosa. – 12.3. L’iniziativa officiosa come potere-dovere. - 13. Conclusioni. 1. Dal confezionamento della legge costituzionale 2/1999 è, oramai, trascorso un decennio; un periodo che consente riflessioni più mature ed anche più meditate sui valori del “giusto processo”. Nel corso di questi anni abbiamo assistito ad ulteriori cambiamenti dell’assetto del processo civile, alcuni dei quali sono diretta derivazione della riforma dell’art. 111 Cost.; ed ancora molte modifiche sono state apportate dal legislatore alla materia del diritto fallimentare, la materia che ai più è apparsa il terreno elettivo delle problematiche che attengono al giusto processo nella sua declinazione di processo che si deve svolgere davanti ad un giudice terzo e imparziale. Sappiamo bene e tutti ne sono convinti, che la tessitura dell'art. 111 Cost. venne cucita da un sarto-legislatore che aveva come obiettivo quello di vestire di garanzie l’abito del processo penale, così da affermarne il valore di “giusto processo penale”. Ma chiunque per curiosità voglia scoprire quanto il tema del giusto processo sia stato trattato nelle varie discipline processuali, si renderà facilmente conto sulla base di una semplice indagine compiuta su una seria banca-dati, che di giusto processo si discute non solo in ambito penalistico e, in misura minore, nel contesto del processo civile, ma anche e piuttosto frequentemente con riguardo al processo amministrativo, contabile e, soprattutto, al processo tributario. Procediamo con ordine e tracciamo, subito, una serie di circonferenze sempre più strette al fine di marcare l’oggetto dell’esposizione. La prima, più ampia, è la circonferenza che coincide con il processo civile e più in particolare con i profili che riguardano il giudice. All’interno di questo cerchio posizioneremo le nozioni di terzietà ed imparzialità del giudice. Di poi, in una circonferenza sempre più ristretta inseriremo le fattispecie critiche che erano state selezionate negli anni “novanta”, con due appendici perché si tratterà di vedere quale è stato l’atteggiamento della giurisprudenza rispetto ai problemi del giusto processo e quale è stata la replica del legislatore. Infine nella circonferenza concentrica minore vedremo le fattispecie irrisolte e quali sono i possibili parametri da utilizzare per risolverle. L’indagine potrebbe chiudersi qui e così facendo credo si

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riuscirebbe ad assolvere integralmente il compito affidato, visto che questa è la tradizionale impostazione. Provando a contravvenire, almeno un poco, alla tradizione, in una seconda parte tenterò di affrontare il tema dell’imparzialità del giudice visto non più dal cono visivo del processo fra due parti specifiche, ma dalla prospettiva del modello processuale, là dove opera la semplificazione o là dove incide la discrezionalità (oltre ai casi in cui semplificazione e discrezionalità si affiancano e si sommano) con particolare attenzione al tema delle prove. Al modo di una ulteriore premessa mi sono chiesto quali sono le ragioni che suggeriscono una nuova riflessione sul giusto processo. Nella consapevolezza ampiamente condivisa che la Riforma dell’art. 111 Cost. gemma dalle esigenze del processo penale, pur tuttavia per una non inconsueta eterogenesi dei fini, larga parte del nuovo art. 111 ben si presta alle speculazioni del processualcivilista1. Come è stato notato, per ciò che attiene più nello specifico al profilo dell’imparzialità del giudice, il tema (già assunto come rivelatore di un certo disagio per le parti in anni meno recenti2) è tornato a galla negli anni novanta – ben prima della Riforma - in concomitanza con la proliferazione di modelli di tutela sommaria e anticipatoria indotti dalla esplosione della crisi dei tempi del processo civile; più si sono diffusi provvedimenti interlocutori ma non meramente strumentali (come quelli istruttori), più ci si è chiesti se l’adozione di tali provvedimenti non potesse inquinare il giudizio finale di merito3. A questo rinnovato interesse non erano estranee né l’opzione per il giudizio monocratico (1990) né l’istituzione del giudice unico di primo grado (1998). Ora trascorso un decennio dalla Riforma4, val la pena riparlare del giusto processo civile quanto meno per due ordini di motivi: i) il tema dell’imparzialità del giudice che in parte afferisce alla disciplina dell’ordinamento giudiziario come criterio guida delle regole di organizzazione, pur tuttavia nelle coscienze dei giuristi esprime principalmente il valore del giusto processo5; ii) il valore del giusto processo torna di incipiente attualità perché è trasmodato dalla legislazione costituzionale a quella ordinaria là dove l’attuale art. 360 bis c.p.c. stabilisce che se il ricorso si

1 L’indagine, quindi, presuppone l’autonomia delle speculazioni sul processo civile e si distacca dai condizionamenti del processo penale (gemmati da Corte cost., 15 settembre 1995, n.432, Foro it., 1996, I, 411 che ha aperto la stagione delle nuove incompatibilità nel processo penale). Non credo che il netto distinguo fra processo penale e processo civile declamato delle pronunce della Consulta (sembra di leggere nelle pieghe che il giudice civile può essere un po’ meno imparziale del giudice penale perché solo questo si occupa del bene primario della libertà personale) meriti un incondizionato plauso e pur tuttavia nel comparto del diritto processuale civile si può giungere ad “oneste” conclusioni che non sia troppo condizionate dalle suggestioni che rinvengono dal processo penale.

2 FAZZALARI, L’imparzialità del giudice, in Riv.dir.proc., 1972, 193.

3 DITTRICH, La precognizione del giudice e le incompatibilità nel processo civile, in Riv.dir.proc., 2002, 1150,

4 Ex multis, per i contributi a ridosso della riforma, v., CHIARLONI, Il nuovo articolo 111 della Costizuione e il processo civile, in Il nuovo articolo

111 della Costituzione e il giusto processo civile, a cura di M.G. Civinini e C. Verardi, Milano 2001, 13 ss., spec. 16; TROCKER, Il valore costituzionale

del " giusto processo ", in Il nuovo articolo 111, cit., 36 ss.; COSTANTINO, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il " giusto processo civile ". Le garanzie,

ivi, 255 ss.; PROTO PISANI, Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, in Foro it. 2000, V, 241 ss.; TARZIA, L’art. 111 Cost. e le garanzie europee

del processo civile, in Riv. dir. proc. 2001, 1 ss.; LANFRANCHI, Giusto processo: I) Processo civile, in Enc. giur. Treccani, Aggiornamento, vol. X, Roma 2002, 7 ss.; TOMMASEO, Giustizia civile e principi del " giusto processo ", in Studium juris 2002, 600.

5 SCARSELLI, L’imparzialità del giudice e il suo controllo, in Foro it., 2000, I, 772.

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fonda su una violazione delle regole del giusto processo, la comminatoria della inammissibilità (il cd. filtro) non può trovare spazio6. 2. È ben noto come in letteratura all’indomani della Riforma si fossero formati due indirizzi interpretativi contrapposti volti da una parte a sminuire la portata innovativa e dall’altra parte ad esaltarne il significato7. Così mentre taluni autori sostenevano che niuna norma processuale sarebbe stata destinata ad una declaratoria di illegittimità costituzionale che non potesse sortire analoga sorte prima del 1999 (sì che il pregio maggiore era solo quello della chiarezza in merito all’importanza di taluni principi8), da altri si auspicava che i giudici di merito sottoponessero alla Consulta varie fattispecie assertivamente collidenti con la novellata carta costituzionale9. A distanza di un decennio forse non ha più tanta importanza una investigazione sul se e come l'art. 111 abbia mutato la cornice di diritto positivo applicato. Ci basti qui precisare che la declamazione della terzietà ed imparzialità ci esime, ora, di fronte ad una fattispecie critica dal dover effettuare uno scrutinio indiretto di costituzionalità che passi per il combinato disposto degli artt. 3, 24 e 101 Cost.; adesso senza entrare nel tortuoso circuito di norme, possiamo con immediatezza affermare che è incostituzionale quella disposizione che non garantisce direttamente la terzietà e l’imparzialità del giudicante10. Questo tanto basta per apprezzare la novità e per concludere che l’art. 111 Cost. non è stato scritto inutilmente. Se dovessimo impostare un bilancio della disputa fra i due “partiti”, possiamo concludere che il match si è concluso in parità: il primo round se lo è aggiudicato la dottrina “conservatrice” ed il secondo la dottrina “innovatrice”. Infatti registriamo un atteggiamento piuttosto distaccato del giudice delle leggi che non ha forzato l’interpretazione dell’art. 111 Cost., cui però è seguita da parte del legislatore la scelta di recepire in modo più pervasivo la novità costituzionale. Di questi

6 Sulla portata dell’art. 360 bis c.p.c., e sulla estrema ambiguità del cd. filtro relativo al “giusto processo”, v., GRAZIOSI, Riflessioni in

ordine sparso sulla riforma del giudizio di cassazione, in Riv.trim.dir.proc.civ., 2010, 54; G.F. RICCI, Ancora insoluto il problema del ricorso per cassazione, in Riv.dir.proc., 2010, 111; BRIGUGLIO, Ecco il ‹‹ filtro››! (l’ultima riforma del giudizio di cassazione), in Riv.dir.proc., 2009, 1286; CONSOLO, Una buona

"novella" al c.p.c.: la riforma del 2009 (con i suoi artt. 360 bis e 614 bis) va ben al di là della sola dimensione processuale, in Corr.giur., 2009, 737.

7 VIGNERA, Le garanzie costituzionali del processo civile alla luce del «nuovo» art. 111 cost., in Riv.trim.dir.proc.civ., 2003, 1189, definisce icasticamente come abissale la distanza fra le due impostazioni.

8 BOVE, Art. 111 cost. e ‹‹ giusto processo civile ››, in Riv.dir.proc., 2002, 482; CHIARLONI, Il nuovo articolo 111 della Costizuione e il processo civile, cit., 16; MARUFFI, L'art. 111 Cost. e l'incompatibilità del giudice nel processo civile, in Riv.dir.proc., 2003, 1166.

9 PROTO PISANI, Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, cit., 241.

10 Secondo gran parte della letteratura il principio di neutralità del giudice era ricavabile dal divieto [per vero inespresso] di iniziativa processuale d’ufficio (art.24), dalla garanzia del giudice naturale (art.25), dal divieto di costituire giudici speciali (art.102), dalla soggezione dei giudici alla legge (art.101), dalla garanzia di indipendenza della magistratura (art.104), dal principio di eguaglianza (art.3). Dalla lettura in controluce di queste disposizioni, in base a tale impostazione, era quindi agevole arguire la costituzionalizzazione del giusto processo (TROCKER, Processo civile e costituzione, Milano, 1974; CAPPELLETTI-VIGORITI, I diritti costituzionali delle parti nel processo civile italiano, in Riv.dir.proc., 1971, 604 ss. ), quale giudizio tenuto da un giudice terzo e imparziale. La rilevanza costituzionale del giusto processo passava pur tuttavia per la verifica della compatibilità di singole norme ordinarie con singole norme primarie, con la conseguenza che il principio della terzietà del giudice non poteva considerarsi violato quando pur risultando per breve periodo compresso il principio della domanda di parte come presupposto dell’esercizio della giurisdizione, il contraddittorio non fosse sostanzialmente eroso. In sostanza la garanzia del contraddittorio (espresso con formule anche disomogenee) poteva temperare il divieto della iniziativa officiosa. Adesso l’effettività del contraddittorio non dovrebbe supplire al principio nemo iudex sine actore, sì che la compressione della regola della domanda non può più essere tollerata, neppure quando la saldezza del valore del giudice-terzo venga posta a confronto, ai fini di un bilanciamento di interessi, con le esigenze di tutela di altri valori.

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argomenti si tratterà a breve, ma è necessario subito darne conto per capire bene ciò che è accaduto con riguardo al tema dell’imparzialità del giudice, intesa nella sua accezione tradizionale come equidistanza rispetto alle parti (ma accezione che presto cercherò di meglio precisare). Quando, invece, dell’imparzialità preleviamo l’accezione che sconfina nella discrezionalità e nell’interventismo giudiziale, ecco che le posizioni si ribaltano, perché riscontriamo come in un primo momento abbiano prevalso gli innovatori, per poi essere soppiantati da un certo qual atteggiamento di restaurazione. Mi riferisco, ovviamente, al pendolo legislativo che raggiunge l’apice quando si eleva il ruolo di estraneità del giudice rispetto al processo al processo (e ciò è accaduto con il rito societario), per poi infrangersi nella voragine della sua abrogazione, non disgiunta, per di più, dalla proposizione di un modello di tutela dichiarativa semplificata che va nella direzione opposta del processo societario (cfr., artt. 702 bis ss. c.p.c.). Come si nota, una situazione che qualcuno potrebbe definire dissociata e che invece pare purtroppo una costante nella legiferazione in materia di processo civile. Chiuso questo quadro di sintesi, già però indirizzato a porre in luce le criticità persistenti del giusto processo visto nella declinazione del “giudice terzo e imparziale”, è il momento di leggere questi due lemmi per vedere qual è il significato più congruo che ad essi possiamo associare. 3. “Giudice terzo e imparziale”, recita il 2° comma dell’art. 111, ma questa formula che ci pare così consueta quasi da sembrare un refrain, non è poi così consolidata perché nella stesura del progetto di riforma, si utilizzava solo l’espressione “giudice terzo”. Si è aggiunto anche “imparziale” e, forse, già la cronaca dell’andamento dei lavori parlamentari dovrebbe far riflettere sulla bontà della tesi per cui quella in essere sarebbe una figura retorica espressa come endiadi. Prima di vedere quali sono i motivi che ci spingono a preferire la soluzione opposta, è utile ricordare che nei testi germinati dalla normativa sovranazionale, il termine “imparziale” è di solito associato a “indipendente”11. Ecco, dunque, che il processo è giusto se si svolge davanti ad un giudice terzo e imparziale, ma che sia pure indipendente, visto che la qualità dell’indipendenza e, aggiungiamo, dell’autonomia certo si ritrovano in Costituzione. Indipendenza ed autonomia incidono sull’organizzazione e si presentano come una pre-condizione della terzietà ed imparzialità

12. Si vuole che il giudice eserciti la giurisdizione essendo soggetto solo alla legge, estraneo a condizionamenti politici e autonomo in quanto sottoposto ad una organizzazione sostanzialmente corporativa. La circostanza che il giudice sia indipendente da altri Poteri vale a farne un giudice potenzialmente imparziale, ma da sola vale poco perché la garanzia dell’indipendenza riguarda più la funzione [del magistrato] che il concreto esercizio dell’attività giurisdizionale nel singolo processo. Terzietà e imparzialità, dunque, costituiscono valori del giusto processo additivi rispetto al valore dell’ “indipendenza” di cui all’art. 101 Cost., nel senso che non riguardano i profili di separatezza rispetto agli altri poteri dello Stato. Certo un giudice non è terzo quando accondiscende alle seduzioni che provengono dagli altri poteri dello Stato, ma l’indipendenza affermata in Costituzione assicura la separatezza fra poteri, più che l’estraneità del singolo magistrato agli

11 L’art. 6 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo del 1950; l’art. 10 della dichiarazione universale del 1948.

12 PUNZI, Il processo civile. Sistema e problematiche, I, I soggetti e gli atti, Torino, 2010, 144.

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influssi esterni. Le considerazioni che verranno non si soffermeranno sul valore “alto” dell’indipendenza. Ma neppure, come già accennato, terzietà e imparzialità esprimono un unico concetto13, sì che l’una parola sarebbe solo rafforzativa dell’altra. Da una verifica semantica di ciascun termine possiamo notare che all’imparzialità si associano, come sinonimi molte parole che evocano l’idea della giustizia (equanimità, giustizia, neutralità, obiettività), invece alla terzietà si accompagna l’idea della “estraneità”. Mi pare, allora, che i due termini vadano assemblati per rafforzare l’idea della assoluta

estraneità del giudice rispetto alla res litigiosa, da ogni versante la si guardi, sì che il processo è davvero giusto sol quando il giudice è terzo e imparziale14. E per chi crede che la vera forza innovativa dell’art. 111 Cost. sia la sua attitudine a indicare che è giusto quel processo che è organizzato in modo da giungere alla soluzione giusta15, è evidente che la giustizia della decisione è più facilmente conseguibile da parte di un giudice privo di vincoli e di contiguità alla causa. Terzietà ed imparzialità sono le colonne portanti per un esercizio effettivo della giurisdizione, al punto che difettando uno dei due requisiti potrebbe quasi dirsi che siamo al cospetto di un simulacro di processo16 (nel senso che il giudizio reso da una parte non è un giudizio17), ma su questo si tornerà per discutere dei mezzi di reazione al realizzarsi di queste patologie. Per ora possiamo rilevare che: i) dal punto di vista linguistico i due termini esprimono concetti diversi, ii) nell’iter della Riforma, il lemma imparzialità è stato aggiunto, iii) nessuno dei due vocaboli va associato alla nozione di indipendenza del giudice18. Ciò posto è ora giunto il momento di indagare più da vicino il significato di giudice terzo e imparziale. 4. Se riflettiamo sulla genesi della Riforma, possiamo rammentare che in origine si parlava solo di “giudice terzo” e ciò ben rappresentava le suggestioni derivanti dal processo penale e in particolare quelle correlate alla necessità di separare il giudice dal pubblico ministero (senza che si debba indugiare sul fatto che questa separatezza sia funzionale ad una piena separazione di carriera fra giudice e pubblico ministero19).

13 Così, invece, MANDRIOLI, Diritto processuale civile, I, Torino, 2009, 28; CHIARLONI, Giusto processo, garanzie processuali, giustizia della

decisione, in Riv.trim.dir.proc.civ., 2008, 142; BOVE, Art. 111 cost. e ‹‹ giusto processo civile ››, cit., 505.

14 CAPPONI, Brevi considerazioni sull’articolo 111 della Costituzione (procedimento monitorio, processo contumaciale, art. 186 quater c.p.c.), in Il nuovo

articolo 111, cit., 105.

15 CHIARLONI, Giusto processo, garanzie processuali, giustizia della decisione, cit., 144; CARRATTA, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, in Riv.dir.proc., 2003, 36; PIVETTI, Per un processo civile giusto e ragionevole, in Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, cit., 62.

16 MANDRIOLI, Diritto processuale civile, I, cit., 317.

17 CIANFEROTTI, Logica del processo, logica del giudizio ed opinione pubblica, in Riv.trim.dir.proc.civ., 2009, 1430; SATTA, Il mistero del processo, in SATTA, Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova, 1968, 17.

18 MONTESANO, ARIETA, Trattato di diritto processuale civile, I, 1, Padova, 2001, 414.

19 COMOGLIO, Etica e tecnica del giusto processo, Torino, 2004, 40.

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Questa lettura non è irrilevante neppure nella cornice del processo civile. Se la terzietà del giudice nel processo penale è rappresentativa della necessità di allontanare il giudice dall’accusa in modo da pareggiare il rapporto con la difesa, nel processo civile la terzietà vuole rappresentare un distacco del giudice dalle domande delle parti, quindi il giudice non può mai rivestire tale ruolo in una causa propria: il giudice non può confezionare la domanda e poi deciderla. Se il processo civile (contenzioso, qualunque sia il modello di procedimento) è caratterizzato dalla necessaria compresenza di almeno tre soggetti – chi propone una domanda, chi resiste e chi decide – quando pensiamo al difetto di terzietà ci sovviene l'immagine del processo in cui manca una parte perché il ruolo di parte è assunto dal giudice che in qualche modo partecipa o alla formazione del thema

decidendi o vi dà impulso senza concorrenti sollecitazione di parte20, e ciò in contraddizione con l’esaltazione del brocardo ‹‹ nemo iudex causa propria ››, ‹‹ ne procedat iudex ex officio ››. E la parte può mancare quando chi propone la domanda è proprio chi è chiamato, poi, a decidere, cioè il giudice. Questo difetto di terzietà incide proprio sull’essenza della funzione giurisdizionale e non significa affatto, o quanto meno non significa automaticamente, che quel giudice non sia imparziale nel momento in cui è chiamato a decidere21. Ci si deve porre, allora questo interrogativo: è adeguato un sistema processuale che conosce fattispecie in cui alla tutela giurisdizionale dei diritti si procede per iniziativa d’ufficio del giudice? L’art. 2907 c.c. è molto chiaro perché ammette che, sia pure in casi predeterminati, si proceda d’ufficio non già per promuovere un qualunque procedimento, ma proprio per promuovere un processo che ha per oggetto un diritto soggettivo (o uno status), o un potere. La ratio di una siffatta previsione è sempre stata identificata nell’opportunità che in talune materie ove sono preminenti interessi pubblici o quanto meno superindividuali, l’iniziativa non fosse lasciata ai privati e al pubblico ministero. Per più di cinquant’anni non si è mai dubitato (se non, davvero, molto sporadicamente e sul piano dell’opportunità) che tali iniziative officiose fossero in contrasto con le norme costituzionali (pur se non mancavano espressioni di perplessità sulla compatibilità dell’officiosità col principio della domanda)22; pertanto quando il clima è mutato e cioè a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, ciò è accaduto a ridosso della Riforma costituzionale, e direi, non per caso. Quando vengono in gioco diritti soggettivi e status l’idea che sia un giudice a promuovere l’iniziativa processuale, per poi deciderla, contrasta con il bisogno, potremmo dire quasi di diritto naturale, di assicurare che il giudice sia terzo23. Ciò che più stride è che vi sia un giudice che ricerca i fatti dai quali scaturisce la fattispecie che poi è sottoposta al suo esame.

20 DITTRICH, La precognizione del giudice e le incompatibilità nel processo civile, cit., 1153.

21 DITTRICH, La precognizione del giudice e le incompatibilità nel processo civile, cit., 1154.

22 MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti, in Trattato Vassalli, XIV, 4, Torino, 1994, 25 ss.; BONSIGNORI, Tutela giurisdizionale dei

diritti, in Comm. Scialoja-Branca al cod.civ., Bologna-Roma, 1999, 12 ss.; VERDE, Domanda, in Enc.giur Treccani, Roma, 1989, XII, 1; LA CHINA, La tutela giurisdizionale dei diritti, in Trattato Rescigno, 19, I, Torino, 1985, 24; FABBRINI, Potere del giudice (dir.proc.civ.), in Enc.dir., Milano, 1985, XXXIV, 721; ANDRIOLI, Prova, in Noviss. Dig., Torino, 1967, XIV, 278 ss.; LIEBMAN, Fondamento del principio dispositivo, in Problemi del

processo civile, Napoli, 1962, 11 ss.; .FAZZALARI, La imparzialità del giudice, in Studi in memoria di C. Furno, Milano, 1973, 337 ss.; una posizione molto più decisa era assunta invece da CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova, 1943, I, 102, a proposito della necessità di tenere il giudice separato dalla iniziativa del processo.

23 PROTO PISANI, Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, cit., 244; SCARSELLI, Brevi note sul giusto processo fallimentare, in Foro it., 2001, I, 115; VERDE, Diritto processuale civile. 1. Parte generale, Bologna, 2010, 5.

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In questo caso il giudice assume, senza troppi infingimenti, le sembianze dell’attore così da inquinare l’aspettativa della necessaria terzietà nel processo. Sappiamo bene, peraltro, che assai raramente l’iniziativa officiosa si esternava attraverso queste modalità; non era il giudice a ricercare i fatti ma, sollecitato dall’esterno da chi era privo di legittimatio ad agendum , organizzava il materiale raccolto per poi decidere nel contraddittorio del destinatario della misura richiesta. Normalmente il giudice si limitava a supplire, dando una veste formale alla iniziativa, alla carenza di legittimazione di taluni soggetti, anche se talora è accaduto che fosse direttamente il giudice a ricercare i fatti da sottoporre al proprio controllo in una sorta di egemonia processuale temperata solo dal contraddittorio. Salvo questi casi estremi l’esternità della segnalazione quanto meno consentiva al giudice di mantenere psicologicamente un certo distacco dalla vicenda; nondimeno era innegabile che anche in quelle situazioni, mancando un attore, la ricerca e l’allegazione dei fatti, nonché le iniziative probatorie fossero affidate al giudice, talché a ben vedere l’approccio poteva egualmente risultare ombreggiato da queste attività. Per quanto, ripeto, giustificabile in relazione alla tipicità superindividuale degli interessi, la scelta di affidare al giudice l’iniziativa processuale non sembrava allineata al valore della terzietà del giudice. Quando parliamo di difetto di terzietà è naturale pensare al fatto che non può essere terzo quel giudice dove il contraddittorio è monco. Qui la patologia non riguarda il magistrato persona ma il giudice istituzione. Non si discorre dell’applicazione degli istituti della ricusazione e dell’astensione perché non c’è un giudice incompatibile, ma tutti i giudici sono incompatibili perché ciò che difetta è proprio la possibilità di esercitare la giurisdizione. Laddove accada che un processo venga promosso da un giudice, al momento di decidere la res litigiosa il giudice ravvedutosi del proprio errore dovrebbe dichiarare la nullità del rapporto processuale e ove ciò non accadesse, nelle successive fasi di impugnazione il giudice del gravame dovrebbe annullare la sentenza per vizio di costituzione del giudice24, ma non escluderei neppure la più grave conseguenza indotta dalla sentenza resa da chi non può essere considerato giudice perché parte. Due conseguenze, come ognun vede molto diverse e ben più incisive rispetto a quanto regolato nell’art. 51 c.p.c. , perché non “pregiudicate” dalla proposizione del formale procedimento di ricusazione. Pertanto, quando difetta la terzietà del giudice non credo proprio possa invocarsi la ormai tralatizia declamazione per cui qualora non sia stata proposta, ai sensi dell’art. 51 c.p.c., istanza di ricusazione, il vizio relativo alla costituzione del giudice per la violazione dell’obbligo di astensione non può essere dedotta quale motivo di nullità della sentenza, ex art. 158 c.p.c.25. Qui ciò che preoccupa è il difetto di alterità rispetto all’oggetto della lite.

24 Il ragionamento della giurisprudenza si trova esemplificato in Cass., 16 aprile 2004, n. 7252, ove si è statuito che anche a seguito della modifica dell’art. 111 cost. introdotta dalla l.cost. 23 novembre 1999 n. 2, in difetto di ricusazione la violazione dell’obbligo di astenersi da parte del giudice non è deducibile in sede di impugnazione come motivo di nullità della sentenza da lui emessa (a meno che egli

non abbia un interesse proprio e diretto nella causa), giacché la norma costituzionale, nel fissare i principi fondamentali del giusto processo (tra i quali, appunto, l’imparzialità-terzietà del giudice) ha demandato al legislatore ordinario di dettarne la disciplina e, come ha affermato la corte costituzionale (sentenza n. 387 del 1999), in considerazione della peculiarità del processo civile, fondato sull’impulso paritario delle parti, non è arbitraria la scelta del legislatore di garantire l’imparzialità-terzietà del giudice solo attraverso gli istituti dell’astensione e della ricusazione; conforme, Cass., 27 febbraio 2004, n. 3974 [ n.d.A., le sentenze d’ora in poi citate senza collocazione, sono reperibili in massima sui repertori cartacei ed elettronici e non sono pubblicate per esteso].

25 Ex multis, Cass., 27 maggio 2009, n. 12263; Cass., 12 gennaio 2007, n. 565; . Cass., 29 marzo 2007, n. 7702; Cass. 28 giugno 2002, n. 9483, in Foro it., Rep. 2002, voce Astensione, ricusazione, n. 43; Cass., 11 marzo 2002, n. 3527, ibid., n. 39; Cass., 13 agosto 2001, n. 11070,

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Quando è violato il principio della terzietà non ci interessano le garanzie apprestate dall’art. 51 c.p.c., perché il vizio sta proprio nell’inosservanza del valore espresso nell’art. 111 Cost. e se si vuole nell’art. 24 Cost.; non c’è un giudice da ricusare per la semplice ragione che tutti i giudici sono incompatibili a giudicare, compreso il caso del giudice che avvia il processo ed altro che lo decide. Qui come ho ipotizzato il problema non investe l’imparzialità da pre-cognizione, ma proprio l’inesistenza del valore della giurisdizione. Dobbiamo dunque concludere che l’esercizio della giurisdizione, contrariamente a quanto stabilito nell’art. 2907 c.c. non può più essere avviato d’ufficio, talché se nell’ordinamento ancora si ritrovano iniziative officiose queste debbono intendersi non più in armonia con la Costituzione. Quali le conseguenze? Se per conseguenza intendiamo sanzione, a me pare che le norme che ancor oggi stabiliscono iniziative officiose debbano considerarsi incostituzionali e dunque affetta da nullità per vizio di costituzione del giudice deve reputarsi la sentenza che sia stata emessa ciò nonostante. Se per conseguenza intendiamo effetti a più ampio raggio, allora occorre immaginare che per quegli interessi pubblici o superindividuali per i quali la tutela officiosa era apprestata, oggi sia indispensabile affidare il potere di iniziativa al pubblico ministero in modo che il processo come rapporto fra almeno tre parti sia ricostituito. In un successivo § proverò a scrutinare quanto accaduto con la riforma del fallimento al modo di un paradigma dei rapporti fra giudice civile e pubblico ministero. Quando si afferma che l’iniziativa officiosa va espunta dal sistema occorre precisare che ci si riferisce a situazioni nelle quali il giudice esercita la giurisdizione nell’ambito di processi in cui l’oggetto è un diritto soggettivo (o status) o un potere. Quando, invece, il giudice svolge una funzione che potrebbe essere assunta da un qualunque organo dell’amministrazione attiva, allora il profilo della terzietà non è più necessario, fermo restando, invece, il profilo della imparzialità26. Sui profili correlati alla espunzione dell’iniziativa d’ufficio si avrà modo di tornare nei §§ 8 e 9. 5. Quando parliamo di difetto di imparzialità ci viene spontaneo pensare al giudice che parteggia per una parte così che difetta il necessario rapporto di equidistanza (questa è l’impressione

ibid., n. 29; Cass., 12 luglio 2001, n. 9418, id., Rep. 2001, voce cit., n. 34; Cass., 23 aprile 2001, n. 170, ibid., n. 31; sino a risalire senza soluzione di continuità a Cass. 21 novembre 1981, n. 6221, id., 1982, I, 1096.

26 Proprio per rimanere nel contesto concorsuale, la vicenda costituzionale del vecchio art. 146 l.fall. appare emblematica. I profili rilevanti che tale norma poneva attenevano al quesito se fosse conforme ai valori della costituzione la natura officiosa del procedimento di sequestro fallimentare e la posizione del giudice delegato quale organo davvero terzo e imparziale. Al primo quesito il giudice delle leggi fornì una risposta prima del mutamento della costituzione (Corte cost., 8 maggio 1996, n.148, in Foro it., 1996, I, 2648), osservando che l’impulso d’ufficio nel procedimento ex art.146 l.fall. non rappresentava un vulnus ai valori della costituzione sia perché al principio nemo iudex sine actore deroga[va]no diverse disposizioni, sia perché l’officiosità si limitava alla fase introduttiva del procedimento visto che poi trovando applicazione le norme del procedimento cautelare uniforme si assisteva ad una rapida e completa riespansione del contraddittorio. La relazione fra principio della iniziativa processuale di parte e terzietà ed imparzialità del giudice non era quindi per il giudice delle leggi un valore assoluto, anche se ad una più attenta lettura si nota come nella pronuncia si sia voluto rimarcare che nell'esercizio del potere cautelare, il giudice delegato, pur tenendo conto degli elementi risultanti dall'istanza del curatore e con l'ulteriore ausilio di sommarie e dirette informazioni, agiva non come attore, ma nella sua veste giurisdizionale e quindi super partes, valutando i requisiti che devono essere la sicura base di qualsiasi provvedimento cautelare (il fumus boni iuris ed un effettivo periculum in mora), sentendo le parti — seppure dopo l'adozione del provvedimento per non pregiudicare l'attuazione della misura stessa — e sempre con la garanzia dei successivi mezzi di impugnazione. In questo procedimento, pertanto, sempre secondo il giudice costituzionale, i soggetti passivi delle misure cautelari venivano a trovarsi in contraddittorio, non col mero convincimento di un ‹‹giudice-attore›› (è una espressione mutuata da MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti, in Trattato Vassalli, Torino, XIV, 4, 32) ma con gli interessi e le ragioni sostenute dalla controparte, e con strumenti processuali, certo peculiari per la specificità della materia, ma pur sempre sufficienti a garantire la tutela del diritto di difesa, sia sotto il profilo della terzietà del giudice, sia per l'essenziale dialettica processuale (ampie riserve sulla scelta di mantenere un basso profilo di costituzionalizzazione della regola della iniziativa di parte erano espresse da E. FABIANI, L'art.146 l.fall.: problemi di costituzionalità e di compatibilità con il procedimento cautelare uniforme, in Foro it., 1996, I, 2648).

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che si ricava dalla lettura dell’art. 51 nn. 1, 2, 3 e 5 c.p.c.). Al contempo il pensiero va anche al giudice che non ha piena serenità di giudizio, perché il suo approccio alla lite è condizionato dalla forza della prevenzione27 indotta dalla conoscenza che il giudice abbia già avuto di quella determinata causa, o determinata vicenda (prima che si trasformasse in controversia), v., art. 51 n.4 c.p.c. Ecco, allora, che le fonti della non imparzialità le ritroviamo declinate nel diritto positivo posto che il difetto di imparzialità viene associato alle ipotesi che giustificano l’istanza di ricusazione e dunque alle fattispecie indicate nell’art. 51 c.p.c. Se possiamo convenire in ordine al fatto che ciascuno dei casi incide sulla serenità di giudizio e sulla effettività della neutralità, notiamo però che per ciò che attiene ai nn. 1, 2, 3 e 5 difetta l’equidistanza del giudice rispetto alle parti; il giudice trovandosi in una delle predette situazioni può essere indotto a favorire o danneggiare l’una o l’altra parte. Diversamente, nel caso dell’art. 51 n.4, il giudice è indifferente rispetto a chi siano le parti; ciò che può inquinare il suo giudizio è la circostanza di avere già avuto un ruolo in quella medesima vicenda sostanziale. Qui ciò che mina la serenità di giudizio è quella che viene usualmente definita come la forza della prevenzione28; si tratta pur sempre di una incompatibilità soggettiva, ma verrebbe da precisare “obiettivizzata” dalla decisione29; la patologia (sempre che di patologia si possa discutere) riguarda un profilo cognitivo diverso perché in questo caso ciò che difetta non è la neutralità rispetto ai litiganti, ma la neutralità rispetto alla decisione presa

30. Il giudice che si trovi a conoscere di una lite che ha già prima conosciuto la affronta, se si vuole, con maggiori informazioni (rispetto al giudice che vi si accosta per la prima volta) ma anche con molte maggiori riserve perché è indotto naturalmente a confermare le decisioni assunte in precedenza. Si dice che è insita nell’animo umano la difficoltà di riconoscere i propri errori e di ritornare sui propri passi, ma forse è anche vero che la prevenzione può atteggiarsi come espressione della volontà del giudice di confermare la precedente decisione perché ritenuta giusta31. È questa una convinzione diffusa ma non so quanto, davvero, persuasiva. Se così fosse, dovremmo pensare che l’istituto della revoca (di un provvedimento) è un inutile orpello, offerto alle parti ma privo, in realtà, di sbocchi concreti. La revoca, ammessa pur quando non sia mutata la situazione di fatto, esprime proprio questa (attesa, auspicata) capacità del giudice di ritornare sulle proprie decisioni. Ed effettivamente se guardiamo l’art. 51 n.4 c.p.c. ci avvediamo che il legislatore ordinario non ha affatto voluto imporre l’alterità del giudice ogni volta che si possa presentare l’occasione di rivedere una certa decisione assunta, ma lo ha fatto con riferimento ai gradi di giudizio.

27 BOVE, Art. 111 cost. e ‹‹ giusto processo civile ››, cit., 507

28 Non ci si sofferma su quelle ipotesi in cui giustamente (v., Cass., 23 febbraio 2006, n. 4024) si è ritenuto che l’obbligo del giudice di astenersi si riferisce ai casi in cui egli abbia conosciuto della causa in altro grado del processo, e non anche ai casi in cui abbia avuto conoscenza, come magistrato, di una causa diversa che verta su un oggetto analogo e che comporti la risoluzione di una medesima problematica; v., anche Corte cost. , 18 luglio 2002, n. 361, in Giur.cost., 2002, 2707.

29 Sulla distinzione, prelevata dalla giurisprudenza della CEDU fra imparzialità “oggettiva” e imparzialità “soggettiva”, v., MARUFFI, L'art. 111 Cost. e l'incompatibilità del giudice nel processo civile, cit., 1172.

30 DITTRICH, La precognizione del giudice e le incompatibilità nel processo civile, cit., 1159.

31 DITTRICH, La precognizione del giudice e le incompatibilità nel processo civile, cit., 1159.

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In tale prospettiva mi pare che il divieto per il giudice di conoscere in altro grado la medesima lite non sia tanto, o solo, la reazione alla forza della prevenzione, ma risponda anche e soprattutto ad un’altra esigenza: quella per la quale si vuole che il riesame o il controllo su un certo provvedimento (quello che l’art. 51 n.4 evoca è l’”impugnazione per gradi”) sia affidata, sempre, ad un giudice diverso32. In letteratura è stato obiettato che non è affatto necessario che il giudice del controllo – o forse meglio dell’impugnazione intesa in senso stretto – sia “diverso” e ciò per il rilievo, a mio modo di vedere paradossale, che il difetto di costituzionalizzazione del cd. doppio grado di merito, non impone necessariamente l’alterità del giudicante, in quanto le parti non vi avrebbero costituzionalmente diritto33. Si tratta di una rappresentazione “provocatoria” che mi pare non tenga conto del fatto che, giusto o sbagliato che sia, il legislatore ordinario ha descritto questa situazione come espressione di una possibile patologia sul piano della imparzialità e non della incompatibilità. Rovesciando l’impostazione, troverei assai più condivisibile estrarre il caso descritto nell’art. 51 n.4 dal fenomeno della ricusazione per sostenere che un giudice che in appello decide una causa che ha egli stesso deciso anche in tribunale, non andrebbe tanto ricusato, quanto dovrebbe essere considerato un “non – giudice [d’appello]”, sì che il difetto andrebbe riguardato sotto la lente delle nullità processuali extraformali34. Mi rendo però ben conto che la scelta del legislatore è stata diversa confezionando una reazione alla violazione del divieto, decisamente tenue perché è affidato alla iniziativa di parte e alla sensibilità del giudice impedire in concreto che ad una siffatta violazione si giunga35. Il doppio ruolo del giudice, che prima decide e poi controlla la propria decisione non è trattato in modo diverso dal caso del giudice che può parteggiare per una delle parti perché con essa ha un certo rapporto di conoscenza. Si può discutere su quale sia l’ipotesi più pericolosa per una corretta decisione della lite, ma i profili di patologia mi paiono diversi e così diverse dovrebbero

32 PIVETTI, Per un processo civile giusto e ragionevole, cit., 83; DITTRICH, La precognizione del giudice e le incompatibilità nel processo civile, cit., 1159; MARUFFI, L'art. 111 Cost. e l'incompatibilità del giudice nel processo civile, cit., 1183.

33 DITTRICH, La precognizione del giudice e le incompatibilità nel processo civile, cit., 1163.

34 DITTRICH, La precognizione del giudice e le incompatibilità nel processo civile, cit, 1173, banalizza questa ipotetica sanzione osservando che non cambierebbe il risultato visto che il giudice d’appello non potrebbe annullare la sentenza e rinviare al primo giudice, visti i limiti di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c. Mi pare invece che se la sentenza potesse essere dichiarata nulla per difetto di costituzione del giudice di primo grado, quello di appello dovrebbe rinnovare l’intero processo e non direi che sia conseguenza di poco conto per l’interesse della parte, considerando il nostro appello come una impugnazione tendenzialmente poco aperta ai nova..

35 Infatti, pure di recente Cass., 4 giugno 2008, n. 14807, ha affermato che anche a seguito della modifica dell’art. 111 cost., introdotta dalla l.cost. n. 2 del 1999, in difetto di ricusazione la violazione dell’obbligo di astenersi da parte del giudice che abbia già conosciuto della causa in altro grado del processo (art. 51, 1º comma, n. 4, c.p.c.) non è deducibile in sede di impugnazione come motivo di nullità della sentenza da lui emessa, giacché la norma costituzionale, nel fissare i principi fondamentali del giusto processo (tra i quali, appunto, l’imparzialità e terzietà del giudice) ha demandato al legislatore ordinario di dettarne la disciplina e, in considerazione della peculiarità del processo civile, fondato sull’impulso paritario delle parti, non è arbitraria la scelta del legislatore di garantire, nell’ipotesi anzidetta, l’imparzialità e terzietà del giudice tramite gli istituti dell’astensione e della ricusazione; né detti istituti, cui si aggiunge quello dell’impugnazione della decisione nel caso di mancato accoglimento della ricusazione, possono reputarsi strumenti di tutela inadeguati o incongrui a garantire in modo efficace il diritto delle parti alla imparzialità del giudice, dovendosi, quindi, escludere un contrasto con la norma recata dall’art. 6 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la quale, sotto l’ulteriore profilo dei contenuti di cui si permea il valore dell’imparzialità del giudice, nulla aggiunge rispetto a quanto già previsto dal citato art. 111 cost. Ed infatti sulla insussistenza di una causa di nullità della decisione derivante dall’omessa astensione, la giurisprudenza è quanto mai ferma, v., Cass., 14 luglio 2006, n. 16119, in Giur. it., 2007, 1460; v., BOVE, Art. 111 cost. e ‹‹ giusto processo civile ››, cit., 489.

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essere le reazioni. Non va dimenticato che talora il legislatore stesso, di fronte a certe situazioni in cui si palesava il rischio di intaccare il principio di imparzialità per un sospetto di non equidistanza, ha persino adottato la strada della deviazione della competenza: ciò è accaduto rispetto al foro per le cause in cui fosse parte un magistrato (v. , art. 30 bis c.p.c.)36. Quindi le reazioni possono essere svariate e rilevanti direttamente sul piano del processo. È giusto segnalare anche che nonostante la giurisprudenza abbia da tempo assunto un atteggiamento monolitico in relazione alla circostanza che il mancato utilizzo del rimedio della ricusazione sia impeditivo di una successiva impugnazione per nullità della sentenza, le decisioni sull’argomento da parte della Suprema Corte siano tutt’ora moltissime, il che mi pare stia a denotare che nella coscienza del giurista l’istituto della ricusazione appare come uno strumento inadeguato per sanzionare situazioni in cui si può discutere della corretta costituzione del giudice37. Al momento, visto il diritto positivo (che raggruppa sotto lo stesso ombrello protettivo tutte queste situazioni), forse si deve sentire appagati dalla svolta giurisprudenziale che riconosce al procedimento incidentale di ricusazione un effetto condizionante non preclusivo sul prosieguo del giudizio38, nel senso che se la parte attiva il procedimento di ricusazione con esito sfavorevole, l’eventuale successivo accertamento della sussistenza della causa di ricusazione può essere dedotto come motivo di impugnazione39. Una volta stabilito che non è imparziale il giudice che abbia già conosciuto della causa in altro grado, tutto sta a vedere cosa si intenda per grado di giudizio e a questo interrogativo cercheremo di dare una risposta nei §§ successivi dopo avere esaminato le fattispecie critiche che emergevano prima della Riforma e quale approccio vi sia stato, dopo, da parte della giurisprudenza e da parte del legislatore. 6. Più di qualche autore aveva, prima e dopo la riforma costituzionale, formato un palinsesto delle norme di diritto positivo in contrasto con i principi di terzietà e imparzialità del giudice40. Per quanto riguarda la terzietà i casi paradigmatici erano costituiti dal procedimento per dichiarazione di fallimento, dalle misure cautelari che il giudice delegato poteva emettere d’ufficio in relazione ad azioni di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci di società, dalle misure in tema di persone minori o incapaci41.

36 Sul fatto che l’art. 30 bis c.p.c. sia posto a garanzia della terzietà ed indipendenza [ma io direi, dell’imparzialità] dell’esercizio della funzione giudiziaria, Cass., 23 giugno 2009, n. 14761.

37 Un segnale di discontinuità rispetto a tale monolitico orientamento può vedersi nella recente decisione (Cass., 13 novembre 2009, n. 24178, in Fallimento, 2010, 15) con cui si è affermata la nullità della sentenza resa da un collegio della corte d’appello cui aveva partecipato un giudice che aveva composto il collegio che aveva deciso sull’opposizione al fallimento. La vicenda presenta, peraltro, tali anomalie (in ordine alla sostituzione del giudice e poi alla surroga del sostituto) da non potersi definire il paradigma di un possibile revirement.

38 LUISO, Diritto processuale civile, I, Principi generali, Milano, 2009, 142; PUNZI, Il processo civile. Sistema e problematiche, I, cit., 296.

39 Cass., 12 gennaio 2007, n. 565; Cass., 28 marzo 2007, n. 7578; Cass., s.u., 20 novembre 2003, n. 17636, in Guida al dir., 2003, fasc. 50, 20.

40 VIGNERA, Le garanzie costituzionali del processo civile alla luce del «nuovo» art. 111 cost., cit., 1209; SCARSELLI, Articolo 111 della Costituzione e

incompatibilità del giudice nel processo civile, fallimentare e minorile, cit., 95 ss.; M. FABIANI, Giusto processo e ruolo del giudice delegato, in Fallimento, 2002, 271.

41 MONTESANO, ARIETA, Trattato di diritto processuale civile, II, 1, Padova, 2002, 945.

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Per quanto riguarda l’imparzialità, ancora si trovavano molte disposizioni della legge fallimentare e direi tutte quelle in cui si assisteva ad una commistione di funzioni in capo al giudice delegato42 (funzioni gestorie e funzioni giurisdizionali spesso sovrapposte, cfr., l’autorizzazione a stare in giudizio e poi l’assunzione della veste di giudice della lite autorizzata43; provvedimento gestorio del giudice delegato e reclamo al collegio ex art. 26 l.fall.), oltre a quelle in cui si apriva una fase successiva davanti allo stesso organo che già aveva assunto una decisione (sentenza di fallimento e opposizione alla sentenza; decreto di esecutività dello stato passivo e successive opposizioni e impugnazioni)44. Ma se era la legge fallimentare il terreno elettivo delle incompatibilità45, molti dubbi ruotavano attorno al decreto ingiuntivo e successiva opposizione, al rapporto fra misura cautelare e giudizio di merito, al rapporto fra fase sommaria del giudizio ex art. 28 st.lav. e fase a cognizione piena oppositoria; alle opposizioni esecutive, al rapporto fra fase di ammissibilità di una domanda e successiva fase di merito, all’opposizione allo stato di adottabilità46.

42 Il legislatore in effetti ha sciolto queste ambiguità (cfr., infra § 8), ma anziché togliere al giudice delegato le competenze giurisdizionali (come auspicava SCARSELLI, Brevi note sul giusto processo fallimentare, cit., 116), ha preferito emarginare il giudice dalla direzione del procedimento, assegnandogli compiti di vigilanza e di controllo (art. 25 l.fall.), L’equivoco di fondo sembrava proprio annidarsi nella commistione fra esercizio di poteri amministrativi e di direzione della procedura che competono al giudice delegato ed esercizio dei poteri giurisdizionali. Quanto ai primi, laddove il giudice delegato, unitamente al curatore, agisca come organo della procedura è logico e connaturale al sistema che assuma determinate iniziative in via officiosa. Quando invece vengono in gioco i poteri giurisdizionali, l’impulso d’ufficio confligge con il principio della terzietà del giudice.

43 Qui la situazione era particolarmente delicata in quanto pur facendo applicazione dei principi espansivi sulla nozione di grado, in via meramente interpretativa assai difficilmente si sarebbe potuti giungere ad una soluzione appagante. Infatti anche accedendo ad una nozione assai estesa di fase del giudizio, il rapporto fra giudice delegato che autorizza (ex art.31 l.fall.) il curatore a proporre una determinata azione e giudice affidatario della causa di merito non poteva essere inteso come espressione di più fasi di un medesimo giudizio (Trib. Vigevano, 13 luglio 1999, in Foro it., 2000, I, 2361 ) dal momento che il decreto autorizzatorio si pone come condizione di procedibilità della domanda, condizione estranea al processo di merito (Corte cost., 21 novembre 1997, n.351, in Foro it., 1998, I, 1006, aveva rimarcato come l’autorizzazione non è un provvedimento giurisdizionale di carattere decisorio, ma è espressione delle generali funzioni di controllo esercitate dal giudice delegato nel corso della procedura fallimentare. Il caso che si presentava era quello del rapporto fra il magistrato che in funzione di giudice delegato ha autorizzato la curatela a costituirsi parte civile nel processo penale e quello stesso chiamato a svolgere il ruolo di giudice del dibattimento penale). Solo in via normativa, come poi è accaduto, si poteva dipanare l’intreccio fra giudice gestore e giudice del “contenzioso”.

44 Per tutte queste ipotesi TARZIA, Il processo di fallimento e l’imparzialità del giudice, in Riv.dir.proc., 1997, 16, riteneva che vi dovesse essere la necessaria dissociazione fra giudice delegato e giudice del “controllo”

45 SCARSELLI, Brevi note sul giusto processo fallimentare, cit., 114; M. FABIANI, Giusto processo e giudice delegato, cit., 271; TARZIA, Il processo di

fallimento e l’imparzialità del giudice, cit., 13; SIRACUSANO, Osservazioni sulla pretesa incompatibilità del giudice della cautela rispetto al merito, in Giust.civ., 1997, I, 2005; BONFATTI, L’accertamento del passivo e dei diritti mobiliari, in Le procedure concorsuali. Il fallimento, Trattato diretto da Ragusa Maggiore e Costa, III, Torino, 1997, 313; CAPUTO, La partecipazione del giudice delegato alla decisione delle cause da lui autorizzate, in Dir.fall., 1996, II, 99. Altri Autori ritenevano che alcune delle denunciate situazioni di incompatibilità non fossero fondate: COSTANTINO, Il

giusto processo, in Fallimento, 2002, 253, riteneva giustificato che il giudice delegato potesse anche decidere dell’opposizione allo stato passivo e dei reclami endofallimentari; in termini simili, CHIARLONI, Giusto processo e fallimento, in Fallimento, 2002, 264.

46 L’attuale art. 17 della l. 184/1983 prevede che l’opposizione si svolga davanti alla corte d’appello, ma ancora di recente il giudice di legittimità (v., Cass., 24 aprile 2008, n. 10645) aveva affermato che la mancata previsione dell’incompatibilità tra giudice che pronuncia il decreto dichiarativo dello stato di adottabilità e quello che decida la relativa opposizione non comporta una apprezzabile limitazione del diritto di difesa, in quanto il decreto dichiarativo dello stato di adottabilità del minore, ai sensi della l. 4 maggio 1983 n. 184, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dalla l. 28 marzo 2001 n. 149, viene emesso al termine di un procedimento non contenzioso, mentre l’opposizione allo stesso decreto dà luogo ad un giudizio contenzioso; è, pertanto, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni della l. n. 184 del 1983, che regolano la procedura per la dichiarazione dello stato di adottabilità.

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In tutti questi casi si opinava da parte autorevole della dottrina che la Corte costituzionale avrebbe dovuto dichiarare l’incostituzionalità della disciplina là dove non era espressamente prevista l’alterità del giudice. Al cospetto di una letteratura che spingeva per alzare l’asticella delle garanzie, si contrapponeva un diverso orientamento secondo il quale era fortemente inopportuno spingersi oltre il crinale della necessaria alterità perché questo da un lato avrebbe potuto far germinare effetti non voluti o comunque peggiorativi in termini di efficienza (al punto che veniva evocata la necessità di contemperare l’art. 111 Cost. con l’art. 97 Cost, a proposito del buona andamento dell’Amministrazione)47, e dall’altro lato avrebbe potuto provocare un frazionamento esasperato (fra giudici) delle fasi processuali. Dietro l’angolo si finiva l’agitare lo spettro della giuria popolare, quale unico rimedio alla pre-cognizione del giudice. Non credo che le frange estreme di queste ideologie ci aiutino per capire bene il fenomeno che, al fondo, è solo quello di garantire alle parti una giusta decisione, più facilmente raggiungibile se il giudice che la deve assumere ha condizionamenti ridotti al minimo. È ben vero che da tempo gli ordinamenti moderni hanno rinunciato all’idea che il giudice sia solo un tecnico in grado di fare buona applicazione del ragionamento sillogistico48; il giudice è un protagonista della società che “conosce il mondo”, che ha le sue fedi e i suoi agnosticismi, che ne possono influenzare la caratura culturale, ma non debbono condizionarne direttamente la decisione49. Non diversamente il giudice quando studia il processo è influenzato dagli orientamenti giurisprudenziali propri e altrui, ma ciò non deve impedire che nella singola lite, l’approccio sia quanto più laico possibile. Il contorno culturale è influenzabile, non altrettanto lo deve essere la scelta della decisione. E così quando parliamo di decisione dobbiamo anche intenderci nel senso che la garanzia del giusto processo riguarda solo il processo contenzioso, oppure si estende anche ai procedimenti di cd. volontaria giurisdizione? A stretto rigore terminologico, si potrebbe essere tentati dal dire che le garanzie sono necessarie solo nei processi con le parti in posizione antagonista per sfumare del tutto nei procedimenti camerali unilaterali. Questa soluzione non mi convince del tutto; se il legislatore ha ritenuto che certe materie siano attribuite al giudice (quando per il tipo di intervento richiesto potrebbero essere affidate al funzionario amministrativo o al notaio), ciò dipende dal bisogno di disporre di un soggetto che offra certe garanzie e la garanzia fondamentale che da un giudice dobbiamo attenderci è proprio quella dell’imparzialità, principio che vedo coerente anche

47 TROCKER, Il valore costituzionale del " giusto processo ", cit., 47. DITTRICH, La precognizione del giudice e le incompatibilità nel processo civile, cit., 1161, chiarisce che l’art. 97 Cost. è applicabile al caso in quanto l’art. 51 n.4 c.p.c. detta forme di incompatibilità processuale che afferiscono all’ordinamento giudiziario e dunque alla organizzazione dello Stato e dei suoi apparati amministrativi. Per MARUFFI, L'art. 111 Cost. e l'incompatibilità del giudice nel processo civile, cit., 1182, sottrarre la decisione della causa al magistrato che di essa si sia già occupato, per affidarla ad un soggetto completamente ignaro dei fatti controversi, non andrebbe sempre a favore dell’attuazione di un giusto processo. Sicuramente la previsione dell’incompatibilità comporterebbe una dilatazione dei tempi processuali necessari per addivenire ad una statuizione sul merito, dando luogo, così, ad un fenomeno che, tuttavia, non è trascurabile, atteso che la garanzia di ottenere giustizia in un periodo congruo è una di quelle alle quali il legislatore ha voluto dare espresso riconoscimento nel nuovo art. 111 Cost.; inoltre, la scelta di assicurare a tutti i costi alle parti un giudice scevro di condizionamento potrebbe far sorgere anche alcuni problemi di organizzazione giudiziaria, specie in quei tribunali dotati di un numero esiguo di magistrati.

48 PUNZI, Il processo civile. Sistema e problematiche, I, cit., 138.

49 MARENGO, La discrezionalità del giudice civile, Torino, 1996, 63. Come ricorda PRENDINI, Imparzialità ed apparenza di imparzialità del

giudice. L’esperienza inglese, in Int’l lis, 2008, 38, il giudice Rehnquist, penultimo Chief Justice della Corte Suprema degli U.S.A., affermò che la dimostrazione (ove mai fosse possibile) che la mente del giudice, all'atto del suo insediamento, è stata soggetta ad un'integrale tabula rasa ciò comporterebbe unicamente, più che la mancanza di pregiudizio, una mancanza di preparazione e di qualificazione

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con i procedimenti di giurisdizione volontaria (per tali intendendo quelli in senso stretto e non piegati alla tutela dei diritti)50. A maggior ragione l’ imparzialità non va certo espulsa dal processo di esecuzione51. 7. Come ho già ricordato, la giurisprudenza di legittimità all’inizio degli anni “duemila” ha confermato una lettura fortemente riduttiva dell’art. 111 Cost., negando profili di incompatibilità per molte delle fattispecie elencate nel palinsesto di cui ho parlato. Si segnalano le pronunce in tema di reclamo ex art. 26 l.fall. 52, in tema di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento53, di opposizione allo stato passivo54, di opposizione agli atti esecutivi55. Non diverso è l’orientamento che registriamo sul versante della giustizia costituzionale. Le decisioni più importanti che la Consulta ha adottato sul fronte dell’imparzialità del giudice – dopo la Riforma dell’art. 111 Cost. - sono: Corte cost., 31 maggio 2000, n. 16856, che ha giudicato manifestamente infondata la questione di

legittimità costituzionale dell’art. 51, 1º comma, n. 4 c.p.c., nella parte in cui non prevede l’obbligo

di astensione a definire la controversia con sentenza da parte del giudice che abbia già provveduto

con l’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione ex art. 186 quater c.p.c., in riferimento agli

art. 3 e 24 cost. Corte cost., 28 maggio 2001, n. 16757, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di

legittimità costituzionale degli art. 98 e 99 legge fall., nella parte in cui designano il giudice

delegato al fallimento a decidere le opposizioni allo stato passivo, in riferimento agli art. 3, 24,

101, 104 e 111 cost.

Corte cost., 31 maggio 2001, n. 17658, secondo la quale è manifestamente infondata la questione di

legittimità costituzionale dell’art. 51 c.p.c., nella parte in cui non prevede che il giudice delegato

del fallimento, il quale abbia autorizzato il curatore a promuovere contro gli amministratori della

società fallita azione di responsabilità nonché il sequestro dei beni degli amministratori medesimi,

debba astenersi dal giudicare nella causa medesima, in riferimento agli art. 3 e 24 cost.

50 Certo se per talune materie vi può essere un processo di osmosi fra direzione da parte di un soggetto che appartiene all’ordine giudiziario e direzione da parte un soggetto riconducibile all’Amministrazione, si potrebbe anche pensare che è la materia in sé che richiede l’imparzialità del “funzionario”, chiunque esso sia, giudice o altro.

51 TARZIA, Il giusto processo di esecuzione, in Riv.dir.proc., 2002, 336

52 Cass., 9 luglio 2005, n. 14471 in Fallimento, 2006, 644; Cass., 13 luglio 2004, n. 12969; Cass., 25 gennaio 2001, n. 1072, in Fallimento, 2001, 1005; Cass., 4 gennaio 2001, n. 70, in Foro it., 2001, I, 3682; sulla falsariga di Corte cost. 6 novembre 1998, n. 363, in Foro it., 1998, I, 3033.

53 Cass., 19 settembre 2000, n. 12410, in Foro it., 2001, I, 113; Cass. 5 dicembre 2003, n. 18629, id., 2004, I, 743; Cass., , 1° luglio 2004, n. 12029 in Giust. civ., 2005, I, 1044.

5454 Cass., 7 marzo 2001, n. 3272.

55 Cass., 8 aprile 2003, n. 5510

56 In Foro it., 2000, I, 2425 ; Corte cost. , 23 novembre 2000, n. 533, in Giur.cost., 2000, 4177.

57 In Foro it., 2001, I, 3450; già preceduta da Corte cost., ord. 18 luglio 1998, n. 304, in Foro it., 1998, I, 3024. 58 In Foro it., 2001, I, , 3450.

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Corte cost., 7 maggio 2002, n. 16859, nel senso che è manifestamente infondata la questione di

legittimità costituzionale dell’art. 146 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, nella parte in cui prevede la

competenza del giudice delegato ad adottare le opportune misure cautelari, in luogo della normale

competenza ante causam del giudice competente sul merito dell’azione e dell’art. 51, 1º comma, n.

4, c.p.c., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del giudice delegato, che abbia

autorizzato l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori ed ex amministratori della

società fallita, ad adottare le misure cautelari, in riferimento all’art. 111, 2º comma, cost. Corte cost., 28 novembre 2002, n. 49760, per cui sono manifestamente infondate le questioni di

legittimità costituzionale degli art. 51, 1º comma, n. 4, 617, 2º comma, e 618 c.p.c. sollevate in

riferimento agli art. 3, 24, 1º comma, 25, 101, 2º comma, 104, 1º comma e 111, 2º comma, cost.,

nella parte in cui non prevedono l’astensione dalla trattazione del processo di opposizione agli atti

esecutivi del giudice che ha pronunciato il provvedimento opposto, tenuto conto che, come ha

ripetutamente affermato la corte costituzionale, in tema di applicazione del principio di

imparzialità-terzietà della giurisdizione nel processo civile, amministrativo e tributario non sono

immediatamente trasponibili le affermazioni elaborate con riguardo al processo penale e,

segnatamente, alle incompatibilità di cui all’art. 34 c.p.p., stante la diversa natura, struttura e

funzione dei tipi processuali messi a confronto, ed ancora, non potendosi configurare l’opposizione

agli atti esecutivi quale impugnazione in senso proprio; attiene inoltre a constatazioni di mero fatto

la circostanza che solo negli uffici di grandi dimensioni si possa, mediante previsione tabellare,

assegnare il processo di opposizione agli atti esecutivi a giudice diverso da quello che ha emesso il

provvedimento opposto, mentre non vengono in rilievo alcune questioni relative alla indipendenza e

precostituzione del giudice o alla sua soggezione solo alla legge. Corte cost. , 18 marzo 2004, n. 10161, per cui è manifestamente infondata la questione di legittimità

costituzionale dell’art. 51 c.p.c., limitatamente alla mancata previsione dell’incompatibilità del

giudice, il quale abbia concesso o negato i primi provvedimenti possessori, con provvedimento

interinale riformato dal giudice del reclamo ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c., a decidere nella

fase del merito possessorio sulla base dell’identico materiale probatorio già disponibile nella fase

sommaria Corte cost., 23 dicembre 2005, n. 460 62, che quando ormai stava per diventare legge la riforma del fallimento (d.lgs. 5/2006, emanato qualche giorno dopo il deposito della pronuncia) ha ammesso che era infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 51 c.p.c., nella parte in cui non

prevede l’obbligo di astensione del giudice che, avendo partecipato alla decisione per la

dichiarazione di fallimento, sia anche investito del giudizio di opposizione alla sentenza

dichiarativa, in riferimento agli art. 24 e 111 cost., in quanto per «altro grado del processo» ben

può intendersi anche il procedimento svolgentesi davanti al medesimo ufficio giudiziario, quando

per le caratteristiche decisorie e potenzialmente definitive del provvedimento che chiude la prima

fase e per la sostanziale identità di valutazioni da compiersi in entrambe le fasi nel rispetto del

principio del contraddittorio, ancorché realizzato con modalità deformalizzate, il secondo assume il

valore di vera e propria impugnazione.

59 In Giur.cost., 2002, 1392.

60 In Giust. Civ., 2003, I, 284; soluzione già preferita da Cass., 21 maggio 1999, n. 4953.

61 In Giur.cost., 2004, 1107; Corte cost. , 19 giugno 2000, n. 220, in Giust. civ., 2001, I, 51. 62 In Foro it., 2006, I, 639, con nota di M. FABIANI, Sintonie e asimmetrie fra Consulta e legislatore sulla terzietà del giudice fallimentare; e in

Fallimento, 2006, 511, con nota di TISCINI, Opposizione alla sentenza di fallimento e terzietà del giudicante.

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Come è agevole notare, ai giudici di Palazzo della Consulta il riformato art. 111 Cost., sul punto della terzietà ed imparzialità del giudice, è risultato completamente irrilevante, salvo la tardiva correzione di rotta operata con la sentenza 460/2005, peraltro intervenuta, come detto, quando il legislatore aveva ormai battuto un’altra strada. Così le molte delusioni che la dottrina “innovatrice” ha raccolto nei palazzi di giustizia sono state ripagate dalle soddisfazioni raccolte nei palazzi della politica. 8. Come abbiamo appena visto l’interprete di matrice giudiziale ha ritenuto tutto sommato poco significativa la Riforma costituzionale, rimanendo ancorato al diritto positivo rappresentato dall’art. 51 c.p.c. come norma ordinaria di applicazione del principio di terzietà e di imparzialità del giudice; al contrario il legislatore negli ultimi cinque anni ha fatto ampio sfoggio di tale principio innanzi tutto in occasione della riforma della legge fallimentare, ma non solo. Possiamo riprodurre quel catalogo di disposizioni della legge fallimentare che avevano generato più riserve e verificare che nessuna di quelle “incriminate” ha resistito al vento della riforma.

i) L’art. 6 non stabilisce più l’iniziativa officiosa e sono state eliminate tutte le altre ipotesi sparse qua e là che ad essa si richiamavano (artt. 147, 162, 173, 180, 186)63;

ii) L’impugnazione contro la sentenza di fallimento si propone con reclamo alla corte d’appello (art. 18)64;

iii) Il reclamo contro i decreti del giudice delegato si propone al tribunale in formazione collegiale ma il G.D. non può far parte del collegio (artt. 25 e 26)65;

iv) Il giudice delegato che autorizza il curatore a stare in giudizio non può poi essere il giudice della causa autorizzata (artt. 25 e 31)66;

63 Sulla ratio della espunzione delle iniziative officiose, v. infra nel testo.

64 La scelta di affidare alla corte d’appello il giudizio di impugnazione contro la sentenza di fallimento ha due motivazioni: da un lato il rafforzamento delle garanzie del processo per fallimento in termini di effettività del contraddittorio rendeva inutile una fase oppositoria davanti al tribunale, creando, di fatto, quattro gradi di giudizio (v., si vis., M. FABIANI, sub art. 18, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da Jorio e coordinato da M. Fabiani, Bologna, 2006, 353; CAVALLI, La dichiarazione di fallimento. Presupposti e procedimento, in La riforma

della legge fallimentare, (a cura di) AMBROSINI, Bologna, 2006, 58; in verità la necessità del rimedio della opposizione era già venuta meno, in chiave sistematica, una volta stabilita dal giudice delle leggi l’insopprimibilità del rispetto del diritto di difesa del debitore, v., Corte Cost. 16 luglio 1970, n. 142, in Foro it., 1970, I, 2037; Corte Cost. 27 giugno 1972, n. 110, in Foro it. , 1972, I, 1902); dall’altro lato affidare l’impugnazione (prima nella forma dell’appello ed oggi del reclamo) ad un giudice diverso, risolveva in radice il profilo dell’identità del giudicante.

65 Il carattere impugnatorio del procedimento di reclamo endofallimentare è stato implementato e così si è reso necessario stabilire che il giudice che ha emesso il decreto impugnato non possa far parte dell’organo collegiale chiamato a decidere sul reclamo; si ribalta così l’indirizzo consolidato che vedeva nella partecipazione del giudice delegato al collegio non un vulnus (alla garanzia dell’imparzialità) ma l’espressione delle funzioni di direzione della procedura da parte del giudice delegato che fungeva da cerniera fra la procedura ed il collegio, combinandosi le conoscenze gestorie con le competenze giurisdizionali del tribunale (TRISORIO LIUZZI, PAGNI, I reclami.

Sospensione feriale dei termini, in Fallimento e altre procedura concorsuali, Trattato diretto da Fauceglia e Panzani, Torino, 2009, 400).

66 Sino a che la decisione della causa di competenza del tribunale era affidata al collegio, il problema della possibile identità fra giudice che aveva autorizzato una azione e giudice investito della relativa controversia era tutto sommato posto nell’oblio; quando le controversie sono state affidate al giudice monocratico la questione si è posta in risalto ed ecco allora l’opportunità di tenere distinto il giudice delegato dal magistrato assegnatario del processo; in questo caso la soluzione adottata dal legislatore attiene a profili che in qualche modo si ricollegano alla previsione di cui all’art. 51 n. 4 c.p.c. (prima parte, là dove si stabilisce una ipotesi di ricusazione per il giudice che ha dato consiglio).

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v) Contro il decreto con cui il giudice delegato dichiara esecutivo lo stato passivo possono proporsi le impugnazioni di cui all’art. 98, davanti al tribunale, ma del collegio non può far parte il giudice delegato (art. 99)67;

vi) Il potere di emettere misure cautelari ex art. 146 è stato soppresso68. Ma, più in generale, è agevole notare che al giudice delegato sono state sottratte moltissime delle competenze di pura gestione che prima gli erano affidate, sì che effettivamente, stando alle regole di diritto positivo, quei profili di commistione con le competenze strettamente giurisdizionali sono ormai venuti meno. E anche quando al giudice delegato sono attribuiti compiti giurisdizionali che sembrano giustapporsi a quelli di direzione della procedura, è d’uopo segnalare che il giudice delegato esercita funzioni giurisdizionali con la pienezza dei poteri che sono affidati ad un qualsiasi altro giudice incaricato di decidere una lite; mi riferisco al ruolo che il G.D. assume nella formazione dello stato passivo. Queste sono le luci della riforma, ma non mancano anche le ombre. La prima fosca ombreggiatura deriva dal difetto di volontà di molti giudici delegati, che pur si auspica provvisorio, di accogliere lo spirito della Riforma e di condividere la scelta della separatezza di funzioni; si faccia l’esempio di chi ha ritenuto incostituzionale che al giudice delegato sia stato sottratto il compito di designare i difensori della procedura e di non interferire con la gestione69 e che di fronte

67 Anche in questo caso le ragioni che hanno condotto ad estromettere il giudice dal collegio che decide le impugnazioni allo stato passivo derivano dal rafforzamento delle garanzie della cd. fase sommaria che si svolge davanti al giudice delegato, sì che a ben vedere l’opposizione e l’impugnazione (artt. 98 e 99 l.fall.) sembrano atteggiarsi come procedimenti sia funzionalmente che strutturalmente impugnatori; in questo senso PAJARDI, PALUCHOWSKY, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, 536; BRUSCHETTA, L’accertamento dello stato passivo fallimentare, in La riforma organica delle procedure concorsuali, a cura di Bonfatti e Panzani, Milano, 2008,, 379; DIMUNDO, QUATRARO, Accertamento del passivo, in Fallimento e altre procedure concorsuali, Trattato diretto da Fauceglia e Panzani, Torino, 2009, 1081; BOZZA, Il procedimento di accertamento del passivo, in Fallimento, 2007, 1064; ZANICHELLI, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Torino, 2008, 209; BONFATTI, CENSONI, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2009, 336 (ma gli stessi Autori, poi a pag. 356 mostrano preferenza per la soluzione dell’unico giudizio di primo grado strutturato in due sottofasi); NIGRO, VATTERMOLI, Il diritto della crisi delle imprese, Bologna, 2009, 217; CAVALLINI, Formazione ed impugnazione dello stato passivo: poteri processuali del creditore, in Fallimento, 2009, 710; LO CASCIO, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, (Appendice di aggiornamento), Milano, 2008, 27; M. FABIANI, Impugnazioni dello stato passivo, raccordo col procedimento sommario e preclusioni, in Foro it., 2008, I, 633; ZOPPELLARI, sub art. 98, in La legge fallimentare, a cura di Ferro, Padova, 2007, 706; CANALE, La formazione dello stato passivo, in La riforma della legge fallimentare, a cura di Ambrosini, Bologna, 2006, 201; ASPRELLA, Sub artt. 98-99, in Il nuovo fallimento, a cura di Santangeli, Milano, 2006, 445; TEDESCHI, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 398 (ma l’Autore poi a pag. 409 afferma che quello che si celebra davanti al tribunale è un processo ordinario di primo grado). Per la natura di giudizio di opposizione prosecutoria v., COSTANTINO, sub art. 98-99, in La riforma della legge fallimentare, a cura di Nigro e Sandulli, Torino, 2006, 555; FARINA, Preclusioni e decadenze in sede di impugnazioni a stato passivo, in Fallimento, 2008, 676; PLENTEDA, Profili processuali del fallimento dopo la riforma, Milano, 2008, 218; TISCINI, sub art. 99, in La nuova legge fallimentare annotata, a cura di Terranova et al., Napoli, 2006, 184; tendenzialmente anche Montanari, sub art. 98, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da Jorio e coordinato da M. Fabiani, Bologna, 2006, 1533. In giurisprudenza, Cass., 11 settembre 2009, n.19697, in Foro it., 2010, I, 476.

68 L’art. 146 l.fall. stabiliva che il giudice delegato nell’autorizzare il curatore a promuovere l’azione di responsabilità nei confronti degli organi sociali della società potesse, d’ufficio, disporre misure cautelari nei confronti di amministratori e sindaci. La norma aveva resistito alle censure dei giudici di merito davanti alla Corte costituzionale (Corte cost., 8 maggio 1996, n.148, cit.), ma a molti era sembrata intollerabile sia perché contrastava con il procedimento cautelare uniforme, sia perché introduceva una iniziativa officiosa (si vis., M. FABIANI, L’iniziativa processuale e l’anticipazione cautelare nell’azione ex art. 146 l.fall., in Foro it., 2001, I, 1730). L’eccezionalità di quel potere è venuta meno nel quadro di una normalizzazione del ruolo del giudice delegato e ciò spiega perché le misure cautelari spettano ora al giudice competente per il merito (v., FAUCEGLIA, sub art. 146, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da Jorio e coordinato da M.Fabiani, Bologna, 2007, 2166; PAJARDI, PALUCHOWSKI, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, 774; AMBROSINI, CAVALLI e JORIO, Il fallimento, in Trattato Cottino, XI, 2, Padova, 2009, 738).

69 Trib. Firenze, 13 dicembre 2007, in Fallimento, 2008, 194, aveva dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 41, 1º e 4º comma e 35 l.fall. in relazione agli art. 76 e 3 cost., per effetto della mancanza nella legge delega di un criterio direttivo volto a determinare una drastica ridefinizione della figura del giudice delegato, nonché per l’assenza del principio di ragionevolezza in quanto il sistema autorizzatorio configurato dagli art. 35 e 41 l.fall. contrasta con l’art. 3 cost.; Trib. Firenze, 22 marzo 2007, in Dir.fall., 2008, II, 59, a proposito della permanenza del potere del giudice delegato di nominare i legali dela procedura.

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al diniego della Consulta70, abbia reiterato nell’atteggiamento ostruzionistico sulla lettura dell’art. 25 l.fall. (ma è un atteggiamento diffuso e molto spesso esternato anche con modalità farisaiche)71. La seconda ombra è rappresentata dal fatto che si “sia alzata eccessivamente l’asticella” della espunzione dell’iniziativa officiosa e qui il pensiero corre alla, a mio avviso, censurabile pronuncia con il giudice di legittimità ha sostenuto che ‹‹ l’esigenza di assicurare la terzietà e l’imparzialità del tribunale fallimentare, emergente negli art. 6 e 7, letti alla luce del novellato art. 111 cost., porta ad escludere che l’iniziativa del p.m. ai fini della dichiarazione di fallimento possa essere assunta in base ad una segnalazione proveniente dallo stesso tribunale fallimentare, in tal senso deponendo, oltre alla soppressione del potere di aprire d’ufficio il fallimento ed alla riduzione dei margini d’intervento del giudice nel corso della procedura, anche il n. 2 dell’art. 7 cit., che limita il potere di segnalazione del giudice civile all’ipotesi in cui l’insolvenza risulti, nei riguardi di soggetti diversi da quelli destinatari dell’iniziativa, in un procedimento diverso da quello rivolto alla dichiarazione di fallimento ››72. 8.1 Sul punto qualche riflessione merita di essere spesa, in quanto a parte la specificità della vicenda concorsuale, la questione può assumere un rilievo più generale per ben configurare il ruolo del pubblico ministero agente, le quante volte si voglia fare ricorso al p.m. per promuovere un processo nel quale l’iniziativa fosse stata in precedenza affidata al giudice.

Innanzi tutto occorre chiedersi quali sono le ragioni che hanno portato alla soppressione dell’iniziativa officiosa, specie se ricordiamo che solo pochi anni fa il giudice delle leggi aveva affermato la piena compatibilità col sistema dell’iniziativa officiosa nel processo per fallimento73.

Come ho già accennato, poiché abbiamo escluso che il requisito della terzietà del giudice debba essere assicurato ad ogni costo quando il giudice svolge attività non giurisdizionali ma latamente amministrative, sgomberiamo subito il campo da una potenziale obiezione e cioè quella fondata sulla natura non giurisdizionale del processo per dichiarazione di fallimento.

Già agli inizi degli anni sessanta si era dimostrato che non la devoluzione di una certa materia al contenitore del procedimento in camera di consiglio non poteva voler dire che quella materia dovesse essere ascritta alla categoria dei giudizi di volontaria giurisdizione74, pertanto la [allora] struttura camerale del procedimento per dichiarazione di fallimento non autorizzava a ritenere, per ciò solo, il processo di fallimento un processo appartenente alla sistemazione della giurisdizione volontaria, pur se questa tesi era autorevolmente predicata75.

70 Corte cost. , 7 novembre 2008, n. 365, in Foro it., 2009, I, 29.

71 Presso un grande tribunale del Nord Italia, vige la prassi per cui il curatore con scrittura autografa, sotto dettatura del giudice, indica il nome del legale nominato per l’assistenza in una certa causa.

72 Cass., 26 febbraio 2009, n. 4632, in Foro it., 2009, I, 1404. Ricordo che CHIARLONI, Giusto processo e fallimento, cit., 263, dubitava della utilità di eliminare l’iniziativa d’ufficio, palesando il rischio che la deviazione dell’iniziativa verso il pubblico ministero avrebbe determinato solo una perdita di tempo e un defatigante “giro di carte”; posizione questa che in un certo qual modo si ritrova nel recente arresto della Corte regolatrice.. A difesa dell’officiosità, v. ABETE, Brevi note a difesa dell’iniziativa d’ufficio ex art. 6 legge fallimentare, in Fallimento, 2002, 315.

73 Corte cost., 15 luglio 2003, n. 240, in Fallimento, 2003, 1052.

74 Cfr. sul tema, già CARNACINI, Le norme sui procedimenti di giurisdizione volontaria, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1961, 593; MICHELI, Camera

di consiglio, in Enc.,dir., V, Milano, 1959, 981.

75 PICARDI, La dichiarazione di fallimento dal procedimento al processo, Milano, 1974, 189.

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E così, nel dibattito sulla natura del procedimento la tesi della natura giurisdizionale è stata fortemente avversata sul fondamento della inesistenza di un illecito e sulla conformazione del procedimento, i cui connotati salienti erano dati i) dalla mancanza di domanda, ii) dall’impulso officioso, iii) dall’assenza di un onere probatorio, ovverosia tre tratti caratterizzanti il processo giurisdizionale.

In altra sede ho cercato di dimostrare l’infondatezza di questa tesi76; qui per ragioni di continenza posso limitarmi ad osservare succintamente che: a) oggi il processo per dichiarazione di fallimento origina solo da una domanda, domanda che b) assume un rilievo di atto di promovimento di azione in senso proprio visto che l’iniziativa officiosa è stata soppressa; c) l’onere della prova che accompagna il principio dispositivo è espressamente stabilito (cfr., art. 1 l.fall.) ed è già stato ritenuto conforme all’impianto costituzionale77. Ci muoviamo, pertanto, perfettamente all’interno della tutela giurisdizionale ed è rispetto ad essa che dobbiamo investigare quale sia il ruolo del pubblico ministero78. Dunque, ad avviso della Suprema Corte, alla espunzione “ufficiale” della iniziativa officiosa devesi accompagnare anche l’espunzione “ufficiosa”, ovverosia il tribunale che rigetta un ricorso per fallimento non può più tornare ad occuparsene se sulla stessa vicenda interviene la richiesta del pubblico ministero che ha ricevuto la trasmissione della notitia decoctionis da parte del tribunale. Capisco che taluno voglia ironizzare sul fatto che in tal modo la nuova regola dell’art. 6 l.fall. sarebbe irrimediabilmente aggirata, ma credo che il diritto positivo ci dica altro e che non si valuti con la dovuta prudenza il ruolo del pubblico ministero79. Ma procediamo con ordine e vediamo come si è generato il caso che ci offre l’occasione della attuale riflessione. In un primo momento una corte di merito80 ha affermato che è nulla la sentenza dichiarativa di fallimento pronunciata dal tribunale su iniziativa del pubblico ministero a seguito di segnalazione effettuata dal tribunale fallimentare presso il quale pendeva un procedimento per dichiarazione di fallimento — nel caso di rinuncia da parte del creditore istante — in quanto la segnalazione dello stato di insolvenza può essere effettuata solo nell’ambito di un giudizio civile. Il filo conduttore della decisione è costituito dalla volontà di escludere che, una volta espunta formalmente («dalla porta») l’iniziativa officiosa, questa non abbia a rientrare («dalla finestra») per effetto della segnalazione al pubblico ministero, che il tribunale fallimentare ritenga di effettuare quando riscontri uno stato d’insolvenza e più non possa procedere d’ufficio. Nella motivazione si dice a chiare lettere che la soluzione adottata dal tribunale fallimentare è un modo surrettizio per aggirare il divieto d’iniziativa officiosa; per far ciò i giudici hanno dovuto affermare

76 M. FABIANI, Contratto e processo nel concordato fallimentare, Torino, 2009, 234 ss.

77 Corte cost., 1° luglio 2009, n. 198 e Cass., 15 maggio 2009, n. 11309, ambedue in Foro it., 2009, I, 2578.

78 In termini assolutamente consonanti, F. DE SANTIS, Segnalazione d’insolvenza, iniziativa fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice, in Fallimento, 2009, 526.

79 La tesi della Cassazione è difesa da AULETTA, L’ ‹‹iniziativa per la dichiarazione di fallimento ›› (specie del ‹‹ creditore sedicente o non legittimato

o rinunciante ››) in Fallimento, 2010, 129, sulla base, peraltro, di un ragionamento articolato che si fonda sul fatto che ciò che sarebbe stata soppressa è solo l’iniziativa officiosa ma non la possibilità di proseguire il procedimento d’ufficio nel caso di abdicazione della domanda da parte del ricorrente e ciò in quanto viene offerta della domanda una lettura che allontana molto il ricorso dalla tutela dichiarativa; per una confutazione di questa teoria, v. si vis., M. FABIANI, L’oggetto del processo di fallimento, di prossima pubblicazione in Riv.dir.proc., 2010.

80 App. Milano, 29 novembre 2007, in Foro it., 2008, I, 621,

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che la segnalazione di cui all’art. 7 l. fall., là dove si dice che il p.m. presenta la richiesta di fallimento «quando l’insolvenza risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia ricevuta nel corso di un procedimento civile» deve essere interpretata restrittivamente e così per giudice civile non si può intendere il giudice fallimentare. Quella sentenza è stata confermata dal giudice di legittimità81. Entrambe le proposizioni sembrano contraddire l’opinione formatasi nei primi commenti82. La segnalazione che spetta al giudice è del tutto idonea ad evitare che si produca quel fenomeno officioso che si è voluto divellere; infatti, una volta effettuata la segnalazione, secondo la lettura più condivisa, il pubblico ministero non è affatto obbligato a presentare la richiesta di fallimento, sì che se ciò accade è per una scelta di auto responsabilità. L’attribuzione al pubblico ministero del potere di valutare se promuovere o non promuovere la richiesta di fallimento costituisce quella necessaria cesura tra la segnalazione operata dal tribunale e l’iniziativa del p.m. La domanda svolta dal pubblico ministero e discussa in contraddittorio col debitore, viene decisa da un giudice terzo che è estraneo al processo; se proprio volessimo accentuare all’esasperazione il garantismo si potrebbe, se mai, evocare il profilo della imparzialità per vincolo da pre-cognizione. L’azione del p.m. è altra cosa rispetto alla iniziativa d’ufficio ed è proprio il modo più semplice per evitare il fenomeno del «giudice-attore» e al contempo per conservare una iniziativa pubblica in presenza di interessi superindividuali. Consideriamo poi che la debolezza dell’argomentazione è esaltata da quella parte conclusiva della motivazione là dove il lettore può trovare anche modo di stupirsi scoprendo che al tribunale fallimentare non è inibito in assoluto effettuare la segnalazione al p.m., perché tale prerogativa sarebbe tollerata quando il soggetto passivo della segnalazione fosse un debitore diverso dall’imprenditore nei cui confronti il ricorso è promosso, con il risultato davvero paradossale che il tribunale fallimentare potrebbe tranquillamente giudicare della richiesta di fallimento avanzata dal pubblico ministero per un diverso debitore come se, in questo caso, il «turbamento» del tribunale potesse essere evitato per effetto del solo diverso nominativo del debitore. Mi pare che questa notazione davvero paradossale ci debba convincere della inesattezza della conclusione cui la Corte è giunta, sì che v’è da auspicarsi un rapido ripensamento.

L’ultima considerazione va spesa sull’analisi delle ragioni che hanno condotto alla scelta di “deviare” verso il pubblico ministero l’iniziativa per il fallimento. Nel rinviare a quanto osservato altrove83, ora non è revocabile in dubbio che l’espunzione dell’iniziativa officiosa dal catalogo delle iniziative per la dichiarazione di fallimento di cui agli artt. 6 e 7 l. fall., sia un fatto di

81 Cass., 26 febbraio 2009, n. 4632, cit.

82 Non pare esservi un solo autore sulle posizioni espresse dalla corte d’appello – da DE SANTIS, Segnalazione d’insolvenza, iniziativa

fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice, in Fallimento, 2009, 524, a APICE, MANCINELLI, Diritto fallimentare, Torino, 2008, 53; D’ORAZIO, Il procedimento per dichiarazione di fallimento, in La riforma organica delle procedure concorsuali, a cura di Bonfatti e Panzani, Milano, 2008, 70; AA.VV., Diritto fallimentare [Manuale breve ], cit., 185; D’AQUINO, sub art. 7, in La legge fallimentare a cura di Ferro, Padova, 2007, 51; CAVALLI, La dichiarazione di fallimento, cit., 43; DE MATTEIS, Istanza di fallimento del debitore. L’istruttoria prefallimentare, cit., 204; PAJARDI, PALUCHOWSKI, Manuale di diritto fallimentare, cit., 120; GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare, cit., 47 - , se non PLENTEDA, Profili processuali del

fallimento dopo la riforma, cit., 20, guarda caso estensore di Cass. n.4632/2009) e la stessa (per vero talora non troppo affidabile) relazione governativa (così, RIGHETTI, Il processo di fallimento, in Il diritto fallimentare riformato, a cura di Schiano Di Pepe, Padova, 2007, 40).

83 Mi permetto di richiamare M. FABIANI, sub artt. 6, 7, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da Jorio e coordinato da M. Fabiani, Bologna, 2006, 104 ss.

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tale rilevanza da costringere l’interprete a rileggere l’intero sistema al lume di quella soppressione; ma se questo è vero, merita di essere ricordata la genesi, essenzialmente processualistica, di una tale scelta perché, altrimenti, non si riuscirebbe a capire in forza di quale ragione abbia ancora spazio l’iniziativa del pubblico ministero. La presenza del pubblico ministero spiega che il legislatore considera tuttora il fenomeno dell’insolvenza come un accadimento che non può essere confinato nel rapporto creditore-debitore, posto che sono incisi interessi superindividuali, spesso non catalogabili a priori.84

Ed allora per concludere su questo punto, mi par utile prendere posizione, proprio sul ruolo del p.m., e ciò per dimostrare come l’attuale quadro normativo sia pienamente allineato alle esigenze di garanzia della terzietà del giudice.

Decisiva, mi pare, è la valutazione che si fa del potere-dovere che il pubblico ministero avrebbe nel promuovere la richiesta di fallimento una volta ricevuta la segnalazione.

Il tribunale che conduce l’istruttoria pre-fallimentare una volta verificato che il procedimento non si conclude con una decisione di merito (accoglimento o rigetto della domanda), ove ravvisi che l’imprenditore si trova in stato di insolvenza, può segnalare ai sensi dell’art. 7 l.fall. la circostanza al pubblico ministero85. Si tratta di un provvedimento che, all’evidenza, non ha alcun contenuto decisorio e come tale non è affatto vincolante.

A sua volta il pubblico ministero che riceve la segnalazione deve valutarne la fondatezza e cioè deve verificare se sia opportuno procedere con la richiesta di fallimento. È questa una attività discrezionale86 e insindacabile, talché se il p.m. opta per archiviare la segnalazione ecco che il “temuto giro vizioso” neppure si conclude. Dalla discrezionalità dell’attività del pubblico ministero si ricava la perfetta cesura fra la segnalazione del tribunale e l’eventuale iniziativa del pubblico ministero. Il procedimento che si avvia con la richiesta del pubblico ministero è altro rispetto al procedimento chiuso con il provvedimento di archiviazione accompagnato dalla segnalazione. Per dimostrarlo possiamo invocare i canoni di individuazione dell’azione ed allora vediamo che una parte è la stessa (il debitore), il petitum è lo stesso (richiesta di dichiarazione di fallimento), ma diversa è l’altra parte (il p.m. in luogo di un creditore) e diversa è la causa petendi ( perché i fatti sui quali si basa la richiesta saranno quelli allegati dal pubblico ministero). Certo potrà capitare che vi sia coincidenza di allegazioni fattuali ma questo al più rileverà sul piano della imparzialità del giudice, come mera causa di astensione facoltativa, e non già sul piano della estraneità del tribunale rispetto alla domanda87.

84 In tale cornice non possiamo ascrivere l’abrogazione dell’iniziativa d’ufficio fra le conseguenze dirette della opzione del legislatore di offrire più spazio ai protagonisti dell’insolvenza (debitore e creditori). Certo, il venir meno di questo potere è coerente con l’arretramento della giurisdizione, ma è solo un segnale e non decisivo al lume, come detto, della persistente legittimazione del p.m.; v., PUNZI, La

dichiarazione di fallimento, in Riv.dir.proc., 2008, 1503; AZZARO, Concordato preventivo e autonomia privata, in Fallimento, 2007, 1268; FERRO, La legge

fallimentare, Padova, 2007, 39.

85 Dobbiamo infatti ritenere che quel giudice sia equivalente a qualunque altro giudice civile (ivi compresi i giudici amministrativi e tributari) e di ciò ne dà improvvida conferma proprio Cass. 4632/2009 quando ammette che il tribunale potrebbe effettuare la segnalazione rispetto ad un soggetto diverso dal debitore nei cui confronti si procede.

86 F. DE SANTIS, Segnalazione d’insolvenza, iniziativa fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice, cit., 532.

87 Sulla configurazione di una effettiva estraneità, v., F. DE SANTIS, Segnalazione d’insolvenza, iniziativa fallimentare del pubblico ministero e

terzietà del giudice, cit., 535; MONTANARO, Il procedimento per la dichiarazione di fallimento, in Le riforme della legge fallimentare, a cura di Didone, Torino, 2009, 196; DONZI, L’iniziativa per la dichiarazione di fallimento: artt. 6 e 7 l.fall., in Fallimento e altre procedure concorsuali, Trattato diretto

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8.2. Mettendo ora da parte l’alveo concorsuale, notiamo che di recente dall’art. 111 Cost. sembra essere gemmato anche il nuovo art. 186 bis disp.att. c.p.c. che impone che il giudizio di merito di cui all'art. 618, 2° comma, c.p.c. sia trattato da un magistrato diverso da quello che ha conosciuto degli atti avverso i quali è proposta opposizione [agli atti esecutivi]. La nuova norma smentisce, dunque, la soluzione patrocinata dal giudice delle leggi (con la sentenza 497/2002), e così va incontro al diffuso orientamento della dottrina che da tempo aveva posto in luce la necessità di creare un rapporto di alterità fra il giudice dell’esecuzione e il giudice dell’opposizione agli atti esecutivi88. La nuova disposizione che ha incontrato i favori degli interpreti89, lascia aperto qualche interrogativo ma fuga anche talune incertezze e fra queste il fatto che nessuna incompatibilità si crea rispetto al giudizio di opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. e al giudizio di opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c.; dal tenore della disposizione si ricava anche che la clausola va applicata solo al giudizio promosso dopo l’inizio dell’esecuzione. I dubbi che residuano sono essenzialmente due: a) se il divieto per il giudice dell’esecuzione di trattare il merito dell’opposizione agli atti esecutivi riguardi tutti i tipi di opposizioni o solo quelle che si instaurano per chiedere il riesame di un atto del giudice dell’esecuzione; b) se l’inottemperanza al divieto vada sanzionata con gli strumenti della ricusazione ovvero se non si debba parlare di vizio di costituzione del giudice. Sub a): poiché la disposizione dell’art. 186 bis disp.att. sembra rappresentare un indizio della vocazione naturalmente impugnatoria del rimedio dell’opposizione ex art. 617 c.p.c.90, almeno le quante volte venga innestata per reagire ad un atto del giudice dell’esecuzione (e come è stato fatto notare c’è sicuramente un caso – l’opposizione contro l’ordinanza che decide in prima battuta le liti distributive – che merita di essere trattato come vera e propria impugnazione), mi pare che quando oggetto dell’opposizione sia un atto di parte o di un ausiliario del giudice, non abbia alcun

da Fauceglia e Panzani, Torino, 2009, 118 ss.; FERRO, La terzietà spettatrice del giudice dell’insolvenza: le segnalazioni al pubblico ministero e l’iniziativa

per la dichiarazione di fallimento, in Corr.giur., 2009, 928.

88 Con riguardo all’opposizione agli atti esecutivi la letteratura che prima della modifica costituzionale era tendenzialmente assestata sulla posizione che rivendicava l’irrilevanza di profili rivelatori di un deficit di terzietà ed imparzialità (v. per tutti, VIGNERA, Considerazioni

esegetiche in tema di designazione, astensione e ricusazione del giudice dell’esecuzione, in Dir. e giur., 1983, 983 sul presupposto che il giudice dell’esecuzione sarebbe, infatti, dotato esclusivamente di poteri ordinatori finalizzati alla direzione ed al controllo del procedimento esecutivo per una celere realizzazione del diritto del creditore procedente), sembrava poi essersi spostata sulla tesi della incompatibilità (v., fra gli altri, TARZIA, Il giusto processo di esecuzione, in Riv.dir.proc., 2002, 337; SCARSELLI, La Consulta detta le nuove regole sull’incompatibilità del

giudice nel processo civile, in Foro it., 1999, I, 3441; ORIANI, L’imparzialità del giudice e l’opposizione agli atti esecutivi, in Riv.esec.forz., 2001, 20; VIGNERA, Le garanzie costituzionali del processo civile alla luce del «nuovo» art. 111 cost., cit., 1219; VITTORIA, Il controllo sugli atti del processo di

esecuzione forzata: l’opposizione agli atti esecutivi e i reclami, in Riv. esec.forz., 2000, 367 ss., secondo il quale, successivamente all’inizio dell’esecuzione, la legittimazione del giudice dell’esecuzione a conoscere dell’opposizione agli atti sarebbe incompatibile con i principî del giusto processo sanciti dall’art. 111, secondo comma, Cost., così come modificato dall’art. 1 l. Cost. n. 2 del 1999. Parzialmente diversa la posizione di CARPI, Riflessioni sui rapporti fra l’art.111 Cost. ed il processo esecutivo, in Riv.trim.dir.e proc.civ., 2002, 403 per il quale il profilo della opportunità di differenziare il giudice, pur non essendo trascurabile, doveva essere risolto in concreto, caso per caso, come ipotesi di astensione ex art.51 ultimo comma c.p.c.), in modo così dissonante con la posizione assunta dalla giurisprudenza (Corte cost., 28 novembre 2002, n. 497, in Riv.esec.forz., 2003, p.188).

89 PILLONI, sub art. 186 bis disp.att., in Codice di procedura civile commentato, diretto da Consolo, Milano, 2009, 404.

90 Si vis., M. FABIANI, Appunti sulla qualificazione impugnatoria dell’opposizione rivolta contro gli atti del giudice dell’esecuzione, in Riv.esec.forz., 2007, 619 ss.

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senso dissociare il giudice dell’esecuzione dal giudice dell’opposizione, posto che il giudice dell’esecuzione è del tutto estraneo all’atto impugnato. Alla coerenza di questa impressione corrisponde anche lo stesso tenore dell’art. 186 bis, là dove si dice che l’incompatibilità va riferita ai casi in cui il giudice abbia già ‹‹ conosciuto degli atti avverso i quali è proposta opposizione ›› 91, anche se preferibile sarebbe stato parlare di “provvedimenti”. È ben vero che anche il giudice dell’esecuzione (un po’ come il giudice delegato) dirige l’esecuzione (art. 484 c.p.c.92), ma la conoscenza degli atti del processo esecutivo mi pare insufficiente per creare un vincolo da pre-cognizione. A questa osservazione si può peraltro replicare che una sovrapposizione di giudizi si forma sempre nel rapporto fra la fase interinale ove il giudice è chiamato ad adottare provvedimenti urgenti e la fase di merito. Non reputo che in questa situazione si crei quel vincolo da pre-cognizione che giustifica l’incompatibilità, in quanto il rapporto fra i due giudizi è simile alla relazione che si forma fra il giudice che provvede in sede cautelare ed il giudice che provvede nel giudizio di merito successivo, tema questo che sarà ripreso più avanti (v., §§ 9, 10). Per tale ragione ritengo di confermare quanto prima enunciato e cioè che la norma non si applica alle altre opposizioni93 (e cioè là dove non viene in discussione un precedente provvedimento di un giudice) e che non v’è identità di ratio per la semplice ragione che neppure nel caso dell’opposizione agli atti esecutivi l’alterità del giudice si spiega con l’emissione di provvedimenti di natura cautelare nella prima fase94. Sub b): una volta che si è stabilito questo regime di incompatibilità, resta da verificare se la fattispecie costituisca una specie di addizione dell’art. 51 n.4 c.p.c., così da essere confinata nell’alveo delle ipotesi di ricusazione95, oppure se alla patologia non si debba reagire col più forte vizio di costituzione del giudice. Come ho già parzialmente esposto, diversamente dalle ipotesi in cui l’imparzialità è minata da un rapporto personale fra giudice e parti (o difensori), qui ciò che appare pregiudicato è l’effettivo rapporto di alterità del giudice rispetto alla lite. L’indubbia assonanza in termini di possibile difetto di imparzialità, come serenità di giudizio e neutralità dell’approccio, non giustifica una piena equiparazione fra le diverse situazioni. Pur tuttavia, poiché il legislatore ha espressamente qualificato come ipotesi di [mera] ricusazione il fatto che lo stesso magistrato decida (o conosca) la causa in due gradi diversi, si rende oltremodo complicato pensare che in questa ( e altre) fattispecie, la sanzione possa essere più grave e cioè quella della nullità germinata dal vizio di costituzione del giudice. Pertanto credo che anche questa ipotesi finisca con l’essere regolata dall’art. 51 c.p.c. 8.3. Una volta prese in esame le fattispecie per le quali è intervenuta una scelta del legislatore possiamo passare allo scrutinio della normativa vigente per verificare i problemi che residuano nella legge fallimentare prima e nel codice di rito e in leggi speciali, poi.

91 LONGO, Le opposizioni dell’esecutato e dei terzi nel processo esecutivo, in L’esecuzione forzata riformata, a cura di Miccolis e Perago, Torino,

2009, 565; CAPPONI, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, Torino, 2010, 353.

92 CHIZZINI, sub art. 186 bis, in AA.VV., La riforma della giustizia civile, Torino, 2009, 220.

93 GIORGETTI, L’imparzialità del giudice delle opposizioni esecutive, in Giust.civ., 2001, I, 845.

94 Contra, però, MANDRIOLI, Diritto processuale civile, III, Torino, 2009, 125; SALETTI, sub art. 186 bis, in Commentario alla riforma del codice di

procedura civile, a cura di Saletti e Sassani, Torino, 2009, 295.

95 SALETTI, sub art. 186 bis, cit., 293.

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In ambito concorsuale gli interrogativi che concernono possibili situazioni di incompatibilità mi pare possano così essere descritti:

a) Tribunale competente per l’istruttoria prefallimentare e tribunale competente per l’adozione delle misure cautelari;

b) Tribunale che ha decretato il rigetto del ricorso per fallimento e tribunale investito del rinvio a seguito dell’accoglimento da parte della corte d’appello del reclamo ex art. 22 l.fall.

c) Tribunale che ha dichiarato il fallimento di società con soci illimitatamente responsabili e tribunale investito di una richiesta di estensione ex art. 147 l.fall.

d) Giudice delegato che determina la misura dell’equo indennizzo (artt. 79 e 80 l.fall.) e giudice investito della domanda in caso di mancata accettazione della liquidazione

e) Iniziativa officiosa nell’amministrazione straordinaria (art. 3 d.lgs. 270/1999). Al quesito sub a) sono convinto si debba dare una risposta negativa, nel senso che per quanto esporrò infra, il giudice della cautela può essere il giudice del merito. Si consideri poi, che se è ben vero che il tribunale deve valutare la presumibile fondatezza del ricorso per fallimento, ciò che più conta nella delibazione del giudice è la misura del pericolo derivante dal ritardo nel completamento dell’istruttoria, il che francamente rende ingiustificata una separatezza fra organo della cautela e organo del merito96. Sul quesito sub b), credo sia corretto importare la soluzione offerta per il rinvio prosecutorio a seguito di cassazione con rinvio e non la soluzione sul rinvio restitutorio ex artt. 353 e 354 c.p.c. Va infatti considerato che il tribunale fallimentare cui sono restituiti gli atti dopo l’accoglimento del reclamo non è vincolato nel dover dichiarare il fallimento, posto che può rigettare il ricorso qualora ‹‹ accerti che sia venuto meno alcuno dei presupposti necessari ››. È vero che la “ribellione” al dictum della corte d’appello è tollerata solo per mutamento dei presupposti della decisione, e pur tuttavia i giudici che hanno respinto il ricorso potranno essere naturalmente indotti a preferire, se possibile, una lettura dei nuovi fatti incline alla conferma della precedente decisione97. Sul quesito sub c) , possiamo esprimere una valutazione negativa dal momento che diverso è il thema decidendi; il tribunale quando ha dichiarato il fallimento ha valutato l’esistenza dello stato di insolvenza e la natura di imprenditore commerciale non “sotto-soglia” del debitore; quando viene promosso un ricorso per estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile l’oggetto del giudizio è completamente diverso dal momento che il tribunale deve accertare se un determinato soggetto è (od era) socio, se risponde illimitatamente e se la sua illimitata responsabilità riguarda uno dei tipi societari indicati nell’art. 147 l.fall.; si tratta, quindi, di valutazioni completamente diverse98. Per la domanda sub d), la risposta può essere egualmente negativa in quanto la determinazione dell’indennizzo da parte del giudice costituisce una attività dichiaratamente non giurisdizionale; il giudice nel determinare l’indennizzo opera una ponderazione dei rispettivi

96 Sulla natura strettamente cautelare delle misure previste nell’art. 15 l.fall. e dunque per l’applicazione dello statuto generale dei procedimenti e provvedimenti cautelari, v. F. DE SANTIS, Istruttoria prefallimentare e misure cautelari, in Fallimento, 2009, 84; DE MATTEIS, Istanza di fallimento del debitore. L’istruttoria prefallimentare, in Fallimento e altre procedure concorsuali, Trattato diretto da Fauceglia e Panzani, Torino, 2009, 209; contra, AMBROSINI, CAVALLI e JORIO, Il fallimento, cit., 198.

97 In senso opposto, mi pare, AMBROSINI, CAVALLI e JORIO, Il fallimento, cit., 200.

98 A. NIGRO, Sub art. 147, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da Jorio e coordinato da M. Fabiani, Bologna, 2007, 2168; AMBROSINI, CAVALLI e JORIO, Il fallimento, cit., 503.

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interessi e decide in via equitativa. Poiché il credito, per espressa previsione, è assoggettato al regime dei crediti prededucibili, la parte che si ritiene insoddisfatta del provvedimento del giudice deve presentare domanda di ammissione al passivo (artt., 52, 93 e 111 l.fall.) e in quel contesto il giudice assume un ruolo giurisdizionale che non è pregiudicato dal ruolo di amichevole compositore svolto in precedenza99. Per il quesito sub e), il dubbio va risolto nel senso che l’officiosità dell’iniziativa per la dichiarazione di insolvenza di imprese assoggettabili ad amministrazione straordinaria deve reputarsi non più attuale alla luce dell’art. 111 Cost., ma anche per gli effetti derivanti dal nuovo art. 6 l.fall. che assume la veste di norma fondamentale di riordino del settore, considerando che le due disposizioni erano perfettamente speculari e che v’è da dubitare della permanenza di interessi che giustifichino un diverso trattamento100.

Quello in esame, infatti, non rappresenta solo un contrasto fra norme ma esprime una vera e propria incoerenza normativa, posto che da un lato, per le imprese di medie dimensioni, si ritiene che il giudice – di fronte ad una conclamata insolvenza, la cui conoscenza è stata legalmente acquisita ab externo - debba attendere il ricorso di un creditore, mentre per le imprese grandi, possa attivarsi autonomamente, quando poi per le “grandissime” l’intervento pubblico è addirittura consegnato alla autorità amministrativa.

Questa discrasia normativa deriva da un difetto di coordinamento, perché se così non fosse ci si troverebbe di fronte al paradosso per cui ci si fida del giudice per avviare una procedura di insolvenza nei confronti della grande impresa e non quando si tratta di governare una insolvenza di medio livello.

Oppure, per converso, si potrebbe sostenere che il giudice non si deve occupare delle insolvenze di calibro medio perché per queste è sufficiente che siano le parti a valutare se sia il caso di dichiarare il fallimento, mentre quando l’insolvenza diventa allarmante ecco allora che riemerge l’attivismo giudiziario che deve però subito cedere il passo alla autorità amministrativa quando l’insolvenza da allarmante tracima in devastante; in questo senso si realizzerebbe una sorta di scala gerarchica fra privato, autorità giudiziaria e autorità amministrativa con la primazia in capo ai

99 AMBROSINI, CAVALLI e JORIO, Il fallimento, cit., 207; IOZZO, sub art. 80, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da Jorio e coordinato da M. Fabiani, Bologna, 2006, 1287; se invece si accedesse alla tesi per cui il decreto del giudice delegato è reclamabile ex art. 26 l.fall., il problema non si pone perché assorbito dal regime di incompatibilità suggerito da tale disposizione (così, MURINO, Le vicende

dell’affitto d’azienda nel fallimento, in Fallimento e altre procedure concorsuali, Trattato diretto da Fauceglia e Panzani, Torino, 2009, 834; FIMMANÒ, L’affitto di azienda preesistente al fallimento, in Le nuove procedure concorsuali, a cura di Ambrosini, Bologna, 2006, 143).

100 Il tema della formale persistenza dell’iniziativa officiosa nell’amministrazione straordinaria non è adeguatamente trattato fra gli interpreti; per alcuni riferimenti v., FERRO, La legge fallimentare, cit., 40; nel senso della attualità del’iniziativa d’ufficio da parte del tribunale, Maffei Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2009, 1396; ZANICHELLI, L’amministrazione straordinaria, in Fallimento e

altre procedure concorsuali, Trattato diretto da Fauceglia e Panzani, Torino, 2009, 2023.

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ministeri101. Ove si accrediti questa impressione, diviene poi disagevole spiegare perché

l’ordinamento riconosca alla autorità giudiziaria un ruolo attivo nella amministrazione straordinaria per negarglielo per le imprese più piccole. La riforma della legge fallimentare non ha colpito l’autorità giudiziaria solo con riferimento alla iniziativa officiosa, ma scolpisce invece un nuovo impianto nel quale i compiti affidati al giudice sono fortemente recessivi rispetto al passato; senza entrare nel merito della opportunità di una scelta siffatta, resta il fatto che la sopravvivenza della iniziativa officiosa nell’amministrazione straordinaria, lungi dal voler rappresentare l’ultima diga del potere giudiziario, pare essere nulla più che una aporia di sistema, causata da una mancanza di coordinamento normativo. Un ultima considerazione che muove dall’ambiguità delle disposizioni con cui il legislatore ha stabilito i vincoli di partecipazione del giudice delegato per taluni procedimenti. Infatti, se di imparzialità si discute, più in generale, mi pare ci si debba chiedere se questi profili di incompatibilità debbano riguardare il giudice delegato inteso come magistrato o come funzione; qui si tratta soltanto di valutare se la clausola di incompatibilità che di fatto va a specificare la previsione di cui all’art.51 n.4 c.p.c., riguardi il magistrato o la funzione. Per meglio chiarire l’interrogativo, la questione se vista dal cono visivo della imparzialità pre-cognitiva dovrebbe riguardare la persona fisica del magistrato, sì che il giudice che ha provveduto non dovrebbe comporre il collegio; ma se si guarda la questione con la prospettiva del rispetto della terzietà, ecco allora che il vincolo potrebbe riguardare anche la funzione di giudice delegato, ancorché – per occasione – il provvedimento del giudice sia stato pronunciato da un magistrato diverso. Le risposte ipotizzabili sono tre, nel senso che l’incompatibilità potrebbe riguardare: i) chi ha provveduto in concreto; ii) il giudice delegato formalmente incaricato del procedimento; iii) entrambi i giudici. A mio avviso il giudice che ha provveduto in concreto è sempre incompatibile per la ricordata ripetitività decisoria; viceversa il giudice delegato è incompatibile solo in relazione al fatto che le conoscenze di cui dispone lo possano condizionare ed allora escluderei l’incompatibilità rispetto alle impugnazioni dello stato passivo, oggi che la fase cd. sommaria (artt. 93-96 l.fall.) si svolge davanti ad un giudice che deve giudicare sulla base delle regole del processo dichiarativo, nel totale rispetto del principio dispositivo. Più cauto sarei sulle due altre ipotesi (artt. 25/26 e 31 l.fall. ), nel senso che se pure abbiamo ricordato che al giudice delegato sono state e di molto ridotte le attribuzioni gestorie, resta però che egli è il soggetto che assume nella procedura funzioni di vigilanza e di controllo che lo portano a dialogare continuamente con il curatore ed il comitato dei creditori, sì che è opportuno che vi sia una alterità fra il giudice organo della procedura e il giudice organo del collegio che giudica di un atto o di una controversia.

101 Questa scelta di preferenza per la gestione amministrativa è condivisa da GUGLIELMUCCI, La disciplina speciale dell’amministrazione

straordinaria per le situazioni di crisi particolarmente rilevanti, in Dir.fall., 2004, I, 1227; di “ibernazione” del ruolo del giudice parla R.ROSSI L’amministrazione straordinaria tra Prodi bis, decreto Marzano e legge 18 febbraio 2004, n.39, in Dir.fall., 2004, I, 673; in senso più o meno critico, invece, M.MONTANARI, L’amministrazione straordinaria delle <<grandissime>> imprese in stato di insolvenza (c.d. legge Marzano):profili problematici del

procedimento d’apertura e dei relativi effetti, in Dir.fall., 2005, I, 309; PUNZI, Le procedure di amministrazione straordinaria nel sistema delle procedure

concorsuali, in Dir.fall., 2005, I, 287; M.FABIANI, FERRO, Dai Tribunali ai ministeri: prove generali di degiurisdizionalizzazione della gestione delle crisi

d’impresa, in Fall., 2004, 132; A. PATTI, Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese insolventi, in Fallimento., 2004, 84.

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9. Come abbiamo visto, le riforme degli ultimi anni risolvono molte delle questioni più problematiche ma, ovviamente, non tutte e mi riferisco, ora a quelle estranee al processo fallimentare e al processo esecutivo. I profili di maggiore criticità possono essere condensati da un lato in quei processi di impugnazione che esulano dall’idea del “grado”, e dall’altro lato in procedimenti che si ascrivono a larghe maglie nell’ampia cornice della tutela sommaria e mi riferisco nello specifico al procedimento monitorio ed a quello cautelare, nonché ai rispettivi processi a cognizione piena che ne conseguono. L’analisi di queste due fattispecie pare più stimolante in quanto le considerazioni che ad esse si rivolgono possono poi essere esportate anche ad altri casi, così da assumere un rilievo più generale. Di minor impatto sistematico e dunque più orientate a risolvere l’ipotesi specifica mi paiono le criticità che, sempre sul fronte dell’imparzialità del giudice, concernono i processi di opposizione di terzo (art. 404 c.p.c.), di revocazione (art. 395 c.p.c.) e di rinvio (artt. 353, 354, 392 c.p.c.). In tale contesto pare opportuno dar conto di come si sia tendenzialmente risolto il problema in ordine alle impugnazioni per poi passare alla casistica della tutela sommaria. 9.1. Le ragioni dei dubbi che sorgono sulle impugnazioni originano da un lato nel fatto che qui è il legislatore che prescrive che il processo prosegua o inizi davanti ad un certo giudice e dall’altro lato dal fatto che revocazione e opposizione di terzo sono sì catalogate come impugnazioni (art. 323 c.p.c.) ma non sembrano in perfetta sintonia con l’idea del grado (art. 51 n.4 c.p.c.). Prima di vedere quale può essere la soluzione più coerente col sistema, giova dar conto di come sino ad ora la questione è stata trattata. Rispetto al giudizio di rinvio, la giurisprudenza di legittimità ha assunto un indirizzo non troppo restrittivo, riconoscendo che il principio dell’alterità del giudice di rinvio, sancito dall’art. 383 c.p.c. ed inteso a tutela dell’imparzialità del giudice e della funzionalità del giudizio, deve ritenersi rispettato non solo quando la causa venga rinviata dopo la cassazione ad altro ufficio giudiziario, ma anche quando il rinvio avvenga allo stesso ufficio in diversa composizione, ovvero ad altro giudice monocratico dello stesso ufficio, purché non vi sia identità personale tra il giudice del rinvio e quello che pronunziò la sentenza cassata102, mentre se con il rinvio viene annullata una decisione di mero rito, questa incompatibilità non sussiste perché il giudice non si pronuncia due volte sulla medesima res litigiosa

103.

Assai più contrastata è la posizione a proposito del giudizio di revocazione; si è affermato che qualora il giudice chiamato ad esaminare la domanda di revocazione sia lo stesso che ha pronunciato la sentenza impugnata, opera l’istituto della ricusazione104, ma prima 105 si era stabilito che i magistrati che hanno pronunciato la sentenza di appello impugnata per revocazione ex art. 395, n. 4, c.p.c. possono fare legittimamente parte del collegio investito della cognizione del giudizio revocatorio.

102 Cass., s.u., 15 ottobre 1999, n. 731; Cass., 15 giugno 2004, n. 11275; Cass., 15 marzo 2007, n. 6003; C. Stato, ad. plen., 25 marzo

2009, n. 2 103 Cass., 10 marzo 2009, n. 5753; Corte cost., 24 luglio 1998, n. 341, in Foro it., 1998, I, 2329.

104 Cass., 8 giugno 2007, n. 13433.

105 Cass., 12 settembre 2006, n. 19498; Cass., 3 marzo 1987, n.2222.

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Viceversa per l’opposizione di terzo è decisamente prevalente la lettura riduttiva nel senso che il giudice che ha pronunciato la sentenza poi impugnata con l’opposizione di terzo ben può partecipare alla decisione sull’opposizione medesima, non essendo configurabile la situazione di cui all’art. 51 n. 4 c.p.c., in quanto competente a conoscere della opposizione, a norma dell’art. 405 stesso codice, è lo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza opposta106. Su tutti e tre questi casi tornerò, ma solo dopo avere preso in esame le assai più stimolanti fattispecie del procedimento d’ingiunzione e del procedimento cautelare, sia perché più frequenti sia perché più interessanti a livello sistematico107. 9.2. Prima ancora di indagare queste fattispecie, preme mettere ordine ed escludere che si possa giungere ad una situazione di incompatibilità con riferimento alla sequenza progressiva di atti del processo, quando fra essi non vi è soluzione di continuità e quando le decisioni assunte possono essere oggetto di ripensamento interno da parte dello stesso giudice108. Fatte queste premesse e disegnati i confini della rimanente indagine, possiamo prendere atto dei due pilastri dell’interpretazione giudiziale formatisi entrambi prima della Novella costituzionale. Nell’arco di poco tempo i giudici (quello delle leggi prima109, seguito poi dalla giurisprudenza della Suprema Corte 110) hanno avuto occasione di cimentarsi con la tutela cautelare, affermando la seguente tesi: non sussiste alcuna incompatibilità fra il giudice della cautela e il

giudice del merito. Questa soluzione non è parsa a tutti convincente111 e credo che meriti di essere riesaminata alla luce della ricerca di un criterio guida più generale che ci possa aiutare per stabilire quando e in che limiti sia giusto fare ricorso all’art. 51 n.4 c.p.c.; questa ricerca è utile per tutte quelle fattispecie in cui il legislatore non ha preso una posizione specifica (ad esempio come accade anche per il processo di opposizione a decreto ingiuntivo). Ma, prima di impostare le linee della ricerca, occorre anche rammentare se, pur senza deflettere dall’indirizzo restrittivo appena illustrato, dopo un paio di anni, sempre i giudici della Consulta hanno posto un’altra pietra miliare con la pronuncia 15 ottobre 1999, n. 387112, ove si è giunti alla declaratoria di ‹‹ infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 51, 1º

106 Cass., 22 marzo 2006, n. 6358. 107 Per ambedue le fattispecie è doveroso rammentare che il cumulo di funzioni è solo eventuale e che il rischio potrebbe essere

agevolmente disinnescato facendo ricorso alla formazione secondaria delle Tabelle dell’ufficio giudiziario, prevedendosi fra i vari criteri automatici di assegnazione delle cause che il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare o sommario non sia designato giudice della causa di merito.

108 CONSOLO, Ricusazione del giudice per precedente cognizione della causa, in Riv.dir.civ., 1982, II, 199, mette in luce che la progressione del processo per tappe intermedie, tappe relative al passaggio fra provvedimenti sulle prove e decisione conclusiva, non pone seri problemi, mentre ciò che va impedita è che vi possa essere per una parte una partenza ad handicap.

109 Corte cost. 7 novembre 1997, n. 326, in Foro it., 1998, I, 1007; Corte cost. , 26 maggio 1998, n. 193, in Giur.cost., 1998, 1556.

110 Cass., 12 gennaio 2006, n. 422, secondo cui l’emissione di provvedimenti di urgenza in corso di causa, o la partecipazione al collegio che li riesamina in sede di reclamo, da parte dello stesso giudice che debba decidere il merito della stessa, costituisce una situazione ordinaria del giudizio e non può in nessun modo pregiudicarne l’esito, né determina un obbligo di astensione o una facoltà della parte di chiedere la ricusazione; Cass., 13 agosto 2001, n. 11070 in Lavoro giur., 2002, 441.

111 MORETTI, L'imparzialità del giudice tra la cautela e il merito, in Riv. dir. proc. 1996, 1084

112 In Foro it., 1999, I, 3441.

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comma, n. 4, e 2º comma, c.p.c., nella parte in cui non prevede incompatibilità tra le funzioni del giudice che pronuncia decreto di repressione della condotta antisindacale ex art. 28 l. 20 maggio 1970 n. 300 e quelle del giudice dell’opposizione a tale decreto, poiché la fattispecie rientra all’evidenza nell’ambito della previsione di tale disposizione del codice di rito, in quanto l’espressione «altro grado» contenuta nell’art. 51, 1º comma, n. 4, c.p.c. non può avere un ambito ristretto al solo diverso grado del processo, secondo l’ordine degli uffici giudiziari come previsto dall’ordinamento giudiziario, ma deve ricomprendere anche la fase che, in un processo civile, si succede con carattere di autonomia, avente contenuto impugnatorio, caratterizzata da pronuncia che attiene al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase, ancorché davanti allo stesso organo giudiziario, in riferimento agli art. 3 e 24 cost.” ››113. È giunto, quindi, il momento di cercare di offrire una soluzione unitaria alle questioni irrisolte. 10. La lettura della sentenza 387/1999 è basilare per avvicinarci alla soluzione, anche se dobbiamo dar atto che in un certo qual senso questo significa che con l’art. 111 Cost. non è poi mutato granché, visto che la decisione risale a circa un mese prima della Riforma (ma, in verità, quando il clima era ormai maturo per dare maggiore risalto ai principi di terzietà e imparzialità del giudice). Per quanto attiene al profilo della imparzialità del giudice (ritorno sul fatto che l'imparzialità incide sul profilo soggettivo del giudice, sì che quando sospettiamo che il giudice sia condizionato nel suo giudizio, gli strumenti che l'ordinamento assegna sono tipici e stabiliscono che quel magistrato non deve giudicare, guardandosi così alla persona fisica 114), al fondo tutto ruota sulla nozione di grado 115 che troviamo nell’art. 51 n.4 c.p.c., nozione che il giudice delle leggi ci ha spiegato va inteso in senso non proprio letterale116. Quando discorriamo di grado il pensiero corre immediatamente alle impugnazioni; al contempo parlando di impugnazioni sappiamo che l’art. 323 c.p.c. ci descrive quali sono le impugnazioni contro le sentenze, ma da questo non ricaviamo quali sono i dati caratterizzanti le impugnazioni, sì che al di fuori del breve catalogo di cui all’art. 323 c.p.c., non è semplice riconoscere quando ci si trova al cospetto di una impugnazione. Va proprio sottolineato che quando si parla di impugnazioni l’art.323 c.p.c. non ci descrive il fenomeno impugnatorio, ma elenca nel dettaglio quali sono i mezzi di impugnazione delle sentenze. La chiara enunciazione normativa suggerisce immediatamente due considerazioni: a) i

113 La Consulta ha sposato la tesi della natura impugnatoria dell’opposizione, tesi che per quanto diffusa (v., VACCARELLA, Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, Milano 1977, 218. Sull’attitudine al giudicato del decreto repressivo del comportamento antisindacale v. spec. GARBAGNATI, Procedimento di repressione della condotta antisindacale e cosa giudicata, in Riv. dir. proc. 1981, 5 ss.; Cass.,5 novembre 1991, n. 11769, in Dir. e pratica lav., 1991, 3333; T.a.r. Molise, 18 febbraio 1993, n. 15, in Trib. amm. reg., 1993, I, 1454) non è però incontroversa (SILVESTRI, TARUFFO, voce Condotta antisindacale. II) Procedimento di repressione della condotta antisindacale, in Enc. giur. Treccani, VIII, Roma agg. 1997, 10).

114 Cass., 22 luglio 2004, n. 13667.

115 TISCINI, Nuovi interventi della corte costituzionale sul principio di terzietà del giudice, in Corr.giur., 2000, 40 ss.

116 Sulla nozione di grado, per una posizione ampliativa, v., TARZIA, Determinazione del grado del processo e impugnabilità della sentenza, in Riv. dir. proc. 1968, 612; Ricusazione del giudice per precedente cognizione della causa, in Riv. dir. civ. 1982, II,200; DITTRICH, incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice civile, Milano 1991, 149; GIORGETTI, L'incompatibilità del giudice civile da precedente provvedimento decisorio, in Riv.dir.proc., 2000, 1204; la posizione restrittiva si trova argomentata in SEGRÈ, Astensione, ricusazione e responsabilità dei giudici, in Commentario del codice di procedura civile diretto da E. Allorio, I, 1, Torino 1973, 636; ROMBOLI, voce Astensione e ricusazione. I) Astensione e ricusazione del giudice - Dir. proc. civ., in Enc.giur. Treccani, III, Roma 1988, 3.

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mezzi di impugnazione delle sentenze sono tipici e a numero chiuso; b) per provvedimenti diversi dalle sentenze ci possono essere altri mezzi di impugnazione. La prima considerazione muove dal dato testuale (in verità la sistematicità è stata infranta con l’art. 18 l.fall. che prevede, oggi, il reclamo contro la sentenza di fallimento)117, mentre la seconda è, soltanto, deduttiva. La difficoltà di rappresentare i connotati qualificanti delle impugnazioni assume rilievo proprio rispetto al grado. Grado, infatti, evoca una progressione, sì che non viene spontaneo qualificare espressioni di un grado la revocazione e l’opposizione di terzo, processi nei quali il giudizio “torna sui propri passi”, mentre al contrario la progressione è insita in rimedi diversi da quelli indicati nell’art. 323 c.p.c. In questo senso il catalogo delle impugnazioni cui corrisponde un grado non si arresta all’elenco di cui all’art.323 c.p.c., ma può abbracciare anche rimedi diversi, collocati in altri libri del codice di procedura civile o in leggi speciali. La natura, la struttura e la funzione delle impugnazioni non possono, allora, rimandare – se non in via meramente tendenziale – alla tipologia delle impugnazioni di cui all’art.323 c.p.c.118. In particolare, accanto alle impugnazioni dell’art.323 c.p.c., vengono in gioco i processi “oppositori” e i “reclami”119, rimedi per i quali sovente si utilizzano categorie tipiche dei processi impugnatori e che, pur tuttavia, presuppongono proprio una identificazione delle impugnazioni, sì che non tutte le opposizioni e non tutti i reclami sono poi qualificati come (o assimilati ai) rimedi impugnatori120. Per capire se questi controlli possano ricondursi alla più ampia categoria delle impugnazioni in senso lato (e più nel dettaglio a quelle che esprimono un grado di giudizio), occorre riflettere su un punto. L’esistenza di un sistema di impugnazioni è funzionale ad un bisogno ideale, quello di fare tutto quanto è possibile perché la decisione su un diritto o su uno status sia giusta. In tale prospettiva dovrebbero avere “basilarmente” struttura impugnatoria anche l’opposizione a decreto ingiuntivo, il reclamo cautelare e quello camerale, perché, per l’importanza delle questioni trattate in tali giudizi, è naturale che debba essere concesso il potere di sottoporre a controllo le decisioni, pur se il fondamento di questi rimedi non è per nulla unitario121.

117 RASCIO, Note sull’impiego del reclamo (in luogo dell’appello) come mezzo per impugnare le sentenze con devoluzione automatica piena, in Riv.dir.proc., 2008, 955.

118 Nello studio monografico di CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili. Struttura e funzione, Padova, 1973, 5 ss. si è teorizzato che il sistema delle impugnazioni non può essere ricostruito a priori in base a procedimenti definitori e che solo l’indagine di diritto positivo può condurre ad un risultato qualificatorio unitario; la ratio di questa affermazione muove anche dal fatto che l’Autore si è confrontato col catalogo delle impugnazioni di cui all’art.323 c.p.c. e non con le altre forme, di cui, qui, si vuol discutere; è evidente, però, che proprio i tratti qualificanti delle impugnazioni che tali sono definite, rappresentano poi un postulato quando si passa ad indagare sugli altri mezzi di impugnazione.

119 Che vi sia assonanza fra reclami e impugnazioni è ben colto da GIANNOZZI, Il reclamo nel processo civile, Milano, 1968, 36, là dove rammenta l’uso del termine “impugnare” all’interno dell’art.178 c.p.c.; per la lettura dell’espressione “impugnazione” in termini assai più lati di quelli manifestati dall’art.323 c.p.c., v. SATTA e PUNZI, Diritto processuale civile, Padova, 1994, 450.

120 PUNZI, Il processo civile. Sistema e problematiche, II, La fase di cognizione nella tutela dei diritti, Torino, 2010, 360. CORSINI, Il reclamo cautelare, Torino, 2002, 82, osserva esattamente che la casistica in tema di “reclamo” è così variegata che risulta impossibile ricondurre i vari modelli ad un genus unitario.

121 CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, cit., 17; PUNZI, Il processo civile. Sistema e problematiche, II, cit., 352.

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Infatti, questo bisogno di riesame non può limitarsi alle pronunce del giudice che decidano il diritto in contesa; lo stesso bisogno di riesame ricorre anche per tutti gli altri provvedimenti del magistrato che, pur incidendo sui diritti, non li regolino in modo definitivo. È così che si giustifica un controllo sulle ordinanze istruttorie, sui provvedimenti cautelari o su quelli adottati nei procedimenti in camera di consiglio122. Per vero, atteso che il più delle volte alla adozione di questi provvedimenti non si accompagna la definitività dell’accertamento, ci si potrebbe sentire appagati di fronte alla decisione di un solo giudice, nella consapevolezza che la lite sarà decisa dopo - anche con la rivalutazione di quel fatto - oppure che quel provvedimento potrà essere comunque revocato o modificato; ma più frequentemente la decisività di questi provvedimenti per le sorti dei diritti o degli interessi in contesa giustifica che vi sia un controllo immediato; pensiamo alle conseguenze di un provvedimento cautelare e all’indiscusso plauso che seguì all’intreudizione del reclamo cautelare. Diviene allora una questione di policy legislativa, valutando in modo ponderata i valori in gioco, stabilire quando è opportuno che un certo provvedimento possa essere immediatamente sindacato da altro giudice ed in quale misura ciò debba avvenire, ovvero quando il controllo possa essere differito (come accade per le ordinanze anticipatorie di cui agli artt. 186 bis e ter c.p.c.). Mentre i provvedimenti che decidono sui diritti, per il raccordo di cui agli artt. 2907, 2909, 323 e 324 c.p.c. non possono non essere soggetti a controllo, per tutti gli altri si tratta di considerare vantaggi e svantaggi del riconoscimento di un eventuale immediato rimedio. Se si prescinde dal giudicato, i tratti qualificanti delle impugnazioni (intese in senso assai lato)123 mi paiono poter essere così identificati: il fatto a) che sia preteso un riesame della medesima vicenda oggetto del procedimento124 intermediata da un provvedimento di un giudice125, b) che la richiesta di accesso al riesame sia sollecitata da una parte che – in quanto sia risultata soccombente126 rispetto ad una certa decisione127 – intende contrastare l’ingiustizia del provvedimento128, c) che questo possa avvenire, senza la concorrenza di altri rimedi, sino a che non si consuma un termine fissato come perentorio129, sì che connotato del sistema impugnatorio

122 Per la necessità di considerare appartenente al fenomeno “impugnazione” tutti i rimedi concessi per invalidare un provvedimento del giudice, v. GIANNOZZI, Il reclamo nel processo civile, cit., 49.

123 Ma vi è chi, VERDE, Diritto processuale civile, 2, Bologna, 2010, 175, osserva che la varietà del regime dei singoli mezzi di impugnazione è tale che solo il criterio formale dell’art.323 c.p.c. è in grado di dirci cosa sono e quali sono le impugnazioni.

124 CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova, 2008, 15.

125 La teoria generale del diritto alle impugnazioni travalica l’ambito processuale (v. PAGNI, Le azioni di impugnativa negoziale, Milano, 1998, passim) ma nel processo trova la sua espressione quando l’oggetto della impugnativa è un atto del giudice, v. PROVINCIALI, Delle

impugnazioni in generale, in Trattato del processo civile , diretto da Carnelutti, Napoli, 1962, 15.

126 CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, cit., 15; SATTA e PUNZI, Diritto processuale civile, cit., 456; LANCELLOTTI, La

soccombenza requisito di legittimazione alle impugnazioni, Milano, 1996, 45 ss.; GRASSO, L’interesse ad impugnare, Milano, 1967, passim.

127 Ma impugnazione c’è per GIANNOZZI, Il reclamo nel processo civile, cit., 56, anche quando si assiste al mancato conseguimento di un risultato che la parte si riproponeva di conseguire con quel provvedimento giudiziale che diviene oggetto di impugnazione.

128 CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, cit., 15; PROVINCIALI, Delle impugnazioni, cit., 19. Sulla decisività della volontà di attaccare/contrastare una sentenza, ai fini della nozione di impugnazione, v. SATTA, Impugnazioni (diritto processuale civile), voce dell’Enc.dir., XX, Milano, 1970.

129 CERINO CANOVA e CONSOLO, Impugnazioni, in Enc.giur. Treccani, XVI, Roma, 1993, 5.

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sarebbe anche il requisito della necessarietà130 ; d) un quarto tratto qualificante ma meno condiviso è che tale riesame avvenga davanti ad un giudice diverso (non necessariamente superiore) da quello che si è pronunciato131 al quale chiedere che l’atto impugnato sia rimosso e se del caso sostituito con altro. Quest’ultimo aspetto può presentare delle ambiguità e risultare fuorviante. Infatti da una parte si potrebbe sostenere che non c’è impugnazione se il controllo si può svolgere davanti allo stesso giudice che ha emesso il provvedimento oggetto di impugnativa, ma all’opposto si potrebbe anche replicare che in presenza di giudizi di opposizione o di reclamo, se è riconoscibile la natura impugnatoria, allora è necessaria l’alterità del giudicante e le norme che non la prevedessero dovrebbero essere adeguate al valore dell’imparzialità del giudicante. Il profilo nominalistico non è, dunque, decisivo: alla configurazione dello schema formale “opposizione” possono riferirsi sia giudizi latamente impugnatori che giudizi di mera prosecuzione. Pensiamo al giudizio di opposizione allo stato passivo fallimentare e al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. In sintesi credo che la qualificazione di un procedimento come impugnatorio non possa prescindere dal rilievo per cui se si deve riesaminare un provvedimento, questo riesame deve essere affidato, sempre, ad un giudice diverso; in tal senso è l’interprete che deve piegare le norme del codice per fare in modo che la garanzia di imparzialità (da intendersi come neutralità rispetto ad una decisione già presa) sia senz’altro assicurata. Per stabilire quando ci troviamo al cospetto di una impugnazione per gradi, possono risultare utili alcune delle argomentazioni svolte a suo tempo per stabilire cosa si deve intendere per grado del processo ai fini dell’istituto della ricusazione. Ebbene per diverso grado non ci si riferisce necessariamente a “diverso ufficio giudiziario”, dal momento che sappiamo esservi impugnazioni non devolute ad un giudice diverso; questo significa che “altro grado”132, come ha avuto modo di affermare anche il giudice delle leggi, può essere inteso come altra fase, sì che a ben vedere è la sequenza di fasi che deve portare l’interprete a stabilire se oltre che fasi in sequenza, queste siano

130 BONSIGNORI, Impugnazioni civili in generale, in Dig.civ., IX, Torino, 1993, 335.

131 In verità, che l’impugnazione possa essere conosciuta dallo stesso giudice è affermazione ricorrente (v. CERINO CANOVA, Le

impugnazioni civili. Struttura e funzione, Padova, 1973, 92; PROVINCIALI, Delle impugnazioni, cit., 28 che richiama l’impugnazione per revocazione e quella per opposizione di terzo; per la non necessaria diversità del giudice v. anche PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale

civile, Napoli, 2002, 450 ); il problema però della identità del giudice va visto sia con riferimento all’ufficio giudiziario che al magistrato, e rispetto a questo secondo profilo la garanzia di imparzialità del giudice, coessenziale nel sistema dei gravami – visto che il valore del sistema è dato proprio dalla plurisoggettività del giudicante – resta comunque assicurata dall’art.51 n.4 c.p.c., in presenza della identità del giudizio. DITTRICH, Incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice civile, cit., 163 esclude che la questione si ponga per l’opposizione di terzo, attesa l’autonomia dell’azione impugnatoria; contra, però, COMOGLIO, Etica e tecnica del “giusto processo”, cit., 82. Se è vero che il diritto positivo ci consegna un sistema nel quale le impugnazioni, o meglio talune di esse, possono essere radicate davanti allo stesso giudice, ciò nondimeno l’aspirazione dell’ordinamento è pur sempre quella di favorire l’alterità del giudicante quale reale valore aggiunto di un rimedio impugnatorio.

132 DITTRICH, Incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice civile, cit., 150 e 161 ove si evidenzia come la precognizione resti, come dato di comune esperienza, pur in presenza di un materiale di causa diverso da quello che era stato considerato dallo (stesso) giudice; ulteriori sviluppi nel più recente ID., La precognizione del giudice e le incompatibilità nel processo civile, cit., 1145 e spec.1162 ove si fa riferimento alla più corretta nozione di incompatibilità per segnalare quella particolare situazione che coinvolge il giudice che ha già giudicato su quella certa questione..

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anche rette da un rapporto impugnatorio; ciò accade sicuramente quando l’oggetto della cognizione è il medesimo e identiche sono le valutazioni decisorie in merito133. Il procedimento oppositorio che costituisce una sorta di paradigma è quello dell’opposizione a decreto ingiuntivo. Con l’opposizione a decreto ingiuntivo il (presunto) debitore ingiunto intende contestare la propria posizione di debitore attraverso la rimozione di un provvedimento che, se non opposto, è idoneo a stabilizzarsi ed a produrre una serie di effetti, quelli del giudicato o secondo altra interpretazione quelli della preclusione pro-iudicato, distinzione che, qui, può essere trascurata. Ebbene, nonostante sia assolutamente consolidata l’interpretazione secondo la quale con l’opposizione a decreto ingiuntivo si dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione, nel quale il giudice deve accertare la fondatezza della pretesa fatta valere dall’opposto sì che si va ad incidere direttamente sul diritto sostanziale (e sul rapporto obbligatorio, quindi)134, il solo fatto che questo dibattito sulla sostanza del rapporto sia mediato dalla necessità di rimuovere il provvedimento giurisdizionale, ha reso diffusa – pur se non del tutto condivisa - l’affermazione per la quale l’opposizione a decreto ingiuntivo ha natura impugnatoria135. La ragione della previsione di una opposizione che così sembra introdurre una specie di quarto grado di giudizio, si giustificherebbe per il difetto di contraddittorio della prima fase; il c.d. quarto grado è in sostanza il contrappeso rispetto alla tutela sommaria136. Quando si avverte che nel processo di opposizione sono ammesse le domande riconvenzionali e la chiamata di terzo, ovverosia attività tipiche dei processi a cognizione piena in primo grado, la cd. natura impugnatoria degrada sino a esprimersi limitatamente ad alcune regole del procedimento e specialmente a quelle che attengono alla fase introduttiva137. In tale contesto l’espianto delle regole generali sulle impugnazioni al giudizio di opposizione ex art.645 c.p.c. deve avvenire con estrema cautela e nei limiti della compatibilità. L’opposizione ha natura impugnatoria ma non ha struttura impugnatoria salvo che per ciò che attiene all’introduzione del rimedio e alle conseguenze in caso di decisione e di estinzione del processo.

133 COMOGLIO, Etica e tecnica del “giusto processo”, cit., 80.

134 Si veda per una diffusa illustrazione delle varie questioni, VIGNERA, Considerazioni sul processo d’ingiunzione, in Riv. dir. proc., 2001, 175; .

135 RONCO, Struttura e disciplina del rito monitorio, Torino, 2000, 352; TOMEI, Procedimento di ingiunzione, in Dig.civ., XIV, Torino, 1996, 579; GARBAGNATI, Il procedimento d’ingiunzione, Milano, 1991, 127 (a tale Autore si rinvia per la confutazione delle opposte tesi); PROVINCIALI, Delle impugnazioni , cit., 26; GIANNOZZI, Il reclamo nel processo civile, cit., 77; POGGESCHI, voce Ingiunzione in Noviss.dig.it., VIII, Torino, 1962, 672; FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1986, 159; PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, cit., 559 quanto meno per il fatto che si decide anche sulla validità del decreto; così pure COMOGLIO, FERRI e TARUFFO, Lezioni sul processo civile, II, cit., 158; per la negazione della natura impugnatoria, MONTELEONE, Diritto processuale civile, cit., 1118; LUISO, Diritto processuale civile, IV, I processi speciali, 2009, 137.

136 Questa concezione si armonizza con alcuni dati di diritto positivo, sintonici con le regole dei processi impugnatori: i) la previsione di un termine perentorio stabilito a pena di inammissibilità (art.641 c.p.c.); ii) la previsione della improcedibilità per il caso di omessa costituzione dell’opponente (art.647 c.p.c.) ; iii) la regola della stabilità del decreto in caso di estinzione del processo (art.653 c.p.c.); iv) l’invocazione di mezzi straordinari di impugnazione (art.656 c.p.c.). Da tanto se ne è fatto conseguiree, ad esempio: a) l’applicazione dell’art.328 c.p.c., v. Cass., 9 febbraio 2007, n. 2907 in Foro it. Rep. 2007, voce Ingiunzione (procedimento per) , n. 5; b) la configurazione della competenza per l’opposizione come esclusiva e funzionale Cass., 21 novembre 2006, n. 24743 in Foro it. Rep. 2006, Ingiunzione (procedimento per), n. 45; Cass. , 20 settembre 2006, n. 20324 in Foro it. Rep. 2006, Ingiunzione (procedimento per), n. 46; GARBAGNATI, Il procedimento d’ingiunzione, cit., 144 osserva che le norme sono davvero omogenee a quelle dettate in tema di appello.

137 O, se si vuole, come sostiene RONCO, Struttura e disciplina del rito monitorio, cit., 353, la natura impugnatoria meglio la si coglie quando l’opposizione non viene proposta o se proposta non giunge alla fase decisoria.

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La particolare struttura unilaterale della fase monitoria pura ostacola altresì molte delle regole sui processi di impugnazione; basti pensare alle disposizioni in tema di contraddittorio (artt. 331 ss c.p.c.) e di gravami incidentali. Il confronto fra la struttura del procedimento ingiuntivo con il conseguente processo di opposizione e le conclusioni cui è giunta con la sentenza 387/1999 la Consulta, ci consente di intravvedere la soluzione più coerente alla questione dei limiti di applicazione del principio del giusto processo. In particolare il quesito che mi pare decisivo si annida in questo: perché ci sia un’altra fase che sia equiparabile a un altro grado, è sufficiente che ricorra una sola di queste alternative ( e cioè l’idoneità del primo provvedimento a divenire immutabile e la diversa qualità decisoria), o debbono coesistere? Se fosse esatta la prima risposta, il giudice dell’opposizione ex art. 645 c.p.c. dovrebbe essere un magistrato diverso da quello che ha conosciuto della richiesta di decreto ingiuntivo, mentre se fosse esatta la seconda, il giudice può essere il medesimo. Non mi pare persuasiva la tesi secondo la quale ciò che rileva in modo decisivo sarebbe la natura decisoria del provvedimento, nel senso che un giudice che ha adottato un provvedimento decisorio (qualunque sia la forma) non può più pronunciare sulla medesima lite138, o forse meglio, dovremmo intenderci su cosa qualifica un provvedimento come decisorio perché se la decisorietà è correlata alla sua potenziale immutabilità, allora la tesi torna ad essere condivisibile, ma gli esempi riportati (quali l’ordinanza cautelare) non sembrerebbero indirizzati in questo senso. Sino ad ora abbiamo seminato una serie di indicazioni che è giunto ora il momento di raccogliere ed organizzare. 10.1. Le riflessioni condotte sino ad ora ci portano a considerare preferibile che per grado, dobbiamo intendere un procedimento che presenta le seguenti caratteristiche139: i) ha per oggetto il riesame di un provvedimento dato da un giudice; utilizzo volutamente un lemma non tecnico “riesame”, perché idoneo ad inglobare sia le impugnazioni tradizionali, sia quei giudizi che hanno vocazione impugnatoria; quel che rileva, in fondo, è che ci sia un giudice preposto a tornare sulla stessa vicenda, con effetti di sostituzione ; ii) il provvedimento se non impugnato, entro un termine prefissato, acquisisce l’idoneità a divenire stabile e non più revocabile; a me pare che questo profilo sia coessenziale perché se ci si muove nell’alveo dell’art. 51 n.4 c.p.c., è innegabile che se non viene innestato il grado successivo, la pronuncia resa nel grado sottostante diventa definitiva; iii) la qualità della decisione si forma in modo omogeneo in quanto vi è identità di accertamenti probatori, quanto meno nella sostanza se non anche nella forma; non ci interessa che la qualità giuridica degli accertamenti sia perfettamente sovrapponibile (prove e non atti di istruzione), ma si pretende che non vi sia una predeterminata negazione all’ingresso di talune prove; iv) l’oggetto della cognizione è il medesimo; si accerta comunque l’esistenza del diritto o della situazione potestativa140, non la sua verosimiglianza e non l’esistenza allo stato degli atti.

138 Così GIORGETTI, L'incompatibilità del giudice civile da precedente provvedimento decisorio, cit., 1217.

139 L’elenco che segue presenta talune assonanze con quello suggerito da CONSOLO, Una benvenuta interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 51, n. 4 (in relazione all'art. 28 st.lav.) ed i suoi limiti per i casi futuri, in Corr.giur., 2000, 41, il quale segnalava: a) una effettiva cognizione; b) l'attenere di tale precedente cognizione al medesimo thema decidendum ; c) l'essere avvenuta quella cognizione in «altro grado» processuale.

140 MORETTI, L'imparzialità del giudice tra la cautela e il merito, cit., 1099.

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Prima di passare in rassegna, alla luce di questi segnali, alcune fattispecie critiche, mi pare doveroso prendere posizione sui punti iii) e iv) dell’elenco per fugare alcuni dubbi emersi in letteratura. Si dice che non poggia su basi solide la tesi che vorrebbe rinvenire la situazione di incompatibilità in relazione alla identità o diversità di qualità decisoria perché potrebbe accadere (questo è l’esempio) che in una opposizione a decreto ingiuntivo il giudice si trovasse a decidere sulla base del solo materiale documentale prodotto in sede monitoria, sì che in tal caso andrebbe applicato il criterio più rigoroso del “grado”141 e ciò per smentire la giustezza di un siffatto criterio distintivo. Il solo fatto della instaurazione del contraddittorio e dunque la necessità di dare risposte alle difese dell’opponente, modifica il quadro selettivo della cognizione del giudice. Il giudice dell’opposizione decide sì valutando l’immutata prova documentale, ma dovrà tener conto di tutte le difese spiegate nel processo e dunque la sua decisione non sarà mai limitata alla cognizione dei soli fatti narrati dal creditore ricorrente nel ricorso per decreto ingiuntivo. Sulla base di questi sintomi rivelatori del “grado”, non c’è incompatibilità: a) fra il giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo e il giudice che deve decidere l’opposizione ex art. 645 c.p.c., perché difetta il sintomo sub iii)142; b) fra il giudice che ha emesso la misura cautelare ed il giudice chiamato a trattare il merito della lite, perché difetta il sintomo sub ii)143, come pure quello sub iv) posto che il giudice del procedimento cautelare non accerta l’esistenza del diritto, ma la sua verosimiglianza144;

141 DITTRICH, La precognizione del giudice e le incompatibilità nel processo civile, cit., 1166.

142 CONSOLO, Una benvenuta interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 51, n. 4 , cit., 44. Nella prima fase la prova è solo quella documentale, mentre nella seconda la prova non ha limiti. Nel senso della cumulabilità delle funzioni, DITTRICH, La precognizione del giudice e

le incompatibilità nel processo civile, cit., 1169; GURRIERI, La terzietà del giudice nel processo civile: considerazioni alla luce del novellato art. 111 cost., in Giust.civ., 2000, II, 305; PROTO PISANI, Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, cit., 245; MARUFFI, L'art. 111 Cost. e l'incompatibilità del

giudice nel processo civile, cit., 1186.

143 Questa conclusione vale in particolare per i provvedimenti cautelari anticipatori che hanno una vocazione alla stabilità (ma non alla immutabilità) e per i quali il giudizio di merito instaurato da chi ha subito la misura può essere strutturato al modo di una opposizione a decreto ingiuntivo (v., M. FABIANI, Il rito cautelare societario (contraddizioni e dubbi irrisolti), in Riv.dir.proc., 2005, 1203; LUISO, Diritto processuale

civile, IV, I processi speciali, 2009, 205; SALETTI, Le misure cautelari a strumentalità attenuata, in Il processo cautelare, a cura di Tarzia e Saletti, Padova, 2008, 316). È vero che i provvedimenti cautelari anticipatorii si situano in un’area grigia di confine con l’area dei provvedimenti sommari dati nel contraddittorio delle parti, ma tratti distintivi non mancano perché la provvisorietà insita nel rischio che in un qualunque momento quel provvedimento possa essere reso inefficace da una successiva decisione di merito è un connotato tipizzante che distingue la tutela cautelare dalla tutela sommaria, v., CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Padova, 2008, 313; PUNZI, Il processo civile.

Sistema e problematiche, III, I procedimenti speciali e l’arbitrato, Torino, 2010, 52.

144 BOVE, Art. 111 cost. e ‹‹ giusto processo civile ››, cit., 509; CORSINI, Il reclamo cautelare, cit., 281; DITTRICH, La precognizione del giudice e le

incompatibilità nel processo civile, cit., 1169; CHIARLONI, Il nuovo articolo 111 della Costizuione e il processo civile, cit., 30; PUNZI, Il processo civile.

Sistema e problematiche, I, cit., 292; MARUFFI, L'art. 111 Cost. e l'incompatibilità del giudice nel processo civile, cit., 1187; in senso opposto, però, GIORGETTI, L'incompatibilità del giudice civile da precedente provvedimento decisorio, cit., 1217; SCARSELLI, Articolo 111 della Costituzione e

incompatibilità del giudice nel processo civile, cit., 100. All’interno della cornice cautelare possiamo aprire una finestra relativa alla tutela possessoria. In un recente saggio, G. DELLA PIETRA, L’imparzialità del giudice civile nel riflesso del novellato procedimento possessorio, in Riv.trim.dir.proc.civ., 2007, 488 ss. ha sostenuto che la qualità della cognizione fra la prima e la seconda fase è la medesima e il contenuto della decisione è sempre di merito; a me pare che senza dover entrare nell’agone fra le due fasi, eventuali, del procedimento possessorio, risulti decisiva l’osservazione per la quale l’ordinanza che il giudice rende al termine del primo troncone di procedimento non ha alcuna attitudine a divenire immutabile (PUNZI, Il processo civile. Sistema e problematiche, III, cit., 82) e dunque nella classificazione che propongo gli effetti della decisione sono diversi e ciò basta ad escludere il problema dell’incompatibilità. Solo ove si acceda alla tesi che vuole l’ordinanza del giudice idonea a divenire “definitiva” si porrebbe il problema del “grado”, non risultando sufficiente la stabilità cui si

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c) fra il giudice che ha emesso un decreto in camera di consiglio e quello investito del reclamo ex art. 739 c.p.c., perché difetta il sintomo sub ii)145, quando si tratta di decreti non decisori; d) fra il giudice che ha deciso la causa con sentenza passata in giudicato ed il giudice dell’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c., perché difetta il sintomo sub iv), posto che il diritto soggettivo oggetto del processo è diverso146; e) fra il giudice che ha deciso la causa con sentenza oggetto di decisione di annullamento in rito e il giudice del rinvio, perché difetta il sintomo sub iv)147; f) fra il giudice che provvede a dichiarare ammissibile una azione e quello che deve poi deciderla nel merito, perché difettano tutti i sintomi sopra elencati148; g) fra il giudice che emette una misura anticipatoria (art. 186 bis e 186 ter c.p.c.) e il giudice del merito149, perché difettano tutti i sintomi, ma anche rispetto al giudice che ha pronunciato l’ordinanza ex art. 186 quater perché se il processo rimane al giudice di primo grado, difetta il sintomo sub i) e sub ii)150 .

riferisce l’Autore (e che esattamente, poi, a p. 493 distingue le soluzioni a seconda che si creda, o no, alla immutabilità della pronuncia che certo connota (e connotava ) la sentenza dichiarativa di fallimento, presa a campione.

145 Il primo provvedimento non diviene stabile in assenza di reclamo, potendo sempre essere oggetto di revoca e senza limitazioni riferite a fatti nuovi o non dedotti in precedenza. Questo a mio avviso consente di giustificare il diverso trattamento che il legislatore ha scelto per il reclamo cautelare (art. 669 terdecies c.p.c.), cfr., CORSINI, Il reclamo cautelare, cit., 91. Sulla natura di “riesame” del reclamo camerale, v., MONTESANO, ARIETA, Trattato di diritto processuale civile, II, 2, Padova, 2002, 1210.

146 CONSOLO, Ricusazione del giudice per precedente cognizione della causa, cit., 205; PUNZI, Il processo civile. Sistema e problematiche, I, cit., 292. Contra, SCARSELLI, Articolo 111 della Costituzione e incompatibilità del giudice nel processo civile, cit., 95.

147 CONSOLO, Ricusazione del giudice per precedente cognizione della causa, cit., 203; contra, VIGNERA, Le garanzie costituzionali del processo civile alla

luce del «nuovo» art. 111 cost., cit., 1214..

148 Contra, SCARSELLI, Articolo 111 della Costituzione e incompatibilità del giudice nel processo civile, cit., 97. A questa fattispecie potremmo accostare il caso del rapporto fra fase camerale e fase dibattimentale del giudizio di cassazione, v., TISCINI, La relazione nel procedimento

camerale in Cassazione e i manifestamente infondati sospetti di incostituzionalità per violazione delle garanzie di terzietà e imparzialità del giudice, in Riv.dir.proc., 2008, 1130. Il tema è verosimilmente destinato ad acquisire interesse con riferimento all’azione collettiva di cui all’art. 140 bis del codice del consumo; infatti, se si ritiene che l’ordinanza del tribunale (di ammissibilità o di inammissibilità) esaurisce il suo percorso davanti alla corte d’appello, senza che ciò comporti irriproponibilità della domanda (v., CONSOLO, Come cambia, rivelando ormai a tutti e in

pieno il suo volto, l'art. 140-bis e la class action consumeristica , in Corr.giur., 2009, 1302; CARRATTA, L’azione collettiva restitutoria e risarcitoria:

presupposti ed effetti, in Riv.dir.proc., 2008, 732; ma contra, A.D. DE SANTIS, L’azione risarcitoria collettiva, in ‹‹Class action›› e tutela collettiva dei

consumatori, a cura di Chinè e Micoclis, Roma, 2008, 251), a me pare che non possa sorgere alcun profilo di incompatibilità quando il giudizio è favorevole alla ammissibilità dell’azione. Ma anche quando la dichiarazione di ammissibilità provenga dal giudice d’appello in sede di reclamo contro il provvedimento negativo del tribunale, la circostanza che difetti sia la stabilità dell’ordinanza e il fatto che diversa sia la qualità della decisione, depongono a sfavore della incompatibilità, fatto salvo che il giudice non travalicando dal proprio ruolo, già nella prima fase neghi l’esistenza del diritto.

149 CONSOLO, Una benvenuta interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 51, n. 4, cit., 45 DITTRICH, La precognizione del giudice e le

incompatibilità nel processo civile, cit., 1170; CECCHELLA, La partecipazione del giudice delegato alle fasi decisorie del processo fallimentare e il principio di

incompatibilità secondo l'ancien et le nouveau régime, in Fallimento, 2007, 901 ss. . Ma in senso contrario, mi pare, MORETTI, L'imparzialità del giudice tra la cautela e il merito, cit., 1096

150 CAPPONI, Brevi considerazioni sull’articolo 111 della Costituzione, cit., 107; MARUFFI, L'art. 111 Cost. e l'incompatibilità del giudice nel processo

civile, cit., 1189; GIORGETTI, L'incompatibilità del giudice civile da precedente provvedimento decisorio, cit., 1217; TISCINI, Nuovi interventi della corte

costituzionale sul principio di terzietà del giudice, cit., 40 ss.; GURRIERI, La terzietà del giudice nel processo civile:, cit., 306. E’ ben vero come sottolinea G. DELLA PIETRA, L’imparzialità del giudice civile nel riflesso del novellato procedimento possessorio, cit., 484, che la ragione per cui il giudice può essere il medesimo non va fatta dipendere, certo, dalla circostanza che al giudice nella fase successiva è offerto un maggior quadro

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Queste sono le indicazioni di carattere generale. Pur tuttavia, almeno in taluna di queste situazioni, non possiamo escludere che l’intensità della cognizione di fatto si riveli così omogenea nei due procedimenti da giustificare, almeno, che il giudice valuti l’opportunità di astenersi, se del caso su sollecitazione [non impegnativa, per vero] di una delle parti151. Pur fra qualche dubbio, mi pare che la relazione di incompatibilità permanga: ά) fra il giudice che ha deciso la causa con sentenza passata in giudicato ed il giudice della revocazione, perché pur non essendovi identità di accertamenti probatori, ciò dipende da errori del processo e non da un diverso valore delle prove152; mi pare che la circostanza che il vizio debba essere dedotto con l’appello laddove venga conosciuto quando la sentenza non è ancora passata in giudicato, sia un indice importante della necessità di assicurare l’alterità del giudicante, sì che non vedo perché l’identità del giudice debba essere fatta dipendere solo per effetto del fattore tempo; β) in tutti quei casi in cui pur mancando uno o più sintomi del “grado”, per scelta del legislatore l’incompatibilità risulti da una disposizione di diritto positivo153; γ) fra il giudice che ha deciso la causa con sentenza oggetto di cassazione ex art. 360 n. 3, 4 e 5 e il giudice del rinvio154; All’esito di questa ricognizione risulta che il trattamento non è simmetrico fra provvedimenti che possono ascriversi al genus, pur inteso in modo molto ampio, della tutela sommaria: nel rito monitorio ed in quello cautelare l’incompatibilità si suggerisce che non vi sia, mentre sussiste nel procedimento ex art. 28 st.lav., come sussisteva nel processo per fallimento (profilo oggi superato dal nuovo art. 18 l.fall.). Questa conclusione è solo in apparenza asintonica perché la nozione di “sommarietà” è attualmente troppo vaga (al punto da ricomprendervi, stando almeno alla rubrica legis, anche un processo dichiarativo qual è quello di cui agli artt. 702 ss. c.p.c.), sì che in essa confluiscono

conoscitivo derivante da comparsa conclusionali, repliche ed eventuale discussione orale, in quanto la qualità decisoria non cambia, visto che il giudice conosce della causa giunta allo stadio finale e dunque con una completezza degli accertamenti istruttori. Ma se consideriamo che la decisione se non si trasforma in sentenza è pur sempre provvisoria e non decide dei diritti in contesta, provvedendo solo a valutarli in funzione di consegnare al creditore un titolo esecutivo, mi pare che la soluzione indicata nel testo debba essere confermata.

151 Sulla necessità di guardare anche in concreto la qualità della cognizione, v., MORETTI, L'imparzialità del giudice tra la cautela e il merito, cit., 1105. CONSOLO, Il giudice civile cautelare non diviene in via generale incompatibile a statuire sul merito secondo la Consulta, in Giur. it. 1998, I, 411, osserva come assai spesso " la giurisprudenza di merito ed in particolare quella elaborata con riguardo all’art. 700 c.p.c. e alle sue applicazioni più intense e penetranti ... mostrano come l’esame del merito si sia fatto sovente molto attento e capillare "; in termini simili, CIPRIANI, Il procedimento cautelare fra efficienza e garanzie, in Giusto proc.civ., 2006, 24; GIORGETTI, L'incompatibilità del giudice civile da precedente

provvedimento decisorio, cit., 1216..

152 Contra (salvo il caso del dolo del giudice), PUNZI, Il processo civile. Sistema e problematiche, I, cit., 292.

153 Ci si riferisce al reclamo cautelare ma anche, in parte, al reclamo di cui all’art. 26 l.fall. Per ambedue il legislatore ha fatto una scelta di opportunità nel senso che la delicatezza dell’oggetto del procedimento giustifica non solo un controllo, ma pure il fatto che questo controllo sia affidato ad un organo del tutto estraneo. Un breve accenno va fatto al caso del reclamo endofallimentare per sottolineare che talora si tratta di un vero e proprio mezzo di impugnazione le quante volte si dirige a contrastare un provvedimento decisorio del giudice delegato; altre volte, invece, il reclamo altro non è che un modo per riproporre una questione di carattere gestorio decisa dal giudice delegato con un provvedimento sicuramente revocabile. Sul punto, cfr., M. FABIANI, Fallimento (Tutela giurisdizionale), voce del Dig.civ., Agg. IV, Torino, 2009, 5 ss. Sulla natura di impugnazione del reclamo cautelare, v. RECCHIONI, I procedimenti sommari e speciali. II, Procedimenti

cautelari, Torino, 2005, 726.

154 CONSOLO, Ricusazione del giudice per precedente cognizione della causa, cit., 204.

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procedimenti molto eterogenei, rispetto ai quali la fase successiva può atteggiarsi in modo assai diverso. Per concludere su questo punto possiamo ritenere che la nozione di “grado” non coincida con quella di impugnazione sia per difetto che per eccesso, in quanto vi sono impugnazioni che non si articolano per gradi (v. l’opposizione di terzo) e vi sono gradi che non sono formalmente impugnazioni (v. le opposizioni a provvedimenti sommari in cui la qualità della decisione è sostanzialmente equivalente). 11. E’ innegabile che le questioni più comuni in tema di terzietà e imparzialità del giudice siano quelle che si ricollegano alle considerazioni svolte sino ad ora, ma le suggestioni più profonde che si agitano sul fronte della imparzialità affondano nel ruolo del giudice rispetto alle parti e al processo. Non si può chiudere una trattazione, ancorché breve, sul principio di imparzialità senza gettare uno sguardo verso i profili strutturali del processo che potrebbero minare l’imparzialità del giudice. Dopo che si è stabilito che l’art. 111 Cost. è violato là dove l’ordinamento volesse istituire nuovi processi ad iniziativa d’ufficio, occorre verificare se a processo iniziato (regolarmente) da una parte, il maggiore o minore potere del giudice di organizzare il procedimento e il maggiore o minore potere di influire sulle prove possano in qualche modo ricondursi al paradigma dell’imparzialità del giudice. Il potere del giudice di organizzare o comunque di influire sull’andamento del processo è tema che si interseca con quello, sempre riconducibile all’art. 111 Cost., del processo regolato per legge155. Per ragioni di continenza non mi voglio misurare con questo argomento che, bene o male, rimanda alla dialettica fra cognizione piena ed esauriente e altre forme di tutela semplificata. Si tratta di materia troppo vasta per poter essere assemblata al tema principale, ma almeno occorre ricordare che in un processo che la legge governa solo nei contorni (e talora neppure in quelli, leggendo l’art. 738 c.p.c., isolato dalla cornice riempitiva dei principi costituzionali), si pone anche, dal punto di vista soggettivo del giudice, un problema di imparzialità ogni qualvolta una scelta del giudice sul modus operandi possa risolversi in un vantaggio per una parte a discapito dell’altra, ma di questo non vorrei parlare per soffermarmi un poco, invece, sull’approccio del giudice nell’istruttoria. La ragione per la quale non mi soffermo sull’argomento della discrezionalità del giudice nei processi semplificati (questa espressione è dovuta al fatto che non tutte le cd. tutele sommarie sono davvero tali), tema indubbiamente centrale156, sta nel fatto che per quanto possa apparire paradossale, a mio avviso i profili che attengono all’imparzialità del giudice sono più preoccupanti quando investono il tema delle prove officiose, rispetto all’ampia discrezionalità di cui il giudice gode nei modelli semplificati.

155 BOVE, Art. 111 cost. e ‹‹ giusto processo civile ››, cit., 490. Anche su questo punto si registrano posizioni molto distanti; senza pretesa di completezza, nella direzione della salvaguardia del modello camerale come possibile contenitore di liti su diritti soggettivi, v., TROCKER, Il valore costituzionale del " giusto processo ", in Il nuovo articolo 111, cit., 41. In senso opposto, COSTANTINO, Il nuovo articolo 111 della Costituzione, cit., 255; LANFRANCHI, Giusto processo, voce dell’ Enc.giur. Treccani, Roma, 1 ss. Il tema della semplificazione camerale in ambito fallimentare è ben tratteggiata da GRADI, Il rito camerale per le azioni che derivano dal fallimento fra disciplina transitoria e ‹‹ giusto processo ››, in Dir. fall., 2007, II, 436.

156 Cfr., di recente, GRAZIOSI, La cognizione sommaria del giudice civile nella prospettiva delle garanzia costituzionali, in Riv.trim.dir.proc.civ., 2009, 148.

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Infatti la discrezionalità del giudice nel processo sommario o semplificato si esprime, sopra ogni altra cosa, nella organizzazione del processo. Il giudice concede termini, detta alle parti il calendario delle attività che possono compiere (e che non hanno il “diritto” di compiere) e governa l’istruttoria. La circostanza che la latitudine dei poteri del giudice appaia quasi sconfinata non conduce, però, all’assunzione di un rischio eccessivo da difetto di imparzialità, perché se ci si pensa, qui vengono in gioco, essenzialmente, poteri di direzione del processo; poteri che solo indirettamente sono idonei ad influire sulla decisione. Ognun vede che la concessione di un termine breve può risultare decisiva per le sorti del processo (perché la parte può trovarsi nell’impossibilità di apprestare la difesa o di introdurre una prova), ma l’esercizio dei poteri organizzativi del giudice, non scevro comunque dai condizionamenti dettati, proprio, dalle norme costituzionali, si gioca “al buio”, prima o contemporaneamente alle mosse sullo scacchiere orchestrate dalle parti. Nei procedimenti sommari e semplificati, se ci facciamo caso, il nodo critico è rappresentato dal tema delle prove e cioè dal tasso di discrezionalità che “inquina” tutto il procedimento probatorio, dalla deduzione, alla ammissione e per finire alla valutazione della prova157. Ed allora se le questioni più preoccupanti ruotano attorno al modo in cui la prova entra nel processo, ecco che torna opportuno focalizzare l’attenzione sull’argomento delle iniziative officiose, quale cartina di tornasole del problema dell’imparzialità del giudice. 12. Una volta che si sono espunte le iniziative officiose quanto al promovimento di un processo, non per questo si disperdono altre iniziative officiose, perché restano pur sempre attuali le iniziative in materia di prove. Sono iniziative che possono assumere un valore decisivo se pensiamo che la prova del fatto è la pre-condizione indefettibile perché poi si riesca a fare applicazione della norma di diritto invocata dall’attore che chiede tutela158. Ora non è revocabile in dubbio che la partecipazione del giudice alla formazione della prova, quando non è mera partecipazione passiva, è uno dei nervi scoperti della dottrina del processo civile: le polemiche di questi mesi ne sono una testimonianza precisa159. Non è peraltro necessario prendere una posizione decisa (fare cioè una netta scelta di campo) a favore di un giudice attivo o a favore di un giudice al traino della volontà delle parti, per poter cercare una soluzione che porti a rendere imparziale la discrezionalità del giudice. Come il giudice “passivo” può essere parziale (in quanto condizionato dalla sua ideologia o dai suoi preconcetti),

157 Una chiosa va dedicata al processo dichiarativo semplificato di cui agli artt. 702 bis ss. c.p.c.; una delle preoccupazioni più diffuse in ordine all’eccesso di discrezionalità di cui godrebbe il giudice può essere disinnescata se si ritiene come a me pare nettamente preferibile, che il giudice non gode di poteri di iniziativa officiosa diversi da quelli affidatigli per il processo a cognizione piena; per un dimostrazione, cfr. si vis, M. FABIANI, Le prove nei processi dichiarativi semplificati, in Riv.trim.dir.proc.civ., 2010, fasc.2; BIAVATI, Appunti introduttivi sul nuovo

processo a cognizione semplificata, in Riv.trimdir.proc.civ., 2010, 192; C.FERRI, Il procedimento sommario di cognizione, in Riv.dir.proc., 2010, 98; DITTRICH, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, in Riv.dir.proc., 2009, 1596.

158 TARUFFO, Onere della prova, in Dig.civ., XIII, Torino, 1995, 66.

159 Si veda da un lato l’acceso dibattito sul pubblico/privato nel processo civile (cfr., ex multis, TARUFFO, Cultura e processo, in Riv.trim.dir.proc.civ., 2009, 73; CIPRIANI, Il processo civile tra vecchie ideologie e nuovi slogan, in Riv.dir.proc., 2003, 455 ), e dall’altro il tema, consimile, della ricerca dell’equilibrio giudice-parti nella fase della trattazione (TARUFFO, Poteri istruttori delle parti e del giudice in Europa, in Riv.trim.dir.proc.civ., 2006, 452; ID., Per la chiarezza di idee su alcuni aspetti del processo civile, in Riv.trim.dir.proc.civ., 2009, 723) e con i riflessi sul tema del processo come luogo ove accertare la verità materiale di un fatto o l’esistenza/inesistenza del diritto affermato (v., le contrapposte idee di MONTELEONE, Intorno al concetto di verità << materiale >> o <<oggettiva>> nel processo civile, in Riv.dir.proc., 2009, 11; ID., Le idee confuse del prof. Taruffo, in Riv.trim.dir.proc.civ., 2009, 1139), ed ancora con riferimento alla attribuzione al giudice di poteri strumentali di direzione formale del procedimento ( COMOGLIO, Etica e tecnica del “giusto processo", cit., 365).

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allo stesso modo il giudice “attivo” può essere imparziale160 (in quanto indifferente alle parti ed interessato solo a rendere una decisione giusta). Ciò non toglie che quando l’esercizio di poteri discrezionali del giudice può direttamente influire preventivamente sull’esito della lite161, una qualche attenzione verso il rispetto della garanzia di imparzialità sia onesto porsela162. Infatti per larga parte della dottrina il dilemma fra gli stilemi del processo dispositivo e quelli del processo inquisitorio si riconduceva, in fondo, al problema dell’imparzialità del giudice163. Non a caso, l’Autore a cui è dedicato il Centro di cultura che ci ospita164 nel descrivere la griglia dei poteri affidati al giudice nei processi a cognizione piena, li distingueva in due macro categorie a seconda che attenessero al mero governo del processo o invece fossero capaci di influire sul contenuto della decisione del giudice. Rispetto a questi, fra i quali venivano collocati i poteri istruttori d’ufficio, si affermava che il legislatore è tenuto a predeterminare in modo chiaro sia i presupposti che il metro di esercizio di tali poteri, sia il loro contenuto ed il momento del processo entro cui possono essere esercitati. Con l’effetto che nessuna discrezionalità [incontrollabile] va lasciata al giudice e il valore del giusto processo ne richiede la rigida predeterminazione legale. Mi pare che questa convinzione imponga di delineare un percorso logico che accompagni il giudice nel valutare se si debba fare ricorso ai poteri istruttori officiosi. Che piaccia oppure no, che si tratti di prodotti dell’art déco

165o vessilli della ricerca della verità materiale, dobbiamo fare i conti col diritto positivo e il diritto positivo ci consegna un regime nel quale il giudice ha poteri di impulso probatorio officioso. Talora questi poteri sono riconosciuti nei processi che hanno ad oggetto situazioni di interesse superindividuale, talora sono poteri associati ad una presunta asimmetria fra le parti o a difetti di capacità (o situazioni di “minorità”),

160 Sul fatto che l’imparzialità non incida sul dover essere il giudice più o meno attivo nel processo, v., BOVE, Art. 111 cost. e ‹‹ giusto

processo civile ››, cit., 512; PIVETTI, Per un processo civile giusto e ragionevole, cit., 72..

161 Ci si chiede se nel momento in cui il giudice dispone una prova officiosa, già in quel momento si trova, magari inconsapevolmente, a supportare l’attività di una parte in danno dell’altra.

162 Per gli opposti schieramenti, v., MONTELEONE, Le prove disponibili d’ufficio e l’imparzialità del giudice, in Riv.trim.dir.proc.civ., 1978, 189 (e ID., Limiti alla prova d’ufficio nel processo civile (cenni di diritto comparato e sul diritto comparato), in Riv.dir.proc., 2007, 863) e CHIARLONI, La

semplificazione dei procedimenti probatori, in Riv.dir.civ., 1989, I, 756; TARUFFO, Poteri istruttori delle parti e del giudice in Europa, cit., 452.

163 LIEBMAN, Fondamento del principio dispositivo, in Riv.dir.proc., 1960, 555 ss.; MONTESANO, Le prove disponibili d’ufficio e l’imparzialità del

giudice civile, in Riv.trim.dir.proc.civ., 1978, 189 ss.

164 FABBRINI, Potere del giudice (dir. proc. civ.), voce dell’Enciclopedia del diritto, Milano, 1985, XXXIV, 721 ss.; CIVININI, Il nuovo articolo 111

della Costituzione e il " giusto processo civile ". Le garanzie, in Il nuovo articolo 111, cit., 275.

165 CAVALLONE, Un tardo prodotto dell’art déco (il «nuovo» art. 281 ter c.p.c.), in Riv. dir. proc., 2000, 93; diverso il giudizio di VERDE, Diritto

processuale civile. 1. Parte generale, cit., 105, ad avviso del quale questa apertura è un segnale di fiducia verso i giudici.

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ma comunque li troviamo anche nel cd. contenzioso ordinario166, e per effetto di successive stratificazioni oggi questi poteri sono alquanto numerosi167. Se le domande le formulano solo le parti e se il potere di allegazione dei fatti (quanto meno quelli principali)168 spetta al monopolio delle parti, già sol per questo il problema delle prove officiose non è forse così grave come talune volte si dice169; un sistema (integrativo) di prove officiose è ben altra cosa da un processo inquisitorio pur retto dal principio della domanda. Se la domanda è formulata solo dalla parte privata o dal P.M. e se anche i fatti sono allegati solo dalle parti, il giudice può al più affiancarsi alle parti nella raccolta del materiale probatorio, ma limitatamente alle circostanze che le parti hanno allegato170. Mi pare che in questo senso vada una ricerca recente dove si è posto in luce, quanto meno per il processo ordinario di cognizione, che il ruolo del giudice nella raccolta della prova non è mai sostitutivo del ruolo delle parti nella misura in cui escludiamo, per derivazione dal principio del divieto dell’uso della scienza privata da parte del giudice, che il giudice possa tramutarsi in investigatore andando alla ricerca di fatti nuovi sui quali, poi, innestare le prove officiose171. Ed allora la circostanza che al giudice siano affidati poteri di ricerca della prova su fatti allegati non attenta al principio dispositivo, ma come si dice, costituisce principalmente un fatto di tecnica processuale172, ma non solo. Le parti quando si controverte su diritti disponibili possono scegliere come regolare la crisi del loro rapporto, ma se optano per la devoluzione della lite innanzi al giudice accettano di assoggettarsi ad un sistema di regole in parte elastico là dove si prevede la

166 Esattamente MARENGO, La discrezionalità del giudice civile, cit., 135, osserva che il problema dell’iniziativa officiosa si presenta allo stesso modo qualunque sia il tipo di lite. Ed infatti, FABBRINI, Potere del giudice, cit., 734, ben poneva in evidenza che il diritto astratto deve predisporre gli strumenti per collocare le parti in posizione di parità, ma il giudice deve restare neutrale e non è suo compito agevolare la parte asseritamente debole; FAZZALARI, La imparzialità del giudice, in Riv.dir.proc., 1972, 193.

167 COMOGLIO, Le prove civili, Torino, 2004, 92; VERDE, Diritto processuale civile. 1. Parte generale, cit., 103; CAVALLONE, Il giudice e la prova

nel processo civile, Padova, 1991, 99; GRASSO, Dei poteri del giudice, in Commentario Allorio, I, 2, Torino, 1973, 1301; CAPPELLETTI, La

testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, I, Milano, 1962, 337.

168 COMOGLIO, FERRI e TARUFFO, Lezioni sul processo civile, I, Il processo ordinario di cognizione, Bologna, 2005, 424; CAPPELLETTI, La

testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, I, cit., 330 ss.; per CAVALLONE, Il giudice e la prova nel processo civile, cit., 99 ss. , anche quelli secondari.

169 Giova qui ricordare il recente saggio con cui PICÓ JUNOY, Iudex iudicare debet secundum allegata et probata, non secundum conscientiam: storia dell’erronea citazione di un brocardo nella dottrina tedesca e italiana, in Riv.dir.proc., 2007, 1497, ha dimostrato che la preoccupazione riassunta nel brocardo non era tanto quella di evitare che il giudice si rendesse attivo sulle prove, quanto quella di impedire che il giudice si formasse il proprio convincimento in base a conoscenze personali, non emergenti dagli atti e non sottoposte al contraddittorio delle parti.

170 LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, Milano, 2007, 308. Sulla assenza nei sistemi di civil law dei Paesi Occidentali, di processi di stampo inquisitorio, v., CARPI, Cultura e processo, in Riv.trim.dir.proc.civ., 2009, 74; cfr., anche CAVALLONE, In difesa della veriphobia (considerazioni amichevolmente polemiche su un recente libro di Michele Taruffo), in Riv.dir.proc., 2010, 13.

171 E. FABIANI, I poteri istruttori del giudice civile. Contributo al chiarimento del dibattito, Napoli, 2008, passim, spec., 542; PROTO PISANI, Lezioni

di diritto processuale civile, cit., 408 ss.; CAPPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, I, cit., 353 ss.

172 Sebbene con vari distinguo, cfr., MANDRIOLI, Diritto processuale civile, I, Torino, 2009, 120; CARNACINI, Tutela giurisdizionale e tecnica del

processo, in AA.VV., Studi in onore di E. Redenti, II, Milano, 1951, 695; CAPPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, I, cit., 314 ss.; . Di opportunità parlava ANDRIOLI, Prova in genere, in Nuovo dig.it., Torino, 1939, 823

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partecipazione del giudice173, non come mero convitato di pietra incaricato solo di “jus dicere”, ma quale co-protagonista. Non si perdono le tracce del processo dispositivo sol perché il giudice è coinvolto nell’istruttoria quando il muro invalicabile è costituito dal monopolio che le parti hanno in ordine alla richiesta di tutela e in ordine alla individuazione dei fatti che giustificano quella determinata richiesta. Questo consente che le dispute ideologiche più profonde sulla idealità del processo (cioè l’interrogativo su quale sia lo scopo del processo) possano essere, qui, accantonate; se mai visto che la scelta del giudice di disporre una prova d’ufficio sembra riconducibile ad una scelta discrezionale174 (e si dice non sindacabile in fase di impugnazione), ove non ci si voglia accontentare della necessarietà della motivazione e del rispetto del principio del contraddittorio quale chiave di volta della legittimità dell’esercizio di poteri del giudice, può assumere un rilievo importante cercare di verificare se questa discrezionalità possa essere governata da qualche criterio obiettivo di orientamento (che forse ci può condurre alla negazione radicale della discrezionalità intesa in senso stretto). 12.1 Il terreno sul quale ci muoviamo non è del tutto privo di recinti perché nel nostro ordinamento vige il divieto di non liquet cui fa da sponda la regola di giudizio fondata sull’onere della prova175. Ogni qualvolta l’attore non ha fornito la prova del fatto costitutivo e il convenuto non ha fornito la prova di un fatto estintivo, modificativo o impeditivo (e aggiungiamo che oggi la valutazione probatoria è condita per diritto positivo dal principio di non contestazione176), il giudice può decidere la lite facendo ricorso, appunto, alla regola dell’onere della prova. Ma se questa è una regola di giudizio finale177, prima di giungere all’impasse valutativa che si supera solo verificando come deve essere distribuito l’onere della prova nel caso specifico, il giudice può cercare di risolvere la lite attraverso il ricorso a mezzi di prova officiosi178. Ma è proprio il verbo “può” che ci pone qualche problema. Come accennato poc’anzi, le parti che hanno il monopolio delle domande e delle allegazioni179 hanno un potere concorrente con quello del giudice in materia di prove. Nella ricerca

173 Queste considerazioni esprimono in sintesi la Relazione al codice del 1940 redatta da Calamandrei, §§ 12 e 13; v. appunto, CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile secondo il nuovo codice, Roma, 1942, 242 ss.

174 Gli artt. 118, 213, 218 ter c.p.c. esordiscono con l’espressione ‹‹ …il giudice può …››

175 MICHELI, L’onere della prova, Padova, 1966, 177 ss.; VERDE, L’onere della prova nel processo civile, Napoli-Camerino, 1974, 57 ss.

176 Sul nuovo art. 115 c.p.c., v., PAGNI, La "riforma" del processo civile: la dialettica tra il giudice e le parti (e i loro difensori) nel nuovo processo di

primo grado, in Corr.giur., 2009, 1312 ; M. FABIANI, Il nuovo volto della trattazione e dell’istruttoria, in Corr.giur., 2009, 1169. Prima della Novella, CARRATTA, Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano, 1995, passim; PROTO PISANI, Ancora sulla allegazione dei fatti e sul principio di

non contestazione nei processi a cognizione piena, in Foro it., 2006, I, 3143; CEA, La non contestazione dei fatti e la Corte di Cassazione: ovvero di un

principio poco amato, in Foro it., 2005, I, 730.

177 PUNZI, Il processo civile. Sistema e problematiche, I, cit., 400.

178 FABBRINI, Potere del giudice, cit., 734; CEA, L’art. 281 «ter» c.p.c. e il «non liquet» della Corte costituzionale, in Foro it., 2003, I, 1631.

179 Sul tema PUNZI, Il processo civile. Sistema e problematiche, I, cit., 396; MENCHINI, Osservazioni critiche sul c.d. onere di allegazione dei fatti

giuridici nel processo civile, in AA.VV., Studi in onore di Elio Fazzalari, III, Milano, 1993, 26; CAPPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema

dell’oralità, I, cit., 329.

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del punto di equilibrio fra poteri delle parti e poteri del giudice potremmo assumere che una volta individuata la res litigiosa, poiché le parti hanno deciso di rivolgersi al giudice hanno anche accettato che la prova dei fatti possa essere guidata anche dal giudice. Ciò che però occorre stabilire in funzione della garanzia delle parti è che l’uso dei poteri del giudice avvenga sulla base di regole. Infatti, disporre i mezzi di prova o non disporli può significare indirizzare la decisione della lite verso una o l’altra delle possibili soluzioni. Sappiamo bene che l’intero sistema è infarcito di clausole generali anche dentro il processo, tali da lasciare al giudice ampia libertà di azione; si pensi al giudizio di rilevanza sulla prova costituenda. Pur tuttavia l’erronea valutazione sulla rilevanza di un mezzo di prova è sindacabile e può condurre alla revoca del provvedimento o alla sua riforma in sede di gravame. Quando invece al giudice viene attribuito un potere discrezionale e l’uso che se ne può fare non è censurabile, si può temere di correre il rischio di un difetto di imparzialità del giudice: se vuole “aiutare” una parte lo può fare, ma se non lo fa, nessuno se ne può dolere. A questo punto o si cambia idea sulla insindacabilità, oppure si può cercare di obiettivizzare quell’uso di poteri discrezionali che possono spostare gli equilibri nel processo. Una chiave di lettura dell’uso dei poteri istruttori officiosi si trova elargita in quelle enunciazioni che pongono in filiera taluni presupposti dati dall’essere il fatto da provare

regolarmente allegato, dall’avere la parte fatto tutto quanto era nelle sue possibilità per provare il

fatto ed infine dall’essere il mezzo officioso indispensabile e potenzialmente risolutivo180.

Questa griglia è sicuramente utile ma non altrettanto decisiva nell’impostazione qui data e cioè quella di obiettivizzare la discrezionalità del giudice. Per due ordini di ragioni: mi chiedo, cioè, se non sia necessaria una operazione additiva nel fissare qualche ulteriore criterio di riferimento e al contempo se non sia possibile effettuare una sottrazione. A questo proposito, infatti, la griglia proposta è inadeguata a spiegare le ipotesi di mezzi di prova concorrenti, come la prova testimoniale ex art. 281 ter c.p.c. Se fosse vero che l’ingresso della prova officiosa presuppone sempre che la parte abbia fatto tutto il possibile per offrire la prova, mai potremmo spiegare la prova testimoniale officiosa, visto che si tratta di un mezzo di prova identico a quello che può essere introdotto ad iniziativa di parte181. Il tema è alquanto delicato perché l’art. 281 ter, diversamente dalle iniziativa officiose sempre ricollegate alla prova testimoniale (art. 257 c.p.c.), sembra prescindere dallo svolgimento di una prova per testi sollecitata dalle parti. Così, mentre è evidente la natura integrativa della prova ex art. 257, non altrettanto si dovrebbe dire per quella ex art. 281 ter che sembra sganciata da una precedente attività istruttoria. In tale cornice a me pare che la formula dell’art. 281 ter vada intesa in senso assai più restrittivo di quanto la lettera della disposizione non lasci trasparire. Come vedremo fra poco, se si postula che il giudice esercita, solo, un potere integrativo e non interamente sostitutivo, allora il presupposto di applicazione dell’art. 281 ter sta nel fatto che il giudice dispone la prova testimoniale se la parte non l’ha autonomamente dedotta in quanto convinta di avere già, per altre forme, fornito la prova di quel fatto; una convinzione “oggettiva” nel senso che il giudice la riconosce ma la giudica insufficiente. Ed allora dovremmo correggere la formula “dall’avere la parte fatto tutto

180 PUNZI, Il processo civile. Sistema e problematiche, I, cit. 411.

181 Non per caso la prova testimoniale officiosa ha creato un certo qual impaccio sistematico tanto è vero che con una decisione, peraltro assai criticata (Corte cost., 14 marzo 2003, n. 69, in Giur.it., 2003, 1330), la Consulta aveva statuito che questo mezzo di prova non è ammesso dopo che sono maturate le preclusioni istruttorie. Questa pronuncia esterna il disagio di una prova che potendo trovare ingresso nel processo dopo le decadenze, di fatto potrebbe risolversi in un modo per agevolare la parte decaduta.

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quanto era nelle sue possibilità per provare il fatto “, aggiungendo “nel momento in cui le prove

erano deducibili prima di incorrere nelle decadenze”.182 Ai tre requisiti legittimanti si dovrebbe aggiungere che il giudice nel disporre la prova deve sempre rispettare il contraddittorio (ora l’art. 183 8° comma c.p.c. non lascia più dubbi al riguardo), ma forse anche questo accorgimento, certo necessario, non è, anche, sufficiente. 12.2 Nella ricerca di un parametro obiettivizzante, il primo dato di diritto positivo da cui partire e che costituisce una conferma delle intuizioni già esposte, è costituito dalle norme che a proposito dei poteri istruttori officiosi evocano l’idea stessa dell’attività integrativa. Ne costituiscono un campione emblematico l’art. 118 e l’art. 257 c.p.c. Là dove si fa riferimento alla ‹‹ indispensabilità ›› dell’ispezione e là dove si ha riguardo all’esito della prova testimoniale già espletata, le norme ci indicano che il giudice è chiamato ad integrare le prove raccolte; non diversamente la consulenza tecnica d’ufficio dovrebbe logicamente presupporre l’esaurimento della prova sui fatti che il consulente deve conoscere183. In modo ancor più emblematico e tale da essere adoperata come chiave di volta, la norma sulla quale val la pena di investigare è quella dell’art. 2736 c.c. che descrive la praticabilità del giuramento suppletorio. Il giuramento suppletorio è l’archetipo della prova officiosa in quanto soccorre proprio quando una parte ha fornito un frammento di prova (semiplena probatio), ma questa non tranquillizza abbastanza il giudice. È ben noto come il giuramento suppletorio sia considerato un mezzo di prova poco incline al rispetto del principio dispositivo e addirittura, secondo taluno, uno strumento di violazione del diritto di difesa e del principio di eguaglianza184. Prima di verificare quanto queste considerazioni siano effettivamente condizionanti, rammento che in base ad una certa lettura il giuramento suppletorio andrebbe disposto (fermo restando che la giurisprudenza ne predica l’assoluta discrezionalità nell’ingresso185) per completare la prova in capo a chi dovrebbe comunque risultare vittorioso nella lite in virtù dell’applicazione del principio dell’onere della prova. Se questa fosse la soluzione, l’art. 2736 c.c. sarebbe solo l’altra faccia della medaglia dell’art. 2697 c.c.186.

182 Questa soluzione si trova ad essere in perfetto contrasto con Corte cost., 14 marzo 2003, n. 69, in Foro it., 2003, I, 1631, là dove si trova enunciato che il giudice non potrebbe disporre una prova officiosa quando le parti sono decadute; al contrario il giudice dispone la prova in funzione integrativa, tendenzialmente proprio quando si sono esaurite le prove articolate dalle parti.

183 Pur se l’art. 213 c.p.c. non evidenzi questo profilo integrativo, si ritiene che l'esercizio da parte del giudice della facoltà di richiedere informazioni alla p.a. non possa mai sostituirsi all'adempimento dell'onere probatorio che grava sulla parte interessata (Cass., 13 marzo 2009, n. 6218; Cass., 7 novembre 2003, n. 16713 ; Cass., 27 giugno 2003, n. 10219), sì che la richiesta può essere inoltrata solo quando le informazioni non siano altrimenti accessibili alla parte (Cass., 7 novembre 2003, n. 16713 ; Cass., 12 dicembre 1988, n. 6734 ; Cass., 7 gennaio 1982, n. 62 ).

184 BALENA, Giuramento, voce del Dig.civ., IX, Torino, 1993, 105. Ma, ed è questo il profilo che più interessa qui, il giudice delle leggi ebbe ad occuparsi del giuramento (Corte cost., 4 maggio 1972, n. 83, in Foro it., 1972, I, 1530), proprio in tema di garanzie costituzionali del giusto processo sul piano dell’eccesso di discrezionalità del giudice.

185 Cass., 2 aprile 2009, n. 8021; Cass., 8 settembre 2006, n. 19270.

186 Sul rapporto fra onere della prova e giuramento suppletorio, MARENGO, La discrezionalità del giudice civile, cit., 156, rileva che non vi è alcun contrasto, ma non spiega come fra le due regole si possa trovare una coerente relazione.

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Francamente non credo che questo modo di invocare il giuramento sia utile. Senza alcuna pretesa che non sia quella di selezionare un criterio per garantire alle parti l’imparzialità del giudice (perché in fondo di questo stiamo discutendo), credo che occorra provare a fare uno strappo alla tradizione. Tradizione domestica che vede quanto meno inconsueto che il tema della prova venga studiato sulla base di criteri scientifici e statistici187. Al contrario il tema della prova è il terreno elettivo dove non albergano criteri giuridici188 e dove il principio del prudente apprezzamento del giudice sembra collocare il magistrato in un’aurea eterea là dove si può dire tutto e il contrario di tutto, nella diffusa convinzione che il giudizio di fatto spesso si presta alla insindacabilità successiva. È però non meno vero che la dottrina del processo abbia da tempo cercato di percorrere una strada che porti a rendere governato da criteri più razionali il procedimento di formazione della prova (da intendersi come ammissione, espletamento e valutazione)189, posto che la prova è diretta ad accertare la verità190 dei fatti (recte, delle allegazioni fattuali) che sono a fondamento delle richieste di tutela191. Senza tornare sul dibattito che attiene, al fondo, allo scopo del processo, l’esistenza stessa del processo è funzionale alla resa di decisioni “giuste” e la giustizia della decisione non può essere avulsa dall’accertamento dei fatti192; accertamento dei fatti che deve avvenire nel rispetto di talune regole, certo, ma in queste regole rientra anche l’affidamento al giudice di poteri istruttori. Il legislatore stabilisce stringenti limiti oggettivi e soggettivi alle prove, disciplina in modo pignolo le regole dei procedimenti di assunzione delle prove e poi, quando si tratta di offrire le regole sulla valutazione della prova sembra abbandonarsi a due concetti opposti: da una parte il vincolo decisorio correlato alla prova legale e dall’altro l’apprezzamento del giudice, forse non del tutto libero (perché deve essere motivato193) ma certamente non irreggimentato da criteri di priorità fra i vari mezzi di prova. A questa già ampia fluidità si aggiunge il possibile esercizio del potere discrezionale di disporre mezzi di prova officiosi.

187 Quando si parla di prova scientifica in genere lo si fa con riguardo all’uso di leggi scientifiche, specie quelle quantitative e frequentiste , v. LOMBARDO, La scienza e il giudice nella ricostruzione del fatto, in Riv.dir.proc., 2007, 35 ss.; TARUFFO, Le prove scientifiche nella recente

esperienza statunitense, in Riv.trim.dir.proc.civ., 1996, 238 ss.

188 Così TARUFFO, Senso comune, esperienza e scienza nel ragionamento del giudice, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 2001, 665 ss

189 FABBRINI, Potere del giudice (dir.proc.civ.), cit., 729; TARUFFO, Prova (in generale), in Dig.civ., XVI, Torino, 1997, 33.

190 Sia consentito accantonare la disputa su quale verità debba essere ricercata nel processo, cfr. solo per una rappresentazione dei temi fuori dalla dottrina processualistica, OPOCHER, voce Giustizia (filosofia del diritto), in Enc. dir., XIX, Milano 1970¸580 ss.; ABBAGNANO, voce Verità, in Dizionario di filosofia, Torino 1971, 913 ss.

191 CARRATTA, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, cit., 27.

192 CARPI, Cultura e processo, cit., 76; TARUFFO, Leggendo Ferrajoli, Considerazioni sulla giurisdizione, in Riv.trim.dir.proc.civ., 2008, 631; CEA, Valori e ideologia del processo civile: le ragioni di un “terzista”, in Riv.dir.civ., 2005, II, 102; S. PATTI, Prova. I) Diritto processuale civile, in Enc. Giur.

Treccani, XXV, 1991, 2 .

193 CAPPELLETTI, Giudici irresponsabili?, Milano 1988, spec. 28 ss. Qui ci si trova di fronte ad un passaggio molto delicato perché mentre la motivazione si giustifica, anche, come strumento per consentire il controllo – a tutti i livelli - sull’operato del giudice, il cd. orpello della necessità della motivazione sembra rappresentare oggi uno degli ostacoli al funzionamento efficiente della giustizia.

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Mi chiedo se sia proprio necessario lasciare al giudice una libera opzione per conformare questo comportamento al principio del libero convincimento, oppure se un criterio quantitativo non meriti di essere quanto meno considerato. Proviamo ad acconsentire, intanto, che regola di giudizio sull’onere della prova e giuramento suppletorio (che utilizziamo qui come archetipo di un possibile metro di controllo dell’uso del potere officioso) non siano strumenti di definizione della lite interscambiabili. Direi, al contrario, che sono due modi alternativi di risoluzione della lite del tutto opposti; applicando la regola sull’onere della prova il giudice si acquieta di fronte alle prove raccolte e decide, mentre innervando il processo col giuramento suppletorio, aggiunge una prova ulteriore. Solo in questo secondo caso il giudice svolge una funzione integrativa diretta ad eliminare le oggettive aporie istruttorie 194, concorrendo ad accertare imparzialmente la verità delle allegazioni fattuali. 12.3. Pare evidente che il solco da colmare stia tutto qui: può il giudice optare per la regola indicata dall’art. 2697 c.c. o deve disporre mezzi di prova d’ufficio? E se deve disporli, come si concilia il potere-dovere con le formule puramente potestative che concernono l’uso di mezzi di prova officiosi che ritroviamo nel diritto positivo? È inappuntabile l’affermazione per la quale ‹‹ il giudice non può operare una parziale ed unilaterale sanatoria di determinate insufficienze probatorie imputabili a colpa od inerzia della parte in danno della controparte ››, ma deve farlo per osteggiare l’alternativa, altrimenti insuperabile dell’applicazione meccanicistica della regola dell’onere probatorio195. Questa affermazione può essere pienamente condivisa, ma a mio modo di vedere la soluzione ancillare proposta, cioè quella di garantire un siffatto risultato con il controllo impugnatorio, mi pare insufficiente e comunque un posterius se prima non si riesce a sciogliere l’enigma sul potere-dovere. Se si è d’accordo sul fatto che quelli che spettano al giudice sono poteri integrativi, di completamento della prova, occorre chiedersi se e quando questo potere si trasformi in dovere, partendo dalla diffusa convinzione che il giudice non deve andare in soccorso della parte, ma se mai in soccorso dell’accertamento della verità dei fatti allegati. Così impostato il discorso si è fatto un breve passo in avanti, nel senso che abbiamo individuato “in negativo” che il giudice non deve disporre una prova d’ufficio per sopperire ad una decadenza probatoria in cui sia incorsa una parte. Dobbiamo però trovare le linee guida “in positivo”. In particolare si tratta di vedere come governare il rapporto fra mancata dimostrazione del fatto (che può dipendere dalla mancata deduzione di prove, o dall’esito negativo della prova assunta196), dimostrazione incompleta del fatto (che può derivare dall’essere la prova entrata nel processo ma in modo non soddisfacente) e dimostrazione del fatto (che è conseguenza di una prova “positiva” in ordine al verificarsi del fatto). Se abbiamo a che vedere con un fatto costitutivo, nel primo caso il giudice rigetta la domanda e nel terzo caso la accoglie, ma non sappiamo ancora cosa può fare, o cosa deve fare, se ci situiamo nella zona grigia197.

194 COMOGLIO, Le prove civili, cit., 96: E. FABIANI, I poteri istruttori del giudice civile, cit., 581.

195 COMOGLIO, Le prove civili, cit., 98; FABBRINI, Potere del giudice, cit., 730 ss.

196 Per TARUFFO, Onere della prova, cit., 66, il risultato negativo può dipendere dal fatto che la prova pur ammessa non si è tenuta, dal fatto che all’esito siano residuati dubbi, dal fatto che risulti provato che il fatto non si è verificato.

197 COMOGLIO, Le prove civili, cit., 550.

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Non credo vi sia spazio per la riproposizione di formule algebriche tali da ricondurre in termini di puri numeri, in forza di addizioni e sottrazioni, i risultati delle prove; non ce lo consente un sistema che fatte salve le prove legali si affida al principio del libero convincimento del giudice. Mi pare, invece, che far proprio un principio “quantitativo proporzionale” voglia significare altro. Il giudice all’esito del giudizio opera una valutazione complessa fondata sull’analisi di tutto il materiale raccolto e, dopo avere assemblato tutti i risultati probatori si forma un convincimento. Il problema si pone quando questo convincimento è incerto (sembra un ossimoro, ma non lo è perché il giudice è convinto della parzialità della prova), nel senso che il giudice si forma l’idea che la parte abbia fornito un frammento di prova, ma questo frammento non consente di ritenere provato il fatto. In questo caso, mancando la prova del fatto, il giudice non potrebbe applicare la regola di diritto sostanziale invocata in quanto pregiudicata dal mancato raggiungimento della prova del fatto allegato che fondava la richiesta di tutela. Sappiamo, però, che la regola finale di giudizio basata sull’art. 2697 c.c., è una regola che al fondo vale come finzione per evitare il non liquet. E se l’ordinamento conosce strumenti per evitare l’applicazione di una regola meramente formale, è giusto che di questi strumenti si faccia corretto uso. Queste affermazioni sono ancora troppo generiche. L’area grigia fra frammento minimale di prova e alta probabilità di prova conosce una scala intermedia quasi infinita198, sì che v’è da chiedersi se un qualunque frammento di prova legittimi (o imponga) il ricorso ai poteri officiosi del giudice. Quando la parte offre un segmento di prova che il giudice valuta non superiore al 50%, ci viene spontaneo affermare che quella prova è decisamente insufficiente. Se si supera questa soglia, allora, il discorso cambia ed allora se il giudice ritiene che la parte abbia fatto quanto possibile per fornire la prova del fatto senza però riuscirci, salvo raggiungere almeno il 50%, il giudice deve fare ricorso ai poteri che la legge gli attribuisce e ciò per cercare di appurare l’esistenza (o inesistenza) del fatto da cui dipende il diritto in contesa. La discrezionalità pertanto non sta più nel poter scegliere se dare ingresso al mezzo di prova officioso, ma nel valutare se la prova raccolta è inferiore o superiore al 50%. Tale valutazione, però, non può essere omessa e ciò consente che la si sottoponga a controllo, sia nel corso del processo che nelle fasi di impugnazione. Sul piano epistemologico è indubbio che la formula aritmetica si presta a manipolazioni da parte di quel giudice che volesse essere parziale nel dare ingresso a prove officiose. Ma se si condivide l’idea più generale che quello del giudice è un potere-dovere e che come tale è sindacabile, ecco allora che la formula quantitativa torna ad essere utile in quanto consente un più agevole sindacato di controllo da parte del giudice dell’impugnazione. Una volta che si accerti che l’introdotta prova officiosa ha espresso un risultato insoddisfacente, torna di attualità l’applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova.

198 È vero che la lettera dell’art. 2736 c.c. (‹‹ …ma non sono del tutto sfornite di prova ››, ) farebbe propendere per una soluzione molto più largheggiante (ad esempio anche con un 5% non si dovrebbe utilizzare la regola sull’onere della prova), ma se la poniamo in confronto con la formula ‹‹…non sono pienamente provate ›› , mi pare che l’area grigia sarebbe troppo vasta e tale dunque da dover essere riempita quasi sempre, ciò che porterebbe a ribaltare il principio comunemente condiviso per cui l’uso dei poteri officiosi del giudice è pur sempre residuale in quanto rappresenta se non proprio una anomalia, quanto meno un fattore di ambiguità.

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In sostanza quando il giudice avverte che una delle parti ha fornito una prova inadeguata ma sufficiente per aprire l’istruttoria officiosa deve scegliere dal catalogo delle prove officiose quella (o quelle ) più coerenti con la fattispecie della causa, e ciò sempre che vi sia un mezzo di prova adatto. Questa soluzione ha un limite evidente, forse inaccettabile perché presenta un costo altissimo proprio in termini di verità. Mentre nella maggior parte dei casi potrà capitare che il giudice non trovi un mezzo di prova idoneo per l’accertamento di un fatto fra quelli a sua disposizione in ragione della tipologia della lite, il campo di applicazione del giuramento suppletorio è vastissimo posto che le limitazioni sostanziali (v., art. 2739 c.c.) si riconducono a liti su diritti indisponibili, relative a fatti illeciti o attinenti a requisiti della prova scritta. Se il giudice ha un potere-dovere, le quante volte si sprofondi nella zona grigia, il giudice dovrebbe fare sempre ricorso al giuramento suppletorio e cioè ad uno strumento che ai più pare odioso, quale frutto attuale delle antiche ordalie. Come uscire da questo cul de sac? La risposta più semplice è quella di rinnegare la formula “potere-dovere”, tornare alla discrezionalità pura e fare affidamento sulla professionalità del magistrato. È certo una soluzione possibile e per taluno auspicabile, ma che non mi pare davvero persuasiva perché pur essa non è a “costo zero” in termini di verità, le quante volte il giudice abbia preferito abdicare al proprio potere. La soluzione che ritengo di prediligere è quella più rozza dell’uso del giuramento suppletorio, ma un uso attenuato per effetto di una implementazione del controllo da parte del giudice dell’impugnazione. Mentre oggi non è sindacabile la decisione con la quale il magistrato ha omesso di disporre una prova officiosa, acconsentendo alla tesi del potere-dovere, al giudice dell’impugnazione, ovviamente se debitamente sollecitato, deve essere permesso operare un penetrante sindacato sulle ragioni che hanno condotto il giudice (“impugnato”) a disporre la prova, ivi compreso un sindacato sul giuramento suppletorio, così intenso da avvicinare, quaod effectum, il giuramento alla ben più tollerabile testimonianza giurata della parte. 13. In conclusione il giudice dispone la prova officiosa quando: i) il fatto da provare è stato regolarmente allegato dalle parti o comunque risulta acquisito al processo (con esclusione della scienza privata del giudice); ii) la parte ha fatto tutto quanto era nelle sue possibilità per provare il fatto nel momento in cui le prove erano deducibili prima di incorrere nelle decadenze; iii) il mezzo officioso risulta indispensabile e potenzialmente risolutivo; iv) quando la parte ha fornito un frammento di prova tale da far ritenere che il fatto sia stato provato in misura superiore al 50%. In presenza di queste circostanze il giudice: ά) deve motivare in ordine a tutti i punti sopra descritti; β) deve consentire che le parti possano addurre prove nuove; γ) deve individuare il mezzo di prova più coerente con la fattispecie concreta. A sua volta il giudice dell’impugnazione deve poter controllare il legittimo esercizio del potere-dovere del giudice che ha disposto la prova. Ricondotti in questi limiti le attività del giudice, credo si possa concludere in modo più tranquillizzante sull’imparzialità del giudice.